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il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

M e n s i l e d i a p p r o f o n d i m e n t o g i u r i d i c o , f i s c a l e , p r e v i d e n z i a l e e a s s i c u r a t i v o i n m a t e r i a d i l a v o r o<br />

Sommario<br />

9 2<br />

0 0 9<br />

Contenuti e riflessi dell’intervento<br />

della Corte Costituzionale<br />

sulle novità introdotte in<br />

materia di contratto a tempo<br />

determinato<br />

di Luigi Pelliccia 2<br />

Ancora sull’accesso alle dichiarazioni<br />

rese dai lavoratori nelle<br />

ispezioni<br />

di Pietro Scudeller 13<br />

Ripartizione dell’onere della<br />

prova nelle opposizioni a cartelle<br />

di pagamento dell’Inps in relazione<br />

a pretese contributive<br />

di Elia Notarangelo 20<br />

Passaggio di lavoratori in mobilità<br />

tra aziende collegate<br />

di Paolo Cuzzelli 31<br />

Giudice ordinario o tributario<br />

per le controversie tra il sostituto<br />

d’imposta e il sostituito?<br />

di Sergio Mogorovich 34<br />

Osservatorio Giurisprudenziale<br />

Approfondimenti su sentenze di particolare<br />

interesse<br />

a cura di Romina Dalzini 37<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

Rapida panoramica delle ultime pronunce<br />

della Suprema Corte<br />

a cura di Romina Dalzini 42


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Approfondimenti<br />

Contenuti e riflessi dell’intervento della<br />

Corte Costituzionale sulle novità introdotte<br />

in materia di contratto a tempo determinato<br />

1. Premessa<br />

Com’era più che prevedibile, la Corte Costituzionale,<br />

chiamata insistentemente in causa in tal senso 1 ,<br />

ha censurato, seppur in modo parziale, ancorchè<br />

significativo, le novelle introdotte nel 2<strong>00</strong>8 alla<br />

normativa in tema di lavoro a tempo determinato.<br />

Infatti, la immediatamente definita norma antiprecari,<br />

non ha retto interamente il vaglio di<br />

costituzionalità.<br />

Con la corposa sentenza n. 214 del 14 luglio 2<strong>00</strong>9,<br />

la Consulta, chiamata come vedremo ad uno<br />

scrutinio più ampio del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1,<br />

ha emesso una decisione in parte oltremodo scon-<br />

(1) Anche al di fuori del tradizionale canale istituzionale.<br />

LUIGI PELLICCIA<br />

tata, quanto meno con riguardo al maggiormente<br />

incriminato art. 4-bis di detto decreto, inserito nel<br />

2<strong>00</strong>8 con il D.L. n. 112 e rubricato Disposizione<br />

transitoria concernente l’indennizzo per la violazione<br />

delle norme in materia di apposizione e di<br />

proroga del termine.<br />

Più nell’insieme, i richiesti giudizi di legittimità<br />

costituzionale 2 riguardavano gli artt. 1, comma 1,<br />

2, comma 1-bis, 4-bis e 11 del D.Lgs. 6 settembre<br />

2<strong>00</strong>1 n. 368, così come novellato dal D.L. 25 giugno<br />

2<strong>00</strong>8, n. 112, convertito, con modificazioni,<br />

dalla legge 6 agosto 2<strong>00</strong>8, n. 133 3 .<br />

Del resto, uno degli istituti contrattuali rivisitato<br />

dalla c.d. manovra d’estate 2<strong>00</strong>8, segnatamente<br />

(2) Più nel dettaglio, si trattava di ben 19 ordinanze emesse da numerosi tribunali e corti d’appello. Si è trattato di una fattispecie di forte evidenza<br />

critica da parte della magistratura di merito, avente scarsi precedenti in detti termini dimensionali.<br />

(3) Art. 1 (Apposizione del termine) (...) 1. È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di<br />

ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro. 2. L’apposizione del<br />

termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1.(…)<br />

Art. 2 (Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali) (…) 1-bis. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando<br />

l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra<br />

aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico<br />

aziendale, riferito al 1º gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione<br />

delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma. Art. 4-bis (Disposizione transitoria concernente l’indennizzo per la<br />

violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine) 1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore<br />

della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore<br />

di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di<br />

sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive<br />

modificazioni. Art. 11 (Abrogazioni e disciplina transitoria) 1. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate la legge<br />

18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni, l’articolo 8-bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l’articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56,<br />

nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente richiamate nel presente decreto legislativo. 2. In<br />

relazione agli effetti derivanti dalla abrogazione delle disposizioni di cui al comma 1, le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulate<br />

ai sensi dell’articolo 23 della citata legge n. 56 del 1987 e vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, manterranno, in via<br />

transitoria e salve diverse intese, la loro efficacia fino alla data di scadenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro. 3. I contratti individuali definiti<br />

in attuazione della normativa previgente, continuano a dispiegare i loro effetti fino alla scadenza. 4. Al personale artistico e tecnico delle fondazioni<br />

di produzione musicale previste dal decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, non si applicano le norme di cui agli articoli 4 e 5.<br />

2


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

dal D.L. 25 giugno 2<strong>00</strong>8, n. 11, poi convertito<br />

nella legge n. 133, è stato appunto il contratto a<br />

tempo determinato.<br />

Per poter fare questo nel migliore dei modi, riteniamo<br />

però opportuno riassumere le disposizioni<br />

della legge n. 133/2<strong>00</strong>8 che qui interessano.<br />

2. Le sottostanti previsioni di legge<br />

Come certamente si ricorderà, nella fase parlamentare<br />

di approvazione del D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8 sono<br />

state introdotte alcune novità su iniziativa governativa<br />

che inizialmente avevano però determinato<br />

una sorta di levata di scudi da più parti; da qui,<br />

pertanto, la scelta di una linea più “morbida” che,<br />

non è però bastata per mettere in risalto alcune<br />

criticità delle sottostanti disposizioni normative.<br />

Le conferme sono state le seguenti:<br />

l’apposizione di un termine al contratto di lavoro<br />

è consentita per ragioni tecniche, produttive,<br />

organizzative e sostitutive, anche se riferibili<br />

all’ordinaria attività del datore di lavoro;<br />

i contratti collettivi di lavoro, compresi quelli di<br />

secondo livello, sottoscritti dalle organizzazioni<br />

sindacali comparativamente più rappresentative<br />

a livello nazionale potranno derogare alla disciplina<br />

della successione dei contratti a tempo<br />

determinato conclusi per mansioni equivalenti,<br />

consentendo così di stabilire un diverso limite ai<br />

36 mesi complessivamente previsti dalla legge;<br />

i contratti collettivi di lavoro, compresi quelli di<br />

secondo livello, sottoscritti dalle organizzazioni<br />

sindacali comparativamente più rappresentative<br />

a livello nazionale potranno derogare alla<br />

disciplina del diritto di precedenza del lavoratore<br />

e tempo determinato.<br />

Decorsi 24 mesi dalla data di entrata in vigore del<br />

decreto legge, il Ministro del <strong>Lavoro</strong> procederà ad<br />

(4) Quindi dal 21 agosto 2<strong>00</strong>8.<br />

Approfondimenti<br />

una verifica, con le organizzazioni sindacali dei<br />

datori e dei prestatori di lavoro comparativamente<br />

più rappresentative sul piano nazionale, degli<br />

effetti delle disposizioni contenute nei commi<br />

che precedono, riferendone anche al Parlamento<br />

entro tre mesi ai fini della valutazione della sua<br />

ulteriore vigenza.<br />

Le modifiche che il D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8 ha apportato<br />

al D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 hanno nei fatti provato a<br />

riportare indietro le disposizioni normative di riferimento<br />

rispetto alle novità che la legge n. 247<br />

del 2<strong>00</strong>7 aveva successivamente introdotto.<br />

La sostanziale novità è stata certamente quella<br />

riferita all’introduzione di una disposizione transitoria<br />

concernente l’indennizzo per la violazione<br />

delle norme in materia di apposizione e di proroga<br />

del termine al contratto di lavoro.<br />

Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di<br />

entrata in vigore della legge n. 133/2<strong>00</strong>8 4 e fatte<br />

salve le sentenze passate in giudicato, in caso di<br />

violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4<br />

del D.Lgs. n. 368del 2<strong>00</strong>1 5 , il datore è (retcte, era)<br />

tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di<br />

lavoro con un’indennità di importo compreso tra<br />

un minimo di 2,5 e un massimo di sei mensilità<br />

dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto<br />

riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15<br />

luglio 1966, n. 604 e successive modificazioni 6 .<br />

L’impostazione data dal primo maxi emendamento<br />

governativo era invece molto più ampia e consentiva<br />

una sorta di sanatoria generalizzata, fatta comunque<br />

salva l’ipotesi dei casi giudizialmente definiti.<br />

3. Le sollevate questioni di legittimità costituzionale<br />

Punctum pruriens della problematica sollevata<br />

a più voci, compresa anche in ampia parte la<br />

dottrina, era quindi (principalmente) la norma<br />

transitoria inserita in sede di conversione del D.L.<br />

(5) Ovverosia in tema di apposizione del termine, di disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali e di proroga.<br />

(6) Art. 8 della legge n. 604/1966. Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il<br />

datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità<br />

di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti<br />

occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura<br />

massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14<br />

mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.<br />

3


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

n. 112/2<strong>00</strong>8 ed apparsa immediatamente “fragile”<br />

dal punto di vista ermeneutico.<br />

Come avremo modo di vedere più avanti, la<br />

sentenza che ci accingiamo a commentare ha (paradossalmente)<br />

fatto rilevare come sarebbe stata<br />

invece costituzionalmente orientata la versione<br />

originaria della norma.<br />

Come detto, diverse sono state le ordinanze che<br />

la magistratura di merito, tanto di primo che di<br />

secondo grado, aveva rimesso alla Consulta.<br />

Più nel dettaglio, si tratta dei giudizi promossi:<br />

dal Tribunale di Roma, con ordinanze del 26<br />

febbraio 2<strong>00</strong>8 e del 26 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dalla Corte d’Appello di Torino con ordinanza<br />

del 2 ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />

dal Tribunale di Trani con ordinanza del 21<br />

aprile 2<strong>00</strong>8,<br />

dalla Corte d’Appello di Genova con ordinanza<br />

del 26 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dal Tribunale di Ascoli Piceno con due ordinanze<br />

del 30 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dal Tribunale di Trieste con ordinanza del 16<br />

ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />

dalla Corte d’Appello di Bari con ordinanza del<br />

22 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dal Tribunale di Viterbo con ordinanza del 10<br />

ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />

dal Tribunale di Milano con quattro ordinanze<br />

del 19 novembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dalla Corte d’Appello di Caltanissetta con<br />

ordinanza del 12 novembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dal Tribunale di Teramo con ordinanza del 17<br />

ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />

dal Tribunale di Milano con due ordinanze del<br />

24 dicembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dalla Corte d’Appello di Venezia con ordinanza<br />

del 10 dicembre 2<strong>00</strong>8,<br />

dalla Corte d’Appello di L’Aquila con ordinanza<br />

del 14 gennaio 2<strong>00</strong>9,<br />

Approfondimenti<br />

dalla Corte d’Appello di Roma con ordinanza<br />

del 21 ottobre 2<strong>00</strong>8.<br />

Anche a ragione delle ordinanze di rimessione,<br />

erano diverse le questioni di legittimità costituzionale<br />

sollevate dai giudici a quem.<br />

Vediamone i profili più significativi.<br />

3.1 L’art. 2, comma 1-bis<br />

Nel corso di un giudizio civile promosso contro la<br />

Poste Italiane S.p.A. attivato perché fosse dichiarata<br />

l’invalidità del termine apposto al contratto<br />

di lavoro sottoscritto tra le parti ai sensi dell’art.<br />

2, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, come<br />

aggiunto dall’art. 1, comma 558, della legge 23<br />

dicembre 2<strong>00</strong>5, n. 266, il Tribunale di Roma ha<br />

osservato che la norma censurata ha introdotto<br />

per le aziende concessionarie del servizio postale<br />

la possibilità, entro determinati limiti temporali 7<br />

e quantitativi 8 di procedere ad assunzioni a tempo<br />

determinato senza l’obbligo di indicazione scritta<br />

della causale, come invece previsto in generale<br />

dall’art. 1 del D.Lgs. n. 368.<br />

Inoltre, anche la disciplina sanzionatoria sarebbe<br />

più lieve rispetto a quella prevista per i contratti<br />

stipulati ai sensi di quest’ultimo articolo, perché<br />

l’art. 5, comma 3, del medesimo decreto del<br />

2<strong>00</strong>1, richiamando esclusivamente l’ipotesi della<br />

successione dei contratti stipulati ex art. 1, non<br />

prevederebbe la conversione in contratto a tempo<br />

indeterminato in caso di successione di contratti<br />

regolati dall’art. 2.<br />

Ad avviso del giudice a quo, tale disciplina<br />

comportava una disparità di trattamento tra i<br />

lavoratori in generale e quelli addetti al servizio<br />

postale, per i quali non opera necessariamente<br />

la disciplina - anche sanzionatoria - di carattere<br />

generale.<br />

Difettando, nel settore postale, quelle peculiarità<br />

che possano giustificare deroghe alla disciplina<br />

generale, l’art. 2, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 368<br />

del 2<strong>00</strong>1 non risponderebbe a criteri di ragionevolezza<br />

o di razionalità e pertanto sarebbe lesivo<br />

dell’art. 3 della Costituzione.<br />

(7) Sei mesi nel periodo compreso tra aprile ed ottobre di ogni anno e quattro mesi per periodi diversamente distribuiti.<br />

(8) 15% dell’organico aziendale.<br />

4


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Quanto agli altri parametri costituzionali invocati 9 ,<br />

il rimettente affermava che l’introduzione di una<br />

acausalità per le assunzioni a termine nel settore<br />

postale sottrae in maniera ingiustificata al giudice<br />

ordinario il potere di verifica delle effettive<br />

ragioni oggettive e temporanee poste alla base di<br />

dette assunzioni con conseguente lesione delle<br />

prerogative del potere giudiziario.<br />

3.2 L’art. 1 e l’art. 11<br />

Nel corso del giudizio di appello proposto dalla<br />

Compagnia Internazionale delle Carrozze Letti e<br />

del Turismo avverso la sentenza del Tribunale di<br />

Torino del 5 febbraio 2<strong>00</strong>8, che aveva accolto la<br />

domanda di alcuni lavoratori tesa ad ottenere la<br />

declaratoria di nullità del termine apposto al loro<br />

contratto di lavoro, in violazione dell’art. 1 del<br />

D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, la Corte d’Appello di Torino<br />

ha sollevato questione di legittimità costituzionale<br />

dell’art. 4-bis dello stesso decreto per contrasto<br />

con gli artt. 3 e 24 cost., nella parte in cui dispone<br />

che, per i giudizi in corso alla data della sua entrata<br />

in vigore, in caso di violazione degli artt. 1, 2 e 4<br />

del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, il datore di lavoro è<br />

tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore<br />

di lavoro secondo predeterminati criteri di calcolo<br />

dell’indennità.<br />

Ad avviso del collegio a quo, la norma censurata<br />

contrastava con il principio di uguaglianza sancito<br />

dall’art. 3 Cost., poiché prevede una tutela attenuata<br />

per i lavoratori a termine che siano parti in<br />

un giudizio in corso, rispetto a tutti gli altri lavoratori<br />

a tempo determinato, e con l’art. 24 Cost.,<br />

perché un intervento legislativo che, come nella<br />

specie, riguarda solo un certo tipo di controversie<br />

pendenti ad una certa data sarebbe privo del carattere<br />

di astrattezza proprio della legislazione ed<br />

assumerebbe carattere provvedimentale generale<br />

con riguardo ai giudizi in corso, invadendo così<br />

l’area riservata al potere giudiziario.<br />

Con la conseguenza che ne sarebbero pregiudicati<br />

i soli ricorrenti che, per ragioni assolutamente<br />

casuali, abbiano introdotto la causa<br />

prima dell’entrata in vigore della legge censurata<br />

(9) Artt. 101, 102 e 104 Cost.<br />

(10) Attività del sindacato o del legale, durata dei processi.<br />

Approfondimenti<br />

e la stessa non fosse stata definita prima della<br />

medesima data.<br />

Il medesimo collegio di merito precisava poi che la<br />

norma censurata appariva tanto più irragionevole,<br />

perché distingue tra coloro che per motivi indipendenti<br />

dalla loro volontà 10 hanno ottenuto una<br />

sentenza non più impugnabile e coloro che hanno<br />

ancora un giudizio in corso, pur avendo ipoteticamente<br />

stipulato un contratto a termine con lo<br />

stesso datore di lavoro e nello stesso periodo; e,<br />

ancora, tra coloro che hanno depositato il ricorso<br />

introduttivo del giudizio il giorno prima della pubblicazione<br />

della legge e coloro che lo depositano<br />

il giorno dopo la sua entrata in vigore.<br />

3.3 L’art 4-bis<br />

Nel corso di due giudizi promossi da altrettanti<br />

lavoratori al fine di ottenere, previo accertamento<br />

dell’illegittimità del termine apposto ai rispettivi<br />

contratti di lavoro e delle relative proroghe, la<br />

condanna del datore di lavoro al ripristino dei rapporti<br />

di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni<br />

nel frattempo maturate, il Tribunale di Ascoli<br />

Piceno, con due distinte ordinanze, ha sollevato<br />

questione di legittimità costituzionale dell’art. 4bis<br />

del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, per contrasto con<br />

gli artt. 3, 11 e 117, comma 1, della Costituzione.<br />

Secondo il rimettente, i contratti oggetto dei<br />

giudizi principali erano privi di idonea indicazione<br />

delle ragioni della apposizione del termine e delle<br />

relative proroghe.<br />

Quindi, applicando la legge vigente al momento<br />

della instaurazione del rapporto e della introduzione<br />

del giudizio, si sarebbe dovuto dichiarare la<br />

conversione del primo dei contratti a termine in<br />

contratto a tempo indeterminato e condannare<br />

il convenuto al ripristino del rapporto. L’entrata<br />

in vigore dell’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368 del<br />

2<strong>00</strong>1 precluderebbe, tuttavia, una pronuncia in<br />

tal senso, ma la norma sarebbe lesiva del canone<br />

di ragionevolezza desumibile dall’art. 3, primo<br />

comma, Cost., e non ispirata da preminenti ed<br />

eccezionali ragioni di interesse generale.<br />

5


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Inoltre essa colliderebbe anche con il principio<br />

di uguaglianza enunciato dall’art. 3 cost., perché<br />

introduce un’evidente disparità di trattamento<br />

fra i lavoratori assunti a tempo determinato in<br />

violazione delle condizioni previste dagli artt.<br />

1, 2 e 4, del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1 che abbiano<br />

avviato una controversia prima del 23 agosto 2<strong>00</strong>8<br />

e non l’abbiano vista ancora definita con sentenza<br />

passata in giudicato, ed i lavoratori che, versando<br />

nella identica situazione, abbiano promosso la<br />

controversia successivamente alla suddetta data.<br />

Infine, il medesimo tribunale sosteneva che l’art.<br />

4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1 avrebbe leso gli<br />

artt. 11, secondo periodo, e 117, primo comma,<br />

cost., perché esso, riducendo la tutela accordata in<br />

precedenza dall’ordinamento ai lavoratori assunti<br />

con contratto a tempo determinato, violava la<br />

clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro sul lavoro<br />

a tempo determinato recepito dalla direttiva<br />

1999/70/CE e, conseguentemente, l’obbligo del<br />

legislatore interno di rispettare i vincoli derivanti<br />

dall’ordinamento comunitario ed internazionale.<br />

3.4 Ancora sull’art. 4-bis<br />

Nel corso del giudizio d’appello proposto da un<br />

lavoratore contro la sentenza con la quale il Tribunale<br />

di Trani aveva respinto il suo ricorso diretto<br />

ad ottenere, previa declaratoria della nullità del<br />

termine apposto al contratto in questione, fosse dichiarato<br />

che fra le parti si era instaurato ab origine<br />

un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato<br />

e che la società convenuta fosse condannata<br />

a riammetterla in servizio ed al pagamento<br />

di tutte le retribuzioni maturate dal momento<br />

in cui aveva posto le proprie attività a disposizione<br />

del datore di lavoro, la corte d’appello di Bari ha<br />

sollevato questione di legittimità costituzionale<br />

dell’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, per contrasto<br />

con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.<br />

La corte rimettente premetteva che, ove dovesse<br />

ritenersi fondata la tesi del lavoratore appellante<br />

circa la genericità della formula adottata nel<br />

contratto di lavoro stipulato dalle parti al fine di<br />

indicare le ragioni sostitutive poste a giustificazione<br />

dell’apposizione del termine, quest’ultima<br />

(11) Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.<br />

Approfondimenti<br />

clausola dovrebbe ritenersi nulla; pertanto, in<br />

ipotesi, il contratto di lavoro dedotto nel giudizio<br />

principale dovrebbe essere considerato a tempo<br />

indeterminato sin dall’inizio.<br />

Una simile conseguenza era tuttavia impedita dall’art.<br />

4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, norma che<br />

però, ad avviso del giudice a quo, appariva contraria<br />

al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.<br />

Infatti, ove mai altro lavoratore nelle stesse<br />

identiche condizioni dell’appellante nel giudizio<br />

principale facesse valere le stesse ragioni di<br />

illegittimità con un giudizio introdotto successivamente<br />

alla data di entrata in vigore dell’art.<br />

4-bis, del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, avrebbe diritto<br />

alla riassunzione, non essendo a lui applicabile<br />

l’art. 4-bis medesimo.<br />

Con sei ordinanze di identico contenuto, pronunciate<br />

in altrettanti giudizi promossi contro la<br />

Poste Italiane S.p.A. aventi ad oggetto la legittimità<br />

dell’apposizione del termine ai contratti di<br />

lavoro stipulati dai lavoratori attori, il Tribunale<br />

di Milano ha anch’esso sollevato questione di<br />

legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del D.Lgs.<br />

n. 368 del 2<strong>00</strong>1.<br />

Il rimettente deduceva la violazione:<br />

a) dell’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento<br />

tra coloro che hanno già ottenuto una sentenza<br />

passata in giudicato o che promuoveranno un<br />

giudizio dopo l’entrata in vigore della nuova<br />

disposizione e coloro che, invece, anche a parità<br />

assoluta di situazioni di fatto, si trovano compresi<br />

in tale forbice temporale;<br />

b) dell’art. 10 Cost., poiché il principio di parità di<br />

trattamento è principio generale del diritto internazionale<br />

che gli stati membri si sono obbligati a rispettare,<br />

con conseguente violazione dell’art. 117 Cost.;<br />

c) del divieto di non regresso posto dalla direttiva<br />

1999/70/CE, atteso che la norma censurata,<br />

emanata in esecuzione di tale direttiva, costituisce<br />

un evidente arretramento di tutela dei lavoratori,<br />

rispetto allo standard comunitario;<br />

d) dell’art. 6 della CEDU 11 , il quale, nell’affermare<br />

che ogni persona ha diritto ad un giusto processo<br />

6


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

dinanzi ad un tribunale indipendente e imparziale,<br />

vieta al potere legislativo di intromettersi<br />

nell’amministrazione della giustizia allo scopo di<br />

influire nella risoluzione di una controversia o di<br />

una determinata categoria;<br />

e) dell’art. 24 Cost., avendo la norma censurata<br />

compromesso il diritto di difesa dei ricorrenti,<br />

sottraendo loro la possibilità di ottenere il vantaggio<br />

della conversione del contratto irregolare, la<br />

cui prospettiva aveva direttamente condizionato<br />

l’esercizio del loro diritto di azione.<br />

Nel corso di un giudizio di appello, proposto da Poste<br />

Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale<br />

di Verona che aveva accertato l’illegittimità del<br />

termine apposto al contratto di lavoro stipulato<br />

con un lavoratore e condannato la società al ripristino<br />

del rapporto di lavoro ed al pagamento delle<br />

retribuzioni maturate dal giorno della messa in<br />

mora, la Corte d’Appello di Venezia ha sollevato<br />

questione di legittimità costituzionale dell’art. 4bis<br />

del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, per contrasto con<br />

gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost.<br />

La Corte rimettente, premesso che il termine<br />

apposto al contratto di lavoro dedotto nel giudizio<br />

principale è nullo per contrasto con l’art. 1<br />

del D.Lgs. n. 368 e che dunque, nella fattispecie<br />

occorreva far applicazione al successivo art. 4-bis,<br />

sosteneva che quest’ultima disposizione violasse:<br />

a) l’art. 3 Cost., poiché è introduttiva di irragionevoli<br />

disparità di trattamento tra lavoratori che hanno<br />

stipulato un contratto a termine in pari data;<br />

b) l’art. 24 Cost., perché lede il diritto all’azione proprio<br />

nei confronti dei più solleciti nell’esercitarlo;<br />

c) l’art. 111 Cost., per aver, nel corso del procedimento<br />

giudiziario, modificato la tutela sostanziale<br />

accordabile al diritto azionato, in assenza di motivi<br />

oggettivi o di imperiose ragioni di interesse generale;<br />

d) l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione<br />

all’art. 6 della CEDU, il quale impedisce al legislatore<br />

di intervenire con norme ad hoc per la<br />

risoluzione di controversie in corso.<br />

4. La posizione della Corte Costituzionale<br />

Approfondimenti<br />

Come premesso, dunque, con la sentenza n. 214<br />

del 14 luglio 2<strong>00</strong>9, la Corte Costituzionale, riuniti<br />

tutti i proposti giudizi, ha dichiarato:<br />

l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis del<br />

D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, introdotto dall’art. 21,<br />

comma 1-bis, del D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8, convertito,<br />

con modificazioni, dalla legge n. 133/2<strong>00</strong>8;<br />

inammissibili le questioni di legittimità costituzionale<br />

del medesimo art. 4-bis, sollevate in<br />

riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 111, 117,<br />

primo comma, della Costituzione 12 ;<br />

non fondate le questioni di legittimità costituzionale<br />

degli artt. 1, comma 1, e 11 del<br />

D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, sollevate in riferimento<br />

agli artt. 76, 77 e 117, primo comma, della<br />

Costituzione 13 ;<br />

non fondata la questione di legittimità costituzionale<br />

dell’art. 2, comma 1-bis, del D.Lgs.<br />

n. 368 del 2<strong>00</strong>1, sollevata in riferimento agli<br />

artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 della<br />

Costituzione 14 .<br />

La decisione di che trattasi è molto articolata e<br />

frutto di un più che ampiamente argomentato percorso<br />

logico-interpretativo da parte della Consulta.<br />

Orbene, con separate ordinanze, le corti di appello<br />

di Torino, Genova, Bari, Caltanissetta, Venezia,<br />

L’Aquila e Roma ed i tribunali di Roma, Trani,<br />

Ascoli Piceno, Trieste, Viterbo, Milano e Teramo<br />

hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10,<br />

11, 24, 76, 77, 101, 102, 104, 111 e 117, primo<br />

comma, della Costituzione, questioni di legittimità<br />

costituzionale degli già ampiamente indicati<br />

articoli del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1.<br />

Alla luce della parziale identità di molte delle<br />

questioni proposte e l’appartenenza di tutte le<br />

norme censurate allo stesso testo normativo, la<br />

Consulta ha ritenuto opportuna la riunione dei<br />

giudizi al fine della loro decisione con un’unica<br />

sentenza.<br />

(12) Dalle Corti di Appello di Torino, Bari, Caltanissetta, Venezia e L’Aquila e dai Tribunali di Milano e Teramo.<br />

