Statale 45: la musa di Caproni

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Statale 45:
la musa
di Caproni
Tra Genova e Piacenza
l’Appennino conserva
segreti e memorie del poeta
testo di Alessandro Rivali
foto di Vittorio Giannella
La strada è una potente icona della
letteratura del Novecento. L’arco
degli autori che l’hanno amata,
odiata o sognata è vastissimo, e basterebbe
ricordare l’immaginario desolato di
Jack Kerouac o le lande in tonalità di grigi
del crudo Cormac McCarty. Giorgio
Caproni (1912-1990), poeta di cui l’anno
prossimo ricorrerà il centenario della
nascita, ha trasformato la ligure Statale
45 in uno straordinario cantiere di metafore.
Nella sua rielaborazione una strada
come tante si è trasformata in un trampolino
per le più radicali domande sul
destino dell’uomo.
La Statale 45 è una stretta biscia
d’asfalto che in circa centotrenta chilometri
collega Genova con Piacenza. Il
tratto iniziale, se si sceglie di partire dalla
Superba, potrebbe essere lo scenario del
più spettrale dei noir. Sfiora, infatti, la
monumentale città dei morti di Staglieno,
il cimitero di Genova, e ai primi curvoni
verso l’Appennino incrocia il paese
di Bargagli, che nel primo dopoguerra fu
teatro di una lunghissima e irrisolta catena
di omicidi. Per fortuna dei lettori,
Giorgio Caproni scrisse dei chilometri
successivi, ben oltre la galleria della Scof-
fera, e precisamente della Val Trebbia.
Montebruno, Loco, Rovegno, Fontanigorda
sono tappe obbligate per rievocare
i giorni e la ricerca del poeta.
Per raggiungerle la Statale passa attraverso
una vegetazione fittissima e a
tratti soffocante (castagni, noccioli,
querce e pini), curve senza fine, continui
cambi di pendenza, sempre costeggiando
o tagliando il corso limpido
della Trebbia dove nuotano trote, cavedani
e barbi. Sono scenari che nulla
hanno a che vedere con la solarità azzurra
della costa. Così li rievocava il
poeta: “E a nord [della Liguria] è ancora
il mare, sì, ma un mare questa
volta di silenzio immenso, e ben si potrebbe
dire un mare pietrificato, il
quale in un immobile e solenne tumulto
di vette, di gole, di pascoli distesi
dopo le strette di queste gole, di vallate
che inseguono altre vallate […]
dopo le massime impennate […] dolcemente
va a infrangersi e a morire
nella mite e pingue pianura emiliana…”
(Una verde clausura in Segreta
Liguria, Montebruno, Comunità
montana Alta Val Trebbia, 2008).
Il legame di Caproni con questa val-
le fu strettissimo. Vi arrivò nel 1935 trovando
impiego come supplente a Rovegno
per sostituire un vecchio maestro elementare;
alla sua classe, una terza, cercò di trasmettere
la passione per la musica suonando
il violino e proponendo opere verdiane
come Il Nabucco. A Rovegno conobbe il
duplice volto dell’amore. Buio e luce. Vide
morire di setticemia, praticamente tra le
sue braccia, la fidanzata genovese Olga
Franzoni, poi a Loco conobbe Rina, la dolce
sposa che avrebbe colorato i suoi giorni:
“Se il mondo prende colore / e vita, lo devo
a te, amore…”. La ricordò anche nella celebre
Litania, una sorta di poesia-manifesto
dell’anima: “Genova della mia Rina. / Valtrebbia.
Aria fina. / Genova paese di foglie /
fresche, dove ho preso moglie”.
Olga morì in un’alba ghiacciata degli inizi
di marzo del 1936, appena prima che venisse
dato alle stampe il libro d’esordio di
Caproni, Come un’allegoria, una plaquette
di appena sedici poesie. La figura di lei venne
rievocata in un tragico racconto:
“S’apriva gelida e ancora blu la luce un poco
disgustosa dell’alba dietro i vetri senza
tendine, e Olga che altro era ormai tra le
mie braccia (le braccia stesse della morte!)
se non un povero grumo di carne in sudore
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A sinistra, il Ponte Gobbo
sulla Trebbia a Bobbio
In apertura, faggeta nella nebbia
e in tremiti e in disperato desiderio?” (Il
labirinto, Milano, Garzanti, 1992). Olga
(“ahi mite fidanzata così completamente
morta”) sarebbe tornata come un insistente
fantasma in tanti versi successivi.
