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MARE MARE

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PRESENTAZIONE IN CATALOGO

PRESENTAZIONE IN CATALOGO

Poeta della piccola gente

V

ecchie vestite, come fossero in lutto. Giochi innocenti di bimbi. Poveri amanti. Preti dalla tonaca

lisa. Personaggi di periferia. Ecco la “piccola gente”, che incontriamo nei quadri di Ballarini.

Piccola gente che non ha dalla sua, come i proletari del Nord, la forza contrattuale ed i profeti

dell’avvenire. E neppure l’alone della disperazione, come i sottoproletari del Sud, cui fa eco il

compianto di registi e di romanzieri neorealisti. Per comprenderla occorre, appunto, uscire dalla

dialettica delle due italie, quella settentrionale, industrializzata e moderna, e l’altra, quella meridionale,

sottosviluppata e tradizionale. Qui siamo in quell’area, che si estende dalle Romagne alla

porte di Roma, che ha conosciuto le autonomie comunali, in cui l’umanesimo ha trovato il primo

sostentamento ed il rinascimento il massimo splendore.

Una terza Italia che si è poi addormentata come in un sogno, ignorando la rivoluzione industriale. Da

ciò la “piccola gente”, che vive di una gracile economia, ma che è intrisa di civiltà secolare, ed ha ancora

un proprio spazio vitale, scavato alla sua dimensione.

Un mondo che il pittore tratta con un disegno scarnito, che procede lungo l’argine sottile che divide

la malinconia acre dal grigiore del quotidiano. Disegno che riempie campiture di toni smorti, con qualche

macchia di nero. Sinfonie di grigi, condotte con estremo riserbo.

Una tecnica la quale rifiuta ogni estrosa ricerca, per essere più aderente ai propri soggetti.

Un riserbo che è il riflesso del pudore con cui questa piccola gente, che vive nell’ombra di un grande

passato e quasi ne è intrisa, ricopre le proprie miserie, dando loro umana dignità.

Nei poveri amanti, vi sono, forse, i figli di quelli narrati da Pratolini. Le figure di periferia sono, forse,

tratteggiate con il “lapis” di Marino Moretti. Il prete dalla tonaca lisa è (addirittura?) il fratello minore

di quel curato di campagna, figlio di un’altra (ma non dissimile) provincia, che Bernanos ha cantato.

Gli aquiloni librati nei versi del Pascoli si innalzano nuovamente, emblemi della fanciullezza, anzi

della memoria della fanciullezza.

Impresa non facile quella del Ballarini. Poiché si tratta di una pittura “altra”, sia da quella della

contestazione espressionista che discende dal Nord, che da quella che risale dal Sud, pregna di

umori populisti. E neppure si tratta di pittura “naive”, poiché questa vuole dietro di se il mito

della natura incorrotta. Ed esportata, diviene solo un modo di evasione, come lo fu il mito del

buon selvaggio, all’epoca della rivoluzione francese.

Pittura dialettale? Forse si, se al termine dialettale non si imprime quella connotazione di sufficienza,

che ad esso danno coloro che da una sola generazione hanno imparato a parlare in lingua, e vogliono

scrollare da se il ricordo di come parlavano i loro padri.

Certo si, se nel dialetto si crede come mezzo per raggiungere l’universale attraverso il quotidiano: cioè

l’uomo che è grande, pur nella sua piccolezza. Il quotidiano della “umile Italia”, per dirla con Dante,

che non si spauriva certo di fronte al grandioso.

Pittura che chiede che ci si accosti ad essa con amore, senza chiedere folgorazioni ma neppure

compiacenze crepuscolari. Così come la piccola gente, che sa quanto sia logorata la vita senza

gesti, e si raggruma in se stessa, chiedendo comprensione a quanti tentano di vivere.