(13) Dal Tribunale di Roma e dal Tribunale di Trani.<br />

(14) Dal Tribunale di Roma.<br />

7


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

4.1 Sulla legittimità degli artt. 1, comma 1, e 11<br />

Con riguardo alla legittimità degli artt. 1, comma 1,<br />

e 11, ad avviso dei rimettenti, le norme censurate,<br />

nel sopprimere l’art. 1, secondo comma, lettera<br />

b), della legge n. 230 del 1962 e, quindi, nell’abolire<br />

l’onere dell’indicazione del nominativo<br />

del lavoratore sostituito quale condizione<br />

di liceità dell’assunzione a tempo determinato<br />

di altro dipendente,<br />

violerebbero l’art. 77 Cost., poiché la legge di<br />

delega 29 dicembre 2<strong>00</strong>0, n. 422 15 , in esecuzione<br />

della quale è stato emanato il D.Lgs. n. 368<br />

del 2<strong>00</strong>1, attribuiva al Governo esclusivamente<br />

il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE,<br />

la quale non conteneva alcuna disposizione<br />

in tema di presupposti per l’apposizione delle<br />

clausole del termine.<br />

Sussisterebbe contrasto, poi, con l’art. 76 Cost.,<br />

poiché la menzionata legge n. 422 del 2<strong>00</strong>0 non<br />

prevedeva principi direttivi ulteriori rispetto all’attuazione<br />

della direttiva 1999/70/CE la quale, alla<br />

clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro da essa<br />

recepito, dispone che l’applicazione dell’accordo<br />

non può costituire un motivo per ridurre il livello<br />

generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito<br />

coperto dall’accordo stesso, mentre le disposizioni<br />

censurate, eliminando la necessità dell’indicazione<br />

del nominativo del lavoratore sostituito,<br />

determinerebbero un arretramento della tutela<br />

garantita ai lavoratori dal precedente regime.<br />

Infine, sarebbe leso anche l’art. 117, primo comma,<br />

Cost., per violazione dei vincoli derivanti<br />

dall’ordinamento comunitario.<br />

Secondo la sentenza n. 214/09, la questione non<br />

è fondata per i seguenti motivi.<br />

1. I giudici rimettenti hanno omesso di considerare<br />

adeguatamente che l’art. 1 del D.Lgs. n. 368<br />

del 2<strong>00</strong>1, dopo aver stabilito, al comma 1, che<br />

l’apposizione del termine al contratto di lavoro<br />

è consentita a fronte di ragioni di carattere<br />

(oltre che tecnico, produttivo e organizzativo,<br />

anche) sostitutivo, aggiunge, al comma 2, che<br />

Approfondimenti<br />

«l’apposizione del termine è priva di effetto se<br />

non risulta, direttamente o indirettamente, da<br />

atto scritto nel quale sono specificate le ragioni<br />

di cui al comma 1».<br />

L’onere di specificazione previsto da quest’ultima<br />

disposizione impone che, tutte le volte in<br />

cui l’assunzione a tempo determinato avvenga<br />

per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo,<br />

risulti per iscritto anche il nome del lavoratore<br />

sostituito e la causa della sua sostituzione.<br />

Infatti, considerato che per ragioni sostitutive<br />

si debbono intendere motivi connessi con<br />

l’esigenza di sostituire uno o più lavoratori, la<br />

specificazione di tali motivi implica necessariamente<br />

anche l’indicazione del lavoratore o<br />

dei lavoratori da sostituire e delle cause della<br />

loro sostituzione; solamente in questa maniera,<br />

infatti, l’onere che l’art. 1, comma 2, del D.Lgs.<br />

n. 368 del 2<strong>00</strong>1 impone alle parti che intendano<br />

stipulare un contratto di lavoro subordinato a<br />

tempo determinato può realizzare la propria<br />

finalità, che è quella di assicurare la trasparenza<br />

e la veridicità della causa dell’apposizione del<br />

termine e l’immodificabilità della stessa nel<br />

corso del rapporto.<br />

2. Non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1,<br />

ed 11 del D.Lgs. n. 368 innovato, sotto questo<br />

profilo, rispetto alla disciplina contenuta nella<br />

legge n. 230 del 1962, non sussiste la denunciata<br />

violazione dell’art. 77 della Costituzione.<br />

Invero, l’art. 2, comma 1, lettera b), della<br />

legge di delega n. 422 del 2<strong>00</strong>0 consentiva al<br />

Governo di apportare modifiche o integrazioni<br />

alle discipline vigenti nei singoli settori interessati<br />

dalla normativa da attuare e ciò al fine di<br />

evitare disarmonie tra le norme introdotte in<br />

sede di attuazione delle direttive comunitarie<br />

e, appunto, quelle già vigenti. In base a tale<br />

principio direttivo generale, il Governo era autorizzato<br />

a riprodurre, nel decreto legislativo di<br />

attuazione della direttiva 1999/70/CE, precetti<br />

già contenuti nella previgente disciplina del<br />

settore interessato dalla direttiva medesima 16 .<br />

(15) Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee - Legge comunitaria 2<strong>00</strong>0.<br />

(16) Il contratto di lavoro a tempo determinato.<br />

8


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Infatti, inserendo in un unico testo normativo<br />

sia le innovazioni introdotte al fine di attuare la<br />

direttiva comunitaria, sia le disposizioni previgenti<br />

che, attenendo alla medesima fattispecie<br />

contrattuale, erano alle prime intimamente<br />

connesse, si sarebbe garantita la piena coerenza<br />

della nuova disciplina anche sotto il profilo<br />

sistematico, in conformità con quanto richiesto<br />

dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della legge<br />

di delega.<br />

3. Non sussiste neppure la denunciata lesione<br />

dell’art. 76 Cost., poiché le norme censurate,<br />

limitandosi a riprodurre la disciplina previgente,<br />

non determinano alcuna diminuzione della<br />

tutela già garantita ai lavoratori dal precedente<br />

regime e, pertanto, non si pongono in contrasto<br />

con la clausola n. 8.3 dell’accordo-quadro<br />

recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la<br />

quale l’applicazione dell’accordo non avrebbe<br />

potuto costituire un motivo per ridurre il livello<br />

generale di tutela già goduto dai lavoratori.<br />

4. Per la medesima ragione 17 , è infondata la censura<br />

formulata in riferimento all’art. 117, primo<br />

comma, Cost., il quale impone al legislatore di<br />

rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento<br />

comunitario e dagli obblighi internazionali.<br />

4.2 Sulla legittimità dell’art. 2, comma 1-bis<br />

Con riguardo al dubbio della legittimità costituzionale<br />

dell’art. 2, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 368, la<br />

sentenza in esame ha dichiarato la questione non<br />

fondata, precisando che, innanzitutto, non è ravvisabile<br />

alcuna lesione dell’art. 3 della Costituzione.<br />

La norma censurata costituisce la tipizzazione<br />

legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del<br />

termine.<br />

Del resto, il legislatore, in base ad una valutazione<br />

- operata una volta per tutte in via generale e<br />

astratta - delle esigenze delle imprese concessionarie<br />

di servizi postali di disporre di una quota<br />

(15%) di organico flessibile, ha previsto che tali<br />

imprese possano appunto stipulare contratti di<br />

(17) Insussistenza, sotto il profilo in esame, di un contrasto con la normativa comunitaria.<br />

Approfondimenti<br />

lavoro a tempo determinato senza necessità della<br />

puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni<br />

giustificatrici del termine.<br />

Si tratta di una valutazione preventiva ed astratta<br />

operata dal legislatore non manifestamente irragionevole,<br />

posto che la garanzia alle imprese in<br />

questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità<br />

dell’organico, è direttamente funzionale<br />

all’onere gravante su tali imprese di assicurare<br />

lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta,<br />

allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione<br />

degli invii postali, nonché la realizzazione<br />

e l’esercizio della rete postale pubblica i quali<br />

«costituiscono attività di preminente interesse<br />

generale», ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs.<br />

22 luglio 1999, n. 261 18 .<br />

Più nel dettaglio, peraltro, in esecuzione degli<br />

obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla<br />

direttiva n. 1997/67/CE, l’Italia è tenuta ad<br />

assicurare lo svolgimento del c.d. “servizio universale”<br />

(ovverosia la raccolta, il trasporto, lo<br />

smistamento e la distribuzione degli invii postali<br />

fino a 2 kg; la raccolta, il trasporto, lo smistamento<br />

e la distribuzione dei pacchi postali fino a 20 kg; i<br />

servizi relativi agli invii raccomandati ed agli invii<br />

assicurati: art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 261 del<br />

1999). Tale servizio universale, ai sensi dell’art. 3,<br />

comma 4, del citato decreto «assicura le prestazioni<br />

in esso ricomprese, di qualità determinata, da<br />

fornire permanentemente in tutti i punti del territorio<br />

nazionale, incluse le situazioni particolari<br />

delle isole minori e delle zone rurali e montane,<br />

a prezzi accessibili a tutti gli utenti»; inoltre, l’impresa<br />

fornitrice del servizio deve garantire tutti i<br />

giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a<br />

settimana, salvo circostanze eccezionali valutate<br />

dall’autorità di regolamentazione, una raccolta<br />

ed una distribuzione al domicilio di ogni persona<br />

fisica o giuridica ed il servizio deve esser prestato in<br />

via continuativa per tutta la durata dell’anno.<br />

Di conseguenza, non è manifestamente irragionevole<br />

che ad imprese tenute per legge all’adempimento<br />

di simili oneri sia riconosciuta una certa<br />

(18) Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per<br />

il miglioramento della qualità del servizio.<br />

9


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto<br />

a tempo determinato 19 .<br />

Senza poi sottacere che l’art. 2, comma 1-bis,<br />

del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 impone alle aziende di<br />

comunicare ai sindacati le richieste di assunzioni<br />

a termine, prevedendo così un meccanismo di<br />

trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva<br />

osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti<br />

dalla norma.<br />

Ad avviso della Corte Costituzionale, la sollevata<br />

questione in parte qua non è fondata neppure<br />

sotto il profilo della pretesa violazione degli artt.<br />

101, 102 e 104 della Costituzione.<br />

Infatti, la norma censurata, per la stipula di contratti<br />

a termine da parte delle imprese concessionarie<br />

di servizi nei settori delle poste, si limita a<br />

richiedere requisiti diversi rispetto a quelli valevoli<br />

in generale e, quindi, non già l’indicazione<br />

di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di<br />

una durata massima e di una quota percentuale<br />

dell’organico complessivo.<br />

Conseguentemente, il giudice ben può esercitare il<br />

proprio potere giurisdizionale al fine di verificare<br />

la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di<br />

tale dettagliata fattispecie legale.<br />

4.3 Sulla legittimità dell’art. 4-bis<br />

Sulla discutibile legittimità dell’art. 4-bis del<br />

D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, i giudici rimettenti,<br />

nel premettere che, secondo il diritto vivente, in<br />

caso di violazione delle prescrizioni contenute<br />

nell’art. 1 del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, può essere<br />

disposta la conversione del contratto in rapporto<br />

di lavoro a tempo indeterminato e riconosciuta<br />

al lavoratore una tutela risarcitoria piena,<br />

sono giunti ad affermare che l’art. 4-bis dello<br />

stesso violerebbe: l’art. 3 cost., posto che è<br />

fonte di irragionevole disparità di trattamento,<br />

collegata al solo dato temporale del momento<br />

di proposizione del ricorso giudiziale, tra lavoratori<br />

che si trovano nella identica situazione<br />

di fatto.<br />

(19) Entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore.<br />

Approfondimenti<br />

Nel merito le questioni così sollevate, riferite però<br />

solamente però quelle delle Corti d’Appello di<br />

Genova e di Roma e dei Tribunali di Roma, Ascoli<br />

Piceno, Trieste e Viterbo, sono state dichiarate<br />

invece fondate 20 .<br />

Ad avviso del giudice delle leggi, infatti, “In<br />

effetti, situazioni di fatto identiche (contratti di<br />

lavoro a tempo determinato stipulati nello stesso<br />

periodo, per la stessa durata, per le medesime<br />

ragioni ed affetti dai medesimi vizi) risultano<br />

destinatarie di discipline sostanziali diverse (da<br />

un lato, secondo il diritto vivente, conversione<br />

del rapporto in rapporto a tempo indeterminato<br />

e risarcimento del danno; dall’altro, erogazione di<br />

una modesta indennità economica), per la mera e<br />

del tutto casuale circostanza della pendenza di un<br />

giudizio alla data (anch’essa sganciata da qualsiasi<br />

ragione giustificatrice) del 22 agosto 2<strong>00</strong>8 (giorno<br />

di entrata in vigore dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368<br />

del 2<strong>00</strong>1, introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del<br />

decreto-legge 25 giugno 2<strong>00</strong>8, n. 112).”<br />

Secondo la sentenza in commento, una siffatta<br />

discriminazione è priva di ragionevolezza, né è<br />

collegata alla necessità di accompagnare il passaggio<br />

da un certo regime normativo ad un altro.<br />

Infatti, l’intervento del legislatore<br />

non ha toccato la disciplina relativa alle condizioni<br />

per l’apposizione del termine o per la<br />

proroga dei contratti a tempo determinato,<br />

ma ha semplicemente mutato le conseguenze<br />

della violazione delle previgenti regole limitatamente<br />

ad un gruppo di fattispecie selezionate<br />

in base alla circostanza, del tutto accidentale,<br />

della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti<br />

del rapporto di lavoro.<br />

Da qui, pertanto, l'illegittimità costituzionale<br />

dell’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1.<br />

5. Osservazioni conclusive<br />

Come appena visto, quindi, nell’accogliere la più<br />

“lineare” ed obiettivamente valida lettura costituzionale<br />

delle norme censurate da un significa-<br />

(20) Sono rimaste assorbite in detta declaratoria le questioni sollevate in riferimento ad altri parametri costituzionali dalle Corti d’Appello di<br />

Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo.<br />

10


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

tivamente ampio numero di giudici di merito, la<br />

Corte Costituzionale, con la sentenza n. 214 del<br />

14 luglio 2<strong>00</strong>9, diversamente però dal complesso<br />

delle sollevate questioni, ha dichiarato costituzionalmente<br />

illegittimo il solo art. 4-bis del D.Lgs.<br />

n. 368 del 2<strong>00</strong>1, nel testo novellato dal D.L. n.<br />

112 del 2<strong>00</strong>8.<br />

La motivazione alla base della censura di che<br />

trattasi è stata, e non poteva essere diversamente,<br />

il contrasto con l’art. 3 della costituzione, posto<br />

che, secondo il sotteso principio di uguaglianza,<br />

a situazioni identiche (id est, contratti a termine<br />

illegittimi), erano state previste diverse discipline<br />

sostanziali.<br />

Non può infatti ritenersi costituzionalmente<br />

orientato in tal senso un meccanismo nel quale,<br />

a parità appunto di situazione di illegittimità, una<br />

parte di lavoratori potevano ottenere solamente<br />

una indennità economica in via risarcitoria, mentre<br />

un’altra parte poteva ex adverso ottenere la<br />

conversione del contratto a termine in contratto<br />

a tempo indeterminato.<br />

Il tutto, peraltro, in presenza di la circostanza<br />

causale di una pendenza o meno 21 , alla data del<br />

22 agosto 2<strong>00</strong>8, dies a quo individuato dalla legge<br />

di conversione del D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8.<br />

Conseguentemente, la necessità di espungere dall’ordinamento<br />

positivo la ribattezzata c.d. norma<br />

antiprecari.<br />

Stando all’impostazione ermeneutica seguita dalla<br />

Corte Costituzionale nella sentenza n. 214/09, la<br />

norma oggetto di censura avrebbe (paradossalmente)<br />

superato il vaglio di costituzionalità nella<br />

versione ante emendamento presentato in sede di<br />

conversione del D.L. n. 112.<br />

Come infatti certamente si ricorderà, la originaria<br />

disposizione di legge era tesa non ad introdurre<br />

una (sorta di) sanatoria, ma principalmente un<br />

principio in ragione del quale si potesse arrivare<br />

alla eliminazione della sanzione della conversione<br />

del contratto a tempo determinato in contratto<br />

a tempo indeterminato dei contratti a termine<br />

illegittimi, sanzione questa, elaborata dalla giuri-<br />

(21) Rispettivamente con riguardo alla prima ed alla seconda categoria di lavoratori appena indicata.<br />

(22) E non solamente quindi quelli oggetto di remissione degli atti alla Consulta.<br />

Approfondimenti<br />

sprudenza in assenza di una sua espressa previsione<br />

nel D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1.<br />

Così ragionando, la disposizione di legge poi non<br />

confermata in sede di conversione del D.L. n.<br />

112/2<strong>00</strong>8, prevedeva un risarcimento legato ad<br />

un’indennità tra le 2,5 e le 6 mensilità dell’ultima<br />

retribuzione, in stretta analogia a quanto previsto<br />

dalla legge n. 108 del 1990 per i licenziamenti illegittimi<br />

nell’ambito della c.d. tutela obbligatoria.<br />

Per dovere di logica, appare però necessario<br />

chiarire che in tale eventualità non era pacifico<br />

attendersi la possibilità di richiedere l’intervento<br />

della Corte Costituzionale.<br />

La decisione della Consulta, nella parte in cui<br />

ha dichiarato l’incostituzionalità della norma<br />

sottoposta al relativo vaglio, assumendo valore<br />

erga omnes, andrà conseguentemente a vincolare<br />

tutti i giudizi di merito nei quali sono state sollevate<br />

le note criticità 22 nonché quelli che saranno<br />

instaurati successivamente.<br />

La medesima pronuncia, ex adverso, non potrà<br />

invece avere alcuna incidenza sulle situazioni<br />

giuridiche oramai consolidate, quali le sentenze<br />

passate in giudicato ovvero fattispecie conclusesi<br />

con atti conciliativi e/o transattivi.<br />

Più in generale, significativa appare invece la posizione<br />

della Consulta riguardo agli altri sollevati<br />

profili di legittimità costituzionale del D.Lgs. n.<br />

368/2<strong>00</strong>1, specie quelli afferenti all’art. 2, aventi un<br />

impatto di ordine organizzativo, nonché numerico.<br />

Sotto un profilo più eminentemente pratico,<br />

ovviamente con riguardo al profilo censurato, la<br />

decisione della Consulta riporterà le disposizioni<br />

di legge di che trattasi alla loro versione originaria<br />

(id est, 2<strong>00</strong>1) lasciando quindi immutato il quadro<br />

dei precetti e delle sottese garanzie.<br />

Interessante e significativo, specie sotto il profilo<br />

eminentemente pratico, appare il principio contenuto<br />

nella sentenza di che trattasi relativamente<br />

all’obbligo di cui all’art. 1, comma 1, del D.Lgs.<br />

n. 36872<strong>00</strong>1 di specificare le ragioni del ricorso<br />

al contratto a termine.<br />

11


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Come visto, detto articolo dispone che è consentita<br />

l’apposizione di un termine alla durata del<br />

contratto di lavoro subordinato esclusivamente a<br />

fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,<br />

organizzativo e sostitutivo.<br />

Con l’abrogazione delle legge n. 230 del 1962 23<br />

è venuta meno l’espressa previsione secondo la<br />

quale l’apposizione di un termine al contratto di<br />

lavoro subordinato era possibile quando l’assunzione<br />

aveva luogo per la sostituzione di lavoratori<br />

assenti con diritto alla conservazione del posto<br />

di lavoro, sempreché nel relativo contratto fosse<br />

indicato il nominativo del lavoratore da sostituire<br />

e la causa della sua sostituzione.<br />

Nel ritenere come visto infondata la sollevata<br />

questione di legittimità costituzionale in parte<br />

qua, i giudici delle leggi hanno ritenuto che<br />

detto obbligo non sia venuto comunque meno<br />

nonostante l’espressa abrogazione della legge<br />

n. 230/1962 operata dall’art. 11, comma 1, del<br />

Sanatoria del contratto a<br />

termine<br />

Disciplina speciale per il<br />

settore postale<br />

Causali sostitutive<br />

Conseguenze sui giudizi<br />

in corso<br />

Conseguenze sui contratti<br />

sottoscritti per ragioni<br />

sostitutive<br />

(23) Che disciplinava il contratto di lavoro di che trattasi ed operata dall’art. 11 del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1.<br />

Approfondimenti<br />

D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 e la mancata riproposizione<br />

nello stesso di un inciso di identico contenuto<br />

precettivo.<br />

Infatti, la sentenza n. 214/09 mette in risalto<br />

come un tale obbligo sia contemplato dall’art. 1<br />

del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 dal momento che è espressamente<br />

disposto che “l’apposizione del termine<br />

è priva di effetto se non risulta, direttamente o<br />

indirettamente, da atto scritto nel quale sono<br />

specificate le ragioni di cui al comma 1” 24 .<br />

Da qui, pertanto, la necessità che nei casi in cui<br />

venga sottoscritto un contratto a tempo determinato<br />

per ragioni sostitutive, a pena di nullità dello<br />

stesso, sia espressamente indicato il nominativo<br />

del lavoratore sostituito e la ragione di una tale<br />

sostituzione.<br />

Volendo riassumere in sintesi le linee direttrici<br />

della sentenza della Corte Costituzionale n.<br />

214/09 e le relative conseguenze, possiamo avere<br />

il seguente quadro.<br />

Appare priva di ragionevolezza la discriminazione prevista<br />

dall’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 con riguardo alla “sanatoria”<br />

prevista per le controversie in corso al 22 agosto 2<strong>00</strong>8, atteso<br />

che, così come impostata la norma di riferimento, venivano<br />

disposte discipline sostanzialmente diverse per situazioni nei<br />

fatti identiche.<br />

Legittimità costituzionale dell’art. 2-bis del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1,<br />

relativo alla disciplina speciale per il settore postale, atteso<br />

che con la stessa è stata operata dal legislatore una valutazione<br />

preventiva ed astratta in alcun modo irragionevole.<br />

Legittimità costituzionale dell’art. 11 del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 atteso<br />

che non è risultato abrogato l’obbligo di indicare il nominativo<br />

del lavoratore sostituito e le ragioni della sostituzione.<br />

I giudizi pendenti alla data del 22 agosto 2<strong>00</strong>8 andranno decisi sulla<br />

base della disciplina applicabile a tutte le controversie in tema<br />

di contratto di lavoro a determinato. Di conseguenza, la nullità<br />

del (l’apposizione del) termine determinerà la trasformazione del<br />

rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato.<br />

I contratti a tempo determinato sottoscritti per ragioni sostitutive<br />

dovranno inderogabilmente contenere sia il nominativo del<br />

lavoratore sostituito che il motivo della necessità di sostituzione.<br />

(24) Ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro.<br />

12


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Approfondimenti<br />

Ancora sull’accesso alle dichiarazioni<br />

rese dai lavoratori nelle ispezioni<br />

PIETRO SCUDELLER<br />

Sentenza n. 736 del 9 febbraio 2<strong>00</strong>9, VI Sezione, Consiglio di Stato<br />

Ai sensi degli artt. 22, c. 1, lett. c), e 24, c. 6, punto d), legge 7.8.1990 n. 241, e 2 e 3 Dm<br />

4.11.1994 n. 757, non sussiste il diritto di accesso, da parte di un’impresa che abbia subito<br />

un’ispezione degli Ispettori del lavoro, alla documentazione allegata al verbale ispettivo, e in<br />

particolare alle dichiarazioni rese dai dipendenti dell’impresa stessa, in relazione all’esigenza<br />

di salvaguardare la vita privata e la riservatezza dei dipendenti stessi, tenendo presente che se<br />

è vero che, in via generale, le necessità difensive - riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24<br />

Cost. - sono ritenute prioritarie rispetto alla riservatezza di soggetti terzi, non bastano all’uopo<br />

esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo<br />

corrispondere a una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumono lesi ed ammettendosi<br />

solo nei limiti in cui sia «strettamente indispensabile» la conoscenza di documenti,<br />

contenenti «dati sensibili e giudiziari»; pertanto, ferma restando una possibilità di valutazione<br />

«caso per caso», che potrebbe talvolta consentire di ritenere prevalenti le esigenze difensive<br />

in questione, non può tuttavia dirsi esistente una generalizzata soccombenza dell’interesse<br />

pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare<br />

gestione dei rapporti di lavoro, rispetto al diritto di difesa delle società o imprese sottoposte<br />

ad ispezione: il primo di tali interessi, infatti, non potrebbe non essere compromesso dalla<br />

comprensibile reticenza di lavoratori, cui non si accordasse la tutela di cui si discute, mentre<br />

il secondo risulta comunque garantito dall’obbligo di motivazione per eventuali contestazioni,<br />

dalla documentazione che ogni datore di lavoro è tenuto a possedere, nonché dalla possibilità<br />

di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria.”<br />

Sentenza n. 1842 del 29 gennaio 2<strong>00</strong>8, IV Sezione, Consiglio di Stato<br />

L’esigenza di riservatezza di chi abbia reso dichiarazioni, riguardanti se stesso od anche altri<br />

soggetti, agli ispettori del Ministero del <strong>Lavoro</strong>, senza autorizzarne la divulgazione, non viene<br />

meno neanche a seguito dell’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro, non attenendo la<br />

sfera di interessi in questione alla sola tutela delle posizioni del lavoratore ed essendo queste<br />

ultime, comunque, rilevanti anche in rapporto all’ambiente professionale di appartenenza,<br />

più largamente inteso 1 .<br />

(1) La sentenza è riportata per esteso in Informaz. prev. n. 3/2<strong>00</strong>8, p. 706.<br />