Fu un lutto dalla lunga elaborazione che
rischiò di seccare la voce del poeta se in
una lettera a Carlo Betocchi nell’aprile
del 1937 scriveva: “Non volevo fare più
poesie. Volevo perfino uccidere la poesia
in me”.
Prevalse, invece, la vita, incarnata in
Rina, una di quelle “vivaci” ragazze dagli
occhi “grigio-chiari” o “turchino-chiari
così diverse dal carattere particolarmente
chiuso dei maschi”. Sempre nel 1937 così
rievocò il loro incontro in Val Trebbia:
“Chi qui giunge […] tutto volto alla poesia,
trova in questi dintorni un pane
dolcissimo alla sua fame. Come spiegare
altrimenti il mio radicato affetto per
queste rocche, che se all’inizio di un
marzo, quando ancora le rame nude erano
per il gelo una trama nuda di vetro,
spensero nella neve la giovane creatura
che per mio amore qui m’aveva raggiunto,
mi ridonarono tuttavia la pace, quasi
un premio di un non maturato rancore,
con quella felicità ch’ora è la mia ragione
di vita, recatami dalle iridi grandi e azzurre
e così delicatamente silenziose di
quella giovinetta di Loco poi divenuta
mia sposa? Dico a te, Rina, gentile e fiera
figlia di queste terre…” (Alta Val Trebbia,
“Augustea”, XIV, 19-20, 31 agosto
1939). Rina sarà sempre ricordata con
gratitudine da Giorgio, il suo “Grillo”
che le dedicherà questi toccanti versi di
Res amissa, la raccolta uscita postuma per
Garzanti nel 1991: “Ah Rosa sempre in
cima / ai miei pensieri… // Mia Rina…
// [Piove. // I monti sono neri. / C’è il
sole. // Restano neri / se non li accendi
tu, mia Rosa…]” (Per l’onomastico di Rina,
battezzata Rosa).
sui monti attorno a Rovegno
e Caproni nella seconda metà
degli anni Trenta (Effigie)
Giorgio e Rina, il Grillo e la sua Grillinissima,
si sposarono nella chiesina di
Loco e sono sepolti uno accanto all’altra
nel vicino piccolo cimitero. La tomba è
semplice, spartana. I nomi sono incisi
nel bianco, secondo la volontà del poeta.
Dopo la sua morte si trovarono questi
versi fra le sue carte: “Lasciate senza nome,
senza / data, la pietra bianca / che un
giorno mi coprirà. / Col sole, prenderà /
(forse) il colore delle mie ossa / – sarà,
nella sua cornice nera / la mia faccia, vera”.
Giorgio e Rina riposano all’ombra di
quelle montagne che il poeta definì “La
piccola cordigliera”: “Fa freddo, su queste
balze. / L’altezza non è molta. / Siamo
/ a quota mille. / Ma il vento. / L’esposizione,
quasi / del tutto a nord. / Il fiume
/ giù a fondovalle, e il gelo / che il suo
alito aggiunge alla boscaglia. // Di faglia
/ in faglia, la notte / fa presto qua a coprire
un cielo / già di lavagna. // Tremiamo,
/ buona parte dell’anno. // Le ore,
quassù, non hanno / – nemmeno sotto il
Cane – vampe / o impennate di sorta. //
Ma cos’importa. // Siamo / – in profondo
– lieti / di questa scelta. // È questa /
– pensiamo – la temperatura giusta / della
nostra salvezza”.
Caproni trascorse tantissime estati in
cerca di ristoro nell’“aria alta e sottilmente
barbarica” di Loco e numerose poesie
sono datate secondo l’indicazione di
questa minuscola frazione di Rovegno,
“nel bel verde speranza di quei monti,
d’una roccia rossa così in contrasto col
fresco celeste del fiume”. Qui, nel 1952,
lo raggiunse il postino festante e “trafelato”
accorso a comunicargli la vittoria del
prestigioso Premio Viareggio per Le stanze
della funicolare. Caproni stava per
mettersi a tavola e per l’emozione perse
l’appetito…
Negli ultimi anni gli itinerari preferiti
delle sue passeggiate cercavano la tran-
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A sinistra, rosse distese
di papaveri nella campagna
di Bobbiano in Val Trebbia
quillità, senza l’intrusione delle automobili.
