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DISPENSE DEL CORSO DI LABORATORIO DI CHIMICA – FISICA 1

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ANNO ACCADEMICO 2008 <strong>–</strong> 2009<br />

<strong><strong>DI</strong>SPENSE</strong> <strong>DEL</strong> <strong>CORSO</strong> <strong>DI</strong><br />

<strong>LABORATORIO</strong> <strong>DI</strong> <strong>CHIMICA</strong> <strong>–</strong> <strong>FISICA</strong> 1<br />

LUCA BERNAZZANI


IN<strong>DI</strong>CE<br />

PROPRIETÀ MECCANICHE E OTTICHE <strong>DEL</strong>LA MATERIA<br />

1. Densità ........................................................................................................................................ 1<br />

2. Tensione Superficiale ................................................................................................................ 9<br />

3. Viscosità ................................................................................................................................... 19<br />

4. Indice di rifrazione .................................................................................................................. 28<br />

5. Potere ottico rotatorio ........................................................................................................... 36<br />

PROPRIETÀ TERMICHE E TERMO<strong>DI</strong>NAMICHE<br />

6. Temperatura ............................................................................................................................. 45<br />

7. Misure di Calore ...................................................................................................................... 60<br />

8. Equilibri di fase in sistemi monocomponente .................................................................... 86<br />

9. Equilibri di fase in sistemi a due componenti: equilibri liquido-vapore ........................ 96<br />

10. Equilibri di fase in sistemi a due componenti: equilibri solido-liquido ..................... 109<br />

11. Studio di transizioni vetrose in materiali polimerici ................................................... 125<br />

TRATTAMENTO DEI DATI NELLE MISURE SPERIMENTALI<br />

12. Cenni di statistica, teoria degli errori e trattamento dati ........................................... 131


1. Densità<br />

PROPRIETÀ MECCANICHE E OTTICHE <strong>DEL</strong>LA MATERIA<br />

La densità è una delle proprietà chimico-fisiche della materia concettualmente più<br />

semplici, almeno finché ci si riferisce a sostanze e campioni omogenei. In questo caso,<br />

infatti, la densità è una proprietà isotropa, non varia cioè da punto a punto in uno stesso<br />

campione, e può essere definita semplicemente come il rapporto tra la massa e il volume<br />

del campione in esame:<br />

DENSITÀ: ρ= m<br />

V<br />

Ovviamente se il corpo non è omogeneo la distribuzione della massa non è omogenea e la<br />

densità cessa di essere una proprietà isotropa e può solo essere definita punto per punto in<br />

termini differenziali:<br />

ρ ( ) = dm<br />

xyz , ,<br />

con dV = ddd x y z<br />

dV<br />

Nel caso di un corpo non omogeneo la massa complessiva M può infatti essere ottenuta<br />

per integrazione:<br />

∫ ∫∫∫<br />

1<br />

( )<br />

M = dm= ρ x, y, z dxdydz V V<br />

Fortunatamente siamo in genere interessati a conoscere la densità di campioni omogenei<br />

che si riferiscono di norma a solidi e liquidi (liquidi puri o soluzioni). Si definisce densità<br />

1<br />

relativa di una sostanza 1 rispetto ad una sostanza 2, ρ r , il rapporto tra le densità assolute<br />

di 1 e di 2:<br />

ρ m V<br />

ρ r = =<br />

1 1 1 1<br />

2<br />

ρ2<br />

m2 V2<br />

Metodi sperimentali di misura della densità<br />

Metodo del picnometro<br />

2<br />

⎛ m<br />

⎞<br />

1<br />

⎜= se V1 = V2⎟<br />

⎝ m2<br />

⎠<br />

Esistono picnometri per liquidi e per solidi. Il tipo più comune di picnometro per liquidi è<br />

quello di Sprengel rappresentato in Figura 1.<br />

(1.1)<br />

(1.2)


Il principio di funzionamento è molto semplice:<br />

a. si pesa prima il picnometro vuoto,<br />

accuratamente lavato ed asciugato (mtara);<br />

b. si porta a temperatura il picnometro<br />

immergendolo in un termostato, lo si riempie<br />

d’acqua aggiustando i menischi alle tacche di<br />

riferimento, quindi si asciuga perfettamente<br />

all’esterno e lo si pesa (macqua). L’acqua deve essere<br />

bollita e tenuta sottovuoto per ridurre la quantità di<br />

gas disciolti.<br />

c. Si ripete l’intera operazione con il picnometro<br />

pieno del liquido di cui si vuole misurare la densità<br />

(mx).<br />

Dalle tre pesate effettuate si ottiene infine:<br />

2<br />

x mx − mtara<br />

ρ racqua<br />

=<br />

m − m (1.3)<br />

acqua tara<br />

e dalla densità relativa si ottiene infine la densità assoluta moltiplicando per la densità<br />

assoluta dell’acqua che è nota con grande precisione a tutte le temperature<br />

25 °C -3<br />

( ρ =<br />

)<br />

HO 997.0429 kg m .<br />

2<br />

Per i solidi ci sono picnometri diversi fatti come piccoli matracci tarati. In questo caso si<br />

pesa una piccola quantità del solido (mx), quindi si pesa il picnometro pieno di un liquido<br />

in cui il solido non deve essere solubile (supponiamo acqua, mpicn. + acqua). A questo punto si<br />

trasferisce il solido nel picnometro pieno d’acqua: in questa operazione fuoriesce una<br />

massa d’acqua pari al volume del solido. La massa d’acqua fuoriuscita sarà calcolabile per<br />

differenza (mpicn.+acqua + mx - mpicn.+acqua+x). La densità relativa sarà pertanto esprimibile<br />

come:<br />

ρ r =<br />

Metodo di Westphal (bilancia idrostatica)<br />

m<br />

x x<br />

acqua<br />

mpicn.+acqua + mx−mpicn.+acqua+x Il metodo consiste nel misurare la spinta di Archimede ricevuta da un immersore di massa<br />

M e volume V sospeso ad un piatto di una bilancia mediante un filo di sezione trascurabile<br />

(1.4)


(Figura 2). Si equilibra il<br />

sistema variando la massa m<br />

posta sul piatto che sovrasta<br />

l’immersore mentre sull’altro<br />

piatto è posta la massa fissa T e<br />

si ripete l’operazione quando<br />

quest’ultimo si trova immerso<br />

in aria, in acqua e nel liquido<br />

di cui si vuole misurare la<br />

densità (sempre a temperatura<br />

costante).<br />

Si avrà pertanto nei tre casi:<br />

⎧ maria + M − ρaria ⋅ V = T<br />

⎪<br />

⎨macqua<br />

+ M − ρacqua ⋅ V = T<br />

⎪<br />

⎩mx<br />

+ M − ρx ⋅ V = T<br />

immersore in aria<br />

immersore in acqua<br />

immersore nel liquido di densità incognita<br />

Sottraendo membro a membro la prima equazione dalla seconda si ottiene:<br />

da cui si ricava per V:<br />

( )<br />

3<br />

(1.5)<br />

macqua− maria + ρaria −ρ acqua V = 0<br />

(1.6)<br />

maria − macqua<br />

V = (1.7)<br />

ρ −ρ<br />

aria acqua<br />

Sottraendo poi la seconda equazione alla terza e sostituendo l’espressione trovata per V si<br />

ottiene:<br />

da cui infine si può esplicitare l’espressione per ρx:<br />

maria − macqua<br />

mx − m acqua + ( ρacqua −ρ x)<br />

= 0<br />

(1.8)<br />

ρ −ρ<br />

aria acqua<br />

mx − macqua<br />

ρ =ρ + ρ −ρ<br />

m − m<br />

( )<br />

x acqua aria acqua<br />

aria acqua<br />

Si possono anche aggiungere come termini di correzione i contributi dovuti alla spinta<br />

idrostatica esercitata dall’aria sui pesi maria, macqua ed mx. Si tratta cioè di aggiungere al<br />

primo membro delle (1.5) un termine del tipo −ρaria ⋅mi ρ peso . Questo appesantisce un po’ i<br />

calcoli, ma non presenta difficoltà e per contro fa aumentare la precisione che con questo<br />

(1.9)


metodo è notevole (la precisione è tanto maggiore quanto maggiore è il volume<br />

dell’immersore V).<br />

Densimetri a vibrazione<br />

Un’asta di lunghezza l e densità lineare costante μ ( μ= m/ l con m massa dell’asta), infissa<br />

in un blocco di massa grande rispetto all’asta stessa, vibra, se percossa, dando luogo a<br />

oscillazioni smorzate di frequenza:<br />

1 F<br />

ν=<br />

2πlμ<br />

4<br />

(1.10)<br />

dove F è una costante caratteristica dell’asta. Ora, ricordando che il periodo di oscillazione<br />

T è pari all’inverso della frequenza, si può ricavare una relazione di proporzionalità diretta<br />

tra il quadrato del periodo di oscillazione e la densità lineare dell’asta:<br />

2 2<br />

2 4π l<br />

τ = μ (1.11)<br />

F<br />

Su questo principio si basano le misure di densità effettuate mediante densimetri a<br />

vibrazione. Se infatti sostituiamo all’asta metallica un tubo cavo (metallico o in vetro,<br />

quarzo, ecc.) con volume interno pari a V che andiamo a riempire di volta in volta con un<br />

liquido di data densità, possiamo esprimere la densità lineare del dispositivo come somma<br />

di due termini:<br />

μ= + liq<br />

tubo m m<br />

(1.12)<br />

l l<br />

Moltiplicando e dividendo il secondo termine a secondo membro per la sezione S del tubo<br />

si ottiene ovviamente:<br />

m Sm tubo liq m Sm<br />

tubo liq mtubo<br />

μ= + = + = + Sρliq<br />

(1.13)<br />

l Sl l V l<br />

Sostituendo questa espressione nella (1.11) si ricava allora:<br />

2 2 2<br />

2 2<br />

2 4π l ⎛mtubo ⎞ 4π<br />

lmtubo<br />

4π<br />

l S<br />

τ = ⎜ + Sρ<br />

liq ⎟=<br />

+ ρliq<br />

(1.14)<br />

F ⎝ l ⎠ F F<br />

Si ottiene cioè una relazione lineare tra il quadrato del periodo di oscillazione e la densità<br />

del liquido contenuto nel tubo. Dato che tutti i termini ad eccezione di τ e ρ sono costanti<br />

“strumentali” si può porre per convenienza:<br />

2 2<br />

⎧ 4π<br />

lS<br />

A =<br />

⎪ F<br />

⎨ 2<br />

⎪<br />

4π<br />

lm<br />

B =<br />

⎪⎩ F<br />

tubo<br />

(1.15)


ed esplicitare pertanto la dipendenza lineare nella forma:<br />

da cui si potrà infine ricavare la densità del liquido in esame:<br />

2<br />

τ = B+ A ρ<br />

(1.16)<br />

5<br />

liq<br />

2<br />

τ −B<br />

ρ liq =<br />

A (1.17)<br />

Le costanti A e B, caratteristiche dello strumento, potranno essere ricavate<br />

sperimentalmente misurando i periodi di oscillazione del tubo riempito con due fluidi di<br />

riferimento aventi densità nota. Si impiegano di norma aria e acqua come già visto nel caso<br />

di altri apparati di misura della densità:<br />

da cui si ricava:<br />

Descrizione dello Strumento<br />

τ −τ<br />

A =<br />

ρ −ρ<br />

2 2<br />

acqua aria<br />

acqua aria<br />

2<br />

⎧τ = B+ Aρ<br />

⎨ 2<br />

⎩<br />

τ = B+ Aρ<br />

aria aria<br />

acqua acqua<br />

e<br />

2<br />

aria aria<br />

(1.18)<br />

B=τ −Aρ (1.19)<br />

Lo strumento, di cui uno schema d’insieme è rappresentato in Figura 3, è costituito da un<br />

tubo, generalmente in vetro, ma anche in quarzo o in acciaio, immerso in un’ampolla di<br />

gas ad elevata conducibilità termica e a sua volta racchiusa in una camicia in cui circola un<br />

liquido termostatato. Nella vibrazione il tubo (che si comporta come un diapason)<br />

intercetta il raggio luminoso emesso da un fotodiodo e incidente su un fototransistore, in<br />

modo che quest’ultimo produce un segnale in tensione della stessa frequenza di<br />

oscillazione del tubo. Tale segnale viene inviato ad un frequenzimetro/periodimetro che<br />

dà immediatamente la lettura del periodo. Lo stesso segnale, inoltre, opportunamente<br />

amplificato viene inviato ad un trasduttore (solenoide) che eccita il “diapason” per<br />

impedire che le vibrazioni si smorzino. Il tubo continua quindi a vibrare alla sua frequenza<br />

naturale di oscillazione.


Dipendenza della densità dalla temperatura<br />

Un aspetto cruciale di tutte le misure di densità, indipendentemente dal metodo<br />

sperimentale impiegato, è l’accuratezza del sistema di termostatazione impiegato. Nel caso<br />

dell’acqua e delle soluzioni acquose il coefficiente di temperatura a 25° C è:<br />

−<br />

( ∂ρ ∂ ) ≅ ×<br />

mentre per i comuni liquidi organici si trova:<br />

4 -3 -1<br />

T 2.5 10 g cm K<br />

(1.20)<br />

p<br />

−<br />

( ∂ρ ∂ ) ≅<br />

3 -3 -1<br />

T 10 g cm K<br />

(1.21)<br />

p<br />

Questo significa che se si vuole effettuare una misura di densità precisa entro<br />

± ×<br />

−6<br />

-3<br />

1 10 g cm (cioè precisa alla sesta cifra decimale) si deve disporre di un sistema di<br />

termostatazione che assicuri un’accuratezza e una stabilità della temperatura entro ± 0.001<br />

K. Se invece il sistema di termostatazione è stabile al centesimo di grado la precisione sulla<br />

misura di densità non potrà mai essere migliore di<br />

dall’accuratezza del sistema di misura.<br />

6<br />

−5<br />

-3<br />

1 10 g cm , indipendentemente<br />

± ×


Si definisce coefficiente di espansività isobara di una sostanza la quantità:<br />

1 ⎛∂V⎞ α p = ⎜ ⎟<br />

V ⎝ ∂T<br />

⎠<br />

7<br />

p<br />

(1.22)<br />

m<br />

Impiegando il volume molare ( V = M ρ,<br />

con M massa molecolare) si può ricavare<br />

dall’eq. (1.22):<br />

( M ) ( 1 )<br />

m<br />

1 ⎛∂V⎞ ρ ⎡∂ ρ ⎤ ρ ⎡∂ ρ ⎤ ρ ⎛ ∂ρ ⎞ 1⎛<br />

∂ρ ⎞<br />

α p = ⎜ ⎟ = ⎢ ⎥ = M ⎢ ⎥ =− ⎜ ⎟ =−<br />

m<br />

2<br />

⎜ ⎟<br />

V ⎝ ∂T ⎠ M ⎣ ∂T ⎦ M ⎣ ∂T ⎦ ρ ⎝∂T ⎠p ρ⎝∂T ⎠p<br />

(1.23)<br />

p p p<br />

Da cui si può quindi ricavare il coefficiente di temperatura della densità:<br />

⎛ ∂ρ ⎞<br />

⎜ ⎟ = −ρα<br />

⎝∂T⎠ DETERMINAZIONE <strong>DEL</strong> VOLUME IN ECCESSO <strong>DI</strong> MISCELE <strong>DI</strong> LIQUI<strong>DI</strong> ORGANICI<br />

p<br />

p<br />

(1.24)<br />

Mentre la massa è una proprietà rigorosamente additiva (legge di conservazione della<br />

massa) il volume non lo è. Ciò significa che mentre l’aggiunta, ad esempio, di 1 g di<br />

componente A ad 1 g di componente B dà origine esattamente a 2 g di miscela,<br />

mescolando 1 ml di A con 1 ml di B si ottiene una miscela il cui volume è generalmente<br />

diverso da 2 ml. La deviazione dall’additività è esprimibile come volume di mescolamento:<br />

m m<br />

( )<br />

Δ V = V − n V + n V (1.25)<br />

mix mix A A B B<br />

dove Vmix rappresenta il volume di miscela che si ottiene mescolando nA moli di A e nB moli<br />

m<br />

di B aventi rispettivamente volumi molari A<br />

m<br />

V e V B . Se la miscela si comporta idealmente<br />

(segue cioè la legge di Raoult) il volume di mescolamento deve essere nullo e per questa<br />

ragione qualunque valore non nullo del volume di mescolamento (normalizzato a mole di<br />

miscela) viene detto volume in eccesso della miscela ed indicato con V E :<br />

m<br />

dove = ( + )<br />

mix mix A B<br />

( )<br />

E m m m<br />

V = V − x V + x V (1.26)<br />

mix A A B B<br />

V V n n rappresenta il volume molare della miscela. Ora i volumi molari<br />

dei componenti puri e della miscela possono essere espressi in funzione delle rispettive<br />

densità:<br />

M<br />

m A<br />

m B<br />

V A = B<br />

ρ A<br />

B<br />

M<br />

m xAMA + xBMB V = Vmix<br />

=<br />

ρ ρ<br />

mix<br />

(1.27)


con MA ed MB masse molecolari dei due componenti. Si ottiene pertanto facilmente<br />

un’espressione del volume in eccesso di una miscela binaria in funzione delle densità dei<br />

componenti puri e della miscela e della composizione:<br />

V<br />

x M + x M ⎛x M x M ⎞<br />

= − ⎜ + ⎟<br />

ρmix ⎝ ρAρB⎠ (1.28)<br />

E A A B B A A B B<br />

8


2. Tensione Superficiale<br />

Un liquido tende a minimizzare il suo rapporto superficie/volume, pertanto in assenza di<br />

forze esterne assumerebbe sempre una forma sferica. Questo fenomeno è dovuto al fatto<br />

che ogni molecola nel liquido risente delle interazioni con le molecole circostanti. Tali<br />

interazioni sono mediamente nulle per una particella che si trovi all’interno del liquido,<br />

ma in prossimità della superficie la loro risultante è diversa da zero. In un liquido posto in<br />

Figura 4. Effetto delle forze intermolecolari<br />

condizioni sperimentali “normali” le molecole<br />

tendono pertanto a portarsi verso l’interno.<br />

Poiché un liquido tende a minimizzare il<br />

rapporto superficie/volume, in un processo in<br />

cui si venga ad aumentare la superficie di un<br />

liquido di una quantità infinitesima ds si<br />

compie un lavoro proporzionale a ds. Si<br />

definisce tensione superficiale il lavoro<br />

compiuto quando si incrementa la superficie s<br />

di un liquido di una quantità unitaria e la si<br />

indica con γ. La tensione superficiale è<br />

responsabile di molti fenomeni tra cui la frammentazione dei liquidi in gocce, la<br />

formazione dei menischi, il comportamento delle bolle ed altri fenomeni inerenti la<br />

capillarità e la bagnabilità. Si consideri un dispositivo del tipo rappresentato in Figura 5:<br />

una lamina di liquido, aderente ad un filo<br />

metallico, può essere estesa agendo su un<br />

ponticello mobile mediante la forza F. Se si<br />

produce uno spostamento dx del ponticello, si<br />

compie un lavoro Fdx (F e dx hanno uguali<br />

direzione e verso) contro le forze di tensione<br />

che, come osservato, sono proporzionali<br />

all’aumento di superficie del liquido ds = 2⋅dx<br />

(il fattore due indica che l’aumento di<br />

superficie è su entrambi i lati). Si avrà<br />

9


pertanto: 2γ dx<br />

= Fdx o anche<br />

F<br />

γ=<br />

2<br />

(2.1)<br />

cioè dimensionalmente la tensione superficiale è una forza per unità di lunghezza. L’unità<br />

di misura comunemente adottata è il dine⋅cm -1 (equivalente a mN⋅m -1 ).<br />

Da un punto di vista termodinamico è utile considerare il differenziale completo<br />

dell’energia libera di Gibbs. Ricordando che G = H − TS = U + PV − TS si avrà:<br />

dG= dU+ PdV+ VdP−TdS−SdT (2.2)<br />

ed essendo dU =δ q+δ w= TdS− PdV+δw ' (intendendo con δw ' qualunque lavoro<br />

compiuto da o sul sistema diverso dal lavoro di espansione) si trova:<br />

dG= TdS − PdV +δ w'+ PdV + VdP− TdS − SdT =<br />

= VdP− SdT+δw' Per sistemi isotermi e isobari sarà dunque:<br />

10<br />

(2.3)<br />

dG =δw<br />

'<br />

(2.4)<br />

PT ,<br />

Nel caso in cui l’unico lavoro compiuto sia quello contro le forze di tensione superficiale<br />

nell’estendere la superficie di una quantità infinitesima ds si avrà anche:<br />

dG =γds<br />

e γ= dG<br />

ds<br />

Quindi la tensione superficiale è anche un’energia libera per unità di superficie.<br />

Tipiche sostanze di riferimento per la tensione superficiale sono l’acqua ed il mercurio che<br />

a temperatura ambiente hanno rispettivamente γ = 72 mN m -1 e γ = 476 mN m -1<br />

(ρ(Hg) = 13.6 g cm -3 ). La maggior parte dei liquidi organici mostrano invece tensione<br />

superficiale compresa tra 20 e 40 mN m -1 .<br />

In genere la tensione superficiale dei liquidi diminuisce con l’aumentare della<br />

temperatura. La dipendenza dalla temperatura è espressa mediante l’equazione di Eötvös:<br />

(2.5)<br />

23<br />

d ⎡γV⎤ m<br />

−<br />

⎣ ⎦<br />

= kE<br />

(2.6)<br />

dT<br />

dove Vm è il volume molare del liquido e kE è detta costante di Eötvös. Integrando tra due<br />

temperature T0 e T si trova:<br />

( T0) ⎣Vm( T0) ⎦ ( T) Vm( T)<br />

( T −T)<br />

23 23<br />

γ ⎡ ⎤ −γ ⎡ ⎤<br />

−<br />

⎣ ⎦<br />

= k<br />

0<br />

E<br />

(2.7)


Poiché alla temperatura critica Tc il menisco tra il liquido e il vapore scompare, la tensione<br />

superficiale si annulla, pertanto ponendo T0 = Tc nell’equazione (2.7) si otterrà:<br />

γ V = k ( T − T)<br />

(2.8)<br />

23<br />

m E C<br />

Per tutti i liquidi non associati kE è approssimativamente uguale a 2.1 (con γ espressa in<br />

mN m -1 e Vm espresso in cm 3 mol -1 ) mentre per gli altri (come l’acqua e gli alcoli) varia da<br />

liquido a liquido ed inoltre varia con la temperatura.<br />

Formazione delle gocce e metodo dello stalagmometro<br />

Come sopra osservato la tensione superficiale è anche responsabile della forma e della<br />

dimensione delle gocce in cui un liquido si può frammentare. Consideriamo ad esempio<br />

una goccia di liquido avente massa m sospesa all’estremità di un<br />

tubo capillare: la goccia cade quando il suo peso mg vince le forze<br />

di tensione che si esercitano sulla circonferenza della goccia stessa:<br />

11<br />

mg =γ2πr (2.9)<br />

quindi:<br />

mg ρvg<br />

γ= =<br />

2πr 2πr<br />

(2.10)<br />

(ρ = densità del liquido; v = volume della goccia)<br />

Tuttavia il metodo non è direttamente sfruttabile per misurare la<br />

tensione superficiale di un liquido, infatti la goccia non è<br />

esattamente sferica ed inoltre il raggio del capillare e della goccia<br />

non coincidono esattamente rendendo difficoltosa la<br />

determinazione. Se tuttavia un volume complessivo V di<br />

liquido cade per effetto della gravità frammentandosi in<br />

un numero n di gocce si avrà v= V n e<br />

conseguentemente:<br />

ρVg<br />

γ=<br />

n2π r<br />

(2.11)<br />

Su questo principio si basa il metodo dello<br />

stalagmometro (Figura 7): si contano le gocce di liquido<br />

in cui si frammenta il volume totale di liquido compreso<br />

tra i due traguardi. Per eliminare parametri fastidiosi da<br />

determinare, come il raggio interno del capillare r e lo


stesso volume esatto V della riserva, si misura la tensione superficiale di un liquido<br />

rispetto a quella di un liquido di riferimento di tensione superficiale nota 0<br />

12<br />

γ e densità 0<br />

In pratica sarà sufficiente misurare in quante gocce si frammentano rispettivamente il<br />

campione ed il riferimento; dall’equazione (2.11) si avrà allora per il riferimento:<br />

ρ0Vg<br />

γ 0 =<br />

n π r<br />

da cui: Vg γ0n0<br />

=<br />

2πrρ<br />

(2.12)<br />

ed infine:<br />

Formazione di bolle<br />

0 2<br />

γ=γ<br />

0<br />

n0<br />

n<br />

ρ<br />

0<br />

ρ .<br />

ρ 0<br />

(2.13)<br />

La tensione superficiale è anche responsabile delle dimensioni delle bolle, delle cavità e<br />

delle gocce nei liquidi. Diciamo bolla una regione in cui il vapore misto ad aria è<br />

intrappolato in una pellicola di liquido; una cavità è una lacuna all’interno di un liquido<br />

piena di vapore; una gocciolina, infine, è un volume minuscolo di liquido in equilibrio con<br />

il vapore che la circonda. Consideriamo infatti una cavità sferica di volume<br />

superficie<br />

s r<br />

4<br />

v r<br />

3<br />

3<br />

= π e<br />

2<br />

= 4π<br />

e supponiamo di insufflare dentro una leggera sovrapressione tale da<br />

determinare un aumento infinitesimo del raggio della cavità dr.<br />

Il lavoro compiuto nell’espansione può essere scritto come −Pintdv, o, considerando che esso è<br />

compiuto contro le forze di pressione esterna e di tensione superficiale, come ( − d −γd<br />

)<br />

Eguagliando le due espressioni e ponendo = π 2<br />

dv 4 r dr<br />

e ds= 8πrdrsi ottiene:<br />

( P P )<br />

int est 4<br />

2<br />

− π<br />

P v s .<br />

r dr =γ8πr dr (2.14)<br />

da cui si ricava:<br />

2γ<br />

Pint − Pest<br />

= (2.15)<br />

r<br />

Che è detta Equazione di Young <strong>–</strong> Laplace. L’eq. (2.15) sta a indicare che affinchè la cavità<br />

si mantenga in equilibrio occorre che al suo interno vi sia una pressione superiore a quella<br />

esterna, altrimenti collassa. Il gradiente di pressione deve essere tanto più grande quanto<br />

più la cavità è piccola (r piccolo). In generale si può affermare che la pressione è sempre<br />

maggiore laddove la superficie è concava. Questo effetto è anche alla base dei fenomeni di<br />

capillarità. Se invece consideriamo una bolla che anziché formarsi all’interno di un liquido<br />

est


si forma ad una doppia interfase vapore <strong>–</strong> liquido <strong>–</strong> vapore (come nel caso delle bolle di<br />

sapone) la superficie dell’interfase è doppia e conseguentemente vale la relazione:<br />

4γ<br />

Pint − Pest<br />

= (2.16)<br />

r<br />

Nel caso di una gocciolina, infine, si ottiene un’espressione identica alla (2.15) trovata per<br />

una cavità, ma in questo caso si ha Pest > P int .<br />

Capillarità<br />

In un tubo capillare (cioè di diametro interno dell’ordine di 1 mm o inferiore) immerso in<br />

un liquido si osserva una “risalita” del liquido stesso all’interno del capillare di una<br />

Liquido<br />

Tubo<br />

capillare<br />

Figura 8. Effetto della capillarità<br />

altezza che dipende dalla sua sezione e dalla natura del<br />

liquido (in pratica dalla sua densità e dalla sua tensione<br />

superficiale). Se si osserva il menisco del liquido questo si<br />

presente come in Figura 8.<br />

La curvatura del menisco fa sì che dalla parte del liquido<br />

(superficie convessa) agisca, oltre alla pressione<br />

atmosferica, una pressione di Laplace (che in questo caso è<br />

negativa proprio perché la superficie è convessa) che è<br />

pari a 2γ/r (in questo caso la superficie dell’interfase è<br />

singola). Poiché il sistema è in equilibrio, alla base della<br />

colonna di liquido questa pressione addizionale deve<br />

essere bilanciata da un’altra forza di pressione che è quella idrostatica e che è pari a ρgh.<br />

Pertanto:<br />

ρ gh= 2γ<br />

r da cui si ricava facilmente:<br />

1<br />

r gh<br />

2 γ = ρ § (2.17)<br />

Il fenomeno della capillarità può pertanto essere sfruttato per determinazioni di tensione<br />

superficiale. Il dispositivo sperimentale mediante il quale si esegue questo tipo di misura è<br />

costituito da un sistema di due tubi comunicanti capillari di differente sezione (Figura 9).<br />

Si ha dalla (2.17):<br />

§ Alternativamente si può ricavare la relazione (2.17) uguagliando la forza dovuta alla pressione idrostatica<br />

2<br />

( F = P ⋅ s = ρghπ r ) con le forze di tensione che agiscono sulla circonferenza del menisco ( F = 2πrγ).<br />

idr<br />

r<br />

13


h<br />

1<br />

2γ<br />

=<br />

ρgr<br />

1<br />

e h2<br />

2γ<br />

=<br />

ρgr<br />

e conseguentemente:<br />

2γ⎛ 1 1 ⎞ 2γ⎛r1 −r<br />

⎞ 2<br />

h2 − h1 =Δ h=<br />

⎜ − ⎟= ⎜ ⎟ (2.18)<br />

ρg⎝r2 r1 ⎠ ρg⎝<br />

rr 1 2 ⎠<br />

Poiché i termini r1, r2 e g sono costanti si può porre<br />

2⎛r − r ⎞ 1<br />

= e ricavare infine:<br />

g rr k<br />

1 2<br />

⎜ ⎟<br />

⎝ 1 2 ⎠<br />

γ = kρΔ h<br />

(2.19)<br />

La costante k può essere determinata ricorrendo a un<br />

liquido di riferimento di cui siano note densità e tensione superficiale.<br />

Misure di tensione superficiale mediante un tensiometro bifilare<br />

Il tensiometro bifilare è un dispositivo<br />

costituito da una bilancia di torsione in cui,<br />

mediante la torsione di un filo metallico si<br />

bilancia la forza esercitata dalla tensione<br />

superficiale su una lamina di liquido aderente<br />

ad un piccolo anello di Platino (Figura 10).<br />

Inizialmente si fa in modo che l’anello sia<br />

completamente immerso nel liquido, poi si<br />

inizia ad abbassare il recipiente contenente il<br />

2<br />

campione agendo su una ghiera in modo da portare l’anello in superficie. In questa<br />

Forza F da applicare<br />

per bilanciare la<br />

tensione superficiale<br />

Forza di<br />

tensione k<br />

Componente da<br />

bilanciare F = kcos<br />

r = 1 cm<br />

Figura 11. Effetto della tensione superficiale<br />

sull’anello del tensiometro<br />

Lamina di liquido<br />

condizione le forze di tensione iniziano a farsi<br />

sentire e per equilibrare la bilancia si agisce<br />

su un apposita manopola che ruota il filo di<br />

torsione di un certo angolo. Poiché la<br />

tensione superficiale è tangente alla lamina,<br />

da principio solo la componente verticale<br />

deve essere bilanciata. Man mano che si<br />

allontana il recipiente del campione, la<br />

lamina diviene sempre più verticale e di<br />

conseguenza aumenta la componente che<br />

14<br />

Δh<br />

Figura 9. Dispositivo per la misura<br />

della capillarità


deve essere bilanciata (Figura 11). Quando infine la lamina è ortogonale alla superficie del<br />

liquido la componente verticale coincide con la tensione superficiale che assume valore<br />

massimo. In questa condizione anche allontanando ulteriormente il recipiente la tensione<br />

osservata rimane costante (non è una forza di tipo elastico). In questa condizione si misura<br />

l’angolo di torsione limite θ. Abbassando ulteriormente il recipiente del campione la<br />

lamina di liquido si assottiglia fino a rompersi. Le forze di tensione si esercitano sulla<br />

circonferenza dell’anello e poiché la lamina è doppia la forza complessiva, bilanciata dalla<br />

forza elastica di torsione è pari a γ⋅2⋅(2πr). Si avrà pertanto:<br />

γ4π r = kθ<br />

(2.20)<br />

dove k è la costante elastica di torsione del filo. Poiché l’anello ha in genere raggio uguale a<br />

1 cm si può ricavare la tensione superficiale γ:<br />

kθ<br />

γ = = k 'θ<br />

(2.21)<br />

4π<br />

La costante k (o k’) può essere determinata tarando la bilancia di torsione con dei piccoli<br />

pesi in modo da verificare che nel range di misura la risposta del filo a torsione sia<br />

perfettamente elastica. Di norma, tuttavia, la costante elastica k’ si determina misurando<br />

l’angolo limite θ0 per una sostanza di tensione superficiale nota γ0 (k’ = γ0/θ0). Pertanto<br />

risulta:<br />

θ<br />

γ=γ0 θ<br />

15<br />

0<br />

(2.22)<br />

In questo modo si ovvia, almeno in parte, al piccolo errore dovuto alla lamina di liquido<br />

appesa all’anello.<br />

Tensiometro digitale<br />

Il manifestarsi dei fenomeni di tensione superficiale sulla<br />

circonferenza di un anello di metallo inerte è anche alla<br />

base delle misure effettuate mediante i moderni<br />

tensiometri digitali. In questi dispositivi l’anello di Platino<br />

è appeso direttamente ad un trasduttore dinamometrico il<br />

cui segnale è letto su un display direttamente come<br />

tensione superficiale (Figura 12). La metodica della<br />

misura è identica a quella del tensiometro bifilare: si


abbassa progressivamente il recipiente contenente il campione e si legge il valore massimo<br />

della tensione quando la lamina di liquido è ortogonale rispetto alla superficie del liquido<br />

stesso. In alcuni strumenti il valore massimo della tensione rimane memorizzato anche<br />

quando la lamina si rompe.<br />

Teoria dell’adsorbimento superficiale (Gibbs)<br />

Gibbs ha proposto di trattare la superficie di un liquido (cioè l’interfaccia liquido-vapore)<br />

come una fase separata. Se si tiene conto anche della tensione superficiale (il cui contributo<br />

all’energia libera è in genere trascurabile), il differenziale dell’energia libera di Gibbs<br />

assume la forma:<br />

dG= VdP-SdT + μ dn +γds<br />

(2.23)<br />

∑<br />

16<br />

∑ i i<br />

i<br />

e a P e T costanti: dG = μ dn +γds<br />

(2.24)<br />

PT , i i<br />

i<br />

ora G è funzione omogenea di primo grado rispetto alle moli dei componenti e alla<br />

superficie, pertanto si può applicare ad essa il teorema di Eulero e scrivere:<br />

G = ∑ μ n +γs<br />

(2.25)<br />

e per un sistema a due componenti:<br />

PT , i i<br />

i<br />

G =μ n +μ n +γ s<br />

(2.26)<br />

PT , 1 1 2 2<br />

Il differenziale totale assume pertanto la forma:<br />

dG =μ dn +μ dn + n dμ + n dμ +γds+sdγ (2.27)<br />

PT , 1 1 2 2 1 1 2 2<br />

che confrontata con la (2.24) dà la corrispondente equazione di Gibbs-Duhem:<br />

n dμ + n dμ + sdγ<br />

= 0<br />

(2.28)<br />

1 1 2 2<br />

Se scriviamo questa relazione per entrambe le fasi, cioè il liquido e l’interfase liquido-<br />

vapore, si avrà:<br />

0 0<br />

⎧n dμ + μ =<br />

1 1 n d 2 2 0<br />

⎨<br />

⎩n1dμ<br />

1 + n2dμ 2 + sdγ = 0<br />

fase liquida<br />

interfase liq. - vap .<br />

(2.29)<br />

dove ovviamente il termine sdγ è omesso nella fase liquida. Ricavando dμ1 dalla prima<br />

0<br />

n2<br />

relazione si trova: dμ 1 =− dμ<br />

0 2,<br />

che sostituito nella seconda relazione dà:<br />

n<br />

1<br />

0 ⎛ nn ⎞ 1 2<br />

⎜n2 − d 0 ⎟ μ 2 =−sdγ ⎝ n1<br />

⎠<br />

(2.30)


Ora nel caso di una soluzione si può esprimere il potenziale chimico del soluto nella<br />

0<br />

forma: μ =μ + RT ln a da cui si può ricavare:<br />

2 2 2<br />

d dln<br />

Si può pertanto riscrivere la (2.30) nella forma:<br />

0 ⎛ nn ⎞ 1 2<br />

e posto infine Γ 2 = ⎜n2 − s 0 ⎟ si avrà:<br />

⎝ n1<br />

⎠<br />

γ<br />

2 2<br />

μ 2 = RT a2<br />

= ≅ (2.31)<br />

a2 c2<br />

17<br />

RTdaRTdc 0 ⎛ nn ⎞ 1 2 RTdc2<br />

⎜n2− sd<br />

0 ⎟ =− γ<br />

⎝ n1 ⎠ c2<br />

c<br />

dγ<br />

(2.32)<br />

2 − =Γ 2 (2.33)<br />

RT dc2<br />

Γ2 rappresenta l’eccesso di concentrazione<br />

del soluto in prossimità della superficie. In<br />

effetti se si studia l’andamento della<br />

tensione superficiale γ vs. c2 per serie<br />

omologhe di composti (ad esempio acidi<br />

grassi in acqua) si osservano andamenti del<br />

tipo riportato in Figura 13: cioè prima γ<br />

decresce rapidamente, poi diviene pressoché<br />

costante, pertanto Γ2 tende al valore lim<br />

Γ 2 .<br />

Ciò costituisce un’evidenza del fatto che la concentrazione di molecole del soluto 2 sulla<br />

superficie è maggiore di quella nel bulk. Inoltre, dal momento che in serie omologhe di<br />

composti organici si trova<br />

1 NΓ = cost. ≅ 20 Å (N numero di atomi di carbonio della<br />

lim 2<br />

2<br />

catena) pressoché indipendentemente dal tipo di gruppo funzionale, si può dedurre che<br />

tutte le molecole di soluto tendono a disporsi ortogonalmente alla superficie del liquido. Il<br />

valore limite di 20 Å 2 corrisponde alla superficie di un gruppo metilenico, quindi questo<br />

valore rappresenta il massimo impaccamento di molecole le une accanto alle altre.<br />

Soluzioni di anfifilo<br />

c 2<br />

Figura 13. Andamento di γ vs. la concentrazione<br />

di soluto.<br />

Molecole organiche costituite da una porzione (testa) polare ed una catena idrocarburica<br />

apolare piuttosto lunga sono dette anfifili. In acqua queste molecole tendono ad aggregarsi<br />

dando luogo a diverse possibili strutture caratterizzate da un elevato ordine locale (doppi


strati, liposomi, micelle). Gli aggregati di tipo più comune sono detti micelle e sono<br />

costituiti da un numero di molecole di anfifilo compreso tipicamente tra le 50 e le 200<br />

unità. Benché si continui a discutere sull’esatta struttura di queste “sopramolecole”, queste<br />

assumono forma approssimativamente globulare (talvolta un po’ allungata) con i gruppi<br />

polari rivolti verso l’esterno, e quindi esposti al solvente, e le catene idrocarburiche rivolte<br />

verso l’interno (core) dell’aggregato. Le micelle si formano spontaneamente e<br />

reversibilmente. Il fatto che le soluzioni micellari non siano soluzioni “normali” è<br />

testimoniato dal fatto che molte proprietà chimico-fisiche presentano discontinuità della<br />

γ / dine cm -1<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

0 0.005 0.010 0.015 0.020<br />

Figura 14. Andamento della tensione superficiale<br />

γ vs. la concentrazione di SDS.<br />

18<br />

derivata in corrispondenza di una data<br />

concentrazione di anfifilo che prende il<br />

nome di concentrazione micellare<br />

critica (c.m.c.). Questa concentrazione<br />

rappresenta la soglia oltre la quale tutto<br />

l’anfifilo aggiunto viene ad aggregarsi<br />

in micelle e, corrispondentemente,<br />

rappre-senta anche la concentrazione<br />

massima di anfifilo che rimane<br />

comunque libero (non aggregato). In<br />

pratica fino alla c.m.c. la soluzione è<br />

“normale”, oltre diventa una soluzione<br />

organizzata. Le sostanze di natura anfifilica sono anche dette surfattanti o tensioattivi<br />

perché si mostrano notevolmente efficaci nell’abbassare la tensione superficiale del<br />

solvente: i saponi appartengono a questa categoria di composti. Uno dei surfattanti più<br />

ampiamente studiati è il sodio dodecilsolfato o SDS [NaO4S(CH2)11CH3]: in acqua presenta<br />

una c.m.c. intorno a 8⋅10 -3 M e l’andamento di γ vs. c è del tipo mostrato in Figura 14. Le<br />

soluzioni di surfattanti sono anche drammaticamente sensibili all’aggiunta di elettroliti<br />

alla soluzione. Elettroliti come ad esempio NaCl hanno l’effetto di favorire la formazione<br />

di micelle abbassando sensibilmente la c.m.c. Nel caso dell’SDS, ad esempio, questa passa<br />

da 8⋅10 -3 M a ≈ 5⋅10 -3 M andando da soluzioni in acqua a soluzioni 0.03 M di NaCl e scende<br />

addirittura sotto 10 -3 M in soluzione 0.3 M di NaCl.<br />

c SDS


3. Viscosità<br />

Il concetto di viscosità è legato ad un modello dinamico dei fluidi secondo il quale essi<br />

sono costituiti da straterelli infinitesimi di particelle che possono scorrere uno sull’altro.<br />

Tale modello è detto laminare. Nel moto di un liquido, lo strato direttamente a contatto con<br />

una superficie ferma resta fermo anch’esso per l’attrito tra la superficie solida e il liquido e<br />

la velocità degli strati successivi va crescendo fino ad assumere valore massimo sulla<br />

superficie del liquido. Consideriamo ad esempio due lamine adiacenti di un liquido che<br />

scorre in un canale orizzontale. Le due lamine si muovono e scorrono una sull’altra in<br />

modo che una (quella più vicina alla base del canale) si muove più lentamente (Figura 15).<br />