Milano, Marzo 1975 Giorgio Braga

I

l nome di Giuseppe Ballarini non è affatto nuovo a chi segua lo svolgersi della pittura contemporanea

nella nostra provincia. Egli più volte si è cimentato a pubblico giudizio in Pesaro

dove risiede ma anche in grandi città come Roma, Bologna, Milano, quasi volesse ricevere conferma

alla valutazione del proprio operare, e le voci con le quali il risultato del suo lavoro è stato

accolto sono pressoché concordi. A presentarlo sarebbero quindi bastate alcune di queste voci di

cui conosco il peso, giacchè poco potrò aggiungere ad un multiplo consenso. Eppure mi piace di

parlarne agli amici di Urbino molto semplicemente nel tentativo di definire questa sua pittura

tanto coerente con la sua umanissima persona.

Egli dipinge tutto teso ad un intimo ascolto e riesce a dirci quanto si aggira ed urge nel suo pensiero:

una specie di racconto della vita quale a lui si presenta ed egli richiama da incontri avvenuti,

da stati d’animo evocati, da acute osservazioni sul nostro ciclico andare, condotto ad immediata

evidenza, schivo di sovrastrutture e scabro nella strutturazione, e pur gentile di tono quasi dimesso

(tanto che taluno e non impropriamente ha fatto il nome di Marino Moretti) e a volte doloroso

(tanto che taluno ha scritto di “spirito prevalente drammatico”). L’uomo vi è colto in rapide sintetiche

annotazioni con una giustezza di moti, che pur nascondendone quasi sempre il volto, ne

cogli un carattere, ne puntualizzi una età; e le figure o figurette vivono in spazi che , si tratti di

aperture su vasti orizzonti o di chiuse mura di ambienti - non altro rappresentano che la proiezione

di una condizione umana o di un fuggevole stato d’animo; ed è sufficiente che egli renda verosimili

i luoghi con alcuni elementi ora ben definiti ora accennati e li immerga in stesure di colore

modulate e svarianti, sì da avvolgere ogni parte, per esprimere quanto intende rappresentare o

evocare: e, allorché l’accordo fra gli essenziali elementi è direi “istintivamente” dosato, l’equilibrio

è raggiunto, nulla che potresti toccare, il dipinto vive. Il valore probante oltreché dalla costruzione

della “figura” che in alcuni casi si contorce o scatta, è dato - a me sembra, - da questa atmosfera -

spazio che la avvolge e la tiene. E sono azzurrini e grigi, azzurri cupi, oppure gialli rossastri come

la terra; a volte una nota di vivo rosso puntualizza un centro, e bianchi e rosei parchi tocchi di altri

colori, e invece scale di bruni e più intensi grigi fino a raggiungere un nero, rivestono le figure o

determinano pareti ed ombre.

Questo è apparso a me, che osservavo la serie di tele condotte a termine dal pittore negli ultimi

mesi, e vorrei indicare alla vostra attenzione l’episodio delle tre vecchine nel gran paesaggio innevato

o quello dei tre ragazzi intenti a seguire dietro l’impannata la minaccia del temporale; o la

nonna e il nipotino dalla proda del campo diversamente incantati dall’irridente, tanto lontano

fuoco d’artificio; o quell’andare dei vecchi con le grosse braccia e le ruvide mani ripiegate al dorso

o il giocatore di bocce pronto al lancio della palla; o quel confessionale dalla tenda rossa nell’umile

chiesa; o la salma della giovinezza stroncata giacente bianca in un turbinoso vento di terra; oppure

l’anziana donna sola nella camera matrimoniale, o la vecchia ansiosa di rivedere un tenue guizzo di

vita nel fuoco-fatuo, oltre il cancello del cimiterino; o i due, fanciullo e fanciulla, che siedono sull’alto

del muro in beato rapimento e la indifferenza o peggio la soddisfazione di un “bisogno corporale”

dei ragazzi accanto alla casa bruciata o contro il grande edificio in rovina, o anche - e mi

sembra l’unico caso in cui un volto scopertamente appaia - il dolce viso e il delicato braccio di

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