MACERI SEMPRE ATTUALI - Il divulgatore
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Il Divulgatore n.11/2003 Quaderni di informazione Agro-Ambientale
Pagg.40-57
MACERI SEMPRE ATTUALI
Nati per la macerazione della canapa, che rappresentava fin dal Cinquecento
una pregiata produzione delle campagne bolognesi, questi piccoli invasi
d’acqua rivestono oggi una nuova e interessante funzione: favorire la
conservazione di specie vegetali e animali tipiche del territorio di pianura,
contribuendo al miglioramento della biodiversità e del paesaggio agrario.
I testi tratti dal Divulgatore n. 6/93 sono a cura di Nevio Agostani Le integrazioni sono di
Maura Guerrini e Sofia Cei Assessorato Agricoltura, Provincia di Bologna.
Si ringrazia inoltre Franco Marchesi per l’aggiornamento dei contenuti.
COPPING RETTINGGROUNDS ARE USEFUL EVEN NOWADAYS
Born to soak hemp which represented, since the 16th century, a valuable agricultural product of
Bologna countryside, today these small ponds play a new important role: they are used to protect
lowland typical vegetable and animal species, thus contributing to biodiversity and landscape
improvement. In 2002 and 2003 Bologna Province local authorities funded projects aiming at
promoting the proper management of all existing retting-grounds. Besides describing the goals
achieved till now by means of Provincial notice of competitions, in the present issue details about
their historical role in Bologna agricultural economy, their use during the so-called agricultural
engineering industrialization age and their present contribution to biodiversity and landscape
protection, are given. Last but not least, a sort of GAP code for retting-ground correct
management, that is in line with the goals agreed by the Provincial notice of competitions, are
given.
Sono trascorsi ormai tredici anni dall’arrivo nella Provincia di Bologna del Progetto denominato
“Per un’agricoltura più verde”. Nel 1990, quando partirono le iniziative dell’Amministrazione
Provinciale, non era ancora stata delineata la politica comunitaria in favore dell’ambiente rurale.
Solo nel luglio 1992 la Commissione Europea, con l’approvazione dei Regolamenti 2078 e 2080,
istituiva un regime di aiuti per tutte le forme di agricoltura ecologico-compatibile e per favorire
l’effettuazione di interventi di ripristino o conservazione degli spazi naturali.
Con le cosiddette misure integrative di accompagnamento al processo di riforma della Politica
Agricola Comune veniva finalmente riconosciuto e remunerato il ruolo dell’agricoltura ai fini della
protezione dell’ambiente naturale e del paesaggio.
La scelta della Comunità europea è stata confermata negli anni successivi con ulteriori
finanziamenti fino a rientrare a pieno titolo, con Agenda 2000 e il Reg. 1257/99, nei principali
obiettivi politici della Ue nel prospettare il futuro della propria agricoltura.
I fondi comunitari hanno trovato in provincia di Bologna una adesione sempre entusiasta, spesso
superiore ad altre realtà territoriali grazie all’opera di sensibilizzazione promossa in questo
decennio dalla Provincia in collaborazione con le organizzazioni professionali agricole.
Le iniziative provinciali non si sono limitate ad anticipare, divulgare e gestire gli aiuti comunitari a
favore dell’ambiente, ma hanno cercato di integrare le misure attuabili attraverso gli strumenti
europei con proprie azioni di studio e dimostrative adattate alle specifiche realtà locali.
In questo contesto sono cresciuti molti progetti come le “Aree di rifugio per la flora e la fauna
selvatiche” e altri simili, di cui si è lungamente riferito nel precedente fascicolo dei Quaderni (Il
Divulgatore n. 7/2003) con i risultati rappresentati anche in termini di numeri di piante messe a
dimora e superficie di boschetti e filari. Un altro progetto tipicamente bolognese, nato sempre nel
1990 e ripreso nel 2002-2003, riguarda la conservazione e la rinaturalizzazione dei maceri.