Quella che si crea è una forza di attrito tra le due lamine che è proporzionale alla<br />

superficie affacciata:<br />

19<br />

<br />

F = f ds= f dxdy (3.1)<br />

x x<br />

Il coefficiente fx risulta a sua<br />

volta proporzionale al gradiente<br />

di velocità esistente tra una<br />

lamina e l’altra, cioè:<br />

f<br />

x<br />

⎛∂vx⎞ =η⎜ ⎟<br />

⎝ ∂z<br />

⎠<br />

(3.2)<br />

Il coefficiente η è detta viscosità<br />

o coefficiente di viscosità e<br />

rappresenta la forza per unità di superficie necessaria a mantenere un gradiente di velocità<br />

unitario tra le lamine. Da un punto di vista dimensionale si ha:<br />

[ ]<br />

[ F][<br />

]<br />

2<br />

[ ]<br />

[ v]<br />

η = =<br />

[ m][<br />

]<br />

[ ] 2<br />

[] 2<br />

t −<br />

−1<br />

[ ][ ] 1<br />

<br />

t −<br />

[ ]<br />

[ m][ l] [ t]<br />

−1 −1<br />

= (3.3)<br />

L’unità di misura generalmente adottata è il Poise (P) che corrisponde a 1 g cm -1 s -1 o<br />

anche, nel Sistema Internazionale, a 0.1 kg m -1 s -1 . Alternativamente, si può anche<br />

esprimere la viscosità come una pressione per un tempo, infatti si ha anche:<br />

[ ]<br />

[ ][ ]<br />

[ ] [ ]<br />

[ ] [ ]<br />

2<br />

F F<br />

v [ ][ ]<br />

t<br />

η = =<br />

S [] −1<br />

[ P]<br />

−1<br />

[] t<br />

= =<br />

[ P][ t]<br />

(3.4)


L’unità di misura della viscosità nel SI è pertanto il Pascal per secondo (Pa· s). 1 P<br />

corrisponde pertanto a 0.1 Pa· s. La viscosità dei liquidi comuni a temperatura ambiente è<br />

generalmente compresa tra 2-3 millipoise (mP) e qualche decina di centipoise (cP). La<br />

viscosità dell’acqua è pari a 1 cP (1 mPa· s ) a 20.2 °C. Si dicono newtoniani i liquidi in cui<br />

η è indipendente dalla velocità di scorrimento. Perché questa condizione sia soddisfatta<br />

occorre che il moto sia laminare e privo di turbolenze. Nel caso di moti vorticosi, infatti, si<br />

ha un continuo rimescolamento tra le lamine ed il coefficiente η dipende dalla velocità di<br />

scorrimento del liquido.<br />

Consideriamo adesso un condotto cilindrico in cui scorre un liquido newtoniano. In<br />

questo caso le lamine saranno cilindri concentrici (Figura 16). Supponiamo che il liquido<br />

scorra sotto l’effetto di una generica<br />

pressione P (può anche essere la pressione<br />

idrostatica generata dalla stessa colonna di<br />

liquido). Poiché globalmente il liquido scorre<br />

con velocità costante la risultante delle forze<br />

agenti deve essere nulla e quindi la forza di<br />

pressione è uguale (ma di segno opposto) alla<br />

forza di attrito viscoso. Ora la forza che<br />

agisce su una generica sezione del tubo di<br />

raggio r sarà:<br />

20<br />

= π 2<br />

F P r (3.5)<br />

E la forza di attrito viscoso sarà quindi:<br />

=− π 2<br />

F P r (3.6)<br />

Come osservato questa sarà proporzionale alla superficie di contatto tra le lamine e al<br />

gradiente di velocità:<br />

Da cui:<br />

2 dvr<br />

−Pπ r = 2πr<br />

η<br />

(3.7)<br />

dr<br />

a<br />

dvr<br />

Pr<br />

dr 2<br />

=− η<br />

(3.8)<br />

Questa equazione può essere integrata con separazione delle variabili:


21<br />

2 2<br />

( )<br />

Prdr P P<br />

dvr=− =− rdr = R −r<br />

(3.9)<br />

R 2η 2η R 4η<br />

r<br />

∫ ∫ ∫<br />

0<br />

v r r<br />

Dove si è imposto che la velocità vr sia nulla quando r = R, cioè quando la lamina è<br />

aderente alla parete del condotto. Pertanto si ha:<br />

2 2<br />

( )<br />

P<br />

vr= R −r<br />

(3.10)<br />

4η<br />

Poiché la velocità di ciascuna lamina di raggio r è proporzionale al quadrato di r, il profilo<br />

di scorrimento delle lamine è parabolico. Definiamo ora flusso il volume di fluido che<br />

attraversa un condotto nell’unità di tempo e quindi in termini differenziali:<br />

dV<br />

ϕ= (3.11)<br />

dt<br />

Ora, poiché ciascuna lamina di liquido (di spessore infinitesimo dr) scorre con una velocità<br />

vr, trasporta, in un tempo t, un volume di liquido Vr pari ad una corona cilindrica di base<br />

2πrdr e altezza pari a vrt. Il contributo al flusso totale portato da ciascuna lamina sarà<br />

allora:<br />

dVrd dϕ r = = { 2π rdrvrt} = 2πrvrdr (3.12)<br />

dt dt<br />

Il flusso complessivo sarà pertanto ottenibile come somma dei flussi infinitesimi<br />

trasportati da ciascuna lamina:<br />

R R<br />

d r 2 rd<br />

0 0<br />

∫ ∫<br />

ϕ= ϕ = πrv<br />

r (3.13)<br />

Introducendo nell’equazione (3.13) il risultato della (3.10) si ottiene:<br />

Dunque:<br />

2 2 π 2 2<br />

( ) ( )<br />

R P<br />

ϕ= ∫ 2πr 0 4η R − r<br />

R P<br />

dr= η ∫ R<br />

2 0<br />

− r rdr =<br />

R R<br />

Pπ ⎧⎪⎡1 2 2⎤ ⎡1 4⎤ ⎫⎪<br />

Pπ ⎡1 4 1 4⎤<br />

PπR = ⎨⎢ Rr<br />

⎥<br />

−<br />

⎢<br />

r<br />

⎥ ⎬=<br />

⎢<br />

R − R<br />

⎥<br />

=<br />

2η⎪⎩⎣2 ⎦0 ⎣4 ⎦0 ⎪⎭<br />

2η⎣2 4 ⎦ 8η<br />

dV<br />

PπR ϕ= =<br />

dt8η 4<br />

4<br />

(3.14)<br />

(3.15)<br />

L’equazione (3.15) può facilmente essere integrata con separazione delle variabili ottenendo:<br />

ed infine:<br />

V 4 t<br />

PπR dV = dt<br />

(3.16)<br />

8η<br />

∫ ∫<br />

0 0


V =<br />

4<br />

PπR t<br />

8η<br />

22<br />

(LEGGE <strong>DI</strong> POISEUILLE) (3.17)<br />

La relazione (3.17), nota come Legge di Poiseuille, esprime il volume V di un liquido di<br />

viscosità η che attraversa un tubo di raggio R e lunghezza nel tempo t muovendosi di<br />

moto laminare sotto l’effetto di una pressione P.<br />

La viscosità dipende in modo critico dalla temperatura e tutte le misure devono essere<br />

eseguite in rigorose condizioni di termostatazione. Generalmente, infatti, la viscosità<br />

diminuisce con l’aumento della temperatura con la seguente legge esponenziale stabilita<br />

da Arrhenius:<br />

( )<br />

dove A e B sono costanti caratteristiche del liquido considerato.<br />

Misure di viscosità mediante viscosimetri a capillare<br />

BT<br />

η T = A⋅ e<br />

(3.18)<br />

La legge di Poiseuille può essere impiegata per effettuare determinazioni di viscosità<br />

mediante misure di tempo di deflusso:<br />

4<br />

PπR t<br />

η=<br />

8V<br />

(3.19)<br />

In particolare, nel caso in cui la pressione P è la pressione idrostatica esercitata dalla<br />

colonna di liquido (P = ρgh), si ha:<br />

h<br />

4<br />

gh R t<br />

π ρ<br />

η= = kρt 8V<br />

(3.20)<br />

Il più semplice dei viscosimetri a capillare è il cosiddetto<br />

viscosimetro di Ostvald, (Figura 17) costituito da un<br />

tubo a U di cui uno dei due rami è capillare. Sopra al<br />

capillare è posta una bolla di volume complessivo V<br />

compreso tra due traguardi. Inizialmente si sospinge<br />

nella bolla il liquido in esame per mezzo di un siringa o<br />

altro dispositivo idoneo. Poi si lascia che defluisca per<br />

effetto della gravità cronometrando il tempo impiegato<br />

per il deflusso dell’intero volume V osservando il<br />

passaggio del menisco tra i due traguardi.<br />

Nell’equazione (3.20) la costante k ingloba i termini V, R,


, g e h, sebbene quest’ultimo, che rappresenta l’altezza della colonna di liquido (il<br />

dislivello nei due rami) sia costante solo in prima approssimazione. Infatti man mano che<br />

il liquido defluisce attraverso il capillare il dislivello del liquido si riduce: le dimensioni<br />

della bolla sono tuttavia piccole rispetto alle dimensioni complessive del viscosimetro e si<br />

può assumere h pari al dislivello medio. Il valore della costante k può essere facilmente<br />

determinata mediante taratura con un liquido di riferimento di densità e viscosità note ρ0 e<br />

η0 e di cui si misura il tempo di deflusso t0:<br />

Si può pertanto ottenere:<br />

η0<br />

k =<br />

ρ t<br />

23<br />

0 0<br />

ρ<br />

t<br />

η=η0 ρ0<br />

t0<br />

(3.21)<br />

(3.22)<br />

Un altro tipo di viscosimetro a capillare è quello di Ubbelohde (Figura 18). In questo tipo<br />

di viscosimetro vi è un terzo tubo (individuato dalla lettera B nello schema). Facendo<br />

pressione dal tubo A e mantenendo chiuso B si sospinge il liquido posto nella riserva D nel<br />

tubo C che comprende il tratto capillare. Quando si stappa il tubo B la bolla G si svuota<br />

subito in modo che la colonna di liquido si rompe<br />

esattamente dove termina il tratto capillare. Così<br />

facendo all’estremità inferiore del tratto capillare<br />

non vi sono contropressioni che possono falsare la<br />

misura. Per i viscosimetri tipo Ubbelohde valgono<br />

esattamente le stesse relazioni viste per il<br />

viscosimetro di Ostvald. I viscosimetri del tipo<br />

rappresentato in Figura 18 sono appositamente<br />

progettati per lo studio delle soluzioni al variare<br />

della concentrazione del soluto. Infatti la riserva D<br />

ha volume piuttosto grande così da consentire<br />

l’effettuazione di aggiunte di solvente (diluizioni<br />

successive) o di soluto (concentrazione crescente)<br />

direttamente dentro il viscosimetro. Il setto poroso<br />

posto in fondo al terminale del tubo C impedisce alle<br />

D<br />

A B C<br />

R<br />

<br />

Figura 18. Viscosimetro di Ubbelohde<br />

V<br />

h<br />

G<br />

Setto poroso


particelle di pulviscolo presenti nella soluzione di risalire lungo il tubo C dove potrebbero<br />

depositarsi nel tratto capillare alterando le condizioni di deflusso.<br />

Esiste un criterio, individuato da Reynolds per stabilire se un capillare è adatto a misurare<br />

la viscosità di un liquido. Si definisce numero di Reynolds il rapporto:<br />

v ρD<br />

R =<br />

(3.23)<br />

η<br />

con η valore ottenuto dalla misura di viscosità, v velocità media del liquido e D<br />

diametro del capillare. La velocità media può essere calcolata dal flusso:<br />

v<br />

ϕ P πR<br />

= = 2<br />

πR<br />

π 2<br />

2<br />

PR<br />

=<br />

R 8η<br />

8η<br />

inoltre dal confronto con la Poiseuille si ricava<br />

velocità media in funzione del tempo di deflusso:<br />

e ottenere per il numero di Reynolds:<br />

v<br />

V<br />

=<br />

πtR<br />

24<br />

2<br />

4<br />

2<br />

PR V<br />

= 2<br />

8ηπtR<br />

Vρ2R = 2<br />

πtR<br />

Vρ<br />

=<br />

η πtRη R 2<br />

2<br />

(3.24)<br />

. Pertanto si può esprimere la<br />

(3.25)<br />

(3.26)<br />

Il criterio di Reynolds stabilisce che la misura di viscosità effettuata è attendibile se<br />

R < 2000. In pratica se R < 2000 si può escludere che si siano creati moti vorticosi che<br />

avrebbero reso inadatto il modello laminare e quindi inficiato l’attendibilità della misura.<br />

Poiché nel capillare il liquido scorre velocemente, è possibile che parte consistente della<br />

sua energia potenziale si trasformi in energia cinetica anziché dissiparsi in attrito. La legge<br />

di Bernoulli tiene conto di ciò stabilendo un principio di conservazione e introducendo di<br />

conseguenza un termine correttivo nell’espressione della pressione idrostatica:<br />

Ora si ha:<br />

1<br />

P gh v<br />

2<br />

2<br />

=ρ − ρ (3.27)<br />

2 1 R<br />

2<br />

V<br />

2 d 2<br />

0<br />

2<br />

v<br />

pertanto si può ottenere per P:<br />

=<br />

ρϕ ∫ v<br />

⎛ ⎞<br />

π r r = ⎜ ⎟<br />

⎝πRt⎠ (3.28)<br />

2


2<br />

V<br />

P=ρgh−ρ π Rt<br />

che sostituita nella Poiseuille e risolvendo per η dà:<br />

25<br />

2 4 2<br />

(3.29)<br />

4<br />

ρghπR ρV<br />

1 1<br />

η= t− =χ1ρt−χ2ρ (3.30)<br />

8V 8π<br />

t t<br />

Se il tempo di deflusso è abbastanza grande il secondo termine può essere trascurato,<br />

altrimenti si deve tener conto del termine correttivo.<br />

Altre grandezze derivate<br />

Per fini pratici assumono particolare interesse una serie di grandezze derivate, soprattutto<br />

relative alla viscosità delle soluzioni, delle quali è utile dare la definizione.<br />

Si definisce viscosità relativa il rapporto tra la viscosità di un liquido e quella di un liquido<br />

di riferimento:<br />

η<br />

η = viscosità relativa (3.31)<br />

η<br />

rel<br />

Sebbene il riferimento possa essere un liquido qualunque, la viscosità relativa è una<br />

grandezza particolarmente significativa nel caso delle soluzioni in cui il riferimento è<br />

costituito dal solvente puro. In particolare quando si impiegano viscosimetri a capillare si<br />

avrà dall’equazione (3.22):<br />

η ρ t<br />

η rel = =<br />

η ρ t<br />

0<br />

0 0 0<br />

(3.32)<br />

e nel caso in cui la soluzione sia sufficientemente diluita da poter considerare valida<br />

l’approssimazione ρ ≅ ρ0 si avrà anche:<br />

η t<br />

≅<br />

η t<br />

0 0<br />

Nel caso delle soluzioni si definiscono anche le grandezze seguenti:<br />

⎯ viscosità specifica (ηsp):<br />

⎯ viscosità ridotta (ηrid):<br />

η−η η<br />

η = = − 1=η −1<br />

0<br />

sp<br />

η0 η0<br />

rel<br />

( 1)<br />

ηsp 1 η−η0 1⎛<br />

η ⎞ ηrel −<br />

η rid = = = ⎜ − 1⎟=<br />

c c η0 c⎝η0 ⎠ c<br />

(3.33)<br />

(3.34)<br />

(3.35)


dove c è la concentrazione del soluto espressa in grammi di soluto per 100 ml di soluzione.<br />

⎯ viscosità intrinseca ([η]):<br />

ηsp ηrel −1<br />

ηη0−1 [ η ] = lim η rid = lim = lim = lim<br />

(3.36)<br />

c→0 c→0 c c→0 c c→0<br />

c<br />

Per l’ovvio significato la viscosità intrinseca viene anche talvolta detta viscosità limite.<br />

Viscosità di sostanze polimeriche in soluzione<br />

Lo studio della viscosità di soluzioni di polimeri riveste un grande interesse perché<br />

rappresenta uno dei metodi di elezione per la determinazione del peso molecolare medio<br />

degli stessi. Già Einstein aveva mostrato che nel caso di soluti costituiti da particelle<br />

sferiche in soluzione abbastanza diluita vale approssimativamente la relazione:<br />

ηη0− 1<br />

= 2.5<br />

φ<br />

26<br />

(3.37)<br />

dove η0 è la viscosità del solvente puro e φ è la frazione di volume occupata dal soluto<br />

nella soluzione. Indicando con v2 il volume specifico del soluto in soluzione, cioè il volume<br />

per grammo di soluto, e con c la sua concentrazione espressa in grammi di soluto per<br />

millilitro di soluzione si ha φ= vc 2 , pertanto si può scrivere:<br />

ηη0− 1<br />

= 2.5v2<br />

(3.38)<br />

c<br />

oppure, se si esprime la concentrazione in grammi di soluto in 100 ml di soluzione<br />

(c' = 100c):<br />

ηη − 1 0 = 0.025v2<br />

(3.39)<br />

c'<br />

L’equazione (3.39) è tanto più corretta quanto più la soluzione è diluita, pertanto al limite<br />

per c' che tende a zero si avrà:<br />

ηη0− 1<br />

lim = [ η ] = 0.025v2<br />

(3.40)<br />

c'→0<br />

c '<br />

Per molecole costituite da catene molto lunghe quali sono i polimeri, è in generale molto<br />

più complesso individuare il volume specifico, anche perché la molecola in soluzione può<br />

presentarsi in forma totalmente distesa o in forma più o meno raggomitolata, anche in<br />

dipendenza dal solvente impiegato. Vi sono comunque dei parametri che misurano la<br />

distanza tra la testa e la coda del polimero e che indicano quindi quanto il polimero stesso<br />

è raggomitolato. Da una rielaborazione dell’equazione di Einstein è stato mostrato che per<br />

i polimeri in soluzione vale la relazione:


[ ] kM α<br />

η = (EQ. <strong>DI</strong> MARK-HOUWINK) (3.41)<br />

dove M è il peso molecolare medio del polimero. I parametri k e α sono specifici di<br />

ciascuna coppia polimero-solvente e dipendono dalla temperatura. In particolare α indica<br />

quanto il solvente è un “buon” solvente per il polimero in esame: se il solvente solvata bene<br />

il polimero stabilizzandolo in forma completamente estesa si ha α 1.1;<br />

se viceversa il<br />

solvente solvata male il polimero, questo si raggomitola su se stesso e si trova α 0.5.<br />

Inoltre k e α valgono solo all’interno di un certo range di pesi molecolari. Dall’equazione<br />

di Staudinger, noti che siano k e α, si può ricavare il peso molecolare medio del polimero:<br />

27<br />

[ ]<br />

M = (3.42)<br />

k<br />

α η<br />

Per ricavare M è in pratica sufficiente preparare un certo numero di soluzioni di polimero<br />

a concentrazione variabile in un solvente opportuno, misurarne la viscosità, calcolare la<br />

viscosità ridotta ed infine estrapolare i valori ottenuti quando la concentrazione tende a<br />

zero. Dall’equazione (3.42) si ricava infine il valore di M .


4. Indice di rifrazione<br />

L’indice di rifrazione è una proprietà ottica della materia. Esso dipende dalla velocità di<br />

propagazione della radiazione elettromagnetica nel mezzo considerato. In generale la<br />

velocità di propagazione della luce è infatti esprimibile mediante la relazione:<br />

1<br />

v = εμ (4.1)<br />

dove ε è la costante dielettrica e μ la permeabilità magnetica del mezzo. Nel vuoto si ha:<br />

1<br />

v0= c = = 310 ⋅ cm s<br />

εμ<br />

0 0<br />

28<br />

10 -1<br />

Questo valore di c è generalmente utilizzato anche per la velocità di propagazione della<br />

luce nell’aria (almeno in prima approssimazione).<br />

Si definisce indice di rifrazione relativo di una sostanza 2 rispetto ad una sostanza 1 la<br />

quantità:<br />

n<br />

v<br />

(4.2)<br />

1<br />

1,2 = (4.3)<br />

v2<br />

dove v1 e v2 sono le velocità di propagazione della luce nei due mezzi. Si definisce invece<br />

indice di rifrazione assoluto di una sostanza il suo indice di rifrazione relativo al vuoto:<br />

a b<br />

1<br />

2<br />

i i<br />

r<br />

S2<br />

i<br />

Figura 19. Radiazione incidente su una superficie di<br />

separazione tra due mezzi<br />

d<br />

r<br />

S1<br />

c<br />

ni<br />

= (4.4)<br />

v<br />

i<br />

Ne consegue ovviamente che è anche:<br />

n v<br />

=<br />

n c<br />

2 1<br />

1<br />

c v1<br />

= = n1,2<br />

(4.5)<br />

v v<br />

2 2<br />

Supponiamo di avere una superficie di<br />

separazione tra due sostanze diverse 1<br />

e 2 e consideriamo una radiazione che<br />

incida su di essa formando un angolo i<br />

rispetto alla normale alla superficie<br />

(Figura 19).<br />

I due raggi a e b facenti parte dello<br />

stesso fronte d’onda incidono sulla<br />

superficie di separazione in due istanti


diversi: se ipotizziamo che il raggio a incida sulla superficie di separazione all’istante 0 e il<br />

raggio b all’istante t, allora nell’intervallo di tempo t i due raggi avranno percorso le<br />

distanze S1 ed S2 rispettivamente nei mezzi 1 e 2. Le due distanze percorse saranno<br />

ovviamente diverse perché diversa è la velocità di propagazione della radiazione nei due<br />

mezzi. Inoltre, poiché il fronte d’onda è comunque ortogonale rispetto alla direzione di<br />

propagazione, sulla superficie di separazione i raggi subiranno una deflessione: i raggi<br />

entreranno nel mezzo 2 formando un angolo r rispetto alla normale alla superficie di<br />

separazione. La distanza d tra i due punti di incidenza rappresenta l’ipotenusa comune di<br />

due triangoli rettangoli i cui cateti S1 ed S2 sono opposti rispettivamente ai due angoli i ed<br />

r. Si potrà pertanto applicare ai due triangoli in questione il teorema dei seni, pertanto si<br />

avrà:<br />

S1 d<br />

= = d<br />

sen i sen 90° e<br />

S2 d<br />

= = d<br />

sen r sen 90° da cui uguagliando:<br />

S1sen i<br />

=<br />

S sen r<br />

Conseguentemente si potrà esplicitare l’indice di rifrazione relativo:<br />

n<br />

v S t S sen i<br />

1 1 1<br />

1,2 = = = = (4.6)<br />

v2 S2 t S2 sen r<br />

Pertanto si può misurare un indice di rifrazione misurando gli angoli di incidenza e di<br />

rifrazione, sebbene questo non sia particolarmente facile. Normalmente si fa in modo di<br />

dover misurare un solo angolo facendo incidere la radiazione tangenzialmente alla<br />

superficie di separazione tra i due mezzi, cioè con un angolo di incidenza pari a 90°<br />

1<br />

2<br />

i = 90°<br />

rlim<br />

Raggio<br />

limite<br />

Figura 20. Condizione limite di incidenza<br />

(Figura 20). In questo caso il raggio rifratto è<br />

detto raggio limite e analogamente l’angolo è<br />

detto angolo limite di rifrazione. È anche<br />

importante osservare che qualora un raggio<br />

attraversi parecchie superfici di separazione tra<br />

mezzi diversi, il rapporto tra seno dell’angolo<br />

incidente sul primo mezzo e seno dell’angolo<br />

di rifrazione nell’ultimo mezzo esprime ancora<br />

l’indice di rifrazione dell’ultimo mezzo rispetto<br />

al primo (Figura 21):<br />

29<br />

2


1<br />

2<br />

3<br />

p-1<br />

p<br />

Figura 21. Rifrazione attraverso superfici di<br />

separazione multiple<br />

Solitamente si fanno misure di indice di<br />

30<br />

v<br />

v<br />

1<br />

2<br />

⋅<br />

v2<br />

v3<br />

⋅⋅⋅⋅⋅<br />

vp−1 v1sen i<br />

= = = np,1<br />

(4.7)<br />

vp vp sen r<br />

Nel caso particolare in cui due mezzi sono<br />

separati dal vuoto si ha ovviamente (Figura 22):<br />

v1<br />

c ⋅ c v1 n2<br />

= = = n<br />

v v n<br />

2 2 1<br />

rifrazione rispetto all’aria dal quale è possibile ricavare l’indice di rifrazione assoluto<br />

moltiplicando per l’indice di rifrazione (assoluto, cioè rispetto al vuoto) dell’aria:<br />

1,2<br />

(4.8)<br />

nx= naria,x ⋅ naria<br />

(4.9)<br />

L’indice di rifrazione rispetto all’aria è tuttavia un’ottima approssimazione per l’indice di<br />

rifrazione assoluto di una sostanza essendo naria ≅ 1 .<br />

Le ragioni microscopiche per cui attraversando un certo mezzo una radiazione<br />

elettromagnetica risulta rallentata è che questa incontra sul suo cammino ottico atomi e<br />

molecole con le quali è in grado di interagire in un qualche modo. La velocità di<br />

propagazione dipenderà pertanto anche dalla lunghezza d’onda λ della radiazione stessa e<br />

Raggio<br />

policromatico<br />

incidente<br />

i<br />

r<br />

λ1, λ2, λ3,<br />

λ4, λ5<br />

λ1<br />

λ2<br />

λ3<br />

Figura 23. Dispersione della luce da parte di un prisma<br />

λ4<br />

λ5<br />

Figura 22. Rifrazione tra due mezzi tra i quali<br />

è frapposto il vuoto<br />

Raggi<br />

monocromatici<br />

dispersi<br />

1 i<br />

vuoto<br />

2<br />

r<br />

sarà pertanto anche<br />

n= n(<br />

λ ) . Su questo<br />

principio si basa ad<br />

esempio la capacità dei<br />

prismi di disperdere<br />

radiazioni di lunghezze<br />

d’onda diverse (Figura 23).<br />

Sempre per questa ragione<br />

gli indici di rifrazione


devono essere misurati con radiazioni di lunghezza d’onda prefissata. Si usa<br />

convenzionalmente la radiazione della cosiddetta riga D del sodio (λ = 589 nm). L’indice<br />

di rifrazione di una sostanza dipende anche dalla variabile temperatura.<br />

Rifrattometro di Pulfrich<br />

Nel rifrattometro di Pulfrich (Figura 24) i raggi monocromatici e paralleli provenienti da<br />

una lampada al sodio incidono tangenzialmente sulla superficie che separa un prisma da<br />

una celletta contenente il liquido da analizzare. I raggi rifratti fuoriescono da una faccia<br />

del prisma perpendicolare alla superficie di separazione e vengono rifratti una seconda<br />

volta dalla superficie di separazione prisma-aria. I raggi che fuoriescono vengono quindi<br />

intercettati mediante un cannocchiale.<br />

L’indice di rifrazione del campione si determina come segue: relativamente alla prima<br />

superficie di rifrazione si può scrivere:<br />

n<br />

x,p<br />

np vx<br />

sen 90° 1<br />

= = = = da cui nx= npsen rlim<br />

n v sen r sen r<br />

x p lim lim<br />

31


Da considerazioni geometriche si può inoltre osservare che i due angoli rlim e i'lim sono<br />

complementari, pertanto si ha:<br />

Quindi:<br />

rlim = 90°− i'lim<br />

e conseguentemente sen rlim = cos i'lim<br />

n = n cos i'<br />

(4.10)<br />

x p lim<br />

Per quanto riguarda la seconda superficie di rifrazione si ha:<br />

n<br />

p,aria<br />

n v sen i'<br />

= = =<br />

n v sen α<br />

aria p<br />

lim<br />

p aria lim<br />

32<br />

sen αlim<br />

da cui sen i'= n<br />

n<br />

lim aria<br />

p<br />

sen αlim<br />

ma poiché naria 1 si può scrivere: sen i'lim<br />

= . Si ricaverà pertanto per cosi'lim:<br />

n<br />

2<br />

2 lim<br />

2 2<br />

lim lim 2<br />

np np<br />

p lim<br />

p<br />

sen α 1<br />

cos i'= 1 − sen i'= 1 − = n −senα (4.11)<br />

Tenendo conto della (4.10) si ha allora:<br />

Ed infine:<br />

n1 = np<br />

1<br />

n<br />

p<br />

n −sen α (4.12)<br />

2 2<br />

p lim<br />

n = n −sen α (4.13)<br />

2 2<br />

1 p lim<br />

Dal momento che l’indice di rifrazione np del materiale di cui è costituito il prisma è noto,<br />

è pertanto sufficiente determinare l’angolo αlim.<br />

Rifrattometro di Abbe<br />

Si tratta di uno strumento meno preciso, ma di più semplice impiego rispetto al<br />

rifrattometro di Pulfrich. Nel rifrattometro di Abbe il liquido da esaminare è posto in<br />

strato sottile tra due prismi costituiti dello stesso materiale e perciò caratterizzati dallo<br />

stesso indice di rifrazione (Figura 25). La radiazione entra nel primo prisma, quindi trova<br />

la superficie di rifrazione prisma-campione. Solo alcuni raggi (quelli incidenti con un certo<br />

angolo rlim sulla superficie di rifrazione prisma-campione) attraversano lo strato di liquido<br />

parallelamente alla superficie di rifrazione e quindi entrano nel secondo prisma<br />

attraversandolo. Tutti i raggi che incidono sul primo prisma con angolazione minore di un<br />

certo angolo αlim (a cui corrisponde rlim) vengono riflessi e fuoriescono dalla faccia<br />

inferiore del primo prisma, mentre quelli con angolo di incidenza maggiore attraversano il


secondo prisma fuoriuscendo dalla faccia superiore: si genera pertanto, in uscita dalla<br />

faccia opposta, una separazione luce-buio.<br />

2ª Superficie<br />

di rifrazione<br />

1ª Superficie<br />

di rifrazione<br />

raggio<br />

incidente con<br />

angolo < lim<br />

Raggio<br />

limite<br />

raggio<br />

incidente con<br />

angolo > lim<br />

Campione<br />

lim i'lim<br />

rlim<br />

Figura 25. Rifrattometro di Abbe<br />

33<br />

3ª Superficie<br />

di rifrazione<br />

rlim<br />

i'lim<br />

i'lim<br />

4ª Superficie<br />

di rifrazione<br />

Ora, come si può osservare in figura, i tre angoli rlim, i'lim e β′ sono complementari.<br />

Analogamente anche gli angoli β e β′ sono complementari. Pertanto si può scrivere:<br />

r + i'<br />

+β '= 90°<br />

e β+β '= 90°<br />

lim lim<br />

E conseguentemente:<br />

r =β− i'<br />

(4.14)<br />

lim lim<br />

Ora quando il raggio esce dal campione ed entra nel prisma (3ª superficie di rifrazione) si<br />

ha:<br />

e pertanto:<br />

n<br />

x,p<br />

np vx<br />

sen 90° 1<br />

= = = = (4.15)<br />

n v sen r sen r<br />

x p lim lim<br />

( ) ( )<br />

n = n sen r = n sen β− i' = n sen βcosi'− cos β sen i'<br />

(4.16)<br />

x p lim p lim p lim lim<br />

dove si sono applicate le formule di addizione del seno. Per quanto riguarda la quarta<br />

superficie di rifrazione si ha:<br />

n<br />

p,aria<br />

n v sen i'<br />

= = =<br />

n v sen α<br />

aria p<br />

lim<br />

p aria lim<br />

sen αlim<br />

da cui sen i'= n<br />

n<br />

lim<br />

lim aria<br />

p


n<br />

sen αlim<br />

ma poiché naria 1 si può scrivere: sen i'lim<br />

= . Si ricaverà pertanto per cosi'lim:<br />

n<br />

2<br />

2 lim<br />

2 2<br />

lim lim 2<br />

np np<br />

p lim<br />

34<br />

p<br />

sen α 1<br />

cos i'= 1 − sen i'= 1 − = n −senα (4.17)<br />

Sostituendo le espressioni ricavate per seni'lim e cosi'lim nell’equazione (4.16) si ricava infine:<br />

n = sen β n −sen α −sen α cosβ<br />

(4.18)<br />

2 2<br />

x p lim lim<br />

L’angolo che si legge è evidentemente l’angolo αlim, mentre l’angolo β è caratteristico del<br />

prisma, così come l’indice di rifrazione del prisma. Ruotando il prisma si fa in modo di<br />

individuare la separazione luce-ombra dentro un cannocchiale. In modo solidale si muove<br />

anche un indice su una scala in modo da permettere la lettura diretta dell’indice di<br />

rifrazione nx.<br />

Determinazioni di concentrazione mediante misure rifrattometriche<br />

L’indice di rifrazione, oltre ad essere di per sé un indicatore di purezza delle sostanze<br />

chimiche, può essere utilizzato per determinazioni di concentrazione in miscele<br />

soprattutto di sostanze organiche. Sebbene l’indice di rifrazione non sia propriamente una<br />

proprietà additiva, si può, entro limiti accettabili di approssimazione, calcolare l’indice di<br />

rifrazione di una miscela a partire dagli indici di rifrazione dei puri:<br />

n mix<br />

n 1<br />

( 1 ) ( )<br />

n ≅ x n + x n = − x n + x n = n + x n − n<br />

(4.19)<br />

mix 1 1 2 2 2 1 2 2 1 2 2 1<br />

0 0.2 0.4 0.6 0.8 1<br />

x<br />

mix x<br />

2<br />

Figura 26. Indice di rifrazione di una miscela<br />

in funzione della composizione<br />

n 2<br />

con x1, x2 frazioni molari dei<br />

componenti 1 e 2 nella miscela. La<br />

composizione di una miscela<br />

incognita può pertanto essere<br />

ottenuta individuando sulla retta n vs.<br />

x2 l’ascissa corrispondente all’indice<br />

di rifrazione della miscela stessa<br />

(Figura 26). Ovviamente potranno<br />

essere osservate deviazioni dalla<br />

regola di additività: la composizione<br />

di una miscela potrà tuttavia essere<br />

comunque determinata previa


effettuazione di una retta di taratura. In pratica si preparano per pesata un certo numero<br />

di miscele a composizione variabile in un range che non deve essere troppo piccolo, ma<br />

neppure troppo ampio in relazione alla composizione presunta della miscela da analizzare<br />

e si misurano gli indici di rifrazione di tutte le miscele. L’andamento osservato della<br />

n<br />

n mix<br />

n 1<br />

0 0.2 x 0.4 0.6 0.8 1<br />

mix x<br />

2<br />

Figura 27. Indice di rifrazione di una miscela<br />

in funzione della composizione<br />

n 2<br />

35<br />

funzione n vs. x2 è comunque lineare<br />

per intervalli di composizione non<br />

troppo ampi, cioè:<br />

nmix = a+ bx2(4.20)<br />

Ovviamente se la regola di additività è<br />

valida in tutto il campo di compo-<br />

sizione pendenza e intercetta della<br />

(4.20) si identificano rispettivamente<br />

con ( n n )<br />

− e n1, altrimenti si possono<br />

2 1<br />

ricavare mediante regressione lineare<br />

(Figura 27).


5. Potere ottico rotatorio<br />

Il potere ottico rotatorio è la misura della capacità di determinate sostanze di ruotare il<br />

piano della luce polarizzata. La luce è una radiazione elettromagnetica e come tale è<br />

costituita dalla sovrapposizione di un campo elettrico e di un campo magnetico oscillanti<br />

con la stessa frequenza e fase su due piani tra loro perpendicolari (Figura 28).<br />

Campo<br />

magnetico<br />

Campo<br />

elettrico<br />

Figura 28. Radiazione elettromagnetica<br />

36<br />

Direzione di<br />

propagazione<br />

del raggio<br />

luminoso<br />

Diversamente da quanto rappresentato in figura, tuttavia, nella luce naturale i campi<br />

elettrico e magnetico non oscillano su di un unico piano, ma su tutti gli infiniti piani<br />

perpendicolari alla direzione di propagazione (Figura 29). Per questo motivo la luce<br />

Direzione di<br />

propagazione<br />

del raggio<br />

luminoso<br />

Direzioni di<br />

oscillazione<br />

del campo<br />

elettrico<br />

associato<br />

Figura 29. Radiazione polarizzata circolarmente<br />

naturale è detta non polarizzata o<br />

circolarmente polarizzata. Quando il<br />

vettore campo elettrico di una<br />

radiazione (e conseguentemente<br />

anche il vettore campo magnetico ad<br />

esso perpendicolare) oscilla in un<br />

piano ben definito e invariabile la<br />

radiazione è detta polarizzata linear-<br />

mente o semplicemente polarizzata.<br />

In una radiazione linearmente pola-<br />

rizzata il piano su cui oscilla il<br />

vettore campo elettrico è detto piano<br />

di vibrazione, mentre il piano ad


esso ortogonale è detto piano di polarizzazione. L’ottenimento di una radiazione<br />

polarizzata a partire da luce non polarizzata è possibile facendo uso di particolari<br />

materiali che presentano la proprietà fisica della birifrangenza. Tra questi materiali si<br />

possono ricordare il quarzo e la calcite, ma ne esistono anche molti altri di origine<br />

sintetica. La birifrangenza può essere definita come la proprietà di un corpo di scomporre<br />

una radiazione luminosa naturale non polarizzata in due raggi entrambi polarizzati, ma<br />

con piani di polarizzazione mutuamente ortogonali, detti rispettivamente raggio ordinario<br />

e raggio straordinario. In pratica un corpo birifrangente rifrange i due raggi ordinario e<br />

i<br />

rs<br />

raggio ordinario<br />

ro<br />

Figura 30. Fenomeno della birifrangenza<br />

rs<br />

37<br />

straordinario secondo due<br />

indici di rifrazione diversi<br />

(Figura 30):<br />

sen i sen i<br />

n = n =<br />

o s<br />

sen ro sen rs<br />

I due raggi così generati<br />

emergono dal corpo birifran-<br />

gente paralleli tra loro, ma con<br />

piani di polarizzazione orto-<br />

gonali. Un tipico dispositivo<br />

polarizzatore è il cosiddetto<br />

prisma di Nicol, un blocco<br />

cristallino di calcite romboedrica (specificamente un blocco di Spato d’Islanda)<br />

opportunamente tagliato. Nello Spato d’Islanda gli angoli acuti di sfaldamento sono circa<br />

di 71°: il cristallo viene quindi ulteriormente sfaldato in modo da ottenere un romboedro<br />

con i due angoli acuti di 68°. Il romboedro viene poi tagliato lungo un piano passante per i<br />

due angoli ottusi e le due metà vengono rincollate con un collante avente indice di<br />

rifrazione intermedio tra no e ns (in passato si usava il cosiddetto “Balsamo del Canadà”,<br />

una resina vegetale). In questa geometria un raggio di luce naturale viene sdoppiato nei<br />

due raggi ordinario e straordinario, ma mentre il primo, incidendo sulla superficie di<br />

rifrazione calcite-collante con un angolo maggiore di quello limite, viene completamente<br />

riflesso fuoriuscendo da una faccia laterale del prisma, il secondo viene rifratto e<br />

attraversa il prisma nella direzione della sua sezione principale (Figura 31).<br />

ro<br />

raggio straordinario<br />

i<br />

i


Anche una superficie riflettente può polarizzare un raggio luminoso se l’angolo i con cui la<br />

radiazione incide su di esso è tale per cui tg i = n, dove n è l’indice di rifrazione del<br />

materiale di cui è fatto il corpo riflettente (i = arctg n). Tale angolo è detto “angolo di<br />

Brewster”. In questa condizione viene riflessa solo la componente che oscilla<br />

perpendicolarmente al piano di incidenza.<br />

Potere ottico rotatorio delle sostanze otticamente attive<br />

Come si è accennato, alcune sostanze, attraversate da un raggio di luce polarizzata, hanno<br />

la capacità di ruotare il piano di polarizzazione di un certo angolo. Queste sostanze dette<br />

Piano di riflessione<br />

Figura 32. Isomeri ottici (Enantiomeri)<br />

38<br />

“otticamente attive”<br />

saranno classificabili in<br />

destrogire o levogire a<br />

seconda che la<br />

rotazione impartita al<br />

piano di polarizzazione<br />

della radiazione<br />

luminosa sia verso<br />

destra o verso sinistra.<br />

Tale proprietà è legata<br />

ad una particolare<br />

dissimmetria della<br />

sostanza che può manifestarsi o solo allo stato solido (quando è determinata da una<br />

particolare disposizione delle molecole nel reticolo cristallino come nel caso del quarzo in


cui le unità tetraedriche di SiO2 possono organizzarsi in eliche destrogire o levogire) o<br />

anche allo stato di soluzione quando la dissimmetria è presente a livello molecolare.<br />

Questo secondo caso, di gran lunga più importante, è direttamente collegato al fenomeno<br />

dell’isomeria ottica. L’isomeria ottica si incontra di frequente in chimica organica (ma si<br />

trova anche nella chimica dei composti di coordinazione) dove è correlata con la geometria<br />

tetraedrica dell’atomo di carbonio nell’ibridazione sp 3. Il fenomeno dell’isomeria ottica si<br />

manifesta infatti quando in una molecola un atomo di carbonio sp 3 è legato a quattro<br />

sostituenti tutti diversi. In questo caso un qualunque scambio tra due sostituenti produce<br />

una molecola diversa da quella di partenza: le due molecole sono infatti l’una l’immagine<br />

speculare non sovrapponibile dell’altra (Figura 32). Le due molecole isomere hanno<br />

identiche proprietà chimico-fisiche ad eccezione dell’attività ottica. Se un isomero ottico<br />

(enantiomero) risulta destrogiro, l’altro infatti è levogiro. Come osservato, molecole<br />

organiche in cui sia presente un atomo di carbonio asimmetrico (centro chirale) mostrano<br />

attività ottica sia allo stato cristallino che allo stato liquido o gassoso e anche in soluzione.<br />

Per le sostanze pure l’angolo di rotazione α impartito al piano di polarizzazione della luce<br />

è semplicemente proporzionale allo spessore dello strato di sostanza attraversato e alla<br />

sua densità ρ:<br />

dove la costante di proporzionalità [ ] t<br />

[ ] t<br />

α= α ρ<br />

(5.1)<br />

λ<br />

α è detto potere ottico rotatorio specifico ed è<br />

λ<br />

caratteristica della sostanza in esame ad una temperatura t e ad una data lunghezza<br />

d’onda λ della radiazione polarizzata. Nella (*) il cammino ottico e la densità ρ sono<br />

espressi in decimetri e in grammi su millilitro rispettivamente. Nel caso di sostanze<br />

otticamente attive in soluzione l’angolo α risulta ancora proporzionale al cammino ottico<br />