Da casa (con Rina) scendeva a Loco
Sotto, alle Ghiaie, attraversava il ponte
sulla Trebbia, oltrepassava la vecchia
Centrale elettrica e si dirigeva verso la località
Carchelli, per poi arrivare al ponte
di Rovegno e tornare indietro. Altre volte
optava per la salita verso Fontanigorda
sostando in località Cotti. Il percorso più
nascosto e solitario partiva invece da Loco
Sotto verso il Casone attraverso il bosco
della Legnaia sulla Costa della Surìa;
altre volte, infine, quando si spingeva a
Rovegno, nella frazione Zerbo, si fermava
dall’amico Virginio Barbieri. Lì sostava
volentieri per un caffè o un bicchiere
di vino in un terreno da lui ribattezzato
“l’orto della fraternità e della felicità”. A
questo lembo di Eden è dedicata la poesia
Guardando un orto in Liguria (per Albino
e Giulietta Barbieri): “Tutti quei
fiori // Quei fiori così forti negli occhi /
fin quasi a spaccarli… / Sassate / Spari di
colori / negli occhi violentati…”. I due
anziani sposi sono stati intervistati da Fabrizio
Lo Presti in un film documentario
dedicato a Caproni e intitolato Statale
45: quando hanno provato a rileggere i
versi della poesia non hanno saputo trattenere
le lacrime, la voce si è spezzata
dall’emozione…
In vecchiaia il poeta prediligeva spostamenti
brevi. Andava all’osteria sotto la
chiesa per stare con i vecchi amici. Beveva
un po’ di vino (poco, per i postumi di
una resecazione gastrica) e fumava le Nazionali
comprate dal vicino tabaccaio. I
discorsi semplici e allo stesso tempo profondi
con i contadini costituivano materiale
per la sua riflessione, che proseguiva
nella pace del giardino di casa, in compagnia
dei cari filosofi (sant’Agostino,
Kierkegaard, Blanchot, Foucault) e dei
classici. Non amava, invece, i romanzi a
lui contemporanei, i Premi Strega
dell’annata, che definiva le “celebrità per
un’estate”.
Per Caproni la “terra” intorno alla Statale
45 ha spesso fatto rima con “guerra”.
A Loco fu sorpreso dalla notizia dell’entrata
dell’Italia nel Secondo conflitto
mondiale; rievocò in poesia quel giorno:
“Il vento… È rimasto il vento. / Un vento
lasco, raso terra, e il foglio / (quel foglio
di giornale) che il vento / muove su
e giù sul grigio / dell’asfalto. Il vento e
nient’altro…” (Dopo la notizia). Anche
l’8 settembre lo raggiunse in Val Trebbia,
dove si trovava in congedo provvisorio
per convalescenza; le montagne lo accolsero
presto come partigiano, ebbe con sé
un mitra Sten e bombe a mano, ma più
volte ricordò di non avere sparato nemmeno
un colpo. Nei racconti scrisse di
gente denudata e messa sulle stufe e di
un tenente fascista che sulla Statale con
una rivoltella in mano gridava alle donne:
“Carne di partigiano. Stasera si mangia
carne di partigiano…”. Il figlio di
Caproni, Attilio Mauro, ricorda che nella
casa di sua nonna venne ospitato per
circa tre anni un ebreo polacco di nome
Ivan. In paese tutti sapevano di correre
rischi, ma nessuno si trasformò in spia.
Ivan, che la sera rallegrava i bambini suonando
la balalaika, venne fucilato sulle
montagne durante il tentativo di raggiungere
le truppe Alleate in arrivo in
Liguria.
Quegli anni terribili ritornano più volte
nel lavoro di Caproni. A partire da I
lamenti, forse i suoi versi più cupi e chiusi,
“mentre i mongoli attruppati coi tedeschi
(turchestani e mongoli autentici)
stavano scannando maiali e persone”
(lettera a Carlo Betocchi del 18 agosto
1954), sino ad arrivare all’Acciaio de Il
muro della terra: “Hanno bruciato tutto.