Risultati del bando provinciale
La Provincia di Bologna nell’anno in corso e in
quello precedente ha impegnato risorse volte
alla conservazione dei maceri esistenti e a una
loro corretta gestione per consentire lo
sviluppo di specie autoctone animali e
vegetali.
L’Amministrazione Provinciale di Bologna negli anni 2002 e
2003 ha messo a disposizione dei fondi propri volti
all’incentivazione della conservazione e corretta gestione dei
maceri (ex maceratoi della canapa) presenti nella pianura
bolognese.
Hanno beneficiato dei contributi i proprietari o i conduttori di
terreni con maceri “storicamente” esistenti (da almeno 50
anni), localizzati nel territorio di pianura delimitato a Nord
dalla Via Emilia e dalla Via Bazzanese. Questa iniziativa si
inserisce tra le altre diverse azioni rivolte alla salvaguardia
del paesaggio agrario per il miglioramento dell’ambiente
rurale. Con il bando si è voluto anche favorire la
conservazione e la diffusione di specie vegetali e animali
tipiche del territorio di pianura. Il contributo è servito per
realizzare opere atte a creare
un ambiente favorevole allo sviluppo della flora e della fauna
autoctone e a mantenere il macero nelle condizioni
ambientali migliori per almeno 5 anni.
In concreto sono state finanziate le seguenti opere:
• lavori relativi al sistema di adduzione dell’acqua, necessari
per impedire il totale prosciugamento dell’invaso durante i
mesi estivi e in grado di mantenere, nel restante periodo
dell’anno,il livello dell’acqua a una profondità media non
superiore a 1 m;
• la creazione e/o il mantenimento di una fascia di rispetto
con vegetazione erbacea, arborea e arbustiva autoctona,
larga da 3 a 5 metri, circostante le sponde;
Oltre a descrivere le azioni effettuate
dall’Amministrazione Provinciale e i risultati
raggiunti, ricordiamo in queste pagine qual
era la funzione storica dei maceri nella
pianura bolognese, qual è stato il loro
destino negli anni della cosiddetta
industrializzazione delle tecniche agrarie e
qual è invece il loro contributo, più che mai
attuale, al miglioramento della biodiversità
e del paesaggio agrario.
Evidenziamo infine le buone regole per
una gestione del macero in sintonia con gli
obiettivi dei bandi provinciali e in grado di
esaltarne le funzioni.
Alcune parti del testo sono riprese
integralmente da Il Divulgatore n. 6/1993.
Molteplici funzioni produttive
I maceri - di profondità variabile (nelle zone
più profonde sino a 2 metri), con sponde
difese da sassi o da tavoli di quercia infissi
nel terreno o da graticciate di vimini - erano
utilizzati per la macerazione dei fasci di
canapa. Essi venivano riuniti, legati a
zattere e fondati con l’aiuto di grosse pietre
di fiume (i sass) che pesavano da 3 a 7 kg
ciascuno. Meno frequenti erano i maceri
dove l’immersione delle mannelle era
garantita da stanghe di rovere, che talora
si possono ancora osservare affioranti,
infisse al fondo e collegate tra loro fuori
dall’acqua.
Il macero richiedeva periodiche operazioni
di manutenzione: la canapa mal sopportava un eccesso di flora batterica nelle acque, che la
rendeva più gialla e di qualità inferiore; diveniva perciò necessario effettuare annualmente lo
svuotamento delle vasche. Durante tali operazioni si provvedeva alla manutenzione delle sponde,
allo svuotamento dei sedimenti depositati e all’eliminazione di canne, tife e giunchi. I contadini,
dopo la ripulitura, immettevano nel macero avanotti di carpa e tinca, che crescevano fino a
raggiungere, dopo una decina di mesi, anche il chilogrammo di peso; essi provvedevano sia a
fornire il cibo e un piccolo reddito aggiunto sia a distruggere le uova e le larve di zanzare e,
soprattutto la tinca, anche la vegetazione acquatica spontanea.