(lunghezza della cella) ma anche alla concentrazione della soluzione:<br />

con c espressa in grammi in 100 ml (% p/v).<br />

Polarimetri<br />

α=<br />

[ ] t<br />

α<br />

c λ<br />

100<br />

39<br />

(LEGGE <strong>DI</strong> BIOT-SAVART) (5.2)<br />

Gli strumenti mediante i quali si effettuano misure di potere ottico rotatorio sono detti<br />

polarimetri. Un polarimetro è costituito, nei suoi elementi essenziali, da una sorgente


luminosa (lampada al Sodio o a Mercurio) resa almeno approssimativamente<br />

monocromatica (in genere mediante opportuni filtri), due prismi di Nicol tra i quali è<br />

posta la cella contenente il campione ed un oculare (Figura 33).<br />

Filtro<br />

Nicol<br />

polarizzatore<br />

Cella<br />

portacampione<br />

Nicol<br />

analizzatore Oculare<br />

Figura 33. Schema generale di un polarimetro<br />

Il primo Nicol (polarizzatore) rende la luce linearmente polarizzata: in assenza di sostanze<br />

otticamente attive nella cella e con il secondo Nicol (analizzatore) coassiale con il primo, il<br />

piano della luce rimane invariato. All’oculare giunge pertanto una radiazione la cui<br />

intensità è pari a I = kI0dove<br />

I 0 è l’intensità della radiazione polarizzata che fuoriesce dal<br />

primo Nicol, mentre il coefficiente k (k < 1) tiene conto delle perdite per riflessioni e<br />

assorbimento da parte del secondo Nicol e della cella. Poiché l’intensità di una radiazione<br />

luminosa è proporzionale al quadrato dell’ampiezza di oscillazione del vettore campo<br />

elettrico associato, la componente della radiazione incidente in grado di attraversare il<br />

secondo Nicol quando questo è ruotato di un certo angolo θ rispetto al primo, è ottenibile<br />

scomponendo il vettore campo elettrico in due componenti: una nel piano della sezione<br />

principale del prisma e una nel piano ad essa normale. Risulterà pertanto:<br />

I = kI θ (5.3)<br />

2<br />

0 cos<br />

Ne consegue che quando il Nicol analizzatore è “incrociato” al polarizzatore, cioè quando<br />

le sezioni principali dei due prismi sono mutuamente ortogonali (θ = 90°) all’oculare non<br />

giunge alcuna radiazione luminosa (cos θ = 0 e quindi I = 0). Ovviamente quando le due<br />

sezioni sono parallele è θ = 0° e conseguentemente I = kI0,<br />

cioè l’intensità luminosa<br />

incidente sull’oculare è massima. Quando nella cella è posta la sostanza otticamente attiva,<br />

questa produrrà una rotazione del piano di polarizzazione della luce pari ad α: in questo<br />

caso il massimo di intensità luminosa incidente sull’oculare si avrà quando l’angolo θ<br />

formato dalle sezioni principali dei due prismi sarà anch’esso pari ad α. Negli strumenti<br />

40


tradizionali, data la difficoltà di cogliere visivamente l’intensità massima, l’individuazione<br />

dell’angolo α è effettuata mediante confronto delle intensità luminose di diverse zone in<br />

cui è diviso il campo visivo e che corrispondono ad angoli di polarizzazione sfasati tra<br />

loro. In questo modo l’individuazione dell’angolo è molto più accurata. Negli strumenti<br />

più recenti la ricerca dell’angolo avviene automaticamente e la lettura è effettuata<br />

direttamente su un display.<br />

Studio cinetico della reazione di mutarotazione del glucosio<br />

Il glucosio, carboidrato di formula grezza C6H12O6, esiste in due forme isomere detti<br />

rispettivamente anomero α e anomero β. I due isomeri differiscono per la configurazione<br />

assoluta del carbonio emiacetalico dell’anello glucosidico. La molecola di glucosio,<br />

tuttavia, ha 5 centri chirali e le due forme isomere α e β mostrano diverso (ma non<br />

opposto) potere rotatorio specifico. Le due forme, stabili allo stato solido, si<br />

interconvertono in soluzione acquosa secondo il seguente processo di equilibrio:<br />

OH<br />

CH2OH<br />

OH<br />

Il processo può pertanto essere studiato da un punto di vista cinetico seguendo nel tempo<br />

la variazione del potere ottico rotatorio.<br />

Cinetica dei processi di equilibrio<br />

Consideriamo un processo di equilibrio semplice del tipo:<br />

k<br />

A B<br />

1<br />

1<br />

k −<br />

in cui entrambe le reazioni diretta e inversa sono del primo ordine. La legge cinetica<br />

differenziale per un tale processo è pertanto del tipo:<br />

O<br />

OH<br />

OH<br />

[ ]<br />

dA<br />

− = k1[ A] − k−1[<br />

B]<br />

(5.4)<br />

dt<br />

41<br />

OH<br />

CH 2OH<br />

OH<br />

α-glucosio β-glucosio<br />

O OH<br />

OH


Se inizialmente è presente la sola specie A (in concentrazione<br />

42<br />

0<br />

C A ) e indicando con x la<br />

concentrazione della specie B in un istante generico l’equazione (5.4) assume la forma:<br />

dx<br />

0 0<br />

= k1( CA −x) − k−1x = k1CA − ( k1 + k−1) x<br />

(5.5)<br />

dt<br />

All’equilibrio la velocità di reazione è ovviamente nulla (non ci sono variazioni di<br />

concentrazione), pertanto:<br />

che sottratta alla (5.5) dà:<br />

0 ( )<br />

k C −x − k x = (5.6)<br />

1 A eq −1<br />

eq 0<br />

dx<br />

0<br />

kC 1 A<br />

dt<br />

= ( ) 0<br />

− k1 + k−1 x− k1CA + ( k1+ k−1) xeq = ( k1+ k−1)( xeq − x)<br />

(5.7)<br />

Separando le variabili ed integrando si ottiene:<br />

x<br />

∫x= 0<br />

dx<br />

x − x<br />

t<br />

= ∫ ( k1 + k−1) dt<br />

t=<br />

0<br />

(5.8)<br />

da cui:<br />

( eq )<br />

xeq<br />

ln<br />

x − x t<br />

eq<br />

()<br />

( )<br />

= k + k t<br />

1 −1<br />

Che è la forma integrata dell’equazione cinetica per il processo di equilibrio considerato.<br />

Dalla relazione (5.6) si ricava inoltre:<br />

0 ( )<br />

k C − x = k x<br />

e infine<br />

1 A eq −1<br />

eq<br />

0 ( − )<br />

[ B]<br />

[ A]<br />

k x<br />

1<br />

eq eq<br />

= = = K<br />

k C x<br />

−1<br />

A eq eq<br />

eq<br />

(5.9)<br />

(5.10)<br />

cioè il rapporto tra le costanti cinetiche dei processi diretto e inverso coincide con la<br />

costante di equilibrio della reazione.<br />

In generale per effettuare uno studio cinetico non occorre conoscere esplicitamente la<br />

concentrazione delle diverse specie, ma è sufficiente conoscere il valore di una qualsiasi<br />

proprietà connessa linearmente con la concentrazione:<br />

Da cui si ricava facilmente per x(t) e xeq:<br />

() t − 0<br />

() t x() t 0<br />

P = A + P<br />

(5.11)<br />

P<br />

x() t =<br />

A<br />

P<br />

e<br />

Peq − P0<br />

xeq<br />

=<br />

A<br />

(5.12)<br />

Sostituendo le espressioni trovate nella legge cinetica integrata (5.9) si trova infine:<br />

P − P<br />

ln<br />

P − P<br />

eq<br />

eq 0<br />

() t<br />

( )<br />

= k + k t<br />

1 −1<br />

(5.13)


Cinetica della mutarotazione seguita per via polarimetrica<br />

Come già osservato la cinetica della reazione di mutarotazione del glucosio può essere<br />

seguita per via polarimetria. Poiché però i due isomeri sono otticamente attivi si dovrà<br />

tener conto del contributo al potere ottico rotatorio di entrambi. Dalla legge di Biot<strong>–</strong>Savart<br />

si avrà:<br />

[ α]<br />

C () t [ α]<br />

Cβ()<br />

t<br />

43<br />

{ [ ] () [ ] ()<br />

α α β β }<br />

α () t =<br />

α α<br />

100<br />

+<br />

β<br />

100<br />

<br />

=<br />

100<br />

α C t + α C t<br />

(5.14)<br />

dove [α]α e [α]β sono rispettivamente il potere rotatorio specifico del glucosio α e del<br />

glucosio β. Analogamente:<br />

{ [ ] C [ ] C<br />

α α β β }<br />

<br />

α (eq) =<br />

100<br />

α (eq) + α (eq) e<br />

<br />

α (0) = [ α]<br />

Cα(0) α<br />

100<br />

(5.15)<br />

nell’ipotesi che inizialmente sia presente il solo α-glucosio. Sempre sotto questa ipotesi e<br />

tenendo conto della stechiometria della reazione si ha anche:<br />

C () t = C (0) − C () t<br />

e C (eq) = C (0) − C (eq) (5.16)<br />

α α β<br />

α α β<br />

Dalle equazioni (5.14), (5.15) e (5.16) si possono infine ricavare le espressioni di Cβ ( t)<br />

e<br />

Cβ(eq) in funzione di Cα (0) e dei poteri ottici rotatori α(t), α(eq) e α(0):<br />

()<br />

C t<br />

β<br />

=<br />

100 { α() t −Cα(0) [ α]<br />

α<br />

<br />

}<br />

[ α] −[ α]<br />

{ β α}<br />

e C ( eq)<br />

β<br />

=<br />

100 { α( eq ) −Cα(0) [ α]<br />

α<br />

<br />

}<br />

[ α] −[ α]<br />

{ β α}<br />

Sostituendo le (5.17) nell’equazione cinetica integrata (5.9) si ricava infine:<br />

α(eq) −α(0)<br />

ln = ( k1 + k−1) t<br />

α(eq) −α(<br />

t)<br />

(5.17)<br />

(5.18)<br />

Che rappresenta la legge cinetica integrata scritta in funzione del potere ottico rotatorio. A<br />

questo punto si può procedere secondo due distinte modalità:<br />

i) Raccogliendo coppie di dati t, α(t), e misurando ad un tempo t → ∞ il valore di<br />

α(∞) ≡ α(eq) si può ricavare dalla (5.18):<br />

ln [ (eq) ( ) ] ln [ (eq) (0) ] ( 1 −1)<br />

riportando in grafico i valori di ln [ (eq) ( t)<br />

]<br />

intercetta pari a ln [ α(eq) −α (0) ] e pendenza pari a ( )<br />

mediante regressione lineare.<br />

α −α t = α −α − k + k t<br />

(5.19)<br />

ii) La relazione (5.18) può essere esplicitata per α(t) ottenendo:<br />

α −α vs. t si ottiene pertanto una retta di<br />

− k + k− entrambe ottenibili<br />

1 1


α(0) −α(eq)<br />

α () t =α (eq) + (5.20)<br />

( k1+ k−1) t<br />

e<br />

Le coppie di dati t, α(t) possono essere fittate sulla base dell’equazione (5.20)<br />

mediante un metodo di minimi quadrati non lineari ottenendo in questo caso<br />

direttamente α(eq), α(0) e ( )<br />

k + k−come parametri del fitting.<br />

1 1<br />

Comunque si proceda, una volta ottenuti α(eq), α(0) e ( )<br />

44<br />

k + k−si può anche ottenere la<br />

1 1<br />

costante di equilibrio per la reazione di mutarotazione ricavandone l’espressione dalle<br />

relazioni (5.10), (5.15) , (5.16) e (5.17):<br />

K<br />

eq<br />

α(eq) −α(0)<br />

=<br />

Cα(0)<br />

[ α] β<br />

−α(eq)<br />

100<br />

(5.21)<br />

Come si può osservare, con l’eccezione del potere rotatorio specifico del β-glucosio, [α]β, il<br />

cui valore deve essere desunto dalla letteratura, tutti gli altri dati sono sperimentali. I<br />

valori delle costanti cinetiche diretta e inversa k1 e k-1 possono così essere ricavati<br />

risolvendo il sistema:<br />

⎧ k1<br />

⎪ = Keq<br />

⎨ k−1<br />

⎪<br />

⎩k1<br />

+ k−1 = P<br />

(5.22)<br />

dove il valore di Keq è ricavato dalla (5.21) e dove P rappresenta il valore numerico del<br />

parametro ( )<br />

ottiene infine:<br />

k1 + k−1 ottenuto mediante una delle procedure di fitting sopra descritte. Si<br />

⎧<br />

⎪k<br />

⎪<br />

⎨<br />

1<br />

Keq ⋅ P<br />

=<br />

1 + Keq<br />

P<br />

K<br />

⎪ k−1<br />

=<br />

1 +<br />

⎪⎩<br />

eq<br />

(5.23)<br />

Nella procedura sperimentale è di fondamentale importanza mantenere la cella<br />

polarimetrica in condizioni di accurata termostatazione in quanto tanto la costante di<br />

equilibrio Keq quanto le costanti cinetiche k1 e k-1 dipendono dalla temperatura. La cinetica<br />

della mutarotazione è inoltre fortemente dipendente dal pH in quanto la presenza di acidi,<br />

anche in tracce, catalizza la reazione favorendo l’apertura dell’anello piranosidico (ciclo a 6<br />

termini con l’ossigeno) del glucosio che è il primo stadio del processo.


6. Temperatura<br />

PROPRIETÀ TERMICHE E TERMO<strong>DI</strong>NAMICHE<br />

Due sistemi termodinamici che, posti in contatto termico fra loro, mantengono il loro stato<br />

di equilibrio hanno per definizione la stessa temperatura.<br />

L’esperienza mostra inoltre che se un corpo A ed un corpo B sono in equilibrio termico con<br />

un terzo corpo C, allora essi sono anche in equilibrio termico fra di loro. Questo risultato<br />

che è una legge empirica di natura, viene chiamato principio zero della termodinamica e<br />

sta alla base della possibilità di definire una scala della temperatura usando il corpo C<br />

come termometro.<br />

È possibile definire una scala empirica di temperatura se scegliamo come “termometro”<br />

una sostanza avente una qualche proprietà (che chiameremo proprietà termometrica) che<br />

risulti funzione univoca della temperatura.<br />

Tra le proprietà termometriche che si possono impiegare una delle più semplici è il<br />

volume. Si devono tuttavia considerare alcune condizioni. In primo luogo il volume della<br />

sostanza considerata deve variare in maniera monotona con la temperatura almeno in un<br />

intervallo opportunamente ampio. Così, ad esempio, non si può impiegare l’acqua come<br />

sostanza termometrica in quanto il suo volume specifico ha una minimo alla temperatura<br />

di 3.98 °C. Inoltre è opportuno scegliere sostanze il cui volume vari il più linearmente<br />

possibile con la temperatura. Fluidi che presentano questa caratteristica sono i gas la cui<br />

espansione diviene effettivamente lineare al limite della densità nulla.<br />

Per una determinata quantità di gas, le leggi di Charles e di Gay Lussac stabiliscono infatti<br />

rispettivamente la proporzionalità con la temperatura del volume a P costante e della<br />

pressione a V costante:<br />

V = kT P n<br />

P= kT V n<br />

( , costanti)<br />

( , costanti)<br />

Dal confronto delle (6.1) segue che non solo il volume, ma anche la pressione di un gas (a<br />

volume costante) può essere impiegata come un’opportuna proprietà termometrica. Sarà<br />

conveniente fissare una temperatura di riferimento a cui si attribuisce un valore T° e a cui<br />

corrisponde un valore P° (a V costante) o V° (a P costante). Nella forma più generale il<br />

valore della temperatura del campione in esame sarà pertanto dato dalla relazione:<br />

45<br />

(6.1)


0<br />

( PV )<br />

( PV )<br />

T<br />

T = lim T<br />

→<br />

P<br />

Come temperatura di riferimento si assume il punto triplo dell’acqua al quale si attribuisce<br />

esattamente la temperatura di 273.16 K. Il punto triplo è quello a cui coesistono le tre fasi<br />

dell’acqua ed è stato preferito rispetto al convenzionale punto di congelamento dell’acqua<br />

a pressione atmosferica perché è più esattamente riproducibile in quanto si possono<br />

evitare errori dovuti a variazioni di pressione o a piccole quantità di aria disciolta. La<br />

temperatura di congelamento dell’acqua, che identifica lo zero della scala Celsius, si<br />

colloca a 273.1500 ± 0.0003K.<br />

Si può quindi fissare una scala delle temperature usando come termometro un termometro<br />

a gas a volume costante: i termometri ordinari vengono poi calibrati in base a queste<br />

misure. La scala assoluta o termodinamica della temperatura, definita sulla base del secondo<br />

principio della termodinamica, coincide esattamente con la scala del gas ideale che<br />

abbiamo appena considerato. Di conseguenza i termometri a gas, anche se non hanno una<br />

grande utilità pratica, perché sono scomodi e molto delicati da usare presentano tuttavia<br />

un grande interesse proprio perché costituiscono un mezzo per definire la scala<br />

termodinamica delle temperature. Oltre a ciò i termometri a gas offrono altri pregi non<br />

trascurabili tra i quali una elevatissima precisione dovuta all’elevato coefficiente di<br />

temperatura e una elevata accuratezza dovuta al fatto che la dilatazione termica del<br />

materiale di cui è costituito il bulbo contenente il gas è assolutamente trascurabile rispetto<br />

alla dilatazione del gas stesso. L’elevato coefficiente di temperatura li rende anche sensibili<br />

a variazioni di temperatura molto piccole. Infine alcuni gas (es. idrogeno e elio)<br />

consentono di scendere fino a temperature molto basse (con l’idrogeno si arrivano a<br />

misurare temperature fino a 1 K) oppure arrivare a temperature molto elevate (con l’elio o<br />

l’azoto contenuti in recipienti di iridio puro si arriva fino a 2000 °C). Al di là di questi<br />

vantaggi rimane però il fatto che il termometro a gas è uno strumento scomodo da usare e<br />

nella pratica vengono usati termometri differenti.<br />

La scala Internazionale delle temperature<br />

I termometri possono essere classificati sulla base della proprietà termometrica che<br />

sfruttano. Le tipologie più importanti di termometri sono raccolte nella tabella seguente:<br />

46<br />

<br />

T<br />

<br />

(6.2)


Termometro Proprietà termometrica<br />

Termometro a gas a volume costante Pressione del gas<br />

Termometro a gas a pressione costante Volume del gas<br />

Termometro a liquido Altezza di una colonna di liquido<br />

Termometro a resistenza Resistenza<br />

Termocoppia Forza elettromotrice<br />

Contemporaneamente all’esigenza di avere a disposizione termometri pratici da usare, si è<br />

sentita anche l’esigenza di avere a disposizione una scala di riferimento più comoda di<br />

quella fissata con il termometro a gas. Già nel 1927 nel corso della VII Conferenza<br />

Generale dei Pesi e delle Misure fu deciso di adottare una scala internazionale delle<br />

temperature per avere una scala termometrica rigorosamente standardizzata che potesse<br />

essere facilmente usata per la calibrazione accurata di qualunque strumento di misura. La<br />

scala fu scelta naturalmente in modo che coincidesse il più possibile con la scala<br />

termodinamica assoluta (e quindi con la scala Celsius che rispetto a quella termodinamica<br />

ha soltanto l’origine traslata di 273.15 unità). La scala internazionale è definita mediante<br />

un certo numero di punti fissi, cioè di temperature standard di riferimento, alle quali essa<br />

coincide esattamente con la scala Celsius. I punti fissi corrispondono alle temperature di<br />

altrettanti equilibri di fase alla pressione di 1 atmosfera. L’elenco di tali punti è riportato in<br />

tabella:<br />

Sostanza Equilibrio T/°C<br />

Ossigeno liquido-vapore -182.97<br />

Acqua (satura d’aria) solido-liquido 0.00<br />

Acqua liquido-vapore 100.00<br />

Zolfo liquido-vapore 444.60<br />

Antimonio solido-liquido 630.50<br />

Argento solido-liquido 960.80<br />

Oro solido-liquido 1063.00<br />

47


La VII Conferenza ha anche stabilito il modo in cui si deve compiere l’interpolazione tra<br />

questi punti fissi. L’interpolazione si effettua con termometri a resistenza standard o con<br />

termocoppie secondo criteri stabiliti da convenzioni internazionali ed a questo scopo<br />

l’intervallo di temperatura compreso tra il punto normale di ebollizione dell’ossigeno e il<br />

punto normale di fusione dell’oro è stato suddiviso in tre parti:<br />

1) da 0 a 670 °C la temperatura è calcolata dalla resistenza di un termometro a resistenza<br />

di platino attraverso l’equazione:<br />

2<br />

( ) ( )<br />

R T = R + aT + bT<br />

(6.3)<br />

0 1<br />

dove R , a e b sono determinate tarando il termometro a tre temperature e precisamente<br />

0<br />

alla temperatura di fusione del ghiaccio, alla temperatura normale di ebollizione<br />

dell’acqua ed alla temperatura normale di ebollizione dello zolfo.<br />

2) da -198 a 0 °C si usa lo stesso termometro a resistenza, ma in quest’intervallo la<br />

temperatura è definita dalla relazione:<br />

( ) = 1+ + + ( −100)<br />

2 3<br />

⎡ ⎤<br />

0<br />

R T R<br />

⎣<br />

aT bT c T T<br />

⎦ (6.4)<br />

dove R 0 , a e b sono le costanti precedentemente deterMinate e c è un quarto parametro<br />

determinato facendo una misura al punto normale di ebollizione tell’ossigeno liquido.<br />

3) da 660 a 063 °C la temperatura è determinata misurando la forza elettromotrice di una<br />

termocoppia standard platino-platino rodio per mezzo dell’equazione:<br />

2<br />

E = a+ bT + cT<br />

(6.4)<br />

dove a, b, ec sono ottenute da misure al puNto normale di ebollizione dell’antimonio,<br />

dell’argento e dell’oro.<br />

Termometri a liquido<br />

I termometri a liquido, e tra questi soprattutto il termometro a mercurio, sono molto usati<br />

per la misura della temperatura grazie alla loro praticità. La proprietà teRmometrica che<br />

sfruttano è la variazione del volume con la temperatura.<br />

Il mercurio è particolar}ente adatto come liquido termomEtrico perché si purifica<br />

facilmente per distillazione, non bagna il vetro, a pressione atmosferica rimane liquido da<br />

-40 a 357 C, ed inoltre il termometro risulta ben leggibile. Ma il vantaggio principale del<br />

48


mercurio è che ha un coefficiente di espansione pressoché uniforme con la temperatura e<br />

questo consente di tarare il termometro usando una se}plice legge lineare.<br />

La variazione del volume specifico del mercurio con la temperatura è in realtà data<br />

dall’equazione:<br />

−3 −8 2 −9<br />

3<br />

( ) ( 1 0.187 10 0.295 10 0.1146 10 )<br />

V T = V + ⋅ T + ⋅ T + ⋅ T<br />

(6.5)<br />

0<br />

dove le temperature sono espresse in gradi Celsius e dove V rappresenta il volume<br />

0<br />

specifico del mercurio a 0 °C ( V<br />

3 −1<br />

= 0.0737 cm g ). Il termine quadratico ed il turmine<br />

0<br />

cubico dell’equazione sopRa riportata sono molto piccoli e quindi la dilatazione del<br />

mercurio si può considerare lineare con ottima approssimazione. L’apProssimazione è<br />

ragionevole perché questo tipo di termometri viene utilizzato in genere per misure di non<br />

elevata precisione oppUre per misure precise, ma in un intervallo ristretto di temperatura.<br />

Sono disponibili termometri a mercurio di diversa precisione che operano in differenti<br />

ranges di temperatura:<br />

1) termometri di uso generale tarati in gradi cxe operano in ranges di temperatUra da 0 a<br />

100, 250, 350 °C.<br />

2) set di termometri da <strong>–</strong>40 a 400 °C, ciascuno operante in un range di 50 °C e graduato a<br />

0.1 °C.<br />

3) termometri da 18 a 28 °C graduati a 0.01 °C e da 17 a 31 °C graduati a 0.02 °C.<br />

4) termometri Beckmann, con un range di temperatura aggIustabile a graduati a 0.01 °C<br />

5) termometri ad alta temperatura costruiti con vetri speciali o quarzo, riempiti con<br />

mercurio sotto pressione di CO2 o di Argon. Questi termometri possono arrivare fino a<br />

750 °C.<br />

Le principali cause di errore nella lettura dellA temperatura con un termometro a<br />

mercurio sono legate a variazioni nel volume del bulbo, ad errori di parallasse nella lettura<br />

dell’altezza della colonna ed al fatto che sono tarati ad immersione totale.<br />

Il bulbo di un termOmetro a mercurio contiene generAlmente una quantità di mercurio<br />

pari a 6000 gradi della sua scala, quindi piccole variazioni di volume del bulbo possono<br />

portare a notevoli errori nella lettura della temperatura. Occorre che il vetro di un<br />

termometro sia temprato per evitare alterazioni irreversibili nel volume del bulbo.<br />

Alterazioni reversibili si possono avere quando un termometro è scaldato ad alta<br />

temperatura, ma allora il termometro torna al suo volume originario dopo un periodo più<br />

49


o meno lungo. Per mysure accurate occorre quindi ricontrollare la taratura del termometro<br />

confrontandolo con i termometri di riferimento dopo che questo è stato portato a<br />

temperature elevate.<br />

Un’altra frequente causa di errore deriva dal fatto che questi termometri sono<br />

generalmente tarati ad immersione totale. Questa condizione si realizza raramente in<br />

laboratorio durante la misura cosicché può accadere che mentre il bulbo si trova alla<br />

temperatura da determinare, la colonna si trova ad una temperatura vicina a quella<br />

ambiente e che può essere anche notevolmente diversa. Si può dimostrare che la<br />

correzione Δ da apportare è data approssimativamente dalla relazione:<br />

Dove<br />

( )<br />

Δ= kn T − T<br />

(6.6)<br />

50<br />

oss a<br />

T è la temperatura osservata, T<br />

oss<br />

a è la temperatura ambiente a cui si trova la<br />

colonna, k è il coefficiente differenziale di dilatazione del mercurio nel vetro (k = 0.00016<br />

per la maggior parte dei termometri) ed n l’altezza della colonna esposta che viene<br />

espressa in numero di gradi.<br />

Oltre ai termometri a mercurio trovano largo uso termometri contenenti altri liquidi.<br />

Composti organici come il toluene, il pentano e soprattutto l’alcool sono spesso usati per la<br />

costruzione di termometri che consentono la misura di basse temperature. L’alcool<br />

permette di arrivare a <strong>–</strong>60 °C, il toluene a <strong>–</strong>90 °C e il pentano a <strong>–</strong>200 °C. I liquidi organici<br />

che abbiamo citato sopra hanno coefficienti di espansione superiori da cinque a dieci volte<br />

quello del mercurio e questo rappresenta un vantaggio nella costruzione del termometro<br />

perché rende trascurabile l’effetto della dilatazione subita dal bulbo che li contiene. Gli<br />

svantaggi sono costituiti dal fatto che il coefficiente di dilatazione dei liquidi organici non<br />

è lineare, che essi sono meno stabili del mercurio, che non sono colorati e questo rende<br />

necessaria l’aggiunta di coloranti che però accelerano i processi di invecchiamento e<br />

polimerizzazione e infine che essi sono più inerti rispetto al mercurio perché hanno una<br />

minore conducibilità termica ed una maggiore capacità termica.


Termometri a resistenza<br />

Termometri a resistenza di platino<br />

Sono costituiti da un filamento di platino che può essere racchiuso in un tubicino in vetro<br />

oppure in un involucro ceramico oppure ancora in un tubo d’acciaio. Sono<br />

commercialmente disponibili sonde di Platino standard la cui resistenza a 0 °C assume un<br />

valore specifico. Le più tipiche sono le cosiddette sonde Pt e Pt che hanno<br />

25<br />

100<br />

rispettivamente resistenza pari a 25 Ω e 100 Ω a 0 °C. La temperatura T, espressa in gradi<br />

centigradi, viene calcolata dalla resistenza elettrica misurata R attraverso un’ equazione<br />

opportuna. Una delle forme di equazione suggerite per lo scopo è la seguente:<br />

dove<br />

R ,<br />

0<br />

( )<br />

−<br />

T 0 ⎛ ⎞<br />

100 R R T T<br />

T = +δ⎜ −1⎟<br />

R − R ⎝100 ⎠100<br />

100 0<br />

51<br />

(6.7)<br />

R e δ, sono determinati per calibrazione al punto di fusione del ghiaccio, al<br />

100<br />

punto di ebollizione dell’acqua ed al punto di ebollizione dello zolfo. La (6.7) è<br />

ovviamente implicita in T, pertanto può essere risolta solo iterativamente, il che rende il<br />

suo impiego scomodo, sebbene il processo converga facilmente dato il piccolo valore di δ.<br />

Esistono però anche delle tabelle di conversione della resistenza in temperatura che<br />

vengono fornite insieme al termometro ed inoltre vengono anche fornite equazioni più<br />

approssimate che esprimono T come funzione esplicita di R in forma polinomiale. I<br />

termometri a resistenza di platino sono estremamente maneggevoli e versatili e si possono<br />

utilizzare in un vasto intervallo di temperatura. Ricordiamo che l’interpolazione sulla<br />

scala internazionale delle temperature da -198 °C a 670 °C è definita proprio sulla base<br />

della resistenza di un termometro al platino. Oltre l’ampio range di temperatura in cui<br />

sono impiegabili l’altra caratteristica importante di questo tipo di sonda termometrica è la<br />

notevole stabilità nel tempo, sebbene per misure molto accurate sia necessario procedere a<br />

periodiche tarature. Questa necessità non si manifesta nel caso in cui si sia interessati a<br />

misurare variazioni di temperatura e non temperature assolute. Il limite principale delle<br />

sonde termometriche a resistenza di platino è invece costituito da una sensibilità limitata.<br />

Per una sonda standard del tipo<br />

Pt si ha ad esempio (a T = 25°C):<br />

100<br />

⎛ dR ⎞<br />

⎜ ⎟<br />

⎝dT ⎠<br />

T=25°C<br />

0.388 ohm K −<br />

=<br />

1<br />

(6.8)


Ciò comporta che per effettuare determinazioni accurate di temperatura con sonde a<br />

resistenza di Platino occorre disporre di strumenti di misurazione della resistenza di<br />

notevole accuratezza e precisione. Ad esempio per misurare una temperatura mediante<br />

sonda<br />

Pt intorno a<br />

100<br />

T con un’accuratezza pari a ± 1 mK occorre misurare il valore di<br />

ambiente<br />

resistenza con un’accuratezza pari almeno a<br />

52<br />

4<br />

310 −<br />

⋅ Ω. Talvolta può risultare più<br />

conveniente usare termometri a resistenza costruiti con altri metalli o leghe. Per esempio<br />

una lega ad alto tenore di nichel ha, rispetto al platino, il vantaggio di avere un maggiore<br />

coefficiente di resistività, e le sonde costruite con questa lega mostrano pertanto maggiore<br />

sensibilità.<br />

Termistori<br />

Vi sono infine termometri a resistenza che sfruttano materiali non metallici, in pratica dei<br />

semiconduttori. La resistività dei semiconduttori diminuisce fortemente all’aumentare<br />

della temperatura. Essa ha cioè un coefficiente di temperatura negativo e di un ordine di<br />

grandezza superiore rispetto al coefficiente di temperatura delle sonde metalliche. Sonde<br />

termometriche di questo tipo sono dette termistori. I termistori sono fatti di miscele di vari<br />

ossidi metallici sinterizzati in condizioni controllate in modo da dare un materiale<br />

ceramico. La relazione che lega la resistenza alla temperatura nel caso di un termistore è<br />

esponenziale:<br />

1 1<br />

0 e<br />

⎛ ⎞<br />

−B ⎜ − ⎟<br />

⎜T T ⎟<br />

⎝ ⎠<br />

( ) 0<br />

RT = R<br />

(6.9)<br />

dove R0 è la resistenza misurata alla temperatura di riferimento T0 e dove la costante B,<br />

che ha evidentemente le dimensioni di una temperatura, è determinata mediante taratura.<br />

La (6.9) può essere scritta in forma logaritmica:<br />

da cui si ricava:<br />

⎛ 1 1 ⎞<br />

ln RT ( ) = ln R−B⎜ − ⎟<br />

0 ⎜T T ⎟<br />

( )<br />

⎝ 0 ⎠<br />

B<br />

T =<br />

ln R − ln RT + BT<br />

0 0<br />

(6.10)<br />

(6.11)<br />

A temperatura ambiente il valore della resistenza varia di circa il 5% per ogni grado di<br />

variazione della temperatura, cioè:


1 dR<br />

= 0.05<br />

R dT<br />

53<br />

(6.12)<br />

Come già osservato il coefficiente di temperatura è quindi di un ordine di grandezza<br />

superiore a quello del termometro a resistenza di platino e per questo i termistori sono più<br />

sensibili delle sonde al platino e consentono di ottenere una precisione di<br />

5<br />

10 − °C. Benché<br />

la (6.9) esprima una dipendenza esponenziale di R da 1 T , per piccole variazioni di<br />

temperatura ( Δ T < 1 K ) sarà comunque possibile linearizzare l’espressione (espandendo in<br />

serie di potenze e troncando al primo ordine) ottenendo in pratica:<br />

ΔR∝Δ T<br />

(6.13)<br />

Uno dei difetti più seri di un termistore è di essere poco stabile nel tempo specialmente se<br />

viene impiegato su range ampi di temperatura. I valori di resistenza dei termistori<br />

commerciali sono compresi tra 500 Ω e<br />

un termistore è 2000 Ω a 20 °C.<br />

Misure di resistenza<br />

5<br />

110 ⋅ Ω. Il valore più comunemente impiegato per<br />

Come osservato la misura della temperatura con sonde termometriche a resistenza si<br />

riduce ad una misura della resistenza elettrica della sonda stessa. La misura di resistenza<br />

può essere effettuata sia mediante un voltmetro elettronico sfruttando la legge di Ohm e<br />

operando a corrente costante, o, se si necessita di misure più accurate, mediante un<br />

dispositivo denominato ponte di Wheatstone.<br />

Misurazione volt-amperometrica della resistenza (voltmetri elettronici)<br />

i<br />

RT<br />

VDC<br />

Figura 34. Misurazione volt-amperometrica<br />

della resistenza<br />

A<br />

Voltmetro elettronico<br />

Il modo più semplice per misurare una<br />

resistenza prevede l’impiego di un voltmetro<br />

elettronico (Figura 34). La resistenza interna di<br />

un voltmetro elettronico è dell’ordine di<br />

parecchi megaohm, pertanto se si collega ai<br />

capi di una resistenza R un alimentatore in<br />

T<br />

grado di erogare una corrente i costante e si<br />

misura la caduta di potenziale ai suoi capi<br />

mediante un voltmetro elettronico, la corrente<br />

circola praticamente solo attraverso<br />

R : in altre<br />

T


parole il voltmetro non perturba il sistema. Il generatore di tensione è di norma interno al<br />

voltmetro stesso, pertanto sui conduttori che collegano il voltmetro alla resistenza circola<br />

la corrente i, il che comporta che la caduta di tensione V tiene conto anche della resistenza<br />

dei cavi. Risultati più accurati si possono ottenere misurando simultaneamente intensità di<br />

corrente i e caduta di tensione V ai capi di<br />

R impiegando connessioni elettriche separate.<br />

T<br />

Molti voltmetri digitali commerciali, ad esempio, dispongono di modalità di misura della<br />

i = 0<br />

i<br />

RT<br />

VDC<br />

A<br />

Voltmetro elettronico<br />

Figura 35. Misurazione volt-amperometrica della<br />

resistenza. Collegamento a 4 fili<br />

Misurazione della resistenza mediante ponte di Wheatstone<br />

A<br />

R3<br />

R1<br />

B<br />

D<br />

V0<br />

R2<br />

RT<br />

Figura 36. Misurazione della resistenza<br />

mediante ponte di Wheatstone<br />

C<br />

G<br />

VG<br />

54<br />

resistenza a 4 fili. In pratica due conduttori<br />

vengono impiegati per alimentare la<br />

resistenza e per determinare la corrente che<br />

circola attraverso di essa, mentre gli altri<br />

due (attraverso i quali non circola alcuna<br />

corrente) sono impiegati per la<br />

determinazione di V (Figura 35).<br />

La misurazione della resistenza avviene<br />

comunque sfruttando la legge di Ohm:<br />

V<br />

R = (6.14)<br />

T i<br />

Lo strumento più comunemente usato<br />

per le misure di resistenza è il ponte di<br />

Wheatstone (Figura 36). Il ponte è<br />

costituito da due resistenze fisse<br />

R e<br />

1<br />

R ,<br />

2<br />

da una resistenza variabile R e dalla<br />

3<br />

resistenza incognita R che rappresenta<br />

T<br />

la sonda termometrica. Il ponte è<br />

alimentato da un opportuno<br />

alimentatore a corrente continua o da<br />

una pila. Sia dunque V la tensione in<br />

0<br />

uscita dall’alimentatore. Discuteremo<br />

brevemente le due condizioni normali di


funzionamento del ponte di Wheatstone, entrambe importanti.<br />

Ponte di Wheatstone in condizioni di bilanciamento<br />

Variando opportunamente la resistenza<br />

R si può far sì che i punti B e D si trovino allo<br />

3<br />

stesso potenziale, cioè V = 0 : in questo modo il galvanometro G non rivela nessun<br />

BD<br />

passaggio di corrente. Valgono allora le uguaglianze:<br />

V = V<br />

V = V<br />

AB AD<br />

CB CD<br />

che per la legge di Ohm possono essere scritte nella forma:<br />

R i = Ri<br />

11 3 3<br />

R i = R i<br />

22 T T<br />

Ora, dal momento che non c’è passaggio di corrente attraverso G, sarà anche:<br />

i = i = i<br />

i = i = i<br />

1 2 ABC<br />

3 T ADC<br />

che sostituite nella seconda delle (6.16) permettono di ricavare:<br />

2ABC T ADC<br />

55<br />

(6.15)<br />

(6.16)<br />

(6.17)<br />

R i = R i<br />

(6.18)<br />

Dividendo la prima delle (6.16) per l’equazione (6.18) si ottiene allora:<br />

da cui infine:<br />

Ri<br />

1 ABC<br />

R i<br />

2 ABC<br />

Ri<br />

3 ADC<br />

=<br />

R i<br />

T<br />

ADC<br />

o anche R1RTR2R3 R<br />

R R<br />

= (6.19)<br />

2 3 = (6.20)<br />

T R<br />

1<br />

Per ottenere misure di alta precisione il ponte deve essere costruito e tarato con<br />

grandissima cura. Supponiamo ad esempio di effettuare misure di temperatura con una<br />

sonda di platino avente resistenza di 25 Ω a 0 °C. La resistenza aumenta di circa 10 Ω<br />

salendo a 100 °C e quindi per misurare il centesimo di grado bisogna misurare variazioni<br />

resistenza pari a 10 -3 Ω.<br />

Naturalmente anche le resistenze del ponte variano con la temperatura e quindi per<br />

effettuare misure precise occorre anche conoscere la temperatura a cui si trovano le<br />

resistenze del ponte. Queste ultime sono generalmente costruite in manganina, una lega di<br />

rame, manganese e nichel (Cu 84%, Mn 12%, Ni 4%) che ha un basso coefficiente termico<br />

di resistività per cui è sufficiente conoscere la temperatura del ponte con la precisione del


grado per avere una precisione di 10 -4 nella misura della resistenza. Per precisioni<br />

maggiori occorre però termostatare tutto il ponte.<br />

Ponte di Wheatstone fuori dalle condizioni di bilanciamento<br />

Al di fuori della condizione di bilanciamento (6.20), la tensione rilevabile ai capi del<br />

galvanometro, V , può essere espressa come differenza delle tensioni V e V oppure<br />

G<br />

AB AD<br />

V e V :<br />

CB CD<br />

Inoltre è anche:<br />

V = V = V − V = V − V<br />

(6.21)<br />

G<br />

BD AB AD CB CD<br />

V = V + V = V + V = V<br />

(6.22)<br />

AC AB BC AD DC 0<br />

ma in base alla legge di Ohm la caduta di tensione ai capi di ciascuna resistenza può essere<br />

espressa come prodotto della resistenza stessa per la intensità di corrente che vi circola:<br />

da cui:<br />

e conseguentemente:<br />

i<br />

ABC<br />

( ) ( )<br />

V = R + R i = R + R i<br />

(6.23)<br />

0 1 2 ABC 3 T ADC<br />

V<br />

0 =<br />

R + R<br />

1 2<br />

V<br />

V = Ri = R<br />

AB 1 ABC<br />

0<br />

R + R<br />

1 2<br />

1<br />

Sostituendo le (6.25) nella (6.21) si ricava allora:<br />

V V<br />

V = R − R =<br />

G R R R R<br />

0 0<br />

+<br />

1 2<br />

1 +<br />

3 T<br />

3<br />

V<br />

0<br />

e i =<br />

ADC R + R<br />

56<br />

3 T<br />

V<br />

0<br />

e V = Ri = R<br />

R + R<br />

RR<br />

Se ora supponiamo che la resistenza della sonda<br />

quantità<br />

1 3<br />

AD 3 ADC 3<br />

3 T<br />

+ RR − RR<br />

− RR<br />

1 T 1 3 2 3<br />

V<br />

0<br />

1 2 3 T<br />

( R + R )( R + R )<br />

(6.24)<br />

(6.25)<br />

(6.26)<br />

R cambi nel corso della misura di una<br />

T<br />

Δ R , la tensione di sbilanciamento V cambierà di una certa quantità<br />

T<br />

G<br />

corrispondente tale per cui:<br />

G G<br />

( )<br />

( R + R )( R + R +ΔR<br />

)<br />

R R +ΔR − R R RR + RΔR−RR V +Δ V = V =<br />

V<br />

1 T T 2 3 1 T 1 T 2 3<br />

1 2 3 T T<br />

0 RR+ RR + RR<br />

1 3 2 3 1 T<br />

+ RR<br />

2 T<br />

+ RΔ R<br />

1 T<br />

+ RΔR 2 T<br />

0<br />

Δ V<br />

G<br />

(6.27)<br />

Se il ponte era stato bilanciato all’inizio della misura ( V = 0 ) si avrà, come già osservato<br />

G<br />

nella (6.19) R1RTR2R3 = , per cui:


RΔR 1 T<br />

V V<br />

G<br />

0<br />

RR + RR + RR + RR + RΔ R + RΔR 1 3 2 3 1 T 2 T 1 T 2 T<br />

Δ =<br />

57<br />

(6.28)<br />

Se poi, come in genere accade, il ponte impiegato è un ponte a rami “uguali”, (cioè se in<br />

condizioni di bilanciamento si verifica che R = R = R = R = R),<br />

si può semplificare<br />

1 2 3 T<br />

notevolmente la (6.28) ottenendo:<br />

Per variazioni di resistenza<br />

ΔV≅ G<br />

4R<br />

2<br />

R ΔR<br />

T<br />

+ 2 R ΔR<br />

T<br />

ΔR<br />

V = V<br />

0<br />

T<br />

4R+ 2ΔR<br />

T<br />

0<br />

(6.29)<br />

Δ R che non superino il 5% del valore nominale in condizioni<br />

T<br />

di bilanciamento, il termine 2 T R Δ al denominatore è trascurabile rispetto a 4R , pertanto:<br />

