L'INDICE PENALE - Cedam

L'INDICE PENALE - Cedam L'INDICE PENALE - Cedam

20.05.2013 Views

Pubblicazione quadrimestrale Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 nº 46) art. 1, comma 1, DCB VERONA - Con I.R. Nuova Serie - Anno IX - N. 1 Gennaio-Aprile 2006 L’INDICE PENALE Rivista fondata da PIETRO NUVOLONE Diretta da ALESSIO LANZI Tra l’altro in questo numero: — In tema di responsabilità degli enti collettivi — Sul diritto penale del nemico — Il soggetto attivo nei reati propri — In tema di giudizio di revisione ISSN 0019-7084

Pubblicazione quadrimestrale Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003<br />

(conv. in L. 27/02/2004 nº 46) art. 1, comma 1, DCB VERONA - Con I.R.<br />

Nuova Serie - Anno IX - N. 1 Gennaio-Aprile 2006<br />

L’INDICE <strong>PENALE</strong><br />

Rivista fondata da<br />

PIETRO NUVOLONE<br />

Diretta da<br />

ALESSIO LANZI<br />

Tra l’altro in questo numero:<br />

— In tema di responsabilità degli enti collettivi<br />

— Sul diritto penale del nemico<br />

— Il soggetto attivo nei reati propri<br />

— In tema di giudizio di revisione<br />

ISSN 0019-7084


L’OBIETTIVO SU...<br />

1


Direttore<br />

Alessio Lanzi<br />

Comitato di Direzione<br />

Alberto Cadoppi, Luigi Stortoni, Paolo Tonini<br />

Comitato Scientifico<br />

Alessandro A. Calvi, Franco Coppi, Piermaria Corso, Angelo Giarda,<br />

Alfredo Molari, Elio Morselli, Antonio Pagliaro, Mario Pisani,<br />

Fabrizio Ramacci, Roland Riz, Giorgio Spangher, Sergio Vinciguerra.<br />

Renato Bricchetti, Stefano Canestrari, Luigi Domenico Cerqua, Ubaldo<br />

Giuliani Balestrino, Nicola Mazzacuva, Bartolomeo Romano, Giulio<br />

Ubertis, Paolo Veneziani.<br />

Josè de Faria Costa-Coimbra, Hans-Heinrich Jescheck-Freiburg i.B.,<br />

Fermin Morales Prats-Barcelona, Jean Pradel-Poitiers, Alexander<br />

McCall Smith-Edinburgh, Gonzalo Quintero Olivares-Tarragona.<br />

Comitato di Redazione<br />

Stefano Putinati (coordinatore)<br />

Paolo Aldrovandi, Daniele Carra, Paolo Damini, Gian Paolo del<br />

Sasso, Stefano Delsignore, Luca Monticelli, Cosimo M. Pricolo,<br />

Lorenza Tosato.<br />

Emanuela Arduini, Luca Beltrami, Malaika Bianchi, Mario L’Insalata,<br />

Maria Chiara Parmiggiani, Cristina Pavarani.<br />

Hanno diretto la Rivista:<br />

Pietro Nuvolone dal 1967 al 1984<br />

Mario Pisani dal 1985 al 1996


Nuova Serie - Anno IX - N. 1 Gennaio-Aprile 2006<br />

L’INDICE <strong>PENALE</strong><br />

Rivista fondata da<br />

PIETRO NUVOLONE<br />

Diretta da<br />

ALESSIO LANZI


proprietà letteraria riservata<br />

___________<br />

# Copyright 2006 by CEDAM - Padova<br />

ISBN 88-13-26609-X<br />

Stampato in Italia - Printed in Italy<br />

grafiche fiorini - via altichiero, 11 - verona


INDICE<br />

5<br />

Indice<br />

(n. 1 – gennaio-aprile 2006)<br />

Saggi e opinioni<br />

Luigi Stortoni – Davide Tassinari, La responsabilità degli<br />

enti: quale natura? quali soggetti? .........................................<br />

Andrea Mereu, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti collettivi<br />

pag. 7<br />

e i criteri di attribuzione della responsabilità tra teoria e prassi<br />

Loredana Garlati, Silenzio colpevole, silenzio innocente.<br />

L’interrogatorio dell’imputato da mezzo di prova a strumento<br />

pag. 27<br />

di difesa nell’esperienza giuridica italiana .............................. pag. 109<br />

Federica Resta, Nemici e criminali. Le logiche del controllo<br />

Francesco Callari, La relazione dialettica tra l’irrefragabilità<br />

pag. 181<br />

del giudicato penale ed il giudizio di revisione ..................... pag. 229<br />

Studi e rassegne<br />

Marco Mantovani, L’oggetto tutelato nelle fattispecie penali<br />

in materia di religione .............................................................<br />

Francesco Cingari, Tipizzazione e individuazione del soggetto<br />

attivo nei reati propri: tra legalità ed effettività delle<br />

pag. 257<br />

norme penali ...........................................................................<br />

Alessandro Giuseppe Cannevale – Chiara Lazzari, Schia-<br />

pag. 275<br />

vitù e servitù nel diritto penale ..............................................<br />

Francesco Bochicchio, Abuso e irregolarità nella contraffazione<br />

della firma su documenti relativi ad operazioni di inve-<br />

pag. 309<br />

stimento mobiliare ..................................................................<br />

Giovanna Fanelli, Notitiae criminis, Banca d’Italia ed Autorità<br />

pag. 359<br />

Giudiziaria ...............................................................................<br />

Andrea Paolo Casati, Nuovi profili dell’azione penale nel<br />

pag. 373<br />

procedimento davanti al Giudice di Pace ............................. pag. 407<br />

Giurisprudenza: note, commenti, rassegne<br />

Corte Europea dei diritti dell’uomo – Sezione III, 13 ottobre<br />

2005, Bracci c. Italia, con nota di Francesco Zacchè, Lettura<br />

di atti assunti senza contraddittorio e giusto processo .<br />

Tribunale di Urbino, 23 settembre 2003 n. 328, M.G.P. con nota<br />

di Angela Maria Bonanno, Protocolli, linee giuda e colpa<br />

pag. 427<br />

specifica ...................................................................................<br />

Tribunale di Bergamo, 16 novembre 2004, Percassi, con nota di<br />

Guido Camera, Alcune riflessioni in materia di punibilità<br />

pag. 441<br />

per il delitto comune commesso dal cittadino all’estero ...... pag. 449


6<br />

INDICE<br />

Diritto penale straniero, comparato, comunitario<br />

Davide Bertaccini, Zbornik Pravnog Fakulteta Sveucilisˇta u<br />

Rijeci (fascicolo del 2005) ....................................................... pag. 457<br />

Inviato speciale<br />

Andrea Paolo Casati, Per una giustizia penale più sollecita:<br />

ostacoli e rimedi ragionevoli. Il problema nelle fasi di gravame<br />

– Lecce, 14 e 15 ottobre 2005 ............................................... pag. 461<br />

Recensioni e schede<br />

Percorsi europei di diritto penale, di G. Fornasari e A. Menghini<br />

(di Maddalena Grassi) .............................................................<br />

Abolitio criminis e modifica della fattispecie, di E.M. Ambrosetti<br />

pag. 475<br />

(di Silvia Massi) .......................................................................<br />

Il principio di offensività del diritto penale. Canone di politica<br />

criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza<br />

pag. 486<br />

di V. Manes (di L.B.) .............................................................. pag. 490<br />

Vecchie pagine<br />

Federico Bellini, Realtà materiale e realtà giuridica nel processo<br />

secondo il pensiero di Francesco Carrara .................... pag. 491<br />

Notiziario ...................................................................................... pag. 497<br />

Hanno collaborato ........................................................................ pag. 498


SAGGI E OPINIONI<br />

La responsabilità degli enti:<br />

quale natura? quali soggetti? (*)<br />

7<br />

Saggi e opinioni<br />

Sommario: § 1. Premesse sulla natura della responsabilità. – § 2. La rilevanza pratica del<br />

problema: la disciplina applicabile. – § 3. La responsabilità degli enti come ‘‘legge penale<br />

speciale’’? – § 4. ...o come applicazione ‘‘specialistica’’ dell’illecito amministrativo?<br />

– § 5. Una forma normativamente ‘‘autosufficiente’’ di responsabilità? – § 6. La ‘‘colpa<br />

di organizzazione’’: una nuova forma di responsabilità a fisionomia ‘‘ibrida’’ amministrativo-penale,<br />

con modalità sui generis d’imputazione. – § 7. Le ragioni sottostanti<br />

ad una configurazione ‘‘eccentrica’’ della responsabilità. – § 8. Quali soggetti?<br />

§. 1. Premesse sulla natura della responsabilità<br />

Il problema della natura della responsabilità degli enti rappresenta la<br />

prima e fondamentale questione sulla quale la dottrina si è interrogata( 1 ).<br />

Ciò sia per il carattere di decisa innovazione che pare sotteso alla novella<br />

del d.lgs 231 del 2001, sul cui sfondo si intravede un ripensamento della<br />

secolare tradizione per cui ‘‘societas delinquere non potest’’; sia perché entrano<br />

qui in gioco profonde questioni ‘‘culturali’’: è in discussione la permanente<br />

validità, rispetto al rivoluzionario settore della responsabilità degli<br />

enti, delle categorie logiche ed analitiche e – soprattutto – dei principi che<br />

compongono l’area della penalità( 2 ).<br />

(*) Testo riveduto e con l’aggiunta di note della Relazione al convegno ‘‘La responsabilità<br />

da reato delle società’’, tenutosi a Milano il 25 maggio 2005. Esclusivamente a fini concorsuali,<br />

si attribuiscono i § da 1. a 7. al Dott. Davide Tassinari ed il § 8. al Prof. Luigi Stortoni.<br />

( 1 ) In generale, per un inquadramento del problema e per una panoramica bibliografica<br />

si vedano, per tutti, O. Di Giovine, La responsabilità degli enti: lineamenti di un nuovo<br />

modello di illecito punitivo, in AA.VV., Diritto e impresa: un rapporto controverso, a cura di<br />

A. Manna, Milano, 2004, p. 423 s. e spec. 429 s.; nella più recente manualistica, D. Pulitanò,<br />

Diritto penale, Torino, 2005, p. 732 s.<br />

( 2 ) È stato giustamente osservato come la nuova forma di responsabilità abbia determinato<br />

una vera e propria ‘‘crisi dogmatica’’, cfr. A. Alessandri, Note penalistiche sulla nuova<br />

responsabilità delle persone giuridiche, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 58 s. Il d.lgs.


8<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Un segnale del potenziale innovativo che la novella sottintende – e di<br />

quanto essa abbia sorpreso la dottrina penalistica, di colpo costretta a misurarsi<br />

con questioni interpretative e sistematiche prima sconosciute – è<br />

ravvisabile nella tendenza ad inquadrare il problema entro lo schema delle<br />

tradizionali categorie codicistiche: si pensi alla trasposizione – che nasconde<br />

un radicato habitus logico e concettuale ancor prima che linguistico<br />

– in questo ambito di temi come quello del concorso di persone nel reato,<br />

delle causalità e – ciò che solleva i più accesi dibattiti – della colpevolezza(<br />

3 ).<br />

La dottrina, insomma, pare attualmente impegnata nell’immane sforzo<br />

di colmare un improvviso vuoto nel proprio secolare bagaglio formativo,<br />

restringendo o dilatando, ai limiti della loro portata logica, categorie che<br />

la dogmatica classica ha pervicacemente costruito attorno alla figura dell’autore<br />

– persona fisica.<br />

§ 2. La rilevanza pratica del problema: la disciplina applicabile<br />

A rigore, tuttavia, ancor prima di utilizzare strumenti noti per indagare<br />

una creatura normativa ignota, della quale rimane dubbia persino la riconducibilità<br />

ai generi sinora conosciuti di diritto punitivo – ovvero al ‘‘modello<br />

penale’’ ed al ‘‘modello amministrativo’’ –, occorre misurarsi con<br />

una questione interpretativa che sta, per così dire, a monte del problema:<br />

qual’è la disciplina applicabile alla responsabilità degli enti?<br />

In linea di principio, ad un tale quesito potrebbero darsi tre differenti<br />

risposte. Premesso che il d.lgs. 231 del 2001 detta alcune norme generali di<br />

disciplina (basti pensare, fra le altre, a quelle dedicate all’individuazione<br />

degli enti – soggetti responsabili, alla fissazione dei principi di legalità ed<br />

irretroattività ed agli innovativi criteri di attribuzione della responsabilità),<br />

potrebbe, infatti, ipotizzarsi:<br />

a) che, oltre alle specifiche norme dettate dalla novella legislativa, trovino<br />

applicazione i principi e le regole previsti dal codice penale ed, in<br />

specie, quelle contenute nella sua parte generale;<br />

b) che, al contrario, vista la natura dichiaratamente ‘‘amministrativa’’<br />

231 rappresenta, d’altro canto, una sorta d’inedito anche sul piano prettamente politico criminale.<br />

Cfr. G. De Francesco, Disciplina penale societaria e responsabilità degli enti: le occasioni<br />

perdute della politica criminale, inDir. pen e proc., 2003, p. 929.<br />

( 3 ) Con particolare riferimento ai problemi di raccordo fra la responsabilità degli enti<br />

ed il principio di personalità della responsabilità penale si vedano gli ancora attualissimi rilievi<br />

di F. Bricola, Il costo del principio Societas delinquere non potest, in Riv. it. dir. proc.<br />

pen., 1970, p. 951 e spec. 1006; più di recente, M. Romano, Societas delinquere non potest<br />

(nel ricordo di Franco Bricola), inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1031 s. e 1036.