Il macero aveva una posizione privilegiata nell’azienda contadina: era posto nei pressi
dell’abitazione perché alla sua funzione primaria ne venivano affiancate altre accessorie non meno
importanti, quali, ad esempio, quelle legate all’igiene personale (la vasca da bagno nei mesi più
caldi) e casalinga (lavanderia), allo svago (la piscina per i bambini), all’economia minore (oltre che
all’allevamento di capre e tinche era usato anche per oche e anatre). Il macero d’estate serviva per
annaffiare l’orto di casa e d’inverno forniva il ghiaccio che alimentava le “conserve”; inoltre era il
luogo ideale per la cattura delle rane, che costituivano un delicato e invitante pasto.
Verso la scomparsa o la degradazione
Una volta perduto il significato economico-produttivo originario, i maceri hanno conosciuto una
regressione rapidissima: in molti poderi si procedette al loro sistematico interramento, non solo per
motivi precauzionali e igienici, ma soprattutto per recuperare spazi alle colture.
L’attuale diminuzione della resa economica delle colture stesse e il contemporaneo incremento del
costo dei materiali di colmata hanno portato a un rallentamento di questa tendenza: la scomparsa
dei maceri è oggi da attribuire a una lenta azione di colmata operata dal collasso delle sponde e
dall’esuberanza di piante “elofite”, piante cioè tipo cannucia di palude e tifa, radicanti su un fondo
acquitrinoso e con foglie e fiori fuori dall’acqua. In questi casi di abbandono, il macero si è
trasformato in un ultimo rifugio per la flora di “idrofite”, piante con corpo vegetativo completamente
sommerso, suddivise in “rizofite”, se ancorate al fondo con le radici, e “pleustofite” se liberamente
fluttuanti in superficie o al di sotto di essa.
I maceri totalmente abbandonati sono divenuti in molti casi sinonimo di ambienti degradati:
impiegati come collettori e serbatoi di acque reflue e inquinante oppure trasformati in vere e
proprie discariche all’aperto.
Sempre più frequenti e autorevoli sono perciò gli interventi a favore della conservazione dei
maceri, sia per il loro indiscusso significato di testimonianza storico-paesaggistica sia per quello
parallelo di rifugio naturalistico. Contro gli usi impropri che ne pregiudicano la conservazione si può
operare con alcune semplici attività di manutenzione, rivolte specialmente alla conservazione delle
sponde e al periodico sfoltimento della vegetazione di elofite che tende a invaderli. Per stimolare e
promuovere tali interventi, diviene però indispensabile sancire un quadro di tutela che combini
azioni di divieto (prima fra tutte la proibizione di scarico di rifiuti e liquami) e di incentivo (mediante
contributi e agevolazioni agli utilizzi legati alla pesca e all’allevamento ittico, all’irrigazione o al
semplice mantenimento della diversità biologica presente). In termini operativi si possono
brevemente ricordare alcune possibili attività che contribuiscono a una semplice manutenzione dei
maceri.
Piante acquatiche ancorate o galleggianti
Il riempimento del macero con acque che, nella migliore delle situazioni, sono ricche di sostanze
organiche, provoca nel giro di breve tempo l’attivazione di processi decompositivi. Quando
l’abbondanza di materia organica disciolta produce condizioni di assenza di ossigeno, si
sprigionano dal macero gli sgradevoli odori tipici dell’“acqua marcia”. Per evitare tali situazioni,
possono essere introdotte nel macero piante acquatiche raccolte direttamente dagli ambienti umidi
e dai canali circostanti oppure acquistate dai vivaisti specializzati. Queste piante ossigenano
l’acqua durante il giorno, grazie all’attività fotosintetica. Tra queste piante segnaliamo le seguenti.