ΔR<br />

T ΔV ≅ V<br />

G 4R<br />

0<br />

(6.30)<br />

La (6.30) mostra che per variazioni piccole di resistenza della sonda, inferiori cioè al 5%<br />

della sua resistenza misurata in condizioni di bilanciamento, la variazione della tensione<br />

di uscita,<br />

Δ V , è proporzionale alla variazione della resistenza<br />

G<br />

Δ R . La misura della<br />

T<br />

tensione di sbilanciamento è spesso impiegata per monitorare variazioni di resistenza e<br />

quindi di temperatura (registrazione di curve calorimetriche ecc.). I segnali in tensione<br />

sono inoltre facilmente acquisibili per mezzo di un computer dopo essere stati<br />

eventualmente amplificate e convertiti da analogici a digitali.<br />

Termocoppie<br />

Una termocoppia è costituita da due fili metallici di materiale diverso saldati ad una<br />

estremità. Se si uniscono le due estremità lasciate libere e si pongono le due giunzioni a<br />

contatto termico con due sorgenti di calore poste a temperatura diversa, si osserva un<br />

passaggio di corrente attraverso il circuito chiuso, testimoniato dalla creazione di un<br />

campo magnetico capace, ad esempio, di orientare un ago magnetico. L'entità della<br />

corrente che circola dipende dal tipo di coppia metallica. Questo effetto, noto come effetto<br />

Seebeck, rientra nella casistica generale dei cosiddetti effetti termoelettrici. Per misurare la<br />

temperatura la termocoppia viene usata aprendo il circuito in corrispondenza di uno dei<br />

giunti e misurando ai due capi la forza elettromotrice generata e che, quando il circuito è<br />

chiuso, è responsabile della circolazione di corrente. La tensione misurata dipende, oltre


Giunto a<br />

T = T1<br />

T1<br />

V<br />

T0<br />

che dalla coppia di metalli impiegata per<br />

realizzare la termocoppia, dalla differenza di<br />

temperatura esistente tra i due giunti. La<br />

Figura 37 mostra in modo schematico le<br />

osservazioni sopra descritte.<br />

La seguente tabella riporta il coefficiente di<br />

Seebeck ( μ V/K)<br />

relativamente ad alcune<br />

coppie di metalli (o leghe) di uso comune.<br />

Tipo Metalli (leghe) Coeffic. Seebeck (μV/K)<br />

J Fe-costantana 50<br />

K Ni-Cr 40<br />

T Cu-costantana 38<br />

S Pt/Rh-Pt 10<br />

E Ni/Cr-costantana 59<br />

N Ni/Cr/Si-Ni/Si 39<br />

La tensione misurata sarà quindi legata alla differenza di temperatura<br />

58<br />

T − T esistente tra<br />

la giunzione e le due estremità. Tuttavia quando colleghiamo un voltmetro ai capi della<br />

termocoppia, di fatto creiamo due nuove giunzioni dovute alla presenza dei due fili di<br />

rame di cui sono costituiti i cavi. Per eliminare le tensioni parassite che si generano sui<br />

giunti cavo-termocoppia è sufficiente far sì che i due contatti siano alla stessa temperatura.<br />

Inoltre, dato che la tensione presente ai capi della termocoppia dipende dalla differenza di<br />

temperatura T − T , di solito si introduce in serie una seconda termocoppia il cui giunto è<br />

X<br />

Metallo a<br />

Metallo b<br />

Metallo a<br />

Metallo b<br />

Figura 37. Effetto Seebeck. Circuito a<br />

giunti chiusi e a giunti aperti.<br />

ref<br />

i T2<br />

Giunto a<br />

T = T2<br />

Giunto a<br />

T = Tx<br />

TX<br />

mantenuto a una ben definita temperatura (es. 0 °C). In letteratura vi sono infatti tabelle<br />

che riportano la tensione di termocoppia in funzione della temperatura e sono tutte riferite<br />

X<br />

0


alla temperatura del ghiaccio fondente. Se non si usa una seconda termocoppia posta ad<br />

una temperatura di riferimento occorre comunque conoscere con esattezza la temperatura<br />

dei giunti cavo-termocoppia. Le termocoppie risultano particolarmente utili quando si<br />

vuole conoscere la differenza di temperatura esistente tra due punti, ad esempio per<br />

assicurare omogeneità di temperatura in un termostato. Si deve inoltre osservare che<br />

sebbene ogni giunto di termocoppia sia in grado di generare una tensione di poche decine<br />

di μV per grado di differenza di temperatura, è possibile realizzare una termopila<br />

costituita da molte termocoppie collegate in serie con i giunti posti alternativamente in<br />

contatto termico con la sorgente calda e con quella fredda. In questo modo la tensione<br />

misurata è pari alla tensione di termocoppia moltiplicata per il numero dei giunti.<br />

59


7. Misure di Calore<br />

Introduzione<br />

Sotto il generico nome di calorimetria sono raccolte tutte quelle tecniche sperimentali il cui<br />

scopo è la misura degli effetti termici associati ai vari processi. Un qualunque apparato<br />

sperimentale usato per la misura del calore scambiato durante un processo prende il nome<br />

di calorimetro.<br />

Le tecniche calorimetriche possono essere classificate in base alle condizioni sperimentali<br />

in cui il processo avviene distinguendo tra:<br />

⎯ Calorimetria a volume costante;<br />

⎯ Calorimetria a pressione costante;<br />

e in base alla modalità di funzionamento dello strumento stesso; si potranno distinguere in<br />

particolare:<br />

⎯ Calorimetri adiabatici;<br />

⎯ Calorimetri isoperibolici.<br />

⎯ Calorimetri isotermi;<br />

⎯ Calorimetri a flusso di calore;<br />

⎯ Calorimetri a scansione.<br />

Le prime due condizioni sono legate alle caratteristiche costruttive delle celle di misura<br />

impiegate, mentre le rimanenti tre si riferiscono alle condizioni di scambio termico con<br />

l’esterno (esisteranno pertanto calorimetri adiabatici a pressione o a volume costante,<br />

calorimetri isotermi a pressione o a volume costante, ecc.). Si potranno poi fare ulteriori<br />

distinzioni a seconda delle modalità di trasmissione del calore (calorimetri a flusso di<br />

calore), della presenza di celle di riferimento (calorimetri differenziali), e, nel caso di<br />

applicazioni calorimetriche a processi reattivi, della modalità di aggiunta o mescolamento<br />

dei reagenti (calorimetri bulk, calorimetri a titolazione, calorimetri a flusso).<br />

Nella calorimetria a volume costante la cella di reazione è un recipiente chiuso, all’interno<br />

del quale sono stati inseriti i reagenti eventualmente mantenuti separati. La reazione viene<br />

poi innescata o procedendo al mescolamento dei reagenti mediante opportuno dispositivo<br />

esterno o, in taluni casi, mediante innesco elettrico. Le celle a volume costante vengono<br />

utilizzate per studiare il calore di reazione di sostanze di cui almeno una sia in fase<br />

60


gassosa. Le caratteristiche costruttive della cella sono quindi tali da far sì che qualunque<br />

trasformazione avvenga in condizioni isocore, il che significa che il lavoro meccanico<br />

compiuto dal/sul sistema è necessariamente nullo ( W = 0 ). Pertanto segue direttamente<br />

dal primo principio della termodinamica che il calore scambiato dal sistema deve<br />

corrispondere alla variazione di energia interna del sistema stesso, che corrisponde poi al<br />

Δ U del processo investigato.<br />

La calorimetria a pressione costante risulta invece particolarmente utile per lo studio di<br />

reazioni e processi in soluzione. Mediante questo tipo di calorimetri si possono misurare<br />

calori di reazione, di soluzione, di diluizione e in generale effetti termici relativi a processi<br />

in fase condensata. Poiché la cella si trova sotto una pressione costante, che generalmente è<br />

quella atmosferica, la quantità di calore scambiata dal sistema deve corrispondere alla<br />

variazione entalpia Δ H associata al processo.<br />

Il primo principio della termodinamica, applicato ad una generica trasformazione cui è<br />

sottoposto un sistema, può essere espresso in termini differenziali nella forma:<br />

dU = δQ+ δW<br />

(7.1)<br />

dove dU rappresenta la variazione infinitesima dell’Energia interna (U) del sistema,<br />

mentre δ Q e δ W rappresentano rispettivamente un calore scambiato infinitesimo e un<br />

lavoro meccanico pure infinitesimo e dove il simbolo δ sottolinea il fatto che, non essendo<br />

Q e W funzioni di stato, i loro differenziali non sono esatti. Nell’equazione (7.1) si è<br />

adottata la convenzione di assumere positivi il calore assorbito dal sistema ed il lavoro<br />

compiuto sul sistema, pertanto δ W =− PdV e conseguentemente:<br />

che in condizioni isocore ( dV = 0 ) diviene:<br />

dU = δQ<br />

− PdV<br />

(7.2)<br />

dU = δQ<br />

(7.3)<br />

V V<br />

La (7.3) resta valida anche per variazioni finite, per cui si ottiene:<br />

Δ UV = QV<br />

(7.4)<br />

L’introduzione della funzione ausiliaria Entalpia (H = U + PV ), consente di ricavare<br />

ulteriori relazioni. Infatti in termini differenziali si avrà:<br />

dH = dU + PdV + VdP<br />

(7.5)<br />

61


che combinata con la (7.2) dà:<br />

dH = δQ<br />

− PdV + PdV + VdP = δQ<br />

+ VdP<br />

In condizioni isobare ( dP = 0 ) si ha ovviamente:<br />

o, per variazioni finite:<br />

P P<br />

62<br />

(7.6)<br />

dH = δQ<br />

(7.7)<br />

Δ HP= QP<br />

(7.8)<br />

Le altre condizioni che abbiamo elencato si riferiscono al regime di scambio termico del<br />

calorimetro con l’ambiente e/o alla modalità di misura del calore.<br />

Calorimetri adiabatici<br />

Nel calorimetro adiabatico gli scambi di calore fra cella calorimetrica e ambiente esterno<br />

sono nulli, quindi, se nel calorimetro avviene un processo esotermico, tutto il calore<br />

sviluppato rimane all’interno del sistema e provoca un aumento della temperatura; se il<br />

processo è endotermico, la temperatura del sistema diminuirà. Si può quindi risalire al<br />

calore scambiato nel processo misurando le variazioni di temperatura. In particolare, dato<br />

che il sistema è adiabatico, sarà sufficiente conoscere la temperatura prima ( T ) e dopo ( T )<br />

i<br />

f<br />

che è avvenuto il processo.<br />

Per un trasferimento infinitesimo di calore la variazione infinitesima di temperatura è<br />

proporzionale alla quantità di calore fornito e la costante di proporzionalità rappresenta la<br />

capacità termica del sistema:<br />

δ Q = CdT<br />

(7.9)<br />

Il calore Q sviluppato o assorbito durante il processo sarà pertanto calcolabile per<br />

integrazione della (7.9) tenendo però presente che il sistema calorimetrico (cella + reagenti<br />

+ prodotti) si riscalda o si raffredda “a spese” del processo ( Q =− Q ), pertanto:<br />

processo<br />

T T<br />

f f<br />

T T<br />

i i<br />

processo sistema<br />

( f i) ( i f )<br />

∫ ∫ (7.10)<br />

Q =− CdT =− C dT =−C T − T = C T −T<br />

osserviamo che se il processo è esotermico T > T e risulta Q < 0 ; se il processo è<br />

f i<br />

endotermico<br />

T < T e risulta Q > 0 .<br />

f i<br />

Se in un calorimetro adiabatico registriamo il profilo della temperatura in funzione del tempo


(curva calorimetrica), otterremo pertanto una curva come quella riportata in Figura 38.<br />

T f<br />

Temperatura<br />

T i<br />

tempo<br />

ΔT = T f <strong>–</strong>T i<br />

Figura 38. Esempio di curva calorimetrica<br />

adiabatica (caso esotermico).<br />

calorimetrico. Il calore dissipato per effetto Joule sarà esprimibile come:<br />

63<br />

Il calore può essere<br />

immediatamente calcolato dal<br />

ΔT misurato se si conosce la<br />

capacità termica del sistema, C.<br />

Questa può essere a sua volta<br />

determinata sfruttando l’effetto<br />

termico di una reazione di cui<br />

sia nota la variazione entalpica<br />

(o di energia interna) associata<br />

oppure con una taratura<br />

elettrica: in questo caso si<br />

fornisce per effetto Joule una<br />

quantità di calore nota al sistema<br />

()<br />

()<br />

2<br />

t 2<br />

t⎡⎣V t ⎤⎦<br />

∫ ⎡⎣ ⎤⎦<br />

∫ (7.11)<br />

0<br />

0<br />

Q = i t Rdt =<br />

R<br />

dt<br />

dove it () è la corrente istantanea che circola attraverso la resistenza di taratura avente<br />

valore R e V() t è la caduta di tensione, anch’essa istantanea, misurata ai suoi capi. Gli<br />

integrali che compaiono nell’equazione (7.11) si semplificano notevolmente se<br />

l’alimentatore della resistenza di taratura è in grado di erogare una corrente i<br />

rigorosamente costante. In questo caso si ha:<br />

2<br />

2 V<br />

Q= i Rt = t<br />

(7.12)<br />

R<br />

L’ostacolo principale nella realizzazione di un calorimetro adiabatico sta nella difficoltà di<br />

costruire una parete che sia effettivamente adiabatica e quindi renda nulli gli scambi<br />

termici con l’ambiente esterno. Per realizzare una parete adiabatica si usano materiali di<br />

bassa conducibilità termica ed in genere si costruisce una doppia parete all’interno della<br />

quale viene fatto il vuoto per minimizzare gli scambi di calore per convezione. Un artificio<br />

per realizzare una migliore condizione di adiabaticità è quello di circondare la cella di<br />

misura con uno schermo attivo la cui temperatura viene continuamente aggiustata in<br />

modo da rimanere sempre uguale alla temperatura nella cella di reazione. Differenze


anche minime di temperatura fra la cella e lo schermo vengono rilevate da sistemi di<br />

termocoppie e compensate elettronicamente mediante resistenze scaldanti o pile Peltier.<br />

Queste ultime sfruttano l’effetto Peltier che è in un certo senso il contrario dell’effetto<br />

Seebeck: collegando un doppio giunto bimetallico (ad esempio rame-costantana-rame) ad<br />

un generatore di corrente si determina il riscaldamento di una delle giunzioni ed il<br />

contemporaneo raffreddamento dell’altra. Invertendo la polarità della corrente applicata si<br />

osserva il riscaldamento del giunto che prima si raffreddava e viceversa. Il ricorso alle pile<br />

Peltier nei dispositivi di termostatazione è in genere limitato ad apparati calorimetrici (e<br />

non solo calorimetrici) di notevole accuratezza e di ridotte dimensioni (ad esempio in<br />

apparati microcalorimetrici) a causa del notevole costo delle stesse.<br />

Uno schema d’insieme di un calorimetro adiabatico specificamente rivolto allo studio dei<br />

processi in soluzione è mostrato in Figura 39.<br />

A<br />

E<br />

B<br />

C<br />

Figura 39. Schema d’insieme di un calorimetro adiabatico.<br />

64<br />

L’aggiunta di uno dei<br />

reattivi (o di entrambi) può<br />

avvenire mediante rottura o<br />

apertura comandata di fiale<br />

precedentemente riempite e<br />

pesate accuratamente, o<br />

mediante erogazione di<br />

volumi noti mediante<br />

siringhe comandate da un<br />

dispenser. È fondamentale<br />

che i reattivi si trovino in<br />

equilibrio termico con il<br />

sistema prima del mesco-<br />

lamento, altrimenti il salto<br />

di temperatura Δ T risente<br />

di un effetto spurio. Di norma si fa in modo che le fiale siano già completamente immerse<br />

nel solvente prima della rottura (o dell’apertura) e, nel caso di erogazione mediante<br />

siringa, si fa in modo che il reagente percorra un lungo tratto in una cannula (o in una<br />

serpentina) posta in contatto termico con la cella, ma esterna ad essa, e avente la funzione<br />

di scambiatore di calore.<br />

D<br />

A. Schermo attivo.<br />

B. Vaso Dewar.<br />

C. Agitatore.<br />

D. Resistenza per la<br />

taratura elettrica.<br />

E. Sonda termometrica.


Calorimetri isoperibolici<br />

Questi calorimetri hanno una struttura sostanzialmente simile a quella dei calorimetri<br />

adiabatici, ma in questo caso non c’è un vincolo rigido tra la temperatura della cella e<br />

quella dell’ambiente circostante costituito dal termostato (come invece c’è nei calorimetri<br />

adiabatici in cui la temperatura dello schermo attivo “insegue” quella della cella) e anche<br />

la coibentazione della cella stessa è molto approssimativa. Questo rende la loro<br />

costruzione molto più semplice rispetto a quella di un calorimetro adiabatico. Il loro nome<br />

deriva dal fatto che cella e termostato si trovano nello stesso “peribolo” e ciò fa sì che si<br />

instauri tra di essi un regime di scambio termico “controllato”. La procedura utilizzata per<br />

la misura del calore è analoga a quella del calorimetro adiabatico. Poiché però in questo<br />

caso gli scambi tra la cella ed il termostato non possono essere trascurati, il ΔT non può<br />

essere ottenuto come semplice differenza tra il valore della temperatura prima e dopo<br />

l’effetto termico, ma deve essere calcolato da un’analisi dell’andamento osservato della<br />

temperatura nel tempo (curva calorimetrica). L’andamento della funzione T(t) che si<br />

registra in un’esperienza calorimetrica condotta con un calorimetro isoperibolico nei<br />

possibili casi di un processo esotermico e di un processo endotermico è riportata in Figura<br />

40. Come si osserva, sia prima che dopo il salto di temperatura dovuto all’effetto termico<br />

principale, la temperatura non rimane costante, ma cambia in relazione al calore scambiato<br />

tra la cella ed il termostato.<br />

Temperatura<br />

a b<br />

tempo<br />

Figura 40. Esempio di curva calorimetrica isoperibolica.<br />

a, caso esotermico; b, caso endotermico.<br />

65


Gli scambi termici tra un corpo che si trova ad una temperatura T ed una sorgente (in<br />

pratica un termostato avente capacità termica grande rispetto alla capacità termica C del<br />

corpo) posta a temperatura T C (temperatura di convergenza), sono regolati dalla “legge<br />

del raffreddamento o del riscaldamento di Newton”. Questa stabilisce che il calore<br />

scambiato nell’unità di tempo tra la sorgente e il corpo sia esprimibile come espansione in<br />

serie di potenze della differenza di temperatura esistente:<br />

( ) ( ) 2<br />

dQ<br />

=χ1 Tc − T +χ2 Tc − T + (7.13)<br />

dt<br />

Nella maggior parte dei casi, e comunque in tutte le applicazioni della calorimetria, si può<br />

troncare al primo ordine l’espansione che compare nella (7.13) ottenendo così:<br />

dQ<br />

=χ( Tc− T)<br />

(7.14)<br />

dt<br />

dove il parametro χ è detta costante di scambio termico del sistema. Poiché il calore<br />

infinitesimo scambiato dal corpo è esprimibile come prodotto della sua capacità termica<br />

per la variazione infinitesima di temperatura [ δ Q = CdT , eq. (7.9)] si ottiene, per<br />

sostituzione nella (7.14):<br />

e, infine:<br />

dT<br />

C =χ( Tc− T)<br />

(7.15)<br />

dt<br />

dT χ<br />

= ( Tc− T)<br />

(7.16)<br />

dt C<br />

L’equazione (7.16) può essere integrata con separazione delle variabili:<br />

dT χ<br />

= dt<br />

T −T<br />

C<br />

T t<br />

∫ ∫ (7.17)<br />

T0 C<br />

t0<br />

e assumendo χ C costante nell’intervallo di integrazione si ottiene infine:<br />

e infine, posto anche t = 0 :<br />

0<br />

ln C T −T χ<br />

=− −<br />

T −T<br />

C<br />

C<br />

0<br />

() ( )<br />

C C<br />

66<br />

( t t )<br />

0<br />

0<br />

χ<br />

− t<br />

C<br />

(7.18)<br />

T t = T − T − T e<br />

(7.19)<br />

L’equazione (7.19) prevede quindi che la temperatura del corpo tenda asintoticamente alla<br />

temperatura di convergenza T C con andamento esponenziale crescente o decrescente a<br />

seconda che la temperatura iniziale del corpo, T 0 , sia maggiore o minore di T C .


In figura 41 è riportato l’andamento della funzione T(t) vs. t di un corpo avente<br />

inizialmente temperatura T 0 a seguito dello scambio termico con un termostato di capacità<br />

T 0 > T C<br />

Temperatura<br />

T C<br />

T 0 < T C<br />

67<br />

termica infinita. Nel caso di un<br />

sistema calorimetrico il termine<br />

χ C rappresenta quindi la<br />

costante tempo per lo scambio<br />

termico tra la cella calorimetrica<br />

ed il termostato ed è tanto più<br />

piccola quanto più le pareti della<br />

cella sono rese adiabatiche. La<br />

temperatura della cella calorime-<br />

trica tende quindi, in un tempo<br />

t →∞, al valore T C che coincide<br />

con la temperatura del<br />

termostato a meno di piccole differenze al second’ordine dovute per esempio all’effetto di<br />

riscaldamento dell’agitazione. L’esponenziale che compare nella (7.19) può espanso in<br />

serie di Taylor:<br />

2 3<br />

2 3<br />

χ<br />

− t χ 1 C<br />

⎛ χ ⎞<br />

e ≅1 − t+ ⎜ ⎟<br />

C 2! ⎝C ⎠<br />

t<br />

1 ⎛ χ ⎞<br />

− ⎜ ⎟ t<br />

3! ⎝C ⎠<br />

+ (7.20)<br />

e se l’argomento dell’esponenziale ( χ C) t è piccolo, cioè per tempi brevi e per valori<br />

piccoli della costante di scambio, lo sviluppo in serie può essere troncato al primo termine<br />

ottenendo pertanto per T(t):<br />

e, infine:<br />

⎛ χ ⎞<br />

T() t = T −( T −T 0 ) 1 t<br />

C C ⎜ − ⎟<br />

⎝ C ⎠ (7.21)<br />

χ<br />

T() t = T +<br />

0 ( T − T<br />

C 0)<br />

t<br />

(7.22)<br />

C<br />

si può quindi assumere che per brevi intervalli di tempo la temperatura vari linearmente<br />

purché la costante di scambio termico del sistema sia sufficientemente piccola. Questa<br />

caratteristica risulterà particolarmente utile nella procedura di deconvoluzione delle curve<br />

calorimetriche.<br />

tempo<br />

Figura 41. Legge di Newton


Dall’equazione (7.14) risulta chiaramente che il calore acquistato o ceduto dal sistema per<br />

effetto dello scambio termico con il termostato in un certo intervallo di tempo è<br />

rappresentato dall’area compresa tra la retta<br />

costante di scambio χ:<br />

T 0 > T C<br />

Temperatura<br />

T C<br />

tempo<br />

68<br />

T = T e la curva T(t) moltiplicata per la<br />

C<br />

t t<br />

∫ ∫ ( C )<br />

(7.23)<br />

Q= δ Q=χ T −T<br />

dt<br />

t t<br />

0 0<br />

Il significato dell’equazione<br />

(7.23) è illustrato in Figura 42.<br />

È possibile a questo punto<br />

affrontare il problema della<br />

deconvoluzione di una curva<br />

calorimetrica nel caso in cui si<br />

impieghi un calorimetro<br />

isoperibolico, quando cioè<br />

all’effetto termico principale si<br />

sommano gli effetti degli<br />

scambi termici tra la cella<br />

calorimetrica ed il termostato.<br />

Si tratta in pratica di ricavare il<br />

salto termico Δ T corretto per gli effetti della non-adiabaticità del calorimetro. Vi sono in<br />

pratica due procedure possibili.<br />

a. Valutazione del salto termico nel punto di flesso. È la procedura più semplice e meno<br />

accurata. Come si è visto, quando la temperatura del sistema è governata dagli scambi<br />

termici, la curva T(t) per tempi brevi è approssimabile ad una retta. Pertanto, mediante<br />

opportune procedure di fitting, o per via grafica. si possono individuare due rette che<br />

descrivono l’andamento della temperatura rispettivamente prima e dopo l’effetto termico<br />

principale. Il salto termico Δ T è pertanto determinabile prolungando le due rette di<br />

regressione nella regione del salto di temperatura e misurando la distanza tra di esse in<br />

corrispondenza del punto di flesso della curva. Posto che le due rette di regressione<br />

abbiano rispettivamente equazione:<br />

t 0<br />

t


Temperatura<br />

ΔT<br />

tempo<br />

Figura 43. Individuazione approssimata del salto termico<br />

in una curva calorimetrica isoperibolica.<br />

69<br />

( m ed<br />

i<br />

()<br />

()<br />

⎧ ⎪T<br />

t = mt i i + qi<br />

⎨<br />

⎪⎩<br />

T t = m t + q<br />

f<br />

m e q e<br />

f i<br />

f f<br />

(7.24)<br />

q rispettivamente<br />

f<br />

pendenze e intercette dei tratti<br />

iniziale e finale della curva<br />

calorimetrica) il salto di temperatura<br />

risulta:<br />

( f i) ( f i)<br />

T q q m m t ∗<br />

Δ = − + − (7.25)<br />

dove t ∗ è l’ascissa del punto di<br />

flesso. Questa procedura è illustrata<br />

in Figura 43.<br />

b. Deconvoluzione completa della curva calorimetrica. In questo caso si riporta la curva<br />

isoperibolica alle condizioni adiabatiche. In pratica la curva sperimentale T(t) viene<br />

corretta per la quota di temperatura δ T() t che viene “persa” o “acquistata” per effetto<br />

degli scambi termici. Si ottiene pertanto una curva calorimetrica corretta:<br />

() () ()<br />

∗<br />

T t = T t −δ T t<br />

(7.26)<br />

dove il termine correttivo δ T() t può essere ottenuto ponendo δ Q = CdT nell’equazione<br />

(7.23) ed integrando per via numerica:<br />

t t χ<br />

δ T() t = ∫ dT = ∫ ( T −T<br />

C ) dt<br />

C<br />

t t<br />

0 0<br />

(7.27)<br />

Il problema diventa quindi ottenere i valori della temperatura di convergenza T C e della<br />

costante χ C . Poiché la temperatura del sistema deve tendere al valore T C sia prima che<br />

dopo il salto termico, si può ipotizzare che le due rette di regressione che descrivono i<br />

tratti iniziale e finale della curva si intersechino ad una temperatura uguale a T C . Si<br />

possono pertanto ottenere i valori di T C e χ C risolvendo il sistema:<br />

⎧ ⎛dT ⎞ χ<br />

⎪ m = ⎜ ⎟ = T −T<br />

⎪ ⎝ dt ⎠ C<br />

i<br />

⎨<br />

⎪ ⎛dT ⎞ χ<br />

m = = T −T<br />

⎪ ⎜ ⎟<br />

dt C<br />

⎩<br />

⎝ ⎠ f<br />

( )<br />

i C i<br />

t<br />

( )<br />

f C f<br />

t<br />

(7.28)


dove<br />

m ed m sono le pendenze dei tratti iniziale e finale della curva calorimetrica<br />

i<br />

f<br />

ottenute per regressione lineare e T e T sono due punti scelti arbitrariamente prima e<br />

i f<br />

dopo il salto. Risolvendo il sistema (7.28) si ottiene:<br />

⎧ χ m − m<br />

i f<br />

⎪ =<br />

⎪ C T −T<br />

f i<br />

⎨<br />

⎪ mT − m T<br />

T =<br />

⎩<br />

i f f i<br />

⎪ C m − m<br />

i f<br />

70<br />

(7.29)<br />

Sostituendo le espressioni trovate nella (7.27) ed integrando per via numerica si ottiene<br />

pertanto il termine correttivo δ T() t :<br />

m −m t⎡mT −m T ⎤ m −m ⎡ tmT − m T t ⎤<br />

i f i f f i i f i f f i<br />

δ T () t = ⎢ − () ⎥ = ⎢ − () ⎥=<br />

− ∫ T t dt<br />

⎢ − ⎥ − ∫ dt<br />

⎢ − ∫ T t dt<br />

T T t t t<br />

i m m T T i m m<br />

i<br />

i f ⎣ i f ⎦ i f ⎣ i f<br />

⎥⎦<br />

mT −mTm−mt i f f i i f<br />

= ( t−t ) −<br />

()<br />

i<br />

− − ∫ T t dt<br />

T T T T t<br />

i f i f<br />

e sostituendo infine nella (7.26):<br />

i<br />

mT −mTm−m t<br />

∗<br />

i f f i i f<br />

T () t = T() t − ( t− t ) +<br />

()<br />

i − − ∫ T t dt<br />

T T T T t<br />

i<br />

i f i f<br />

(7.30)<br />

(7.31)<br />

Il salto termico corretto T ∗<br />

Δ potrà pertanto essere calcolato rispetto a due punti<br />

arbitrariamente presi, purché questi non si trovino nella regione del salto:<br />

−<br />

∗<br />

Δ = − − ( −<br />

−<br />

− ) +<br />

− ∫ ()<br />

f<br />

mT m T<br />

i f f i<br />

T T T t<br />

f i f T T<br />

m m<br />

i f<br />

t<br />

i T T<br />

t<br />

T t dt<br />

t<br />

i f i f<br />

dove t e t rappresentano le ascisse dei punti T e<br />

i f<br />

i<br />

i<br />

(7.32)<br />

T che come già ricordato sono scelti<br />

f<br />

arbitrariamente sulla curva calorimetrica. Un esempio grafico che illustra la<br />

deconvoluzione completa di una curva calorimetrica è mostrato in Figura 43.<br />

Il secondo ed il terzo termine della (7.32) corrispondono alla differenza tra le aree<br />

ombreggiate in Figura 44 (la funzione integranda cambia segno quando la curva interseca<br />

la retta T = TC)<br />

che vengono generalmente calcolate per integrazione numerica. Il terzo<br />

termine della (7.32) è tanto più piccolo quanto minore è la differenza fra le pendenze delle<br />

due rette.


Temperatura<br />

T f<br />

T C<br />

T i<br />

t i<br />

tempo<br />

71<br />

t f<br />

1 2<br />

∫<br />

tf<br />

ti<br />

( )<br />

A − A = T −T<br />

dt<br />

Una volta effettuata la deconvoluzione della curva il calore sviluppato o assorbito nel<br />

processo studiato sarà calcolabile con la consueta espressione:<br />

⎡ − −<br />

⎤<br />

∗<br />

processo =− Δ =− ⎢ − − ( − ) +<br />

() ⎥<br />

⎢ − − ∫<br />

⎣ ⎥⎦<br />

f<br />

mT t<br />

i f mfTi mi mf<br />

Q C T C Tf Ti tf ti T t dt (7.33)<br />

T t<br />

i Tf Ti Tf<br />

i<br />

Dove la capacità termica del sistema, C, viene determinata mediante apposita esperienza<br />

di taratura secondo una delle modalità già descritte nel paragrafo sui calorimetri<br />

adiabatici.<br />

Calorimetri isotermi<br />

In un calorimetro isotermo si fa in modo di compensare il calore svolto o assorbito durante<br />

il processo in esame con una quantità di energia uguale, ma di segno opposto. Per<br />

realizzare un dispositivo di questo genere si deve ricorrere ad un’elettronica piuttosto<br />

sofisticata. Quando il sistema, che inizialmente deve essere in equilibrio termico con il<br />

termostato, torna esattamente alla temperatura iniziale, significa che dall’esterno si è<br />

fornito o sottratto una quantità di energia equivalente a quella liberata nel processo, cioè:<br />

Qprocesso =− Qfornita/sottratta<br />

(7.34)<br />

Generalmente l’energia viene fornita al sistema mediante dissipazione per effetto Joule,<br />

anche se si può anche sfruttare la dissipazione di un sistema di termopile Peltier. Questo<br />

C


secondo metodo, che pure avrebbe il vantaggio di poter essere utilizzato sia per<br />

compensare effetti endotermici che esotermici, è in genere meno impiegato per il costo più<br />

elevato. Di norma, infatti, si preferisce collocare la cella calorimetrica in un termostato<br />

posto ad una temperatura più bassa e compensare gli scambi termici alimentando uno<br />

schermo attivo con una potenza di riscaldamento adeguata in modo che la temperatura<br />

stessa della cella si mantenga costante. Considerando che gli scambi termici tra la cella ed<br />

il termostato sono regolati dall’equazione di Newton si ha:<br />

dQdiss.<br />

=χ[ Ttermostato − Tcella]<br />

(7.35)<br />

dt<br />

Pertanto, quando nella cella non avviene nessun processo, la potenza W0 da applicare per<br />

mantenere costante la temperatura della cella, Tcella <br />

, sarà pure costante:<br />

⎛dQdiss. ⎞<br />

W0<br />

=− ⎜ ⎟=<br />

costante<br />

(7.36)<br />

⎝ dt ⎠<br />

Al contrario, in presenza di un calore svolto/assorbito in un processo chimico in corso, la<br />

potenza applicata W() t dovrà variare nel tempo per compensarne gli effetti. In ogni caso,<br />

posto che dopo un tempo t = t la temperatura della cella sia tornata al suo valore iniziale<br />

(cioè al valore che aveva prima dell’effetto termico principale), Il calore sviluppato o<br />

W(t)<br />

W 0<br />

t 0<br />

tempo<br />

Figura 45. Esempio di curva calorimetrica isoterma.<br />

t<br />

72<br />

assorbito nel processo sarà<br />

semplicemente dato dalla<br />

relazione:<br />

()<br />

t<br />

processo = −<br />

t<br />

0<br />

0<br />

Q ∫ ⎡⎣ W t W ⎤⎦<br />

dt (7.37)<br />

Cioè il calore sviluppato o<br />

assorbito durante il processo<br />

corrisponde all’area sottesa alla<br />

curva W() t − W . Un esempio di<br />

0<br />

integrazione di una curva<br />

calorimetrica isoterma è mostrato<br />

in Figura 45.


Bomba di Mahler<br />

Esistono dispositivi sperimentali in cui il calore sviluppato o assorbito durante un<br />

processo fluisce interamente dalla cella ad un altro comparto in cui la cella stessa è<br />

alloggiata. Sebbene tutti gli strumenti in cui ciò avviene possano essere classificati (almeno<br />

in linea di principio) come calorimetri a flusso di calore, questa denominazione è in genere<br />

riservata a quei dispositivi in cui si registra effettivamente il flusso di energia in entrata o<br />

in uscita dalla cella. Questa tipologia di calorimetri sarà trattata in seguito. Nella<br />

strumentazione più classica il comparto verso il quale il calore fluisce è di solito costituito<br />

da un recipiente contenente un liquido di elevata capacità termica che è detto liquido<br />

calorimetrico (bagno calorimetrico). La capacità termica del bagno calorimetrico è molto<br />

maggiore di quella della cella, in modo che l’effetto termico che si va a studiare non<br />

produca che una variazione di poche frazioni di grado o al massimo di 1 ÷ 2 gradi nella<br />

temperatura del bagno. La ragione per cui si ricorre a dispositivi di questo tipo è duplice:<br />

a. Può risultare complicato avere dei dispositivi di misura della temperatura che siano<br />

contemporaneamente molto sensibili e perfettamente lineari su un intervallo di<br />

temperatura ampio;<br />

b. Poiché qualunque processo reattivo è sempre definito in condizioni isoterme si deve<br />

far sì che la variazione di temperatura sia la più contenuta possibile, compatibilmente<br />

con la necessità di ottenere un salto termico misurabile con precisione.<br />

In pratica si può assumere che il processo reattivo che si va a studiare possa essere<br />

scomposto in due stadi. Nel primo stadio si assume che la cella di misura sia<br />

perfettamente adiabatica in modo da non scambiare calore con il bagno calorimetrico,<br />

mentre nel secondo stadio si immagina che le pareti della cella divengano completamente<br />

73<br />

diatermiche così che il calore<br />

accumulato fluisca completamente<br />

verso il bagno calorimetrico. Una<br />

rappresentazione complessiva del<br />

processo termodinamico è mostrata<br />

nello schema riportato a fianco.<br />

In questo modo, mentre nello<br />

stadio adiabatico (stadio 1) la


temperatura della cella passa dal valore iniziale T ad un valore massimo T che può<br />

i<br />

max<br />

differire anche di diverse decine di gradi, nel successivo stadio 2 la temperatura torna ad<br />

un valore finale T che differisce da<br />

f<br />

poco più.<br />

T di un Δ T dell’ordine di qualche decimo di grado o<br />

i<br />

Per la nota proprietà dei cicli termodinamici si avrà, per processi che avvengono a V<br />

costante:<br />

oppure a P costante:<br />

Si osservi che sia<br />

Δ U che<br />

reaz<br />

Δ U = Q + Q =−CΔT reaz 1 2<br />

Δ H = Q + Q =−CΔT reaz 1 2<br />

Δ H così ottenuti sono quantità estensive.<br />

reaz<br />

Il tipo di dispositivo sopra descritto è ad esempio adottato nella cosiddetta “Bomba di<br />

Mahler”, calorimetro a volume costante impiegato per la determinazione dei calori di<br />

combustione e, più in generale, per lo studio di processi in cui almeno uno dei reagenti è<br />

un gas. La bomba propriamente detta costituisce la cella calorimetrica ed è alloggiata in un<br />

recipiente contenente il liquido calorimetrico (generalmente acqua) e in cui sono posti un<br />

agitatore che assicura un più rapido raggiungimento dell’equilibrio termico tra la cella ed<br />

A, sonda<br />

termometrica<br />

Liquido<br />

calorimetrico<br />

Al dispositivo di<br />

innesco<br />

C, Cella<br />

calorimetrica<br />

Figura 46. Schema d’insieme di un calorimetro a “Bomba di Mahler.<br />

74<br />

D, agitatore<br />

B, termostato


il bagno calorimetrico e la sonda di temperatura. L’insieme costituito da cella e bagno<br />

calorimetrico può a sua volta essere alloggiato in un sistema calorimetrico adiabatico o<br />

isoperibolico. Un sistema calorimetrico isoperibolico equipaggiato con bomba di Mahler è<br />

rappresentato in Figura 46.<br />

La bomba di Mahler è costituita da un cilindro di acciaio a pareti spesse munito di<br />

coperchio a vite a tenuta, adatto a sopportare pressioni elevate avente un volume<br />

complessivo di circa 400 ml. Sul coperchio sono poste due valvole impiegate<br />

rispettivamente per l’immissione di gas e per lo sfiato, nonché i contatti elettrici che<br />

vengono impiegati per il dispositivo di innesco. All’interno della bomba è posto un<br />

crogiolo di quarzo nel quale viene collocato il campione solido o liquido. Nei processi di<br />

combustione l’innesco avviene mediante un filo fusibile (generalmente di Ferro o di<br />

Costantana) che brucia completamente, in atmosfera satura di ossigeno, quando è<br />

attraversato da una corrente elettrica opportuna. In alternativa può essere impiegato un<br />

filo di Platino che fonde senza bruciare. I campioni solidi sono introdotti sotto forma di<br />

Crogiolo di<br />

quarzo<br />

Al dispositivo di<br />

innesco<br />

Valvola<br />

immissione O2<br />

Morsetti per<br />

l’innesco<br />

Campione<br />

Figura 47. Schema di dettaglio della Bomba di Mahler.<br />

75<br />

pasticca ottenuta mediante<br />

pressatura della polvere. In<br />

questo caso si fa in modo che<br />

un tratto del filo fusibile<br />

impiegato per l’innesco venga<br />

inglobato nella pasticca stessa<br />

all’atto della pressatura. I due<br />

estremi del filo d’innesco sono<br />

collegati a due morsetti<br />

presenti all’interno della bomba<br />

e che sono elettricamente<br />

collegati a due boccole presenti<br />

sul coperchio della bomba<br />

stessa. Nel caso di campioni<br />

liquidi, questi sono posti nel<br />

crogiolo di quarzo in quantità<br />

pesata e si fa in modo che<br />

un’ansa del filo di innesco


isulti immersa nel liquido. Uno schema dettagliato della bomba di Mahler è mostrato in<br />

Figura 47.<br />

Nei calorimetri a bomba di Mahler la determinazione della costante del calorimetro C si<br />

effettua sempre sfruttando l’effetto termico di un processo standard di cui è nota con<br />

precisione la variazione di entalpia associata. Nel caso dei processi di combustione si usa<br />

in genere come sostanza di riferimento l’acido benzoico ( CHCOOH) 6 5 di cui si conosce con<br />

esattezza il relativo combH Δ<br />

<br />

.<br />

DETERMINAZIONE <strong>DEL</strong> CALORE <strong>DI</strong> COMBUSTIONE <strong>DI</strong> UNA SOSTANZA SOLIDA ME<strong>DI</strong>ANTE BOMBA<br />

<strong>DI</strong> MAHLER<br />

Il processo standard di combustione di una sostanza solida di stechiometria CH n mO p ad<br />

una generica temperatura T vicina alla temperatura ambiente è definito come segue:<br />

m p P= 1Bar<br />

m<br />

CH n mOp ( ) +<br />

⎛ ⎞<br />

n O2 ( )<br />

nCO2<br />

( ) HO<br />

s ⎜ + − ⎟ ⎯⎯⎯→ g +<br />

T<br />

g 2 ()<br />

(7.38)<br />

l<br />

⎝ 4 2⎠ 2<br />

cioè il processo standard prevede che ossigeno e anidride carbonica siano presenti allo<br />

stato gassoso, mentre l’acqua è in fase liquida. Poiché la bomba di Mahler è un recipiente a<br />

volume costante si avrà:<br />

( )<br />

Q =Δ U P, T ⋅ mol<br />

(7.39)<br />

processo comb campione<br />

dove P e T sono rispettivamente la pressione e la temperatura dell’esperienza e dove si è<br />

tenuto conto che combU Δ è una quantità molare. Se si vuole determinare la variazione di<br />

entalpia standard combH Δ<br />

<br />

alla temperatura T [processo (7.38)] si dovrà pertanto:<br />

i) Trasformare la variazione di energia interna U( P, T)<br />

comb<br />

( , )<br />

Δ H P T ;<br />

76<br />

Δ in variazione entalpica<br />

ii) Riportare la variazione di entalpia a P e T alla temperatura richiesta T e alla<br />

pressione unitaria (condizione standard).<br />

La prima trasformazione è ottenibile facilmente ricordando che è:<br />

Δ H =Δ U +Δ ( PV)<br />

(7.40)<br />

Come è noto il termine Δ ( PV ) assume una qualche importanza per le sole specie allo stato<br />

gassoso per le quali si può inoltre assumere, in prima approssimazione, comportamento<br />

ideale. Ne consegue che per quanto riguarda un processo di combustione si ha:<br />

comb


( ) ( )<br />

Δ PV ≅Δν RT<br />

(7.41)<br />

comb g<br />

dove Δν ( g)<br />

rappresenta la variazione del numero di moli di specie gassose prevista nella<br />

stechiometria del processo di combustione. Ad esempio per quanto riguarda la<br />

combustione dell’acido benzoico la reazione è la seguente:<br />

e si ha pertanto ( g )<br />

15<br />

P= 1Bar<br />

CHO 7 6 2 ( ) + O2 ( ) ⎯⎯⎯→ 7CO2 ( ) 3HO<br />

s g +<br />

T<br />

g 2 ( l)<br />

(7.42)<br />

2<br />

15<br />

Δν = 7− = − 0.5.<br />

2<br />

L’entalpia di combustione si ottiene allora facilmente:<br />

( , ) ( , ) ( g)<br />

Δ H P T =Δ U P T +Δν RT<br />

(7.43)<br />

comb comb<br />

La variazione entalpica così ottenuta deve poi essere riportata alla temperatura T e alla<br />

pressione unitaria. Per quanto riguarda la temperatura è sufficiente applicare la legge di<br />