SAGGI E OPINIONI<br />

della responsabilità in discorso, essa sia da ritenersi disciplinata, oltre che<br />

dalle regole sue proprie, dalla legge n. 689 del 1981 (la così detta legge<br />

– quadro sull’illecito amministrativo);<br />

c) che la disciplina del d.lgs. 231/2001, fatti salvi i rinvii da essa espressamente<br />

disposti ad altre fonti (si pensi alle disposizioni del codice di procedura<br />

penale, che l’art. 34 del d.lgs richiama ‘‘in quanto compatibili’’) si<br />

configuri come esaustiva e, non necessiti, pertanto, di nessuna integrazione;<br />

il problema della natura della responsabilità, si badi, non è per nulla<br />

sterile, né la scelta dell’una o dell’altra soluzione rileva dal solo punto di<br />

vista dell’analisi teorica: essa, al contrario, porta con sé riflessi pratici di primaria<br />

importanza. La giurisprudenza ha avuto modo di avvedersene, di recente,<br />

allorché sièposta il problema di legittimare o meno, con riferimento<br />

all’illecito proprio dell’ente, la costituzione di parte civile nel processo penale(<br />

4 ).<br />

È chiaro come la soluzione di una tale questione non possa ignorare il<br />

tema in esame, che, all’opposto, si pone come una sua fondamentale premessa<br />

logica.<br />

L’art. 185 c.p. riserva, infatti, la legittimazione attiva ai fini del risarcimento<br />

del danno al solo danneggiato da reato. Èallora necessario chiedersi<br />

se la dichiarata forma ‘‘amministrativa’’ della responsabilità dell’ente osti –<br />

come peraltro la giurisprudenza ha ritenuto – all’ammissibilità di una domanda<br />

risarcitoria formulata direttamente nei confronti dell’‘‘autore collettivo’’.<br />

Ove si prescegliesse la strada di una natura penale della responsabilità<br />

dell’ente, si potrebbe argomentare, in senso contrario alla decisione appena<br />

menzionata, che la sostanza penale dell’imputazione debba godere di un<br />

naturale privilegio sulla sua forma amministrativa; la costituzione di parte<br />

civile andrebbe allora ammessa in rapporto non solo al reato, ma anche alla<br />

nuova responsabilità ‘‘da reato’’. Invero, come fra poco si dirà, la giurisprudenza<br />

in discorso pare aver colto nel segno. La responsabilità degli enti,<br />

infatti, va ascritta ad un tertium genus a conformazione ibrida, connotato<br />

da una modalità sui generis d’imputazione.<br />

§ 3. La responsabilità degli enti come ‘‘legge penale speciale’’?<br />

Dal punto di vista penalistico, il problema dell’applicabilità delle<br />

norme del codice penale deve essere affrontato con riferimento all’art.<br />

( 4 ) Sul punto si vedano, in particolare, le osservazioni di C.F. Grosso, Sulla costituzione<br />

di parte civile nei confronti degli enti collettivi chiamati a rispondere ai sensi del d.lgs n. 231<br />

del 2001 davanti al giudice penale (nota a Tribunale di Milano, Ord. 9 marzo 2004, G.i.p.<br />

Forleo), in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p. 1335 s.<br />

9


10<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

16 c.p.: tale disposizione, estendendo le regole fissate nel codice alle ‘‘leggi<br />

penali speciali’’, persegue il fondamentale obiettivo dell’unità dogmatica<br />

del diritto penale ed assolve ad una imprescindibile funzione di raccordo<br />

con la legislazione complementare( 5 ).<br />

In quest’ottica, l’interrogativo che ci si è posti in premessa va affrontato<br />

in rapporto alla possibilità o meno di qualificare il d.lgs 231/2001 sulla<br />

responsabilità degli enti come una ‘‘legge penale speciale’’.<br />

Solo nel caso di una risposta positiva si potrebbe ritenere corretta l’esportazione<br />

tout court in questo settore della disciplina del codice penale e,<br />

in uno con quest’ultima, delle categorie e dei tradizionali modelli euristici<br />

applicabili alla responsabilità ‘‘da reato’’ dettata per le persone fisiche.<br />

Per cogliere l’importanza pratica della questione, è sufficiente pensare<br />

alle conseguenze che deriverebbero dall’applicabilità agli enti di istituti –<br />

per restare a quelli le cui implicazioni per il problema che ci occupa sono<br />

più evidenti – come il concorso di persone nel reato e la causalità; o dei<br />

principi penalistici – dei quali è noto lo spessore costituzionale – vigenti<br />

in tema di imputazione soggettiva (si pensi, ad esempio, alla ‘‘rimproverabilità’’<br />

quale momento centrale della colpevolezza in senso normativo), ed,<br />

in particolare, in tema di dolo e colpa (in questo ambito potrebbe, ad<br />

esempio, venire in considerazione la tematica della così detta ‘‘doppia misura<br />

della colpa’’).<br />

La possibilità di ricondurre la nuova normativa sulla responsabilità<br />

degli enti all’ambito delle ‘‘legge penali speciali’’ appare, tuttavia, negata<br />

dalle stesse premesse dal ‘‘manifesto’’ legislativo del 2001.<br />

Una tale soluzione interpretativa, va, anzitutto, in diretta collisione con<br />

le scelte di fondo della disciplina, ex professo intitolata come ‘‘responsabilità<br />

amministrativa dell’ente’’.<br />

Anche a voler prescindere dalle etichette – e le etichette sono spesso il<br />

primo elemento dal quale traspare la voluntas legis –è, peraltro, innegabile<br />

che il legislatore abbia voluto dare vita ad un complesso sotto sistema virtualmente<br />

autonomo, in primo luogo, proprio dal referente punitivo penale.<br />

Il micro – settore della responsabilità degli enti è, infatti, governato da<br />

una piccola parte generale( 6 ) e, per ciò stesso, è stato razionalmente e volutamente<br />

concepito come impermeabile ad ogni contaminazione della disciplina<br />

codicistica.<br />

( 5 ) In generale, sul punto, cfr. M. Romano, Commentario sistematico del codice penale,<br />

3ª ed., vol. I, Milano, 2004, p. 189.<br />

( 6 ) Per una dettagliata analisi della struttura complessiva del provvedimento si veda, in<br />

particolare, C. De Maglie, La disciplina della responsabilità delle persone giuridiche e delle<br />

associazioni. Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, inDir. pen. proc.,<br />

2001, p. 1348.


SAGGI E OPINIONI<br />

Non si tratta, insomma – a meno di non voler sovvertire il discusso<br />

dato di fondo della scelta punitiva ‘‘amministrativa’’ –, di una forma di responsabilità<br />

che possa dirsi disciplinata dal concorso di una parte generale<br />

‘‘specifica’’ e di una ‘‘parte generale’’, per così dire, ‘‘di riferimento’’ come<br />

quella penalistica; al contrario, l’assetto chiaramente prescelto dal legislatore<br />

è quello di un impianto di disciplina chiuso ed autosufficiente, indipendente<br />

dalla sfera penale, sia per criteri d’imputazione che per arsenale<br />

sanzionatorio.<br />

Queste osservazioni, naturalmente, nulla tolgono alla premessa di<br />

fondo del decreto legislativo, che configura un illecito sì autonomo, ma<br />

pur sempre derivante ‘‘da reato’’: non v’è dubbio, in questo senso, che la<br />

legge penale giochi un ruolo essenziale – e, come fra poco si dirà, per molti<br />

aspetti problematico – in relazione alla configurabilità oggettiva e soggettiva<br />

del reato presupposto.<br />

§ 4. ...o come applicazione ‘‘specialistica’’ dell’illecito amministrativo?<br />

Il discorso circa la disciplina applicabile alla responsabilità de qua richiede,<br />

come si è accennato, una risposta ad un secondo quesito: se così<br />

evidenti sono gli ostacoli ad una estensione al settore in esame della disciplina<br />

codicistica, può ipotizzarsi un’applicabilità ad esso dei principi e delle<br />

regole dettate dalla legge 689 del 1981 in materia di illecito amministrativo?<br />

È proprio questa, d’altronde, la soluzione che parrebbe imposta dal<br />

nomen ben impresso dal legislatore alla responsabilità degli enti.<br />

È assolutamente pacifico, d’altra parte, che la legge del 1981 rappresenti<br />

una sorta di parte generale dell’illecito amministrativo; ad essa, anzi,<br />

va il merito di aver per la prima volta fatto chiarezza sui principi ai quali<br />

deve uniformarsi questa forma di responsabilità( 7 ).<br />

Nella legge del 1981, sono contenute alcune basilari disposizioni che<br />

hanno consentito un significativo accostamento, sul piano delle garanzie,<br />

dell’illecito amministrativo a quello penale: basti pensare all’affermazione<br />

del principio di legalità – irretroattività (art. 1); all’espressa menzione della<br />

capacità di intendere e di volere quale presupposto della responsabilità<br />

(art. 2) ed all’individuazione del dolo e della colpa come criteri di imputazione<br />

soggettiva (art. 3).<br />

La tesi dell’applicazione delle regole generali dell’illecito amministrativo<br />

al settore della responsabilità degli enti incontra, tuttavia, significativi<br />

( 7 ) Sul punto, per tutti, si veda F. Lambertucci, voce Depenalizzazione, in AA.VV.,<br />

Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova. 2003, p. 673.<br />

11


12<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

ostacoli interpretativi: questi sono anzitutto ravvisabili nel fatto che, come<br />

si è detto, il d.lgs. 231 del 2001 già contiene una propria parte generale,<br />

perfettamente autonoma e per ciò stesso non sovrapponibile ad altre regole<br />

‘‘comuni’’ fissate altrove.<br />

Ne sia testimonianza il fatto che persino i canoni della legalità e dell’irretroattività<br />

sono presi in considerazione in modo del tutto indipendente<br />

dalla nuova legge sulla responsabilità degli enti; ciò che apparirebbe una<br />

inutile ripetizione se si partisse dall’idea che il fenomeno qui considerato<br />

rientri nella sfera di disciplina della legge del 1981.<br />

Non solo: rispetto a quella che dovrebbe essere la sua naturale disciplina<br />

di riferimento, la novella del 2001 appare, sotto più punti di vista,<br />

derogatoria.<br />

Basti pensare al già menzionato disposto di cui all’art. 2 della legge<br />

689: non può essere assoggettato alla sanzione amministrativa chi, al momento<br />

della commissione del fatto, non aveva, in base ‘‘ai criteri indicati<br />

nel codice penale’’, ‘‘la capacità di intendere e di volere’’.<br />

Il riferimento all’imputabilità mette a nudo, a ben vedere, se raffrontato<br />

al nuovo genus di diritto punitivo creato per gli enti, i limiti di un prototipo<br />

di illecito divenuto ormai ‘‘vecchio’’, in quanto necessariamente fondato<br />

sul modello dell’autore individuale.<br />

L’unica ipotesi di responsabilità dell’ente contemplata dalla legge<br />

quadro è individuabile nella regola della responsabilità solidale di cui all’art.<br />

6: si tratta, tuttavia, non di una forma di imputazione all’ente (la dottrina<br />

ha anzi sottolineato come la differenza fra questa ipotesi e quella del<br />

concorso di persone nell’illecito amministrativo risieda nel fatto che la responsabilità<br />

solidale è attribuita oggettivamente), quanto di un’applicazione<br />

del principio di solidarietà nel debito, finalizzata unicamente a garantire<br />

il pagamento della sanzione( 8 ); è, peraltro, fatto salvo il diritto dell’ente<br />

di agire in regresso verso la persona fisica autrice dell’illecito, ciò<br />

che testimonia chiaramente l’impossibilità di ravvisare nell’ente un autonomo<br />

‘‘centro di imputazione’’.<br />

Rilievi analoghi valgono anche in rapporto alle già accennate regole fissate<br />

nell’art. 3 della legge del 1981 in merito all’elemento soggettivo dell’illecito<br />

amministrativo: non c’è dubbio sul fatto la novella del 2001 fondi un<br />

modello d’imputazione del tutto nuovo, che, per quanto possa essere accostato<br />

al genus della colpa omissiva, risulta ontologicamente diverso dai più<br />

tradizionali criteri del dolo e della colpa valevoli per l’autore individuale e<br />

fatti propri dalla legge – quadro( 9 ).<br />

( 8 ) Cfr. F. Lambertucci, op. cit., p. 693 s. Su questo aspetto si vedano anche le osservazioni<br />

di E. Paliero, La fabbrica del golem. Progettualità e metodologia per la ‘‘parte generale’’<br />

del codice penale dell’Unione Europea, inRiv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 499.<br />

( 9 ) Fra i contributi dedicati all’analisi delle modalità d’imputazione all’ente tracciati dal


SAGGI E OPINIONI<br />

Se ne deve concludere che, così come si è già notato per il codice penale,<br />

neppure la disciplina generale dell’illecito amministrativo (la legge<br />

689 del 1981, eppure, era stata ritenuta in più occasioni dalla giurisprudenza<br />

come un imprescindibile riferimento per i successivi provvedimenti<br />

di depenalizzazione( 10 )) possa trovare applicazione sul terreno della responsabilità<br />

dell’ente, che si configura come derogatoria ed autosufficiente<br />

rispetto alla prima.<br />

§ 5. Una forma normativamente ‘‘autosufficiente’’ di responsabilità?<br />

Gli interrogativi relativi alla legge applicabile portano dunque ad una<br />

prima, abbastanza evidente conclusione: la novella del 2001 ha certamente<br />

inteso dare vita ad una forma di responsabilità relativamente autosufficiente<br />

(se si dimentica per un attimo la sua dipendenza ‘‘da reato’’) e virtualmente<br />

sganciata dai più tradizionali paradigmi dell’illecito punitivo,<br />

sia penale, sia amministrativo( 11 ).<br />

Si tratterebbe, almeno negli intenti proclamati, si una sorta di rivoluzione<br />

del diritto sanzionatorio, la cui autonomia formale parrebbe sottintendere<br />

un’altrettanto spiccata eterogeneità sostanziale rispetto ai modelli<br />

tradizionali.<br />

La dottrina maggioritaria sembra però pensarla diversamente: fra le diverse<br />

opinioni espresse sul punto, le due correnti che paiono più seguite<br />

tendono ad accostare la forma di responsabilità in esame all’illecito amministrativo<br />

o, in senso diametralmente opposto, all’illecito penale.<br />

Gli argomenti addotti a sostegno di queste diverse scelte muovono,<br />

comprensibilmente, dalla valorizzazione delle molteplici analogie e differenze<br />

che la responsabilità degli enti presenta con ciascuno degli anzidetti<br />

paradigmi( 12 ).<br />

I sostenitori della natura amministrativa della responsabilità pongono<br />

D.lgs. 231 del 2001, si vedano fra gli altri, C. De Maglie, loc. ult. cit.,Pulitanò, La responsabilità<br />

da reato degli enti: i criteri d’imputazione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 415 s. Di<br />

recente, in una peculiare chiave d’analisi A. Nisco, Responsabilità amministrativa degli enti:<br />

riflessioni sui criteri ascrittivi ‘‘soggettivi’’ e sul nuovo assetto delle posizioni di garanzia nelle<br />

società, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 293 s.<br />

( 10 ) Per i necessari richiami giurisprudenziali, per tutti, si veda F. Lambertucci, op.<br />

cit., p. 677.<br />

( 11 ) Sul punto cfr. D. Pulitanò, voce Responsabilità amministrativa per i reati delle<br />

persone giuridiche, inEnc. Dir., Aggiornamento, Varese, 2002, p. 954.<br />

( 12 ) Per un quadro d’insieme delle diverse opinioni espresse si vedano, fra gli altri, O.<br />

Di Giovine, op. cit., p. 429; A.Travi, La responsabilità della persona giuridica nel d.lgs 231<br />

del 2001: prime considerazioni di ordine amministrativo,inLe società, 2001, p. 1305; C. Piergallini,<br />

Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, inRiv. trim.<br />

dir. pen. econ., 2002, p. 598 s.<br />

13


14<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

l’accento, oltre che sul dato formale del nomen, sul decorso quinquennale<br />

della prescrizione e sull’inesistenza di meccanismi di sospensione condizionata<br />

della sanzione (dati entrambi comuni all’illecito amministrativo)( 13 ).<br />

Del tutto eccentrica rispetto alla responsabilità penale sarebbe, ancora,<br />

la disciplina della fusione e della scissione dell’ente, che sottintenderebbe<br />

schemi di tipo civilistico irriducibilmente lontani dai modelli d’imputazione<br />

del reato( 14 ).<br />

Nello stesso senso deporrebbe la recente introduzione dell’art. 97 bis<br />

del d.lgs 9 luglio 2004 n. 197, che impone al pubblico ministero, il quale<br />

inizi indagini verso una banca, di darne comunicazione alla Banca d’Italia<br />

ed alla Consob; l’esecuzione delle eventuali sanzioni interdittive è inoltre<br />

affidata, in questo settore, alla stessa banca d’Italia; verrebbero qui in considerazione,<br />

insomma, schemi e modalità che evocano modelli tradizionalmente<br />

amministrativi di intervento( 15 ).<br />

Più articolate sono le tesi formulate in ordine al carattere penale o para<br />

– penale dell’illecito dell’ente.<br />

Anzitutto, si rileva come l’ambigua formulazione di una responsabilità<br />

‘‘discendente da reato’’ non possa che perseguire un effetto stigmatizzante<br />

di ‘‘taglio’’ strettamente penalistico.<br />

In secondo luogo, si evidenziano il chiaro sforzo di costruzione di un<br />

impianto sui generis di colpevolezza dell’ente; la presenza di criteri commisurativi<br />

della sanzione che richiamano da vicino la logica della pena e, infine<br />

– ma certo non da ultimo – la scelta del processo penale come sistema<br />

di accertamento dell’illecito( 16 ).<br />

( 13 ) Sul punto, si vedano, in particolare, G. Marinucci, ‘‘Societas puniri potest’’: uno<br />

sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee, inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, 1202 s.;<br />

G. Cocco, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in<br />

Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p.116; M. Romano, La responsabilità amministrativa degli enti,<br />

società o associazioni: profili generali, inRiv. soc., 2002, p. 398. In generale, per un’analisi<br />

circa l’intervento del sistema amministrativo di responsabilità in materia societaria si veda G.<br />

Amarelli, inG.Amarelli, M. D’Alessandro, A.De Vita, Il nuovo sistema sanzionatorio<br />

del diritto penale dell’economia: decriminalizzazione e problemi di effettività, a cura di A.<br />

De Vita, Napoli, 2002, 119.<br />

( 14 ) Cfr. Marinucci, loc. ult. cit.<br />

( 15 ) Sul punto si veda, in particolare, Di Giovine, op. cit., 431.<br />

( 16 ) Sostengono, fra gli altri, con dovizia di argomenti, la natura sostanzialmente penale<br />

della responsabilità in esame, L. Conti, La responsabilità delle persone giuridiche. Abbandonato<br />

il principio societas delinquere non potest?, in Il diritto penale dell’impresa, inTrattato<br />

di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, XXV,<br />

Padova, 2001, p. 862; F.Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pena e misure interdittive,<br />

inDir. e Giust., 2001, p. 8; A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle<br />

persone giuridiche: il punto di vista del penalista, inCass. pen., 2003, p. 1105 s., il quale sottolinea<br />

come il rivolgersi della sanzione alla sola persona fisica non è un dato per nulla ontologico<br />

al sistema penale; C.E. Paliero, La responsabilità penale della persona giuridica, in<br />

AA.VV., La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia ‘‘punitiva’’, a cura di G.


SAGGI E OPINIONI<br />

Queste divergenze di opinioni, invero, ferma restando la possibilità,<br />

che appare metodologicamente corretta, di cogliere similitudini più o meno<br />

spiccate che la legge in commento presenta con ciascuna delle due più tradizionali<br />

forme di ‘‘illecito punitivo’’, non smentisce – ma anzi avvalora –<br />

l’idea, appena tratteggiata, della sua piena autonomia di disciplina: la<br />

nuova creatura normativa evoca schemi logico-giuridici ben collaudati, tuttavia<br />

non si esaurisce in essi.<br />

Occorre prendere atto, dunque, di un’innegabile distanza, che chiaramente<br />

emerge dal dato saliente della legge applicabile, della responsabilità<br />

degli enti dagli archetipi punitivi classici.<br />

È proprio la presenza di aspetti di sovrapposizione con entrambe le<br />

categorie – quella penale e quella amministrativa – dell’illecito punitivo a<br />

suggerire che il legislatore del 2001 abbia voluto introdurre un tertium<br />

genus di responsabilità: un modello ibrido nella struttura, con un’imputazione<br />

sui generis.<br />

Per saggiare l’attendibilità di quest’ipotesi ricostruttiva, è opportuno<br />

analizzare il problema sul ‘‘banco di prova’’ dei principi costituzionali vigenti<br />

in materia penale. Le differenze esistenti con il paradigma penale –<br />

non meno che con quello amministrativo, che del primo ricalca principi<br />

e forme d’imputazione – possono, in quest’ottica, essere messe a nudo<br />

con un’analisi della più singolare fra le fattispecie di ‘‘responsabilità da<br />

reato’’: quella denominata dalla dottrina come ‘‘colpa d’organizzazione<br />

pura’’( 17 ). Questa peculiare ipotesi, che si riconnette, nell’intelaiatura della<br />

novella legislativa, all’enunciazione del principio di autonomia della responsabilità<br />

degli enti, si pone, invero, come la forma con parvenze più<br />

prossime ai topoi dell’imputazione penale.<br />

De Francesco, Torino, 2004, p. 21 s.; V. Maiello, La natura (formalmente amministrativa,<br />

ma sostanzialmente penale) della responsabilità degli enti nel d.lgs 231/2001: una ‘‘truffa<br />

delle etichette’’ davvero innocua?,inRiv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 899 s. Rileva, invece, la<br />

contrarietà della responsabilità degli enti al dettato di cui all’art. 27 co. 1 Cost. T. Padovani,<br />

Il nome del principi e il principio dei nomi: la responsabilità ‘‘amministrativa’’ delle persone<br />

giuridiche, in AA.VV. cit., p. 13 s.; contra, si vedano i rilievi di A. Manna, La c.d. responsabilità<br />

amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, inRiv. trim. dir.<br />

pen. econ., 2002, p. 517 s.; per un’analisi circa la compatibilità della responsabilità delle persone<br />

giuridiche con i principi costituzionali si veda, nella più recente manualistica, D. Pulitanò,<br />

Diritto penale, Torino, 2005, 732 s. Qualifica la responsabilità degli enti come un ‘‘terzo<br />

binario del diritto penale criminale’’, G. De Vero, Riflessioni sulla natura giuridica della<br />

responsabilità punitiva degli enti collettivi, in AA.VV., cit., 96 s. Id., Struttura e natura giuridica<br />

dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato,inRiv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 1165<br />

s. È altresì dell’idea, per diverse ragioni, che venga qui in considerazione un tertium genus<br />

del diritto punitivo G. Flora, Le sanzioni punitive nei confronti delle persone giuridiche:<br />

un esempio di ‘‘metamorfosi’’ della sanzione penale, inDir. pen e proc., 2003, 1398.<br />

( 17 ) Parla di un ‘‘paradigma di colpa per organizzazione puro’’, in particolare, C.E. Paliero,<br />

op. ult. cit., p. 30.<br />

15


16<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

§ 6. La ‘‘colpa di organizzazione’’: una nuova forma di responsabilità a<br />

fisionomia ‘‘ibrida’’ amministrativo – penale, con modalità sui generis<br />

d’imputazione<br />

L’art. 8 della novella legislativa configura l’ipotesi più ambigua – e<br />

forse più eccentrica – fra quelle introdotte dalla riforma del 2001. Esso dispone<br />

che ‘‘la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del<br />

reato non è stato identificato o non è imputabile b) il reato si estingue per<br />

una causa diversa dall’amnistia’’( 18 ).<br />

Questa disposizione, nell’ambito di un’indagine circa la natura della<br />

responsabilità degli enti, costituisce un punto di culmine: l’art. 8, infatti,<br />

introduce un meccanismo di ‘‘spersonalizzazione’’ non tanto della responsabilità<br />

– ciò che è già implicito nelle premesse sistematiche di una legge<br />

riferita agli enti –, ma del reato che di essa è presupposto.<br />

Quest’ultimo, in effetti, in tale ipotesi è preso in considerazione nel<br />

suo solo versante oggettivo.<br />

C’è da chiedersi quale processo penale potrebbe mai celebrarsi nei<br />

confronti dell’autore non identificato: l’imputato ignoto, invero, non si<br />

condanna né si proscioglie. Non solo: la mancata identificazione dell’autore,<br />

anche nell’ipotesi in cui vi sia sufficiente prova della dimensione<br />

estrinseca e puramente materiale del dolo, comunque precluderebbe la<br />

possibilità di un giudizio di colpevolezza in senso ‘‘normativo’’ ed ‘‘individualizzante’’.<br />

Il reato presupposto viene in sostanza prosciugato delle sue<br />

note soggettive d’imputazione e ridotto ad un mero simulacro fattuale:<br />

stante l’impossibilità di formulare un rimprovero al suo autore, esso non<br />

potrebbe neppure propriamente qualificarsi come reato.<br />

La norma in esame tipicizza, insomma, una sorta di ipotesi limite, nella<br />

quale la figura dell’autore ‘‘apicale’’ e dell’autore ‘‘subordinato’’ – e persino<br />

quella dell’amministratore ‘‘di fatto’’ – divengono impalpabili. Esse vivono<br />

all’ombra di un dato veramente emergente, che occupa da solo la scena<br />

dell’imputazione: la realizzazione della fattispecie oggettiva di uno dei reati<br />

sui quali la novella radica la responsabilità dell’ente.<br />

I basilari canali d’imputazione prescelti dalla legge, normalmente rappresentati<br />

dalle persone fisiche che fungono da medium per l’ascrizione del<br />

fatto – secondo le peculiari cadenze che fondano la ‘‘colpa’’ dell’ente – si<br />

assottigliano qui sino a far emergere una struttura estremamente semplificata<br />

di imputazione: la ‘‘nuda’’ realizzazione di un reato, a cui tout court si<br />

( 18 ) In proposito si vedano, fra gli altri, i rilievi di A. Alessandri, Note penalistiche<br />

sulla nuova responsabilità delle persone giuridiche, cit., 54 s.; S. Vinciguerra, La struttura<br />

dell’illecito, inS.Vinciguerra, M.Ceresa-Gastaldo, A.Rossi, La responsabilità dell’ente<br />

per il reato commesso nel suo interesse (d.lgs. n. 231/2001), Padova, 2004, p. 11 s.


SAGGI E OPINIONI<br />

accompagna, ove ricorra un legame di ‘‘interesse o vantaggio’’( 19 ), una responsabilità<br />

dell’‘‘autore collettivo’’.<br />

Questa manifestazione limite del diritto punitivo degli enti imprime<br />

nell’osservatore la sensazione che si tratti di una responsabilità penale dell’autore<br />

‘‘impersonale’’, formula da utilizzare come equivalente dell’autore<br />

‘‘collettivo’’. Basti pensare che in questa ipotesi l’ente è unico protagonista<br />

del processo( 20 ). La rappresentazione binaria imputato ente / imputato<br />

persona fisica, che è propria dei casi ‘‘fisiologici’’ in cui il reato sia commesso<br />

da un ben identificato soggetto in posizione ‘‘apicale’’ o ‘‘subordinata’’,<br />

si trasforma sul terreno della ‘‘colpa d’organizzazione’’ in una sorta<br />

di monismo processuale dell’ente.<br />

Esso, da solo, occupa l’intero ambito delle indagini e del processo:<br />

questo è istruito e condotto al solo scopo di accertare la responsabilità<br />

sua propria; lo stigma dell’accertamento e quello della sanzione lo colpiscono<br />

in via esclusiva.<br />

Per più ragioni, se ne potrebbe concludere che tutto ciò indichi un’intima<br />

– sia pur non dichiarata – natura penale della responsabilità in esame.<br />

A ben vedere, tuttavia, questa tesi pecca di una troppo disinvolta assimilazione<br />

fra la morfologia e la sostanza della responsabilità: la risposta<br />

al quesito sulla natura di quest’ultima impone, invece, una riflessione su<br />

quanto vi è di ‘‘apparentemente’’ e quanto invece di ‘‘ontologicamente’’ penale<br />

nella colpa dell’ente.<br />

Potrebbe, anzitutto, obiettarsi che la fattispecie imputata, anche in<br />

questo suo nucleo massimamente semplificato, configuri un’ipotesi complessa,<br />

nella quale si cristallizza un concorso di responsabilità per diversi<br />

titoli. All’ente, in effetti, viene in ogni caso attribuito ‘‘per colpa’’ (una<br />

colpa sui generis se raffrontata con il suo referente penalistico) l’omessa<br />

predisposizione di una struttura organizzativa idonea ad impedire un fatto<br />

realizzato – per lo più con dolo – da un ignoto autore.<br />

Stante l’egemonia – almeno allo stato attuale della legislazione – di<br />

reati base dolosi fra quelli che fungono da prius ‘‘umanistico’’ della responsabilità<br />

‘‘collettiva’’, la condotta che fa da plafond alla responsabilità dell’ente,<br />

quasi sempre recherà in sé, infatti, i connotati dell’agire doloso.<br />

Ciò indipendentemente dalla mancata individuazione del suo autore: l’im-<br />

( 19 ) Per un’analisi approfondita di questi concetti, si veda G. De Simone, La responsabilità<br />

da reato degli enti nel sistema sanzionatorio italiano: alcuni aspetti problematici,inRiv.<br />

trim. dir. pen. econ., 2004, p. 657 s.; Id., I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa<br />

degli enti: la ‘‘parte generale’’ e la ‘‘parte speciale’’ del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, in<br />

AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, a cura di G.<br />

Garuti, Padova, 2002, 101 s.<br />

( 20 ) Ravvisa, fra gli altri, nello strumento del processo penale un indice della vera natura<br />

della responsabilità P.Ferrua, Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni,<br />

inDir. pen. e proc., 2001, 1479 s.<br />

17


18<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

pronta che l’elemento soggettivo lascia sul fatto materiale consentirà, nella<br />

più gran parte dei casi, di individuare una realizzazione dolosa, anche se<br />

non ancora un fatto colpevole. Le fattispecie presupposto, peraltro, sono<br />

per lo più annoverabili fra quelle ‘‘soggettivamente pregnanti’’: si pensi alle<br />

paradigmatiche ipotesi rappresentate dai reati di corruzione, in rapporto<br />

alle quali il versante soggettivo del reato è così ben impresso nel fatto da<br />

impedire in radice una sua trasfigurazione in responsabilità colposa.<br />

Questa prospettiva, muovendo dalla constatazione per cui un fatto<br />

(quasi) identico nella sua matrice oggettiva viene imputato in modo soggettivamente<br />

difforme all’autore persona fisica (per dolo) ed all’ente (per<br />

colpa), potrebbe portare a concludere per una natura non penale della responsabilità<br />

del secondo.<br />

È noto, infatti, come parte della dottrina sia propensa a ravvisare nell’identità<br />

della forma d’imputazione soggettiva del fatto alla pluralità dei<br />

suoi autori un dato di fondo del sistema penale vigente( 21 ).<br />

I rari casi difformi da questa regola di simmetria, che parrebbe tracciata<br />

dai due essenziali referenti normativi a responsabilità ‘‘omogenea’’<br />

dell’art. 110 c.p. (per il concorso nel reato doloso) e dell’art. 113 c.p.<br />

(per la cooperazione colposa), dovrebbero sempre trovare fondamento in<br />

regole legislative espresse: ciò che accade, ad esempio, nel caso del concorso<br />

‘‘anomalo’’ di cui all’art. 116 c.p., dove una responsabilità a sfondo<br />

colposo si innesta, nella cornice della partecipazione criminosa, sull’agire<br />

doloso altrui.<br />

Il concorso ‘‘anomalo’’ dell’ente, dunque, in quanto eccezione alla regola<br />

penalistica dell’omogeneità del titolo d’imputazione, suggerirebbe una<br />

distonia dagli schemi classici di ascrizione del reato, sino a concludere che<br />

di responsabilità penale non si tratti.<br />

Questo argomento non è però di per sé persuasivo. Il canone dell’omogeneità<br />

della forma d’imputazione, proprio quanto si inserisce nel contesto<br />

dei rapporti fra regola (l’omogeneità) ed eccezione (il diverso titolo di<br />

responsabilità) non rappresenta per nulla un dato ultimo, ontologico del<br />

sistema penale. La presenza di eccezioni (esemplare è quella dell’art. 116<br />

c.p.) vale di per sé sola a testimoniare come la differenziazione dei titoli<br />

di responsabilità sia compatibile con i principi fondamentali della penalità:<br />

è questa, d’altronde, la conclusione a cui è pervenuta – già da lungo tempo<br />

– la stessa Corte costituzionale allorché ha ‘‘reinterpretato’’ l’art. 116 c.p.<br />

( 21 ) Sul punto si vedano, per tutti, le osservazioni di G. Fiandaca, E.Musco, Diritto<br />

penale, parte generale, 4ª ed., 2001, p. 470 s. Per un’analisi della questione nella più recente<br />

giurisprudenza della suprema Corte, si veda, fra gli altri, F. Serraino, Il problema della configurabilità<br />

del concorso di persone a titoli soggettivi diversi (nota a Cass. pen., Sez. IV, 9 ottobre<br />

2002), in Riv. it. dir. e proc. pen., 2005, p. 453 s.