I miriofilli (Myriophyllum verticillatum e M. spicatum), piante acquatiche perenni rizomatose, con
fusti quasi completamente sommersi e con foglie pennatosette a lacinie sottilissime disposte in
verticilli di 4-6 (M. verticillatum) o 4 (M. spicatum); i fiori piccolissimi e unisessuali sono riuniti in
una spiga con quelli femminili in basso; alle volte sono presenti anche fiori ermafroditi. Le brattee
costituiscono un’importante carattere diagnostico distintivo: il M. spicatum ha brattee squamiformi
piccolissime, più piccole dei fiori, mentre M. verticillatum presenta brattee pennatosette
decisamente più lunghe dei fiori; M. spicatum sembra essere specie decisamente più adatta alle
acque eutrofiche.
I ceratofilli (Ceratophyllum demersum e C. submersum), piante erbacee sommerse e perennanti
al fondo per mezzo di gemme apicali dormienti, caratterizzate da fiori piccolissimi, sessili, posti
all’ascella delle foglie, la cui impollinazione avviene nell’ambiente subacqueo; il carattere
diagnostico che ne consente la distinzione è fornito dalle foglie di colore verde scuro, più rigide,
biforcate e talora divise in quattro segmenti sottili comunque fortemente dentati (C. demersum),
oppure più chiare, meno rigide e con un numero decisamente superiore di segmenti (6-15) disposti
secondo successive divisioni dicotomiche (C. submersum). Per produzioni vegetative, i ceratofilli
possono invadere rapidamente anche estese superfici, formando densi popolamenti disancorati
dal fondo e debolmente mobili sotto l’influsso delle correnti; in provincia di Bologna C. submersum
è abbastanza raro.
Alcune brasche di palude (ad esempio Potamogetum crispus e P. pectinatum), piante sommerse
con foglie laceolate ovate larghe qualche centimetro, oppure lunghe e lineari, non più larghe di
mezzo centimetro. La brasca ricca o erba gaia (P. crispus) è una pianta grande da 30 a 120 cm,
generalmente ramificata, con foglie sommerse verdi, oblunghe, dotate di nervature rossastre
lunghe sino a 10 cm, facilmente riconoscibili perché ondulatocrespate lungo il margine, spighe
fiorali corte con pochi fiori; è comune in acque lente e immobili, ricche di sostanze eutrofiche. La
brasca delle lagune (P. pectinatum) è invece una pianta lunga sino a 2 m, con fusto filiforme
amificato dicotomicamente, con foglie verdi, lineari, provviste di guaina e di una evidente ligula,
larghe 1-4 mm, con tre nervature principali e nervature trasversali, fiori in spighe interrotte,
emergenti dall’acqua; è indicatrice di acque alcaline. Tra le piante galleggianti che
spontaneamente tendono a occupare la superficie del macero si possono segnalare le specie
sottoindicate.
Le lenticchie d’acqua (Lemma minor, L. trisulcata e L. gibba), piccole piante acquatiche
galleggianti sulla superficie o, nel caso di L. trisulcata, leggermente sotto (quindi sommerse), con
foglie nella pagina inferiore verdi (solo saltuariamente rossicce) e recanti una sola radice. L.
trisulcata si caratterizza per avere foglie picciolate e lanceolate, lunghe da 5 a 10 mm, con tre
nervature evidenti. L. minor, forse la più frequente, ha invece foglie rotondeggianti od ovate,
sessili, di dimensioni comprese tra 2 e 5 mm; L. gibba si distingue, infine, per la presenza di un
tessuto spugnoso che rende convessa la pagina inferiore.
La lente di palude (Spirodela polyrrhiza), molto simile alla lenticchia d’acqua, con foglie
rotondeggianti con diametro di 10 mm, rossicce nella pagina inferiore e dotate in media di 2-8
radici semplici, piane o un po’ lentiformi, isolate o connesse in gruppi di 2- 5, con fiori minuscoli
riuniti in infiorescenze con due fiori maschili (ridotti a 2 stami) e un ovaio.