Kirchoff:<br />

dove:<br />

<br />

T<br />

<br />

comb ( ) comb ( ) ∫ comb<br />

T<br />

Δ H T =Δ H T + Δ C dT<br />

comb P i Pi<br />

i<br />

77<br />

P<br />

(7.44)<br />

Δ C = ∑ νC<br />

(7.45)<br />

I valori dei vari C Pi<br />

si trovano facilmente in letteratura. Per piccoli intervalli di<br />

temperatura si può ovviamente assumere Δ combCP indipendente da T, nel qual caso la<br />

(7.44) si riduce a:<br />

<br />

( ) ( ) P ( )<br />

Δ H T =Δ H T +Δ C T −T<br />

comb comb comb<br />

(7.46)<br />

Per riportare la variazione di entalpia a pressione unitaria occorre invece far ricorso<br />

all’equazione termodinamica di stato:<br />

Considerando che la derivata<br />

⎛∂H ⎞ ⎛∂V ⎞<br />

⎜ ⎟ = V −T⎜<br />

⎟<br />

⎝ ∂P ⎠ ⎝∂T ⎠ (7.47)<br />

⎛∂H⎞ ⎜ ⎟<br />

⎝ ∂P<br />

⎠<br />

T<br />

T P<br />

è trascurabile per le specie in fase condensata<br />

rispetto a quelle in fase gassosa si può tener conto solo di queste ultime. In questo caso,<br />

però, ove non si conosca sperimentalmente il valore di<br />

⎛∂V⎞ ⎜ ⎟<br />

⎝∂T⎠ P<br />

occorre far ricorso ad<br />

un’equazione di stato valida per i gas reali. Assumendo valida l’equazione di stato dei gas


RT ⎛∂V ⎞ ∂ ⎧RT⎫ R<br />

ideali si avrebbe infatti V = e ⎜ ⎟ = ⎨ ⎬=<br />

e pertanto:<br />

P ⎝∂T ⎠ ∂T<br />

⎩ P ⎭ P<br />

P<br />

⎛∂H ⎞ RT R<br />

⎜ ⎟ = − T = 0<br />

⎝ ∂P<br />

⎠ P P<br />

T<br />

78<br />

(7.48)<br />

Se si assume ad esempio che il comportamento di ossigeno e anidride carbonica sia<br />

adeguatamente descritto da una semplice equazione di stato del tipo:<br />

PV ( − b) = RT<br />

(7.49)<br />

RT ⎛∂V ⎞ R<br />

con b covolume della specie gassosa, si ricava facilmente V = + b e ⎜ ⎟ = da cui si<br />

P ⎝∂T ⎠ P<br />

ha:<br />

⎛∂H⎞ ⎜ ⎟ = b<br />

⎝ ∂P<br />

⎠<br />

Applicando la (7.50) a tutte le specie gassose che prendono parte al processo si ha allora:<br />

dove:<br />

T<br />

⎛∂ΔH ⎞<br />

⎜ ⎟ =Δb<br />

⎝ ∂P<br />

⎠<br />

T<br />

P<br />

(7.50)<br />

(7.51)<br />

specie<br />

gassose<br />

∑<br />

i<br />

i i<br />

(7.52)<br />

Δ b= νb<br />

L’equazione (7.51) può essere facilmente integrata assumendo Δ b indipendente da P e<br />

ottenendo finalmente:<br />

1<br />

<br />

comb comb ∫<br />

comb<br />

P<br />

<br />

( ) ( , ) ( , ) ( 1 )<br />

Δ H T =Δ H T P + Δ bdP=Δ H T P +Δb −P<br />

L’esperienza calorimetrica risulterà allora suddivisa in due parti:<br />

(7.53)<br />

1. Determinazione della costante C del calorimetro mediante combustione di una<br />

sostanza standard;<br />

2. Determinazione del calore di combustione incognito della sostanza in esame.<br />

Da un punto di vista sperimentale le due procedure sono sostanzialmente identiche. Nella<br />

prima parte, nota l’entalpia standard di combustione dell’acido benzoico a 25 °C (298.15 K)<br />

si applicheranno a ritroso le equazioni (7.53), (7.46) e (7.43) e si calcolerà dalla (7.39), nota<br />

la quantità di acido benzoico impiegato, il calore effettivamente sviluppato nel processo.<br />

Dalla misura sperimentale del relativo Δ T si potrà pertanto calcolare C.<br />

Nella seconda parte, invece, si otterrà il calore sviluppato nella combustione del campione


in esame dal valore misurato di Δ T e da quello noto della costante C. Applicando le<br />

equazioni (7.39), (7.43), (7.46) e (7.53) si otterrà quindi l’entalpia standard di combustione<br />

alla temperatura desiderata della sostanza in esame. La correzione per la pressione<br />

[equazione (7.53)] è in genere molto piccola e può essere ignorata, almeno in prima<br />

approssimazione.<br />

In entrambe le esperienze si dovrà invece tener conto esplicitamente del contributo della<br />

combustione del filo di innesco al calore sviluppato. Generalmente il calore di<br />

combustione del filo è noto in J cm -1, pertanto sarà necessario misurare l’effettiva<br />

lunghezza di filo combusto in ciascuna esperienza.<br />

Un elenco dettagliato delle operazioni che devono essere effettuate nella determinazione<br />

dell’entalpia standard di combustione di un campione solido mediante bomba di Mahler è<br />

riportato sotto.<br />

a. Si procede innanzitutto prelevando una massa (o un volume) d’acqua esattamente noto<br />

con cui si riempie il bagno calorimetrico;<br />

b. Si predispone quindi uno spezzone di lunghezza nota del filo di innesco<br />

(approssimativamente 20 cm) che viene anche accuratamente pesato;<br />

c. Con una quantità approssimativamente pesata di sostanza standard ridotta in polvere<br />

(acido benzoico) si procede quindi alla preparazione della pasticca mediante pressatura<br />

avendo cura di inglobare nella pasticca stessa un’ansa del filo di innesco;<br />

d. Si pesa accuratamente la pasticca in modo da conoscere, sottratto il peso del filo, la<br />

quantità esatta di sostanza che si sottopone a combustione;<br />

e. Si pone il campione nella bomba di Mahler collegando le estremità del filo di innesco<br />

agli appositi morsetti e si chiude la bomba;<br />

f. Si immette ossigeno nella bomba fino ad una pressione di circa 20 Bar attraverso<br />

l’apposita valvola dopo aver preliminarmente scacciato l’azoto presente lasciando<br />

sfiatare per alcuni secondi;<br />

g. Si colloca la bomba nel bagno calorimetrico e, a sua volta, si pone questo nel<br />

calorimetro connettendo i contatti elettrici con il dispositivo di innesco; si inseriscono la<br />

sonda di temperatura e si accende l’agitazione;<br />

h. Quando il sistema ha raggiunto l’equilibrio termico si misura la temperatura iniziale a<br />

cui si effettua l’esperienza;<br />

79


i. Si inizia la registrazione della curva calorimetrica e, dopo aver acquisito un tratto<br />

sufficientemente lungo di linea di base, si accende il dispositivo di innesco provocando<br />

l’ignizione del campione; si continua a registrare la curva calorimetrica fintantoché<br />

questa non riprende un andamento lineare;<br />

j. Si rimuove la bomba dal bagno calorimetrico e si apre per verificare se la combustione<br />

è stata completa e per misurare la lunghezza del filo di innesco rimasto incombusto;<br />

k. Si procede alla deconvoluzione della curva calorimetrica per determinare il salto<br />

termico Δ T ;<br />

l. Si effettuano i calcoli secondo le modalità sopra riportate e si determina la costante C.<br />

m. Si svuota il bagno calorimetrico e lo si riempie nuovamente con la stessa quantità<br />

d’acqua usata per la taratura (variazioni nella massa d’acqua quali si verificano quando<br />

si estrae la bomba dal bagno potrebbero far variare la costante C in modo sensibile);<br />

n. Si ripetono le operazioni di cui ai precedenti punti b, c, … k utilizzando il campione<br />

anziché l’acido benzoico per la preparazione della pasticca. Qualora si conosca, anche<br />

in modo approssimativo, il calore di combustione del campione in esame si cercherà di<br />

impiegare, per la preparazione della pasticca, una quantità di sostanza tale da produrre<br />

all’incirca lo stesso effetto termico registrato nella taratura in modo da minimizzare<br />

effetti di deviazione dalla linearità del sistema di misura/acquisizione della<br />

temperatura;<br />

o. Si effettuano i calcoli secondo le modalità sopra descritte e si ottiene infine il valore di<br />

Δ<br />

comb<br />

<br />

( )<br />

<br />

H T<br />

.<br />

Il valore così ottenuto potrà essere confrontato con i dati di letteratura.<br />

Calorimetri a flusso di calore<br />

Come già osservato in un calorimetro a flusso di calore il calore sviluppato all’interno<br />

della cella di misura fluisce liberamente verso il bagno calorimetrico attraverso le pareti<br />

della cella che debbono essere perciò fortemente conduttrici. Vi sono tipologie di<br />

calorimetri a flusso di calore in cui il bagno calorimetrico è costituito da un blocco<br />

termostatico, generalmente un blocco metallico, che viene mantenuto in condizioni<br />

isoterme. In questo caso il calorimetro si comporta come un calorimetro isotermo e si<br />

misura il fenomeno del rilassamento della temperatura, cioè il modo in cui la temperatura<br />

della cella ritorna alla temperatura del blocco termostatico in cui la cella è inserita.<br />

80


La cella di misura, racchiusa in genere da pareti metalliche, viene inserita infatti in una<br />

cavità del blocco termostatico, che deve avere capacità termica elevata in modo da<br />

consentire una notevole stabilità della temperatura T . In questo genere di dispositivi<br />

C<br />

calorimetrici le pareti metalliche delle cella e del blocco sono connessi da una termopila<br />

costituita da una fitta rete di termocoppie consentendo un elevato flusso di calore. Questo<br />

dispositivo prende il nome di elemento flussimetrico. Il calore sviluppato/assorbito nel<br />

processo studiato fluisce attraverso l’elemento flussimetrico dalla cella al termostato o<br />

viceversa a seconda che il processo sia esotermico o endotermico. Una rappresentazione<br />

schematica di un calorimetro di questo tipo è mostrata in Figura 48.<br />

Distanziatori<br />

isolatori<br />

Motore<br />

dell’agitatore<br />

Termopile<br />

(elemento flussimetrico)<br />

81<br />

Quando all’interno della cella avviene<br />

una reazione esotermica la temperatura<br />

si innalza. Il calore viene trasmesso alle<br />

pareti della cella che si portano ad una<br />

temperatura iniziale<br />

T > T . I giunti<br />

i C<br />

delle termocoppie in contatto con la<br />

parete si trovano così ad una<br />

temperatura diversa rispetto a quelli in<br />

contatto con il blocco e si instaura ai due<br />

capi della termopila una differenza di<br />

potenziale Δ E proporzionale alla<br />

differenza di temperatura.<br />

Poiché l’elemento flussimetrico è un<br />

ottimo conduttore del calore, questo<br />

viene ceduto dalla cella al blocco<br />

secondo le note equazioni dello scambio<br />

termico di Newton (7.14) e (7.15). La<br />

temperatura rilassa quindi con legge del<br />

tipo (7.19).<br />

Il calore sviluppato nel processo si otterrà pertanto integrando la (7.15) che esprime il<br />

flusso di calore nel tempo:<br />

Blocco del<br />

termostato<br />

Cella di misura<br />

Figura 48. Rappresentazione schematica di un<br />

calorimetro a flusso di calore.<br />

Q t<br />

f<br />

∫ ∫ ( C )<br />

(7.54)<br />

Q= dQ= χ T −T<br />

dt<br />

0<br />

Al sistema di<br />

acquisizione<br />

t<br />

i


In realtà ciò che si registra in funzione del tempo è il segnale Δ E in uscita dalla termopila<br />

che è proporzionale alla differenza di temperatura:<br />

pertanto:<br />

82<br />

( )<br />

Δ E = kΔ T = k T − T<br />

(7.55)<br />

t χ<br />

Q= Δ Edt= kA<br />

k<br />

C<br />

f<br />

∫ ′<br />

(7.56)<br />

t<br />

i<br />

L’integrale A della curva Δ E() t vs. t, che si può valutare con metodi grafici o numerici, è<br />

dunque proporzionale al calore e permette di calcolare Q una volta nota la costante di<br />

proporzionalità χ k . Questa può essere ottenuta con differenti procedure che in genere<br />

dipendono dalle specifiche caratteristiche costruttive del calorimetro. La procedura più<br />

generale è quella di effettuare una taratura elettrica. Si utilizza a questo scopo una cella<br />

speciale di geometria identica a quella di misura, ma costituita da un blocco metallico in<br />

cui è inserita una resistenza elettrica di valore noto R. Attraverso questa resistenza si fa<br />

passare una corrente di intensità i anch’essa nota per un tempo t esattamente misurato e si<br />

registra il segnale in uscita dalla<br />

termopila. Si avrà pertanto:<br />

= ′ = (7.57)<br />

2<br />

Q kA i Rt<br />

tar tar<br />

da cui si ricava infine la costante<br />

di proporzionalità:<br />

2<br />

iRt<br />

k′<br />

= (7.58)<br />

A<br />

Un esempio di curva calorime-<br />

trica ottenibile mediante un<br />

calorimetro a flusso di calore del<br />

tipo illustrato è mostrata in<br />

Figura 49.<br />

tar<br />

Calorimetri a scansione<br />

ΔE(t)<br />

Un’ultima tipologia particolarmente importante di calorimetri è costituita dai cosiddetti<br />

calorimetri a scansione di temperatura che vengono impiegati principalmente per lo<br />

studio di processi chimico-fisici (transizioni di fase, transizioni vetrose, denaturazione di<br />

t i<br />

∫<br />

t<br />

f<br />

A = ΔEdt<br />

t<br />

i<br />

tempo<br />

t f


proteine, ecc.). In questo tipo di strumenti si registra l’assorbimento di energia da parte di<br />

un campione quando si varia la temperatura del campione stesso. Consideriamo<br />

innanzitutto l’effetto della scansione di temperatura, ottenuta mediante una resistenza<br />

elettrica, su una cella vuota. Se il calorimetro funziona in modo adiabatico, cioè se la cella<br />

non può scambiare calore con il termostato, per ottenere la scansione della temperatura è<br />

sufficiente applicare alla resistenza una differenza di potenziale costante, e quindi fornire<br />

alla cella una potenza di riscaldamento costante<br />

2<br />

E<br />

W<br />

0<br />

=<br />

R<br />

= costante<br />

(7.59)<br />

ma è anche:<br />

dQ dT<br />

W = = C<br />

0 dt dt<br />

pertanto dal confronto della (7.60) con la (7.59) si ricava:<br />

(7.60)<br />

dT<br />

=β= costante<br />

(7.61)<br />

dt<br />

Quindi fornendo una potenza di riscaldamento costante si induce, sulla cella vuota, un<br />

gradiente di temperatura β pure costante. Se invece la cella contiene un campione che<br />

subisce una transizione di fase nell’intervallo di temperatura esplorato (ad esempio la<br />

fusione del campione), per mantenere il gradiente di riscaldamento costante, sarà<br />

necessario fornire una potenza supplementare che compensi il calore assorbito dal<br />

campione per compiere la transizione, cioè:<br />

dQ<br />

tr<br />

W() t = W + (7.62)<br />

0 dt<br />

da cui si ricava, per integrazione con separazione delle variabili:<br />

Spesso si registra la quantità:<br />

t<br />

83<br />

()<br />

W :<br />

0<br />

f<br />

∫ ⎡<br />

⎣<br />

⎤<br />

⎦<br />

(7.63)<br />

t<br />

i<br />

Q = W t −W<br />

dt<br />

tr 0<br />

W() t W<br />

0 1 dQ<br />

tr 1 dQ<br />

tr<br />

= = + = +<br />

P,scan<br />

0<br />

C C<br />

β β β dt β dt<br />

(7.64)<br />

cioè la capacità termica del sistema nel range di temperatura in cui viene effettuata la<br />

scansione.<br />

C rappresenta ovviamente la capacità termica della cella vuota.<br />

0<br />

In genere, la condizione di adiabaticità per quanto riguarda gli scambi tra cella e<br />

termostato è ottenuta mediante il ricorso ad uno schermo attivo che “insegue” la


temperatura della cella durante la scansione in modo annullare gli scambi termici con il<br />

termostato. In alternativa si può anche fare in modo che la temperatura dello schermo, pur<br />

inseguendo quella della cella, rimanga sempre inferiore di qualche grado rispetto alla cella<br />

stessa. Così facendo la quantità di calore scambiata non è nulla, ma è comunque costante.<br />

Uno schema di calorimetro a scansione del tipo descritto è mostrato in Figura 50.<br />

Cella<br />

portacampione<br />

Sensori di<br />

temperatura e<br />

riscaldatori<br />

della cella<br />

Schermo attivo<br />

Sensori di<br />

temperatura e<br />

riscaldatori<br />

dello schermo<br />

Termostato<br />

Figura 50. Rappresentazione schematica<br />

di un calorimetro a scansione.<br />

In assenza dello schermo attivo, per realizzare una<br />

scansione di temperatura costante la potenza di<br />

riscaldamento deve crescere man mano che ci si<br />

allontana dalla temperatura del termostato per<br />

compensare gli scambi termici che crescono al<br />

crescere della differenza ( T T)<br />

84<br />

C<br />

− come previsto<br />

dalla legge di Newton. Tuttavia oltre al fatto che in<br />

questo caso l’elettronica deve essere molto più<br />

sofisticata la riproducibilità delle curve è più scarsa.<br />

Per ovviare a questo inconveniente si realizzano in<br />

genere dispositivi differenziali (Differential<br />

Scanning Calorimeter, DSC) che presentano due<br />

celle identiche anziché una. Nella cella che funziona<br />

da riferimento viene posta, all’interno di un piccolo<br />

contenitore di alluminio (Pan), una massa di<br />

materiale termicamente inerte equivalente a quella<br />

del campione. Alle due celle viene applicata<br />

indipendentemente una potenza di riscaldamento<br />

tale da mantenere in entrambe lo stesso gradiente di temperatura nel corso della<br />

scansione. Ciò che si registra, in questo caso, è la differenza di potenza Δ W() t da applicare<br />

alle due celle per mantenerle sempre alla stessa temperatura. In questo modo la sensibilità<br />

è molto elevata come pure la riproducibilità. Un insieme schematico di un calorimetro a<br />

scansione differenziale è mostrato in Figura 51.<br />

Fintantoché si opera in un range di temperatura in cui il campione è termicamente inerte<br />

(cioè non subisce degradazioni termiche né transizioni di fase) la differenza di potenza<br />

Δ W() t rimane pressoché nulla o comunque assume valori piccoli e quasi costanti che


iflettono piccole asimmetrie strumentali e la<br />

differente capacità termica del campione e del<br />

riferimento. Quando invece il campione si<br />

degrada o più semplicemente subisce una<br />

transizione di fase esso assorbe una quantità<br />

di calore pari al ΔH (estensivo) del processo<br />

osservato. Il sistema, pertanto, fornisce alla<br />

microfornace contenente il campione una<br />

potenza maggiore necessaria a compensare<br />

tale assorbimento.<br />

In genere si registra preventivamente una<br />

linea di base ΔW () t vs. t ponendo un secondo pan di riferimento nel comparto del<br />

0<br />

campione e si sottrae tale linea di base alle curve che si registrano successivamente in<br />

presenza dei vari campioni. In questo modo si eliminano soprattutto gli effetti delle<br />

piccole asimmetrie costruttive esistenti tra le due microfornaci. Ovviamente è necessario<br />

che le condizioni sperimentali (gradiente di temperatura impostato, temperatura del<br />

blocco, ecc.) in cui si registrano la linea di base e le successive curve siano le stesse. Il<br />

calore assorbito nel processo è dunque dato da:<br />

ΔW(t)<br />

t i<br />

curva sperimentale ΔW(t)<br />

∫<br />

tempo<br />

t<br />

t f<br />

() ()<br />

f<br />

Q = ⎡<br />

⎣<br />

ΔW t −ΔW<br />

t ⎤<br />

⎦<br />

dt<br />

proc 0<br />

t<br />

i<br />

linea di base ΔW 0 (t)<br />

85<br />

Cella del<br />

campione<br />

Pannello di accesso alle<br />

fornaci<br />

Pan del riferimento<br />

e del campione<br />

Sensori e riscaldatori del<br />

riferimento e del campione<br />

t<br />

Microfornaci<br />

Blocco termostatico<br />

Figura 51. Rappresentazione schematica di un<br />

calorimetro differenziale a scansione (DSC).<br />

()<br />

f<br />

∫ ⎡<br />

⎣<br />

⎤<br />

⎦<br />

(7.65)<br />

ti<br />

Q = ΔW t −ΔW<br />

dt<br />

proc 0<br />

con l’evidente significato grafico<br />

mostrato in Figura 52.<br />

Cella del<br />

riferimento


8. Equilibri di fase in sistemi monocomponente<br />

I diagrammi di fase di sistemi monocomponente sono costituiti da grafici P vs. T in cui<br />

sono individuati gli intervalli di temperatura e pressione in cui la specie risulta stabile allo<br />

stato solido, liquido e vapore. Le linee che separano le diverse zone di esistenza<br />

rappresentano altrettante curve di equilibrio in cui due fasi coesistono. Il punto di<br />

intersezione delle tre curve è detta punto triplo e rappresenta la coppia di valori di<br />

pressione e temperatura ai quali le tre fasi coesistono in equilibrio. Nelle aree del grafico<br />

relative allo stato liquido e allo stato solido, come pure sulla curva di equilibrio solido-<br />

liquido, il valore di pressione corrisponde alla pressione esterna esercitata sul sistema,<br />

mentre nella zona del vapore, come pure sulle curve di equilibrio solido-vapore e liquido-<br />

vapore esso rappresenta la pressione della specie allo stato vapore. Sulle curve, in<br />

particolare, esso rappresenta la pressione del vapore in equilibrio con il solido o con il<br />

liquido: la pressione di equilibrio è detta tensione di vapore del solido o del liquido. Un<br />

generico diagramma di fase per un sistema monocomponente è mostrato in Figura 53.<br />

La cosiddetta regola delle<br />

fasi di Gibbs permette di<br />

stabilire la varianza di un<br />

sistema, cioè il numero di<br />

variabili indipendenti<br />

necessarie a descrivere lo<br />

stato del sistema stesso. Nel<br />

caso di un sistema<br />

monocomponente tutte le<br />

fasi sono ovviamente pure,<br />

pertanto la varianza V che in<br />

generale è data dal numero<br />

di variabili composizione<br />

Pressione<br />

Solido<br />

Punto triplo<br />

Figura 53. Diagramma di fase in un sistema monocomponente.<br />

necessarie per descrivere ciascuna fase più le due variabili esterne (pressione e<br />

temperatura) meno le condizioni di vincolo (uguaglianze tra potenziali chimici<br />

all’equilibrio di fase, vedi sotto) assumerà la forma particolarmente semplice:<br />

V = 3−F (8.1)<br />

86<br />

Liquido<br />

Vapore<br />

Temperatura


dove F è indica il numero delle fasi in equilibrio tra loro. Come si verifica facilmente<br />

all’interno delle zone di esistenza del solido, del liquido o del gas si ha presenza di una<br />

sola fase, il che implica che la varianza del sistema è pari a 2. Ciò significa che si possono<br />

variare indipendentemente pressione e temperatura senza che si abbiano modifiche dello<br />

stato del sistema. A motivo di ciò un punto all’interno delle zone di esistenza delle singole<br />

fasi è detto bivariante. Al contrario, sulle curve di equilibrio si ha contemporanea esistenza<br />

tra due fasi e perciò risulta V = 1.<br />

Un punto su una curva di equilibrio è detto<br />

monovariante perché al massimo si può variare una sola delle variabili esterne mentre<br />

l’altra deve variare di conseguenza se si vuole che il sistema si mantenga in condizioni di<br />

equilibrio. Infine il punto triplo è detto invariante ( V = 0 ) perché la coesistenza delle tre<br />

fasi in equilibrio si realizza in corrispondenza di un’unica coppia di valori P, T.<br />

La condizione di equilibrio tra due fasi α e β , in sistemi monocomponente, è espressa<br />

dall’uguaglianza dei potenziali chimici:<br />

α β<br />

μ =μ (8.2)<br />

Consideriamo ad esempio un sistema all’equilibrio liquido-vapore. Questa condizione<br />

sarà individuabile come un punto sulla curva di equilibrio liquido-vapore del relativo<br />

diagramma di stato (punto A, Figura 54).<br />

Pressione<br />

A<br />

Figura 54. Equilibrio Liquido - Vapore.<br />

B<br />

B B<br />

μ =μ<br />

liq vap<br />

A A<br />

μ =μ<br />

liq vap<br />

Temperatura<br />

Liquido<br />

Vapore<br />

87<br />

Si ha quindi:<br />

A A<br />

μ =μ (8.3)<br />

liq vap<br />

Se si modificano le condizioni<br />

del sistema mantenendo la<br />

condizione di equilibrio (ad<br />

esempio innalzando la<br />

temperatura di una quantità<br />

infinitesima dT a cui<br />

corrisponde una variazione<br />

infinitesima della tensione di<br />

vapore dP ) si passerà ad una<br />

nuova condizione di equilibrio<br />

individuata dal punto B in


figura. In esso si avrà:<br />

Ma ovviamente è anche:<br />

B B<br />

μ =μ (8.4)<br />

liq vap<br />

⎧μ ⎪ =μ + dμ<br />

⎨<br />

⎪⎩<br />

μ =μ + μ<br />

B A<br />

liq liq liq<br />

A<br />

vap<br />

A<br />

vap<br />

d<br />

vap<br />

Dal confronto delle (8.3), (8.4) e (8.5) si ricava facilmente:<br />

88<br />

(8.5)<br />

dμ = dμ<br />

(8.6)<br />

liq vap<br />

Ora, ricordando che il potenziale chimico nel caso di una specie allo stato puro assume il<br />

significato di energia libera molare, e ricordando l’espressione del differenziale<br />

dell’energia libera ( dG = VdP − SdT ) si avrà:<br />

dμ= vdP− sdT<br />

(8.7)<br />

dove con le minuscole v e s si indicano rispettivamente il volume e l’entropia molare. La<br />

(8.6) assume pertanto la forma:<br />

e raccogliendo opportunamente si ricava:<br />

dP s −s Δ S<br />

liq vap vap<br />

= =<br />

dT v −vΔ V<br />

Ricordando poi che nei passaggi di stato è:<br />

e sostituendo nella (8.9) si avrà<br />

nota come Equazione di Clapeyron.<br />

v dP − s dT = v dP − s dT<br />

(8.8)<br />

liq liq vap vap<br />

liq vap vap<br />

S<br />

Δ<br />

H<br />

(8.9)<br />

trans<br />

Δ = (8.10)<br />

trans T<br />

trans<br />

dP Δ H<br />

vap<br />

=<br />

dT TΔ V<br />

vap<br />

(8.11)<br />

L’equazione (8.11) può essere impiegata per ricavare il valore di entalpia di<br />

vaporizzazione ad una certa temperatura T, noti che siano i volumi molari del liquido e<br />

del vapore a quella temperatura, nonché la derivata della curva di equilibrio al punto<br />

( dP dT ) . Benché sia possibile seguire diverse strade per valutare il termine<br />

T<br />

vap V Δ , risulta


conveniente esprimere i volumi molari del liquido e del vapore ricorrendo alla funzione di<br />

comprimibilità Z = PV RT . In questo caso si può scrivere:<br />

Z RT Z RT<br />

vap liq RT<br />

Δ V = v − v = − =<br />

vap vap liq ( Z − Z<br />

vap liq )<br />

(8.12)<br />

P P P<br />

e sostituendo la (8.12) nella (8.11) si ricava:<br />

dP<br />

=<br />

PΔH vap<br />

dT 2<br />

RT Z Z<br />

( −<br />

vap liq )<br />

o anche, per le proprietà delle derivate logaritmiche:<br />

Si può pertanto ottenere per<br />

1 dP d lnPΔH = =<br />

PdT dT 2<br />

RT<br />

vap<br />

Z Z<br />

vap H Δ :<br />

89<br />

( −<br />

vap liq )<br />

⎛dln P⎞<br />

2<br />

( ) ⎜ ⎟ ( )<br />

Δ H T = RT Z −Z<br />

⎝ dT ⎠<br />

vap vap liq<br />

T<br />

(8.13)<br />

(8.14)<br />

(8.15)<br />

Per quanto concerne il calcolo delle funzioni di comprimibilità è conveniente utilizzare<br />

una delle cosiddette equazioni di stato cubiche la cui espressione generale è del tipo:<br />

oppure, in forma equivalente:<br />

avendo posto ( 1 B uB)<br />

inoltre<br />

RT a<br />

P = −<br />

V − b V + ubV + wb<br />

3 2<br />

Z Z Z<br />

2 2<br />

(8.16)<br />

+α +β +γ= 0<br />

(8.17)<br />

2 2<br />

2 3<br />

α=− + − ; β= ( A + wB −uB − uB ) ; ( AB wB wB )<br />

γ=− + + dove è<br />

2 2<br />

A= aP R T e B= bP RT . I parametri a, b, u e w dipendono dall’equazione di stato<br />

impiegata e inglobano costanti caratteristiche della specie considerata quali temperatura<br />

critica,<br />

T , pressione critica,<br />

c<br />

P , ecc. Le espressioni dei parametri a, b, u e w per alcune delle<br />

c<br />

più comuni equazioni di stato cubiche sono riportate in tabella a pagina successiva.<br />

Risolvendo un’equazione della forma (8.17) si ottengono ovviamente tre radici, ma solo<br />

due di esse, la più piccola e la più grande, hanno un significato fisico: esse rappresentano<br />

la comprimibilità del liquido e del vapore. La radice intermedia non ha invece significato<br />

fisico. Tra le equazioni riportate in tabella quella che predice i risultati più accurati è in<br />

genere l’equazione di Peng-Robinson.


Equazione u w b a<br />

Van der Waals 0 0<br />

RT<br />

c<br />

8P<br />

Redlich-Kwong 1 0 0.08664RT<br />

P<br />

Soave 1 0 0.08664RT<br />

P<br />

Peng-Robinson 2 -1 0.07780RT<br />

P<br />

‡<br />

T = T T , temperatura ridotta;<br />

r c<br />

<br />

§ P ( T )<br />

ω=− log a = 0.7 −1,<br />

fattore acentrico, dove<br />

r r<br />

a una temperatura ridotta T pari 0.7 ( T = 0.7 ⋅ T ) .<br />

c<br />

r<br />

c<br />

c<br />

c<br />

c<br />

P<br />

r<br />

<br />

c<br />

c<br />

c<br />

90<br />

27R<br />

T<br />

64P<br />

2 2<br />

c<br />

c<br />

0.42748RT<br />

P<br />

c<br />

( 27 64 0.421875)<br />

=<br />

0.42748R<br />

T<br />

PT<br />

2 2<br />

c<br />

c<br />

2 2.5<br />

c<br />

12<br />

12 ( )<br />

⎡1+ f 1−T<br />

⎤<br />

⎣ ω r ⎦<br />

2<br />

f = 0.48 + 1.574ω−0.176ω ω §<br />

0.45724RT<br />

P<br />

c<br />

2 2<br />

c<br />

12 ( )<br />

⎡1+ f 1−T<br />

⎤<br />

⎣ ω r ⎦<br />

2<br />

2<br />

‡<br />

;<br />

‡<br />

;<br />

2<br />

f = 0.37464 + 1.522ω−0.26992ω ω §<br />

<br />

è la tensione di vapore ridotta ( P = P P)<br />

r c<br />

calcolata<br />

Calcolate dunque le Z del vapore e del liquido alla temperatura desiderata, ai fini del<br />

calcolo dell’entalpia di vaporizzazione rimane solo da valutare la derivata ( dln P dT ) . T<br />

Benché questa derivata possa essere ottenuta per via numerica previa misura di un<br />

numero congruo di coppie di valori P, T sulla curva di equilibrio, sarà più conveniente<br />

impiegare una procedura di fitting dei dati su una equazione di forma opportuna e<br />

procedere poi ad una derivazione analitica. Un’equazione empirica che trova largo<br />

impiego per il fitting di dati di equilibrio P, T per sistemi a un solo componente è<br />

l’equazione di Antoine:<br />

B<br />

ln P= A− C+ T<br />

** (8.18)<br />

** Nella forma classica l’equazione di Antoine è riportata con il logaritmo decimale della pressione e con la<br />

temperatura espressa in gradi centigradi:<br />

b<br />

log P( mm/Hg)<br />

= a−<br />

10<br />

c+ t C<br />

<br />

Occorre sempre fare attenzione quando si impiegano parametri di Antoine presi dalla letteratura.<br />

( )


dove la pressione è generalmente espressa in millimetri di mercurio (mm/Hg) e le costanti<br />

di Antoine A, B e C rappresentano i parametri aggiustabili del fitting. Derivando<br />

l’equazione (8.18) si ottiene:<br />

dln P B<br />

=<br />

dT C T<br />

( ) 2<br />

+<br />

Sostituendo la (8.19) nella (8.15) si ricaverà infine:<br />

( )<br />

( C+ T)<br />

91<br />

( )<br />

B<br />

Δ H T = RT Z −Z<br />

2<br />

vap 2<br />

vap liq<br />

(8.19)<br />

(8.20)<br />

L’equazione (8.14) può essere semplificata qualora si decida di trascurare il volume del<br />

liquido rispetto a quello del vapore e si assuma per quest’ultimo comportamento ideale,<br />

ciò che equivale a porre Z = 0 e Z = 1,<br />

ottenendo:<br />

liq<br />

vap<br />

dln P Δ H<br />

vap<br />

= (8.21)<br />

2<br />

dT RT<br />

nota come equazione di Clausius-Clapeyron. Questa può essere integrata separando le<br />

variabili ammettendo che l’entalpia di vaporizzazione rimanga costante con la<br />

temperatura:<br />

e infine:<br />

Δ<br />

H dT<br />

P T<br />

2 2<br />

vap<br />

∫ dln P=<br />

2<br />

P R ∫ (8.22)<br />

T T<br />

1 1<br />

P Δ H ⎛<br />

2 vap 1 1 ⎞<br />

ln = ⎜ −<br />

P R ⎜<br />

⎟<br />

T T ⎟<br />

1 ⎝ 1 2 ⎠<br />

(8.23)<br />

L’assunzione che Δ H sia costante con la temperatura è tuttavia molto grossolana,<br />

vap<br />

pertanto l’equazione (8.23) può essere impiegata solo per conoscere la tensione di vapore<br />

P di un liquido ad una temperatura T di poco differente da quella a cui già si conosce.<br />

2<br />

2<br />

L’assunzione che il volume del liquido sia trascurabile rispetto a quello del vapore e che<br />

quest’ultimo si comporti idealmente conduce anche, evidentemente, ad una forma<br />

approssimata dell’equazione (8.20):<br />

B<br />

Δ H T = RT<br />

vap<br />

( )<br />

( C+ T)<br />

2<br />

2<br />

(8.24)<br />

I risultati che si ottengono mediante applicazione dell’equazione (8.24) sono abbastanza<br />

realistici.