SAGGI E OPINIONI<br />

rinnovandone – senza però abbandonarlo –, lo schema a ‘‘concorso anomalo’’<br />

con modalità conformi al principio di colpevolezza( 22 ).<br />

Se, inoltre, si partisse dalla semplice idea che la fissazione di due diverse<br />

linee d’imputazione soggettiva del medesimo fatto sia compatibile<br />

con i principi penalistici (più esattamente: con normali criteri della normazione<br />

penale) purché l’eccezione sia espressamente prevista dalla legge, si<br />

tornerebbe al punto di partenza. La base legislativa che traccia la responsabilità<br />

dell’ente, infatti, sarebbe di per sé sola sufficiente a segnalare la legittimità<br />

della deviazione dalla regola, così che nessuna risposta se ne potrebbe<br />

desumere in merito al carattere penale o meno della responsabilità.<br />

Se si vogliono evitare errori di metodo, la diagnosi circa la natura della<br />

responsabilità dell’ente deve, dunque, necessariamente partire da dati che<br />

siano ontologici al modello punitivo penale: in ultima analisi, dai principi<br />

costituzionali che ne costituiscono il fondamento.<br />

In questa prospettiva, va detto, anzitutto, che l’idea per cui il fatto imputato<br />

all’autore persona fisica ed all’ente sia il medesimo pare viziata da<br />

una considerevole approssimazione. Anche tralasciando per un attimo il rilievo<br />

per cui la ‘‘colpa d’organizzazione’’ rappresenta non solo una forma di<br />

responsabilità, ma essa stessa anzitutto un fatto autonomo rispetto al reato<br />

che ne è presupposto, questa idea sembra trascurare un altro, ancor più<br />

essenziale dato di fondo.<br />

La responsabilità, infatti, sorge in capo all’ente sulla base di un assai<br />

labile anello di congiunzione: i canoni ‘‘dell’interesse’’ e del ‘‘vantaggio’’.<br />

Il venire in essere di uno di questi due parametri d’imputazione consente,<br />

nei casi disciplinati dall’art. 8 della legge, laddove si ha un reato senza un<br />

autore, addirittura di colmare l’intero versante oggettivo della fattispecie<br />

imputata all’ente.<br />

Non è richiesta alcuna verifica causale. Il fatto è attribuito oggettivamente<br />

all’ente sulla base, invero, di assai meno che di un legame eziologico.<br />

L’interesse ed il vantaggio, infatti, sono parametri così sterili da risultare<br />

del tutto esterni alla sfera della ‘‘signoria d’azione’’ del soggetto imputato<br />

e tali che, se il raffronto dovesse essere operato con l’ipotesi di un autore<br />

persona fisica, dovrebbe dirsi che egli sostanzialmente risponderebbe di un<br />

fatto altrui.<br />

Non c’è, dunque, bisogno di spingersi sino ad effettuare complesse<br />

considerazioni in tema di ‘‘colpevolezza’’ dell’ente, per avvedersi che il<br />

principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.<br />

è qui contraddetto nei suoi postulati minimi( 23 ).<br />

Non si dà responsabilità penale se non si ha responsabilità personale:<br />

( 22 ) Cfr. Corte cost., 13 maggio 1965, n. 42, in Riv. pen., 1965, II, 598.<br />

( 23 ) Nello stesso senso si veda T. Padovani, op. cit., p.17s.<br />

19


20<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

l’imputazione, a livello oggettivo, di un fatto sostanzialmente ‘‘altrui’’ rappresenta<br />

un’inaccettabile deviazione rispetto ai dati costituzionali (‘‘ontologici’’)<br />

della penalità.<br />

Se ne deve concludere che l’illecito dell’ente assume una natura complessa,<br />

connotata da un’imputazione ‘‘sui generis’’, di evidente matrice non<br />

penale.<br />

Il versante oggettivo dell’illecito ha una struttura non causale, giacché<br />

il raccordo materiale fra fatto ed autore è largamente divergente dalla sfera<br />

della ‘‘personalità’’ intesa nella sua accezione minima, di rigoroso divieto di<br />

responsabilità per fatto altrui( 24 ).<br />

Il momento ‘‘soggettivo’’, per contro, si approssima singolarmente ad<br />

un giudizio di causalità ipotetica e richiama il modello dell’omesso impedimento<br />

colposo, secondo le linee di un nuovo concetto di ‘‘colpevolezza’’<br />

forgiato ad hoc per le esigenze dell’autore collettivo. La colpa così detta<br />

d’organizzazione, infatti, nei suoi contenuti di colpevolezza, risponde alla<br />

logica dell’omesso impedimento del fatto altrui, ma con regole cautelari i<br />

cui formanti vanno rintracciati in un peculiare contesto plurisoggettivo,<br />

con le cadenze strutturali di una stravagante colpa ‘‘diffusa’’.<br />

In conclusione: la natura della responsabilità degli enti non è assimilabile<br />

ai referenti punitivi noti e rappresenta un quid novi; essa, in quanto<br />

dotata di una disciplina formalmente e concettualmente autonoma, configura<br />

una forma non assimilabile né alla responsabilità penale né a quella<br />

amministrativa; i suoi connotati più peculiari sono un’illiceità costruita<br />

ben oltre le regole della tradizionale responsabilità personale ed un’imputazione<br />

sui generis.<br />

§ 7. Le ragioni sottostanti ad una configurazione ‘‘eccentrica’’ della responsabilità<br />

C’è da chiedersi, a conclusione dell’analisi brevemente condotta sulla<br />

natura della responsabilità degli enti, per quali ragioni il legislatore non<br />

abbia preferito avvalersi, sia pure in un contesto soggettivamente nuovo,<br />

dei più collaudati schemi della legislazione penale e dell’illecito amministrativo.<br />

Possono individuarsi tre motivazioni di fondo: la prima attiene l’aspetto<br />

ordinamentale – interno; la seconda i profili internazionali della<br />

‘‘nuova’’ responsabilità; la terza ha a che fare con considerazioni assai<br />

più pratiche che teoriche.<br />

( 24 ) Circa i postulati della responsabilità per ‘‘fatto proprio’’ in tema di concorso di<br />

persone nel reato si vedano i rilievi di L. Stortoni, Agevolazione e concorso di persone<br />

nel reato, Padova, 1981, p. 56 s.


SAGGI E OPINIONI<br />

Sotto il primo punto di vista, la creazione di un ibrido nasconde la volontà<br />

di aggirare l’ostacolo maggiore – e storicamente più evidente – alla<br />

penalizzazione di soggetti collettivi, rappresentato dal dubbio fondamento<br />

logico – giuridico di una ‘‘colpevolezza’’ degli enti. Solo per il diritto penale,<br />

infatti, la costituzione pone il principio di personalità della responsabilità,<br />

con tutte le implicazioni che ne derivano nella teoria dell’elemento<br />

oggettivo del reato così come della colpevolezza; problemi di spessore<br />

non diverso si sarebbero posti, d’altronde, con riferimento all’umanità<br />

delle pene ed al loro finalismo rieducativo; concetti, questi, che, nell’enormità<br />

del bagaglio culturale che rappresentano sono tutti collegati logicamente<br />

ed empiricamente all’autore persona fisica.<br />

Il pericolo di una censura d’incostituzionalità – ed, ancor prima, di<br />

una inconciliabilità logica con ben radicati topoi della teoria del reato –<br />

hanno consigliato la soluzione di un semplice cambiamento d’etichetta:<br />

da qui la scelta definitoria di ‘‘responsabilità amministrativa’’, per quella<br />

che, in realtà, rappresenta una forma ibrida ed eccentrica di illecito.<br />

Per quanto riguarda la situazione internazionale essa è, in una certa misura,<br />

il riflesso di quella interna: la Convenzione europea per i diritti dell’uomo<br />

non si occupa ex professo dell’illecito amministrativo, così che il ventaglio<br />

di garanzie previsto a livello internazionale in rapporto alle sanzioni<br />

penali non è estensibile – almeno se si resta alla lettera della Convenzione<br />

– a questo terreno. Fra i principi garantistici previsti in relazione alla sanzione<br />

penale si pensi, ad esempio, al diritto ad essere informati in tempo utile<br />

sui motivi dell’accusa; alla presunzione d’innocenza; al diritto al contraddittorio;<br />

alla legalità ed all’irretroattività dei delitti e delle pene; al ne bis in idem.<br />

Va detto, ad onor del vero, che qualora venisse qui in considerazione,<br />

come qualcuno ipotizza, un ‘‘camuffamento’’ di un illecito penale sotto le<br />

mentite spoglie della responsabilità amministrativa, il ‘‘trucco’’ sarebbe<br />

forse destinato a durare poco: da lungo tempo la Corte europea ha, infatti,<br />

esteso in via interpretativa all’illecito amministrativo – quando ciò sia suggerito<br />

dalla ‘‘qualità’’ del precetto e della sanzione – le medesime garanzie<br />

espressamente previste per quello penale( 25 ).<br />

L’ultima spiegazione della scelta di ‘‘aggiramento’’ del modello penale<br />

di responsabilità compiuta dal legislatore del 2001 sembra rintracciabile in<br />

un esigenza pratica, ritagliata sulle caratteristiche dell’imputato – ente: il<br />

comma 4 bis dell’art. 13 della legge 537/1997 vieta di portare a detrazione<br />

fiscale ‘‘i costi, o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili<br />

come reato’’( 26 ).<br />

Viene qui in rilievo, in definitiva, una scelta di ordine pratico, motivata<br />

( 25 ) Cfr. F. Lambertucci, op. cit., p. 677.<br />

( 26 ) Su questo aspetto si vedano, in particolare, le osservazioni di O. Di Giovine, op.<br />

cit., p. 434, alla nota 26.<br />

21


22<br />

dalla necessità di mitigare, in rapporto alla specifica natura soggettiva del<br />

responsabile (per definizione esercente un’attività a scopo di lucro o, quantomeno,<br />

gestita secondo criteri di economicità) le conseguenze della sanzione:<br />

basti pensare al problema, del quale il decreto legislativo tiene conto<br />

in più punti del proprio articolato, degli effetti ‘‘riflessi’’ derivanti, sull’occupazione<br />

e sull’economia in generale, dall’applicazione in capo all’ente di<br />

sanzioni interdittive e pecuniarie.<br />

§ 8. Quali soggetti?<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

I problemi sollevati dall’individuazione dei soggetti responsabili possono<br />

essere analizzati prendendo le mosse da alcuni aspetti chiave, che la<br />

letteratura penalistica aveva posto in evidenza lungo tempo prima che la<br />

novella legislativa in commento prendesse corpo, cioè sin da quando l’idea<br />

di un superamento del dogma societas deliquere non potest ha acquistato<br />

spessore nel pensiero dottrinale.<br />

Non è certo un rilievo recente – né, invero, avanzato solo in rapporto<br />

all’applicazione del diritto penale – quello per cui lo schermo ‘‘protettivo’’<br />

della personalità giuridica possa occultare rilevanti profili – individuali e<br />

non – di responsabilità( 27 ); siffatto schermo meta-individuale ha, tuttavia,<br />

per lungo tempo simbolicamente rappresentato un insuperabile ostacolo<br />

alla penalizzazione di comportamenti di matrice ‘‘societaria’’; esso ha, anzi,<br />

concettualmente incarnato la negazione stessa di una tale possibilità.<br />

La prima e più evidente conquista ‘‘storica’’ che è dato rinvenire nelle<br />

scarne righe dedicate dall’art. 1 del decreto all’individuazione dei soggetti<br />

responsabili è dunque data dall’espressa menzione, fra i destinatari della<br />

disciplina, degli ‘‘enti dotati di personalità giuridica’’. L’importanza dell’affermazione<br />

non è certo smentita dalla natura – ibrida ed in definitiva ‘‘a sé<br />

stante’’, come si è detto – della responsabilità: essa comunque rappresenta<br />

il recepimento legislativo di un’esigenza, che da tempi ormai risalenti la letteratura<br />

penalistica aveva lamentato, di commisurazione della sanzione alla<br />

realtà degli illeciti penali ‘‘a sfondo’’ societario( 28 ).<br />

L’importanza della ricerca di questo equilibrio sanzionatorio può essere<br />

colta ponendo l’attenzione sul rapporto esistente fra la responsabilità<br />

degli enti e quella penale delle persone fisiche che hanno agito nel loro interesse.<br />

Colpire i soli individui – con il ‘‘tradizionale’’ meccanismo della<br />

sanzione penale – significa, nel contesto di un agire collettivo, assai spesso<br />

porre in essere una risposta eccessiva ed al contempo insufficiente. Ecces-<br />

( 27 ) Si rinvia, per tutti, a F. Bricola, Il costo del principio, cit., 956 s.<br />

( 28 ) Si consenta di rinviare a L. Stortoni, Profili penali delle società commerciali come<br />

imprenditori, inRiv. it. dir. proc. pen., 1971, 1163 s.