13


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Come noto agli operatori del settore, le ispezioni<br />

sul lavoro, siano esse condotte da ispettori della<br />

Direzione Provinciale del <strong>Lavoro</strong> o da ispettori<br />

degli Istituti previdenziali, spesso si basano sulle<br />

dichiarazioni che gli ispettori stessi raccolgono tra<br />

i lavoratori presenti in azienda, le quali vengono<br />

trascritte in appositi verbali.<br />

È altresì nota l’importanza che spesso tali dichiarazioni<br />

acquistano per il sostegno del verbale di<br />

accertamento di violazioni commesse dal datore<br />

di lavoro e quindi l’importanza per quest’ultimo,<br />

qualora intenda contestare il verbale o gli atti<br />

irrogatori di sanzioni conseguenti, di poter leggere<br />

tali dichiarazioni per poter capire su cosa si fondano<br />

le contestazioni mosse e per poter decidere<br />

come articolare la propria difesa, sia nella fase di<br />

contenzioso amministrativo, che nell’eventuale<br />

fase di contenzioso giudiziario.<br />

È altresì noto che la giurisprudenza amministrativa<br />

sul punto è stata alquanto oscillante ed incerta: a<br />

pronunce favorevoli ai datori di lavoro, si sono infatti<br />

contrapposte anche pronunce che approvavano<br />

l’operato delle amministrazioni che negavano<br />

ai datori di lavoro richiedenti l’accesso alle stesse.<br />

Sulla disciplina legislativa e sulla giurisprudenza<br />

precedente, basterà quindi rinviare ai numerosi<br />

scritti già intervenuti nel più recente passato,<br />

anche su questa stessa rivista 2 .<br />

Certo è che ad un orientamento, che si poteva ritenere<br />

prevalente, di sentenze favorevoli ai datori<br />

di lavoro negli anni passati, si contrappongono<br />

ora le due sentenze in commento, che rafforzano<br />

l’orientamento opposto ed introducono vincoli di<br />

rigidità che appaiono inaccettabili, anche perché<br />

basati su motivazioni non condivisibili ed anzi<br />

censurabili.<br />

Le motivazioni - la sentenza del 2<strong>00</strong>9 richiama<br />

espressamente il proprio precedente del 29.1.2<strong>00</strong>8<br />

- si basano sul disposto del Regolamento n. 757<br />

Approfondimenti<br />

del 4.11.1994 - che il Ministero del <strong>Lavoro</strong> si è<br />

dato in virtù dell’art. 24, quarto comma, della L.<br />

241/1990 - il quale, all’art. 2, elenca i tipi di atti<br />

che sono sottratti al diritto di accesso: tra di essi<br />

“i documenti contenenti notizie acquisite nel<br />

corso dell’attività ispettiva, quando dalla loro<br />

divulgazione possano derivare azioni discriminatorie<br />

o indebite pressioni o pregiudizi a carico dei<br />

lavoratori o di terzi, finché perdura il rapporto di<br />

lavoro (salvo il segreto istruttorio ex art. 329 del<br />

codice di procedura penale)” 3 .<br />

La sentenza 1842 del 2<strong>00</strong>8, infatti, richiamata<br />

tale normativa ed i propri precedenti, nel senso<br />

del diniego all’accesso, del 27.1.1999 n. 65 e del<br />

19.11.1996 n. 1604, afferma che nessuna ragione<br />

vi sarebbe per discostarsi da tale orientamento e<br />

che persino nel caso di avvenuta cessazione del<br />

rapporto lavorativo con il dichiarante, l’esigenza<br />

di riservatezza di quest’ultimo non verrebbe meno,<br />

“non attenendo la sfera di interessi in questione<br />

alla sola tutela delle posizioni del lavoratore ed<br />

essendo queste ultime, comunque, rilevanti anche<br />

in rapporto all’ambiente professionale di appartenenza,<br />

più largamente inteso.<br />

Sembra appena il caso di sottolineare, al riguardo,<br />

la prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione<br />

di ogni possibile informazione, a tutela<br />

della sicurezza e della regolarità dei rapporti di<br />

lavoro, rispetto al diritto di difesa delle società o<br />

imprese sottoposte ad ispezione: il primo, infatti,<br />

non potrebbe non essere compromesso dalla<br />

comprensibile reticenza di lavoratori, cui non<br />

si accordasse la tutela di cui si discute, mentre il<br />

secondo risulta comunque garantito dall’obbligo<br />

di motivazione per eventuali contestazioni e<br />

dalla documentazione che ogni datore di lavoro<br />

è tenuto a possedere.”<br />

Nell’approvare tale motivazione, una commentatrice<br />

4 s’è spinta addirittura a scrivere: “l’eventuale<br />

conoscenza delle dichiarazioni rese dagli<br />

(2) In particolare pare opportuno rinviare a: PIERO GUALTIEROTTI, Il datore di lavoro ha diritto alla copia delle dichiarazioni rilasciate agli ispettori<br />

dai lavoratori (a meno che…), in questa Rivista n. 2/2<strong>00</strong>7, pag. 2; PIERLUIGI RAUSEI, Accesso agli atti d’ispezione. Una questione ancora aperta, in D.P.L.<br />

n. 31/2<strong>00</strong>7 (Inserto); ALESSANDRA MILLO, L’accesso agli atti dell’ispezione del lavoro, in La circolare di lavoro e previdenza n. 2/2<strong>00</strong>9, pag. 2.<br />

(3) La parentesi è del sottoscritto, per intendere che dei casi in cui gli atti siano rilevanti anche ai fini di un’indagine penale non ci si occupa,<br />

essendo in effetti pacifico (su ciò nulla questio) che quando nel corso dell’ispezione emergano fatti anche penalmente rilevanti, da un lato gli ispettori<br />

hanno l’obbligo di procedere con le cautele di cui all’art. 220 disp. att. c.p.p., dall’altro essi devono riferire al P. M. competente, scattando quindi su<br />

tali atti il segreto istruttorio di cui all’articolo citato, fino a chiusura delle indagini preliminari.<br />

(4) L’avvocato dell’INPS Francesca Ferrazzoli, in Informaz. prev. n. 3/2<strong>00</strong>8, pagg. 712-713.<br />

14


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

ispettori da parte dei datori di lavoro potrebbe<br />

comportare conseguenze pregiudizievoli per i<br />

dipendenti… in quanto il lavoratore potrebbe<br />

subire ripercussioni sia relativamente alla propria<br />

posizione all’interno dell’azienda che in rapporto<br />

all’ambiente professionale largamente inteso. In<br />

questo senso, il diniego all’accesso si propone di<br />

prevenire discriminazioni, pressioni o ritorsioni ai<br />

danni del dipendente, che potrebbero essere poste<br />

in essere non solo da parte del datore di lavoro ma<br />

anche da terzi…”.<br />

La mentalità che traspare dalla motivazione della<br />

sentenza e dal commento richiamato, è gravemente<br />

censurabile per la semplice ragione che finisce<br />

per attribuire ai datori di lavoro, come scontati e<br />

necessari, o quantomeno probabili, comportamenti<br />

altamente scorretti e addirittura delinquenziali<br />

(gli atti discriminatori sono puniti penalmente<br />

per effetto degli artt. 15 e 38 St. Lav.; le pressioni<br />

si può ben immaginare che finiscano perloppiù<br />

per tradursi in minacce, punite ex art. 612 c.p.; le<br />

ritorsioni possono essere di vario genere, ma anch’esse<br />

difficilmente sono immaginabili quali atti<br />

leciti e per i quali non sussista una tutela dell’ordinamento<br />

a favore del lavoratore, nella disciplina<br />

del mobbing, in quella limitativa dei licenziamenti,<br />

o nelle altre numerosissime norme generali che<br />

disciplinano i rapporti di lavoro subordinato).<br />

È mai possibile dunque motivare un provvedimento<br />

giudiziale dando per scontato o comunque<br />

presupponendo come probabile un comportamento<br />

del datore di lavoro illecito o addirittura<br />

delinquenziale? Evidentemente no: si tratta di<br />

argomenti che cozzano con la realtà di molti one-<br />

Approfondimenti<br />

stissimi datori di lavoro esistenti e che risultano<br />

persino offensivi nei loro confronti.<br />

Quando la norma regolamentare, invero, fa riferimento<br />

al diniego di accesso “quando” [cioè “nei<br />

(soli) casi in cui”] “dalla loro divulgazione possano<br />

derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni<br />

o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi”,<br />

è evidente che richiede una valutazione caso per<br />

caso nella quale non si potrà dare per scontato<br />

che tale rischio sussista per definizione, sempre<br />

ed immancabilmente, per il fatto stesso che esiste<br />

un lavoratore ed un datore di lavoro, pena<br />

l’inaccettabile equiparazione offensiva “datore di<br />

lavoro = delinquente” suddetta. Occorre invece<br />

un’analisi del caso specifico e, in caso di diniego,<br />

una motivazione dell’atto ben dettagliata e specifica<br />

che indichi le ragioni per cui l’amministrazione<br />

ritiene ricorrere quel tipo di rischio nel caso<br />

concreto. Motivazione che poi potrà, se del caso,<br />

essere portata al vaglio dei giudici amministrativi.<br />

In mancanza di una siffatta, articolata sul caso<br />

specifico, motivazione, il diniego all’accesso,<br />

dovrebbe essere sempre censurato dai giudici,<br />

proprio perché non rispondente ai requisiti del<br />

regolamento della stessa amministrazione 5 .<br />

Ma la motivazione in commento è censurabile<br />

poi anche nel passo ove afferma: “Sembra appena<br />

il caso di sottolineare, al riguardo, la prevalenza<br />

dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni<br />

possibile informazione, a tutela della sicurezza e<br />

della regolarità dei rapporti di lavoro, rispetto al<br />

diritto di difesa delle società o imprese sottoposte<br />

ad ispezione”.<br />

(5) Del tutto analogo è anche il parere, che, dopo aver formulato le suddette riflessioni, s’è reperito, del Collega ANDREA STANCHI, in Guida al<br />

lavoro n. 11 del 13 marzo 2<strong>00</strong>9, p. 40, nel commento a Cons. di Stato n. 736/2<strong>00</strong>9. L’Autore ivi, molto condivisibilmente, afferma: “…Non appare<br />

invece motivata in alcun modo la sussistenza della potenzialità del pregiudizio. Tale elemento causale infatti, a parere di chi scrive, non può leggersi,<br />

nel sistema della disciplina del diritto di accesso come sopra ricostruito e qual è la funzione che gli si assegna nell’Ordinamento, come potenzialità<br />

astratta in relazione alla posizione soggettiva di «lavoratore». Perché ciò sarebbe privo di ogni ragione giustificante la disciplina della previsione<br />

e normativa: se l’accesso alle dichiarazioni del lavoratore in quanto tale determinano il rischio di compromissione della sua posizione debole, non<br />

ha senso prevedere una specifica valutazione al riguardo, come fa la norma; l’unica soluzione è vietarlo. Tale lettura sarebbe contraria ai principi<br />

anche costituzionali (artt. 2 e 3 e 41 Cost. in particolare), perché finirebbe per individuare - per posizione nell’Ordinamento - il datore di lavoro<br />

come un soggetto sia pure astrattamente potenzialmente uso a pressioni e ritorsioni. Il che è - culturalmente prima che civilmente e giuridicamente<br />

- lettura squalificante e non degna di un ordinamento democratico. La potenzialità va quindi letta come una potenzialità concreta di rischio della<br />

sussistenza di pregiudizi per quel lavoratore dichiarante, che vanno motivati e non possono essere apodittici. La regola allora è che il diritto di accesso<br />

è un diritto che prevale su quello dell’Amministrazione, che è tenuta ad operare con trasparenza e quindi deve consentire all’impresa di verificare<br />

gli atti sui quali procede, assumendo le idonee garanzie per i dichiaranti. L’Amministrazione dunque, rispetto alla fattispecie, non ha un diritto<br />

proprio di rifiutare l’accesso, salvo il rischio del pregiudizio causalmente qualificato alla riservatezza del lavoratore dichiarante. Che come tale deve<br />

essere rischio concreto di pregiudizio, ossia motivato e poi provato nel procedimento, perché deve essere verificabile dal giudice e - in ossequio al<br />

contraddittorio - controbattibile dal datore di lavoro che assume l’esigenza di accesso, il quale può offrire - ritengo - garanzie idonee ad assicurare il<br />

ripristino dell’equilibrio nel bilanciamento. Se questa lettura, sinteticamente esposta e quindi con tutte le pecche del caso, fosse condivisibile, sotto<br />

questo ultimo profilo la decisione apparirebbe non adeguatamente motivata e difforme dal sistema.”<br />

15


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

In effetti qui i due interessi contrapposti, pubblico<br />

e privato, vengono sbilanciati a favore di quello<br />

pubblico, con una motivazione apodittica e tautologica:<br />

si dà per scontato, cioè, che l’interesse<br />

pubblico debba prevalere, in quanto tale, su quello<br />

privato; ma non è così: nel nostro ordinamento, e<br />

segnatamente nella nostra Carta Costituzionale,<br />

vi è un’ispirazione liberale, per la quale l’interesse<br />

privato prevale su quello pubblico, che emerge<br />

ripetutamente, sia nell’affermazione dell’inviolabilità<br />

assoluta dei diritti fondamentali dell’individuo,<br />

sia in principi successivi che ne costituiscono<br />

varie attuazioni, come quello della presunzione di<br />

innocenza (art. 27, 2° comma, Cost.) o in quello<br />

della limitazione alle entrate dello Stato sulla base<br />

della capacità contributiva dell’individuo (art. 53<br />

Cost.), ecc.<br />

Come si può quindi dare per scontata, senza bisogno<br />

di motivazione, una prevalenza dell’interesse<br />

pubblico su quello privato? Sarebbe semmai legittimo<br />

asserire il contrario.<br />

Ciò va affermato con particolare forza, perché,<br />

purtroppo, non è raro cogliere questa supposta,<br />

ma invero inesistente, mentalità di una prevalenza<br />

del pubblico sul privato, in ragionamenti giuridici,<br />

sentenze, commenti, ecc.<br />

Purtroppo si fa poca attenzione, in questi casi, al<br />

fatto che le Carte Costituzionali sono sempre nate,<br />

storicamente, per opporsi agli abusi di Stati dittatoriali<br />

ed agli ingiusti sacrifici di diritti individuali;<br />

dare per scontata una prevalenza degli interessi<br />

pubblici su quelli del singolo privato equivale a<br />

porsi proprio in quella prospettiva autoritaria che<br />

anche la nostra Costituzione vuole combattere.<br />

Infine la motivazione del Consiglio di Stato è<br />

censurabile anche nella parte in cui estende la<br />

tutela della riservatezza anche al periodo in cui<br />

il rapporto di lavoro è già cessato, in quanto si<br />

spinge così al di là della stessa lettera del regolamento<br />

richiamato: “finché perdura il rapporto<br />

di lavoro”.<br />

L’estensione in via interpretativa del divieto di accesso<br />

anche al periodo in cui il rapporto di lavoro è<br />

cessato viene giustificata con l’esigenza di tutelare<br />

il lavoratore nell’ambiente di lavoro e da possibili<br />

ripercussioni da parte di terzi: si vuol far credere<br />

dunque che si sospettano, senza giustificazione, di<br />

Approfondimenti<br />

probabili nefandezze non solo il datore di lavoro<br />

interessato, ma addirittura anche i possibili datori<br />

di lavoro successivi! Il che risulta, per i motivi<br />

sopra esposti, davvero eccessivo e fuori luogo.<br />

Non si vuol certo negare o disconoscere che esistano<br />

in Italia realtà di datori di lavoro tutt’altro<br />

che corretti e magari anche in grado di influenzare<br />

negativamente tutto un certo ambiente di<br />

lavoro (basti pensare alle zone controllate dalle<br />

note organizzazioni criminali di mafia, camorra,<br />

‘ndrangheta, sacra corona unita, ecc.), tuttavia se<br />

il datore di lavoro appartiene a siffatte cerchie, la<br />

sentenza dovrà indicare le ragioni, quantomeno<br />

indiziarie, per potergli imputare comportamenti<br />

a rischio di discriminazioni, pressioni e ritorsioni.<br />

E tali sentenze non potranno mai, rimanendo immotivate,<br />

come pure se così motivate, costituire<br />

precedente applicabile immotivatamente anche<br />

a qualsiasi altro datore di lavoro d’Italia.<br />

Si consideri poi che persino nel procedimento<br />

penale - nella situazione analoga in cui deve<br />

essere tutelata la libertà di testimoni che devono<br />

essere sentiti in contraddittorio, per la necessità<br />

del formarsi della prova nel dibattimento -, una<br />

volta chiuse le indagini preliminari, avviene la<br />

così detta discovery con la quale il pubblico ministero<br />

mette a disposizione dell’imputato, anche<br />

se si tratta di sospettato dei più gravi reati, tutti<br />

gli elementi di prova a propria disposizione, al<br />

fine di garantirgli un puntuale e specifico potere<br />

di contestazione e controdeduzione (qui non c’è<br />

rischio di inquinamento che tenga!).<br />

Come si potrebbe negare, dunque, una siffatta<br />

garanzia di discovery, che si attua nel nostro caso<br />

solo con la possibilità di accedere alle dichiarazioni<br />

rilasciate agli ispettori, al “povero” datore<br />

di lavoro, in circostanze molto meno gravi, quali<br />

quelle di possibili illeciti amministrativi (sia pur,<br />

ovviamente, una volta conclusa e chiusa l’indagine<br />

ispettiva)? Non dovrebbe godere egli di una<br />

sorta di analoga presunzione di innocenza anche<br />

in relazione ad eventuali illeciti amministrativi<br />

(id est lavoristici e/o previdenziali)?<br />

Neppure convince la tesi secondo la quale il<br />

diritto di difesa del datore di lavoro sarebbe<br />

ugualmente garantito dal contenuto del verbale<br />

di accertamento e dalla documentazione obbligatoria<br />

in suo possesso.<br />

16


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Innanzitutto si deve considerare che sul datore di<br />

lavoro che agisca in giudizio gravano gli obblighi<br />

di completa indicazione dei mezzi di prova fin dal<br />

ricorso introduttivo, ex artt. 414, 1° comma, n.<br />

5, e 442, c.p.c. Egli deve quindi poter conoscere<br />

tutti i dettagli della controversia fin da prima di<br />

iniziare l’eventuale causa: cosa che non può dirsi<br />

avverrebbe, se egli dovesse limitarsi a conoscere<br />

delle accuse che gli sono rivolte dal solo verbale,<br />

senza conoscere gli elementi sui quali esso si basa.<br />

L’insufficienza, poi, dei verbali è dimostrabile con<br />

molti e facili esempi: se nel verbale si sostiene,<br />

ad esempio, che un lavoratore sarebbe stato “in<br />

nero” per i primi sei mesi del suo rapporto, il<br />

datore di lavoro, per contestare efficacemente<br />

tale circostanza, in ipotesi falsamente riferita<br />

agli ispettori o erroneamente dedotta dagli stessi,<br />

deve poter sapere se tale periodo è stato indicato<br />

da uno o più testimoni o se è stato desunto dalla<br />

data della fine del rapporto precedente del lavoratore,<br />

ovvero ancora magari dalla data di inizio<br />

del cantiere cui era addetto; perché a seconda<br />

di come la circostanza è stata riferita o dedotta,<br />

diverse, singole o molteplici, potranno essere le<br />

prove contrarie ch’egli potrà scegliere di indicare<br />

a propria discolpa.<br />

Ancora: se un rapporto di lavoro viene considerato<br />

subordinato anziché autonomo, spesso i verbali<br />

non indicano tutte le circostanze specifiche sulle<br />

quali tale conclusione si basa; come potrà quindi<br />

difendersi il datore di lavoro? Contestando che<br />

cosa?<br />

Ancora: se una certa dichiarazione proviene da un<br />

lavoratore che è appena stato licenziato, oppure da<br />

lavoratore che ha grave procedimento disciplinare<br />

in corso o invece da lavoratore sul quale nulla<br />

di tutto ciò grava, la loro credibilità sarà sempre<br />

la stessa? O piuttosto si dovrà pur permettere al<br />

datore di lavoro di sapere chi ha dichiarato che<br />

cosa, al fine di controdedurre sulla attendibilità<br />

del testimone?<br />

D’altronde sarebbe come, mutuando ancora dal<br />

penale, se si dicesse all’imputato ch’egli può ben<br />

difendersi anche conoscendo solo le accuse con-<br />

Approfondimenti<br />

tenute nel decreto di citazione a giudizio, senza<br />

consentirgli di vedere su quali prove il Pubblico<br />

Ministero formula le accuse.<br />

Infine, se si considera che ad una discovery che<br />

non avvenga in fase stragiudiziale consegue sempre<br />

necessariamente una pari discovery in sede<br />

giudiziale, poiché le dichiarazioni dei lavoratori<br />

vengono sempre necessariamente prodotte in<br />

giudizio, nel caso di promovimento di esso da<br />

parte del datore di lavoro, tutta questa resistenza<br />

a fornirle un po’ prima, motivata sulle esigenze di<br />

riservatezza del lavoratore, che senso ha, quando<br />

comunque, poco più tardi, tali esigenze finiscono<br />

necessariamente per dover essere poi del tutto<br />

trascurate?<br />

Né è accettabile il ragionamento fatto dal Consiglio<br />

di Stato nella prima sentenza in commento,<br />

laddove afferma che le ragioni del datore di lavoro<br />

sarebbero comunque tutelate anche “dalla possibilità<br />

di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria”:<br />

in questo modo infatti si costringerebbe<br />

il datore di lavoro ad agire in giudizio in ogni caso<br />

ed al buio, con il rischio sia di dover soccombere<br />

e pagare le spese, sia magari di dover rinunciare<br />

a benefici e disposizioni premiali che riducono le<br />

sanzioni in caso di mancata opposizione; in altre<br />

parole il diritto di difesa si assicura garantendo<br />

anche la possibilità di scelta tra l’agire in giudizio<br />

ed il non agire.<br />

Tutto ciò, dunque, si è osservato alla luce del<br />

regolamento citato, dal quale le sentenze stesse<br />

in commento prendono le mosse.<br />

Ma quel che è ancor più grave, è che il Regolamento<br />

757 del 1994 risulta essere in palese contrasto<br />

con le norme di rango gerarchico superiore<br />

contenute nella Legge 241/1990 e successive modifiche<br />

(in particolare con la Legge 11 febbraio<br />

2<strong>00</strong>5 n. 15 e, di recente, ulteriormente con la L.<br />

18 giugno 2<strong>00</strong>9 n. 69). Sicché sia il testo previgente<br />

al 2<strong>00</strong>5 sia l’attuale testo di legge, come già<br />

rilevato dalla dottrina citata e da altre sentenze<br />

dello stesso Consiglio di Stato 6 , consentono ed<br />

obbligano a disapplicare il Regolamento citato,<br />

per contrasto con la fonte legislativa da cui esso<br />

(6) PIERO GUALTIEROTTI, citato alla nota 2, ed, ivi, Cons. di Stato, Sez. VI, 3 maggio 2<strong>00</strong>2 n. 2366, Cons. di Stato, Sez. VI, 10 aprile 2<strong>00</strong>3, n.<br />

1923, TAR Piemonte 4021/2<strong>00</strong>5, TAR Veneto 18 gennaio 2<strong>00</strong>6.<br />

17


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

promana 7 . Le sentenze in commento non spiegano<br />

affatto, sotto tale profilo, il revirement interpretativo,<br />

anzi sembrano aver proprio dimenticato<br />

ovvero trascurato tale aspetto.<br />

In effetti sia il nuovo testo dell’art. 24 della<br />

L. 241/1990, che il vecchio 8 , autorizzano le<br />

singole pubbliche amministrazioni all’emanazione<br />

di regolamenti disciplinanti i casi di<br />

esclusione del diritto d’accesso, ma entrambi<br />

i testi prevedevano e prevedono che il diritto<br />

alla riservatezza e quindi l’esclusione dal diritto<br />

di accesso cedano di fronte al superiore diritto<br />

dei richiedenti, nei casi di richiesta motivata da<br />

Approfondimenti<br />

necessità di curare o difendere i propri diritti o<br />

interessi giuridici.<br />

Sicchè qualsiasi divieto o limite al diritto di<br />

accesso, motivato da regolamenti che facciano<br />

prevalere il diritto alla riservatezza degli interessati<br />

rispetto al diritto di difesa dei richiedenti,<br />

ancorché motivato dalla previsione del caso in<br />

cui la divulgazione delle notizie possa far derivare<br />

discriminazioni, pressioni o pregiudizi a carico di<br />

lavoratori, risulta illegittimo e va disapplicato dal<br />

giudice per contrarietà alla legge (cioè, ora, al<br />

disposto della prima parte del comma 7 dell’art.<br />

24 L. 241/’90).<br />

(7) Anche nel testo precedente (2° e 4° comma dell’art. 24) l’esclusione dell’accesso alle dichiarazioni dei lavoratori effettuata tramite il disposto<br />

regolamentare era fondata sulla previsione di legge che attribuiva il potere alle pubbliche amminisatrazioni di escludere il diritto d’accesso quando<br />

necessario a tutelare “la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti<br />

amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici”. Nel testo attuale, invece, il fondamento si<br />

può individuare, per le pubbliche amministrazioni in genere, a mio parere, nel combinato disposto del comma 1, lett. a), ultima parte, e del comma<br />

2, mentre, per il Governo, starebbe nella previsione dell’art. 24, comma 6, lett. d (“quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza<br />

di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi…”). Invero il comma 6 è tuttora in attesa di applicazione, mancando il regolamento di definitiva<br />

attuazione: infatti il D.P.R. 184/2<strong>00</strong>6 che ha dettato le regole specifiche circa l’esercizio del diritto di accesso alla luce delle novità normative introdotte<br />

dalla legge n. 15/2<strong>00</strong>5, ha transitoriamente mantenuto in vigore, fino appunto all’emanazione del predetto regolamento, a tutt’oggi ancora<br />

mancante, l’art. 8 del D.P.R. n. 352/1992, che contiene dicitura identica, quanto al caso della tutela della riservatezza delle persone, a quella di cui<br />

al nuovo testo dell’art. 24, comma 6, lett. d).<br />

(8) “1. Il diritto di accesso è escluso:<br />

a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di<br />

divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi<br />

del comma 2 del presente articolo;<br />

b) nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano;<br />

c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione<br />

e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione;<br />

d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.<br />

2. Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità<br />

sottratti all’accesso ai sensi del comma 1.<br />

3.<br />

4. L’accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento.<br />

5. I documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono considerati segreti solo nell’ambito e nei limiti di tale<br />

connessione. A tale fine le pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l’eventuale periodo di tempo per il quale essi<br />

sono sottratti all’accesso.<br />

6. Con regolamento, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 4<strong>00</strong>, il Governo può prevedere casi di sottrazione<br />

all’accesso di documenti amministrativi:<br />

a) quando, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall’articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, dalla loro divulgazione possa derivare una<br />

lesione, specifica e individuata, alla sicurezza e alla difesa nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle<br />

relazioni internazionali, con particolare riferimento alle ipotesi previste dai trattati e dalle relative leggi di attuazione;<br />

b) quando l’access<br />

c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico,<br />

alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione<br />

e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini;<br />

d) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare<br />

riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché<br />

i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono;<br />

e) quando i documenti riguardino l’attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all’espletamento<br />

del relativo mandato.<br />

7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere<br />

i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente<br />

indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2<strong>00</strong>3, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute<br />

e la vita sessuale.”<br />

18


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Il diritto di difesa, dunque, nell’ordinamento<br />

attuale, prevale a tal punto su ogni altro diritto<br />

(compreso quello alla riservatezza dei lavoratori<br />

e quello pubblico ad una raccolta delle informazioni<br />

da parte degli ispettori esente da rischi di<br />

inquinamento o distorsioni per effetto di eventuali<br />

timori di ritorsioni), da rendere obsolete anche le<br />

preoccupazioni o i relativi accorgimenti, in passato<br />

ritenuti rilevanti, quali l’oscuramento dei nomi<br />

dei dichiaranti, altre garanzie offribili dal datore<br />

di lavoro, o i rischi di qualsiasi tipo connessi alla<br />

personalità di quest’ultimo.<br />

A conferma della prevalenza del diritto di difesa, di<br />

rango costituzionale (art. 24 Cost.), sul diritto alla<br />

riservatezza, merita di essere ricordata anche una<br />

recentissima sentenza della Cassazione lavoro, la<br />

n. 15327 del 30 giugno 2<strong>00</strong>9 che, pronunciandosi<br />

nel caso di un datore di lavoro che s’era avvalso di<br />

alcuni scritti di un dipendente per produrli a terzi<br />

quali scritture di comparazione, al fine di accertare<br />

l’autore, tra i propri dipendenti, di uno scritto<br />

ingiurioso, ha affermato: “Invero, come affermato<br />

da questa Corte in analoghe occasioni, in tema<br />

di trattamento dei dati personali l’interesse alla<br />

riservatezza, tutelato dall’ordinamento positivo,<br />

recede quando quest’ultimo sia esercitato per la<br />

difesa di un interesse giuridicamente rilevante e<br />

nei soli ovvi limiti in cui esso sia necessario alla<br />

tutela. La L. 675 del 1996, infatti, non configurando<br />

uno “statuto generale della persona”, non<br />

si applica generalizzatamente ad ogni situazione<br />

soggettiva comunque riconducibile al novero<br />

dei diritti della persona, ma soltanto a quelle tra<br />

le predette situazioni soggettive che rientrano<br />

nell’ambito di applicazione della L. 675 del 1996<br />

come normativamente delineato in relazione al<br />

fenomeno del “trattamento dei dati personali”,<br />

precludendo l’accesso solo per quei documenti<br />

relativi ai dati sensibili della persona (vita privata,<br />

riservatezza sullo stato di salute, fede religiosa,<br />

difesa della dignità umana) (Cass. 24 maggio<br />

2<strong>00</strong>3 n. 8239).<br />

Di conseguenza deve escludersi che sempre ed in<br />

ogni caso, quando si abbia una divulgazione dei<br />

Approfondimenti<br />

dati relativi alla persona, si realizzi una violazione<br />

della L. 675 del 1996 a tutela del legittimo titolare<br />

dei dati personali, non potendosi prescindere da<br />

un giudizio di comparazione, rimesso al giudice di<br />

merito, degli interessi in gioco.”<br />

Giudizio di comparazione che, nel caso del diritto<br />

di accesso ai documenti amministrativi, è già effettuato<br />

nella legge, ove è risolto sempre e comunque<br />

a favore dell’accesso, non appena esso sia necessario<br />

per la tutela di propri diritti. Un minimo<br />

spazio di valutazione residua, quindi, soltanto per<br />

l’accertamento del presupposto della necessità,<br />

che però non potrà certo negarsi per il solo fatto,<br />

ad esempio, che le accuse sono reperibili altrove.<br />

La tutela dovrà ritenersi necessaria ogni qual volta<br />

il richiedente possa trarre una sia pur minima<br />

utilità dall’esame dei documenti dei quali chiede<br />

l’accesso, ai fini delle valutazioni operabili nella<br />

prospettiva della presentazione di un ricorso, sia<br />

amministrativo che giudiziale, o addirittura per la<br />

prospettata ipotesi di una qualsiasi altra iniziativa<br />

di tutela o difesa di propri interessi (come recita<br />

testualmente il comma 7 dell’art. 24 citato): ad<br />

esempio una denuncia, una querela, una istanza<br />

amministrativa, ecc. Ogni altra valutazione, nel<br />

caso di richieste per la tutela di diritti o interessi<br />

giuridici, è esclusa dalla legge e non può quindi<br />

essere svolta né dalle pubbliche amministrazioni,<br />

né dai giudici.<br />

Insomma il diritto di accesso alle dichiarazioni<br />

rese dai lavoratori è per il datore di lavoro sempre<br />

garantito e non vi possono più essere ostacoli o<br />

riserve di alcun tipo ad una piena attuazione di<br />

esso da parte delle pubbliche amministrazioni,<br />

chiamate a rivedere i loro regolamenti interni<br />

quando inadeguati, e soprattutto dai giudici amministrativi,<br />

chiamati, se del caso, a disapplicare<br />

i medesimi.<br />

Le sentenze commentate, per conseguenza, lungi<br />

dal poter essere encomiate come fatto da alcuni<br />

primi commentatori 9 , risultano gravemente ingiuste,<br />

superate dall’ordinamento, e non dovrebbero<br />

trovare alcun seguito.<br />

(9) Ci si riferisce agli avvocati INPS Lidia Carcavallo e Francesca Ferrazzoli, nella citata Inf. prev. n. 3/2<strong>00</strong>8.<br />