Misura sperimentale della tensione di vapore<br />

I metodi sperimentali per la misura della tensione di vapore si dividono in statici e dinamici. I<br />

due metodi si differenziano perché nel primo caso l’equilibrio liquido <strong>–</strong> vapore è realizzato in<br />

condizioni statiche, cioè senza che vi sia apprezzabile trasporto di massa da una fase all’altra e<br />

in pratica non all’ebollizione, mentre nel secondo la misura è effettuata all’ebollizione in<br />

condizione di riflusso totale. I primi sono in genere più accurati, ma tanto l’apparato che la<br />

procedura sono più complessi.<br />

Metodo dinamico per la misura delle tensioni di vapore (Metodo di Ramsey-Young)<br />

Nel cosiddetto metodo di Ramsey-Young, l’equilibrio liquido-vapore è realizzato mediante<br />

intimo contatto dei vapori (provenienti da un ebollitore) con il liquido che rifluisce da un<br />

condensatore e il luogo fisico in cui tale equilibrio si realizza è il bulbo di un termometro a<br />

mercurio sul quale è avvolto uno stoppaccio di lana di vetro (tecnica del bulbo umido). Il bulbo<br />

del termometro si trova pertanto esattamente alla temperatura di equilibrio, corrispondente alla<br />

pressione esistente all’interno dell’apparecchiatura. Uno schema dell’apparato per la misura<br />

della tensione di vapore basato sul metodo di Ramsey-Young è mostrato in Figura 55.<br />

92


Inizialmente si collega l’apparecchiatura ad un pompa a vuoto per alcuni istanti, fino<br />

all’incipiente ebollizione del campione, quindi si chiude la valvola principale. All’interno<br />

dell’apparecchiatura si trovano ora solamente i vapori del liquido in esame. Si accendono<br />

quindi il riscaldamento e l’agitazione che consente un’ebollizione più regolare e si attende<br />

il raggiungimento dell’equilibrio. Questo è testimoniato da un riflusso regolare di<br />

condensato lungo l’asta e il bulbo del termometro e dallo stabilizzarsi delle condizioni di<br />

pressione e temperatura. Quest’ultima è letta direttamente sul termometro sospeso,<br />

mentre la pressione è misurata come differenza tra le altezze dei due menischi nel<br />

manometro a mercurio. Un espansore (ballast) minimizza le fluttuazioni della pressione.<br />

Una volta effettuata la lettura della prima coppia di valori P, T, si apre per qualche istante<br />

la valvola di immissione aria in modo da introdurre nell’apparecchiatura una pressione<br />

aggiuntiva di gas inerte. L’equilibrio risulta ovviamente perturbato e per alcuni secondi si<br />

interrompe l’ebollizione o per lo meno il riflusso del condensato. Il riflusso riprende<br />

regolare solamente quando la temperatura sul bulbo del termometro ha raggiunto la<br />

nuova condizione di equilibrio. Si ripete pertanto l’operazione sopra descritta fintantoché<br />

non sono state effettuate un numero congruo di misure P, T. I dati raccolti vengono trattati<br />

mediante una procedura di fitting per mezzo dell’equazione (8.18).<br />

Metodo statico per la misura delle tensioni di vapore<br />

Nel cosiddetto metodo statico il campione deve essere preventivamente degassato in modo<br />

estremamente accurato. Questa operazione è effettuata mediante una sequenza di<br />

congelamenti-scongelamenti (realizzati generalmente immergendo la cella in azoto liquido)<br />

effettuati sotto vuoto. Successivamente si lascia che la temperatura della cella, e quindi del<br />

campione, si porti in equilibrio con un termostato la cui precisione non può essere inferiore al<br />

centesimo di grado. In queste condizioni si misura la pressione del vapore mediante un<br />

opportuno manometro. Si devono però evitare alcuni potenziali problemi, primo fra tutti<br />

l’eventualità che del vapore possa condensare in un punto qualunque dell’apparecchiatura che<br />

non sia la cella di misura. La condensazione infatti potrebbe avvenire solo in un punto a<br />

temperatura inferiore e questo provocherebbe l’instaurarsi di una condizione dinamica di non<br />

equilibrio che renderebbe errata la misura stessa. A questo problema si pone rimedio<br />

riscaldando (mediante resistenze elettriche o nastri scaldanti) tutte le porzioni<br />

dell’apparecchiatura con cui viene in contatto il vapore ad una temperatura superiore di almeno<br />

93


una ventina di gradi a quella della cella. Di norma si ricorre ad apparati muniti di un<br />

manometro differenziale a capacità. Questo è costituito da una testa di misura divisa in due<br />

comparti da una membrana. La membrana costituisce anche l’armatura mobile di un<br />

condensatore la cui capacità varia a seconda di quanto la differente pressione agente sulle due<br />

camere deflette la membrana stessa. In pratica si equilibra la tensione di vapore del liquido in<br />

esame che comunica con una delle due camere, con una uguale pressione di gas inerte (aria<br />

secca o azoto) e si misura mediante un normale manometro, o qualunque altro sensore, la<br />

pressione di quest’ultimo. Lo schema di un apparato statico per la misura della tensione di<br />

vapore è mostrato in Figura 56.<br />

Dopo aver degassato il campione come già descritto, il rubinetto D viene chiuso e si<br />

procede a fare il vuoto spinto in tutta l’apparecchiatura con i rubinetti A, B e C aperti: in<br />

questa condizione si imposta su zero il segnale del manometro differenziale. Si chiudono<br />

quindi i rubinetti A, B e C e si apre D in modo che il vapore del campione fluisca nella<br />

metà inferiore della testa del manometro differenziale: lo strumento di zero segnala uno<br />

sbilanciamento. Mediante la valvola di immissione si fa entrare gas inerte nella camera<br />

superiore della testa di misura fino a riportare su zero il segnale del manometro<br />

differenziale. Sul manometro a U si legge infine il valore di pressione. Con apparati di<br />

94


questo tipo si misurano facilmente e accuratamente basse tensioni di vapore (dell’ordine<br />

di uno o pochi mmHg).<br />

Questo tipo di strumento è inoltre impiegato anche per misurare la tensione di vapore di<br />

soluzioni.<br />

95


9. Equilibri di fase in sistemi a due componenti: equilibri liquido-vapore<br />

In un sistema a più componenti la regola delle fasi di Gibbs è ricavabile mediante un<br />

semplice ma rigoroso ragionamento. Supponiamo di avere F fasi, ciascuna costituita da C<br />

componenti indipendenti (cioè non legati da relazioni stechiometriche), in equilibrio tra<br />

loro. Oltre ovviamente alle due variabili esterne (pressione e temperatura), per descrivere<br />

lo stato termodinamico del sistema saranno necessarie per ciascuna fase C <strong>–</strong> 1 variabili<br />

composizione §. Ciò comporta un numero totale di variabili pari a 2 F( C 1)<br />

96<br />

+ − . Per ciascun<br />

componente che si trovi in equilibrio tra le diverse fasi, si può tuttavia stabilire la<br />

condizione di uguaglianza del potenziale chimico in tutte le fasi, cioè:<br />

μ (1) =μ (2) =⋅⋅⋅⋅=μ ( F)<br />

(9.1)<br />

i i i<br />

Ciò significa che per ciascun componente sussistono F <strong>–</strong> 1 condizioni di vincolo che in<br />

totale saranno pertanto C( F − 1)<br />

. La varianza totale del sistema sarà pertanto data dalla<br />

relazione:<br />

Riepilogando si ha:<br />

( ) ( )<br />

V = 2+ F C−1 −C F − 1 = 2+<br />

FC −F − FC + C = C− F + 2<br />

(9.2)<br />

V = C− F + 2 REGOLA <strong>DEL</strong>LE FASI <strong>DI</strong> GIBBS PER SISTEMI A PIÙ COMPONENTI<br />

V = 3 −F<br />

REGOLA <strong>DEL</strong>LE FASI <strong>DI</strong> GIBBS PER SISTEMI A UN SOLO COMPONENTE<br />

Dall’Eq. (9.2) risulta evidente che già per un sistema a due componenti all’equilibrio di<br />

fase (solido-liquido o liquido-vapore) si ha V = 2 , cioè delle tre variabili necessarie per<br />

rappresentare lo stato termodinamico del sistema (pressione, temperatura e una variabile<br />

composizione) ve ne sono 2 indipendenti ed una dipendente. La rappresentazione grafica<br />

dello stato termodinamico richiede pertanto il ricorso ad un grafico tridimensionale P, T, x.<br />

Per ragioni pratiche tuttavia si preferisce fissare una delle variabili esterne P o T e<br />

rappresentare il sistema su un grafico bidimensionale T, x (cioè un grafico isobaro) oppure<br />

P, x (cioè un grafico isotermo). Prima di passare a descrivere nel dettaglio le varie tipologie<br />

§ Per descrivere la composizione di un sistema monofasico costituito da n componenti occorrono n <strong>–</strong> 1 valori<br />

di frazione molare, essendo la frazione molare dell’n-esimo componente rappresentata dal complemento a 1.


di diagrammi di stato liquido-vapore è utile richiamare le nozioni base relative alla<br />

termodinamica delle soluzioni.<br />

Idealità delle soluzioni<br />

Si definisce soluzione ideale una miscela di due (o più) liquidi la cui tensione di vapore<br />

totale sia esprimibile in base alla legge limite di Raoult:<br />

• •<br />

1 1 2 2<br />

P= x P + x P<br />

(9.3)<br />

Con x1, x2 frazioni molari di due componenti nella fase liquida e P1 , P2<br />

97<br />

• • tensioni di vapore<br />

• •<br />

dei due componenti allo stato puro alla temperatura considerata. I termini x1P1e x2P2 rappresentano pertanto le pressioni parziali dei due componenti nello stato vapore in<br />

equilibrio con il liquido. Incidentalmente si può dimostrare come il mescolamento di due<br />

componenti puri 1 e 2 che formino una soluzione che obbedisca all’Eq. (9.3) in tutto il<br />

campo di composizione è caratterizzato da variazioni nulle tanto del volume (come<br />

osservato nel capitolo 1) quanto dell’entalpia ( Δ H = H = 0 ).<br />

L’equazione (9.3) non è l’unica relazione che stabilisce l’esistenza di una proporzionalità<br />

diretta tra la tensione di vapore di un componente una miscela e la sua frazione molare nel<br />

liquido: anche la legge limite di Henry stabilisce una tale proporzionalità, ma solo nel caso<br />

del componente presente in minor quantità e che viene in genere designato come soluto:<br />

mix<br />

H<br />

2 2<br />

E<br />

P = k x<br />

(9.4)<br />

dove la costante di proporzionalità H<br />

k è detta costante di Henry per il soluto 2 nel<br />

solvente 1. Una soluzione che obbedisca rigorosamente all’equazione (9.4) entro un certo<br />

range di composizione è detta soluzione ideale diluita.<br />

Mentre una soluzione ideale secondo Raoult obbedisce all’Eq. (9.3) in tutto il campo di<br />

composizione, una soluzione ideale secondo Henry segue la (9.4) solo entro un certo<br />

intervallo di composizione. Per tutte le soluzioni reali esiste sempre un intervallo di<br />

composizione, 0 < x2 < x , per quanto piccolo, in cui il soluto obbedisce idealmente alla<br />

legge di Henry, mentre il solvente segue la Raoult (nello stesso intervallo di<br />

composizione). Al di fuori di tale intervallo si osservano deviazioni più o meno marcate<br />

dalle due leggi limite, di cui si può tener conto introducendo nella (9.3) e nella (9.4) dei<br />

coefficienti numerici. Tali coefficienti sono detti coefficienti di attività e sono funzione<br />

della composizione e della temperatura. In forma generalizzata si può pertanto scrivere:


P = xγ P oppure P = xγ k<br />

(9.5)<br />

R •<br />

H H<br />

i i i i i i i<br />

Il coefficiente di attività assume valori numerici differenti a seconda che sia riferito alla<br />

Raoult, R<br />

i<br />

γ , o alla Henry, H<br />

γ . Il grafico isotermo delle tensioni di vapore parziali e totale di<br />

i<br />

una miscela liquida binaria con deviazioni positive dalla Raoult è mostrato in Figura 57.<br />

Pressione<br />

P •<br />

1<br />

Curva reale<br />

Andamento limite secondo Raoult<br />

Andamento limite secondo Henry<br />

• •<br />

TOT 1 1 2 2<br />

P = x P + x P<br />

H<br />

2 2<br />

P = k x<br />

Diagrammi di stato isotermi<br />

98<br />

P x P •<br />

=<br />

2 2 2<br />

P x P •<br />

=<br />

1 1 1<br />

0 0.2 0.4 0.6 0.8 1<br />

Consideriamo per semplicità una miscela binaria ideale, che obbedisca cioè alla legge di<br />

Raoult in tutto il campo di composizione. La (9.3) può anche essere scritta nella forma:<br />

x 2<br />

( 1 ) ( )<br />

• • • • • • •<br />

1 1 2 2 2 1 2 2 1 2 1 2<br />

P= x P + x P = − x P + x P = P + P − P x<br />

(9.6)<br />

dove si evidenzia la relazione lineare tra la pressione totale P e la frazione molare nel<br />

liquido x2. Le pressioni parziali dei due componenti possono anche essere espresse<br />

mediante la legge di Dalton in funzione della pressione totale e delle frazioni molari nella<br />

fase vapore y1 e y2:<br />

( 1 )<br />

P = y P P = y P= − y P<br />

(9.7)<br />

2 2 1 1 2<br />

da cui si ricava, in combinazione con la legge di Raoult:<br />

y<br />

2<br />

P x P<br />

= =<br />

P P P P x<br />

2 2<br />

•<br />

2<br />

•<br />

1 +<br />

•<br />

2 −<br />

•<br />

1 2<br />

( )<br />

k H<br />

P •<br />

2<br />

(9.8)


Se si risolve l’Eq. (9.8) per x2, si ottiene la frazione molare del componente 2 in soluzione in<br />

equilibrio con una fase vapore in cui la frazione molare del componente 2 è pari a y2:<br />

x<br />

2<br />

yP<br />

=<br />

P y P P<br />

2<br />

•<br />

1<br />

•<br />

2 − 2<br />

•<br />

2 −<br />

•<br />

1<br />

Utilizzando nuovamente la (9.7) e la (9.3) si ricava:<br />

Che sostituita nella (9.10) fornisce:<br />

e infine:<br />

x<br />

2<br />

y<br />

2<br />

99<br />

( )<br />

(9.9)<br />

•<br />

x2P2 = (9.10)<br />

P<br />

1 xPP<br />

=<br />

P P y P P<br />

• •<br />

2 2 1<br />

•<br />

2 − 2<br />

•<br />

2 −<br />

•<br />

1<br />

PP<br />

( )<br />

• •<br />

2 1<br />

P = • • •<br />

P2 − y2 P2 −P1<br />

( )<br />

(9.11)<br />

(9.12)<br />

Riportando in un unico grafico le curve rappresentate dalle equazioni (9.3) e (9.12) si<br />

ottiene il diagramma di stato isotermo per un sistema binario ideale all’equilibrio liquido-<br />

vapore (Fig. 58).<br />

Pressione<br />

P •<br />

1<br />

L<br />

g<br />

L + V<br />

d<br />

b<br />

e<br />

0.0 0.2 0.4 0.6 0.8 1.0<br />

x 2 o y 2<br />

a<br />

i<br />

h<br />

f<br />

c<br />

V<br />

P •<br />

2


Il piano risulta suddiviso in tre regioni: in quella superiore a pressioni più elevate il<br />

sistema è nello stato liquido, in quella inferiore a basse pressioni è nello stato vapore,<br />

mentre nella regione intermedia le due fasi liquido e vapore coesistono all’equilibrio.<br />

Supponiamo ad esempio che il sistema si trovi inizialmente nello stato individuato sul<br />

grafico dal punto a. Poiché in queste condizioni il sistema è monofasico, in base alla regola<br />

delle fasi si trova V = 3,<br />

ma poiché la temperatura è fissata la varianza effettiva è pari a 2.<br />

A composizione costante si può pertanto abbassare la pressione spostandosi<br />

“verticalmente” fino a raggiungere il punto b. In corrispondenza di tale punto inizia a<br />

separarsi una fase vapore la cui composizione è data dall’ascissa del punto c: siamo cioè in<br />

presenza di due fasi in equilibrio e pertanto in base alla regola delle fasi si ha V = 2 e la<br />

varianza effettiva è pari a 1. Ciò significa che abbassando ulteriormente la pressione le<br />

composizioni delle due fasi in equilibrio cambiano in modo coniugato: in corrispondenza<br />

del punto e, ad esempio, si ha una fase liquida d di composizione xd ed una fase vapore f di<br />

composizione xf. I rapporti quantitativi tra le due fasi sono desumibili dalla regola della<br />

leva, in base alla quale risulta che il rapporto tra liquido e vapore è pari al rapporto ef ed .<br />

Continuando ad abbassare la pressione si arriva al punto h in cui praticamente si ha solo<br />

vapore, mentre il punto g rappresenta l’ultima frazione di liquido in equilibrio.<br />

Abbassando ulteriormente la pressione si entra nella zona bivariante in cui è presente il<br />

solo vapore.<br />

Diagrammi di stato isobari<br />

L’equilibrio liquido-vapore in sistemi binari può altresì essere descritto mediante un<br />

diagramma di stato isobaro in cui sono riportati, in funzione della frazione molare, i punti<br />

di ebollizione della miscela. Un esempio di diagramma di stato isobaro è dato in Figura 59.<br />

Anche in questo caso il piano risulta tripartito, ma la regione superiore rappresenta la<br />

zona di esistenza del vapore, mentre quella inferiore la zona del liquido. Se si riscalda la<br />

miscela liquida di composizione xi, partendo dallo stato individuato dal punto i sul piano<br />

T <strong>–</strong> x, siamo in zona monofasica bivariante fino al punto h. Nel punto h si incontra la curva<br />

dei punti di ebollizione ed il sistema diventa un sistema bifasico in cui la fase liquida di<br />

composizione xh = xi è in equilibrio con la fase vapore coniugata di composizione xg<br />

rappresentata dal punto g. Proseguendo nel riscaldamento si trova, alla temperatura Te,<br />

che le due fasi in equilibrio sono rispettivamente la fase liquida di composizione xf e la<br />

100


fase vapore di composizione xd. Oltre al punto b il sistema torna ad essere monofasico,<br />

costituito stavolta dal solo vapore. La curva inferiore rappresenta dunque la curva dei<br />

punti di ebollizione, mentre quella superiore è la curva della composizione del vapore. Se<br />

invece si procede in senso inverso, raffreddando ad esempio la miscela a di composizione<br />

xa, si osserva al punto b la condensazione della prima frazione di liquido che ha<br />

composizione xc. Così alla temperatura Te si avrà equilibrio tra le fasi coniugate d ed f e<br />

così via. Operando in raffreddamento la curva superiore rappresenta la curva dei punti di<br />

rugiada, mentre quella inferiore è la curva della composizione del liquido.<br />

Temperatura<br />

T e<br />

T •<br />

1<br />

g<br />

V + L<br />

V<br />

d<br />

0.0 0.2 0.4 0.6 0.8 1.0<br />

Figura 59. Diagramma di stato isobaro liquido - vapore di una<br />

miscela binaria.<br />

Processi di distillazione e di frazionamento<br />

x 2<br />

I diagrammi di stato isotermi e isobari rappresentati nelle figure 58 e 59 mostrano<br />

chiaramente che la fase vapore che si forma in equilibrio con una fase liquida data risulta<br />

sempre più ricca nel componente più volatile rispetto alla miscela di partenza. Ciò<br />

suggerisce una modalità operativa per effettuare una efficace separazione di una miscela<br />

liquida nei suoi componenti sfruttando proprio l’equilibrio liquido-vapore. Consideriamo<br />

ad esempio il processo isobaro mediante il quale una miscela liquida è sottoposta ad una<br />

serie discreta di processi di evaporazione<strong>–</strong>condensazione. In altri termini si può<br />

101<br />

b<br />

a<br />

e<br />

i<br />

h<br />

f<br />

L<br />

c<br />

T •<br />

2


immaginare di prelevare ogni volta un’aliquota di fase vapore all’equilibrio con la fase<br />

liquida di partenza, condensarla in un recipiente separato, portarla nuovamente<br />

all’equilibrio liquido-vapore, procedere con un nuovo prelievo e via dicendo. Poiché ogni<br />

volta si ottiene una fase vapore più ricca del componente più volatile, dopo un certo<br />

numero di processi elementari di evaporazione<strong>–</strong>condensazione si ottiene virtualmente una<br />

frazione che contiene il componente più volatile allo stato puro. Tale procedura è alla base<br />

del processo di distillazione frazionata (o rettifica) che è costituita da una sequenza di<br />

distillazioni semplici, laddove per distillazione semplice si intende il singolo passaggio<br />

evaporazione<strong>–</strong>condensazione. Poiché il processo è in genere realizzato in condizioni<br />

isobare, si presta ad essere rappresentato proprio mediante un grafico isobaro come quello<br />

riportato in Figura 60.<br />

Temperatura<br />

T a<br />

T c<br />

Te T •<br />

1<br />

f<br />

g<br />

d<br />

e<br />

0.0 x x g 0.5 x x e c<br />

a 1.0<br />

x 2<br />

Partendo da una miscela di composizione xa, si ottiene alla temperatura Ta un vapore b che<br />

viene ricondensato ottenendo un liquido di composizione xc. Questo a sua volta dà, alla<br />

temperatura Tc, un vapore d che viene condensato per ottenere un liquido e di<br />

composizione xe. Questo, infine, dà alla temperatura Te un vapore f che condensa dando<br />

un liquido g di composizione xg. Come si osserva, nel caso rappresentato in figura, con soli<br />

102<br />

b<br />

c<br />

a<br />

T •<br />

2


tre processi di evaporazione<strong>–</strong>condensazione si è in grado di passare quasi da un’estremità<br />

all’altra del campo di composizione. § Il processo risulta tanto più efficace quanto più le<br />

temperature di ebollizione dei due liquidi<br />

puri differiscono l’una da l’altra. Inoltre il<br />

processo può risultare più o meno efficiente<br />

a seconda delle deviazioni dall’idealità<br />

presentate dalla miscela. Nella pratica sia<br />

industriale che di laboratorio i processi di<br />

distillazione frazionata non vengono<br />

effettuati come sequenza di stadi discreti<br />

evaporazione<strong>–</strong>condensazione, ma mediante<br />

un processo continuo. Il dispositivo<br />

sperimentale è ovviamente molto diverso a<br />

seconda dei casi. Un tipico esempio di<br />

colonna di rettifica del tipo impiegato in<br />

laboratorio è mostrato in Figura 61. I vapori<br />

provenienti dalla miscela in ebollizione<br />

salgono lungo la colonna di rettifica fino a<br />

raggiungere il refrigerante dove conden-<br />

sano ricadendo nella colonna. Questa è<br />

riempita con piccoli elementi costituiti da<br />

materiale inerte (generalmente vetro) in<br />

modo da aumentare la superficie di contatto<br />

tra i vapori che salgono ed il condensato che<br />

scende. Si impiegano in genere per questo<br />

scopo sferette di vetro o piccoli anelli,<br />

sempre di vetro, detti anelli di Fenske. In<br />

questo modo si realizza, lungo tutta la<br />

colonna, un intimo contatto tra i vapori ed il<br />

§ In realtà per arrivare ad ottenere il componente 2 puro sarebbe comunque necessario un numero infinito di<br />

processi elementari di evaporazione condensazione.<br />

103<br />

Raffreddamento<br />

Refrigerante a<br />

ricadere<br />

Colonna impaccata<br />

Figura 61. Colonna di rettifica.<br />

Dispositivo di prelievo<br />

del distillato<br />

Pallone contenente la<br />

miscela da sottoporre<br />

a distillazione<br />

frazionata<br />

Termomanto


condensato. In pratica ciascuna zona della colonna può essere vista come uno stadio di<br />

equilibrio e poiché ogni volta il vapore è un po’ più ricco del componente più volatile, una<br />

colonna è in grado di realizzare in un unico processo la separazione di una miscela così<br />

come risulterebbe da una numero rilevante di distillazioni semplici. Sebbene, come<br />

osservato, il processo avvenga in continuo e non attraverso stadi separati, risulta<br />

comunque conveniente indicare l’efficienza separativa di una colonna riferendosi al<br />

numero equivalente di processi elementari di evaporazione<strong>–</strong>condensazione in cui il<br />

processo stesso può essere suddiviso. Con l’espressione numero di piatti teorici di una<br />

colonna di rettifica si indica pertanto il numero di processi elementari di evaporazione<strong>–</strong><br />

condensazione che in essa avvengono, e si definisce altezza equivalente di un piatto teorico il<br />

rapporto tra l’altezza della colonna e questo numero.<br />

Oltre che mediante i diagrammi di stato isobari i processi di distillazione frazionata si<br />

possono studiare facendo ricorso a diagrammi y<strong>–</strong>x in cui si riporta la composizione del<br />

vapore in funzione della composizione del liquido, pure in condizioni isobare. Al fine di<br />

ricavare un grafico siffatto è conveniente premettere la definizione di alcune grandezze<br />

ausiliarie. Si definisce volatilità di un componente una miscela, vi, la quantità:<br />

P<br />

i v i =<br />

(9.13)<br />

xi<br />

cioè il rapporto tra la sua tensione di vapore in miscela (cioè la pressione parziale del<br />

vapore) e la frazione molare nella miscela stessa. Ovviamente se la miscela si comporta<br />

idealmente, cioè se segue la legge di Raoult si avrà:<br />

•<br />

xi<br />

Pi<br />

vi<br />

= Pi x<br />

•<br />

= (9.14)<br />

cioè coincide con la tensione di vapore del componente puro, mentre nel caso reale si ha:<br />

v<br />

i<br />

=<br />

x<br />

i<br />

i<br />

γ P<br />

x<br />

•<br />

i i<br />

i<br />

104<br />

i i<br />

P• =γ (9.15)<br />

In una miscela binaria costituita dai componenti A e B si definisce anche volatilità relativa α<br />

il rapporto tra le volatilità dei due componenti, con la convenzione che la volatilità del<br />

componente più volatile è sempre al numeratore:<br />

v γ<br />

α= =<br />

v γ<br />

che nel caso di una soluzione ideale si riduce a:<br />

P<br />

A A<br />

•<br />

A<br />

B<br />

•<br />

BPB (9.16)


P<br />

α= (9.17)<br />

P<br />

Se però si esprime la tensione di vapore del componente in miscela mediante la legge di<br />

Dalton si ha:<br />

e conseguentemente:<br />

105<br />

•<br />

A<br />

•<br />

B<br />

P y P<br />

P<br />

( 1−<br />

y ) P<br />

( 1−<br />

)<br />

A A tot<br />

B<br />

A tot<br />

vA = = e v B = =<br />

(9.18)<br />

xA xA xB xA<br />

v<br />

A α= =<br />

vB<br />

y P ( 1−<br />

x )<br />

( 1 )<br />

A tot A<br />

− yA Ptot<br />

A<br />

(9.19)<br />

x<br />

Riarrangiando l’Eq. (9.19) si ottiene la cosiddetta equazione della volatilità relativa:<br />

y x<br />

=α<br />

1− y 1−x<br />

(9.20)<br />

dove x e y rappresentano rispettivamente le frazioni molari nel liquido e nel vapore del<br />

componente più volatile. Poiché come si è osservato, nell’espressione della volatilità<br />

relativa la volatilità del componente più volatile è sempre posta al numeratore, α è sempre<br />

maggiore di 1. Inoltre se la miscela si comporta idealmente e si mantengono costanti<br />

pressione e temperatura, α assume un valore costante su tutto il campo di composizione,<br />

uguale al rapporto delle tensioni di vapore dei due liquidi puri. In caso contrario α diviene<br />

una funzione non banale di x venendo a dipendere dai coefficienti di attività γA e γB. I<br />

coefficienti di attività possono essere misurati sperimentalmente oppure valutati mediante<br />

applicazione di opportuni modelli. In ogni caso si può riarrangiare l’equazione della<br />

volatilità relativa (9.20) per esplicitare y in funzione di x, ottenendo:<br />

αx<br />

y =<br />

1+ x α−1<br />

( )<br />

(9.21)<br />

Il processo di distillazione frazionata può allora essere studiato riportando nello stesso<br />

grafico l’Eq. (9.21) che rappresenta la composizione del vapore e l’equazione y = x che<br />

rappresenta la cosiddetta retta di lavoro a riflusso totale. Un esempio di questo tipo è<br />

riportato in Figura 62. Supponiamo ad esempio, che in una colonna di rettifica portata in<br />

condizioni di regime si effettui contemporaneamente un prelievo della miscela contenuta<br />

nel pallone (coda della distillazione) e del distillato (testa della distillazione) e che i due<br />

campioni presentino rispettivamente composizione xc e xt. Riportando questi valori sulla<br />

retta di riflusso totale e unendoli mediante una spezzata a “gradini” si può risalire al


numero di processi elementari di evaporazione<strong>–</strong>condensazione che sono avvenuti in<br />

colonna, cioè al numero di piatti teorici della colonna stessa. Infatti ciascun tratto verticale<br />

corrisponde alla vaporizzazione (cioè l’ottenimento di una fase vapore in equilibrio con la<br />

miscela liquida di pari ascissa), mentre ciascun tratto orizzontale corrisponde alla<br />

condensazione del distillato (cioè l’ottenimento di un liquido ottenuto per condensazione<br />

completa del vapore). Il numero dei piatti teorici della colonna è dunque valutabile<br />

graficamente conteggiando i “gradini” individuati.<br />

y<br />

1<br />

0.8<br />

0.6<br />

0.4<br />

0.2<br />

α 2 > α 1<br />

α 1 > α 0<br />

0<br />

0 0.2 0.4 0.6 0.8 1<br />

x c<br />

α 0 = 1 (riflusso totale)<br />

x<br />

Tale metodo grafico si applica tanto alle miscele ideali quanto alle miscele reali purché si<br />

sappia costruire la curva y = f(x). Nel caso delle miscele ideali l’Eq. (9.21) può essere<br />

esplicitata in funzione delle tensioni di vapore dei componenti puri ottenendo:<br />

• ( PA •<br />

PB) x<br />

( •<br />

A<br />

•<br />

B)<br />

y =<br />

1+ x⎡P P −1⎤<br />

⎣ ⎦<br />

106<br />

x t<br />

(9.22)<br />

nel caso delle miscele reali, invece, occorre anche saper esplicitare il rapporto dei<br />

coefficienti di attività in funzione della composizione:


• ( PA •<br />

PB)( γA γB)<br />

x<br />

( •<br />

A<br />

•<br />

B)( A B)<br />

y =<br />

1+ x⎡P P γ γ −1⎤<br />

⎣ ⎦<br />

107<br />

(9.23)<br />

La procedura descritta assume che il sistema sia mantenuto in condizioni isoterme e<br />

isobare nell’arco di tutto il processo di distillazione. Anche se a rigori in una colonna di<br />

rettifica la temperatura scende man mano che si sale lungo la colonna (salendo si<br />

incontrano frazioni più volatili che sono anche più basso-bollenti) è conveniente assumere<br />

che la temperatura rimanga costante e pari al valore medio tra le temperature normali di<br />

ebollizione dei due componenti puri. Tale approssimazione è del resto tanto più lecita in<br />

quanto le miscele che necessitano di essere sottoposte a rettifica per ottenerne la<br />

separazione presentano punti di ebollizione dei componenti che differiscono in genere di<br />

pochi gradi. Infatti tanto maggiore è la differenza dei punti di ebollizione e tanto maggiore<br />

è la differenza delle volatilità, il che comporta α 1 e, come mostrato in Figura 61, curve<br />

via via più convesse. Va da sé che una maggiore convessità della curva corrisponde ad una<br />

maggiore facilità nel separare i due componenti la miscela. Quando le temperature di<br />

ebollizione dei due componenti differiscono di 15 gradi o più si ottiene in genere una<br />

buona separazione già con una distillazione semplice.<br />

Nel caso di miscele ideali (α costante) la valutazione del numero dei piatti teorici di una<br />

colonna può anche essere effettuata con un metodo analitico. Infatti posta x0 la<br />

composizione della miscela in coda alla colonna di rettifica, per l’equazione della volatilità<br />

relativa si avrà al primo piatto:<br />

y0 x0<br />

=α<br />

1− y 1−x<br />

0 0<br />

(9.24)<br />

poiché però si è ammesso che la composizione del liquido in un dato piatto sia la stessa del<br />

vapore del piatto precedente, si avrà anche:<br />

x1<br />

y0<br />

=<br />

1−x1− y<br />

1 0<br />

pertanto si potrà scrivere per il secondo piatto:<br />

y1 1− y<br />

x1<br />

=α<br />

1−x y0 =α<br />

1− y<br />

2 x0<br />

=α<br />

1−x<br />

1 1 0 0<br />

(9.25)<br />

(9.26)<br />

Procedendo iterativamente, quando si arriva all’n-esimo piatto (in testa alla colonna dove si<br />

effettua il prelievo) si avrà:


o anche:<br />

yn<br />

n+ 1 x0<br />

=α<br />

1− y 1−x<br />

n 0<br />

y x<br />

=α<br />

1− y 1−x<br />

testa n+ 1 coda<br />

testa coda<br />

Passando ai logaritmi si può quindi ricavare:<br />

y x<br />

ln = ( n + 1) ln α+ ln<br />

1− y 1−x<br />

da cui infine si ottiene:<br />

testa coda<br />

testa coda<br />

108<br />

( 1−<br />

)<br />

( )<br />

1 ⎧⎪ y x ⎫⎪<br />

= −<br />

⎪⎩ ⎪⎭<br />

testa coda<br />

n ⎨ln ⎬ 1<br />

ln α xcoda 1−<br />

ytesta<br />

(9.27)<br />

(9.28)<br />

(9.29)<br />

(9.30)<br />

L’Eq. (9.30) permette di calcolare il numero di piatti teorici note che siano le composizioni<br />

delle miscele in testa e in coda alla colonna di rettifica e la volatilità relativa α della<br />

miscela.


10. Equilibri di fase in sistemi a due componenti: equilibri solido-liquido<br />

Gli equilibri di fase solido-liquido per sistemi a due componenti vengono generalmente<br />

rappresentati mediante grafici isobari in cui sono riportate le temperature di fusione delle<br />

miscele in funzione della composizione alla pressione fissata. L’andamento delle curve T<br />

vs. x variano sensibilmente a seconda del diverso grado di miscibilità che si registra allo<br />

stato solido, nonché a seguito della presenza di processi reattivi. Si discuteranno le<br />

tipologie principali di diagrammi di stato solido-liquido per sistemi a due componenti. È<br />

opportuno puntualizzare che tutta la discussione che segue è valida nell’ipotesi che tutte<br />

le transizioni avvengano in condizioni di equilibrio termodinamico. Questa condizione è<br />

spesso di difficile realizzazione soprattutto per le transizioni tra fasi solide.<br />

Caso A: completa miscibilità allo stato liquido e completa immiscibilità allo stato solido<br />

È il caso del sistema acqua-NaCl e rappresenta una delle situazioni più comuni. Il<br />

diagramma di stato di questo tipo di sistema è rappresentato in Figura 63.<br />

Ti<br />

TA º<br />

a b c d e<br />

A B L<br />

T1<br />

C D F<br />

T2<br />

G<br />

T3<br />

H I<br />

L<br />

TE<br />

M<br />

E<br />

xA = 1<br />

xB = 0<br />

L + A<br />

A + E B + E<br />

xb x2 x3 xE xd<br />

xB<br />

109<br />

L + B<br />

TB º<br />

xA = 0<br />

xB = 1<br />

Figura 63. Diagramma di stato solido-liquido in un sistema a due componenti<br />

completamente immiscibili allo stato solido.<br />

xA


Il grafico si presenta suddiviso in cinque zone una delle quali rappresenta la fase liquida<br />

omogenea (L), due rappresentano una situazione di equilibrio in cui si ha coesistenza del<br />

liquido con il solido (L + A ed L + B) e le due rimanenti che rappresentano il sistema allo<br />

stato solido costituito rispettivamente da una miscela di A puro più l’eutettico (A + E) e di<br />

B puro più l’eutettico (B + E). TA e TB sono le temperature di fusione dei composti A e B<br />

puri. I punti a ed e rappresentano i componenti A e B liquidi puri alla generica<br />

temperatura Ti > TA, TB<br />

. Raffreddando i due puri si osserva la solidificazione,<br />

rispettivamente alle temperature TA e TB . Se invece si raffredda una miscela liquida di<br />

composizione xb partendo sempre da Ti si osserva inizialmente il raffreddamento del<br />

liquido, poi, quando si raggiunge la curva di equilibrio solido-liquido (punto B alla<br />

temperatura T1) il sistema diventa monovariante (perché P è fissata), pertanto inizia la<br />

solidificazione del componente A puro e le fasi in equilibrio sono pertanto la miscela<br />

liquida ed il componente A puro. Corrispondentemente alla parziale solidificazione di A<br />

la fase liquida si arricchisce del componente B e di conseguenza la temperatura di<br />

equilibrio scende lungo la curva. Così, ad esempio, alla temperatura T2 le due fasi<br />

coniugate (in equilibrio) sono A puro solido e la miscela liquida di composizione x2 mentre<br />

alla temperatura T3 le due fasi coniugate sono A puro solido e la miscela liquida di<br />

composizione x3. Quando si giunge al punto E (punto eutettico), che è invariante a<br />

pressione costante, tutta la miscela liquida di composizione xE solidifica alla temperatura<br />

costante TE senza variazioni di composizione. Il solido di composizione eutettica non è una<br />

soluzione solida, ma rappresenta la coprecipitazione dei due solidi puri. Infatti se si<br />

osserva un solido eutettico mediante microscopia si osservano domini separati e alternati<br />

dei due solidi puri. Quando tutta la miscela eutettica è solidificata il sistema non è più<br />

all’equilibrio di fase e si ha solamente una fase solida costituita da una miscela di A e di<br />

eutettico. I punti A e B, C e F, G e I, L e E sono detti punti coniugati.<br />

Se viceversa si percorre il diagramma di fase in direzione opposta riscaldando ad esempio<br />

una miscela solida di composizione xb, costituita da A puro e dal solido eutettico, si<br />

osserva prima di tutto la fusione di quest’ultimo alla temperatura TE. Successivamente,<br />

terminata la fusione dell’eutettico, inizia a sciogliersi A e la miscela liquida si arricchisce in<br />

quest’ultimo “percorrendo” la curva di equilibrio fino alla temperatura T1 oltre la quale si<br />

ha un liquido monofasico di composizione xb.<br />

110


Il diagramma di stato ha anche un preciso significato quantitativo stabilito dalla cosiddetta<br />

regola della leva. Ad esempio quando la miscela b è raffreddata fino alla temperatura T2 il<br />

rapporto quantitativo (in moli o in massa se sei impiega la percentuale in peso come<br />

variabile composizione) tra solido A e miscela liquida è dato dal rapporto DF CD . Questo<br />

rapporto diventa uguale a HI GH alla temperatura T3. Alla temperatura TE il rapporto<br />

ME LM rappresenta invece il rapporto tra A puro e il solido eutettico. Ovviamente la<br />

composizione del sistema nel suo complesso rimane uguale a xb.<br />

Se si studia il raffreddamento della miscela c avente composizione eutettica si osserva la<br />

solidificazione della miscela alla temperatura costante TE senza variazioni di<br />

composizione. Analogamente studiando il sistema in riscaldamento si osserva la sola<br />

fusione dell’eutettico alla temperatura TE.<br />

Se si analizza il comportamento termico di una miscela d di composizione xd si osserva<br />

esattamente la stessa fenomenologia osservata per la miscela b, con l’unica differenza che<br />

in questo caso la fase solida coinvolta è costituita da B puro.<br />

Caso B: completa miscibilità tanto allo stato liquido che allo stato solido<br />

È un caso assai meno frequente ed il relativo diagramma di stato, riportato in Figura 64, si<br />

presenta analogo ai classici diagrammi “a lente” che si riscontrano negli equilibri liquido-<br />

vapore.<br />

La regione superiore rappresenta il campo di esistenza del liquido (L), mentre quella<br />

inferiore la regione del solido (S). La regione intermedia compresa tra le due curve indica<br />

la coesistenza delle due fasi in equilibrio tra loro. Descrivendo il diagramma di fase “in<br />

raffreddamento” la curva superiore rappresenta la curva delle temperature di<br />

solidificazione, mentre quella inferiore è la curva di composizione della fase solida. Se<br />

viceversa si legge il diagramma di stato “in riscaldamento” la curva inferiore rappresenta<br />

la curva delle temperature di fusione e quella superiore le composizioni della fase liquida.<br />

Ad esempio, raffreddando la miscela liquida b di composizione xb si osserva, alla<br />

temperatura T1, l’inizio della separazione di una fase solida di composizione x1’. I punti A<br />

e B rappresentano pertanto due fasi coniugate. Man mano che la temperatura diminuisce il<br />

sistema bifasico si “muove” lungo le due curve di equilibrio, così alla temperatura T2 la<br />

miscela liquida C di composizione x2 è in equilibrio con la soluzione solida F di<br />

111


Ti<br />

T1<br />

T2<br />

T3<br />

T4<br />

TA º<br />

xA = 1<br />

xB = 0<br />

a b e<br />

L<br />

x4<br />

G<br />

x3<br />

L<br />

C<br />

A<br />

D F<br />

H I<br />

M<br />

xB<br />

112<br />

L + S<br />

S<br />

x2 xb x3' x2' x1'<br />

B<br />

TB º<br />

xA = 0<br />

xB = 1<br />

Figura 64. Diagramma di stato solido-liquido in un sistema a due componenti<br />

con completa miscibilità sia allo stato liquido che allo stato solido.<br />

composizione x2’ e alla temperatura T3 la miscela liquida G di composizione x3 è in<br />

equilibrio con la soluzione solida I di composizione x3’. Alla temperatura T4, infine,<br />

l’ultima “goccia” di liquido L di composizione x4 è in equilibrio con la soluzione solida M<br />

di composizione xb. Non appena la temperatura scende di un ulteriore infinitesimo, il<br />

sistema torna monofasico e si ha solo la soluzione solida.<br />

Se invece si procede “in riscaldamento” alla temperatura T4 inizia la fusione e la prima<br />

frazione di miscela liquida ha composizione x4; successivamente, man mano che la<br />

temperatura si innalza, il liquido si arricchisce del componente B finché, alla temperatura<br />

T1, si scioglie l’ultima frazione di solido ottenendo un sistema monofasico di composizione<br />

xb.<br />

Caso C: completa miscibilità allo stato liquido e parziale miscibilità allo stato solido<br />

È un caso anch’esso assai frequente soprattutto nel caso di leghe metalliche. Il relativo<br />

diagramma di stato è riportato in Figura 65.<br />

xA


TA º<br />

b<br />

T1 c<br />

T1<br />

d<br />

T1<br />

Ti<br />

b<br />

T2<br />

c<br />

T2<br />

TE<br />

c<br />

T3<br />

xA = 1<br />

xB = 0<br />

a b c d e<br />

xb<br />

xc<br />

L +<br />

xd<br />

xB<br />

L<br />

113<br />

xE<br />

TB º<br />

xA = 0<br />

xB = 1<br />

Figura 65. Diagramma di stato solido-liquido in un sistema a due componenti<br />

parzialmente miscibili allo stato solido.<br />

xA<br />

f g<br />

In questo caso il grafico si presenta suddiviso in sette zone: una individua la regione di<br />

stabilità del liquido (L), due individuano rispettivamente il campo di esistenza delle<br />

soluzioni solide α e β, mentre le tre rimanenti indicano sistemi bifasici all’equilibrio<br />

costituiti rispettivamente dal liquido e la soluzione solida α (L + α), dal liquido e la<br />

soluzione solida β (L + β), da una miscela all’equilibrio della soluzione solida α con<br />

l’eutettico (a sua volta costituito da una miscela di α e β) e infine da β più l’eutettico. Se si<br />

studia il raffreddamento della miscela liquida b di composizione xb, si osserva la<br />

b<br />

separazione di una fase solida α a partire dalla temperatura T 1 , dopodichè si procede per<br />

b<br />

fasi coniugate fino alla temperatura T 2 , oltre la quale si ha solamente una soluzione solida<br />

α di composizione xb. Procedendo in riscaldamento si osserva invece la fusione a partire<br />

b<br />

b<br />

dalla temperatura T 2 e fino alla temperatura T 1 oltre il quale si ha solamente il liquido.<br />

Passando a studiare il raffreddamento della miscela c di composizione xc, si osserva la<br />

c c<br />

separazione della soluzione solida α nell’intervallo di temperatura compreso tra T 1 e T 2 ,<br />

c<br />

ma a differenza del caso precedente, alla temperatura T 3 si osserva una transizione di fase<br />

solido-solido, perché al di sotto di tale temperatura una soluzione solida α di<br />

xd<br />

L +


composizione xc non è più stabile. Si forma pertanto una fase eutettica (coniugata con α) in<br />

cui le proporzioni tra α e β variano con la temperatura al variare della composizione della<br />

fase α. In riscaldamento si osserva invece un sistema costituito da due fasi solide in<br />

c<br />

c<br />

equilibrio fino alla temperatura T 3 , poi si ha la sola fase α fino alla temperatura T 2 a cui<br />

c<br />

inizia la fusione che termina infine a T 1 .<br />

Se si studia il raffreddamento della miscela d di composizione xd, si osserva dapprima la<br />

d<br />

separazione di una soluzione solida α nell’intervallo di temperatura compreso tra T 1 e la<br />

temperatura eutettica TE, dopodichè la temperatura rimane costante finché tutto l’eutettico<br />

non è solidificato. Si ricordi che in questo caso l’eutettico è costituito da una miscela delle<br />

due soluzioni solide α e β. Solo dopo che la precipitazione dell’eutettico è terminata la<br />

temperatura riprende a scendere ed il sistema si trova all’equilibrio di fase tra i due solidi<br />

α ed eutettico le cui proporzioni e composizione cambiano al diminuire della temperatura.<br />

In riscaldamento si ha prima il sistema solido bifasico in equilibrio, quindi la fusione<br />

dell’eutettico a temperatura costante TE e la successiva progressiva fusione della soluzione<br />

d<br />

solida α che termina a T 1 oltre cui si ha un sistema liquido monofasico.<br />

Raffreddando la miscela eutettica e si osserva solamente la solidificazione alla temperatura<br />

TE senza variazione di composizione rispetto al liquido. Al di sotto di TE variano con la<br />

temperatura le composizioni delle due fasi α e β che costituiscono l’eutettico. In<br />

riscaldamento si osserva la sola fusione della miscela eutettica alla temperatura TE.<br />

La miscela f si comporta ovviamente in modo del tutto analogo a quanto osservato per la<br />

miscela d con la sola differenza che in questo caso è coinvolta la soluzione solida β anziché<br />

la α.<br />

Il sistema Stagno-Piombo mostra un diagramma di stato del tipo appena discusso.<br />

Diagrammi di stato solido-liquido in sistemi soggetti a trasformazioni chimiche<br />

I diagrammi di stato reali possono risultare estremamente complessi. D’altra parte benchè la<br />

presente trattazione non possa che essere sommaria, sarà opportuno accennare almeno ad<br />

alcune tipologie di sistemi in cui si osserva una trasformazione chimica in corrispondenza di<br />

un ben preciso valore di temperatura.<br />

114


Sistemi che presentano la formazione di composti di stechiometria definita e punto di<br />

fusione congruente<br />

Il caso più semplice di sistemi in cui si osserva una trasformazione chimica è quello in cui<br />

si ha formazione di un composto stabile di stechiometria definita e che subisce fusione<br />

senza decomporsi ad una ben precisa temperatura (punto di fusione congruente).<br />

Supponiamo ad esempio che due specie A e B formino un composto di stechiometria AxBy<br />

e che le tre specie coinvolte siano completamente miscibili allo stato liquido e<br />

completamente immiscibili allo stato solido. Il diagramma di stato avrà la forma seguente:<br />

Il diagramma è interpretabile esattamente come quelli discussi in precedenza,<br />

semplicemente considerandolo come due diagrammi di stato affiancati il primo dei quali<br />

relativo al sistema binario A<strong>–</strong>AxBy e il secondo relativo al sistema binario AxBy<strong>–</strong>B. I relativi<br />

campi di composizione saranno compresi rispettivamente tra xA = 1 e xA x B = xy(x<br />

e y<br />

coefficienti stechiometrici del composto AxBy) e tra xA x B = xye<br />

xB = 1. Il sistema mostra,<br />

115


come evidente, la formazione di due eutettici uno costituito da A e AxBy e il secondo<br />

costituito da AxBy e B.<br />

Sistemi che subiscono una trasformazione peritettica: formazione di composti di<br />

stechiometria definita che si degradano prima della fusione<br />

Può accadere che due specie chimiche A e B diano luogo alla formazione di un composto<br />

di stechiometria definita AxBy che tuttavia non è stabile al di sopra di una dato valore di<br />

temperatura e che si decompone prima di fondere. La temperatura a cui avviene la<br />

decomposizione è detta temperatura peritettica. Ovviamente il diagramma di stato potrà<br />

avere forma diversa a seconda che vi sia completa immiscibilità o parziale miscibilità allo<br />

stato solido. Nel caso di completa immiscibilità il diagramma è del tipo sotto riportato<br />