Le specie che colonizzano le sponde
Alcune piante elofite si insediano presso le sponde del macero, soprattutto quando queste hanno
addolcito la propria pendenza col tempo. Queste piante costituiscono una vera e propria minaccia,
perché, se la profondità del macero si riduce, tendono rapidamente a occupare lo specchio
d’acqua e a colmarlo con il deposito costituito dai culmi morti. Diviene perciò importante mantenere
le sponde sufficientemente ripide, il macero colmo d’acqua e, comunque, asportare dal macero
queste piante alla fine della loro stagione vegetativa. Le specie più comuni sono di seguito
descritte.
La cannuccia di palude (Phragmites australis), pianta erbacea perenne dotata di un lungo rizoma
ricoperto di scaglie coriacee. Può raggiungere i 5 m di altezza anche se in genere non supera 1- 2
m, le foglie sono lineari lanceolate, di colore grigio verde, lunghe fino a mezzo metro e larghe sino
a 5 cm. Le infiorescenze sono pannocchie oblunghe, spesso porporine, costituite da spighette di
10-15 mm. Molto diffusa nei corsi d’acqua e nelle valli, sia su terreno umido sia in zone allagate
con profondità talvolta superiori al metro. La pianta si riproduce vigorosamente in modo vegetativo,
per cui è attiva colonizzatrice di aree umide, che ricopre rapidamente con popolazioni
monospecifiche. Viene tuttora utilizzata per fabbricare stuoie.
La mazza sorda (Typha latifolia), pianta erbacea perenne abbastanza robusta, alta sino a 2 m e
anche oltre. Le foglie sono tutte basali, lineari, erette, larghe più di un centimetro e con una guaina
che avvolge il fusto fiorale. Le infiorescenze hanno l’aspetto di grosse spighe cilindriche di colore
bruno scuro. I fiori sono stratificati: quelli maschili sono sopra e quelli femminili sotto.
Caratteristica è l’infruttescenza a forma di mazza che disperde a maturità moltissimi frutti minuti,
leggerissimi, dotati di una sorta di pappo. Cresce sia su suoli umidi che allagati, dove non forma
popolamenti monospecifici, ma spesso si consocia con altre specie elofite. Viene raccolta per
fabbricare stuoie e fiaschi.
Le fioriture più belle
Fra queste la ninfea bianca (Nymphea alba), una pianta erbacea perenne acquatica, con grosso
rizoma ancorato al fondo. Le foglie sono rotondeggianti, profondamente cuoriformi alla base e
rossicce sulla pagina inferiore. Esse sono natanti sulla superficie dell’acqua, come del resto anche
i fiori. Questi ultimi, bianchi con sfumature rosate, hanno 4 grandi sepali, verdi da un lato e bianchi
dall’altro. I petali si trasformano gradatamente in stami petaloidi, mentre i veri stami sono disposti
più internamente assieme all’ovario semi-infero. Il frutto è una grossa bacca che matura su fondo.
È una tra le più appariscenti piante degli ambienti umidi, dove copre spesso vaste superfici libere
da elofite. Assieme ad altre specie dalla struttura simile, costituiscono quei popolamenti vegetali
detti “lamineti”. È una specie spontanea protetta dalla Legge Regionale n. 2/77, per cui è proibita la
raccolta. Il reperimento è possibile solo presso i vivaisti specializzati.
L’iris giallo di palude (Iris pseudacorus) è una pianta erbacea dotata di rizoma e alta 1-1,5 m, le
foglie, di colore verde glauco, sono a forma di spada, lunghe al massimo un metro e larghe fino a 3
cm, in parte basali e in parte disposte lungo l’asse fiorale. Le infiorescenze sono formate da diversi
fiori gialli molto appariscenti. I frutti sono capsule allungate.
È una specie piuttosto frequente ai margini delle zone umide e lungo gli argini di fiumi e canali
della pianura, anche se localmente ha mostrato una certa regressione.