19


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Approfondimenti<br />

Ripartizione dell’onere della prova nelle<br />

opposizioni a cartelle di pagamento dell’Inps<br />

in relazione a pretese contributive<br />

ELIA NOTARANGELO<br />

Tribunale di Alba, Sezione <strong>Lavoro</strong>, Est. Marson, 23 maggio 2<strong>00</strong>8<br />

Con ricorso depositato il 4 dicembre 2<strong>00</strong>6 e regolarmente notificato, il signor C.A., titolare della<br />

“FARMACIA (omissis)”, proponeva opposizione avverso la cartella esattoriale I.N.P.S. n. (omissis),<br />

notificata in data 26 ottobre 2<strong>00</strong>6, contestando la fondatezza delle richieste economiche ivi<br />

formulate.<br />

Nel dettaglio, il ricorrente, titolare di farmacia ed iscritto all’albo dei farmacisti e all’ENPAF,<br />

contestava le risultanze del verbale di accertamento I.N.P.S., nonché la conseguente emissione<br />

della cartella esattoriale opposta, con la quale gli venivano addebitate omissioni contributive<br />

nella gestione commercianti relativamente alla posizione della coniuge, iscritta d’ufficio quale<br />

coadiutore familiare, contestando altresì la propria iscrizione nella stessa gestione quale titolare<br />

non attivo.<br />

A fondamento del ricorso sosteneva che, quale che fosse l’attività concretamente svolta all’interno<br />

della propria farmacia, ciò non avrebbe consentito il mutamento della propria qualifica di professionista,<br />

già iscritto alla cassa gestita dal proprio ordine professionale, con illegittima iscrizione<br />

d’ufficio nella gestione commercianti dell’I.N.P.S.<br />

In merito alla posizione del coadiutore affermava l’inesistenza di disposizioni legislative che imponessero<br />

l’iscrizione del collaboratore dell’impresa familiare il cui titolare sia un farmacista nella<br />

gestione commercianti I.N.P.S.<br />

Infine, rilevava l’erroneo sillogismo operato dagli agenti accertatori tra le previsioni nell’atto di<br />

costituzione dell’impresa familiare dell’attività del collaboratore con i requisiti di abitualità e prevalenza<br />

ex l. 662/96, in ogni caso sostenendo l’irrilevanza del fatto che il collaboratore lavorasse<br />

con carattere di abitualità e prevalenza.<br />

Contestava, in via di mero subordine, la quantificazione delle sanzioni, invocando l’applicazione<br />

dell’art. 116, comma decimo, l. 2<strong>00</strong>0/388.<br />

Conveniva quindi in giudizio l’I.N.P.S., nonché la S.C.C.I. e la UNIRISCOSSIONI s.p.a.<br />

Si costituiva in giudizio, in proprio e quale mandatario della società di cartolarizzazione S.C.C.I.,<br />

l’I.N.P.S., il quale concludeva per il rigetto dell’opposizione.<br />

(omissis)<br />

20


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Quanto alla normativa applicabile al caso di specie ed alle questioni di diritto prospettate<br />

Approfondimenti<br />

Il presente giudizio impone in via principale di accertare la legittimità in punto di diritto della<br />

scelta operata dall’I.N.P.S. di procedere d’ufficio all’iscrizione dei titolari di farmacie alla gestione<br />

separata dei commercianti quale titolare non attivo e, conseguentemente, imporre l’iscrizione del<br />

collaboratore dell’impresa familiare nella gestione commercianti.<br />

Assumono a proposito i ricorrenti che i farmacisti siano esclusi dall’applicazione della disciplina del<br />

commercio, non essendo possibile assimilare l’attività svolta nella farmacia all’attività commerciale,<br />

con conseguente illegittimità della richiesta contributiva avanzata.<br />

Tale assunto, sulla cui base, in buona sostanza, si fonda l’intero complesso argomentativo dei ricorrenti<br />

non si ritiene condivisibile.<br />

Come esposto anche nell’ordinanza n. 448/2<strong>00</strong>7 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato<br />

l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli art. 1 e 2 l. 613/1966 e 1 l.<br />

1397/1960, sollevata dal giudice di Torino in fattispecie analoga a quelle in questa sede esaminate,<br />

il quadro normativo di riferimento nella presente fattispecie è quello risultante dal disposto del<br />

D.Lgs. 114/1998, che definisce quali attività rientrino nella disciplina del commercio (art. 4, comma<br />

secondo lett. a), escludendo l’operatività di tale norma “ai farmacisti e ai direttori delle farmacie<br />

comunali qualora vendano esclusivamente prodotti farmaceutici, specialità medicinali, dispositivi<br />

medici e presidi medico-chirurgici”.<br />

Discende da tale norma che, qualora nella farmacia siano posti in commercio anche prodotti non<br />

medicinali e non medicali, può dirsi sussistente un settore tipicamente commerciale dell’attività<br />

dell’esercizio-farmacia, che comporta quindi il venir meno della esclusività della vendita dei prodotti<br />

che caratterizzano la natura della farmacia.<br />

Lo svolgimento di questa ulteriore attività non rende più il farmacista esente dalla normativa sul<br />

commercio e comporta che questi, almeno per l’attività di commercializzazione di prodotti non<br />

medici e non medicali, debba considerarsi titolare di un’attività commerciale ai sensi dell’art. 1 l.<br />

1397/1960, pertanto iscrivibile d’ufficio nella gestione commercianti dell’I.N.P.S.<br />

In relazione agli obblighi connessi a tale situazione, deve essere in questa sede richiamato quanto<br />

previsto dall’art. 10, secondo comma l. 613/1966, che pone direttamente a carico del titolare<br />

dell’impresa commerciale l’obbligo del pagamento dei contributi anche per i familiari coadiutori,<br />

salvo il diritto di rivalsa nei loro confronti.<br />

Posto che nel caso in esame deve trovare applicazione la normativa sul commercio per la parte di<br />

attività individuata in negativo dall’art. 4, comma secondo lett. a), D.Lgs. 114/1998 e che discende<br />

da ciò l’obbligo di cui all’art. 10, secondo comma, l. 613/1966, deve essere precisato, con riferimento<br />

ai familiari coadiutori da iscrivere nell’assicurazione obbligatoria IVS, che tali si considerano i<br />

soggetti che, legati al titolare dal rapporto di parentela meglio individuato dalla legge, partecipino<br />

al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza.<br />

Tanto la sussistenza del rapporto di parentela previsto, quanto le caratteristiche dell’attività svolta<br />

dai soggetti legati agli odierni ricorrenti (per la disamina in dettaglio di questi profili riservandosi di<br />

meglio e più dettagliatamente motivare in seguito) devono ritenersi integrati in tutte le fattispecie<br />

di cui ci si occupa, ciò da cui sorgono gli obblighi contributivi per cui è causa.<br />

A proposito dei dubbi di incostituzionalità sollevati dai ricorrenti, si osserva che l’interpretazione<br />

qui adottata appare non solo la più aderente alla realtà socio-economica che oggi è propria dell’esercizio<br />

delle farmacie, ma appare anche quella costituzionalmente meglio orientata ed appagante,<br />

assicurando una tutela previdenziale a soggetti che ne rimarrebbero altrimenti privi.<br />

21


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Approfondimenti<br />

Alla luce delle considerazioni che precedono, deve quindi essere dichiarata l’infondatezza in diritto<br />

delle opposizioni in questa sede proposte, essendo da ritenere fondato il provvedimento di iscrizione<br />

del coadiuvante dell’impresa familiare nella gestione IVS commercianti I.N.P.S.<br />

Quanto all’accertamento dei fatti concreti che integrano il presupposto per l’emissione della cartella<br />

Il difensore dei ricorrenti ha dedotto in merito a tale profilo l’omissione da parte degli organismi<br />

ispettivi di ogni valutazione in concreto circa l’effettiva sussistenza dei fatti posti a fondamento<br />

delle decisioni sulla base di tale valutazione successivamente assunte.<br />

Gli argomenti sostenuti al proposito dal difensore dei ricorrenti riguardano, nel dettaglio, la<br />

mancata prova in merito al fatto che nelle farmacie interessate si svolga in via esclusiva attività<br />

di commercializzazione di prodotti farmaceutici strictu sensu intesi, che tale attività, anche ove<br />

effettivamente effettuata, non sia in concreto svolta dai coadiutori, che la prestazione soggetta a<br />

contribuzione rivesta i caratteri della abitualità e prevalenza, tutti aspetti posti a fondamento della<br />

iscrizione a ruolo che sarebbero rimasti privi di riscontri concreti.<br />

La genericità delle eccezioni sotto tale profilo sollevate induce a ritenere infondati i rilievi di cui trattasi.<br />

A fronte della prova documentale allegata dai ricorrenti medesimi, costituita dal verbale di accertamento<br />

redatto in occasione delle ispezioni svolte all’interno delle singole farmacie, questo<br />

giudice ritiene operante il secondo comma dell’art. 2697 c.c. che impone al soggetto che eccepisca<br />

l’inefficacia dei fatti costituenti il fondamento della domanda nei suoi confronti proposta l’onere<br />

di dimostrare la sussistenza dei fatti sui quali l’eccezione si fonda.<br />

Tale questione è stata anche dibattuta e risolta dalla Corte di Cassazione con un orientamento consolidatosi<br />

a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2<strong>00</strong>1 in tema di inadempimento contrattuale.<br />

In quella sede è stato ribadito un principio, già invero precedentemente affermato, che valorizza l’effettiva<br />

possibilità per l’una o per l’altra parte di offrire la prova della fondatezza delle proprie ragioni.<br />

In applicazione del principio cosiddetto di vicinanza alla prova, le Sezioni Unite della Corte di<br />

Cassazione hanno affermato, con riferimento alla materia dei contratti, che il creditore può limitarsi<br />

a dedurre l’esistenza dell’obbligazione e la sua intervenuta scadenza, mentre compete al debitore<br />

dare la prova di fatti modificativi, estintivi o impeditivi di questa, sulla base della constatazione che<br />

tale prova appare più agevolmente raggiungibile dal soggetto che assume di nulla dovere, rispetto<br />

a quello che, invece, deduce un proprio credito.<br />

Analoghe considerazioni si ritiene possano valere nel caso di specie, considerando che il porre a<br />

carico del soggetto sottoposto a verifica da parte degli organi accertativi dell’I.N.P.S. la prova della<br />

insussistenza dei presupposti in fatto sui quali è basata la decisione circa l’esistenza e la consistenza<br />

dell’onere contributivo (che, si ribadisce, possono ritenersi documentalmente dimostrati alla luce<br />

dei verbali di accertamento in atti) soddisfa in pieno i condivisi principi giurisprudenziali sopra<br />

richiamati in tema di onere della prova.<br />

Nel caso di specie, ritiene questo giudice che la posizione dei ricorrenti nel dimostrare di commercializzare<br />

in via esclusiva prodotti farmaceutici, di impiegare i propri collaboratori in attività differenti<br />

da quelle indicate, quanto meno senza i caratteri della abitualità e prevalenza, sia indubitabilmente<br />

più agevole rispetto a quella che competerebbe all’I.N.P.S. di provare il contrario.<br />

In applicazione del principi di vicinanza alla prova, deve dunque ritenersi che competesse ai ricorrenti<br />

allegare e dimostrare la sussistenza di una situazione di fatto difforme da quella che l’I.N.P.S.<br />

ha posto a fondamento della propria decisione, così come cristallizzata nei verbali di accertamento<br />

allegati agli atti.<br />

22


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Approfondimenti<br />

Al proposito, deve evidenziarsi che il difensore dei ricorrenti, in relazione alle singole fattispecie<br />

dedotte in ciascuno dei giudizi riuniti, ha sollevato rilievi estremamente generici, tali da impedire<br />

un vaglio in concreto della fondatezza di questi, al proposito non ritenendosi sufficiente la mera contestazione<br />

(o interpretazione) di quanto riportato (o non riportato) nei verbali di accertamento.<br />

Particolarmente significativo a tale scopo si ritiene il fatto che il difensore dei ricorrenti non abbia<br />

formulato alcun capitolo di prova orale a sostegno delle proprie ragioni e che l’unica prova documentale<br />

allegata all’udienza fissata per gli incombenti di cui all’art. 429 c.p.c., ritenuta utilizzabile<br />

in assenza di rilievi da parte del resistente, sia costituita da una genericissima rilevazione statistica<br />

su base nazionale.<br />

Le considerazioni che precedono inducono a ritenere l’infondatezza dei rilievi sotto questo profilo<br />

formulati.<br />

Quanto esposto si ritiene assorbente anche in relazione alla domanda subordinata di declaratoria di<br />

illegittimità del verbale per assenza di riscontri probatori, pure sollevata dal difensore dei ricorrenti.<br />

Quanto alla pretesa insussistenza dei dati sulla base dei quali calcolare la contribuzione dovuta dai ricorrenti<br />

Non condivisibile si ritiene quanto dedotto dal difensore dei ricorrenti circa il fatto che l’I.N.P.S.<br />

avrebbe erroneamente fatto riferimento ai dati di natura prettamente fiscale comunicati dai titolari<br />

delle farmacie, deducendone l’inutilizzabilità a fini previdenziali.<br />

Tale impostazione non può essere condivisa alla luce di quanto previsto dall’art. 1 comma quinto<br />

l. 233/1990, ai sensi del quale “l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti<br />

alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività<br />

commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante<br />

dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo<br />

all’anno precedente”.<br />

Quanto al regime sanzionatorio applicabile ed alla prescrizione<br />

Lo scrivente condivide al proposito le argomentazioni proposte dal difensore dei ricorrenti, il quale<br />

ha invocato, in via subordinata, l’applicazione dell’art. 116, comma decimo l. 388/2<strong>00</strong>0 per i casi<br />

di omissione contributiva.<br />

La norma in questione prevede che “nei casi di mancato o ritardato pagamento di contributi o<br />

premi derivanti da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o<br />

amministrativi sulla ricorrenza dell’obbligo contributivo, successivamente riconosciuto in sede<br />

giudiziale o amministrativa, sempreché il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro il<br />

termine fissato dagli enti impositori, si applica una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso<br />

ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40<br />

per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge”.<br />

Ritiene questo giudice che la fattispecie appena descritta possa dirsi pacificamente integrata nel caso<br />

di specie, allo scopo essendo sufficiente considerare che la mancata iscrizione dei coadiuvanti derivi<br />

da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali e amministrativi.<br />

Lo stesso istituto resistente ha assunto sul punto decisioni che sono mutate nel tempo, escludendo<br />

inizialmente la sussistenza di un tale obbligo, per poi ammetterlo a condizione del ricorrere di<br />

determinati requisiti, infine provvedendo, a partire dal 2<strong>00</strong>4 e quindi a circa vent’anni di distanza<br />

dall’ultima indicazione, ad iscrivere d’ufficio i collaboratori familiari in fattispecie come quella<br />

qui affrontata.<br />

23


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

La sentenza commentata si inserisce, in maniera<br />

sicuramente innovativa ed a tratti in controcorrente,<br />

nel panorama giurisprudenziale formatosi<br />

sulla ripartizione dell’onere probatorio nelle<br />

cause aventi ad oggetto la pretesa contributiva<br />

INPS, azionata mediante c.d. “cartolarizzazione”,<br />

ovvero mediante iscrizione a ruolo dei contributi<br />

(omessi o evasi) e successiva emissione di cartella<br />

di pagamento 1 .<br />

Nel merito, la decisione ha affrontato la questione<br />

concernente l’obbligo assicurativo dei familiari del<br />

farmacista, non iscritti all’albo professionale, che<br />

collaborano nell’impresa familiare.<br />

Benché non sia intenzione dello scrivente affrontare<br />

l’argomento deciso - anche per l’impossibilità<br />

di trattare in questa sede una questione così complessa<br />

- appare necessario, comunque, fornire sul<br />

punto alcuni preliminari cenni, per poter meglio<br />

comprendere il successivo argomentare in materia<br />

di ripartizione dell’onere probatorio.<br />

La vicenda prende le mosse da una circolare<br />

INPS (n. 70 del 26.4.2<strong>00</strong>4), che ha espresso un<br />

orientamento teso ad iscrivere alla Gestione dei<br />

Commercianti i titolari di farmacie (con posizione<br />

Approfondimenti<br />

Il susseguirsi di differenti orientamenti sul punto è stato certamente in grado di ingenerare una<br />

situazione di incertezza sulla estensione dell’obbligo contributivo, che impone pertanto, in accoglimento<br />

della domanda subordinata dei ricorrenti, di stabilire che le sanzioni da applicare per i<br />

contributi dovuti siano calcolate nella misura prevista dall’art. 116, comma 10 l. 388/2<strong>00</strong>0.<br />

Per quanto concerne l’intervenuta prescrizione di alcune delle poste controverse, il difensore<br />

dell’I.N.P.S. ha espressamente dichiarato in sede di discussione ex art. 429 c.p.c. di rinunciare<br />

ai crediti maturati in epoca antecedente il 1998.<br />

Alla luce di quanto precede ed indipendentemente da quanto dichiarato in merito al fatto che<br />

l’istituto abbia provveduto o stia comunque provvedendo al relativo sgravio, deve dichiararsi che<br />

nulla è dovuto per i periodi antecedenti l’1 gennaio 1998. (omissis)<br />

non attiva, ovvero non produttiva di obbligo contributivo<br />

personale) ed i loro coadiutori familiari,<br />

per questi ultimi con obbligo di versamento dei<br />

contributi obbligatori per l’I.V.S.<br />

Il fondamento dei predetti obblighi è stato rinvenuto<br />

nell’art. 4, II comma, D.Lgs. 31 marzo<br />

1998 n. 114, che ha qualificato come attività<br />

commerciale, mediante una formulazione in negativo,<br />

quella dei farmacisti che non si limitano<br />

a vendere esclusivamente prodotti farmaceutici,<br />

specialità medicinali, dispositivi medici e presidi<br />

medico-chirurgici, ma che commercializzano<br />

anche altri prodotti, come i c.d. parafarmaci, i<br />

prodotti per l’igiene, i prodotti per l’infanzia, i<br />

cosmetici, etc. 2 .<br />

Conseguenza della qualificazione commerciale dell’attività<br />

svolta dal farmacista, in relazione a prodotti<br />

non medici o medicali è, secondo l’Ente previdenziale,<br />

la piana applicazione degli artt. 1 e 2 della Legge<br />

22 luglio 1966, n. 613, secondo cui vanno iscritti<br />

alla Gestione Commercianti, insieme ai titolari di<br />

imprese commerciali, anche i loro familiari coaudiutori,<br />

sempre se “partecipano al lavoro aziendale con<br />

carattere di abitualità e prevalenza” 3 .<br />

(1) Cfr. D.Lgs., 26 febbraio 1999, n. 46.<br />

(2) Art. 4, II comma, D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 114: “Il presente decreto (che, ai sensi dell’art. 1, “stabilisce i principi e le norme generali sull’esercizio<br />

dell’attività commerciale”, ndr) non si applica: a) ai farmacisti e ai direttori di farmacie delle quali i comuni assumono l’impianto e l’esercizio ai<br />

sensi della legge 2 aprile 1968, n. 475, e successive modificazioni, e della legge 8 novembre 1991, n. 362, e successive modificazioni, qualora vendano<br />

esclusivamente prodotti farmaceutici, specialità medicinali, dispositivi medici e presidi medico-chirurgici; (omissis)”.<br />

(3) Art. 1, I comma, Legge 22 luglio 1966, n. 613: “L’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti è estesa agli esercenti<br />

piccole imprese commerciali iscritti negli elenchi degli aventi diritto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie istituita con legge 27 novembre<br />

1960, n. 1397, agli ausiliari del commercio ed agli altri lavoratori autonomi iscritti nei predetti elenchi, nonché ai loro familiari coadiutori, indicati<br />

nell’articolo seguente”.<br />

Art. 2, II comma, legge cit.: “Agli effetti della presente legge, si considerano familiari coadiutori il coniuge, i figli legittimi o legittimati ed i nipoti<br />

in linea diretta gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, che partecipano al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, sempreché per tale<br />

attività non siano soggetti all’assicurazione generale obbligatoria in qualità di lavoratori dipendenti o di apprendisti ”.<br />

24


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Sulla scorta dell’orientamento generale espresso<br />

nella menzionata circolare, i servizi ispettivi presso<br />

le sedi INPS hanno compiuto accertamenti presso<br />

migliaia di farmacie sull’intero territorio nazionale.<br />

Pur non dando per pacifica la ricostruzione fornita<br />

dall’INPS, avversata dalle Associazioni di<br />

categoria dei Farmacisti ed oggetto comunque<br />

di contrasti giurisprudenziali, si deve partire dal<br />

presupposto che il Giudice del <strong>Lavoro</strong> di Alba ha<br />

ritenuto di aderirvi.<br />

Non è seriamente contestabile, peraltro, che<br />

- anche a sposare la tesi dell’Ente Previdenziale<br />

- l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti<br />

ed il relativo obbligo contributivo, imposto ai<br />

familiari coadiutori del farmacista, passino necessariamente<br />

attraverso la sussistenza di tre requisiti,<br />

che debbono essere accertati nel concreto:<br />

la commercializzazione, da parte del farmacista,<br />

di prodotti diversi da quelli medici o medicali<br />

citati all’art. 4 del D.Lgs. 114/98 4 ;<br />

lo svolgimento, da parte del familiare, risultante<br />

coadiutore dell’impresa familiare, di un’attività<br />

lavorativa diretta all’interno della Farmacia 5 ;<br />

lo svolgimento, da parte del familiare coadiutore,<br />

di un’attività con caratteri di prevalenza<br />

e continuatività.<br />

Sembra, peraltro, che gli accertamenti ispettivi<br />

avviati dalle sedi dell’INPS in tutta Italia - ivi<br />

compresi quelli posti a base delle cartelle esattoriali<br />

opposte, su cui è intervenuta la sentenza<br />

commentata -, si siano limitati a verificare, mediante<br />

supporto documentale, che i farmacisti<br />

fossero iscritti alla C.C.I.A.A., come piccoli<br />

imprenditori, e che sussistessero delle imprese<br />

familiari, facendone discendere de plano ed in<br />

via generalizzata l’iscrizione di tutti i familiari<br />

coadiutori risultanti dalla documentazione. Sem-<br />

Approfondimenti<br />

bra, inoltre, che gli agenti ispettori non abbiano<br />

verificato lo svolgimento in concreto, da parte dei<br />

farmacisti, dell’attività di commercializzazione dei<br />

parafarmaci (dandolo come fatto notorio), ovvero<br />

lo svolgimento in concreto di attività lavorativa<br />

all’interno della farmacia da parte dei familiari del<br />

titolare (tanto meno avendo rilevato i caratteri<br />

dell’abitualità e prevalenza).<br />

Gli atti introduttivi delle cause decise dal Giudice<br />

del <strong>Lavoro</strong> di Alba con la sentenza in commento,<br />

forse fondandosi sul maggioritario orientamento<br />

giurisprudenziale formatosi in materia di ripartizione<br />

dell’onere della prova nelle controversie previdenziali<br />

(ut infra), si sono limitati a contestare la<br />

pretesa dell’INPS, evidenziando la mancata prova,<br />

da parte dell’Ente previdenziale, circa l’esistenza<br />

degli elementi costitutivi della pretesa azionata,<br />

così come sopra descritti.<br />

Il Giudice del <strong>Lavoro</strong> adito, tuttavia, ha rigettato<br />

le opposizioni, censurando la genericità delle contestazioni<br />

e l’assenza di idonee offerte istruttorie<br />

(in particolare della prova testimoniale) da parte<br />

degli stessi ricorrenti.<br />

Tra le ragioni di detto convincimento vi è, in<br />

primo luogo, l’attribuzione al verbale di accertamento<br />

- prodotto dagli stessi ricorrenti - del valore<br />

di prova documentale, atta di per sé a far ritener<br />

fondata la pretesa previdenziale.<br />

Partendo da tale presupposto, il Giudicante ha ritenuto<br />

applicabile alla fattispecie il II comma dell’art.<br />

2697 c.c., secondo cui grava su chi intende contestare<br />

l’efficacia dei fatti costituenti il fondamento<br />

della domanda avversaria, l’onere di dimostrare la<br />

sussistenza dei fatti sui quali l’eccezione si fonda.<br />

Infine, ed è questo il punto nodale della decisione<br />

- che rende unico l’orientamento giurisprudenziale,<br />

almeno ad oggi -, il Giudice del <strong>Lavoro</strong> ha<br />

esteso alla fattispecie il principio di c.d. riferibilità<br />

(4) Secondo altri giudici di merito che hanno deciso sulla materia, non è corretto presumere “sempre e comunque in una farmacia, sol perché<br />

moderna e adeguata alle esigenze della utenza, l’effettivo utilizzo della autorizzazione commerciale alla vendita dei generi merceologici elencati<br />

nella Tabella n. 9 relativa ai titolari di farmacie (ben potendo l’attività strettamente commerciale essere meramente eventuale…), né potendo la<br />

circostanza di fatto ricavarsi dal dato puramente formalistico ricavabile dall’oggetto sociale necessariamente correlato alla iscrizione alla Camera di<br />