SAGGI E OPINIONI<br />

siva, in quanto concentrata unicamente sull’uomo, al quale vengono imputati<br />

fatti per definizione esorbitanti dalla sua sfera di ideazione e controllo,<br />

quasi ‘‘geneticamente’’ caratterizzati da una latitudine meta-individuale. La<br />

singola persona fisica corre in questo senso il rischio di divenire un capro<br />

espiatorio, la ‘‘testa di legno’’ sulla quale incombe una responsabilità di dimensioni<br />

‘‘sociali’’; per ciò stesso ben può realizzarsi, rivolgendo la sanzione<br />

nei suoi soli confronti, una forma d’imputazione prossima alla responsabilità<br />

per fatto altrui.<br />

La punizione individuale può risultare, sotto un altro profilo, insufficiente,<br />

poiché essa di per sé sola è inidonea a soddisfare le reali esigenze<br />

sanzionatorie – e dunque preventive – che si manifestano ogni qual volta<br />

il fatto commesso possieda un’essenziale contrassegno collettivo( 29 ).<br />

L’interrogativo che sta alla base del tema dei soggetti è, dunque, quello<br />

del ‘‘quando’’ la duplicazione della sanzione e la ricerca, ad essa correlata, di<br />

un equilibrio fra la sfera individuale e quella collettiva della responsabilità sia<br />

rispondente alle intrinseche esigenze di commisurazione proprie del diritto<br />

punitivo. La penalizzazione della sola persona fisica si ripercuoterebbe, infatti,<br />

sull’ente irresponsabile unicamente ‘‘di riflesso’’: mediante il blando –<br />

se rapportato alla dimensione finanziaria propria all’autore collettivo – meccanismo<br />

della pena pecuniaria, sovente pagata, in via di fatto, dall’ente stesso<br />

‘‘per conto’’ dell’autore ed inserita fra i normali ‘‘costi di gestione’’.<br />

Per quanto riguarda le figure collettive dotate di personalità giuridica,<br />

come si è accennato, la risposta viene fornita dalla novella legislativa in<br />

modo univoco. In questo caso il bisogno di punire l’organizzazione oltre<br />

all’uomo che ne è stato strumento viene, invero, presunto dal legislatore.<br />

Si tratta di una scelta che, pur condivisibile in termini generali, solleva<br />

qualche motivata perplessità rispetto all’ipotesi, non secondaria, in cui alla<br />

presenza della personalità giuridica non si accompagni una situazione di pluralità<br />

di soci. Il caso è quello della società unipersonale, laddove lo ‘‘schermo’’<br />

societario assolve l’essenziale funzione di limitazione della responsabilità,<br />

senza però che si determinino vere differenze qualitative – almeno rispetto<br />

alla sostanza economica del fenomeno – con l’impresa individuale.<br />

Più problematica è l’individuazione dell’ampia categoria di soggetti responsabili<br />

rientranti fra le ‘‘società ed associazioni anche prive di personalità<br />

giuridica’’ cui si riferisce l’art. 1 co. 2 del decreto. In questo contesto, il<br />

concetto di ‘‘ente’’ pare suscettibile, una volta posto a confronto con l’innumerevole<br />

casistica di organizzazioni ‘‘collettive’’ prive di autonoma personalità,<br />

di incredibili dilatazioni; ciò sino ad abbracciare addirittura lo<br />

stesso imprenditore individuale. Proprio di quest’ultimo aspetto, che certo<br />

( 29 ) Sul punto cfr. anche F. Giunta, La punizione degli enti collettivi: una novità attesa,<br />

in AA.VV., La responsabilità, cit., p. 35.<br />

23


24<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

ben descrive la portata pratica della delimitazione soggettiva degli ‘‘enti’’<br />

responsabili, si è di recente occupata la suprema Corte( 30 ).<br />

La tesi della riferibilità della disciplina del 2001 all’imprenditore individuale,<br />

sostenuta dal Pubblico Ministero con il proprio ricorso al supremo<br />

Collegio, era argomentata facendo leva sulla sostanziale identità della situazione<br />

economica sottostante alla società unipersonale ed all’impresa individuale.<br />

In quest’ottica, la sottoposizione della prima, ma non della seconda,<br />

alla disciplina del decreto, avrebbe generato una disparità di trattamento<br />

tale da porre in forse la stessa legittimità costituzionale della novella legislativa.<br />

Da qui, a dire dell’accusa, l’esigenza di un ‘‘livellamento’’ (ovviamente<br />

in senso espansivo della responsabilità) delle due situazioni: sul piano empirico,<br />

inoltre, l’impresa individuale, non meno di quella esercitata in forma<br />

societaria, sarebbe spesso caratterizzata da una complessità di struttura e di<br />

organizzazione tali da rendere necessaria una sua sanzionabilità autonoma.<br />

Tale tesi – di per sé alquanto audace – è stata, in modo condivisibile,<br />

rigettata dalla Corte, non solo in ragione dell’evidente analogia in malam<br />

partem che l’assimilazione esegetica fra la persona fisica e l’ente avrebbe<br />

comportato; ma anche perché – ciò che appare ancor più importante –<br />

‘‘la responsabilità dell’ente è chiaramente aggiuntiva, e non sostitutiva, di<br />

quella delle persone fisiche’’.<br />

L’idea di una responsabilità ‘‘aggiuntiva’’ si riallaccia significativamente<br />

all’interrogativo, già anticipato, di quando la sanzione debba divenire<br />

‘‘duplice’’ e di quando invece essa debba essere ‘‘unica’’ e riferita al<br />

solo autore individuale.<br />

Il concetto stesso di ‘‘ente’’, presuppone, invero, un minimum di organizzazione<br />

strutturale, come del resto si evince anche dal particolare meccanismo<br />

d’imputazione fondato sui modelli. Non può, insomma, alla luce<br />

dell’intero impianto della novella legislativa, ma anche in ragione di quell’esigenza<br />

commisurativa a cui si è fatto cenno, non ritenersi che la nozione<br />

di ente rinvii ad un contesto plurisoggettivo. Essa non è, dunque, per ragioni<br />

logico sistematiche ancor prima che interpretative, suscettibile di essere<br />

estesa sino a comprendere realtà in cui ‘‘ente’’ e ‘‘persona fisica’’ siano<br />

virtualmente indistinguibili.<br />

In queste ipotesi il pericolo di inaccettabili duplicazioni della sanzione<br />

diviene assai forte: tanto meno sarà avvertibile l’alterità fra la persona fisica<br />

e l’ente a cui questa appartiene, tanto più vi sarà il rischio di dar corpo ad<br />

un bis in idem sostanziale, contrassegnato dal concorso di una norma penale<br />

e di una ‘‘ibrido amministrativa’’.<br />

Una particolare cautela pare, dunque, doversi usare in rapporto a<br />

realtà organizzative di piccole dimensioni. Una delle preoccupazioni del le-<br />

( 30 ) Cfr. Cass., 3 marzo 2004, in Cass. pen., 2004, p. 4046.


SAGGI E OPINIONI<br />

gislatore, come si legge nella relazione alla legge, era proprio quella di lasciare<br />

fuori dal suo campo di applicazione le realtà minimali, delle quali appare<br />

chiara, sul piano empirico e criminologico, la scarsissima rilevanza rispetto<br />

ai fini sottesi alla responsabilizzazione dell’ente. A ciò aggiungasi il<br />

pericolo non solo di inaccettabili sovrapposizioni fra la disciplina penale e<br />

quella amministrativa, ma anche di forzature repressive: si pensi al caso di<br />

un lavoratore dipendente che, avendo commesso uno dei reati presupposto,<br />

evochi la responsabilità ‘‘amministrativa’’ dei membri di una piccola<br />

società di persone. In simili ipotesi, sotto l’etichetta di una responsabilità<br />

dell’ente, potrebbe celarsi un’impropria estensione – a titolo di colpa<br />

‘‘sui generis’’ – della responsabilità dei datori di lavoro, che altrimenti si attesterebbe<br />

sui più solidi criteri d’imputazione per dolo vigenti sul terreno<br />

della responsabilità penale concorsuale( 31 ).<br />

Il gruppo degli enti ‘‘privi di personalità giuridica’’, in definitiva, appare<br />

alquanto eterogeneo e, verosimilmente, potrà essere meglio definito<br />

dal lento consolidarsi del diritto ‘‘vivente’’: si pensi a casi problematici,<br />

ad oggi presi in esame solo dalla dottrina, come quello del comitato o<br />

del condominio; o, in relazione all’esigenza o meno di uno scopo di lucro<br />

– che pare sotteso all’impianto della normativa – dei consorzi a mera rilevanza<br />

interna e delle cooperative. Ancora: peculiari problemi potrebbero<br />

porsi in relazione alle figure della società apparente e, simmetricamente,<br />

alla società di fatto, ipotesi per le quali può ipotizzarsi la necessaria prevalenza<br />

della realtà sulla finzione, così che solo la seconda, a differenza della<br />

prima, potrà rispondere ‘‘in via amministrativa’’( 32 ).<br />

Per quanto riguarda il versante ‘‘pubblico’’ la nuova legge contempla,<br />

nel disposto di cui all’art. 1 co. 3, essenzialmente esclusioni: l’unica eccezione<br />

a questa regola è rappresentata dagli enti pubblici economici. Essi<br />

ben si amalgamano alla ‘‘tipologia d’autore’’ – per usare un linguaggio mutuato<br />

dall’ambitone concettuale del diritto punitivo delle persone fisiche –<br />

degli enti con finalità lucrativa, che, ad una lettura complessiva dell’articolato,<br />

si configurano come destinatari ideali del provvedimento. Basti pensare<br />

al ‘‘classico’’ nucleo di incriminazioni – presupposto rappresentato<br />

dalle fattispecie corruttive: si tratta, invero, del settore che ad oggi ha dato<br />

luogo al maggior numero di applicazioni giurisprudenziali.<br />

Fra i soggetti pubblici esclusi spiccano, oltre allo Stato ed agli enti territoriali,<br />

egli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.<br />

L’esclusione dello Stato è in sintonia con la disciplina della responsabilità<br />

degli enti accolta in altri ordinamenti( 33 ) e pare motivata, come la<br />

( 31 ) Cfr., sul punto, O. Di Giovine, op. cit., p. 457.<br />

( 32 ) Per una più compiuta individuazione dei casi qui citati in via esemplificativa si veda<br />

O. Di Giovine, op. cit., p. 456 s.<br />

( 33 ) Identica soluzione è accolta nel codice penale francese. In generale, per una pano-<br />

25


26<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

dottrina ha posto in evidenza, dalla necessità di evitare troppo evidenti<br />

contraddizioni sistematiche( 34 ). Nell’attuale novero di delitti individuati<br />

dal decreto – che fungono da presupposto per l’ascrizione della responsabilità<br />

– un ruolo eminente è infatti riservato alle fattispecie corruttive ed<br />

alla concussione, ovvero ad ipotesi in cui proprio lo Stato e gli enti pubblici<br />

territoriali potrebbero per primi essere chiamati a rispondere di una<br />

‘‘colpa’’ diffusa.<br />

Occorre anzi rilevare come l’inserimento della concussione fra i reatipresupposto,<br />

una volta esclusi dalla sfera soggettiva del decreto lo Stato, gli<br />

enti territoriali e gli altri enti pubblici non economici, perda buona parte<br />

della propria portata applicativa: questa appare ridotta essenzialmente alle<br />

ipotesi in cui autore del reato sia un incaricato di pubblico servizio, ed in<br />

specie, al caso del concessionario privato( 35 ). L’inserimento della concussione<br />

nella cornice dei reati-base, pare, insomma, motivato più da intenti<br />

simbolici – forse un’ideale eco della stagione culturale di mani pulite –<br />

che non da un reale finalismo preventivo – repressivo. L’ampia sfera di<br />

esclusione soggettiva, d’altro canto, si spinge sino ad abbracciare, per<br />

quanto riguarda il novero degli ‘‘enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale’’,<br />

i partiti politici ed i sindacati, ai quali la lettera della norma pare<br />

rivolta ad hoc. Si tratta, invero, di una esclusione condivisibile, ove si rifletta<br />

sul peculiare ruolo istituzionale svolto da tali ‘‘enti’’, la cui responsabilizzazione<br />

avrebbe dato corpo a largamente lamentati – la ‘‘stagione’’ è ancora<br />

quella di mani pulite – pericoli di prevaricazione della sfera giudiziaria su<br />

quella politica( 36 ).<br />

Luigi Stortoni - Davide Tassinari<br />

ramica storico – comparatistica relativa all’ordinamento francese si vedano G. De Simone, Il<br />

nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in Riv. it. dir. proc.<br />

pen., 1995, p. 189 s.; R. Guerrini, La responsabilità penale delle personnes morales nel codice<br />

penale francese, inLe società, 1993, p. 691 s. Per un più generale quadro di diritto comparato<br />

si vedano, per tutti, K. Tiedemann, La responsabilità penale delle persone giuridiche<br />

nel diritto comparato, inRiv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 615 s.; E. Paliero, La fabbrica del<br />

golem, cit., p. 499. Sulle matrici internazionali del d.lgs 231 e sul dibattito da esso suscitato si<br />

veda S. Manacorda, Corruzione internazionale e tutela degli interessi comunitari, inDir.<br />

pen. e proc., 2001, p. 410 s.<br />

( 34 ) Cfr. O. Di giovine, op. cit., p. 452 s.<br />

( 35 ) Per l’individuazione del concetto di incaricato di pubblico servizio in seguito alla<br />

riforma legislativa operata con la L. n. 86 del 1990 si consenta di rinviare a L. Stortoni,<br />

Delitti contro la pubblica amministrazione, in AA.VV., Diritto penale, Lineamenti di parte speciale,<br />

3ª ed., Bologna, 2003, p. 102 s.<br />

( 36 ) In merito ai pericoli di repressione del fenomeno associativo che il superamento<br />

del principio societas delinquere non potest porta con sé, si vedano i rilievi di F. Bricola,<br />

Il costo, cit., p. 1001.