(Fig. 67).<br />

La curva tratteggiata in rosso rappresenterebbe il diagramma di stato del sistema nel caso<br />

in cui il composto AxBy fosse stabile anche al di sopra della temperatura peritettica TP. Il<br />

massimo di tale curva rappresenterebbe infatti il punto di fusione di AxBy puro.<br />

116


Analizzando in raffreddamento la miscela b di composizione xb (con xb minore della<br />

composizione stechiometrica del composto AxBy), si osserva, a partire dalla temperatura<br />

T1, la solidificazione di A puro in equilibrio con la miscela liquida costituita da A e B.<br />

Corrispondentemente il liquido si arricchisce quindi in B spostandosi lungo la curva di<br />

equilibrio fino alla temperatura peritettica TP. A questa temperatura diventa stabile il<br />

composto AxBy. Pertanto parte del solido A formatosi in precedenza si ridiscioglie per far<br />

sì che la miscela liquida raggiunga l’esatta stechiometria del composto e permettere così la<br />

solidificazione completa di AxBy. Al di sotto di TP il sistema è costituito dunque da una<br />

miscela di A e AxBy entrambi solidi. In riscaldamento invece, una volta raggiunta TP, il<br />

composto AxBy si decompone e si forma un liquido (che inizialmente ha la stessa<br />

composizione stechiometrica) da cui rapidamente si separa del solido A finché la fase<br />

liquida raggiunge la composizione di equilibrio xP. A questo punto la temperatura<br />

riprende a salire e man mano il solido A si scioglie nella miscela liquida finché, sopra a T1,<br />

si ha solamente il liquido omogeneo.<br />

Se invece si studia in raffreddamento la miscela liquida c di composizione xc, (con xc<br />

maggiore della composizione stechiometrica del composto AxBy) si osserva, a partire dalla<br />

temperatura T2, la solidificazione di A puro in equilibrio con la miscela liquida costituita<br />

da A e B. Il sistema evolve lungo la curva di equilibrio fino a TP. A questa temperatura,<br />

diventando stabile il composto AxBy, le fasi in equilibrio non saranno più il liquido e il<br />

solido A, ma il liquido ed il solido AxBy. Pertanto il solido A formatosi in precedenza<br />

dovrà ridisciogliersi mentre, contemporaneamente, si ha la solidificazione di AxBy. Solo<br />

quando il sistema si è portato nella nuova condizione di equilibrio la temperatura potrà<br />

riprendere a scendere lungo la curva di equilibrio fino ad arrivare alla temperatura<br />

eutettica TE alla quale si assiste alla solidificazione dell’eutettico costituito da AxBy e B.<br />

Una volta terminata la solidificazione dell’eutettico il sistema è costituito da una miscela di<br />

AxBy ed eutettico entrambi solidi. Procedendo invece in riscaldamento, si ha prima la<br />

fusione dell’eutettico alla temperatura TE, quindi inizia a disciogliersi AxBy e la miscela<br />

liquida si arricchisce in quest’ultimo componente finché, alla temperatura peritettica TP, il<br />

composto AxBy si decompone in A e B puri. Pertanto, man mano che ciò accade, dalla<br />

soluzione si separa A puro. Al termine della trasformazione peritettica il sistema è<br />

costituito da A solido puro in equilibrio con la miscela liquida di composizione xP.<br />

117


Successivamente la temperatura riprende a salire e si assiste alla fusione progressiva del<br />

solido A, finchè, dopo T2, si ha solamente la fase liquida omogenea di composizione xc.<br />

Per qualunque altra miscela di composizione maggiore di xP la descrizione non differisce<br />

dai casi già analizzati in precedenza.<br />

Sistemi che subiscono una trasformazione peritettica: transizione da una soluzione solida ad<br />

un’altra.<br />

Una trasformazione peritettica può anche aver luogo quando una soluzione solida β<br />

diviene stabile al di sotto di una certa temperatura. Alla temperatura peritettica si osserva<br />

pertanto la formazione di una nuova fase. Il diagramma di stato, in questo caso, è del tipo<br />

rappresentato in Figura 68.<br />

TA º<br />

Ti<br />

b<br />

T1 c<br />

T1<br />

d<br />

T1<br />

b<br />

T2<br />

c<br />

T2<br />

TP<br />

c<br />

T3<br />

xA = 1<br />

xB = 0<br />

a b c d e f g<br />

xb<br />

xc<br />

L +<br />

xd<br />

xB<br />

L<br />

118<br />

xe<br />

L +<br />

TB º<br />

xA = 0<br />

xB = 1<br />

Figura 68. Diagramma di stato solido-liquido in un sistema con trasformazione<br />

peritettica corrispondente ad una transizione tra due soluzioni solide.<br />

Raffreddando la miscela b di composizione xb, si osserva la solidificazione della soluzione<br />

b b<br />

solida α nell’intervallo di temperatura compreso tra T1 e T 2 in equilibrio con il liquido. Al<br />

di sotto di tale temperatura si ha un sistema monofasico costituito dalla soluzione solida.<br />

xA<br />

xf<br />

e<br />

T1<br />

f<br />

T1<br />

e<br />

T2<br />

f<br />

T2<br />

e<br />

T3


In riscaldamento si osserva, viceversa, la fusione della soluzione solida nello stesso<br />

intervallo di temperatura, al di sopra del quale si ha solamente il liquido.<br />

Raffreddando la miscela c di composizione xc, si osserva, analogamente al caso precedente,<br />

c<br />

la solidificazione della soluzione solida α nell’intervallo di temperatura compreso tra T1 e<br />

c<br />

c<br />

T 2 . Alla temperatura 3<br />

T , tuttavia, si interseca la curva di equilibrio solido-solido ed inizia<br />

a formarsi della soluzione solida β in equilibrio con α. Man mano che la temperatura<br />

diminuisce i rapporti e le composizioni tra le due fasi cambiano in accordo con<br />

l’andamento delle due curve di equilibrio. In riscaldamento si ha il sistema solido bifasico<br />

c<br />

in equilibrio fino alla temperatura T 3 , quindi il sistema monofasico costituito dalla sola<br />

c<br />

soluzione solida α fino alla temperatura T 2 , poi ancora una situazione di equilibrio tra la<br />

c<br />

fase α e il liquido ed infine la sola fase liquida al di sopra della temperatura T 1 .<br />

Studiando in raffreddamento il comportamento termico della miscela d di composizione<br />

xd, si osserva dapprima, in analogia con i casi precedenti, la solidificazione della soluzione<br />

c<br />

solida α nell’intervallo di temperatura compreso tra T1 e la temperatura peritettica TP. Al<br />

punto peritettico, però, diviene stabile la soluzione solida β, pertanto le due fasi in<br />

equilibrio sono dapprima α e il liquido e, una volta completata la trasformazione<br />

peritettica i due solidi α e β. Se la temperatura scende ulteriormente cambiano, come già<br />

osservato, i rapporti e le composizioni delle due fasi in equilibrio. In riscaldamento si<br />

osserva il passaggio, alla temperatura peritettica, da sistema solido bifasico in equilibrio, a<br />

sistema bifasico costituito da α più il liquido. A temperature superiori si osserva un<br />

comportamento analogo ai casi già descritti.<br />

Raffreddando la miscela e di composizione xe, si osserva, analogamente al caso precedente,<br />

e<br />

la solidificazione della fase α nell’intervallo di temperatura compreso tra T 1 e la<br />

temperatura peritettica TP. Le fasi in equilibrio, che inizialmente sono la soluzione solida α<br />

ed il liquido, diventano, quando la trasformazione peritettica è completata, la soluzione<br />

solida β e il liquido. Ciò comporta che man mano che la trasformazione avviene, α si<br />

ridiscioglie e contemporaneamente solidifica β. Abbassandosi ulteriormente la<br />

e<br />

temperatura procede la solidificazione di β finché, alla temperatura T 2 , si ha un sistema<br />

e<br />

monofasico costituito da β. Infine alla temperatura T 3 la fase β torna in equilibrio con α e<br />

tale rimane all’abbassarsi della temperatura. Procedendo in riscaldamento si passa dal<br />

119


sistema bifasico costituito da α e β al sistema monofasico costituito dalla sola fase β.<br />

Quindi inizia a formarsi il liquido in equilibrio con β finché, alla temperatura peritettica, il<br />

solido β si decompone sciogliendosi mentre contemporaneamente si solidifica la fase α. Il<br />

e<br />

sistema è bifasico (L + α) fino alla temperatura T 1 , oltre la quale si solo il liquido<br />

omogeneo.<br />

Studiando infine il raffreddamento della miscela f di composizione xf, si osserva, a partire<br />

f<br />

dalla temperatura T 1 , la formazione di una fase β in equilibrio con il liquido. Man mano<br />

f<br />

che la fase solida si separa il sistema si mantiene in equilibrio finché, alla temperatura T 2 ,<br />

rimane solamente il solido β. Parallelamente se si studia il sistema in riscaldamento, si<br />

f<br />

osserva la progressiva fusione del solido β nell’intervallo di temperatura compreso tra T 2<br />

f<br />

e T 1 , dopodiché si ha un sistema monofasico liquido omogeneo.<br />

Metodi sperimentali per lo studio dei diagrammi di stato solido-liquido<br />

Da un punto sperimentale, ricavare un diagramma di stato solido-liquido completo è una<br />

procedura alquanto lunga e complessa già per sistemi a due componenti. In pratica si<br />

tratta di preparare un certo numero di miscele e sottoporle a scansione di temperatura in<br />

un intervallo piuttosto ampio registrando i vari fenomeni. Si possono in buona sostanza<br />

distinguere tre tecniche sperimentali principali: i) l’Analisi Termica, ii) l’Analisi Termica<br />

Differenziale, iii) la Calorimetria a Scansione Differenziale.<br />

Analisi Termica e Analisi Termica Differenziale.<br />

Le procedure di analisi termica (Thermal Analysis, TA) consistono nel sottoporre un<br />

campione a riscaldamento o raffreddamento fornendo o sottraendo al campione stesso una<br />

quantità di calore costante nel tempo e registrando la sua temperatura. Si ha allora:<br />

dQP dT<br />

= CP<br />

= costante<br />

(10.1)<br />

dt dt<br />

Cioè il prodotto della capacità termica del campione a pressione costante, CP, per il<br />

gradiente di temperatura, dT dt , deve essere costante. Pertanto, quando ci troviamo in<br />

una zona monofasica del diagramma di stato, all’interno di un range di temperatura entro<br />

cui si possa assumere C P ≅ costante , si avrà anche dT dt = costante . La temperatura<br />

pertanto crescerà o diminuirà linearmente nel tempo. La pendenza della curva T(t) per un<br />

120


sistema monofasico liquido sarà tuttavia sempre minore, in valore assoluto, rispetto a<br />

quella del solido corrispondente, essendo sempre C C . Per contro, quando si osserva<br />

121<br />

liq sol<br />

P P ><br />

il passaggio di stato solido-liquido in un composto puro o in una miscela eutettica si ha<br />

dT dt = 0 , il che comporta anche per la relazione (10.1):<br />

lim<br />

T→T fus<br />

C →∞<br />

(10.2)<br />

Cioè nella transizione di fase la capacità termica del campione diverge a infinito. Quando<br />

infine la fusione o la solidificazione di una fase (solido puro o soluzione solida) avviene<br />

lungo una curva di equilibrio, la temperatura varia in modo non lineare entro un certo<br />

intervallo. Analizzando le curve di riscaldamento o di raffreddamento di miscele di<br />

diversa composizione, si può pertanto ricavare per punti l’intero diagramma di stato. Un<br />

esempio di tale procedura è fornito in Figura 69 in cui dalle curve di riscaldamento si<br />

risale al diagramma di stato nel caso di un sistema binario con completa immiscibilità nel<br />

solido.<br />

La tecnica dell’analisi termica differenziale (Differential Thermal Analysis, DTA) consiste<br />

invece nel sottoporre contemporaneamente a riscaldamento o raffreddamento un<br />

campione ed un riferimento registrando la differenza di temperatura tra i due, Δ T() t . Il<br />

riferimento deve risultare termicamente inerte nell’intervallo di temperatura esplorato. Il<br />

dispositivo sperimentale è costituito da un forno, al quale può essere applicato un<br />

gradiente di riscaldamento costante, in cui sono posti due blocchetti metallici nei quali<br />

sono ricavati due alloggiamenti per il campione ed il riferimento rispettivamente. Un<br />

sistema di termocoppie, i cui giunti sono in contatto termico diretto con il campione e con<br />

P


il riferimento, è in grado di misurare la differenza di temperatura tra i due. Quando si<br />

inizia a riscaldare il forno si osserva inizialmente una certa inerzia termica da parte dei<br />

due campioni che può anche risultare diversa. In condizione di regime, tuttavia, tanto il<br />

forno quanto i due campioni si riscaldano con lo stesso gradiente di temperatura<br />

impostato G, cioè:<br />

⎛dT ⎞ ⎛dT ⎞ ⎛dT ⎞<br />

⎜ ⎟ = ⎜ ⎟ = ⎜ ⎟ = G<br />

⎝ dt ⎠ ⎝ dt ⎠ ⎝ dt ⎠<br />

Forno Campione Rif.<br />

122<br />

(10.3)<br />

La differenza di temperatura tra campione e riferimento si manterrà pertanto pressoché<br />

nulla o comunque costante quando siamo lontani dai passaggi di stato. Tale condizione è<br />

efficacemente illustrata dal grafico seguente (Fig. 70).<br />

Temperatura<br />

Quando invece siamo in<br />

corrispondenza del passaggio di<br />

stato, la temperatura del campione<br />

rimane costante se si tratta di un<br />

composto puro o di una miscela<br />

eutettica, oppure se si tratta di una<br />

miscela generica si muove lungo la<br />

curva di equilibrio. In ogni caso la<br />

differenza tra la temperatura del<br />

campione e quella del riferimento<br />

andrà inizialmente aumentando<br />

per poi tornare al valore iniziale quando la fusione è completa. La curva registrata Δ T() t<br />

vs. t (oppure vs. T dato che siamo in condizione di gradiente di riscaldamento costante),<br />

mostrerà dei picchi, eventualmente accompagnati da spalle più o meno pronunciate, in<br />

corrispondenza delle transizioni di fase. Un esempio di come si può ricavare il diagramma<br />

di stato di un sistema binario mediante curve di analisi termica differenziale è fornito nella<br />

Figura 71.<br />

Forno<br />

tempo<br />

Riferimento<br />

Campione<br />

Figura 70. Effetto dell’inerzia termica in un apparato per<br />

analisi termica differenziale.<br />

t<br />

ΔT<br />

Dall’area di ciascun picco relativo ad un processo di fusione si può ricavare la relativa<br />

variazione entalpica associata previa calibrazione con un campione avente ΔfusH noto.


Calorimetria Differenziale a Scansione.<br />

Con un procedimento del tutto analogo a quello appena descritto, il diagramma di stato<br />

solido-liquido di un sistema binario può essere ricavato mediante Calorimetria differenziale a<br />

scansione (Differential Scan Calorimetry, DSC). Il calorimetro impiegato è del tipo “a<br />

compensazione di potenza” già descritto nel capitolo 7. L’unica differenza è che in questo<br />

caso si registra una curva Δ W( T)<br />

vs. T, anziché Δ T( T)<br />

vs. T. La costruzione grafica del<br />

diagramma di stato non differisce dal caso in cui si impieghi la tecnica DTA come è<br />

illustrato nella Figura 72.<br />

La tecnica DSC si dimostra assai più accurata ai fini della determinazione delle entalpie di<br />

fusione rispetto alla DTA. Per contro quest’ultima è da preferirsi ai fini di una accurata<br />

determinazione delle temperature di transizione.<br />

123


11. Studio di transizioni vetrose in materiali polimerici<br />

In un solido cristallino l’aumento di temperatura provoca un aumento di energia di<br />

ciascun elemento strutturale del reticolo, per cui le vibrazioni reticolari intorno ad un<br />

punto di equilibrio aumentano progressivamente di ampiezza. Quando l’energia<br />

vibrazionale supera i vincoli del sistema si ha la fusione, cioè il passaggio di stato da<br />

solido cristallino a liquido. Se in un dato reticolo cristallino ciascun elemento strutturale ha<br />

un certo numero di coordinazione, allo stato liquido si osserverà lo stesso numero di<br />

coordinazione, ma solo come risultato della media su tutte le possibili disposizioni<br />

istantanee. Lo stato liquido è pertanto “amorfo”, cioè è caratterizzato da un’assenza di<br />

ordine strutturale a lunga distanza. La stessa struttura disordinata del liquido può essere<br />

mantenuta anche allo stato solido con opportuni accorgimenti (ad esempio un rapido<br />

raffreddamento o quenching). Questo stato amorfo o vetroso non è uno stato<br />

termodinamicamente stabile ed il sistema tende a evolvere spontaneamente verso lo stato<br />

cristallino, ma in tempi che possono essere molto lunghi. Nel caso dei polimeri, che di per<br />

sé mostrano una intrinseca maggiore difficoltà a cristallizzare a causa dei complessi moti<br />

orientazionali necessari a disporre le lunghe catene secondo un dato reticolo, questa<br />

transizione da liquido molto viscoso (in pratica uno stato gommoso detto rubber like) a<br />

solido vetroso è molto importante per la stessa scienza e tecnologia dei polimeri. Molte<br />

sono infatti le proprietà che presentano discontinuità (o la cui derivata con la temperatura<br />

mostra una discontinuità) in corrispondenza della transizione vetrosa. Si deve comunque<br />

tener ben presente che a differenza delle “normali” transizioni di fase che avvengono sotto<br />

controllo termodinamico, cioè in condizioni di equilibrio, le transizioni vetrose non<br />

avvengono ad un ben preciso valore di temperatura, ma piuttosto in un range di valori di<br />

temperatura. Il valore convenzionalmente individuato della temperatura a cui avviene la<br />

transizione (Tg, glassy temperature) dipende anche entro certi limiti dalla proprietà che<br />

viene indagata sperimentalmente.<br />

Per meglio comprendere l’insieme di fenomeni cinetici e termodinamici che sottostanno ad<br />

una transizione vetrosa, può essere conveniente definire una parametro d’ordine Z(P,T) e<br />

studiarne la variazione con la temperatura e nel tempo. Z è semplicemente una funzione<br />

che associa a ciascuna coppia di valori di temperatura e pressione un valore numerico<br />

descrittivo dell’ordine locale e che pertanto può essere visto come un descrittore della<br />

124


struttura del materiale. Al diminuire di T, nell’ipotesi che la pressione rimanga costante,<br />

l’andamento di Z è rappresentato in Figura 73.<br />

Z<br />

t ∞<br />

t 2<br />

T 2<br />

t 1<br />

T*<br />

T<br />

Figura 73. Andamento del parametro d’ordine di un<br />

materiale polimerico con la temperatura.<br />

125<br />

Nell’intervallo di tempo<br />

t0<strong>–</strong>t1, la temperatura scende<br />

da T° a T*, mentre il sistema<br />

si mantiene in condizioni di<br />

equilibrio termodinamico: il<br />

parametro d’ordine, infatti,<br />

decresce in maniera lineare.<br />

Al di sotto di T* invece, il<br />

sistema non riesce a<br />

modificarsi strutturalmente<br />

con la velocità necessaria a<br />

mantenersi in condizioni di<br />

equilibrio termodinamico ed<br />

il parametro d’ordine<br />

assume un valore pressoché costante. Se però il sistema rimane per un tempo molto lungo<br />

ad una temperatura inferiore a T* (supponiamo a T = T2), tenderà ad evolvere lentamente<br />

verso la condizione strutturale che rappresenta la condizione di equilibrio termodinamico<br />

a quella temperatura, in pratica un solido cristallino. Tale condizione sarà raggiunta solo<br />

dopo un tempo molto lungo (t∞). Ovviamente ciò avviene solo se la struttura molecolare<br />

del polimero lo consente: i polimeri atattici, ad esempio, presentano asimmetrie tali nella<br />

struttura molecolare che non è fisicamente possibile disporre le molecole secondo un<br />

reticolo ordinato. La transizione vetrosa è dunque un processo controllato cineticamente<br />

ed è determinata dai valori relativi delle velocità di raffreddamento, v raffr. , e di<br />

riorganizzazione strutturale, v riorg. , del materiale. Fintantoché si ha vriorg. ≥ vraffr.<br />

il sistema<br />

riesce a mantenersi in equilibrio termodinamico, ma non appena diventa vraffr. > vriorg.<br />

il<br />

sistema rimane bloccato in uno stato amorfo. La temperatura di transizione vetrosa<br />

rappresenta dunque la soglia oltre la quale il sistema raffredda più velocemente di quanto<br />

non riesca a riorganizzarsi. Tale situazione è mostrata in Figura 74.<br />

t o<br />


Viscosità<br />

La viscosità aumenta al diminuire della temperatura, dapprima lentamente, poi<br />

η<br />

esempio:<br />

T ∞<br />

T<br />

B<br />

ln η= A +<br />

T −T∞<br />

126<br />

bruscamente in un ristretto<br />

intervallo di temperatura fino<br />

ad assumere andamento<br />

asintotico quando T scende al<br />

di sotto di un certo valore<br />

critico. Un esempio<br />

dell’andamento della viscosità<br />

con la temperatura di un<br />

materiale polimerico è mostrato<br />

in Figura 75.<br />

L’andamento osservato può<br />

essere descritto sulla base di<br />

equazioni semiempiriche, ad<br />

(Eq. di Cohen-Turnbull) (11.1)


con A e B costanti empiriche. Se si considera il rapporto tra la viscosità ad una generica<br />

temperatura T e quella alla temperatura di transizione vetrosa, si ottiene una interessante<br />

generalizzazione:<br />

dove si è posto ( )<br />

η<br />

ln<br />

η<br />

( T )<br />

( Tg<br />

)<br />

127<br />

( − )<br />

c1 Tg T<br />

=<br />

c + T −T<br />

2 g<br />

(11.2)<br />

c1 = B T0 − T∞ e c2 = T0 − T∞. L’Eq. (11.2) può anche essere riscritta<br />

passando ai logaritmi decimali ottenendo:<br />

η<br />

log<br />

η<br />

( T )<br />

( Tg<br />

)<br />

<br />

( − )<br />

c1 Tg T<br />

=<br />

c+ T −T<br />

dove c <br />

1 = 17.44 e c <br />

2 = 51.6 C per tutti i polimeri.<br />

Modulo elastico<br />

2 g<br />

(11.3)<br />

La meccanica di un cubetto di materiale soggetto a sollecitazioni che tendono ad alterarne<br />

la geometria dovrebbe essere descritta da un’equazione tensoriale. Nel caso di tensione<br />

uniassiale la legge di Hooke assume la forma:<br />

σ 11 = Eε<br />

11<br />

(11.4)<br />

dove σ11 e ε11 sono rispettivamente il primo elemento diagonale dei tensori degli sforzi e<br />

delle deformazioni e la costante di proporzionalità E è detta modulo elastico di Young.<br />

L’andamento del modulo elastico di un materiale polimerico in funzione della<br />

temperatura è del tipo mostrato in<br />

Figura 76.<br />

A temperature elevate il materiale<br />

esibisce un valore molto basso del<br />

modulo elastico che caratterizza lo<br />

stato liquido. A temperature<br />

intermedie il materiale si trova nello<br />

stato di corpo elastico, cioè uno stato<br />

liquido molto viscoso che lo fa<br />

assomigliare ad un elastomero. Infine<br />

a temperature più basse di un certo<br />

valore Ti che corrisponde al flesso<br />

E<br />

vetro<br />

Corpo elastico<br />

Ti<br />

liquido<br />

Figura 76. Andamento del modulo elastico di un materiale<br />

polimerico con la temperatura.<br />

T


della curva, il materiale si trova allo stato vetroso con un deciso aumento del modulo<br />

elastico. Il valore di Ti è ovviamente direttamente connesso al valore di Tg.<br />

Entalpia e capacità termica<br />

Diverse grandezze termodinamiche possono essere investigate per caratterizzare una<br />

transizione vetrosa. È opportuno innanzitutto mettere a confronto le variazioni dello stato<br />

entalpico e della capacità termica di un sistema in una normale transizione di fase solido<strong>–</strong><br />

liquido e in una transizione vetrosa. Nel primo caso, il sistema assorbe una notevole<br />

quantità di energia come calore latente per passare di stato a temperatura costante. Si ha<br />

pertanto:<br />

⎛dH ⎞<br />

lim ⎜ ⎟=<br />

lim CP<br />

→∞<br />

(11.5)<br />

T→Tfus dT T→T ⎝ ⎠<br />

fus<br />

Una volta completata la transizione, la capacità termica torna ad assumere un valore finito<br />

che corrisponde al CP del liquido (e quindi diverso dal valore osservato prima della<br />

transizione). Nel caso della transizione vetrosa, invece, il parametro d’ordine rimane<br />

costante, cioè non si osserva alcun riarrangiamento strutturale. Ciò significa anche che non<br />

si hanno variazioni né del numero di coordinazione medio né delle distanze<br />

intermolecolari medie e né, di conseguenza, dell’energia media di interazione. Quindi in<br />

una transizione vetrosa non<br />

si ha variazione dello stato<br />

entalpico del sistema, ma<br />

solo variazione della<br />

capacità termica. Un<br />

confronto tra gli andamenti<br />

dell’entalpia e della<br />

capacità termica in una<br />

transizione solido<strong>–</strong>liquido e<br />

in una transizione vetrosa<br />

sono mostrati in Figura 77.<br />

La transizione vetrosa può<br />

pertanto essere studiata<br />

convenientemente<br />

C P<br />

H<br />

a<br />

Figura 77. Contenuro entalpico e capacità termica al variare della<br />

temperatura. (a), fusione; (b), transizione vetrosa.<br />

128<br />

T fus<br />

temperatura<br />

C P<br />

H<br />

b<br />

T g<br />

temperatura


mediante la tecnica DSC che consente di determinare simultaneamente la temperatura di<br />

transizione, Tg, e il ΔCP di transizione. L’individuazione della Tg, rimane tuttavia<br />

arbitrario, almeno entro una certa misura, in quanto il processo non avviene ad un ben<br />

preciso valore di temperatura, ma piuttosto in un intervallo. Le procedure più comuni<br />

prevedono l’individuazione della Tg come ascissa del punto di flesso della curva CP(T). In<br />

alternativa si può impiegare il metodo on set, in cui il valore di Tg si ricava come l’ascissa<br />

del punto di intersezione tra la linea di base e la tangente alla curva CP(T) nel punto di<br />

flesso.<br />

È importante osservare che le curve DSC ottenute su campioni polimerici possono<br />

presentare altri fenomeni che si possono “sommare” alla transizione vetrosa. Il più<br />

importanti sono quelli legati a fenomeni di invecchiamento del campione (aging). Questi<br />

sono dovuti al fatto che se il campione è rimasto per tempi lunghi a temperature prossime<br />

alla Tg può essere avvenuto un consistente riarrangiamento delle molecole, che a sua volta<br />

può anche essere accompagnato dalla formazione di domini cristallini anche estesi nel<br />

solido amorfo. Questo è testimoniato dalla presenza sulla curva CP(T), in posizione vicina<br />

alla Tg, di spalle o bande che rappresentano fenomeni entalpici legati al riarrangiamento.<br />

Se si è interessati allo studio della transizione vetrosa si dovrà cercare di minimizzare tali<br />

effetti. Ciò si ottiene in genere registrando un ciclo completo riscaldamento<strong>–</strong><br />

raffreddamento veloce<strong>–</strong>riscaldamento, in modo da riportare il campione polimerico in uno<br />

stato il più amorfo possibile. Generalmente con questa procedura le bande (cosiddette di<br />

overshooting) spariscono quando si registra il secondo riscaldamento.<br />

La tecnica DSC risulta anche un utile strumento per lo studio di blend polimeriche. Queste<br />

sono costituite da miscele omogenee di due (o più) polimeri compatibili (in pratica è una<br />

situazione di miscibilità dei polimeri costituenti) e sono ottenute di solito da soluzioni in<br />

opportuno solvente per evaporazione di quest’ultimo. È importante notare che nel caso in<br />

cui i due componenti siano miscibili e si formi pertanto la blend (e non semplicemente una<br />

miscela fisica dei due, dispersi l’uno nell’altro) si osserva, mediante DSC, un’unica<br />

transizione vetrosa a temperatura intermedia tra le Tg dei due puri. In caso contrario si<br />

osserva una doppia sigmoide i cui flessi corrispondono alle Tg dei due componenti.<br />

129


TRATTAMENTO DEI DATI NELLE MISURE SPERIMENTALI<br />

12. Cenni di statistica, teoria degli errori e trattamento dati<br />

Errori nelle misure sperimentali<br />

Nel trattamento statistico dei dati sperimentali si deve tener conto del fatto che, per sua<br />

natura, ogni misura sperimentale è di per sé affetta da un certo errore. Gli errori possono<br />

essere suddivisi in due fondamentali categorie:<br />

— Errori sistematici. Gli errori sistematici dipendono da malfunzionamenti strumentali o<br />

di procedura. Essi sono piuttosto difficili da identificare e per questo insidiosi. Un<br />

esempio di errore sistematico può essere fornito dalla pesata di un prodotto effettuata<br />

in un esercizio commerciale con una bilancia truccata. Per individuare l’errore (in<br />

questo caso la frode!) occorre o una seconda bilancia con cui verificare<br />

immediatamente la pesata effettuata, oppure un peso campione con cui verificare<br />

l’efficienza della bilancia in uso all’esercizio commerciale. Così in una misura<br />

scientifica l’errore sistematico può essere individuato o mediante una misura effettuata<br />

indipendentemente con un secondo strumento (o con una procedura alternativa)<br />

oppure impiegando un campione di riferimento. Una volta evidenziato, un errore<br />

sistematico può comunque essere eliminato o tarando lo strumento di misura, o<br />

correggendo a posteriori le misure effettuate.<br />

— Errori casuali. Gli errori casuali non sono per loro natura né prevedibili né eliminabili,<br />

tuttavia la loro distribuzione obbedisce alle leggi della statistica. Il trattamento degli<br />

errori sperimentali non può pertanto prescindere da una conoscenza almeno basilare<br />

delle distribuzioni statistiche.<br />

Cenni di calcolo delle probabilità e statistica<br />

Se si lancia un dado, la probabilità che esca ad esempio il numero 5 è pari a 1/6. Più in<br />

generale la probabilità a priori di un evento è dato dal rapporto tra il numero di eventi<br />

favorevoli possibili e il numero degli eventi totali possibili. Così, per il lancio di un dado<br />

singolo, ciascun numero compreso tra 1 e 6 ha esattamente la stessa probabilità teorica (o a<br />

priori) di uscire e tale probabilità è pari a 1/6, in quanto tra i sei eventi possibili solo uno è<br />

130


quello favorevole (cioè quello in cui esce il numero prescelto). Se passiamo a considerare il<br />

lancio di due dadi e ci chiediamo qual è la probabilità di una specifica combinazione (ad<br />

esempio che il primo dado si fermi sul 4 ed il secondo sul 2) troviamo che, essendo i due<br />

lanci indipendenti l’uno dall’altro, la probabilità totale è semplicemente il prodotto delle<br />

probabilità a priori dei due eventi e pertanto: P = ( 16) ⋅ ( 16) = ( 136)<br />

. Se invece siamo<br />

interessati a conoscere la probabilità teorica che dal lancio di due dadi esca un certo<br />

numero come somma dei due, occorre tener conto anche del numero di modi in cui l’uscita<br />

di un certo numero si può realizzare. Ad esempio il numero 5 può uscire come risultato<br />

delle seguenti combinazioni: 1-4, 2-3, 3-2, 4-1. La probabilità che esca il numero 5 è<br />

pertanto data dalla somma delle probabilità di ciascuna di queste combinazioni:<br />

P = 4⋅( 1 6) ⋅ ( 1 6) = ( 4 36) = ( 1 9)<br />

. Le combinazioni per ciascuna uscita possibile (da 2 a 12)<br />

e la probabilità corrispondente sono riportate nella seguente tabella.<br />

Numero<br />

risultante<br />

Possibili combinazioni<br />

131<br />

Numero di modi di<br />

realizzare l’uscita<br />

Probabilità<br />

teorica<br />

2 1-1 1 136<br />

3 1-2, 2-1 2 118<br />

4 1-3, 2-2, 3-1 3 112<br />

5 1-4, 2-3, 3-2, 4-1 4 19<br />

6 1-5, 2-4, 3-3, 4-2, 5-1 5 536<br />

7 1-6, 2-5, 3-4, 4-3, 5-2, 6-1 6 16<br />

8 2-6, 3-5, 4-4, 5-3, 6-2 5 536<br />

9 3-6, 4-5, 5-4, 6-3 4 19<br />

10 4-6, 5-5, 6-4 3 112<br />

11 5-6, 6-5 2 118<br />

12 6-6 1 136<br />

Se si riporta sotto forma di istogramma la probabilità associata a ciascun numero<br />

compreso tra 2 e 12 si ottiene un grafico del tipo riportato in Figura 78.<br />

Ovviamente tutto ciò non significa che se si effettuano 36 lanci uscirà sei volte il numero 7,<br />

cinque volte rispettivamente il 6 e l’8, quattro volte il 5 e il 9, tre volte il 4 e il 10, due volte<br />

il 3 e l’11 ed una volta ciascuno il 2 e il 12. Significa piuttosto, che se si eseguono un gran<br />

numero di lanci, le probabilità a posteriori di ciascun numero (cioè il numero di volte in<br />

cui quel numero esce effettivamente diviso il numero totale di lanci effettuati) tenderanno


al valore previsto dalla probabilità teorica. Tale caratteristica è detta talvolta Legge dei<br />

grandi numeri, proprio perché necessitano un gran numero di misure affinché il valore<br />

della probabilità a posteriori e a priori coincidano.<br />

P<br />

0.20<br />

0.15<br />

0.10<br />

0.05<br />

0<br />

2 4 6 8 10 12<br />

Figura 78. Probabilità teorica delle uscite nel lancio di due dadi.<br />

Consideriamo adesso un esempio che viene talvolta indicato come il “cammino<br />

dell’ubriaco”. Supponiamo in pratica che un ubriaco esca da un bar e, dato il suo stato,<br />

inizi a camminare muovendo una serie di passi ciascuno dei quali può essere o verso<br />

destra o verso sinistra in modo del tutto casuale. Per ogni singolo passo la probabilità<br />

teorica che questo sia verso destra (o analogamente verso sinistra) è pari a 12 cioè è pari<br />

al numero di eventi favorevoli (passo a destra) diviso il numero di eventi possibili (passo a<br />

destra o passo a sinistra). Dopo un certo numero n di passi, supponiamo 4, l’ubriaco potrà<br />

dunque trovarsi o quattro passi a destra oppure 2 passi a destra, oppure nella posizione di<br />

partenza, oppure 2 passi a sinistra, oppure infine 4 passi a sinistra. Se ad esempio<br />

assumiamo verso positivo per il movimento verso destra, potremo dire che l’ubriaco dopo<br />

4 passi potrà trovarsi in corrispondenza di una delle coordinate +4, +2, 0, -2, -4, oppure su<br />

un asse avente solo verso positivo, potremo individuare la posizione riportando come<br />

coordinata il solo numero di passi compiuti a destra (0, 1, 2, 3, 4). Ciascuna di queste<br />

eventualità sarà la combinazione di diverse possibili sequenze di passi verso destra o<br />

verso sinistra e la probabilità associata sarà sempre data dal prodotto delle probabilità di<br />

ogni singolo evento (passo a destra o passo a sinistra) per il numero di modi di realizzare<br />

una certa combinazione di eventi. Le possibili combinazione e le relative probabilità per il<br />

132


caso n = 4 sono riportate nella tabella seguente.<br />

Pos. dopo<br />

n passi<br />

Passi a<br />

destra<br />

Possibili sequenze di passi Complessione Probabilità<br />

teorica<br />

-4 0<br />

SSSS 1 116<br />

-2 1 SSSD, SSDS, SDSS, DSSS 4 14<br />

0 2 SSDD, SDSD, SDDS, DSDS, DDSS, DSSD 6 38<br />

2 3 DDDS, DDSD, DSDD, SDDD 4 14<br />

4 4 DDDD 1 116<br />

In pratica ogni sequenza ha probabilità 116 essendo il prodotto della probabilità di ogni<br />

singolo evento che è 12. Tale probabilità va moltiplicata per il numero di modi in cui può<br />

essere realizzata: così ad esempio la posizione +2 può essere raggiunta o con 3 passi<br />

consecutivi a destra e 1 a sinistra, o con 2 passi a destra, 1 a sinistra e 1 di nuovo a destra, o<br />

con 1 passo a destra, 1 a sinistra e 2 a destra, o, infine con 1 passo a sinistra e 3 consecutivi<br />

a destra. Il numero di modi di realizzare una sequenza, detto anche complessione di quella<br />

certa sequenza, può essere calcolato mediante un semplice calcolo combinatoriale. Infatti<br />

se indichiamo con k il numero di passi a destra, la complessione di una sequenza di n passi<br />

di cui k a destra sarà data dal numero di combinazioni di n elementi di classe k, cioè dal<br />

coefficiente binomiale:<br />

⎛n⎞ n!<br />

⎜<br />

k<br />

⎟=<br />

(12.1)<br />

⎝ ⎠ k! ( n−k) !<br />

Nel caso considerato, la posizione +2 è raggiungibile solo se su un totale di 4 passi 3 sono a<br />

destra e pertanto la relativa complessione risulta:<br />

⎛4⎞ 4! 4⋅ 3 ⋅ 2 ⋅1<br />

⎜<br />

3<br />

⎟=<br />

=<br />

4<br />

⎝ ⎠ 3! ( 4− 3 ) ! 3 ⋅ 2 1 1 =<br />

⋅ ⋅<br />

133<br />

( ) ( )<br />

(12.2)<br />

La probabilità che di 4 passi 3 siano stati fatti a destra, P4(3), e che quindi il nostro ubriaco<br />

si trovi alla coordinata +2 è dunque calcolabile come:<br />

4<br />

4 1 1 1<br />

⎛ ⎞⎛ ⎞<br />

P4<br />

( 3) = ⎜<br />

3<br />

⎟⎜ ⎟<br />

⎝ ⎠⎝2⎠<br />

= 4⋅<br />

=<br />

16 4<br />

(12.3)<br />

In modo del tutto generale si può allora ricavare la probabilità che su n passi totali k siano<br />

stati fatti a destra:


n<br />

⎛n⎞⎛1⎞ Pn( k)<br />

= ⎜<br />

k<br />

⎟⎜ ⎟<br />

(12.4)<br />

⎝ ⎠⎝2⎠<br />

È anche interessante notare che nel caso in cui l’ubriaco non abbia completamente perso la<br />

cognizione della direzione di casa, l’Eq. (12.4) può facilmente essere modificata tenendo<br />

conto che la probabilità associata ad ogni singolo passo a destra o a sinistra non è la stessa.<br />

Se ad esempio ipotizziamo che la casa dell’ubriaco si trovi a destra e che quindi la<br />

probabilità di un passo in questa direzione (p) sia maggiore della probabilità di una passo<br />

in direzione opposta (q), allora l’Eq. (12.4) si modifica nella forma:<br />

⎛n⎞ k n−k Pn( k) = ⎜ pq<br />

k<br />

⎟<br />

(12.5)<br />

⎝ ⎠<br />

Riportando in forma di istogramma la distribuzione delle probabilità espressa mediante<br />

l’Eq. (12.4) nel caso n = 10 si ottiene il grafico riportato in Figura 79. Tale distribuzione<br />

prende il nome di distribuzione binomiale.<br />

P 10 (k)<br />

0.25<br />

0.20<br />

0.15<br />

0.10<br />

0.05<br />

0<br />

-1 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11<br />

Come è facile osservare dall’Eq. (12.4), mentre il fattore ( 12) n decresce rapidamente con<br />

n, il coefficiente binomiale mostra valori sempre più grandi in corrispondenza del<br />

massimo della distribuzione. Come conseguenza la distribuzione diviene sempre più<br />

stretta intorno al valore massimo che pure diminuisce progressivamente al crescere di n.<br />

Ovviamente deve valere una condizione di normalizzazione, cioè la somma delle<br />

probabilità deve essere uguale all’unità, quindi:<br />

134<br />

k


n n<br />

n<br />

⎛n⎞⎛1⎞ ⎜<br />

k= 0 k=<br />

0 k<br />

⎟<br />

⎝ ⎠⎝2⎠<br />

come è facilmente verificabile, almeno per valori di n piccoli.<br />

∑Pn( k)<br />

= ∑ ⎜ ⎟ = 1<br />

(12.6)<br />

Ora la distribuzione rappresentata da equazioni come la (12.4) o la (12.5), è una funzione<br />

+<br />

discontinua a variabili discrete ( f : → )<br />

. Per valori di n molto grandi risulta allora<br />

+ +<br />

conveniente utilizzare al suo posto una funzione continua ( f : → )<br />

135<br />

che mostri<br />

analogo andamento a campana. Tale funzione esiste e corrisponde ad una Gaussiana<br />

normalizzata, cioè una funzione della forma:<br />

( )<br />

( ) 2<br />

f x =<br />

x−xmax 1 − 2<br />

e 2σ<br />

2<br />

2πσ<br />

§ (12.7)<br />

Un confronto tra una distribuzione binomiale nel caso n = 50 (istogramma) e una<br />

Gaussiana (curva continua) è mostrato in Figura 80.<br />

P 50 (k)<br />

0.12<br />

0.10<br />

0.08<br />

0.06<br />

0.04<br />

0.02<br />

0<br />

0 10 20 30 40 50<br />

§ La condizione di normalizzazione è ricavabile integrando la funzione gaussiana nella forma generale:<br />

( )<br />

( )<br />

2<br />

x−x0 −<br />

2<br />

2σ<br />

f x = Ae tra - ∞ e +∞ e uguagliando a 1. La primitiva della funzione integranda non esiste, ma esiste<br />