Commercio quale “piccolo imprenditore” ex art. 2083 c.c. o dall’atto costitutivo dell’impresa familiare ex art. 230 bis c.c.” (Trib. Verbania, 15 marzo<br />

2<strong>00</strong>6, n. 38, est. Riccobono; conforme: Trib. Arezzo, 23 giugno 2<strong>00</strong>6 n. 392).<br />

(5) Secondo le tesi difensive dei farmacisti, l’attività dei familiari coadiutori, affinché sorga l’obbligo di loro iscrizione alla gestione commercianti,<br />

deve concretamente riguardare proprio la commercializzazione dei prodotti esclusi dall’elenco di cui all’art. 4 D.Lgs. 114/98 (vendita di parafarmaci,<br />

cosmetici, etc.), con la conseguenza che dovrebbe ritenersi esonerato il coadiutore che presti la propria attività in famiglia o per lo svolgimento di<br />

attività diverse, quali quelle di pulizia, quelle amministrative, etc.<br />

25


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

o vicinanza della prova, enucleato dalla giurisprudenza<br />

a partire dalla nota sentenza della<br />

Cassazione a S.U. n. 13533 del 2<strong>00</strong>1, affermando<br />

che “la posizione dei ricorrenti nel dimostrare<br />

di commercializzare in via esclusiva prodotti<br />

farmaceutici, di impiegare i propri collaboratori<br />

in attività differenti da quelle indicate, quanto<br />

meno senza i caratteri della abitualità e prevalenza,<br />

sia indubitabilmente più agevole rispetto<br />

a quella che competerebbe all’I.N.P.S. di provare<br />

il contrario”.<br />

La tesi fatta propria dal Giudice del <strong>Lavoro</strong>, nella<br />

sentenza commentata, benché indubbiamente<br />

motivata in maniera sapiente, non convince appieno<br />

sulla scorta delle seguenti considerazioni.<br />

La premessa da cui partire, per una corretta ripartizione<br />

dell’onere della prova in materia di pretesa<br />

contributiva previdenziale, è quella per cui l’Ente<br />

Previdenziale, indipendentemente dalla veste<br />

formale che assuma nel giudizio, rimane attore<br />

sostanziale.<br />

La c.d. cartolarizzazione dei crediti contributivi,<br />

infatti, ha consentito all’INPS (e ad altri Enti)<br />

di non doversi precostituire un titolo giudiziario<br />

per procedere al recupero delle somme di propria<br />

competenza. Chi subisce, invece, la pretesa<br />

dell’Ente, espressa nelle forme della cartella di<br />

pagamento, ha facoltà di opporre quest’ultimo<br />

atto (entro quaranta giorni dalla notifica, termine<br />

ritenuto ormai pacificamente imposto a<br />

pena di decadenza), ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs.<br />

46/99, ossia mediante ricorso dinanzi al Giudice<br />

del <strong>Lavoro</strong>.<br />

Nel giudizio di opposizione a cartella, l’opponente<br />

assume le vesti formali di ricorrente, mentre<br />

l’INPS quelle di resistente, ma non v’è dubbio che,<br />

Approfondimenti<br />

sotto il profilo sostanziale, sia proprio quest’ultimo<br />

a vestire gli abiti dell’attore 6 .<br />

Ne consegue che ricade sull’INPS l’onere di provare<br />

gli elementi costitutivi del diritto azionato,<br />

ovvero i presupposti dell’obbligo contributivo 7 ,<br />

mentre all’opponente è sufficiente contestare la<br />

pretesa e resistere, se del caso adducendo nuovi<br />

fatti impeditivi, estintivi o modificativi, dedotti<br />

a fondamento di eccezioni in senso stretto (prescrizione,<br />

compensazione, estinzione per avvenuto<br />

pagamento, etc.).<br />

Tra gli strumenti di prova di cui l’INPS si avvale<br />

solitamente, assume rilevanza preminente il verbale<br />

di accertamento ispettivo, il quale, però, fa<br />

piena prova - fino a querela di falso - solamente<br />

della sua provenienza dagli agenti accertatori e<br />

dei fatti che gli stessi attestano avvenuti in loro<br />

presenza o da loro stessi compiuti.<br />

Con riferimento alle dichiarazioni di terzi raccolte<br />

nel verbale, quest’ultimo fa piena prova del fatto che<br />

la dichiarazione è stata resa e dell’identità del dichiarante,<br />

non di certo della veridicità dei fatti narrati.<br />

Le dichiarazioni raccolte, quand’anche confermate<br />

dall’ispettore in sede di giudizio, non costituiscono<br />

né prova piena, né prova liberamente apprezzabile,<br />

ma tutt’al più un mero argomento di prova 8 .<br />

Il verbale, inoltre, è del tutto irrilevante sul piano<br />

probatorio - non costituendo neppure argomento<br />

di prova - nella parte in cui sono espressi il convincimento<br />

soggettivo dell’agente ispettore e le<br />

conclusioni giuridiche in merito alla qualificazione<br />

di una determinata vicenda 9 .<br />

A maggior ragione, il verbale di accertamento<br />

non può costituire prova alcuna di fatti e circostanze<br />

non descritti, ma semplicemente dati per<br />

(6) Cass. Sez. Lav., 19 maggio 2<strong>00</strong>1, n. 6858; Cass. Sez. Lav., 8 agosto 2<strong>00</strong>6, n. 17944; in senso conforme, su pretese per sanzioni amministrative<br />

o su pretese azionate in via monitoria, cfr. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2<strong>00</strong>7, n. 5277; Cass. civ., sez. II, 30 luglio 2<strong>00</strong>4, n. 14556.<br />

(7) Tra le tante: Cass. Sez. Lav., 13 settembre 2<strong>00</strong>3, n. 13467; Cass. Sez. Lav., 13 giugno 2<strong>00</strong>2, n. 8502; Cass. Sez. Lav., 29 luglio 1999, n. 8253;<br />

Trib. Savona, Sez. <strong>Lavoro</strong>, 26 luglio 2<strong>00</strong>7.<br />

(8) Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2<strong>00</strong>4, n. 14235; Cass. Sez. Lav., 22 agosto 2<strong>00</strong>3 n. 12357. In senso parzialmente contrario, però, Cass. Sez. Lav.,<br />

14 aprile 2<strong>00</strong>8, n. 9812, secondo cui “I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali o dagli ispettori del lavoro possono costituire prova<br />

sufficiente delle circostanze riferite dai lavoratori al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso di altri elementi<br />

renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori”; conformi a quest’ultimo recente orientamento, Cass. Sez. Lav., 2 ottobre 2<strong>00</strong>8, n. 24416;<br />

Cass. Sez. Lav., 6 giugno 2<strong>00</strong>8, n. 15073; Cass. n. 3525/2<strong>00</strong>5, n. 15702/2<strong>00</strong>4, n. 9827/2<strong>00</strong>0.<br />

(9) “Il convincimento soggettivo dell’Ispettore espresso nelle conclusioni del verbale è irrilevante sul piano probatorio. Esso non è idoneo neppure<br />

a fondare una presunzione giurisprudenziale in quanto il progetto di sentenza del funzionario pubblico non può fungere da situazione socialtipica<br />

indiziante atta ad investire l’onere probatorio (VALLEBONA, L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, 177”; CARLO PISANI, Il valore<br />

probatorio dei verbali ispettivi, in Colloqui Giuridici sul <strong>Lavoro</strong>, speciale di Guida al <strong>Lavoro</strong> 1/2<strong>00</strong>7.<br />

26


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

presupposti o scontati dagli agenti ispettori, nell’argomentare<br />

logico che li ha portati a formulare<br />

determinate conclusioni.<br />

Nei casi concreti al vaglio del Giudice del <strong>Lavoro</strong><br />

di Alba, i verbali di accertamento non davano<br />

atto - per quanto è possibile sapere (stante il<br />

difetto di legittimazione degli scriventi per poter<br />

accedere agli atti del processo) - della diretta<br />

percezione, da parte degli ispettori, di un’attività<br />

di vendita promiscua (di prodotti medicali e<br />

non) all’interno delle farmacie, né contenevano<br />

il rilevamento diretto, da parte degli ispettori<br />

stessi, di uno svolgimento di attività lavorativa<br />

da parte dei familiari coadiutori, tanto meno nella<br />

commercializzazione dei prodotti non medici (a<br />

maggior ragione non risultavano circostanze da<br />

cui potesse desumersi l’abitualità e prevalenza di<br />

siffatta attività). A tale conclusione deve giungersi<br />

se si consideri che, diversamente, i ricorrenti non<br />

si sarebbero limitati a contestare la presenza dei<br />

presupposti, ma avrebbero avviato ben diverse<br />

iniziative, quale ad esempio la querela di falso. Né<br />

la sentenza avrebbe rigettato le domande attore e<br />

per assenza di allegazioni o di offerte istruttorie,<br />

non essendo ammissibili prove in contrasto con<br />

una prova legale.<br />

I verbali in questione, però, contenevano verosimilmente<br />

una ricognizione della documentazione<br />

ispezionata direttamente dagli agenti accertatori,<br />

dalla quale emergeva forse l’iscrizione dei farmacisti<br />

alla C.C.I.A.A. e l’esistenza di un’impresa<br />

familiare.<br />

Qualora si aderisca alla tesi dei ricorrenti, secondo<br />

cui l’accertamento in concreto dell’esistenza<br />

dei presupposti della pretesa vada compiuto in<br />

giudizio, a prescindere dal mero dato formalistico<br />

rilevato dalla C.C.I.A.A. o dall’esistenza formale<br />

di un’impresa familiare, potrebbe sostenersi che<br />

l’INPS sia in ogni caso chiamato a fornire la prova<br />

di siffatti presupposti nel concreto (peraltro di per<br />

sé non bastevoli).<br />

Nel caso concreto, però, potrebbe essere - almeno<br />

in parte - condivisibile l’opinare del Giudice<br />

del <strong>Lavoro</strong> di Alba, il quale, anche attraverso il<br />

richiamo all’art. 2697, II comma c.c., ha fornito un<br />

fondamento ben preciso all’inversione dell’onere<br />

probatorio.<br />

Approfondimenti<br />

In altri termini, se deve darsi per pacifico, o per<br />

documentalmente attestato, che i farmacisti erano<br />

iscritti alla C.C.I.A.A. (ovviamente per la vendita<br />

di prodotti parafarmaceutici), sulla base di dichiarazioni<br />

spontanee rese a quest’ultimo organismo,<br />

sarebbe stato onere di costoro fornire la prova di<br />

fatti impeditivi o modificativi, quali il mancato<br />

concreto svolgimento di siffatta attività.<br />

Allo stesso modo, se risultava documentale l’esistenza<br />

di familiari coadiutori, i quali per stessa<br />

previsione di legge (art. 230-bis c.c.), possono<br />

esser definiti tali solo in presenza di un’attività<br />

lavorativa svolta “in modo continuativo”, sarebbe<br />

forse stato onere dei ricorrenti fornire la prova che<br />

tale continuatività era mancata.<br />

La perplessità residua discende dal fatto che - ammesso<br />

sempre che per tutti i farmacisti sia stata<br />

compiuta la suddetta ricognizione documentale, in<br />

sede di accertamento ispettivo, e che essa fosse sufficiente<br />

- sarebbe rimasto il problema di verificare,<br />

nel concreto, se i coadiutori svolgessero attività<br />

proprio nell’azienda ed ai fini della commercializzazione<br />

dei prodotti parafarmaceutici, nonché<br />

se sussistesse l’ulteriore requisito congiunto della<br />

prevalenza della prestazione lavorativa. Di tali elementi<br />

la prova doveva esser fornita dall’INPS.<br />

Il passaggio motivo sicuramente più interessante,<br />

della sentenza commentata, è però quello del<br />

richiamo al principio della vicinanza della prova,<br />

principio in base al quale - sulla scorta della<br />

recente giurisprudenza formatasi a partire dalla<br />

sentenza a S.U. della Cassazione n. 13533/2<strong>00</strong>1<br />

(citata in sentenza) - l’onere della prova andrebbe<br />

ripartito tenendo conto, in concreto, della possibilità<br />

per l’uno o per l’altro soggetto di provare<br />

fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive<br />

sfere di azione.<br />

Siffatto principio, in termini pratici, mira a<br />

superare il fatto che il creditore incontrerebbe<br />

difficoltà notevoli se dovesse dimostrare di non<br />

aver ricevuto la prestazione, mentre a volte è più<br />

agevole per il debitore dimostrare il fatto estintivo,<br />

provando l’avvenuto adempimento e paralizzando,<br />

in tal modo, la domanda attrice.<br />

Vi sono state, di recente, numerose pronunzie<br />

applicative di siffatto principio, ad esempio nell’ambito<br />

dei rapporti di lavoro, considerata la<br />

27


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

difficoltà di reperimento della prova da parte del<br />

lavoratore rispetto al datore di lavoro 10 , così come<br />

il principio è stato applicato nell’ambito del rapporto<br />

medico/paziente 11 , considerata la medesima<br />

difficoltà di reperimento della prova riscontrata<br />

dal paziente, nonché in una serie di situazioni in<br />

cui sussiste, in capo ad una delle parti, un obbligo<br />

di salvaguardia o garanzia, come nel caso degli<br />

obblighi del custode, ex art. 2051 c.c.<br />

Se il principio surriferito è ormai parte del diritto<br />

vivente, non si concorda invece sulla sua estensione<br />

alla materia previdenziale, ed in particolare ai<br />

giudizi (o a tutti i giudizi) di opposizione a cartella<br />

esattoriale, per una serie di ragioni.<br />

In primo luogo, il principio in questione, come<br />

accennato, è stato finora applicato solo nell’ambito<br />

di rapporti contrattuali o di garanzia, laddove<br />

l’esistenza dell’obbligazione (negoziale o legale) è<br />

scontata o non contestata, discutendosi solo del<br />

suo corretto adempimento o della sua estinzione<br />

per causa diversa dall’esatto adempimento.<br />

Per ciò che concerne il rapporto previdenziale,<br />

per tale volendosi intendere, in questa sede, il<br />

rapporto tra il contribuente e l’Ente Previdenziale,<br />

potrebbe anche ipotizzarsi, in astratto,<br />

l’applicazione del concetto della vicinanza della<br />

prova, ma solo in relazione all’esecuzione di un<br />

rapporto pacifico nella sua esistenza, ove non è<br />

contestata la sussistenza dei presupposti dell’iscrizione<br />

ad una gestione ed il conseguente obbligo<br />

contributivo (si pensi ad una mera omissione<br />

Approfondimenti<br />

contributiva da mancato pagamento di contributi<br />

denunziati).<br />

Il problema, invece, non sembra di così semplice soluzione<br />

in relazione al momento genetico del rapporto<br />

previdenziale, considerando che esso non si crea<br />

sempre con connotati di pacificità, ma tante volte<br />

- come nel caso disaminato - viene unilateralmente<br />

imposto dall’Ente Previdenziale, mediante accertamenti<br />

e provvedimenti d’ufficio, sulla base della<br />

ritenuta (ma contestata) esistenza dei presupposti di<br />

legge per il sorgere dell’obbligo contributivo.<br />

Deve ritenersi sia un basilare principio di diritto,<br />

sotteso alla generale regola di ripartizione dell’onere<br />

della prova - che sarebbe oltremodo stravolto dal<br />

criterio della vicinanza della prova, così latamente<br />

inteso -, quello per cui chi pretenda da un altro<br />

soggetto una determinata prestazione, deve allegare<br />

e fornire la prova del titolo sulla base del quale<br />

agisce o, che è lo stesso, dell’esistenza dell’obbligazione<br />

stessa e di tutti i suoi elementi costitutivi.<br />

Nello stesso senso si è espressa, del resto la sentenza<br />

della Corte di Cassazione a Sezioni Unite,<br />

n. 13533/2<strong>00</strong>1 (citata nella sentenza commentata),<br />

che lascia ricadere comunque sull’attore<br />

sostanziale e creditore quantomeno la prova del<br />

titolo, negoziale o legale, sulla base del quale egli<br />

agisce in giudizio: “...il creditore che agisca per la<br />

risoluzione contrattuale, per il risarcimento del<br />

danno, ovvero per l’adempimento deve ... provare<br />

la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il<br />

relativo termine di scadenza...” 12 .<br />

(10) “La ripartizione dell’onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della<br />

fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio - riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di<br />

interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio - della riferibilità o vicinanza o disponibilità<br />

dei mezzi di prova; conseguentemente ove i fatti possano essere noti solo all’imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l’onere della<br />

prova negativa. (Nel caso di specie, relativo al riconoscimento del premio di produttività in relazione ai positivi risultati economici dell’impresa,<br />

la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che, correttamente, il giudice di merito aveva valutato che l’andamento dell’azienda rientrava tra gli<br />

elementi suscettibili di conoscenza solo da parte dell’imprenditore, sul quale, pertanto, incombeva il relativo onere probatorio)” (Cass. Sez. Lav.,<br />

25 luglio 2<strong>00</strong>8, n. 20484).<br />

In applicazione del medesimo principio, la Suprema Corte a Sezioni Unite, con la nota sentenza n. 141 del 10 gennaio 2<strong>00</strong>6, ha posto a carico<br />

del datore del lavoro l’onere di provare l’assenza del requisito dimensionale per l’applicazione della tutela risarcitoria di cui all’art. 18 Legge 3<strong>00</strong>/70,<br />

anche sulla base del fatto che siffatta prova era più vicina al datore stesso, che poteva fornirla mediante semplice esibizione documentale, ed avrebbe<br />

evitato di rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, “il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della ‘disponibilità’ dei fatti<br />

idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa”.<br />

(11) “In tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione<br />

sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del professionista, restando a carico dell’obbligato l’onere di provare<br />

l’esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi<br />

tecnici di particolare difficoltà rileva soltanto per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a<br />

carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà” (Cass. civ., sez. III, 9 novembre 2<strong>00</strong>6, n. 23918; conformi: Cass. civ., sez.<br />

III, 21 giugno 2<strong>00</strong>4, n. 11488).<br />

(12) Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2<strong>00</strong>1, n. 13533.<br />

28


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Ovviamente, non costituisce prova del titolo<br />

o dei presupposti della pretesa contributiva il<br />

provvedimento con cui lo stesso Ente Previdenziale<br />

rivendica la propria pretesa, mentre<br />

potranno esser ritenute valide prove - che<br />

l’Ente ha l’onere di offrire - le risultanze oggettive<br />

del verbale di accertamento ispettivo,<br />

limitatamente ai fatti che gli agenti accertatori<br />

dichiarino essere accaduti direttamente alla<br />

loro presenza, oppure le prove testimoniali a<br />

conforto delle sommarie informazioni raccolte<br />

durante l’ispezione.<br />

Ferma la superiore ragione, l’applicabilità del<br />

principio di vicinanza della prova nel sistema<br />

previdenziale dovrebbe essere esclusa per un<br />

ulteriore motivo, da individuare nella diversità<br />

sostanziale tra un lavoratore (o un paziente di<br />

struttura sanitaria) e l’INPS.<br />

A differenza del primo, che effettivamente incontra<br />

non poche difficoltà nel raggiungere la<br />

prova dei fatti costitutivi della propria pretesa,<br />

almeno in relazione a certi dati o documenti in<br />

possesso del datore di lavoro, l’INPS (come altri<br />

Enti previdenziali ed assistenziali) non è posto in<br />

posizione paritaria, o addirittura di “debolezza”<br />

nei confronti del contribuente, ma dispone di un<br />

ampio e pregnante potere ispettivo e di accertamento,<br />

che gli consente di precostituire le prove<br />

della propria pretesa contributiva.<br />

Non si dimentichi, infatti, che l’Ente previdenziale<br />

può accedere ai luoghi di lavoro o di attività,<br />

pretendere dal titolare dell’impresa l’esibizione di<br />

documentazione aziendale di qualsiasi genere che<br />

abbia pertinenza con gli obblighi contributivi,<br />

raccogliere sommarie informazioni da persone<br />

che si trovano sul luogo di lavoro a vario titolo,<br />

richiedere l’assistenza della forza pubblica, anche<br />

mediante accesso congiunto al servizio ispettivo<br />

della Direzione Provinciale del <strong>Lavoro</strong>.<br />

Viceversa, non sempre il contribuente - colpito<br />

dall’ispezione - ha la facoltà di fornire la prova di<br />

circostanze che, più che essere impeditive, modificative<br />

o estintive, divengono vere e proprie<br />

circostanze negative, quali per l’appunto quelle<br />

da cui risulti l’inesistenza dei presupposti e degli<br />

elementi costitutivi alla base della pretesa contributiva.<br />

Approfondimenti<br />

La conseguenza corollaria di un’applicazione del<br />

principio di vicinanza della prova al sistema previdenziale<br />

sarebbe il rischio di un totale disinteresse<br />

con cui gli Enti Previdenziali avvierebbero<br />

gli accertamenti d’ufficio, consapevoli che ogni<br />

carenza nella fase delle indagini ispettive sarebbe<br />

sopperita dall’addossamento dell’onere della<br />

prova contraria in capo al soggetto indicato quale<br />

contribuente.<br />

Non si può fare a meno di ricordare, in tal senso,<br />

la campagna di iscrizione d’ufficio avviata<br />

dall’INPS nei confronti dei soci di s.n.c., semplicemente<br />

sulla base della loro qualità di soci<br />

risultante dalle iscrizioni alla C.C.I.A.A., senza<br />

alcuna minima previa indagine ispettiva circa<br />

l’esistenza dei presupposti dell’obbligo contributivo<br />

(non diversi da quelli dei familiari coadiutori<br />

del commerciante, ovvero lo svolgimento di<br />

un’attività personale nell’azienda, con caratteri<br />

di abitualità e prevalenza). L’applicazione del criterio<br />

di riparto della prova fondata sulla presunta<br />

vicinanza di essa al socio di s.n.c. (circostanza<br />

del resto non pacifica), permetterebbe all’INPS<br />

di proseguire le iscrizioni in maniera automatica<br />

e senza preventiva ispezione, nell’ambito di una<br />

prassi sicuramente errata.<br />

Vi è un’ulteriore considerazione che fa propendere<br />

gli scriventi nel senso dell’inapplicabilità del principio<br />

di vicinanza della prova al caso di specie. Essa<br />

discende dal fatto che le pronunce giurisprudenziali<br />

che hanno permesso di enucleare il principio disaminato<br />

hanno quasi sempre considerato - quali<br />

più vicine ad una delle parti - prove precostituite<br />

o di facile accesso e disponibilità (si pensi alle cartelle<br />

cliniche ed agli esami diagnostici in possesso<br />

della struttura ospedaliera, al libro matricola da cui<br />

emerga il requisito occupazionale di un’azienda, ai<br />

libri contabili da cui risulti l’andamento economico<br />

connesso al riconoscimento di un premio, etc.).<br />

Ci si chiede, invece, se, a fronte di documenti<br />

che possano esser facilmente acquisiti dall’Ente<br />

previdenziale in sede ispettiva, debba ritenersi<br />

più vicino al presunto debitore/contribuente la<br />

prova dell’assenza dei presupposti della pretesa<br />

contributiva, quando tale prova possa esser data<br />

solo attraverso mezzi di prova costituenda ed in<br />

particolare attraverso la testimonianza, tra le più<br />

incerte nel suo risultato.<br />

29


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Basti pensare, in proposito, alla facilità con cui<br />

l’INPS poteva provare, nel caso deciso, mediante<br />

il servizio ispettivo:<br />

che i prodotti commercializzati fossero promiscui,<br />

mediante una semplice descrizione dei<br />

prodotti esposti all’atto dell’accesso ispettivo<br />

ed al limite mediante la richiesta di esibizione<br />

del libro giornale o degli scontrini emessi in un<br />

certo periodo;<br />

che nelle farmacie vi fosse l’effettiva e concreta<br />

presenza al lavoro di coadiutori;<br />

che sussistesse il requisito della continuatività<br />

della prestazione dei coadiutori, mediante una<br />

pluralità di accessi, magari in incognito, prima<br />

dell’accertamento ispettivo finale;<br />

Approfondimenti<br />

che sussistesse il requisito della prevalenza<br />

nell’attività dei coadiutori, mediante accesso<br />

alle dichiarazioni fiscali degli stessi o mediante<br />

l’accesso agli estratti conto contributivi, da cui<br />

risultasse l’assenza di altri redditi da lavoro.<br />

Ad ogni modo, la sentenza commentata, che<br />

esprime un orientamento ancora seguito presso<br />

il foro albese, costituisce un novum nel panorama<br />

giurisprudenziale. Tale presa di posizione<br />

potrà costituire oggetto di dibattito e potrà esser<br />

accompagnato da perplessità, ma sicuramente<br />

ha il pregio di motivare coerentemente quel<br />

risultato cui altri giudici del lavoro sono a volte<br />

giunti, facendo leva su inesistenti presunzioni<br />

di legge 13 .<br />

(13) Ci si riferisce, ad esempio, ad una sentenza della Corte App. Torino, 6 novembre 2<strong>00</strong>8, n. 965, con la quale è stata rigettata un’opposizione<br />

a cartella di pagamento, emessa sulla scorta dell’iscrizione d’ufficio, da parte dell’INPS, di un socio di s.n.c., trovato intento al lavoro durante<br />

un’ispezione. La tesi difensiva dell’opponente si basava sulla mancata prova, non fornita dall’Ente Previdenziale, dei requisiti della prevalenza e della<br />

continuatività della prestazione lavorativa. La Corte d’Appello, invece, dato per provato lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte del socio,<br />

ha ritenuto che<br />

30


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Passaggio di lavoratori in mobilità<br />