SAGGI E OPINIONI<br />

LA RESPONSABILITÀ ‘‘DA REATO’’ DEGLI ENTI COLLETTIVI<br />

E I CRITERI DI ATTRIBUZIONE DELLA RESPONSABILITÀ<br />

TRA TEORIA E PRASSI<br />

Sommario: 1. Premessa: linee generali del d. lgs. n. 231/2001. – 2. Le origini del d. lgs. n.<br />

231/2001: A) Le esigenze politico-criminali alla base del superamento del principio societas<br />

delinquere non potest; B) Le esigenze sistematiche; C) Gli input di diritto internazionale<br />

e comunitario. – 3. La natura giuridica della responsabilità dell’ente: un falso<br />

problema? – 4. I criteri di attribuzione della responsabilità: il criterio oggettivo: A) Le<br />

persone fisiche che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente; B) Il criterio dell’interesse<br />

o vantaggio: un ostacolo alla funzionalità della responsabilità degli enti? – 5.<br />

(Segue:) I criteri di imputazione soggettiva: alla ricerca della colpevolezza dell’ente:<br />

A) Reati commessi dai vertici e reati commessi dai sottoposti: aspetti problematici;<br />

B) Il modello quadripartito di colpevolezza dell’ente proposto dalla de Maglie; C) I<br />

modelli di organizzazione, gestione e controllo: a) Profili disciplinari; b) L’impatto<br />

sul sistema delle imprese. – 6. I limiti del d. lgs. n. 231/2001: il catalogo dei reati.<br />

1. Premessa: linee generali del d. lgs. n. 231/2001<br />

L’entrata in vigore del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, attuativo dell’art.<br />

11 della legge delega 29 settembre 2000, n. 300( 1 ), con cui è stata introdotta<br />

in Italia la responsabilità per gli illeciti amministrativi derivanti da<br />

reato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive<br />

di personalità giuridica, rappresenta una «rivoluzione copernicana»( 2 ) nel<br />

nostro ordinamento.<br />

È stato infatti creato un vero e proprio «nuovo paradigma sanziona-<br />

( 1 ) A proposito della legge delega n. 300/2000 deve osservarsi che essa – secondo una<br />

deprecabile tendenza che caratterizza la legislazione penale degli ultimi anni – si presenta del<br />

tutto generica ed indefinita, con palese violazione del principio della riserva di legge di cui<br />

all’art. 25, comma 2, Cost.: per una giusta critica sul modo di legiferare che ha caratterizzato<br />

di recente soprattutto il diritto penale dell’economia, con particolare riferimento all’abuso<br />

dello strumento della legge delega, v. E. Musco, Il nuovo diritto penale dell’economia tra<br />

legislativo ed esecutivo, inRiv. Guardia di Finanza, 2003, Supplemento al n. 4, 121 ss.<br />

( 2 ) L’espressione è diA. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone<br />

giuridiche: un primo sguardo d’insieme, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 502.<br />

27


28<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

torio»( 3 ) volto a colpire la criminalità di impresa attraverso una responsabilità<br />

diretta dell’ente, formalmente qualificata come amministrativa, collegata<br />

alla commissione di determinati reati, accertata dal giudice penale e<br />

che prevede il ricorso a sanzioni di carattere afflittivo. A prescindere dai<br />

limiti e dalle insufficienze che la disciplina del d. lgs. n. 231/2001 presenta<br />

e che verranno analizzati nel proseguo della presente indagine, ve n’è più<br />

che abbastanza per sconvolgere la nostra cultura giuridica tradizionale, saldamente<br />

ancorata all’«idea che fosse la persona fisica l’unico soggetto che<br />

potesse e dovesse entrare nella vicenda punitiva»( 4 )(societas delinquere<br />

non potest).<br />

( 3 ) A. Alessandri, Note penalistiche sulla nuova responsabilità delle persone giuridiche,<br />

inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 33.<br />

( 4 ) A. Alessandri, op. cit., 33 s.; cfr. altresì C. Piergallini, La disciplina della responsabilità<br />

amministrativa delle persone giuridiche e delle associazioni. Sistema sanzionatorio<br />

e reati previsti dal codice penale, inDir. pen. proc., 2001, 1353, secondo cui con il d. lgs. 231/<br />

2001 «il nostro paese si è finalmente dotato di un modello generale di responsabilità sanzionatoria<br />

degli enti collettivi che, per struttura e finalità, sembra capace di integrare un efficace<br />

strumento di controllo sociale»; Id., Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva<br />

di un dogma, inRiv. trim dir. pen. ec., 2002, 571, ove si afferma che «il vetusto principio<br />

‘‘Societas delinquere non potest’’ ha conosciuto la sua fine anche nel nostro ordinamento, dove<br />

l’edificio dogmatico sul quale poggiava ostentava una solidità apparentemente inattaccabile»;<br />

Id., Societas delinquere et puniri non potest. Riflessioni sul recente (contrastato) superamento<br />

di un dogma, inQuest. giust., 2002, 1087 ss.; D. Pulitanó, La responsabilità «da<br />

reato» degli enti nell’ordinamento italiano, in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati<br />

commessi nel loro interesse, Atti del Convegno di Roma, 30 novembre-1º dicembre 2001,<br />

in Cass. pen., 2003, n. 6, Supplemento, 8, il quale parla di forte innovazione sistematica<br />

che comporta il superamento del tradizionale principio societas delinquere non potest; M.<br />

Donini, Un nuovo medioevo penale? Vecchio e nuovo nell’espansione del diritto penale economico,<br />

inCass. pen., 2003, 1814; C. De Maglie, Corporate criminal liability in italian law:<br />

an overview, inStudi senesi, CXV (III serie, LII), 2003, secondo cui il d. lgs. n. 231/2001<br />

rappresenta «a great innovation in our system, one more significative step towards the demolition<br />

of the dogma ‘‘societas delinquere non potest’’»; F. Santi, La responsabilità delle<br />

società e degli enti. Modelli di esonero delle imprese, Milano, 2004, 22. La novità rappresentata<br />

dall’introduzione della responsabilità amministrativa da reato degli enti è stata di portata<br />

tale da determinare un interesse diffuso da parte della dottrina, che dall’entrata in vigore del<br />

d. lgs. n. 231/2001 ad oggi non ha praticamente mai smesso di dedicare all’argomento articoli,<br />

saggi e monografie; tra i contributi più recenti si segnalano, a titolo meramente esemplificativo,<br />

G. Flora, Le sanzioni punitive nei confronti delle persone giuridiche: un esempio<br />

di ‘‘metamorfosi’’ della sanzione penale?, inDir. pen. proc., 2003, 1398 ss.; M. Ronco, voce<br />

Responsabilità delle persone giuridiche. Diritto penale, inEnc. Giur., agg., XI, Roma, 2003, 2<br />

ss.; AA.VV., La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia ‘‘punitiva’’, a cura di<br />

G.A. De Francesco, Torino, 2004; G. De Simone, La responsabilità da reato degli enti nel<br />

sistema sanzionatorio italiano: alcuni aspetti problematici, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 657<br />

ss.; G. Ruggiero, Capacità penale e responsabilità degli enti. Una rivisitazione della teoria dei<br />

soggetti nel diritto penale, Torino, 2004, che adotta un interessante approccio di teoria generale;<br />

AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d 1gs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di<br />

G. Lattanzi, Milano, 2005; E. Amodio, Prevenzione del rischio penale di impresa e modelli<br />

integrati di responsabilità degli enti, inCass. pen., 2005, 320 ss.; G.A. De Francesco, Gli


SAGGI E OPINIONI<br />

I soggetti ai quali si applica la disciplina prevista dal d. lgs. n. 231/<br />

2001 sono gli enti forniti di personalità giuridica, le società e le associazioni<br />

anche prive di personalità giuridica, con esclusione espressa dello Stato,<br />

degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e di quelli<br />

che svolgono funzioni di rilievo costituzionale( 5 ) (art. 1 d. lgs. n. 231/<br />

2001)( 6 ). L’ente, ai sensi dell’art. 5, risponde per i reati commessi nel<br />

suo interesse o vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza,<br />

di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa<br />

dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone<br />

che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso (c.d.<br />

soggetti apicali); b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza<br />

di uno dei soggetti apicali (c.d. sottoposti). A fianco alla responsabilità dell’ente<br />

coesiste la responsabilità penale della persone fisica che ha commesso<br />

il reato, pur essendo la responsabilità della persona giuridica del tutto autonoma<br />

da quella della persona fisica (art. 8). A carico dell’ente è stato concepito<br />

un articolato apparato sanzionatorio che si compone di sanzione pecuniaria<br />

(i cui criteri di commisurazione sono delineati secondo un interessante<br />

modello per quote ispirato al sistema dei tassi giornalieri adottato in<br />

molti paesi), sanzioni interdittive, confisca (anche per equivalente) e pubblicazione<br />

della sentenza di condanna( 7 ).<br />

enti collettivi: soggetti dell’illecito o garanti dei precetti normativi?, inDir. pen. proc., 2005,<br />

753 ss.; F. Guerini, La responsabilità da reato degli enti, sanzioni e loro natura, Siena,<br />

2005; A. Zoppini, Imputazione dell’illecito penale e «responsabilità amministrativa» nella<br />

teoria della persona giuridica, in Riv. soc., 2005, 1314 ss.<br />

( 5 ) Sul tema degli enti destinatari della disciplina e delle esclusioni cfr. S. Gennai-A.<br />

Traversi, La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano,<br />

2001, 12 ss.; C. Pecorella, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità,<br />

in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano,<br />

2002, 65 ss.; F. Santi, op. cit., 130 ss.; F. Guerino, La responsabilità dell’ente pubblico<br />

per i reati commessi nel proprio interesse, inCass. pen., 2004, 2201 ss. In giurisprudenza v.<br />

Cass., 22 aprile 2004, in Dir. prat. soc., 2004, n. 9, 72 ss., con commento di R. Bricchetti<br />

(ora anche in Dir. e Giust., 2004, n. 30, 25 ss., e in Cass. pen., 2004, 4047 ss., con nota di P.<br />

Di Geronimo, La Cassazione esclude l’applicabilità alle imprese individuali della responsabilità<br />

da reato prevista per gli enti collettivi: spunti di diritto comparato), la quale ha escluso l’applicabilità<br />

alle imprese individuali delle norme sulla responsabilità degli enti per gli illeciti<br />

amministrativi dipendenti da reato; nonché, nello stesso senso, Trib. Roma, Ufficio G.I.P.,<br />

Ord. 30 maggio 2003, in Il merito, 2004, n. 5, 57 ss., con commento di A. Balsamo e<br />

M. Ruvolo.<br />

( 6 ) Da ora in poi gli articoli citati senza ulteriore specificazione devono intendersi appartenenti<br />

al d. lgs. n. 231/2001.<br />

( 7 ) Sul sistema sanzionatorio si vedano i contributi di G. Amato, Un regime diversificato<br />

per reprimere gli illeciti, inGuida al diritto, 2001, n. 26, 67 ss.; C. Piergallini, La<br />

disciplina, op. cit., 1353 ss.; N. Folla, Le sanzioni pecuniarie, in AA.VV., La responsabilità<br />

amministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2002, 91 ss.; S. Giavazzi, Le<br />

sanzioni interdittive e la pubblicazione della sentenza penale di condanna, ivi, 117 ss.; R. Lottini,<br />

Il sistema sanzionatorio, in AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi<br />

29


30<br />

2. Le origini del d. lgs. n. 231/2001:<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

A) le esigenze politico-criminali alla base del superamento del principio societas<br />

delinquere non potest<br />

Tra i fattori che hanno favorito la nascita del d. lgs. n. 231/2001 vi sono<br />

innanzitutto pressanti esigenze di politica criminale. I costi del principio societas<br />

delinquere non potest – già magistralmente esplorati da Franco Bricola(<br />

8 ) nei suoi studi degli anni settanta – sono divenuti progressivamente insostenibili<br />

in seguito all’enorme sviluppo dell’economia e dei traffici verificatosi<br />

negli ultimi decenni, con l’avvento della globalizzazione e di quella che, a<br />

ragione, è stata definita come ‘‘la società del rischio’’ (Risikogesellschaft)( 9 ).<br />

Protagonisti indiscussi di questo impetuoso sviluppo economico e sociale<br />

sono gli enti( 10 ), ed in particolare le imprese, che come sono in grado<br />

di generare effetti positivi per i consociati, così sono anche la causa di conseguenze<br />

nefaste originate dai propri comportamenti illeciti (societas saepe<br />

delinquit)( 11 ): «L’impresa in particolare, per propria specifica natura, ma<br />

dipendenti da reato, a cura di G. Garuti, Padova, 2002, 127 ss.; A. Fiorella, Le sanzioni<br />

amministrative pecuniarie e le sanzioni interdittive, in AA.VV., Responsabilità degli enti per<br />

i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 73 ss.<br />

( 8 ) F. Bricola, Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione<br />

del fenomeno societario, inRiv. it. dir. proc. pen., 1970, 951 ss., ora anche in F.<br />

Bricola, Scritti di diritto penale, vol. II, tomo II, Milano, 1997, 2975 ss.; Id., Il problema<br />

della responsabilità penale della società commerciale nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche in diritto comunitario, Atti della Conferenza di Messina,<br />

30 aprile-5 maggio 1979, Milano, 1981, 235 ss., ora anche in F. Bricola, Scritti di diritto<br />

penale, op. cit., 3089 ss.; Id., Luci e ombre nella prospettiva di una responsabilità penale degli<br />

enti nei paesi della C.E.E., in Giur. comm., 1979, 647 ss., ora anche in F. Bricola, Scritti di<br />

diritto penale, op. cit., 3063 ss.<br />

( 9 ) Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, trad. it., Roma,<br />

2000, passim; J.M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale: aspetti della politica criminale<br />

nelle società postindustriali, ed. it. a cura di V. Militello, Milano, 2004, passim; F.<br />

Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano,<br />

2003, passim. In argomento v. anche G. Amarelli, Mito giuridico ed evoluzione della realtà:<br />

il crollo del principio societas delinquere non potest, in Riv. trim dir. pen. ec., 2003, 945 ss.<br />

( 10 ) Già nel 1953 Jescheck evidenziava l’importanza del ruolo socio-economico assunto<br />

dagli enti collettivi: «Gli enti collettivi (persone giuridiche, società di persone ed associazioni<br />

non riconosciute) dominano oggi come partiti la politica, come imprese, associazioni di<br />

datori di lavoro o sindacati la vita economica, come banche il sistema creditizio. Enti collettivi,<br />

in qualità di editori, di aziende giornalistiche o di agenzie di informazione, determinano<br />

il volto della pubblicistica, come organizzazioni di categoria hanno un influsso decisivo sul<br />

lavoro e sulla vita culturale (H.H. Jescheck, Zur Frage der Strafbarkeit von Personenverbände,<br />

inDÖV, 1953, 539, citato in G. De Simone, Societas delinquere et puniri potest, Lecce,<br />

1997, in edizione provvisoria stampata in proprio dall’autore, 76). Sul tema v. anche A. Falzea,<br />

La responsabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., La responsabilità penale delle<br />

persone giuridiche in diritto comunitario, op. cit., 139 s.<br />

( 11 ) J. De Faria Costa, Contributo per una legittimazione della responsabilità penale


SAGGI E OPINIONI<br />

ancor più per l’evoluzione che essa ha interpretato nello sviluppo economico<br />

degli ultimi decenni – la cosiddetta impresa manageriale – ha conseguito<br />

in vario modo livelli di potere economico, di influenza sui mercati, di<br />

dominanza competitiva, di superiorità strategica, di pervasività nel tessuto<br />

economico-sociale, tali da rendere assolutamente impellente e necessaria<br />

l’assunzione di responsabilità, di vario tipo e certamente anche penalistiche»(<br />