La chiesa. La scuola. / Il municipio. //
Tutto. // Anche l’erba. // Anche, / col
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A sinistra, una foglia di acero montano
caduta nelle acque cristalline della Trebbia,
uno dei fiumi più puliti d’Italia
camposanto, il fumo / tenero della ciminiera
/ della fornace. // Illesa, / albeggia
sola la rena / e l’acqua: l’acqua che trema
/ alla mia voce, e specchia / lo squallore
d’un grido / senza sorgente. // La gente /
non sai più dove sia. // Bruciata anche
l’osteria. / Anche la corriera. // Tutto. //
Non resta nemmeno il lutto, / nel grigio,
ad aspettar la sola / (inesistente) parola”
(Tutto).
Tra i vari ricordi di fughe, rappresaglie
e fucilazioni alla mattina, rimase indelebile
nella memoria una notte di veglia di
fronte ai compagni caduti: “L’occasione
del Lamento V (Gli anni tedeschi) mi fu
offerta da una veglia presso le salme di
alcuni partigiani, mentre mi trovavo in
una sconquassata casa di montagna accanto
a quei morti sul nudo ammattonato
e ad alcune donne che, con ostinazione
maggiore dello sgomento, continuavano
mute a cucire le bandierine dei distaccamenti…”.
Continuando la discesa lungo la Statale
45 è d’obbligo una deviazione verso
Fontanigorda, “deliziosa nel teatro dei
roccioni che la circondano”, un borgo
dalle piccole vie diabolicamente strette e
intricate. In una minuscola piazza dove il
tempo si è fermato, una targa ancora più
minuscola ricorda una delle prime liriche
del poeta, Ballo a Fontanigorda:
“Mentre per la pastura / si sparge l’amaro
aroma / d’una sera silvana, / al suono dei
clarinetti / chiari, fra luci di colori / e risa,
s’infatua gaia / la danza d’una montana
/ allegria”.
Nelle vicinanze del paese si può percorrere
a piedi il suggestivo Bosco delle
fate. Davvero un luogo magico dove
splendidi faggi e castagni si alternano a
improvvise gigantesche rocce che sembrano
piovute dal cielo come meteoriti.
Al suo interno si snoda il breve toccante
“Sentiero poetico Giorgio Caproni”
inaugurato nel 1997: su grandi lastre
d’ardesia sono incise alcune delle poesie
più note.
Per Caproni quei boschi diventarono
lo scenario di una personalissima caccia:
la preda era Dio e al contempo il suo
stesso io: “Andavo a caccia. Il bosco /
grondava ancora di pioggia. / M’accecò
un lampo. Sparai. / (A Dio, che non conosco?)”
(Preda).
Lo svuotamento dei paesi dell’entroterra
verso le città si trasformò in una
meditazione sulla solitudine dal timbro
universale: “Sono partiti tutti. / Hanno
spento la luce, / chiuso la porta, e tutti /
(tutti) se ne sono andati / uno dopo l’altro.
// Soli, / sono rimasti gli alberi / e il
ponte, l’acqua / che canta ancora, e i tavoli
/ della locanda ancora / ingombri –
il deserto, / la lampadina a carbone / lasciata
accesa nel sole / sopra il deserto. //
E io, / io allora, qui, io cosa rimango a
fare, / qui dove perfino Dio / se n’è andato
di chiesa…” (Lasciando Loco).
In lui i toponimi accendevano la poesia:
“Nell’Orrido del Lupo. / Nell’orrido
della vecchiaia. / Di dirupo in dirupo, /
la vipera: la sterpaia” (Paesaggio). E la
stessa segnaletica stradale (fondo dissestato,
frane, caduta massi) si trasformava
in una rivisitazione esistenziale confluita
nella poesia Statale 45, una delle ultime:
“È una strada tortuosa. / Erta. // Tipica
di queste nostre / Zone montane. // Dovunque,
/ segnali d’allerta”. Sono frammenti
concreti di reale che aprono alla
bellezza. Così una semplice biscia d’asfalto
permetteva di auscultare aritmie e sospiri
del proprio cuore. Chissà, forse è
un’esperienza alla portata di tutti. Basterebbe
orientare il navigatore dell’auto
verso questo volto nascosto e selvaggio
della Liguria, fermarsi dove si fermò Caproni,
lasciarsi portare dalla sua poesia.
Alessandro Rivali
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