tra aziende collegate<br />

La legge n. 223/91 ha, tra l’altro, modificato in<br />

modo sostanziale il sistema degli ammortizzatori<br />

sociali posti a protezione della perdita del<br />

lavoro (e relativo reddito) da parte di gruppi di<br />

lavoratori, andando a sostituire con la “mobilità”<br />

quella che sino ad allora era la “disoccupazione<br />

speciale” regolata dalla legge n. 1115/1968 (art.<br />

8). Va osservato che, mentre la precedente legge<br />

prevedeva esclusivamente prestazioni a sostegno<br />

del reddito perduto specifiche per particolari casi<br />

di interruzione del rapporto di lavoro, la legge n.<br />

223/1991 ad un articolato sistema di protezione<br />

reddituale affianca specifiche disposizioni volte ad<br />

incentivare in maniera sostanziale il reimpiego del<br />

lavoratore licenziato e collocato in mobilità.<br />

La legge n. 223/1991 prevede essenzialmente due<br />

agevolazioni: la riduzione, per un determinato periodo,<br />

delle contribuzioni previdenziali per i lavoratori<br />

assunti dalle liste di mobilità sino alla misura<br />

prevista per gli apprendisti (art. 8, comma 2), cui<br />

si può aggiungere (sempre art. 8, comma 4) in caso<br />

di assunzione a tempo pieno e indeterminato “[...]<br />

per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore,<br />

un contributo mensile pari al cinquanta<br />

per cento della indennità di mobilità che sarebbe<br />

stata corrisposta al lavoratore”. Di fatto per ogni<br />

lavoratore che esce dalla prestazione di mobilità<br />

per essere assunto stabilmente ed a tempo pieno,<br />

l’indennità “risparmiata” viene spartita in parti<br />

uguali tra chi assume e la gestione INPS.<br />

Non ci vuole molto per capire che, in determinate<br />

circostanze, l’ingaggio di un lavoratore dalle<br />

liste di mobilità può rappresentare un “business”<br />

PAOLO CUZZELLI<br />

Approfondimenti<br />

non indifferente. I costi previdenziali vengono<br />

abbattuti in modo cospicuo, in più il cinquanta<br />

per cento della indennità di mobilità rappresenta<br />

valori di rilevanza assoluta.<br />

Tanto è vero che (parliamo per esperienze a suo<br />

tempo personalmente vissute) bastarono poche<br />

settimane di vigenza della legge n. 223/1991 per<br />

assistere al fiorire di procedere di collocamento<br />

in mobilità, con la quasi contestuale riallocazione<br />

dei lavoratori in questione presso altre ragioni<br />

sociali, magari in strutture cedute in comodato da<br />

chi collocava le maestranze in mobilità. In questi<br />

casi, la semplice visura dei documenti camerali<br />

evidenziava la continuità (o contiguità) degli<br />

assetti proprietari delle aziende coinvolte. Nei<br />

casi in cui, poi, la cessazione di attività risultasse<br />

connessa a procedure concorsuali, scattava anche<br />

l’esonero (legge n. 223/1991, art. 3, comma 3) dal<br />

versamento della cosiddetta tassa di ingresso in<br />

mobilità (prevista dalla stessa legge, art. 5, comma<br />

4). E quando fossero sussistite coincidenze o<br />

relazioni (più o meno palesi) a livello di proprietà,<br />

chiudere una attività attraverso procedure concorsuali,<br />

per trasferirne il business globale ad altra<br />

attività correlata, non è che fosse particolarmente<br />

difficoltoso.<br />

La constatazione di tali fenomeni elusivi degli<br />

intenti genuini che si prefiggeva la legge istitutiva<br />

della mobilità provocavano il successivo<br />

intervento del legislatore. Dobbiamo aspettare il<br />

1994 (ma è noto che il legislatore è celere solo<br />

in determinati particolarissimi casi), quando il<br />

decreto legge n. 299/1994 con l’art. 2 aggiungeva<br />

31


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

il comma 4/bis all’ art. 8 della legge n. 223/1991.<br />

Il comma aggiunto recita testualmente: “Il diritto<br />

ai benefici economici di cui ai commi precedenti è<br />

escluso con riferimento a quei lavoratori che siano<br />

stati collocati in mobilità, nei sei mesi precedenti,<br />

da parte di impresa dello stesso o di diverso settore<br />

di attività che, al momento del licenziamento,<br />

presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti<br />

con quelli dell’impresa che assume ovvero<br />

risulta con quest’ultima in rapporto di collegamento<br />

o controllo[...] ”. Notiamo come la norma<br />

faccia riferimento a dati oggettivi e concreti: parla<br />

infatti di assetti “sostanzialmente” coincidenti, o,<br />

ancora più in generale, di rapporti ampiamente<br />

intesi di “collegamento o controllo”.<br />

L’aggiunta normativa ha da un lato permesso di<br />

rendere più efficace l’azione di vigilanza per la<br />

repressione dei fenomeni elusivi sopra accennati,<br />

contribuendo oggettivamente a ridurne la diffusione,<br />

dall’altra ha incentivato la ricerca di fattispecie<br />

ed interpretazioni sempre più sofisticate,<br />

che rendessero possibile (o formalmente credibile)<br />

particolari passaggi di manodopera tra una azienda<br />

e l’altra in un contesto di presunta mobilità.<br />

Sull’argomento è intervenuta varie volte la Cassazione,<br />

da ultimo con la sentenza n. 20499/2<strong>00</strong>8,<br />

Sez. <strong>Lavoro</strong>, che ha visto di nuovo prevalere le tesi,<br />

sostenute dall’INPS, per il disconoscimento delle<br />

agevolazioni contributive correlate ad assunzione<br />

di lavoratori formalmente collocati in mobilità e<br />

riallocati presso altra entità produttiva collegata.<br />

La situazione in specie, discretamente complessa<br />

da sintetizzare, vedeva la azienda A, in concordato<br />

preventivo con cessione dei beni, collocare<br />

in mobilità i lavoratori. Questi ultimi venivano<br />

assunti, con le agevolazioni del caso, dalla azienda<br />

B (che con lo scorrere dei vari gradi di giudizio era<br />

nel frattempo divenuta l’azienda C). Era inoltre<br />

esistente l’azienda D, che risultava azionista di<br />

riferimento di A e partecipante al 50 per cento di<br />

B e, successivamente della subentrante C. Infine,<br />

da A a B era intervenuta cessione di azienda.<br />

La Cassazione ripercorre i motivi principali posti<br />

alla base del ricorso dalla azienda C sulle contestazioni<br />

mosse originariamente a B. Abbiamo in<br />

primis la pretesa dubbia credibilità della affermazione<br />

circa la continuità tra le aziende, resa da<br />

un testimone, basata sul fatto che lo stesso era<br />

Approfondimenti<br />

l’ispettore del lavoro che aveva condotto l’accertamento<br />

(con buona pace del principio secondo<br />

cui le affermazioni verbalizzate dall’ispettore sono<br />

contestabili con querela di falso). Il ricorrente<br />

richiamava poi una non meglio identificata circolare<br />

ministeriale, che riconosceva i benefici in<br />

questione anche quando fossero coinvolti lavoratori<br />

licenziati a seguito di operazioni societarie,<br />

in presenza di accordi sindacali finalizzati alla<br />

salvaguardia dei livelli occupazionali. Andava di<br />

conseguenza data una lettura non formale dell’art.<br />

8, c.c. 4 e 4/bis, ma avendo come sostanziale riferimento<br />

la salvaguardia dei livelli occupazionali,<br />

che si asseriva realizzata in specie.<br />

In altre parole, i licenziamenti sarebbero stati<br />

causati esclusivamente dalla grave crisi finanziaria<br />

in cui si era venuta a trovare l’azienda A, non<br />

dalla preordinata (ovvero preordinabile da terze<br />

parti correlate) prospettiva del trasferimento della<br />

forza lavoro alla azienda B (sempre con buona<br />

pace dell’esistenza della azienda D, sovrastante<br />

ad entrambe e del fatto che l’azienda B era stata<br />

in grado di assorbire immediatamente business e<br />

mano d’opera di A senza alcuna difficoltà). Venivano<br />

infine richiamate, in quanto favorevoli alla<br />

concessione dei benefici in presenza di un soggetto<br />

cedente sottoposto ad una procedura concorsuale,<br />

le decisioni adottate dalla Corte di giustizia<br />

europea nella causa C-472/93, con richiamo alla<br />

direttiva 98/50/CEE.<br />

Ignorata la questione circa la testimonianza e<br />

considerato non pertinente il richiamo alla giurisprudenza<br />

comunitaria, la Cassazione osserva<br />

preliminarmente che, in specie, nei ragionamenti<br />

condotti dai giudici di merito non era riscontrabile<br />

alcun vizio nei criteri logici che avevano<br />

portato gli stessi alla formazione del convincimento.<br />

I vizi invocati non possono consistere<br />

esclusivamente nella non condivisione dell’apprezzamento<br />

di fatti e prove determinato dal giudice.<br />

Inoltre, non è sufficiente che il ricorrente<br />

si limiti a prospettare una possibilità/probabilità<br />

che esistano conclusioni logiche alternative<br />

alla decisione di merito. La conclusione logica<br />

alternativa prospettata nel ricorso per cassazione<br />

doveva alla fine apparire come l’unica possibile.<br />

Cosa che nella situazione che stiamo esaminando<br />

non si era verificata.<br />

32


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Concordando con i giudici d’appello, la Cassazione<br />

rileva che trasferimento d’azienda e procedure<br />

di mobilità costituiscono due discipline<br />

distinte, non sovrapponibili, che perseguono fini<br />

ed hanno ambiti operativi nettamente distinti.<br />

In effetti, viene osservato che, nel caso di trasferimento<br />

d’azienda, ci si trova in un quadro di<br />

occupazione strutturalmente stabile, mentre lo<br />

spostamento dei lavoratori appare più che altro<br />

volto “…a soddisfare non decifrabili esigenze di<br />

gruppi societari che, in ragione dei loro stretti<br />

collegamenti, presentano interessi in tutto o in<br />

parte coincidenti…”.<br />

Ancora più precisamente, la Corte osserva che (e<br />

l’ovvio riferimento è ai concetti di “collegamento<br />

o controllo” contenuti nel comma 4/bis dell’art.<br />

8 della legge più volte richiamata) assumono<br />

rilevanza ostativa alla concessione dei benefici<br />

in controversia “…quei rapporti tra le imprese<br />

che si traducano, sul piano fattuale, in condotte<br />

costanti e coordinate di collaborazione e comune<br />

agire sul mercato in ragione di un comune nucleo<br />

proprietario o di altre specifiche ragioni attestanti<br />

costanti legami di interessi anche essi comuni<br />

(legami di coniugio, di parentela, di affinità o<br />

finanche di collaudata e consolidata amicizia tra<br />

soci, ecc.) che inducano ad attuare ristrutturazioni<br />

aziendali, comportanti il licenziamento da<br />

parte di un’impresa e l’assunzione di lavoratori da<br />

parte dell’altra [...] influenzate oggettivamente da<br />

Approfondimenti<br />

finalità diverse da quelle per le quali sono stati<br />

riconosciuti i benefici di cui al citato art. 8…”.<br />

In conclusione, risulta confermata dalla Cassazione<br />

la validità degli elementi, evidenziati nei<br />

precedenti gradi di giudizio, a sostegno della applicabilità<br />

in specie del disposto dell’art. 8 comma<br />

4/bis della legge n. 223/91. Tali elementi evidenziavano<br />

“…un indubbio intreccio di interessi<br />

tra le compagini societarie, dato dalla presenza<br />

di un azionista di riferimento, pur in presenza di<br />

un azionariato alquanto frazionato…”. Viene poi<br />

posto l’accento, quale elemento a sostegno della<br />

continuità aziendale, sul fatto che il trasferimento<br />

di parte dei lavoratori fosse avvenuto immediatamente<br />

alla conclusione del periodo di preavviso,<br />

mentre per altra parte di maestranze tale trasferimento<br />

era stato effettuato dopo un periodo di<br />

tempo significativamente breve.<br />

In definitiva, appare estremamente consistente il<br />

rilievo dato dai giudici di legittimità agli aspetti<br />

sostanziali dei rapporti tra le società coinvolte,<br />

al fine di valutare il diritto a fruire delle agevolazioni<br />

contributive connesse al collocamento dei<br />

lavoratori posti (in questo caso in modo fittizio)<br />

in mobilità, escludendo che debbano essere tenuti<br />

in considerazione gli aspetti della situazione<br />

che appaiano rispettosi esclusivamente in modo<br />

formale delle condizioni imposte dalle procedure<br />

di mobilità.<br />

33


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Giudice ordinario o tributario<br />

per le controversie tra il sostituto<br />

d’imposta e il sostituito?<br />

Sono attratte nella competenza del giudice ordinario,<br />

e non del giudice tributario, le controversie<br />

tra il sostituto d’imposta e il sostituito aventi per<br />

oggetto l’esercizio del diritto di rivalsa del primo<br />

sul secondo per le ritenute operate. La sentenza<br />

26/6/2<strong>00</strong>9, n. 15031, della Cassazione si pone in<br />

contrasto con precedenti pronunce che avevano<br />

attribuito la competenza alle Commissioni Tributarie.<br />

Tuttavia, curiosamente, la sentenza 26/<br />

6/2<strong>00</strong>9, n. 15047, afferma esattamente l’opposto.<br />

Preliminarmente, prima di procedere oltre, si<br />

ricorda che la C.M. 23/4/1996, n. 98/E, aveva attratto<br />

nell’ambito della giustizia tributaria “anche<br />

le controversie tra sostituto e sostituito d’imposta<br />

in ordine alla legittimità ed alla misura delle ritenute<br />

alla fonte applicate”.<br />

Con la sentenza 30/10/2<strong>00</strong>8, n. 26013, la Cassazione<br />

aveva affermato la giurisdizione del giudice<br />

ordinario per le controversie in cui l’oggetto del<br />

contendere non è l’esistenza o la quantificazione<br />

dell’obbligazione tributaria, cioè l’an o il quantum,<br />

ma solo i rapporti di credito-debito tra le parti.<br />

In base alla sentenza 2/7/2<strong>00</strong>8, n. 18034, emessa<br />

a Sezioni Unite, le controversie sono devolute<br />

al giudice tributario in quanto “la controversia<br />

tra sostituto d’imposta e sostituito, avente ad<br />

oggetto la pretesa del primo di rivalersi delle<br />

somme versate a titolo di ritenuta d’acconto non<br />

detratta dagli importi erogati al secondo non<br />

diversamente da quella promossa dal sostituito<br />

nei confronti del sostituto, per pretendere il pagamento<br />

(anche) di quella parte del suo credito che<br />

SERGIO MOGOROVICH<br />

Approfondimenti<br />

il convenuto abbia trattenuto e versato a titolo<br />

di ritenuta d’imposta, rientra nella giurisdizione<br />

delle Commissioni tributarie, e non del giudice<br />

ordinario, posto che in entrambi i casi, l’indagine<br />

della legittimità della ritenuta non integra una<br />

mera questione pregiudiziale, suscettibile di essere<br />

delibata incidentalmente, ma comporta una<br />

causa tributaria avente carattere pregiudiziale, la<br />

quale deve essere definita con effetti di giudicato<br />

sostanziale, dal giudice cui la relativa cognizione,<br />

spetta per ragioni di materia, in litisconsorzio<br />

necessario anche dell’amministrazione finanziaria.<br />

Né l’applicazione di tale principio trova ostacolo<br />

nel carattere “impugnatorio” della giurisdizione<br />

delle commissioni tributarie - il quale presuppone<br />

la presenza di un provvedimento dell’amministrazione<br />

contro cui proporre quel reclamo che<br />

costituisce veicolo di accesso, ineludibile, a detta<br />

giurisdizione - giacché, come il sostituito, nel caso<br />

di prelevamento della ritenuta, potrà promuovere,<br />

presentata la dichiarazione annuale, la procedura<br />

di rimborso, così il sostituto, in caso di versamenti<br />

di somme non detratte a titolo di ritenuta, potrà<br />

a sua volta formulare richiesta di restituzione al<br />

fisco in particolare rappresentando le ragioni<br />

prospettate dal presunto debitore d’imposta per<br />

sottrarsi alla rivalsa - impugnandone quindi il<br />

rigetto - con ricorso rivolto anche nei confronti<br />

del sostituito, effettivo debitore verso il fisco e,<br />

quindi, da considerarsi litisconsorte necessario”.<br />

Le stesse argomentazioni sono presenti anche<br />

nelle sentenze 12/1/2<strong>00</strong>7, n. 418, 24/10/2<strong>00</strong>7, n.<br />

22266 e 15/11/2<strong>00</strong>5, n. 23019.<br />

34


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

Va osservato che, ai sensi del D.P.R. 29/9/1973, n.<br />

6<strong>00</strong>, il sostituto d’imposta è obbligato ad esercitare<br />

il diritto di rivalsa per le ritenute operate su somme<br />

e redditi indicati agli articoli da 23 a 30. Anzi,<br />

l’obbligo tributario è ancora più pregnante quando<br />

l’art. 64 lo rafforza imponendolo per le ritenute<br />

operate a titolo di acconto e l’art. 35 del D.P.R.<br />

29/9/1973, n. 602, afferma il principio di solidarietà<br />

passiva tra il sostituto d’imposta e il sostituito<br />

sia pure per le ritenute operate a titolo di imposta.<br />

Dal punto di vista operativo la questione della<br />

controversia tra il soggetto erogatore di un<br />

compenso e il soggetto percettore il compenso,<br />

è limitata soltanto al fatto che la ritenuta sia da<br />

applicare o meno a titolo di imposta, fermo restando<br />

che se è operata a titolo di acconto il suo<br />

ammontare può essere scorporato con l’imposta<br />

personale a debito o portato in compensazione<br />

ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9/7/1997, n. 241,<br />

o chiesto a rimborso dal sostituito con la dichiarazione<br />

o con un’apposita istanza presentata ai<br />

sensi dell’art. 38 del D.P.R. 29/9/1973, n. 602. In<br />

pratica, per evitare l’irrogazione delle sanzioni, il<br />

sostituto d’imposta opera la ritenuta e osserva gli<br />

adempimenti dichiarativi.<br />

Affrontare una causa, sia essa secondo il rito civile<br />

o tributario, significa andare incontro a tempi<br />

lunghi per la sentenza, a rischi procedurali di dichiarazione<br />

di incompetenza del giudice adito ed<br />

a costi certi per la coltivazione della controversia<br />

e probabili nel caso di condanna alle spese.<br />

1. La controversia<br />

La sentenza 26/6/2<strong>00</strong>9, n. 15031, del tutto innovativa,<br />

ha per oggetto la causa avviata da un avvocato<br />

finalizzata ad ottenere la restituzione della ritenuta<br />

che il Comune di Roma aveva operato al momento<br />

della liquidazione dell’onorario professionale.<br />

Secondo la Cassazione, nelle controversie tra il<br />

sostituto d’imposta e il sostituito, la materia del<br />

contendere non è costituita dalla sussistenza e/o<br />

dal contenuto dell’obbligo di effettuare la ritenuta<br />

(an e quantum), che sono questioni che attengono<br />

al rapporto tributario tra il sostituto d’imposta e<br />

l’erario (e che indubbiamente sono attratte nella<br />

competenza del giudice tributario). Le questioni<br />

relative all’indebito versamento delle ritenute o<br />

Approfondimenti<br />

all’omesso pagamento delle stesse rientrano nella<br />

competenza della giurisdizione speciale in quanto<br />

l’impugnazione dell’atto di richiesta di rimborso<br />

correlata al c.d. “silenzio-rifiuto” o al diniego o<br />

all’atto impositivo hanno per oggetto una pretesa<br />

tributaria.<br />

Invece, il rapporto tra sostituto d’imposta e sostituito<br />

focalizza l’attenzione sul legittimo e corretto<br />

esercizio del diritto di rivalsa che il primo esercita<br />

nell’ambito “di un rapporto di tipo privatistico,<br />

quindi di competenza del giudice ordinario. Il<br />

fatto che il diritto alla rivalsa sia previsto da<br />

una norma tributaria non trasforma il rapporto<br />

tra soggetti privati in un rapporto tributario, di<br />

tipo pubblicistico, che implica invece l’esercizio<br />

del potere impositivo nell’ambito di un rapporto<br />

sussumibile allo schema potestà-soggezione. Se<br />

manca un soggetto investito di potestas impositiva<br />

manca anche il rapporto tributario, così come se<br />

manca un provvedimento che sia espressione di<br />

tale potere non si configura la speciale lite tributaria<br />

che, per definizione, nasce dal contrasto<br />

rispetto ad una concreta ed autoritativa pretesa<br />

impositiva” (sentenza n. 15031 citata).<br />

2. La competenza del giudice tributario<br />

Rientrano nella competenza delle Commissioni<br />

tributarie soltanto le controversie che hanno<br />

per oggetto diretto i rapporti tributari, cioè la<br />

presenza di un soggetto con potestà impositiva e<br />

l’esercizio del potere mediante l’emissione di un<br />

atto di imposizione.<br />

Più in particolare si applica il D.Lgs. 31/12/1992,<br />

n. 546, se la controversia ha i seguenti connotati:<br />

a) l’oggetto del contendere è una disposizione<br />

tributaria (art. 2);<br />

b) la lite è sorta tra soggetti collegati dal rapporto<br />

tributario (art. 10);<br />

c) la controversia ha come volano un atto che è<br />

espressione della potestà impositiva (art. 19).<br />

Secondo la Cassazione, in tali controversie “manca<br />

una domanda giudiziaria rivolta nei confronti di<br />

un ente dotato di sovranità fiscale; manca, infine,<br />

la contestazione di un atto che sia espressione di<br />

tale potestas” per cui è esclusa la competenza delle<br />

Commissioni tributarie.<br />

35


il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />

3. La procedura contenziosa<br />

Secondo la Cassazione le liti tra il sostituto d’imposta<br />

e il sostituito hanno per oggetto la legittimità<br />

della rivalsa, in relazione sia all’an sia al quantum,<br />

del primo nei confronti del secondo per cui, se è<br />

stato versato più del dovuto o è stato effettuato<br />

un versamento non dovuto, entrambi possono<br />

chiedere il rimborso attivando il giudice tributario<br />

contro il rifiuto. In questa cornice è competente:<br />

a) il “giudice ordinario per errori di calcolo che non<br />

abbiano inciso sui versamenti a favore del fisco”;<br />

b) il giudice tributario “se invece si tratta di lite che<br />

abbia effetti nei confronti del fisco” cioè se il sostituto<br />

d’imposta ha versato una ritenuta non dovuta<br />

o in eccesso, rivalendosi o meno sul sostituto.<br />

La sentenza richiama, per coerenza, i pronunciamenti<br />

in materia di IVA relativamente alla<br />

domanda proposta dal consumatore finale nei confronti<br />

del soggetto IVA per ottenere la restituzione<br />

del maggior importo addebitato per rivalsa.<br />

4. Conclusioni<br />

La pronuncia, anche se sul filo dell’interpretazione<br />

può essere considerata corretta, si presta a critiche<br />

poiché può disorientare il contribuente. In pratica,<br />

se il sostituto, per errore, ha versato all’erario una<br />

somma non dovuta, non può rivalersi sul sostituito<br />

il quale, avanti il giudice ordinario può difendere il<br />

proprio diritto (ad es., l’applicazione della ritenuta<br />

sulle spese rimborsate a piè di lista). Se, invece, il<br />

sostituto osserva correttamente gli obblighi di applicazione<br />

della ritenuta per rivalsa e di versamento o si<br />

accolla l’onere finanziario, rinunciando a trasferirlo<br />

sul percipiente il reddito (esponendosi all’irrogazione<br />

delle sanzioni se la rivalsa è obbligatoria) ovvero,<br />

esercitando la rivalsa, si espone al rischio di contestazione,<br />

sul fatto che la ritenuta è stata operata in<br />

misura superiore al dovuto o non andava eseguita.<br />

La sentenza, tuttavia, non affronta il problema<br />

dell’applicazione della ritenuta su di un compenso<br />

o reddito di incerta imposizione fiscale: il sostituto<br />

d’imposta, cautelativamente, ha operato la ritenuta<br />

(mentre il sostituito la ritiene non dovuta) al<br />

fine di evitare l’irrogazione delle sanzioni. Quale<br />

è il giudice competente a decidere se la ritenuta<br />

è stata operata correttamente?<br />

Approfondimenti<br />

La Cassazione (sentenza 22/1/2<strong>00</strong>3, n. 865) ha<br />

affermato che le controversie tra il sostituto d’imposta<br />

e il sostituito (cioè tra il datore di lavoro e<br />

il dipendente) non sono devolute alla cognizione<br />

delle Commissioni tributarie qualora non siano<br />

inerenti alla legittimità dell’applicazione delle<br />

ritenute d’acconto (cioè l’obbligo di operarle<br />

sulle retribuzioni) ma abbiano per oggetto esclusivamente<br />

l’interpretazione della volontà delle<br />

parti con riferimento alla circostanza se la somma<br />

pattuita debba essere erogata al lordo oppure al<br />

netto della ritenuta d’acconto, nel qual caso la<br />

controversia è devoluta al giudice ordinario.<br />

5. La sentenza 26/6/2<strong>00</strong>9, n. 15047<br />

Con tale pronuncia, espressa a Sezioni Unite, la<br />

Suprema Corte è ritornata nell’alveo della competenza<br />

della giurisdizione tributaria richiamando<br />

le sentenze 15/11/2<strong>00</strong>5, n. 23019, 6/6/2<strong>00</strong>3, n.<br />

9074, 6/6/2<strong>00</strong>2, n. 8228, e 17/11/1999, n. 787.<br />

L’organo giudicante ha dichiarato la competenza<br />

del giudice ordinario qualora il lavoratore richieda<br />

il risarcimento dei danni correlato al ritardo nella<br />

corresponsione di una parte della retribuzione<br />

e alla maggiore imposta pagata per effetto del<br />

cumulo del compenso in misura tale da collocare<br />

il reddito imponibile in uno scaglione superiore:<br />

“pur vertendo tra sostituito e sostituto d’imposta,<br />

infatti, la controversia non ha ad oggetto la legittimità<br />

della ritenuta d’imposta applicata dal datore<br />

di lavoro, e pertanto, non presupponendo la definizione<br />

di una causa tributaria avente carattere<br />

pregiudiziale, esula dalla giurisdizione delle commissioni<br />

tributarie”. La sentenza evidenzia che se<br />

la competenza fosse attribuita a due giudici diversi<br />

(cioè quello ordinario per l’applicazione della ritenuta)<br />

e quello tributario (per la legittimità della<br />

ritenuta), il sostituto sarebbe soggetto al rischio di<br />

pagare due volte la stessa somma in base a due pronunce<br />

contrastanti provenienti da giudici diversi<br />

qualora il giudice ordinario dovesse dichiarare<br />

l’illegittimità della ritenuta con l’obbligo di corrispondere<br />

l’importo trattenuto alla controparte<br />

e il giudice tributario dovesse rifiutare il rimborso<br />

dichiarando pienamente legittima la ritenuta.<br />

In sintesi, questo è il ragionamento più logico e<br />

corretto.<br />

36


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

Osservatorio Giurisprudenziale<br />

Osservatorio Giurisprudenziale<br />

La sentenza: Trib. Milano, est. Beccarini Crescenzi, 30<br />

ottobre 2<strong>00</strong>8<br />

La questione: è legittimo il licenziamento disciplinare<br />

irrogato dal datore di lavoro che abbia convocato il<br />

lavoratore per rendere le proprie giustificazioni presso<br />

una sede diversa rispetto a quella di assegnazione?<br />

La soluzione: il Tribunale risponde negativamente.<br />

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. Tizio, dipendente<br />

della Alfa s.p.a. ed r.s.a. della<br />

sede di Milano, conveniva in giudizio la<br />

datrice di lavoro esponendo:<br />

che, a seguito dell’ennesima contestazione disciplinare<br />

mossa nei suoi confronti, nell’agosto<br />

2<strong>00</strong>6 era stato convocato per rendere le giustificazioni<br />

presso la sede di Roma;<br />

che non si era presentato a tale incontro e,<br />

conseguentemente, era stato licenziato;<br />

che, proposto ricorso ex art. 28, L. n. 3<strong>00</strong>/1970,<br />

la condotta della società era stata dichiarata<br />

antisindacale;<br />

che nel novembre 2<strong>00</strong>6 la Alfa aveva pertanto<br />

riammesso in servizio il lavoratore e nel contempo,<br />

richiamando la precedente contestazione<br />

disciplinare, l’aveva invitato a rendere le<br />

proprie giustificazioni presso la sede di Milano;<br />

che nonostante avesse fornito tali giustificazioni<br />

era stato licenziato per giusta causa, ma che<br />

A CURA DI ROMINA DALZINI<br />

tale provvedimento dove considerarsi nullo<br />

e/o inefficace.<br />

Parallelamente veniva instaurato altro giudizio<br />

teso all’accertamento della nullità, illegittimità<br />

o inefficacia del primo licenziamento.<br />

Riunite le cause, il Tribunale accoglieva solo<br />

parzialmente le domande attrici.<br />

In relazione alle eccezioni sollevate dalla società,<br />

osservava preliminarmente il Giudicante che la<br />

percezione del t.f.r. e dell’indennità di disoccupazione<br />

sono condotte prive di univoco significato<br />

in relazione alla dedotta aquiescenza.<br />

In senso analogo si sono pronunciati: Cass. Sez.<br />

Lav., 7 aprile 2<strong>00</strong>5, n. 7207; App. Torino, 3 febbraio<br />

2<strong>00</strong>3, in Giur. piemontese, 2<strong>00</strong>4, 423; Trib. Sassari,<br />