Evitare le specie ittiche predatrici
Nel macero possono essere introdotte diverse specie ittiche tenendo conto che anche una limitata
presenza di pesci riduce fortemente la presenza di rane e anfibi in generale. Se, quindi, non si
intende utilizzare lo specchio d’acqua per l’acquacoltura è buona norma attenersi a una
immissione contenuta, onde evitare il rischio di pericolosi sovraffollamenti. Anche nella scelta della
specie è bene, qualora non si segua uno specifico programma produttivo, introdurre specie
erbivore, onnivore e detritivore, evitando invece quelle predatrici adatte esclusivamente per
ambienti di medie e grandi dimensioni. Occorre eliminare altresì gli eventuali siluri presenti, i quali
arrivano a predare anche uccelli acquatici. Lo spazio limitato e la semplificazione ecologica del
macero non potrebbero sostenere una catena alimentare con un’elevata biomassa di pesci
predatori. Nell’introduzione di pesci, quindi, si può fare riferimento a caratteristiche utili alla
manutenzione del macero, come la fitofagia e la predazione di larve di zanzare, oltre ovviamente
all’autoctonia della specie.
Descriviamo di seguito le principali specie consigliate.
La tinca (Tinca tinca), un pesce notturno, piuttosto torpido, che vive praticamente in qualsiasi
acqua; allo stadio adulto raggiunge le dimensioni di 60 cm e si presenta con un corpo allungato,
ma piuttosto massiccio; in genere preferisce acque tranquille, melmose e ricche di densa
vegetazione. Si trattiene presso il fondo e si nutre di animali bentonici, di detriti e di vegetazione.
Le uova vengono deposte durante la tarda primavera e l’estate sulla vegetazione o direttamente
nel fondo melmoso.
La carpa (Ciprinus carpio), un pesce che vive anche in acque a lento corso e che si intrattiene nei
pressi dei fondali; la forma capostipite (la carpa comune o selvatica) raggiunge lunghezze sino a
120 cm. La carpa si nutre principalmente di fauna di fondo (crostacei, molluschi, vermi e larve di
insetti) ma anche di vegetali; è di abitudini notturne.
Esistono diverse forme adatte all’allevamento, che possono presentarsi sia slanciate, come le
forme selvatiche, sia tozze e panciute: la carpa comune (completamente coperta di squame), la
carpa a specchio (con grosse e poche squame sul dorso), la carpa cuoio (completamente priva di
squame).
La gambusia (Gambusia affinis), piccolo ciprinidontiforme di origine nord-americana, introdotto in
Europa per la sua specificità nella lotta alle larve di zanzare. Vive in qualsiasi acqua, mostrando
una notevole adattabilità ecologica, dalle acque dolci pantanose e paludose sino a lagune
debolmente saline. È un pesce viviparo che partorisce 3-5 volte l’anno fino a 60 piccoli crostacei.
Anfibi e rettili caratteristici
Questi specchi d’acqua attraggono inoltre numerosi anfibi e rettili purché siano assenti loro forti
predatori, quali in particolare alcuni pesci, e siano presenti specie vegetali sia emerse che
sommerse.
Tali ospiti sono favoriti inoltre dalla presenza dei caratteristici mucchi di grossi sassi di fiume tipici
dei vecchi maceri, che andrebbero pertanto gelosamente conservati. Citiamo brevemente alcuni
anfibi e rettili caratteristici.
Il tritone crestato (Triturus cristatus) è uno dei più comuni tritoni italiani. Si può trovare in acqua
tutto l’anno, sebbene in molte località diventi terragnolo, al di fuori del periodo degli amori. È
diffuso dalla pianura sino alla montagna, in acque ferme o con debole corrente, ricche di
vegetazione. Sulla terraferma si trova nei pressi delle pozze di riproduzione e nei boschi, sotto
pietre e ceppaie. La dieta del tritone è molto varia: si nutre infatti di anellidi, molluschi crostacei,
larve e adulti di insetti. In acqua caccia ispezionando il fondo e affidandosi all’olfatto e al tatto.
Il tritone punteggiato (Triturus vulgaris), di più piccole dimensioni (9 cm le femmine, 11 cm i
maschi) e con pelle liscia, è decisa- mente più terragnolo del tritone crestato. Si trova infatti in
boschi, giardini, coltivi e altri ambienti freschi, rivoltando pietre e ceppi, cercando nei buchi o sotto
la lettiera delle foglie.