12 ).<br />

La scienza criminologica ha ormai accertato che le persone giuridiche<br />

sono il vero epicentro della criminalità di impresa, la quale è la conseguenza<br />

non tanto delle scelte operate dalle singole persone fisiche che agiscono<br />

per conto dell’ente, quanto di politiche di impresa spregiudicate o di<br />

difetti organizzativi interni alle corporations( 13 ). Ne deriva che lasciare impuniti<br />

gli enti, punendo solo le persone fisiche, che spesso si rivelano essere<br />

delle mere ‘‘teste di paglia’’ che l’ente sostituisce in caso di scoperta del<br />

reato da parte dell’autorità giudiziaria, costituisce paradossalmente una<br />

violazione del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27,<br />

comma 1, Cost.)( 14 ), da sempre indicato come il principale ostacolo alla<br />

criminalizzazione degli enti dalla dottrina dominante in Italia. Sono poi evidenti<br />

i gravi guasti provocati dalla criminalità degli enti( 15 ), che determina<br />

delle persone giuridiche, inRiv. it. dir. proc. pen., 1993, 1246: «...in quest’ultimo periodo di<br />

vertiginoso sviluppo tecnologico, e, di conseguenza, di aumento dei fatti lesivi correlati all’attività<br />

di impresa (...), i protagonisti principali della competizione economica sono enti collettivi<br />

il cui riconoscimento normativo, se conferisce loro la qualità di soggetti dell’ordinamento,<br />

li mantiene, peraltro, fuori dall’influenza penalistica. Si riscontra, quindi, una contraddizione<br />

tra il riconoscerli soggetti protagonisti del sistema e, nel contempo, garantire loro una<br />

completa immunità nei confronti del sistema penale». Analogamente cfr. L. Zúñiga Rodríguez,<br />

La cuestión de la responsabilidad penal de las personas jurídicas, un punto y seguido,<br />

in www.lexstricta.com, 1.<br />

( 12 ) P. Bastia, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa<br />

delle aziende, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi,<br />

a cura di F. Palazzo, Padova, 2003, 37.<br />

( 13 ) Cfr. C. Pedrazzi, La responsabilité pénale non individuelle, in AA.VV., Rapports<br />

nationaux italiens au X e Congrès International de Droit Comparé, Budapest, 1978, Milano,<br />

1978, 749 s., ora anche in C. Pedrazzi, Diritto penale. Scritti di parte generale, vol.I,Milano,<br />

2003, 203 s.; K. Tiedemann, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto<br />

comparato, inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, 616 s.; C.E. Paliero, Problemi e prospettive<br />

della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, inRiv. trim. dir. pen. ec.,<br />

1996, 1174.<br />

( 14 ) In tal senso v. L. Stortoni, Profili penali delle società commerciali come imprenditori,<br />

inRiv. it. dir. proc. pen., 1971, 1165; F.C. Palazzo, Associazioni illecite ed illeciti delle<br />

associazioni, ivi, 1976, 439 s.; L. Fornari, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie.<br />

Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale ‘‘moderno’’, Padova, 1997, 257 ss.<br />

( 15 ) L’aggressività e l’intollerabile perniciosità della criminalità di impresa è ben illustrata<br />

da C. De Maglie, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano,<br />

2002, 263 s., la quale riporta i dati di una serie di studi condotti negli Stati Uniti: una ricostruzione<br />

delle cause degli incidenti nelle industrie chimiche indica che su 251 incidenti il<br />

31


32<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici interni ed esterni all’impresa<br />

– individuali, collettivi e istituzionali – anche di rango primario (vita,<br />

integrità fisica, salute, ambiente, concorrenza, corretto funzionamento del<br />

mercato finanziario, ecc.) attraverso attacchi seriali che implicano talvolta<br />

una ‘‘vittimizzazione di massa’’( 16 ).<br />

Un’altra costante criminologica è rappresentata dall’individuazione al-<br />

32% è dovuto ad errore umano, il 3,5% ad eventi esterni e cause naturali, mentre tutto il<br />

resto va imputato all’organizzazione nella sua interezza; il danno economico provocato dai<br />

corporate crimes è superiore a quello della criminalità comune, come dimostra un noto studio<br />

degli anni ‘90, secondo cui il danno economico medio per ciascun reato ammonta a circa 6,8<br />

milioni di dollari; ogni anno inoltre le società sono responsabili di migliaia di decessi, mutilazioni<br />

e malattie, se si pensa che più di 100.000 morti all’anno e più di 1.200.000 feriti derivano<br />

da incidenti sui luoghi di lavoro e circa la metà possono essere ricondotti a violazioni<br />

delle norme antinfortunistiche. 20.000.000 di feriti e circa 30.000 morti sono il frutto di prodotti<br />

difettosi. Circa la metà dei tumori sono causati dalle condizioni in cui si svolge il lavoro<br />

(sul punto cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo,inRiv. trim. dir.<br />

pen. ec., 1998, 460). Le statistiche ci dicono inoltre che in Germania oltre l’80% dei fatti più<br />

gravi di criminalità economica vengono realizzati sotto la copertura di un’impresa (il dato è<br />

tratto da G. De Simone, op. cit., 77 s., nota n. 7). In questo quadro non si può non concordare<br />

con chi afferma che «Nell’attuale contesto storico-culturale, caratterizzato da un’accresciuta<br />

consapevolezza della gravità della criminalità d’impresa, astenersi dal punire direttamente<br />

le persone giuridiche può essere solo fonte di un più accentuato senso di sfiducia<br />

nelle istituzioni, il cui prestigio può essere solo ulteriormente scosso dallo spettacolo di<br />

uno Stato che è ‘‘forte’’ con i ‘‘deboli’’ e ‘‘debole’’ con i ‘‘forti’’» (così, efficacemente, C.<br />

De Maglie, op. ult. cit., 266).<br />

( 16 ) Cfr. A. Alessandri, Reati di impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984, 28 s.;<br />

Id., Commento all’art. 27 comma 1º Cost., inCommentario della Costituzione fondato da G.<br />

Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1991, 152 ss.; Id., voce Impresa (responsabilità<br />

penali), inDig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, 196: «la massiccia componente<br />

tecnologica dell’attività di produzione di beni e, in misura non minore, di servizi, è causa di<br />

una tendenziale diffusità degli eventi lesivi, di una moltiplicazione interminabile delle ricadute<br />

nocive su cerchie sempre più vaste di soggetti»; Id., Parte generale, in AA.VV., Manuale di<br />

diritto penale dell’impresa, Bologna, 2000, 15 s.; Id., La responsabilità amministrativa delle<br />

persone giuridiche: osservazioni generali, in AA.VV., Responsabilità d’impresa e strumenti internazionali<br />

anticorruzione dalla Convenzione OCSE 1997 al Decreto n. 231/2001, Milano,<br />

2003, 208; P. Patrono, Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, Padova,<br />

1993, 1 ss.; L. Fornari, op. cit., 253 s.; C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1353; Id.,<br />

Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, op. cit., 576 s.; J. Reátegui<br />

Sánchez, La presencia de personas juridicas como caracteristica del moderno derecho<br />

penal del riesgo y las propuestas de imputación de corte individual, inwww.unifr.ch/derechopenal/articulos.htm,<br />

1 ss.; L. Zúñiga Rodríguez, op. cit., 2. In Italia non mancano certo gli<br />

esempi di gravi episodi di criminalità di impresa: si pensi al disastro di Seveso, alle spregiudicate<br />

operazioni di Sindona e Calvi che portarono alla rovina le rispettive banche, alle gestioni<br />

fuori bilancio realizzate da importanti gruppi nazionali come l’allora Montecatini Edison<br />

e l’IRI, al carattere sistemico assunto dalla corruzione con il fenomeno noto come ‘‘Tangentopoli’’,<br />

fino ai recenti scandali finanziari di Parmalat, Cirio e Banca 121. Per una<br />

interessante panoramica dei più clamorosi casi di corporate crimes verificatisi nel mondo v.<br />

G. Marinucci, ‘‘Societas puniri potest’’: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee,<br />

inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, 1195 s.


SAGGI E OPINIONI<br />

l’interno di strutture complesse quali le persone giuridiche di una serie di<br />

fattori predisponenti che le rendono criminogene: 1) il fenomeno del<br />

gruppo; 2) la segretezza dell’organizzazione; 3) gli scopi dell’ente; 4) il contesto<br />

sociale in cui opera l’impresa( 17 ).<br />

L’appartenenza al gruppo spinge chi ne fa parte (ed in particolare i<br />

managers) ad atteggiamenti spregiudicati, manifestazione di una sindrome<br />

denominata ‘‘ebbrezza da rischio’’ (è il c.d. risky shift), che portano spesso<br />

a violare la legge( 18 ). La spinta criminogena è aumentata dalla distanza<br />

spazio-temporale che sovente separa il comportamento criminoso e l’evento<br />

che colpisce la vittima, la cui invisibilità impedisce ogni coinvolgimento<br />

emotivo del soggetto attivo del reato, contribuendo in tal modo<br />

ad abbassare i freni inibitori di colui che agisce in gruppo( 19 ).<br />

La segretezza, elemento indispensabile nella vita delle organizzazioni,<br />

offre però anche una protezione che spinge alla commissione di reati. Essa<br />

è alimentata da un clima di autogiustificazione delle azioni illecite, che le<br />

priva del loro disvalore, tipico dei white collar crimes( 20 ). Il ricorso a pressioni<br />

e minacce di ritorsioni impedisce la collaborazione con gli inquirenti<br />

qualora la lealtà al gruppo dovesse mancare( 21 ).<br />

( 17 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 251. In generale sul gruppo di società come fattore<br />

criminogeno cfr. V. Militello, Attività del gruppo e comportamenti illeciti: il gruppo<br />

come fattore criminogeno, inRiv. trim. dir. pen ec., 1998, 367 ss.<br />

( 18 ) F. Stella, op. ult. cit., 463 s.: «L’ebbrezza da rischio fa sì che questi soggetti manifestino<br />

una particolare propensione a compiere le azioni più pericolose, ad agire sul filo del<br />

rasoio, a praticare manovre azzardate che spesso superano il confine della legalità: il decidere<br />

e l’agire collettivamente all’interno di singoli gruppi rende queste persone più baldanzose,<br />

maggiormente inclini a sopravvalutare le possibilità di successo e a sottovalutare le percentuali<br />

di insuccesso; in una parola ad accettare dei rischi, connessi alla violazione della legge,<br />

anche quando il cittadino medio, da solo, se ne guarderebbe bene»; C. De Maglie, op. ult.<br />

cit., 252. Nella letteratura anglosassone cfr. C. Wells, Corporations and Criminal Responsibility,<br />

Oxford, 2001, 146 ss.; Id., Corporate law: Corporate Criminal Liability – Developments<br />

in Europe and beyond, inLaw Society Journal, 2001, 39, (7), 62 ss.; S.S. Simpson, Corporate<br />

crime, law and social Control, Cambridge, 2002.<br />

( 19 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 252 s. In senso analogo v. G. De Simone, op. cit., 83,<br />

il quale individua un ulteriore fattore criminogeno nella ‘‘lontananza dal bene giuridico’’ delle<br />

condotte illecite, espressa dall’elevato numero di fattispecie a pericolo astratto e che provoca<br />

una sorta di ‘‘neutralizzazione etica’’ del comportamento richiesto dalla norma.<br />

( 20 ) Sulla c.d. criminalità dei colletti bianchi rimane fondamentale il celebre saggio di<br />

E.H. Sutherland, White collar crime, trad. it. a cura di G. Forti, Milano, 1987, il quale –<br />

con riferimento al carattere criminogeno di determinati ambienti economici – riporta la dichiarazione<br />

di un chimico incaricato di fornire basi scientifiche agli annunci pubblicitari: «Se<br />

prendevo in disparte i dirigenti dell’azienda e parlavamo in termini confidenziali, essi deploravano<br />

sinceramente le falsità contenute nei loro annunci pubblicitari. Nello stesso tempo<br />

però dicevano che era necessario ricorrere a questa forma di pubblicità per attirare l’attenzione<br />

dei consumatori e per vendere i prodotti. Poiché altre ditte usavano affermazioni esagerate<br />

a proposito dei loro articoli, noi dovevamo fare lo stesso per i nostri» (312).<br />

( 21 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 254 ss.<br />

33


34<br />

Ricerche condotte negli Stati Uniti hanno dimostrato che lo scopo<br />

della massimizzazione dei profitti (inteso come obiettivo d’impresa in<br />

cui tutti gli individui che ne fanno parte si identificano) è la principale<br />

molla della criminalità diimpresa( 22 ): si è rilevato che l’impresa che delinque,<br />

sia essa legale o criminale, è caratterizzata da un comune denominatore:<br />

la violazione delle norme allo scopo di massimizzare il profitto o,<br />

più raramente, di minimizzare le perdite; in tal modo l’impresa che delinque<br />

«impone (...) al mercato un modello illegale di comportamento<br />

che lo distorce, secondo i casi, direttamente o per l’effetto dell’emulazione<br />

dettata dalla gara»( 23 ). Sanzionare direttamente le imprese che violano le<br />

regole del gioco favorisce quindi il corretto funzionamento del mercato(<br />

24 ).<br />

Infine, anche l’ambiente esterno in cui opera la persona giuridica –<br />

composto da fattori economici, politici, culturali e tecnologici – è in grado<br />

di condizionarne la struttura interna ed il modo di agire, esercitando pressioni<br />

che talvolta sfociano nell’illecito penale( 25 ).<br />

B) Le esigenze sistematiche<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Anche dal punto di vista sistematico, delle ragioni interne al sistema<br />

penale, i vantaggi connessi alla punizione delle persone giuridiche sono innumerevoli.<br />

All’interno delle moderne aziende è presente una polverizzazione di<br />

responsabilità che è il frutto di una serie di fattori: a) l’organizzazione<br />

non più di tipo verticale, ma orizzontale, caratterizzata da frammentazione,<br />

decentramento e specializzazione( 26 ); b) il blocco delle informazioni tra i<br />

vari settori dell’azienda, dovuto all’eccesso di competizione fra i dirigenti(<br />

27 ); c) la fissazione da parte del management di primo livello (i vertici<br />

della società) di obiettivi spesso irraggiungibili per i managers operativi se<br />

non ricorrendo all’illecito penale, a cui questi ultimi vengono spinti – consapevolmente<br />

o meno – anche attraverso un sistema di premi e punizioni<br />

(fringe benefits, aumenti di salario, aumento o riduzione del personale o<br />

del budget, allontanamento dalla società)( 28 ).<br />

( 22 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 257 ss.<br />

( 23 ) A. Carmona, Premesse a un corso di diritto penale dell’economia. Mercato, regole,<br />

e controllo penale della postmodernità, Padova, 2002, 204.<br />

( 24 ) Cfr. V. Militello, Prospettive e limiti di una responsabilità della persona giuridica<br />

nel sistema penale italiano, inStudium Juris, 2000, 781.<br />

( 25 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 262 s.<br />

( 26 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 274 s.<br />

( 27 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 275 s.<br />

( 28 ) Cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 465 s., il quale osserva: «proprio il<br />

decentramento permette alle ‘‘alte sfere’’ di isolarsi dalla responsabilità per le decisioni ope-


SAGGI E OPINIONI<br />

L’insieme di questi fattori ingenera quella ‘‘organisierte Unverantwortlichkeit’’<br />

(irresponsabilità organizzata) che rende frequentemente difficoltoso,<br />

se non impossibile, individuare la persona fisica che ha commesso il<br />

reato( 29 ), favorendo così la configurazione di ipotesi di responsabilità da<br />

posizione o in generale di responsabilità oggettiva da parte della giurisprudenza(<br />