+∞<br />

2<br />

+∞<br />

2 2<br />

ed è finito il suo integrale tra - ∞ e +∞-:<br />

k<br />

2 2 2 2<br />

−( x−x0) σ −( x−x0) σ<br />

Ae dx = A e<br />

dx = A 2πσ<br />

∫ ∫ . Uguagliando<br />

−∞ −∞<br />

a 1 si ottiene per il fattore preesponenziale: A = 1 2πσ<br />

.<br />

2


L’aspetto importante della funzione (12.7) è che, in virtù della condizione di<br />

normalizzazione, porzioni di area diverse sottese alla curva rappresentano altrettante<br />

probabilità cumulative. Così, per quanto riguarda l’esempio riportato in Figura 79, l’area<br />

della Gaussiana compresa diciamo tra 20 e 25 corrisponde con buona approssimazione alla<br />

somma delle probabilità che l‘esito del cammino del nostro ubriaco sia compreso tra 20 e<br />

25 passi a destra, cioè a:<br />

25<br />

∑ P50 ( k)<br />

(12.8)<br />

k=<br />

20<br />

L’accordo tra probabilità cumulativa ottenuta come somma di termini discreti e come area<br />

sottesa alla curva gaussiana è tanto migliore quanto più n è grande. Ovviamente la<br />

funzione(12.7) può assumere una forma più o meno piccuta a seconda del valore del<br />

parametro σ. Infatti studiandone i flessi, si trova che le ascisse corrispondenti si trovano a<br />

x= xmax<br />

±σ, pertanto la larghezza della Gaussiana nei punti di flesso corrisponde a 2σ.<br />

Nella pratica tuttavia, ogniqualvolta si deve desumere il parametro σ di una distribuzione<br />

gaussiana dall’andamento grafico si valuta 2σ come larghezza della campana a metà<br />

dell’altezza con un errore in genere trascurabile. Tornando dunque alle aree sottese alla<br />

curva gaussiana, è utile considerare gli intervalli di integrazione in termini di unità σ. Si<br />

potrà allora affermare che in una Gaussiana qualunque, l’area sottesa tra xmax −σ e<br />

x max +σ corrisponde a al 66% dell’area totale; analogamente quella sottesa tra xmax −2σ e<br />

max 2 x + σ rappresenta il 95% dell’area totale e quella sottesa tra max 3 x − σ e max 3 x + σ<br />

addirittura il 99%. In una Gaussiana normalizzata ciò corrisponde ovviamente, nei tre casi<br />

citati, ad un’area pari a 0.66, 0.95 e 0.99, rispettivamente. Ciò corrisponde anche, in termini<br />

di probabilità cumulativa, ad affermare che la variabile statistica considerata, x, ha una<br />

probabilità del 66% di rientrare nell’intervallo compreso tra xmax −σ e x max +σ e così via.<br />

Come già puntualizzato, le probabilità rappresentate dalle distribuzioni analizzate sono<br />

probabilità teoriche o a priori. Tuttavia, per la legge dei grandi numeri, le frequenza<br />

statistiche o probabilità a posteriori, tendono ad assomigliare tanto più alla distribuzione<br />

teorica quanto più il numero di prove è elevato. Così se si ripete molte volte l’esperimento<br />

dell’ubriaco, la frequenza di ciascun evento (x passi a destra) divisa per il numero totale di<br />

prove, tenderà sempre più al valore teorico calcolabile mediante l’Eq. (12.7) man mano che<br />

il numero di prove effettuate aumenta. Inoltre il massimo della distribuzione tenderà<br />

136


sempre più a coincidere con il valore medio della variabile statistica x e quindi con il<br />

massimo della distribuzione teorica xmax.<br />

Errori casuali e curva di distribuzione normale dell’errore<br />

Come già osservato gli errori casuali non sono di per sè né prevedibili né eliminabili.<br />

Tuttavia la loro natura di evento stocastico fa sì che ad essi possano essere applicate le<br />

leggi della statistica.<br />

Supponiamo allora di compiere N volte la misura sperimentale di una grandezza x. Per<br />

quanto già osservato, le misure effettuate risulteranno addensate intorno ad un valore<br />

medio x definito come:<br />

N<br />

x = ∑ x N<br />

(12.9)<br />

i=<br />

1<br />

Ciascuna misura xi sarà affetta da un errore sperimentale di natura casuale εi che sarà<br />

definito dalla relazione:<br />

i<br />

i xi x∗ ε = − (12.10)<br />

Dove x ∗ rappresenta il valore vero della grandezza che andiamo a misurare. Ora il valore<br />

vero di una grandezza è di per sé inconoscibile e conseguentemente anche l’errore su ogni<br />

singola misura risulta inconoscibile. Sarà allora opportuno riferirsi non tanto all’errore di<br />

ciascuna misura, quanto piuttosto allo scarto rispetto al valore medio. Si definisce pertanto<br />

scarto di una misura ξ i la quantità:<br />

ξ = x − x<br />

(12.11)<br />

i i<br />

Lo scarto delle misure risulta distribuito in modo non dissimile dalla distribuzione dei<br />

passi nell’esperimento del cammino dell’ubriaco. Se l’insieme delle misure effettuate<br />

vengono suddivise in intervalli di uguale ampiezza δ centrati intorno al valor medio x ,<br />

⎡ 5 3 ⎤ ⎡ 3 1 ⎤ ⎡ 1 1 ⎤ ⎡ 1 3 ⎤ ⎡ 3 5 ⎤<br />

⋅⋅⋅<br />

⎢<br />

x− δ, x− δ<br />

⎥<br />

,<br />

⎢<br />

x− δ, x− δ<br />

⎥<br />

,<br />

⎢<br />

x− δ , x+ δ<br />

⎥<br />

,<br />

⎢<br />

x+ δ , x+ δ<br />

⎥<br />

,<br />

⎢<br />

x+ δ , x + δ<br />

⎥<br />

⋅⋅⋅ e si<br />

⎣ 2 2 ⎦ ⎣ 2 2 ⎦ ⎣ 2 2 ⎦ ⎣ 2 2 ⎦ ⎣ 2 2 ⎦<br />

riportano sotto forma di istogramma le frequenze di ciascun intervallo (cioè il numero di<br />

misure che cadono in esso), si ottiene un andamento del tutto analogo a quello degli<br />

istogrammi delle figure 78 e 79 e se si riduce progressivamente l’ampiezza degli intervalli<br />

fino ad ampiezze infinitesime la distribuzione è descrivibile mediante una Gaussiana.<br />

Poiché per la legge dei grandi numeri la distribuzione delle frequenze deve tendere a<br />

quella teorica quando N è grande, allora per lo stesso motivo il valor medio deve tendere<br />

137


al valore vero. Questo ci consente di affermare che: a) il valor medio x è la migliore<br />

approssimazione che siamo in grado di ottenere del valore vero x ∗ della grandezza<br />

misurata; b) le misure affette da errore casuale sono distribuite in modo simmetrico<br />

intorno al valore vero della grandezza misurata e la loro distribuzione in intervalli discreti<br />

è di tipo binomiale; c) maggiore è il numero delle misure effettuate e minore l’ampiezza<br />

degli intervalli e tanto meglio la distribuzione delle misure è descritta da una curva<br />

gaussiana. È in genere conveniente considerare, anziché la distribuzione delle misure<br />

sperimentali intorno al valor medio, direttamente la distribuzione degli scarti intorno allo<br />

scarto medio che, come si dimostra facilmente è uguale a zero. Infatti:<br />

La funzione Gaussiana:<br />

N N N N<br />

∑ ξi ∑ ( xi −x)<br />

∑ xi ∑ x N x<br />

i= 1 i= 1 i= 1 i=<br />

1<br />

ξ= = = − = x −<br />

N N N N<br />

1<br />

f ( ξ ′ ) = e<br />

2π<br />

138<br />

2<br />

ξ′<br />

−<br />

2<br />

N<br />

= 0 (12.12)<br />

(12.13)<br />

differisce dall’Eq. (12.7) per il fatto di essere centrata sull’origine anzichè intorno al valore<br />

xmax, e per essere definità in funzione di uno scarto ridotto ′<br />

ξ=ξσ. In questo modo essa<br />

risulta definita in unità σ assumendo dunque carattere del tutto generale. Essa viene detta<br />

perciò curva di distribuzione normale dell’errore o più semplicemente curva normale<br />

dell’errore. La curva normale dell’errore è riportata in Figura 81.<br />

P(ξ')<br />

0.4<br />

0.3<br />

0.2<br />

0.1<br />

0<br />

-5 -4 -3 -2 -1 0 1 2 3 4 5<br />

ξ'


Per capire come è possibile che la curva normale dell’errore abbia un significato e<br />

un’applicabilità del tutto generali occorre notare che se è vero che le distribuzioni delle<br />

misure sperimentali possono risultare più o meno slargate a seconda dell’eterogeneità del<br />

campione statistico, queste differenze scompaiono se gli scarti sono riportati in unità σ. In<br />

proposito è importantissimo sottolineare che l’eterogeneità di un campione statistico<br />

costituito da N misure sperimentali può essere espressa in termini quantitativi mediante la<br />

sua varianza, definita come la somma dei quadrati degli scarti divisa per N <strong>–</strong> 1:<br />

N N<br />

2<br />

∑ ∑<br />

139<br />

( ) 2<br />

x x<br />

ξ i −<br />

2 i= 1 i=<br />

1<br />

σ = =<br />

N−1 N−1<br />

o mediante la sua deviazione standard che corrisponde alla radice quadrata della varianza:<br />

σ=<br />

N<br />

∑<br />

i=<br />

1<br />

( ) 2<br />

x − x<br />

i<br />

N − 1<br />

(12.14)<br />

(12.15)<br />

Quanto affermato consente di stabilire una procedura statisticamente corretta per la<br />

determinazione di una grandezza sperimentale e per la valutazione dell’errore da cui può<br />

essere affetta. Infatti, poiché come si è visto l’area sottesa alla Gaussiana nell’intervallo<br />

[ −σ , +σ ] ( o [ 1, 1]<br />

− + nella curva normale dell’errore) corrisponde a 0.66, si può affermare<br />

che con una probabilità pari al 66% il valore vero della grandezza misurata cadrà<br />

nell’intervallo [ x , x ]<br />

−σ +σ dove il valor medio x è calcolato mediante l’Eq. (12.9) e la<br />

deviazione standard σ mediante l’Eq. (12.15). Tutto ciò corrisponde a individuare un<br />

intervallo di confidenza la cui scelta, in unità σ, rimane comunque arbitraria. Le scelte più<br />

comuni adottano intervalli di confidenza pari a ±σ o ± 2σ.<br />

Una misura sperimentale<br />

dovrebbe pertanto essere sempre riportata nella forma:<br />

( oppure 2 )<br />

x= x±σ x= x±<br />

σ (12.16)<br />

È infine opportuno segnalare che una volta nota la forma di una distribuzione (sia essa<br />

discreta o continua) di una certa grandezza sperimentale, il valor medio può essere<br />

calcolato sommando tutti i possibili valori ciascuno pesato per la relativa probabilità:<br />

+∞<br />

x = ∑ x P x oppure x = ∫ xP( x)dx (12.17)<br />

n<br />

i=<br />

1<br />

( )<br />

i i<br />

−∞


dove in pratica la sommatoria è estesa non a tutte le N misure sperimentali, ma a tutti gli n<br />

possibili valori assunti dalla variabile e P( x i ) rappresenta la probabilità di ciascun valore.<br />

Propagazione degli errori sulle grandezze sperimentali<br />

Ogniqualvolta si determina mediante il calcolo una grandezza che sia funzione di quantità<br />

misurate sperimentalmente, è buona norma stimare anche come l’errore sperimentale si<br />

ripercuote sulla grandezza calcolata. In primo luogo è opportuno considerare la<br />

propagazione dell’errore in termini di errore massimo.<br />

Propagazione dell’errore massimo<br />

L’errore massimo su una quantità misurata non tiene conto della distribuzione dell’errore<br />

come indicato in precedenza, ma semplicemente valuta nel caso più sfavorevole tutte le<br />

possibili fonti di errore. Come tale, sebbene meno indicativo della bontà di una misura, è<br />

di più facile applicazione perché non richiede l’effettuazione di esperimenti ripetuti.<br />

L’errore massimo si impiega in genere quando gli strumenti usati non sono molto sensibili<br />

né si osservano fluttuazioni casuali delle grandezze misurate. In genere si stima l’errore<br />

massimo su ogni singola misura pari alla risoluzione dello strumento. Così, ad esempio, in<br />

una misura di lunghezza lineare effettuata con un metro a stecche la risoluzione è pari a<br />

± 1 mm e tale può anche essere stimato l’errore massimo sulla misura. Poiché<br />

(auspicabilmente!) l’errore è piccolo rispetto alla grandezza che si misura, si può ipotizzare<br />

che la sua propagazione sia approssimabile ad un’espansione in serie che viene in genere<br />

troncata al primo ordine. Se ad esempio si vuol calcolare la quantità f a partire dalle<br />

grandezze a, b, c, …n tutte determinate sperimentalmente e per le quali si possono stimare<br />

gli errori massimi Δa, Δb, Δc,… Δn, si potrà scrivere:<br />

e:<br />

( , , , )<br />

f = f abc… n<br />

(12.18)<br />

∂f ∂f ∂f ∂f<br />

Δ f = Δ a+ Δ b+ Δ c+ + Δn<br />

(12.19)<br />

∂a ∂b ∂c ∂n<br />

dove le derivate parziali sono valutate in corrispondenza dei valori misurati e dove i<br />

valori assoluti si rendono necessari per riferirsi sempre alla situazione più sfavorevole in<br />

cui tutti gli errori si sommano. Dall’Eq. (12.19) si possono ricavare delle semplici relazioni<br />

che mostrano la propagazione dell’errore massimo nel caso delle quattro operazioni. Tali<br />

relazioni sono raccolte nella tabella seguente.<br />

140


Operazione Esempio Propagazione dell’errore massimo<br />

somma a+ b Δ f =Δ a+Δ b<br />

differenza a− b Δ f =Δ a+Δ b<br />

prodotto ab ⋅ Δ f = bΔ a+ aΔ b<br />

rapporto ab Δ = ( Δ − Δ )<br />

Errore relativo e propagazione sull’errore relativo<br />

141<br />

f b a a b b<br />

Molto spesso, quando si misura una grandezza x, è utile, oltre che più significativo<br />

fisicamente, stimare l’errore o incertezza relativa su quella grandezza piuttosto che il suo<br />

errore assoluto (o incertezza assoluta). Si definisce errore relativo il rapporto:<br />

2<br />

Δx<br />

Δ xrelativo<br />

= (12.20)<br />

x<br />

o anche, in termini di errore relativo percentuale:<br />

Δx<br />

Δ x%<br />

= × 100<br />

(12.21)<br />

x<br />

Il calcolo della propagazione sull’errore relativo è particolarmente semplice nel caso di<br />

funzioni che siano il prodotto o il rapporto di due o più grandezze determinate<br />

sperimentalmente. Infatti è sufficiente osservare che l’errore relativo coincide con l’errore<br />

assoluto sul logaritmo della funzione:<br />

Δx<br />

Δ ( ln x)<br />

= (12.22)<br />

x<br />

Allora per una funzione f = a⋅ b si ha:<br />

ln f = ln a+ ln b<br />

(12.23)<br />

e ricavando l’errore assoluto sulla funzione (12.23) mediante la relazione (12.19) si trova:<br />

Δf Δa Δb<br />

Δ ( ln f ) = =Δ ( ln a) +Δ ( ln b)<br />

= + (12.24)<br />

f a b<br />

Analogamente per una funzione f = a b si ha ln f = ln a−ln be<br />

per l’errore si trova ancora<br />

un’espressione identica all’Eq. (12.24). Pertanto in una funzione che sia il prodotto o il<br />

rapporto di due quantità sperimentali, l’errore relativo è pari alla somma degli errori<br />

relativi delle due grandezze.


Propagazione dell’errore in termini di deviazione standard<br />

Come si è visto, quando si effettuano misure di una certa precisione, nelle quali si<br />

osservano piccole fluttuazioni intorno ad un valor medio, la stima dell’errore, come<br />

dispersione intorno a tale valore, è fornita dalla deviazione standard. Ci si propone<br />

dunque di trovare come la deviazione standard di una grandezza che sia funzione di altre<br />

grandezze misurate sperimentalmente dipende dalle deviazioni standard di queste ultime.<br />

Consideriamo dapprima il caso semplice di una funzione di una sola variabile y = f ( x)<br />

e<br />

supponiamo che x e σx siano rispettivamente il valor medio e la deviazione standard della<br />

variabile sperimentale x.<br />

Definiamo valore di aspettazione della funzione f la quantità:<br />

k<br />

[ ] ( ) ( )<br />

E f = ∑ f x P x<br />

(12.25)<br />

i=<br />

1<br />

142<br />

i i<br />

è evidente che nel caso semplice f ( x) = x l’Eq. (12.25) coincide con l’Eq. (12.17) e si<br />

ottiene:<br />

E[ f] = E[ x] = x<br />

(12.26)<br />

Ora se espandiamo in serie di Taylor la funzione y intorno al punto x otteniamo:<br />

2<br />

1 2 ⎛ ⎞<br />

⎜ 2 ⎟<br />

x 2<br />

x<br />

⎛df ⎞<br />

y = f ( x) + ( x− x) ⎜ ⎟<br />

⎝dx ⎠<br />

+ ( x− x)<br />

d f<br />

⎝dx ⎠<br />

+ (12.27)<br />

In questo caso il valore di aspettazione della funzione y sarà allora:<br />

2<br />

⎛df ⎞ ⎡12⎛df⎞ ⎤<br />

i ⎜ ⎟<br />

i ⎜ 2 ⎟<br />

⎝dx ⎠x ⎢2dx x ⎥<br />

⎡ ⎤<br />

Ey [ ] = E⎡⎣f( x) ⎤⎦+ E⎢( x− x) ⎥+<br />

E⎢ ( x− x)<br />

⎥+<br />

=<br />

⎣ ⎦ ⎣ ⎝ ⎠ ⎦<br />

n<br />

∑ f x P xi i= 1<br />

n ⎡<br />

∑⎢ xi i= 1⎣ x<br />

⎛df ⎞ ⎤<br />

⎜ ⎟ ⎥P<br />

xi ⎝dx ⎠x⎦ n ⎡1 ∑<br />

i= 1⎢⎣<br />

2<br />

xi x<br />

2 ⎛df⎞ ⎤<br />

⎜ P x<br />

2 ⎟ i<br />

⎝ dx ⎠x⎥⎦<br />

n<br />

f ( x) ∑P( xi) i= 1<br />

n<br />

⎛df ⎞<br />

⎜ ⎟ ∑(<br />

xi ⎝dx ⎠xi= 1<br />

x) P( xi) 2<br />

1 ⎛df⎞ n<br />

2<br />

x<br />

2 ∑(<br />

i − x) P( xi)<br />

+<br />

2 ⎝ dx ⎠xi=<br />

1<br />

2<br />

( ) ( ) ( ) ( ) ⎢ ( ) ⎥ ( )<br />

= + − + − + =<br />

= + − + ⎜ ⎟<br />

dove si è considerato che i termini ( )<br />

2 ⎛ ⎞<br />

⎜ 2 ⎟<br />

x x<br />

⎛df⎞ d f<br />

f x , ⎜ ⎟ e<br />

⎝dx ⎠ ⎝ dx ⎠<br />

sommatoria vale 1 per la condizione di normalizzazione:<br />

n<br />

<br />

(12.28)<br />

sono costanti. Ora la prima<br />

∑ P( xi)<br />

= 1<br />

(12.29)<br />

i=<br />

1<br />

La seconda sommatoria rappresenta il valor medio degli scarti dalla media che è nullo:


n<br />

∑ ( xi -x) P( xi)<br />

= 0<br />

(12.30)<br />

i=<br />

1<br />

Infine la terza sommatoria rappresenta il valore di aspettazione dello scarto quadratico,<br />

cioè lo scarto quadratico medio della grandezza sperimentale x:<br />

n<br />

2 2<br />

∑ ( xi − x) P( xi)<br />

=σx<br />

(12.31)<br />

i=<br />

1<br />

Tenuto conto dei risultati delle (12.29), (12.30) e (12.31) l’Eq. (12.28) assume la forma:<br />

143<br />

2 ⎛d f ⎞<br />

⎜ 2 ⎟<br />

⎝dx ⎠x<br />

1<br />

2<br />

Ey [ ] = f( x)<br />

+ σ x + (12.32)<br />

2<br />

Dall’Eq. (12.32) si deduce pertanto che qualora la funzione sia lineare (le derivate a partire<br />

dalla seconda sono nulle) o quando i termini del 2° ordine e superiori sono trascurabili, si<br />

ha semplicemente:<br />

Inoltre esprimendo<br />

y rispetto al suo valor medio y , si avrà:<br />

Ey [ ] = y= f( x)<br />

(12.33)<br />

2<br />

σ y come valore di aspettazione dello scarto quadratico della funzione<br />

( ) ( ) 2<br />

2<br />

σ = ⎡⎡ − ⎤ ⎤<br />

y E<br />

⎢⎣ ⎣ f x f x ⎦<br />

(12.34)<br />

⎥⎦<br />

e esprimendo f ( x ) mediante l’espansione in serie (12.27) troncata al primo ordine la<br />

(12.34) diventa:<br />

Da cui segue infine:<br />

y<br />

⎡⎡ E⎢⎢ f x<br />

⎢⎣⎣ ⎛df ⎞<br />

⎜ ⎟<br />

⎝dx ⎠x<br />

2<br />

⎤ ⎤<br />

⎥ ⎥ =<br />

⎦ ⎥⎦<br />

⎡<br />

= E⎢( x− x) ⎢⎣ 2 2<br />

⎛df ⎞ ⎤ ⎛df ⎞<br />

⎜ ⎟ ⎥ = ⎜ ⎟ E⎡( x− x)<br />

⎝dx ⎠x⎥ dx ⎣<br />

⎦ ⎝ ⎠x 2<br />

⎤ ⎛df ⎞<br />

= ⎜ ⎟ σ<br />

⎦ ⎝dx ⎠x<br />

2<br />

σ = ( ) + ( x−x) − f ( x)<br />

2 2 2<br />

x<br />

(12.35)<br />

df<br />

σ y = σ x<br />

(12.36)<br />

dx<br />

Cioè in una funzione di una sola variabile la deviazione standard si propaga come l’errore<br />

massimo. Passiamo al caso più complesso di una funzione di due variabili f ( x, y ) . Con le<br />

stesse approssimazioni applicate al caso precedente si trova:


2<br />

⎡ ⎤<br />

2 ⎡ 2<br />

⎛∂f ⎞ ⎛∂f ⎞ ⎤<br />

σ f = E⎡⎡f ( x, y) f ( x, y) ⎤ ⎤ E⎢ ( x x) ( y y)<br />

⎥<br />

⎢<br />

− = − + − =<br />

⎣⎣ ⎦ ⎥⎦<br />

⎢⎜ ⎟ ⎜ ⎟ ⎥<br />

⎢ ⎝∂x⎠ ∂y<br />

⎥<br />

⎣<br />

⎢⎣ ⎝ ⎠ ⎥⎦<br />

⎦<br />

2<br />

2<br />

⎡<br />

⎛∂f ⎞ 2 ⎛∂f ⎞ 2 ⎛∂f ⎞⎛∂f<br />

⎞<br />

⎤<br />

= E⎢⎜ ⎟ ( x− x) + ⎜ ⎟ ( y− y) + 2 ⎜ ⎟⎜<br />

⎟(<br />

x−x)( y− y)<br />

⎥ =<br />

⎢⎝∂x⎠ ∂y ⎝∂x⎠ ∂y<br />

⎣ ⎝ ⎠ ⎝ ⎠<br />

⎥<br />

⎦<br />

Dove la quantità:<br />

2<br />

2<br />

f ⎛ f ⎞<br />

2 f f<br />

⎛∂ ⎞<br />

= ⎜ ⎟<br />

⎝∂x⎠ 2<br />

E⎡ ∂<br />

( x− x) ⎤+<br />

⎣ ⎦ ⎜ ⎟<br />

⎝∂y⎠ E⎡( y− y<br />

⎣ ) ⎤ ⎛∂ ⎞⎛∂<br />

⎞<br />

+ 2<br />

⎦ ⎜ ⎟⎜<br />

⎟E⎡( )( )<br />

⎝∂x⎠ ∂y<br />

⎣ x−x y− y ⎤⎦<br />

=<br />

⎝ ⎠<br />

2<br />

2<br />

⎛∂f ⎞ 2 ⎛∂f ⎞ 2 ⎛∂f ⎞⎛∂f<br />

⎞<br />

= ⎜ ⎟ σ x + ⎜ ⎟ σ y + 2 ⎜ ⎟⎜<br />

⎟σxy<br />

⎝∂x⎠ ⎝∂y⎠ ⎝∂x⎠⎝∂y⎠ ⎡⎣( )( ) ⎤⎦<br />

[ ]<br />

[ ] [ ] [ ] [ ]<br />

[ ]<br />

σ xy = E x −x y − y = E xy −xy − xy + xy<br />

= Exy −yEx− xEy + xy = Exy −xy− xy + xy =<br />

= Exy−xy 144<br />

(12.37)<br />

(12.38)<br />

è detta covarianza. σ xy è una misura di quanto le fluttuazioni delle due grandezze x e y<br />

sono correlate. Se possiamo ritenere praticamente indipendenti le due grandezze, allora<br />

σ ≈ 0 e in questo caso avremo:<br />

xy<br />

2<br />

2<br />

⎛∂f ⎞ 2<br />

2<br />

⎛∂f ⎞ 2<br />

f x y<br />

σ = ⎜ ⎟ σ + ⎜ ⎟ σ<br />

⎝∂x⎠ ⎝∂y⎠ e più in generale, per una funzione di k variabili:<br />

e infine:<br />

Metodi di fitting<br />

k<br />

2<br />

2 ⎛ ∂f<br />

⎞ 2<br />

f ⎜ ⎟ i<br />

i=<br />

1 ∂xi<br />

(12.39)<br />

σ = ∑ σ<br />

(12.40)<br />

⎝ ⎠<br />

k<br />

2<br />

⎛ ∂f<br />

⎞ 2<br />

f ⎜ ⎟ xi<br />

i=<br />

1 ∂xi<br />

σ = ∑ σ<br />

(12.41)<br />

⎝ ⎠<br />

Capita assai spesso, nell’ambito della chimica-fisica sperimentale, di misurare coppie di<br />

valori ( , )<br />

x y e di dover individuare l’equazione li correla in modo ottimale. Tale<br />

i i<br />

procedura è detta procedura di fitting o best fit. Spesso la teoria ci suggerisce quale debba<br />

essere il tipo di relazione che lega la variabile indipendente x alla variabile dipendente y e<br />

in questo caso la procedura di fitting consiste nell’individuare il valori ottimali dei


parametri. In altri casi la procedura stessa può essere impiegata per scegliere la tipologia<br />

di funzione che meglio si adatta a descrivere la relazione esistente tra x ed y. Sebbene<br />

esistano diversi possibili metodi per risolvere il problema generale, tratteremo solamente il<br />

cosiddetto metodo dei minimi quadrati e accenneremo solo brevemente alle altre possibilità.<br />

Metodo dei minimi quadrati<br />

Supponiamo di conoscere la funzione f che lega la variabile dipendente y da quella<br />

indipendente x. In pratica ciò significa che è definita un’equazione del tipo:<br />

( , )<br />

y = f x p (12.42)<br />

dove p rappresenta un insieme di parametri. Supponiamo inoltre che nella<br />

determinazione sperimentale delle coppie di valori ( , )<br />

145<br />

x y solamente i valori yi risultino<br />

affetti da errori (o quanto meno che l’errore sui valori xi sia molto piccolo). In questo caso<br />

possiamo indicare lo scarto di ciascun punto sperimentale yi dal corrispondente valore<br />

calcolato mediante la funzione f nel punto xi (non affetto da errore sperimentale) mediante<br />

la relazione:<br />

i i i<br />

( , )<br />

i i<br />

ξ = y − f x p (12.43)<br />

Il principio dei minimi quadrati stabilisce semplicemente che si debbono scegliere, per i<br />

parametri della funzione, quei valori che rendono minima la sommatoria dei quadrati<br />

degli scarti:<br />

( ) 2<br />

,<br />

N<br />

⎡ ⎤<br />

⎣ i i ⎦<br />

i=<br />

1<br />

S= ∑ y − f x p (12.44)<br />

La procedura si riduce pertanto a un problema di minimo di una funzione di più variabili<br />

(tante quanti sono i parametri). In pratica si tratterà di calcolare le derivate prime di S<br />

rispetto a tutti i parametri, uguagliarle a zero e risolvere un sistema di tante equazioni<br />

quanti sono i parametri da determinare. Il problema è di facile soluzione quando si ottiene<br />

un sistema lineare nei parametri, mentre può diventare più complicato in caso contrario.<br />

Prendiamo allora in esame alcuni casi semplici.<br />

1. Retta dei minimi quadrati (regressione lineare).<br />

Il caso più semplice e classico è quello della retta. Supponiamo allora che y sia legata a x da<br />

una relazione lineare:<br />

( , , )<br />

y = f xab = a+ bx<br />

(12.45)


In questo caso la somma dei quadrati degli scarti S vale:<br />

N N<br />

2 2 2 2 2<br />

∑( i i) ∑(<br />

i i 2 i 2 i i 2 i)<br />

S = y −a− bx = y + a + b x − ay − bx y + abx =<br />

i= 1 i=<br />

1<br />

N<br />

2<br />

∑yi 2<br />

Na<br />

N<br />

2 2<br />

b ∑xi N<br />

2a∑yi N<br />

2b∑xiyi N<br />

2ab∑xi<br />

i= 1 i= 1 i= 1 i= 1 i=<br />

1<br />

= + + − − +<br />

146<br />

(12.46)<br />

Derivando S rispetto ad a e b e omettendo per semplicità di notazione indici e pedici nei<br />

simboli di sommatoria si ottiene:<br />

∂ S<br />

= 2Na − 2∑yi + 2b∑xi<br />

∂a<br />

∂ S<br />

= 2b∑x − 2∑x y + 2a∑x<br />

∂b<br />

2<br />

i i i i<br />

Uguagliando a zero e mettendo a sistema si ottiene allora:<br />

o anche in forma matriciale:<br />

∑ ∑<br />

⎧ ⎪ 2Na + 2bxi − 2 yi<br />

= 0<br />

⎨<br />

2<br />

⎪⎩ 2a∑xi + 2b∑xi − 2∑xiyi = 0<br />

∑ ∑ ∑<br />

⎛ N xi⎞⎛a⎞ ⎛ yi<br />

⎞<br />

⎜ ⎟ =<br />

⎜ 2<br />

x b x i x ⎟⎜ ⎟ ⎜ ⎟<br />

i<br />

iy⎟ ⎝∑ ∑ ⎠⎝<br />

⎠ ⎝ i⎠<br />

Risolvendo il sistema (12.49), ad esempio con il metodo di Cramer, si ottiene:<br />

∑ ∑ ∑ ∑<br />

⎧ y x − x x y<br />

⎪a<br />

=<br />

⎪<br />

D<br />

⎨<br />

⎪ N∑xiyi −∑xi∑yi<br />

⎪⎩<br />

b =<br />

D<br />

i<br />

2<br />

i i i i<br />

(12.47)<br />

(12.48)<br />

(12.49)<br />

(12.50)<br />

Dove ( ) 2<br />

2<br />

D= N∑xi − ∑ xi<br />

. Utilizzando la relazione (12.40) si può anche calcolare la<br />

varianza dei parametri a e b considerando che questi sono in pratica funzioni degli xi, yi,<br />

ma che solo questi ultimi sono affetti da errore. Pertanto:<br />

Dove<br />

2<br />

y<br />

i<br />

2<br />

N<br />

2 ⎛ ∂a<br />

⎞ 2<br />

a ⎜ ⎟ yi<br />

i=<br />

1 ∂yi<br />

σ = ∑ σ<br />

(12.51)<br />

⎝ ⎠<br />

σ rappresenterebbe la deviazione standard della misura i-esima della variabile y.<br />

Poiché non si conosce la distribuzione di ciascun punto intorno al valore medio (per ogni<br />

xi si esegue in genere una sola misura di yi), nella (12.51) si può sostituire<br />

medio della somma degli scarti sperimentale <strong>–</strong> calcolato, cioè con la quantità:<br />

2<br />

y<br />

σ con il valor<br />

i


N<br />

2 i=<br />

1<br />

y<br />

σ =<br />

( ) 2<br />

∑ yi −a−bxi N−<br />

2<br />

147<br />

(12.52)<br />

Dove il denominatore N <strong>–</strong> 2 rappresenta i gradi di libertà dell’insieme (numero delle<br />

misure meno il numero dei parametri). Sostituendo dunque nell’Eq. (12.51) si trova:<br />

2 2<br />

N 2<br />

2<br />

⎛ N N<br />

a ⎞ ⎛ xi − xi xi<br />

⎞ σy<br />

2 2<br />

∑ ∑<br />

∑ ∑<br />

⎜ ⎟ 2 ∑ ( ∑ ) ( ∑ ) 2 ∑ ∑<br />

2 2 ∂<br />

σ a =σ y ⎜ ⎟<br />

i= 1⎝∂yi⎠ 2<br />

=σ y ⎜<br />

i= 1⎝ D ⎟<br />

⎠<br />

=<br />

D<br />

⎡<br />

⎢<br />

i=<br />

1⎣<br />

2<br />

xi 2<br />

+ xi xi − xi xi 2<br />

x ⎤<br />

i =<br />

⎥⎦<br />

2 2<br />

σy 2 2 2 σ<br />

2 2 2 y<br />

= ⎡N( x 2 i ) + xi ( xi) -2 xi ( x ⎤<br />

i) = ⎡N 2 ( D ⎢⎣ ⎥⎦ D ⎢⎣ 2 2 2<br />

2 2<br />

σy 2 σ<br />

2 2<br />

y( xi ) D σy<br />

xi<br />

x ⎡<br />

2 i N( xi ) ( x ) ⎤ ∑ ∑<br />

= ∑ i<br />

2<br />

D ⎢<br />

− = =<br />

⎣ ∑ ∑ ⎥⎦<br />

D<br />

D<br />

E analogamente:<br />

2<br />

2<br />

xi ) -<br />

2<br />

xi (<br />

2<br />

x ⎤<br />

i)<br />

=<br />

⎥⎦<br />

∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ (12.53)<br />

2 2<br />

N 2<br />

⎛ N N<br />

b ⎞ ⎛Nxi − xi<br />

⎞ σy<br />

2<br />

∑ ∑<br />

∑<br />

⎜ ⎟ 2 ∑ ( ∑ ) 2 ∑<br />

∂<br />

σ =σ =σ = ⎡ + − ⎤<br />

⎜ ⎟ ⎜ ⎟ ⎢ ⎥<br />

=<br />

⎣ ⎦<br />

2<br />

b<br />

2<br />

y<br />

i= 1⎝∂yi⎠ 2<br />

y<br />

i= 1⎝ D ⎠ D i=<br />

1<br />

2 2<br />

Nxi xi Nxi xi<br />

2<br />

σy 2<br />

⎡ 2<br />

N ( 2<br />

xi ) N( 2<br />

xi) 2N(<br />

2<br />

xi) ⎤<br />

2<br />

σy 2<br />

⎡ 2<br />

N ( 2<br />

2<br />

xi ) N( 2<br />

x ⎤<br />

i)<br />

∑ ∑ ∑ ∑ ∑<br />

=<br />

D ⎢⎣ + −<br />

⎥<br />

=<br />

⎦ D ⎢⎣ − =<br />

⎥⎦<br />

2 2 2<br />

σy 2<br />

2 σyND σyN<br />

= N⎡N 2 ( xi ) ( xi)<br />

⎤<br />

2<br />

D ⎢<br />

− = =<br />

⎣ ∑ ∑ ⎥⎦<br />

D D<br />

(12.54)<br />

In tabella sono riassunte le principali relazioni relative alla retta di best fit ottenuta con il<br />

metodo dei minimi quadrati:<br />

a<br />

= ∑ ∑ ∑ ∑<br />

Metodo dei minimi quadrati: retta di best fit<br />

2<br />

yi xi − xi xiyi D<br />

b<br />

= ∑ ∑ ∑<br />

i i − i i<br />

N x y x y<br />

( ) 2 2 2 2 2<br />

∑ − − ∑ + + ∑ − ∑ − ∑ + ∑<br />

2 y a bx y Na b x 2ay2b x y 2ab<br />

x<br />

σ y = =<br />

N−2 N−2<br />

2<br />

a<br />

2<br />

σy<br />

2<br />

xi<br />

σ =<br />

D<br />

∑<br />

i i i i i i i i<br />

2<br />

y<br />

σ N<br />

D<br />

2<br />

σ b = ( ) 2<br />

2<br />

D= N∑xi − ∑ xi<br />

Come si può osservare tanto i valori dei parametri, quanto le principali grandezze<br />

statistiche possono essere stimate semplicemente calcolando le sommatorie dei valori di x,<br />

y, xy, x 2, e y 2.<br />

D


2. Regressione bilineare.<br />

Consideriamo il caso in cui una certa proprietà z è funzione lineare delle variabili<br />

indipendenti x ed y e di due parametri a1 e a2 e supponiamo che solo z sia affetta da errore<br />

sperimentale. Si ha dunque:<br />

( , , , )<br />

z= f x y a a = a x+ a y<br />

(12.55)<br />

1 2 1 2<br />

Siamo in condizione di poter applicare il metodo dei minimi quadrati e trovare così i<br />

valori dei parametri a1 e a2 che rendono minima la quantità:<br />

N N<br />

2 2 2 2 2 2<br />

∑( i 1 i 2 i) ∑(<br />

i 1 i 2 i 2 1 i i 2 2 i i 2 1 2 i i)<br />

S= z−ax− ay = z + ax + ay − axz− ayz+ aaxy =<br />

i= 1 i=<br />

1<br />

2<br />

zi 2<br />

a1 2<br />

xi 2<br />

a2 2<br />

yi 2a1 xizi 2a2 yizi 2a1a2<br />

xiyi ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑<br />

= + + − − +<br />

Pertanto si deve risolvere il sistema:<br />

⎧ ∂S<br />

2<br />

⎪<br />

= 2a1∑xi − 2∑xizi + 2a2∑xiyi = 0<br />

⎪∂a1<br />

⎨<br />

⎪<br />

∂S<br />

2<br />

= 2a2∑yi − 2∑yizi + 2a1∑xiyi = 0<br />

⎪∂ ⎩ a2<br />

Si trova allora:<br />

∑ ∑ ∑ ∑<br />

⎧ xz y − x y y z<br />

⎪a1<br />

=<br />

⎪<br />

D<br />

⎨<br />

⎪<br />

⎪⎩<br />

a2<br />

=<br />

D<br />

i i<br />

2<br />

i i i i i<br />

148<br />

(12.56)<br />

(12.57)<br />

2<br />

∑yizi∑xi −∑xiyi∑<br />

xz i i<br />

(12.58)<br />

dove ( ) 2<br />

2 2<br />

D= ∑xi∑yi − ∑ xiyi . Le principali relazioni relative ad una regressione<br />

bilineare sono riassunte nella tabella seguente.<br />

a<br />

1<br />

= ∑ ∑ ∑ ∑<br />

Metodo dei minimi quadrati: regressione bilineare<br />

2<br />

xz i i yi − xiyi yizi D<br />

a<br />

2<br />

= ∑ ∑ ∑ ∑<br />

2<br />

yizi xi − xiyi xz i i<br />

( ) 2 2 2 2 2 2<br />

∑ − − 2 ∑ + 1∑ + 2∑ − 1∑ − 2∑ + 1 2∑<br />

2 z x a y z a x a y 2a x z 2a y z 2a<br />

a x y<br />

σ z = =<br />

N−2 N−2<br />

i i i i i i i i i i i i<br />

2<br />

a<br />

2<br />

σz<br />

2<br />

yi<br />

σ =<br />

1 D<br />

∑<br />

2 2<br />

2 σz<br />

xi<br />

σ a = ∑ ( ) 2<br />

2 2<br />

D= xi yi − xiyi 2<br />

D<br />

D<br />

∑ ∑ ∑


Altri metodi di fitting<br />

Tra i vari metodi di fitting esistenti, alternativi al metodo dei minimi quadrati, è<br />

opportuno accennare al cosiddetto metodo del minimo 2<br />

χ . In pratica, nel caso di una<br />

grandezza sperimentale y legata ad un’altra grandezza sperimentale x da una generica<br />

funzione f, questo metodo consiste nell’imporre che sia minima non la somma dei quadrati<br />

degli scarti, ma la quantità:<br />

149<br />

( ) 2<br />

N<br />

2 ⎛yi − f xi<br />

χ = ∑ ⎜<br />

i=<br />

1 ⎝ σi<br />

⎞<br />

⎟<br />

⎠<br />

(12.59)<br />

dove in pratica ciascuno scarto viene pesato con il relativo errore standard σ i ricavato da<br />

misure ripetute della stessa coppia di valori xi, yi . Questo metodo dovrebbe essere usato di<br />

regola in tutti quei casi in cui le misure hanno precisione differente. Nel caso di una retta il<br />

metodo del<br />

2<br />

χ fornisce i seguenti risultati per i coefficienti a e b:<br />

⎧ y xy<br />

⎪ ∑ ∑ ∑ ∑<br />

⎪<br />

σ σ σ σ<br />

a =<br />

⎪<br />

D<br />

⎨<br />

⎪ 1 xy y x<br />

−<br />

⎪ ∑ ∑ ∑ ∑<br />

σ σ σ σ<br />

⎪b<br />

=<br />

⎩<br />

D<br />

2<br />

i<br />

2<br />

2<br />

xi 2 −<br />

xi<br />

2<br />

i i<br />

2<br />

i i i i<br />

i i i i<br />

2 2 2 2<br />

i i i i<br />

(12.60)<br />

2<br />

1 xi ⎛ xi<br />

⎞<br />

dove D = ∑ 2∑ −⎜ 2 ∑ 2 ⎟ .<br />

σi σi ⎝ σi<br />

⎠<br />

Infine si deve tener presente che ogniqualvolta si ottiene un sistema che non è lineare nei<br />

parametri, qualunque sia la funzione che si è scelto di minimizzare, il problema di trovare<br />

la curva di best fitting non può essere risolto semplicemente con metodi analitici. Ciò che<br />

si fa in questo caso è attribuire un valore approssimato ai parametri, e scrivere la funzione<br />

di fitting come espansione in serie rispetto ai parametri troncata al primo ordine. Questa<br />

espansione, opportunamente derivata e riarrangiata, fornisce un sistema di equazioni<br />

lineari nelle correzioni da apportare ai parametri rispetto alle stime iniziali. Si procede<br />

quindi con metodo iterativo finché non si giunge a convergenza (in pratica finché il valore<br />

dei parametri non cambia tra un’iterazione e la successiva). Esistono molti programmi che<br />

consentono di effettuare fit generalizzati in maniera semplice basati sulla procedura sopra<br />

descritta.

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