La rana agile (Rana dalmatina), terragnola e silenziosa, in regresso dalle pianure per la
scomparsa di ambienti a lei congegnali. Questa rana passa spesso inosservata per la colorazione
traslucida tenue e poco appariscente, che varia sul dorso da toni giallo-fulvi a brunorosati (color
“foglia morta”). A differenza delle altre rane rosse, è estremamente agile sul terreno e capace di
lunghi balzi; se minacciata si tuffa in acqua, dove comunque è scarsa nuotatrice. Trascorre le
giornate nascosta tra la lettiera di foglie morte, che abbandona di notte per cacciare piccoli insetti,
lombrichi e altri invertebrati.
La rana verde minore (Rana esculenta), la più comune della nostra pianura, varia dal verde prato
ad un verde molto scuro, sino al marrone, lungo il centro del dorso presenta una striscia di colore
giallo-verde o verde (mai presente nelle rane rosse). È decisamente l’anuro più acquatico delle
nostre campagne, grazie anche alla completa palmatura delle zampe posteriori che ne fanno un
ottimo nuotatore. È di abitudini diurne e ama il sole, lasciandosi osservare spesso mentre si
termoregola sulle rive e sugli argini; voracissima, si nutre di piccoli insetti, ragni e molluschi che
afferra con rapidi movimenti della lingua. Questa rana costituisce un gruppo molto complesso
insieme ad altre due specie di rane, la rana verde maggiore (Rana ridibunda) e la rana di
Lessona (Rana lessonae); dall’incrocio di queste ultime due deriverebbe la rana verde minore,
che tra l’altro, grazie a meccanismi non ancora del tutto chiariti, riuscirebbe nuovamente a
incrociarsi con le specie genitrice, generando quasi sempre esemplari di R. esculenta. Delle due
specie progenitrici solo R. lessonae è presente nella nostra pianura.
La raganella (Hyla arborea), inconfondibile anuro di dimensioni contenute (adulti sino a 5 cm) e
dalla pelle liscia di colore verde brillante uniforme, tranne sul ventre che è più biancastro. Altra
particolarità distintiva sono gli ingrossamenti adesivi a forma di disco presenti all’estremità delle
dita, che rendono l’animale ottimo arrampicatore. Il canto delle raganelle è molto caratteristico e
consiste in un prolungato e stridente verso metallico che solo occasionalmente si ascolta al di fuori
della stagione riproduttiva. È un animale di abitudini prevalentemente notturne, si nutre in genere
di insetti volanti, di solito si trova in ambienti ricchi di vegetazione, in particolare canneti, alberi e
cespugli; la sua presenza, quindi, nei pressi del macero e di altri ambienti di pianura costituisce un
indubbio indicatore di varietà ambientale.
I rospi (Bufo bufo e B. viridis), anfibi abbastanza comuni dalla pelle verrucosa, con grandi
ghiandole paratoidi ai lati della testa e con pupille orizzontali. Gli adulti sono in genere di abitudini
notturne e terrestri, ma durante l’epoca della riproduzione si riuniscono in gran numero presso
stagni, raccolte d’acqua e fiumi dal lento corso. Durante questi trasferimenti molti esemplari
soccombono, investiti dalle automobili, mentre attraversano le strade che costeggiano i luoghi della
riproduzione. Negli ultimi anni in molte zone d’Europa si sono messi in opera accorgimenti e
soluzioni tecniche (dalla segnalazione dei rischi di investimento mediante cartelli, alla realizzazione
di sottopassi e barriere lungo i bordi stradale) per cercare di evitare queste stragi. Nella pianura
bolognese sono presenti sia il rospo comune (di discrete dimensioni) che il rospo smeraldino
(relativamente più piccolo).