19 ottobre 1995, in Gius, 1995, 3992; Trib. Palermo,<br />

12 dicembre 1991, in Temi Siciliana, 1991, 540.<br />

Ciò premesso, il Tribunale ha ritenuto sussistente<br />

la violazione dell’articolo 7. L. n. 3<strong>00</strong>/1970.<br />

La condotta aziendale consistita nel convocare<br />

il lavoratore per rendere le proprie giustificazioni<br />

presso la sede legale di Roma aveva frustrato<br />

in concreto la possibilità di un’effettiva difesa<br />

rispetto alle condotte contestate e non aveva<br />

consentito, pertanto, il corretto svolgimento<br />

della procedura per l’applicazione della sanzione<br />

disciplinare.<br />

Infatti, l’incontro con il lavoratore era stato<br />

fissato in un luogo pretestuosamente lontano o<br />

normalmente estraneo al tipo di attività oggetto<br />

37


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

dell’obbligazione. Quindi, a prescindere da ogni<br />

considerazione in merito alla natura antisindacale<br />

dell’anzidetta condotta in quanto tenuta nei confronti<br />

di un soggetto che rivestiva la carica di r.s.a.,<br />

doveva ritenersi concretizzata la violazione delle<br />

garanzie procedimentali previste dall’art. 7.<br />

Il licenziamento era conseguentemente ingiustificato,<br />

nel senso che il comportamento addebitato<br />

al dipendente, ma non fatto valere attraverso quel<br />

procedimento, non può, quand’anche effettivamente<br />

sussistente e rispondente alla nozione di<br />

giusta causa o giustificato motivo, essere addotto<br />

dal datore di lavoro per sottrarsi all’operatività<br />

della tutela apprestata dall’ordinamento nelle<br />

diverse situazioni (Cass. Sez. Lav., 27 agosto 2<strong>00</strong>3,<br />

n. 12579).<br />

In ordine alle conseguenze della suindicata declaratoria,<br />

il Tribunale ha rilevato che la mancata impugnazione<br />

del licenziamento intimato nell’agosto<br />

se da un canto non impediva al ricorrente, nel caso<br />

di dichiarata illegittimità degli altri atti espulsivi,<br />

di ottenere la reintegra nel posto di lavoro, dall’altro,<br />

non determinava la nullità del provvedimento<br />

comunicato in novembre per effetto della mancata<br />

revoca del primo atto espulsivo.<br />

Come più volte sostenuto dalla Suprema Corte,<br />

infatti, l’accertata antisindacalità del comportamento<br />

plurioffensivo del datore di lavoro e la<br />

conseguente rimozione dei suoi effetti attraverso<br />

l’ordine di reintegrazione, o, come nella specie, di<br />

riammissione in servizio, determina il ripristino<br />

della funzionalità del rapporto, con conseguente<br />

sua persistente validità ed efficacia (Cass. Sez.<br />

Un., 17 febbraio 1992, n. 1916; Cass. Sez. Lav., 16<br />

dicembre 1986, n. 7561 e 25 luglio 1984, n. 4374).<br />

Una volta ripristinato il rapporto, esso non poteva<br />

cessare se non per effetto di una nuova valida<br />

risoluzione.<br />

In argomento la Cassazione ha affermato che<br />

“il rinnovo da parte del datore di lavoro di un<br />

licenziamento nullo per vizio di forma (…)<br />

(rinnovo che si risolve nel compimento di un<br />

negozio diverso dal precedente) può intervenire<br />

validamente solo nel rispetto dei requisiti formali<br />

imposti dell’art. 7 S.L. e dalla disciplina collettiva,<br />

e richiede, in particolare, una nuova contestazione<br />

degli addebiti posti a suo fondamento; tuttavia<br />

Osservatorio Giurisprudenziale<br />

in tal caso la tempestività della prima contestazione<br />

(in assenza di un ‘autonoma tempestività<br />

della seconda) conserva la sua efficacia, poiché<br />

la violazione del principio dell’immediatezza<br />

della contestazione non va valutata in astratto e<br />

con esclusivo riferimento al tempo trascorso dal<br />

fatto, ma riscontrata in concreto in relazione al<br />

determinarsi, in ragione del tempo trascorso, di un<br />

comportamento del datore di lavoro incompatibile<br />

con la volontà di risolvere il rapporto” (Cass.<br />

Sez. Lav., 7 agosto 2<strong>00</strong>3, n. 11911).<br />

Nel caso in esame, la nuova contestazione era intervenuta<br />

subito dopo il decreto ex art. 28 St. Lav.,<br />

che aveva dichiarato antisindacale la condotta<br />

tenuta dall’azienda nell’ambito del procedimento<br />

disciplinare, con possibilità dunque di rinnovo<br />

dello stesso con rispetto dei prescritti requisiti<br />

formali, ed era stata contestuale alla comunicazione<br />

con cui, in osservanza del provvedimento,<br />

si invitava il ricorrente a riprendere il lavoro.<br />

Venendo all’esame della legittimità del licenziamento<br />

intimato nel novembre 2<strong>00</strong>6, il Tribunale<br />

ha ritenuto che i fatti addebitati (insubordinazione<br />

verso i superiori accompagnata da comportamento<br />

oltraggioso) si fossero in concreto verificati, con<br />

conseguente legittimità dell’atto espulsivo.<br />

Deve tuttavia rilevarsi che il licenziamento illegittimo<br />

non è idoneo ad estinguere il rapporto al<br />

momento in cui è stato intimato, determinando<br />

unicamente una sospensione della prestazione dedotta<br />

nel sinallagma, a causa del rifiuto del datore<br />

di ricevere la stessa, e non esclude che il datore di<br />

lavoro possa rinnovare il licenziamento, in base<br />

ai medesimi o a diversi motivi del precedente.<br />

Ne consegue che, nel caso in cui, dopo un primo<br />

licenziamento, ne sia intervenuto un altro non<br />

tempestivamente impugnato, il giudice, chiamato<br />

a pronunciarsi sulle conseguenze del primo licenziamento<br />

dichiarato illegittimo, deve limitarsi<br />

alla condanna al risarcimento dei danni subiti<br />

dal lavoratore nel periodo corrente tra il primo<br />

ed il secondo licenziamento e non può, invece,<br />

ordinare la reintegra nel posto di lavoro, essendosi<br />

il rapporto lavorativo ormai definitivamente<br />

estinto, per effetto della mancata impugnativa del<br />

secondo provvedimento di recesso. (Cass. Sez.<br />

Lav., 6 marzo 2<strong>00</strong>8, n. 6055; in senso analogo si<br />

veda Cass. Sez. Lav., 5 luglio 2<strong>00</strong>3, n. 10628).<br />

38


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

Alla luce di tali principi, il Tribunale ha rigettato<br />

la domanda di reintegrazione ed ha limitato il<br />

risarcimento del danno alla misura minima di<br />

cinque mensilità della retribuzione globale di<br />

fatto, posto che, come risultava dalla documentazione<br />

prodotta dal ricorrente, la riammissione in<br />

servizio era avvenuta nel novembre 2<strong>00</strong>6, ovvero<br />

prima del decorso di cinque mesi dall’illegittima<br />

risoluzione.<br />

La sentenza: Cass. Sez. Lav., 10 dicembre 2<strong>00</strong>8, n. 29<strong>00</strong>0<br />

La questione: un rapporto di lavoro subordinato può<br />

essere sostituito da uno di lavoro autonomo senza che vi<br />

sia un effettivo mutamento delle modalità di svolgimento<br />

della prestazione lavorativa?<br />

La soluzione: la Cassazione risponde negativamente.<br />

Tizia aveva lavorato per alcuni anni<br />

presso la Beta s.r.l., inizialmente in<br />

qualità di dipendente, successivamente<br />

in forza di più contratti di lavoro parasubordinato<br />

succedutisi nel tempo.<br />

A seguito di risoluzione del rapporto di collaborazione<br />

ad iniziativa della Beta, la lavoratrice<br />

conveniva in giudizio la società affinché fosse<br />

accertato che tale rapporto era stato unitario,<br />

con identità di mansioni, ed aveva avuto natura<br />

di lavoro subordinato, anche quando era stato<br />

diversamente qualificato dall’impresa; conseguentemente<br />

doveva essere dichiarata la nullità del<br />

licenziamento, privo di giusta causa o giustificato<br />

motivo, con ordine di reintegrazione nel posto di<br />

lavoro e condanna al risarcimento dei danni.<br />

Le ragioni della lavoratrice venivano disattese<br />

in primo grado ed accolte invece dal Giudice del<br />

gravame.<br />

La Suprema Corte, investita della questione,<br />

confermava la sentenza di secondo grado.<br />

Le prove esperite avevano evidenziato sia l’avvenuto<br />

inserimento della lavoratrice nella organizzazione<br />

aziendale, con l’assegnazione di mansioni<br />

circoscritte e non implicanti alcuna autonomia<br />

decisionale o anche solo operativa (Cass. Sez.<br />

Lav., 13 maggio 2<strong>00</strong>4, n. 9151); non era inoltre<br />

Osservatorio Giurisprudenziale<br />

dato cogliere alcuna differenza fra i diversi periodi<br />

di lavoro quanto alle mansioni svolte ed il<br />

rapporto stesso, in base ai due contratti a tempo<br />

determinato prodotti dalla parte datoriale, era<br />

stato formalizzato come subordinato.<br />

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale,<br />

un rapporto di lavoro subordinato può essere<br />

sostituito da uno di lavoro autonomo, ma a tal<br />

fine è necessario che all’univoca volontà delle<br />

parti di mutare il regime giuridico del rapporto si<br />

accompagni un effettivo mutamento delle modalità<br />

di svolgimento della prestazione lavorativa,<br />

quale conseguenza del venir meno del vincolo di<br />

assoggettamento del lavoratore al datore di lavoro,<br />

dovendosi altrimenti presumere, con presunzione<br />

semplice, che il rapporto sia proseguito col regime<br />

precedente (Cass. Sez. Lav., 28 settembre 2<strong>00</strong>2, n.<br />

14071; 20 maggio 2<strong>00</strong>2, n. 7310; 25 gennaio 1993,<br />

n. 812; 21 gennaio 1989, n. 359; 19 novembre<br />

1985, n. 5705).<br />

Da tempo la Cassazione afferma che ai fini della<br />

distinzione tra lavoro autonomo e subordinato<br />

non deve prescindersi dalla volontà delle parti<br />

contraenti e, sotto questo profilo, va tenuto<br />

presente il nomen juris utilizzato, il quale però<br />

non ha un rilievo assorbente, poiché deve tenersi<br />

conto altresì, sul piano della interpretazione della<br />

volontà delle stesse parti, del comportamento<br />

complessivo delle medesime, anche posteriore<br />

alla conclusione del contratto, ai sensi dell’art.<br />

1362 c.c., comma 2, e, in caso di contrasto fra dati<br />

formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche<br />

e modalità della prestazione, è necessario dare<br />

prevalente rilievo ai secondi, dato che la tutela<br />

relativa al lavoro subordinato, per il suo rilievo<br />

pubblicistico e costituzionale, non può essere<br />

elusa per mezzo di una configurazione formale non<br />

rispondente alle concrete modalità di esecuzione<br />

del contratto (Cass. Sez. Lav., 20 marzo 2<strong>00</strong>7, n.<br />

6622; 23 luglio 2<strong>00</strong>4, n. 13884; 28 marzo 2<strong>00</strong>3,<br />

n. 4770; 2 aprile 2<strong>00</strong>2, n. 4682; 1 marzo 2<strong>00</strong>2,<br />

n. 3<strong>00</strong>1; 18 aprile 2<strong>00</strong>1, n. 5665; 5 marzo 2<strong>00</strong>1,<br />

n. 32<strong>00</strong>; 8 gennaio 2<strong>00</strong>1, n. 151) e dovendosi<br />

tenere conto che le parti, pur volendo attuare un<br />

rapporto di lavoro subordinato, potrebbero aver<br />

simulatamente dichiarato di voler un rapporto<br />

autonomo al fine di eludere la disciplina legale<br />

in materia, ovvero, pur esprimendo al momento<br />

della conclusione del contratto una volontà au-<br />

39


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

tentica, potrebbero, nel corso del rapporto, aver<br />

manifestato, con comportamenti concludenti, una<br />

diversa volontà (Cass. Sez. Lav., 23 luglio 2<strong>00</strong>4,<br />

n. 13872; 27 agosto 2<strong>00</strong>2, n. 12581).<br />

Tali principi erano stati correttamente applicati<br />

dalla Corte d’Appello, la quale aveva ritenuto che<br />

il dedotto rapporto di lavoro autonomo, di fatto,<br />

non si era mai instaurato fra le parti.<br />

La ritenuta prosecuzione del rapporto lavorativo<br />

(subordinato) anche al di là dei termini fittiziamente<br />

apposti nel corso del suo svolgimento,<br />

comportava che il rapporto stesso, nella sua unitarietà,<br />

doveva essere considerato come a tempo<br />

indeterminato; conseguentemente l’avvenuta<br />

stipulazione, nel corso del rapporto di lavoro<br />

subordinato a tempo indeterminato, di un fittizio<br />

(e perciò privo di valenza novativa) contratto di<br />

collaborazione coordinata e continuativa non<br />

poteva essere considerata idonea a determinare<br />

la diversa qualificazione del rapporto stesso in<br />

termini di lavoro autonomo.<br />

In particolare, alla formale comunicazione di<br />

risoluzione per spirare del termine del contratto<br />

di collaborazione fittiziamente stipulato non<br />

potevano essere applicati i principi in tema di<br />

disdetta comunicata per scadenza del termine<br />

illegittimamente apposto ad un contratto di lavoro<br />

subordinato e la comunicazione datoriale doveva<br />

essere qualificata come licenziamento illegittimo<br />

in quanto non determinato da giusta causa o<br />

giustificato motivo.<br />

La sentenza: Cass. Sez. Lav., 30 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 15327<br />

La questione: il datore di lavoro può divulgare dati relativi<br />

ad un dipendente al fine di tutelare la personalità morale<br />

di altri lavoratori?<br />

La soluzione: la Cassazione risponde affermativamente.<br />

Tre dipendenti della Beta s.p.a. avevano<br />

ricevuto lettere anonime pesantemente<br />

ingiuriose. Sospettando che l’autore<br />

fosse un collega, avevano fatto richiesta alla datrice<br />

di lavoro di documenti idonei a consentire<br />

una perizia grafologica, per poter denunciare il<br />

responsabile.<br />

Osservatorio Giurisprudenziale<br />

Tizio, autore di alcuni dei documenti consegnati,<br />

conveniva in giudizio la società al fine di ottenere<br />

il risarcimento del danno derivatogli da tale<br />

divulgazione.<br />

La domanda del lavoratore non trovava accoglimento<br />

né in primo né in secondo grado.<br />

La Corte d’Appello, in particolare, riteneva che il<br />

trattamento dei dati personali operato dalla società<br />

richiedesse il consenso espresso dell’interessato.<br />

La normativa sulla privacy, tuttavia, andava coordinata<br />

con l’obbligo per l’imprenditore di adottare<br />

tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità<br />

fisica e la personalità morale dei prestatori di<br />

lavoro alle sue dipendenze, a’ sensi dell’art. 2087<br />

c.c., sicché la consegna dei documenti trovava<br />

piena giustificazione nell’esigenza di ripristinare<br />

un clima sereno in azienda. Nella fattispecie, oltretutto,<br />

si trattava di documenti dal contenuto<br />

scarsamente significante (richieste di istruzioni,<br />

di cambio del turno, riconoscimenti di premi di<br />

produzione, bolle doganali).<br />

La Suprema Corte, investita della questione,<br />

confermava le decisioni di merito.<br />

In base alle definizioni di “trattamento” e di “dato<br />

personale” contenute nell’art. 1, comma 2, L. n.<br />

675/1996 (applicabile ratione temporis; si veda<br />

ora il D.Lgs. n. 196/2<strong>00</strong>3), l’avere consegnato, e<br />

quindi comunicato, ad alcuni dipendenti la copia<br />

di documenti compilati o sottoscritti da Tizio<br />

costituiva effettivamente trattamento di dato<br />

personale senza consenso.<br />

In ambito aziendale peraltro la normativa generale<br />

in tema di privacy deve essere applicata con<br />

ragionevolezza, tenendo conto dei diritti degli<br />

altri lavoratori che si contrappongono al diritto<br />

alla riservatezza del dipendente.<br />

Nella fattispecie, erano in gioco diritti di rilievo<br />

costituzionale dei dipendenti ingiuriati, diritti<br />

che non potevano trovare attuazione se non individuando<br />

l’autore delle missive anonime; tale<br />

situazione poteva avvelenare l’ambiente di lavoro;<br />

infine, i documenti consegnati non avevano un<br />

contenuto particolarmente significante. La società,<br />

del resto, non poteva investire direttamente<br />

della vicenda il giudice penale, trattandosi di reati<br />

procedibili a querela della persona offesa; e non<br />

40


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

appariva nemmeno ragionevole rimettere l’iniziativa<br />

ai tre dipendenti, esponendoli al rischio<br />

di un’accusa di calunnia.<br />

Secondo la Cassazione, quindi, la Beta aveva<br />

operato correttamente, adempiendo all’obbligo<br />

di cui all’art. 2087 c.c., il cui contenuto, nella<br />

situazione sopra descritta, costituiva il legittimo<br />

limite al diritto al consenso espresso richiesto dalla<br />

L. n. 675/1996.<br />

La Suprema Corte aveva già avuto modo di<br />

affermare che l’interesse alla riservatezza, tutelato<br />

dall’ordinamento positivo, recede quando<br />

quest’ultimo sia esercitato per la difesa di un interesse<br />

giuridicamente rilevante (e tale è quello<br />

previsto dalla legge, allorché questa riconosce il<br />

diritto al creditore di procedere a pignoramento<br />

presso terzi) e nei soli ovvi limiti in cui esso sia<br />

necessario alla tutela. La legge n. 675 del 1996,<br />

Osservatorio Giurisprudenziale<br />

non configurando uno “statuto generale della persona”,<br />

non si applica generalizzatamente ad ogni<br />

situazione soggettiva comunque riconducibile<br />

al novero dei diritti della persona, ma soltanto<br />

a quelle tra le predette situazioni soggettive che<br />

rientrano nell’ambito di applicazione della legge<br />

n. 675 del 1996 come normativamente delineato<br />

in relazione al fenomeno del “trattamento dei dati<br />

personali”, precludendo l’accesso solo per quei<br />

documenti relativi ai dati sensibili della persona<br />

(vita privata, riservatezza sullo stato di salute, fede<br />

religiosa, difesa della dignità umana) (Cass. civ.,<br />

24 maggio 2<strong>00</strong>3, n. 8239).<br />

Deve conseguentemente escludersi che, allorché si<br />

abbia una divulgazione di dati relativi alla persona,<br />

si realizzi sempre e in ogni caso una violazione<br />

della normativa sulla privacy, non potendosi<br />

prescindere da un giudizio di comparazione degli<br />

interessi in gioco, rimesso al giudice di merito.<br />

41


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

Assicurazione infortuni<br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

2<strong>00</strong>9<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

Cass. Sez. Lav., 18 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 11417<br />

Infortunio sul lavoro – Rischio elettivo – Elementi<br />

caratterizzanti<br />

Il rischio elettivo, quale limite all’indennizzabilità<br />

degli infortuni sul lavoro, è ravvisabile solo<br />

in presenza di un comportamento abnorme,<br />

volontario ed arbitrario del lavoratore, tale da<br />

condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli<br />

inerenti alla normale attività lavorativa, pur<br />

latamente intesa, e tale da determinare una causa<br />

interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed<br />

evento secondo l’apprezzamento di fatto riservato<br />

al giudice di merito.<br />

In particolare, per configurare il rischio elettivo<br />

secondo la definizione descritta, viene richiesto:<br />

a) che il lavoratore ponga in essere un atto non<br />

solo volontario, ma anche abnorme, nel senso di<br />

arbitrario ed estraneo alle finalità produttive; b)<br />

che il comportamento del lavoratore sia motivato<br />

da impulsi meramente personali, quali non<br />

possono qualificarsi le iniziative, pur incongrue<br />

ed anche contrarie alle direttive del datore di<br />

lavoro, ma motivate da finalità produttive; c)<br />

che l’evento conseguente all’azione del lavoratore<br />

non abbia alcun nesso di derivazione con<br />

l’attività lavorativa.<br />

Nel concorso di tali situazioni, che qualificano in<br />

termini di abnormità la causa iniziale della serie<br />

produttiva dell’evento infortunistico, il rischio<br />

A CURA DI ROMINA DALZINI<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

elettivo si distingue, quindi, dall’atto colpevole<br />

del lavoratore, e cioè dall’atto volontario posto<br />

in essere con imprudenza, negligenza o imperizia,<br />

ma che, motivato comunque da finalità<br />

produttive, non vale ad interrompere il nesso<br />

fra l’infortunio e l’attività lavorativa e non ne<br />

esclude, pertanto, la indennizzabilità.<br />

Cass. Sez. Lav., 22 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 11928<br />

Premio Inail – Villaggi turistici – Classificazione<br />

Per determinare il premio assicurativo da pagare,<br />

non si possono cercare definizioni delle<br />

lavorazioni nell’ambito di normative diverse,<br />

ma si deve applicare esclusivamente la tabella<br />

di cui al D.M. 12 dicembre 2<strong>00</strong>0, alla stregua<br />

della quale i villaggi turistici rientrano nella voce<br />

0213, in cui si collocano stabilimenti balneari,<br />

campeggi, villaggi turistici, non già nella voce<br />

0211 in cui sono compresi alberghi, pensioni,<br />

residence e motel.<br />

Il villaggio turistico è infatti la struttura composita<br />

che offre qualcosa di più del camping, e<br />

tanto è sufficiente per includerla nella tariffa più<br />

alta e non in quella prevista per gli alberghi, non<br />

potendosi porre come discrimine la maggiore<br />

o minore comodità e raffinatezza dei locali di<br />

accoglienza. Attenendo invece il discrimine tra<br />

“albergo” e “villaggio turistico” alla misura del<br />

rischio infortunistico cui sono soggetti i dipendenti,<br />

si comprende come il premio maggiore<br />

corrisponda alle lavorazioni che si svolgono<br />

in strutture estese, come stabilimenti balneari,<br />

42


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

2<strong>00</strong>9<br />

campings e villaggi turistici, che constano di<br />

vari corpi separati all’interno di comprensori<br />

di grande ampiezza, che richiedono necessariamente,<br />

per il personale dipendente, spostamenti<br />

maggiori e all’aperto, rispetto a quelli necessari<br />

presso gli alberghi, che sono limitati ad un’unica<br />

struttura interna.<br />

Cass. Sez. Lav., 1 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 12726<br />

Azione di regresso – Legittimazione passiva<br />

Poiché nel nostro ordinamento positivo (Regio<br />

Decreto n. 1765 del 1935, articolo 22 e articolo<br />

2116 c.c., comma 1 e, successivamente, Decreto<br />

del Presidente della Repubblica 30 giugno<br />

1965, n. 1124, articolo 67) vige in materia di<br />

assicurazione contro gli infortuni il principio<br />

dell’automatismo, in virtù di esso il diritto del<br />

lavoratore alle prestazioni assicurative prescinde<br />

dalla stipulazione dell’assicurazione e del versamento<br />

dei contributi, e, pertanto, ove si verifichi<br />

l’evento previsto dalla legge per l’attribuzione<br />

delle prestazioni, è l’istituto assicuratore, ed esso<br />

soltanto, tenuto ad eseguire le prestazioni stesse,<br />

abbia o no il datore di lavoro adempiuto agli<br />

obblighi che la legge pone a suo carico, salvo in<br />

ogni caso il diritto di rivalsa dell’istituto verso il<br />

datore di lavoro.<br />

Pertanto, legittimato passivo dell’azione per il<br />

pagamento dell’indennità di infortunio e delle<br />

prestazioni in genere in favore dell’infortunato,<br />

abbia o no il datore di lavoro provveduto all’assicurazione<br />

ed al pagamento dei contributi, non<br />

potrebbe ritenersi che l’istituto assicuratore, e<br />

questo soltanto, e giammai il datore di lavoro,<br />

ancorché a titolo risarcitorio.<br />

Disoccupazione<br />

Cass. Sez. Lav., 8 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 10640<br />

Assegno per il nucleo familiare – Computo<br />

L’assegno per il nucleo familiare dovuto, ai sensi<br />

della L. n. 223 del 1991, art. 7, comma 10, ai<br />

lavoratori iscritti nelle liste di mobilità va determinato,<br />

in considerazione della specialità della<br />

normativa che lo prevede, su base giornaliera, e<br />

cioè secondo il criterio proprio dell’indennità di<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

mobilità, trovando nella relativa disciplina la sua<br />

fonte genetica, la sua ratio ed il suo specifico collegamento;<br />

esso, perciò, deve essere corrisposto<br />

in ragione dei giorni di cui è composto il mese<br />

di febbraio di ciascun anno e non nella misura<br />

intera rapportata al mese, ovvero a trenta giorni,<br />

non trovando applicazione, in considerazione<br />

della specialità della regolamentazione, il parametro<br />

di cui dell’art. 59, comma al 1 e 2 (come<br />

sostituito dalla L. n. 1038 del 1961, art. 15) del<br />

T.u. sugli assegni familiari approvato con D.P.R.<br />

n. 797 del 1955.<br />

<strong>Lavoro</strong> autonomo<br />

Cass. Sez. Lav., 24 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14868<br />

Facoltà di farsi sostituire da altra persona – Configurabilità<br />

L’obbligo di eseguire personalmente la prestazione<br />

caratterizza il lavoro subordinato e solo eccezionalmente,<br />

per la natura della prestazione e col<br />

consenso del datore, è possibile che il lavoratore<br />

si faccia sostituire da altra persona.<br />

Ne consegue la legittimità della decisione di<br />

merito che ravvisi il rapporto di lavoro autonomo<br />

sulla detta possibilità di sostituzione, insieme ad<br />

altri elementi, quali l’assenza di assoggettamento<br />

ad un orario e del diritto di ferie, il compenso<br />

non fisso ma a percentuale, l’uso di un veicolo<br />

proprio per eseguire le consegne.<br />

<strong>Lavoro</strong> subordinato<br />

Cass. Sez. Lav., 8 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 10629<br />

E autonomo – Criteri distintivi<br />

Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto<br />

sia estremamente elementare, ripetitiva e<br />

predeterminata nelle sue modalità di esecuzione<br />

ed al fine della distinzione tra rapporto di lavoro<br />

autonomo e subordinato il criterio rappresentato<br />

dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio<br />

del potere direttivo, organizzativo e disciplinare<br />

non risulti, in quel particolare contesto, significativo,<br />

per la qualificazione del rapporto di lavoro<br />

occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari,<br />

quali la continuità e la durata del rapporto, le<br />

modalità di erogazione del compenso, la regola-<br />

43


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

2<strong>00</strong>9<br />

mentazione dell’orario di lavoro, la presenza di<br />

una pur minima organizzazione imprenditoriale<br />

(anche con riferimento al soggetto tenuto alla<br />

fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza<br />

di un effettivo potere di autorganizzazione<br />

in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale<br />

concomitanza di altri rapporti di lavoro.<br />

Cass. Sez. Lav., 17 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14054<br />

E autonomo – Criteri distintivi – Nomen iuris<br />

Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro<br />

come autonomo ovvero subordinato, il nomen<br />

iuris attribuito dalle parti, al pari di altri elementi<br />

quali l’osservanza di un determinato orario di<br />

lavoro, la cadenza e la misura fissa della retribuzione,<br />

l’assenza di rischio, la continuità della<br />

prestazione lavorativa ed altri, ha carattere sussidiario,<br />

essendo elemento distintivo del rapporto<br />

di lavoro subordinato l’assoggettamento del<br />

lavoratore al potere direttivo e disciplinare del<br />

datore di lavoro, che si estrinseca in specifiche<br />

disposizioni oltre che in una vigilanza e in un<br />

controllo assiduo delle prestazioni lavorative,<br />

da valutarsi, in relazione alla peculiarità delle<br />

mansioni.<br />

L’elemento del nomen iuris attribuito dalle stesse<br />

parti, se non è idoneo a surrogare il criterio della<br />

subordinazione nei termini ora precisati, assume<br />

rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non<br />

risulti in contrasto con le concrete modalità di<br />

svolgimento del rapporto; in particolare, il riferimento<br />

al nomen iuris dato dalle parti al negozio,<br />

risulta di maggiore utilità, rispetto alle altre, in<br />

tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali<br />

tra due o più figure negoziali appaiono non<br />

agevolmente tracciabili, non potendosi negare<br />

che quando la volontà negoziale si è espressa in<br />

modo libero (in ragione della situazione in cui<br />

versano le parti al momento della dichiarazione)<br />

nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi<br />

in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto<br />

le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi,<br />

il giudice deve accertare in maniera rigorosa se<br />

tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto<br />

nella realtà fattuale attraverso un coerente<br />

comportamento delle parti stesse.<br />

Licenziamenti collettivi<br />

Cass. Sez. Lav., 29 aprile 2<strong>00</strong>9, n. 9991<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

Ristrutturazione di una unità produttiva – Scelta dei<br />

lavoratori – Limitata a quell’unità produttiva – Legittimità<br />

La platea dei lavoratori interessati alla riduzione<br />

di personale può essere limitata agli addetti ad un<br />

determinato reparto o settore solo sulla base di<br />

oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto<br />

di ristrutturazione aziendale, ed è onere del<br />

datore provare il fatto che determina l’oggettiva<br />

limitazione di queste esigenze, e giustificare il più<br />

ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata.<br />

Cosicché, non può essere ritenuta legittima la<br />

scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto<br />

lavorativo soppresso o ridotto, trascurando<br />

il possesso di professionalità equivalente a quella<br />

di addetti ad altre realtà organizzative.<br />

Licenziamenti individuali<br />

Cass. Sez. Lav., 29 aprile 2<strong>00</strong>9, n. 9992<br />

Illegittimità – Risarcimento del danno – Reddito da<br />

pensione – Compensatio lucri cum damno – Esclusione<br />

In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore,<br />

il risarcimento del danno spettante a<br />

quest’ultimo a norma della L. n. 3<strong>00</strong> del 1970,<br />

art. 18, commisurato alle retribuzioni perse a<br />

seguito del licenziamento e fino alla riammissione<br />

in servizio, non deve essere diminuito degli<br />

importi eventualmente ricevuti dall’interessato<br />

a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento<br />

discende dal verificarsi di requisiti<br />

di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché<br />

le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae,<br />

dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al<br />

potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono<br />

all’operatività della regola della “compensatio<br />

lucri cum damno”. Tale “compensatio”, d’altra<br />

parte, non può configurarsi neanche allorché,<br />

eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti<br />

del pensionamento, anticipando, in relazione<br />

alla perdita del posto di lavoro, l’ammissione al<br />

trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra<br />

la retribuzione e la pensione si ponga in termini<br />

44


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

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2<strong>00</strong>9<br />

di alternatività, né allorché il medesimo rapporto<br />

si ponga invece in termini di soggezione a divieti<br />

più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la<br />

retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta<br />

declaratoria di illegittimità del licenziamento<br />

travolge ex tunc il diritto al pensionamento e<br />

sottopone l’interessato all’azione di ripetizione<br />

di indebito da parte del soggetto erogatore della<br />

pensione, con la conseguenza che le relative<br />

somme non possono configurarsi come un lucro<br />

compensabile col danno, e cioè come un effettivo<br />

incremento patrimoniale del lavoratore.<br />

Cass. Sez. Lav., 20 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 11720<br />

Giustificato motivo oggettivo – Sussistenza – Onere della<br />

prova – Assunzione di nuovi lavoratori – Valutazione<br />

del giudice di merito<br />

In tema di licenziamento per giustificato motivo<br />

oggettivo, la giurisprudenza di legittimità è orientata<br />

nel valorizzare, ai fini di cui trattasi, la situazione<br />

sussistente all’epoca del licenziamento e<br />

quella immediatamente successiva nel senso che<br />

la mancata assunzione di nuovi lavoratori nella<br />

stessa qualifica per un congruo periodo dopo il<br />

licenziamento costituisce elemento valutabile<br />

ai fini dell’assolvimento dell’onere probatorio<br />

relativo alla impossibilità di utilizzare il lavoratore<br />

licenziato in altre mansioni equivalenti e<br />

quindi a contrario del mancato assolvimento di<br />

siffatto onere. L’apprezzamento della congruità<br />

del periodo è rimesso alla valutazione del giudice<br />

del merito e si sottrae al sindacato di legittimità<br />

se congruamente motivato.<br />

Cass. Sez. Lav., 1 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 12721<br />

Carcerazione per fatti estranei allo svolgimento del<br />

rapporto – Inadempimento contrattuale – Non lo<br />

configura – Conseguenze<br />

La carcerazione (preventiva o esecutiva) per fatti<br />

estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro<br />

non costituisce inadempimento degli obblighi<br />

contrattuali, ma è un fatto oggettivo che determina<br />

la sopravvenuta temporanea impossibilità<br />

della prestazione lavorativa.<br />

In questa ipotesi, la persistenza o non persistenza<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

di un apprezzabile interesse del datore a ricevere<br />

le ulteriori prestazioni del lavoratore detenuto<br />

deve essere valutata alla stregua di criteri oggettivi,<br />

riconducibili a quelli fissati nell’art. 3 della<br />

Legge 15 luglio 1966, n. 604, costituiti dalle<br />

esigenze oggettive dell’impresa, che devono essere<br />

valutate con giudizio ex ante e non ex post,<br />

tenendo conto delle dimensioni della stessa, del<br />

tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della<br />

natura ed importanza delle mansioni del lavoratore<br />

detenuto, nonché del maturato periodo di<br />

assenza, della prevedibile durata della carcerazione,<br />

della possibilità di affidare temporaneamente<br />

ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove<br />

assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza<br />

rilevante ai fini della determinazione della<br />

misura della tollerabilità dell’assenza.<br />

Carcerazione per fatti estranei allo svolgimento del<br />

rapporto – Diritto alla retribuzione – Non sussiste<br />

L’impossibilità della prestazione lavorativa<br />

causata da carcerazione, nella misura in cui<br />

determina l’illegittimità del licenziamento e<br />

simmetricamente l’affermazione del diritto alla<br />

reintegrazione nel posto di lavoro, è, per la sua<br />

stessa consistenza e nel tempo della sua protrazione,<br />

negazione del diritto alla retribuzione; la<br />

ricostituzione di questo diritto esige non solo<br />

la cessazione dello stato di detenzione bensì la<br />

formale offerta, da parte del lavoratore, della<br />

prestazione.<br />

Cass. Sez. Lav., 8 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 13167<br />

Contestazione – Immediatezza – Necessità – Limiti<br />

La contestazione disciplinare per essere considerata<br />

legittima deve presentare il carattere<br />

della “immediatezza” e tale carattere essenziale<br />

trova fondamento nell’art. 7, terzo e quarto<br />

comma, della legge n. 3<strong>00</strong>/1970 che riconosce<br />

al lavoratore incolpato il diritto di difesa da<br />

garantirsi nella sua effettività al fine di consentirgli<br />

l’allestimento del materiale difensivo<br />

(pronto riscontro delle accuse con eventuali<br />

testimonianze e documentazione) in tempi ad<br />

immediato ridosso dei fatti contestati ed in modo<br />

che lo stesso lavoratore possa contrastare più<br />

efficacemente il contenuto delle contestazioni<br />

mossegli dal datore di lavoro, dovendosi anche<br />

45


il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

9 2<strong>00</strong> 9<br />

2<strong>00</strong>9<br />

considerare (nella valutazione del rilievo del<br />

cennato carattere) il “giusto affidamento” del<br />

prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione,<br />

che il fatto incriminabile possa non avere<br />

rivestito una connotazione “disciplinare”, dato<br />

che l’esercizio del potere disciplinare non è, per<br />

il datore un obbligo, bensì una facoltà.<br />

Nell’esercizio del potere disciplinare il datore di<br />

lavoro deve comportarsi “secondo buona fede”,<br />

specie per evitare che sanzioni disciplinari irrogate<br />

senza consentire all’incolpato un effettivo<br />

diritto di difesa si pongano, appunto, quale<br />

trasgressione in re ipsa della “buona fede”, che<br />

è la matrice fondativa dei doveri-oneri sanciti<br />

dall’art. 7 cit. e, anche, dall’art. 2106 c.c. per cui<br />

l’affidamento legittimo del lavoratore non può<br />

venire vanificato da una tardiva contestazione<br />

disciplinare, comportando l’esercizio in tal senso<br />

viziato dal potere disciplinare una preclusione<br />

per l’espletamento di detto potere e, conseguentemente,<br />

rendendo invalida la sanzione irrogata<br />

in contrasto con il principio dell’immediatezza.<br />

L’applicazione in c.d. “senso relativo” del principio<br />

dell’immediatezza non può svuotare di<br />

efficacia il principio stesso dovendosi, infatti,<br />

tenere conto di quanto statuito dall’art. 7 cit. e<br />

della esigenza di una razionale amministrazione<br />

dei rapporti contrattuali secondo “buona fede”.<br />

Pertanto, tra l’interesse del datore di lavoro a<br />

prolungare le indagini senza uno specifico motivo<br />

obiettivamente valido (da accertarsi e valutarsi<br />

rigorosamente) e il diritto del lavoratore ad<br />

una pronta ed effettiva difesa, deve prevalere la<br />

posizione (ex lege tutelata) del lavoratore. Parimenti<br />

l’applicazione di una sanzione disciplinare<br />

- quando si tratti di licenziamento “in tronco”<br />

per giusta causa - deve avvenire alla stregua del<br />

principio dell’immediatezza e, di conseguenza,<br />

non può essere ritardata con la giustificazione<br />

della complessità dell’organizzazione aziendale.<br />

Cass. Sez. Lav., 17 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14066<br />

Giusta causa – Configurabilità – Accertamento del<br />

giudice di merito<br />

Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta<br />

causa di licenziamento, che deve rivestire<br />

il carattere di grave negazione degli elementi<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare<br />

di quello fiduciario, occorre valutare da un<br />

lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore,<br />

in relazione alla portata oggettiva e soggettiva<br />

dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono<br />

stati commessi ed all’intensità dell’elemento<br />

intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra<br />

tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la<br />

lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa<br />

la collaborazione del prestatore di lavoro sia in<br />

concreto tale da giustificare o meno la massima<br />

sanzione disciplinare; la valutazione della gravità<br />

dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare<br />

giusta causa di licenziamento si risolve in un<br />

apprezzamento di fatto riservato al giudice di<br />

merito ed incensurabile in sede di legittimità,<br />

se congruamente motivato.<br />

Giusta causa – Configurabilità – Accertamento del<br />

giudice di merito – Fattispecie<br />

Il giudice di merito - in considerazione del fatto<br />

che il licenziamento costituisce di certo per il<br />

lavoratore la più grave delle sanzioni in ragione<br />

dei suoi effetti - deve tenere conto della gravità<br />

della condotta addebitata al dipendente, da<br />

valutare non soltanto nella sua oggettività ma<br />

anche con riferimento all’elemento soggettivo<br />

che può assumere i connotati del dolo o della<br />

colpa, al fine di parametrare la singola sanzione<br />

al grado di illiceità della infrazione alla stregua<br />

del principio di proporzionalità, essendo possibile<br />

solo all’esito di tale iter conoscitivo decidere<br />

sulla configurabilità della giusta causa o del giustificato<br />

motivo di licenziamento e quindi sulla<br />

legittimità o meno dello stesso.<br />

La valutazione della gravità dell’infrazione,<br />

della sua idoneità ad integrare giusta causa di<br />

licenziamento e della proporzionalità della<br />

sanzione rispetto alla infrazione contestata, si<br />

risolve in un apprezzamento di fatto riservato<br />

al giudice di merito ed incensurabile in sede di<br />

legittimità, se congruamente motivato. (Nella<br />

fattispecie, il lavoratore, occupato in qualità di<br />

revisore contabile, aveva apposto la firma falsa<br />

del direttore dell’ufficio di appartenenza su una<br />

domanda di indennità di missione in realtà non<br />

effettuata ed aveva tenuto un comportamento<br />

scorretto nei confronti dei clienti consegnando<br />

loro somme di denaro inferiori a quanto dovu-<br />

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il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

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to; i giudici di merito avevano correttamente<br />

proceduto alla verifica della gravità dei fatti<br />

contestati al lavoratore, in relazione sia alla<br />

portata oggettiva che soggettiva, rilevando come<br />

le circostanze concrete della condotta posta in<br />

essere ne evidenziassero l’obiettivo disvalore dal<br />

punto di vista sia oggettivo che soggettivo, ed<br />

integrassero senz’altro un fatto di gravità tale da<br />

non consentire, neanche provvisoriamente, la<br />

ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro).<br />

Cass. Sez. Lav., 22 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14586<br />

Giusta causa – Proporzionalità tra comportamento e<br />

sanzione – Accertamento del giudice di merito<br />

In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini<br />

della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso,<br />

viene in considerazione ogni comportamento<br />

che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere<br />

la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere<br />

che la continuazione del rapporto si risolva in un<br />

pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante,<br />

ai fini del giudizio di proporzionalità,<br />

l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado<br />

di esercitare il comportamento del lavoratore<br />

che, per le sue concrete modalità e per il contesto<br />

di riferimento, appaia suscettibile di porre<br />

in dubbio la futura correttezza dell’adempimento<br />

e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente<br />

gli obblighi assunti, conformando il<br />

proprio comportamento ai canoni di buona fede<br />

e correttezza.<br />

Spetta al giudice di merito valutare la congruità<br />

della sanzione espulsiva non sulla base di una<br />

valutazione astratta del fatto addebitato, ma<br />

tenendo conto di ogni aspetto concreto della<br />

vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento<br />

unitario e sistematico, risulti sintomatico<br />

della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione<br />

del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine<br />

preminente rilievo alla configurazione che delle<br />

mancanze addebitate faccia la contrattazione<br />

collettiva, ma pure l’intensità dell’elemento intenzionale,<br />

al grado di affidamento richiesto dalle<br />

mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti<br />

modalità di attuazione del rapporto (ed in specie<br />

alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni),<br />

alla sua particolare natura e tipologia.<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

Cass. Sez. Lav., 25 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14952<br />

Contestazione – Immediatezza – Necessita – Limiti<br />

Il principio dell’immediatezza della contestazione<br />

disciplinare e della tempestività della irrogazione<br />

della relativa sanzione, esplicazione del generale<br />

precetto di conformarsi alla buona fede e alla<br />

correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro,<br />

deve essere inteso in senso relativo, potendo in<br />

concreto essere compatibile con un intervallo di<br />

tempo più o meno lungo, quando l’accertamento<br />

e la valutazione dei fatti richiedano uno spazio<br />

temporale maggiore, ovvero quando la complessità<br />

della struttura organizzativa dell’impresa<br />

possa far ritardare il provvedimento di recesso; in<br />

ogni caso, la valutazione relativa alla tempestività<br />

costituisce giudizio di merito, non sindacabile<br />

in cassazione ove adeguatamente motivato.<br />

Ai fini di cui trattasi, il lasso temporale tra i fatti<br />

e la contestazione deve decorrere dall’avvenuta<br />

conoscenza da parte del datore di lavoro della<br />

situazione contestata e non dalla astratta percettibilità<br />

o conoscenza dei fatti stessi, tenuto<br />

conto dei mezzi a sua disposizione.<br />

Cass. Sez. Lav., 7 luglio 2<strong>00</strong>9, n. 15915<br />

Licenziamento illegittimo – Risarcimento del danno<br />

ulteriore – Onere della prova<br />

Il risarcimento dei danni professionali conseguenti<br />

alla mancata reintegrazione nel posto di<br />

lavoro rientra nella fattispecie prevista dall’art.<br />

18 della legge 3<strong>00</strong>/70 in quanto quella regolata<br />

dall’art. 2103 c.c., presuppone l’attualità<br />

in fatto ed in diritto del rapporto lavorativo<br />

ed una dequalificazione intervenuta nel corso<br />

dello stesso; sicché presenta una propria<br />

specificità e marcati caratteri differenziali<br />

rispetto alla ipotesi della inottemperanza all’ordine<br />

giudiziale di reintegra, che è invece<br />

regolata dal disposto del richiamato art. 18.<br />

Conseguentemente, nel regime di tutela reale ex<br />

art. 18 della legge n. 3<strong>00</strong> del 1970 avverso i licenziamenti<br />

illegittimi, la predeterminazione legale<br />

del danno risarcibile in favore del lavoratore<br />

(con riferimento alla retribuzione globale di fatto<br />

dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione)<br />

non esclude che il lavoratore possa<br />

chiedere il risarcimento del danno ulteriore che<br />

gli sia derivato dal ritardo della reintegra, e che<br />

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il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />

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2<strong>00</strong>9<br />

il giudice, in presenza della prova di tale danno<br />

ulteriore, possa liquidarlo equitativamente.<br />

Quanto alla prova di siffatto ulteriore danno<br />

escluso che possa ritenersi in re ipsa, è, però,<br />

da ritenersi ammissibile che, a fronte di precise<br />

allegazioni, quali ad esempio, la lunga inattività<br />

e/o una particolare collocazione lavorativa che<br />

richieda un continuo, costante aggiornamento di<br />

cognizioni e conoscenze incompatibili con uno<br />

stato di inoperosità (che denotano una marcata<br />

lesione alla professionalità del lavoratore illegittimamente<br />

licenziato e non reintegrato), il giudice<br />

possa avvalersi, per considerare raggiunta la<br />

relativa dimostrazione, della prova presuntiva.<br />

Mansioni e qualifiche<br />

Cass. Sez. Lav., 8 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 13162<br />

Attribuzione di qualifica superiore – Disgiunta da più<br />

elevata retribuzione – Legittimità<br />

Ove, in presenza di specifiche condizioni, un più<br />

elevato livello di qualifica sia separato, per incontestata<br />

disposizione datorile, dalla maggiore relativa<br />

retribuzione e dalla stessa materiale corrispondente<br />

prestazione, e sia retroattivamente attribuito,<br />

con la separazione e la retroattiva attribuzione<br />

della qualifica, non sussiste il diritto alla contestuale<br />

retribuzione (corrispondente alla qualifica).<br />

Mobbing<br />

Cass. pen., Sez. IV, 26 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 26594<br />

Reato – Configurabilità – Condizioni<br />

Il mobbing è solo vagamente assimilabile alla<br />

previsione di cui all’art. 572 c.p., ma di questa<br />

non condivide tout court, quasi per automatismo,<br />

tutti gli elementi tipici.<br />

Ed invero, sia l’art. 571 che l’art. 572 c.p. indicano<br />

come soggetto passivo delle rispettive previsioni<br />

anche la “persona sottoposta all’autorità<br />

dell’agente o a lui affidata per l’esercizio di una<br />

professione o di un’arte”. La formula linguistica<br />

utilizzata postula il chiaro riferimento a rapporti<br />

implicanti una subordinazione, sia essa giuridica<br />

o di mero fatto, la quale da un lato - può indurre<br />

il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente<br />

prevaricatrice verso il soggetto passivo<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

e - dall’altro - rende difficile a quest’ultimo di<br />

sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione<br />

della sua personalità. Proprio incidendo<br />

sulle nozioni di “subordinazione ad autorità” e<br />

di “affidamento, può farsi rientrare nella corrispondente<br />

situazione anche il rapporto che lega<br />

il lavoratore al datore di lavoro. L’affermazione<br />

merita, però, una precisazione.<br />

Tale rapporto, avuto riguardo alla ratio delle<br />

richiamate norme e, in particolare, a quella<br />

di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere<br />

caratterizzato da “familiarità”, nel senso che,<br />

pur non inquadrandosi nel contesto tipico della<br />

“famiglia”, deve comportare relazioni abituali<br />

e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la<br />

soggezione di una parte nei confronti dell’altra<br />

(rapporto supremazia-soggezione), la fiducia<br />

riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo,<br />

destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza<br />

verso il primo, perché parte più debole. È soltanto<br />

nel limitato contesto di un tale peculiare<br />

rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi,<br />

ove si verifichi l’alterazione della funzione<br />

del medesimo rapporto attraverso lo svilimento<br />

e l’umiliazione della dignità fisica e morale del<br />

soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.<br />

(Nella fattispecie, è stata esclusa la configurabilità<br />

della fattispecie penale in quanto la società<br />

aveva centinaia di dipendenti ed una articolata<br />

organizzazione che non implicava una stretta ed<br />

intensa relazione diretta tra datore di lavoro e<br />

dipendente sì da determinare una comunanza di<br />

vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio<br />

familiare, e inevitabilmente marginalizzava<br />

i rapporti intersoggettivi nel senso che non<br />

ne esaltava quell’aspetto personalistico connesso<br />

alla soggezione tra soggetti operanti su piani diversi.<br />

Conseguentemente non era apprezzabile,<br />

in una simile realtà, la riduzione del soggetto più<br />

debole in una condizione esistenziale dolorosa e<br />

intollerabile a causa della sopraffazione sistematica<br />

di cui sarebbe rimasto vittima).<br />

Patto di non concorrenza<br />

Cass. Sez. Lav., 6 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 10403<br />

Decorrenza – Rapporti di lavoro parasubordinato<br />

Per i contratti di collaborazione, quale quello di<br />

lavoro parasubordinato, nella durata massima<br />

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dell’eventuale patto accessorio di non concorrenza<br />

non può essere compreso il tempo di<br />

svolgimento della collaborazione, onde la stessa<br />

non inizia prima della cessazione del contratto.<br />

Durante lo svolgimento di questo, infatti, l’obbligo<br />

di astenersi dalla concorrenza, connaturale<br />

ad ogni rapporto di collaborazione economica,<br />

renderebbe inutile ossia privo di causa il patto<br />

accessorio, come risulta ad esempio dall’articolo<br />

1743 c.c., articolo 1746 c.c., comma 1, dagli articoli<br />

2105, 2301 e 2318 cod. civ. ed in generale<br />

dall’articolo 1375 cod. civ.<br />

Processo del lavoro<br />

Cass. Sez. Lav., 23 aprile 2<strong>00</strong>9, n. 9695<br />

Licenziamento illegittimo – Sentenza di condanna<br />

– Titolo esecutivo – Configurabilità – Condizioni<br />

Le sentenze di condanna del datore di lavoro al<br />

pagamento di quanto dovuto al lavoratore a seguito<br />

del riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento,<br />

a’ sensi dell’art. 18, L. n. 3<strong>00</strong>/1970,<br />

ovvero le sentenze di condanna del datore di<br />

lavoro al pagamento di un determinato numero<br />

di mensilità di retribuzione, costituiscono valido<br />

titolo esecutivo per la realizzazione del credito<br />

anche quando, nonostante l’omessa indicazione<br />

del preciso ammontare complessivo della somma<br />

oggetto dell’obbligazione, la somma stessa<br />

sia quantificabile per mezzo di un mero calcolo<br />

matematico, semprechè per la determinazione<br />

dell’importo non siano necessari elementi estranei<br />

al giudizio concluso e non predeterminati per<br />

legge, solo in tale ultimo caso potendo il creditore<br />

fare legittimamente ricorso al procedimento<br />

monitorio, nel cui ambito la sentenza diviene<br />

utilizzabile come atto scritto, dimostrativo dell’esistenza<br />

del credito fatto valere.<br />

Cass. Sez. Un., 7 luglio 2<strong>00</strong>9, n. 15846<br />

Controversie su maxisanzione per lavoro irregolare<br />

– Giurisdizione ordinaria<br />

La Corte Costituzionale con sentenza 14 maggio<br />

2<strong>00</strong>8 n. 130 ha dichiarato la illegittimità costituzionale<br />

del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546,<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

art. 2, comma 1, nella parte in cui attribuisce<br />

alla giurisdizione tributaria le controversie relative<br />

alle sanzioni comunque irrogate da uffici<br />

finanziari, anche laddove esse conseguano alla<br />

violazione di disposizioni non aventi natura<br />

tributaria.<br />

Di conseguenza, per effetto di tale declaratoria,<br />

deve affermarsi che la giurisdizione a conoscere<br />

delle “controversie relative alle sanzioni comunque<br />

irrogate da uffici finanziari” (quale quelle<br />

di cui al D.L. n. 12 del 2<strong>00</strong>2, art. 3, comma 3,<br />

convertito con L. n. 73 del 2<strong>00</strong>2, in relazione<br />

a preteso rapporto di lavoro irregolare) appartiene<br />

al giudice ordinario, e non già a quello<br />

tributario, perchè quelle sanzioni conseguono<br />

“alla violazione di disposizioni non aventi natura<br />

tributaria”.<br />

Controversie su maxisanzione per lavoro irregolare –<br />

Giurisdizione – Difetto del giudice adito – Conseguenze<br />

L’accertata carenza di giurisdizione del giudice<br />

tributario che la ha pronunciata determina la<br />

necessità di cassare la decisione impugnata e di<br />

rimettere le parti innanzi al giudice ordinario<br />

territorialmente competente.<br />

Reati<br />

Cass. pen., Sez. III, 14 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 20255<br />

Ritenute previdenziali – Omesso versamento –<br />

Pagamento delle retribuzioni – Prova – Necessita<br />

Il reato di cui all’art. 2, L. n. 638/1983 non è<br />

configurabile senza la materiale corresponsione<br />

delle retribuzioni. Trattandosi di un elemento costitutivo<br />

del reato, la dimostrazione del materiale<br />

esborso delle somme e, quindi, della mancata<br />

effettuazione delle ritenute, deve essere fornita<br />

dalla pubblica accusa, in quanto, diversamente<br />

argomentando, si verrebbe ad esonerare in ogni<br />

caso l’accusa dall’onere di provare la sussistenza<br />

di un fatto che costituisce un elemento integrativo<br />

della fattispecie e ad addossare, per contro,<br />

alla difesa l’onere di provare l’esistenza di questo<br />

fatto.<br />

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il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong> 9<br />

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studio, la questione affrontata dalla medesima e la soluzione data; segue un commento evidenziato da<br />

una lente d’ingrandimento.<br />

Ultime dalla Cassazione<br />

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“il Giurista del <strong>Lavoro</strong>” n. 9/2<strong>00</strong>9 - Settembre 2<strong>00</strong>9<br />

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