Il rospo comune (Bufo bufo) è diffuso in tutta Italia a eccezione della Sardegna e può essere
facilmente osservato in diversi ambienti, anche asciutti: di abitudini prevalentemente notturne, si
mostra attivo di giorno durante le giornate umide e nel folto dei sottoboschi oppure tra la fine
dell’inverno e l’inizio della primavera presso le raccolte d’acqua, dove si accoppia e dove depone
le ovature. Gli adulti arrivano a misurare sino a 15 cm di lunghezza e la femmina è decisamente
più grande del maschio. Il colore è estremamente variabile: si possono osservare esemplari bruni,
color sabbia, rosso mattone e occasionalmente verde oliva. Durante l’accrescimento, le larve si
nutrono di alghe e di detriti organici presenti nell’ambiente.
Il rospo smeraldino (Bufo viridis), meno comune del precedente, si trova nelle zone di pianura
dell’Italia continentale ed è diffuso anche nei pressi delle città. Le sue dimensioni non superano i
10 cm e la femmina è decisamente più grande del maschio, come per il rospo comune. I cori
notturni di questi animali sono diversi da quelli del rospo comune: il verso del rospo smeraldino
non può essere confuso con quello di altri anfibi perché costituito da un trillo intenso e armonioso
della durata di una decina di secondi, molto simile al frinire dei grilli.
La testuggine palustre (Emys orbicularis), l’unica testuggine d’acqua dolce autoctona della nostra
regione. Si trova nelle acque ferme debolmente correnti, di pianura o della collina. Di medie
dimensioni (la femmina raggiunge anche 35 cm), ha un carapace a contorno ovale decisamente
liscio e appiattito. Di colorazione scura, con strie e macchie gialle nelle femmine e nei giovani, di
colore marrone nei maschi. Il collo e la coda sono lunghi e ben sviluppati. Le testuggini d’acqua
sono solite riscaldarsi al sole sulle rive dei fiumi e degli stagni oppure su tronchi o rami affioranti o
sospesi sull’acqua. La dieta comprende larve di insetti, pesci e carogne. È un animale molto
longevo, potendo raggiungere 100 anni.
La biscia dal collare (Natrix natrix) vive di solito in acqua o presso le rive di stagni e corsi
d’acqua. Non sempre evita l’uomo e talvolta può stabilirsi in orti, legnaie, fienili, stalle. Tra i
serpenti nostrani figura tra i più grandi, potendo raggiungere anche 2 m di lunghezza (la femmina
adulta). Di regola, pur essendo un’ottima nuotatrice, è la meno acquatica tra le bisce d’acqua
presenti nella nostra provincia. I giovani e i maschi adulti predano all’agguato in acqua, mentre le
femmine predano a terra, spingendosi anche a considerevoli distanze dalle aree umide.
Le parti superiori sono grigio-verdastre oppure bruno-verdastre, con numerose bande trasversali
nere per lo più alternate sui fianchi e spesso anche sul dorso. Caratteristico è il collare presente
sulla nuca, costituito da due bande chiare, in genere di colore nero; negli adulti le macchie chiare
possono scomparire. Come tutti i colubridi, si distingue dalle vipere per la forma della pupilla
(rotonda e non verticale), per la differente impostazione delle squame del capo (grandi regolari e
non piccole irregolari) e per la fisionomia generale del corpo (lungo, snello, con coda lunga e non
corto, tozzo, con coda breve). Come tutti i colubridi emilianoromagnoli, la biscia d’acqua non è
velenosa per l’uomo.
Infine i maceri costituiscono soprattutto in periodo estivo, importanti punti di abbeverata, per
numerose specie di uccelli, come l’usignolo e il fagiano, che altrimenti diserterebbero l’area; altre
specie come nitticora, airone cenerino e martin pescatore utilizzano regolarmente i maceri per la
ricerca di prede; le gallinelle d’acqua sono regolarmente presenti e nidificano a condizione che vi
sia vegetazione ripariale e talvolta negli invasi più grandi o con abbondante vegetazione palustre
nidificano anche tuffetto, germano reale e folaga.