30 ): sanzionare direttamente gli enti contribuisce dunque ad assicurare<br />

nei confronti delle persone fisiche il rispetto dei principî garantistici<br />

rative, e allo stesso tempo di far pressioni per soluzioni rapide di problemi molto difficili. – Il<br />

manager operativo sa bene di poter essere facilmente sostituito, sa bene che se non ottiene un<br />

rapido successo un altro manager è già alle sue spalle, pronto a prendere in mano la gestione<br />

della società o della divisione operativa. – Il risultato di questa situazione è del tutto prevedibile:<br />

quando la pressione è intensificata, i mezzi illegali diventano allettanti per un manager<br />

che non ha ripari contro un modo d’intendere la responsabilità aziendale duro ma miope,<br />

perché tiene conto solo dell’obiettivo del massimo profitto». Studiosi della Business School<br />

di Harvard rilevano che «presso parecchie industrie la pressione ad ottenere determinate<br />

prestazioni è così eccezionale e gli obiettivi da raggiungere così irragionevoli, da indurre i<br />

managers operativi a pensare che l’unica via d’uscita sia quella di piegare le regole, anche<br />

se ciò significa venire a compromessi con la propria etica professionale. Quando un manager<br />

avverte che il suo lavoro o la sopravvivenza della società o della sua divisione operativa rischiano<br />

di venirsi a trovare su una strada senza via d’uscita, gli standards di condotta nel<br />

business della società sono pronti ad essere sacrificati (J.C. Coffee, No Soul to Damn: No<br />

Body to Kick: An Unscandalized inquiry into the Problem of Corporate Punishment, inMichigan<br />

Law Rewiew, 1981, Vol. 79, 399 ss., citato in F. Stella, op. e loc. ult. cit.).<br />

( 29 ) Sulla difficoltà di individuare le responsabilità penali individuali tra le pieghe delle<br />

complesse strutture organizzative delle odierne persone giuridiche cfr. A. Alessandri, Reati<br />

d’impresa, op. cit., 29 s.; V. Militello, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei<br />

suoi organi in Italia, inRiv. trim. dir. pen. ec., 1992, 103 s.; L. Fornari, op. cit., 256 s. Nella<br />

dottrina straniera v. G. Heine, La responsabilidad penal de las empresas: evolucion international<br />

y conseguencias nacionales, 1996, in www.unifr.ch/derechopenal/anuario/96/an96.htm,<br />

2; J. Reátegui Sánchez, op. cit., 7.<br />

( 30 ) Cfr. C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un<br />

dogma, op. cit., 580 s.: «È risaputo che le difficoltà di reperire responsabilità autenticamente<br />

individuali nel ventre delle organizzazioni complesse, portatrici di una propria politica e di<br />

una propria cultura, fomentano criteri di ascrizione che costituiscono espressione di mere<br />

responsabilità ‘‘da posizione’’, non di rado solcate da fenomeni di implementazione artificiosa<br />

delle posizioni di garanzia, che hanno come esito quello di stendere un elenco di ‘‘capri<br />

espiatori’’, volta per volta individuati, con un pendolarismo assai poco rassicurante». Su tale<br />

degenerazione giurisprudenziale v. C. Pedrazzi, Gestione d’impresa e responsabilità penali,<br />

in Riv. soc., 1962, 220 ss.; Id., Profili problematici del diritto penale d’impresa, inRiv. trim.<br />

dir. pen. ec., 1988, 125 ss.; E. Carletti, La responsabilità penale delle persone giuridiche:<br />

aspetti problematici, in AA.VV., La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario,<br />

op. cit., 502 s.; D. Pulitanó, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione nel diritto<br />

penale del lavoro, inRiv. giur. lav., IV, 1982, 179 ss.; A. Alessandri, voce Impresa, op.<br />

cit., 195 ss. Nella dottrina sudamericana v. L. Rodríguez Ramos, Societas delinquere potest.<br />

Nuevos aspectos dogmáticos y procesales de la cuestión, 1996, in www.unifr.ch/derechopenal/anuario/96/an96.htm,<br />

2 s., il quale stigmatizza, tra le distorsioni a cui dà luogo il dogma<br />

del societas nell’ambito del diritto penale d’impresa, la creazione di ipotesi di responsabilità<br />

oggettiva finalizzate a consentire il risarcimento dei danni nei confronti delle vittime.<br />

35


36<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

che governano il diritto penale (in primis quello di personalità della responsabilità<br />

penale).<br />

L’introduzione di una responsabilità diretta degli enti rende inoltre il<br />

sistema penale più equo e trasparente, riequilibrando una serie di istituti: in<br />

primo luogo la pena pecuniaria, i cui limiti edittali in alcuni settori (ambiente,<br />

territorio, economia) sono elevatissimi perché pensati per colpire<br />

l’ente – reale motore dell’illecito – che di fatto ne sostiene il pagamento,<br />

a cui è comunque obbligato sussidiariamente (art. 197 c.p.)( 31 ); in secondo<br />

luogo istituti che per legge – oblazione discrezionale (art. 162-bis c.p.) e<br />

sospensione condizionale (art. 165 c.p.) – o per prassi – patteggiamento<br />

– sono condizionati a condotte riparatorie dell’offesa che quasi sempre solo<br />

l’impresa è in grado di porre in essere( 32 ): viene così spezzato quell’«intreccio<br />

ambiguo ed iniquo fra giudizio penale nei confronti di persone fisiche,<br />

e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio<br />

nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati»( 33 ).<br />

( 31 ) Sul punto cfr. Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta<br />

dal prof. Carlo Federico Grosso, Relazione, Roma, 12 settembre 2000, in www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm_grosso2.htm,<br />

ove dopo aver evidenziato tali «esigenze di riequilibrio<br />

delle sanzioni pecuniarie del diritto penale d’impresa», si ritiene che l’introduzione della responsabilità<br />

diretta delle persone giuridiche renda il sistema più equo e trasparente; C. Piergallini,<br />

Sistema sanzionatorio, op. cit., 1354, che, con icastica espressione, parla di «un<br />

sistema ventriloquo, che muove formalmente le labbra in direzione della persona fisica (...),<br />

ma in cui a parlare è il ventre della responsabilità sanzionatoria degli enti»; C. De Maglie,<br />

Responsabilità delle persone giuridiche: pregi e limiti del d. lgs. n. 231/2001, inDanno e resp.,<br />

2002, 247; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 289, in cui si portano ad esempio le fattispecie in<br />

materia di inquinamento di acque (art. 21 della legge Merli, riformulato dall’art. 3 comma 1 d.l.<br />

17 marzo 1995 n. 79, convertito con modificazioni nella legge 17 maggio 1995, n. 172).<br />

( 32 ) Cfr. F. Foglia Manzillo, Verso la configurazione della responsabilità penale per<br />

la persona giuridica, inDir. pen. proc., 2000, 109 s.; A. Alessandri, Note penalistiche, op.<br />

cit., 39; C. De Maglie, op. ult. cit., 289 s., la quale conclude: «l’introduzione nel sistema<br />

della responsabilità penale delle persone giuridiche risponde ad esigenze di giustizia e di razionalizzazione<br />

dell’esistente. L’ostinato ancoraggio al principio di umanità sottopone tutto il<br />

sistema ad uno ‘‘stress gravemente deformante’’, perché formalizza una finzione legislativa<br />

che determina un vistoso scollamento tra chi è chiamato formalmente al pagamento e chi,<br />

di fatto, provvede all’esborso del denaro. Il risultato è l’avallo della responsabilità per fatto<br />

altrui». Contra v. S. Moccia, Considerazioni sul sistema sanzionatorio del Progetto preliminare<br />

di un nuovo codice penale, inCrit. dir., 2000, 295 s., secondo cui in realtà quello che<br />

si pone è «un problema di ragionevolezza dell’imposizione di siffatte sanzioni pecuniarie, alle<br />

quali si attribuisce impropriamente una finalità di abbattimento dei profitti realizzati dall’autore<br />

a favore del terzo persona giuridica», problema che andrebbe affrontato, come fanno<br />

ordinamenti a cui è estranea la responsabilità delle persone giuridiche, tramite il ricorso alla<br />

confisca del profitto del reato nei confronti del terzo che ne trae indebitamente vantaggio;<br />

l’autore ritiene inoltre che, in quest’ordine di idee, verrebbe superata l’irragionevolezza derivante<br />

dall’impraticabilità per la persona fisica di un’oblazione o di un patteggiamento in<br />

relazione a sanzioni pecuniarie elevatissime.<br />

( 33 ) Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta dal prof.<br />

Carlo Federico Grosso, Relazione, cit.


SAGGI E OPINIONI<br />

C) Gli input di diritto internazionale e comunitario<br />

Un ruolo decisivo ai fini dell’emanazione del d. lgs. n. 231/2001 hanno<br />

svolto gli input di provenienza esterna all’ordinamento italiano, ed in particolare<br />

la ratifica obbligata di una serie di protocolli e convenzioni internazionali(<br />

34 ).<br />

La legge delega n. 300/2000 – al cui art. 11 dà appunto attuazione il d.<br />

lgs. n. 231/2001 – ratifica e dà esecuzione alla Convenzione per la tutela<br />

degli interessi finanziari delle Comunità europee (Convenzione PIF), Bruxelles,<br />

26 luglio 1995; al primo Protocollo della Convenzione PIF, Dublino,<br />

1996; alla Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella<br />

quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli stati<br />

membri dell’Unione europea, Bruxelles, 26 maggio 1997; ed alla Convenzione<br />

OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle<br />

operazioni economiche internazionali( 35 ), con annesso, Parigi, 17 dicembre<br />

1997.<br />

Per la verità, solo la Convenzione OCSE contiene un generico accenno<br />

all’adozione, da parte di ciascuno degli Stati aderenti, delle misure necessarie<br />

a stabilire una forma di responsabilità degli enti nei casi di corruzione<br />

di un pubblico ufficiale straniero. Una presa di posizione esplicita e abbastanza<br />

dettagliata in questo senso è invece contenuta nel secondo Protocollo<br />

della Convenzione PIF, adottato e firmato a Lussemburgo il 19 luglio<br />

( 34 ) In generale sull’argomento cfr. G. Michelini, Responsabilità delle persone giuridiche<br />

e normativa internazionale multilaterale, inQuest. giust., 2002, 1079 ss., il quale fa notare<br />

che «Nell’ipertrofia che pure talvolta caratterizza la produzione normativa internazionale,<br />

il pressante richiamo all’individuazione di forme più pregnanti di responsabilità delle imprese<br />

è una costante da almeno un decennio». La maggiore sensibilità delle istituzioni<br />

comunitarie e internazionali nei confronti dell’introduzione di una responsabilità diretta derivante<br />

da reato delle persone giuridiche al fine di fronteggiare meglio la criminalità organizzata<br />

transnazionale in materia lato sensu economica è dovuta alla «diversa visione di insieme<br />

di cui beneficiava il ‘‘legislatore’’ comunitario, non delimitata dai ristretti confini geografici<br />

nazionali ed implementata da valutazioni estranee ai giudizi dei legislatori locali, come quelle<br />

inerenti alla necessità di salvaguardare la libertà di iniziativa economica in ambito internazionale<br />

e di garantire all’interno del mercato comunitario la parità di condizioni delle imprese<br />

sul terreno della concorrenza», nonché al fatto che «nell’ottica di una economia globalizzata,<br />

la mancata adozione di una soluzione normativa uniforme del problema della responsabilità<br />

degli enti e la sua remissione all’autonoma valutazione di ciascuno Stato membro, veniva<br />

considerata come un potenziale fattore di squilibrio del sistema economico europeo» (G.<br />

Amarelli, La responsabilità delle persone giuridiche e la repressione della criminalità organizzata<br />

transnazionale, in AA.VV., Nuove strategie per la lotta al crimine organizzato transnazionale,<br />

a cura di V. Patalano, Torino, 2003, 33).<br />

( 35 ) Sul contenuto di questa convenzione cfr. U. Draetta, La nuova Convenzione<br />

OECD e la lotta alla corruzione nelle operazioni commerciali internazionali, inDir. scambi<br />

e comm. int., 1998, 969 ss.; G. Sacerdoti, La convenzione OCSE del 1997 sulla lotta contro<br />

la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni commerciali internazionali, inRiv.<br />

it. dir. proc. pen., 1998, II, 1349 ss.<br />

37


38<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

1997, per il quale non si è dato corso alla ratifica in seguito alla mancanza<br />

della relazione esplicativa( 36 ). Quest’ultimo documento, tuttavia, pur non<br />

potendo essere oggetto di ossequio formale da parte del legislatore italiano,<br />

è stato la sua reale fonte di ispirazione riguardo alla responsabilità delle<br />

persone giuridiche, è ciò in quanto – volendo l’Unione Europea dotarsi<br />

di un corpus unitario di regole inerenti la tutela dei propri interessi finanziari<br />

– il recepimento del contenuto del secondo Protocollo si presentava<br />

indispensabile per realizzare efficacemente tale scopo( 37 ).<br />

Il secondo Protocollo prevede – in relazione ai delitti di frode, riciclaggio,<br />

corruzione attiva ai danni degli interessi finanziari delle Comunità<br />

europee, corruzione nel settore privato – che le persone giuridiche «siano<br />

passibili di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive»( 38 ), lasciando<br />

dunque ai legislatori nazionali la scelta sulla natura della responsabilità (penale,<br />

amministrativa o civile)( 39 ).<br />

Una preziosa funzione di moral suasion indirizzata a favorire la diffusione<br />

della responsabilità penale degli enti è stata svolta dal Consiglio<br />

d’Europa tramite una serie di raccomandazioni( 40 ): la Risoluzione (77)<br />

( 36 ) Cfr. G. Marra, Note a margine dell’art. 6 ddl n. 3915-s contenente una ‘‘delega al<br />

governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche’’, in Ind. pen., 2000, II,<br />

829; C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1355.<br />

( 37 ) In tal senso v. G. Marra, op. cit., 829 s.; C. Piergallini, op. e loc. ult. cit.<br />

( 38 ) Sul secondo Protocollo alla Convenzione PIF cfr. M.F. Fontanella, Corruzione<br />

e superamento del principio societas delinquere non potest nel quadro internazionale, inDir.<br />

comm. int., 2000, II, 943 ss.<br />

( 39 ) La Corte di Giustizia delle Comunità europee, nella sentenza sull’affare Vandevenne,<br />

ha stabilito che «né l’art. 5 del Trattato CEE, né l’art. 17 del reg. n. 2820/85 obbligano<br />

uno Stato membro ad introdurre nel proprio ordinamento nazionale il principio della responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche» (Corte di Giustizia, 2 ottobre 1991, causa c-<br />

7/90, in Raccolta, 1991, vol. I, 4371 ss.). E. Dolcini, Principi costituzionali e diritto penale<br />

alle soglie del nuovo millennio. Riflessioni in tema di fonti, diritto penale minimo, responsabilità<br />

degli enti e sanzioni, inRiv. it. dir. proc. pen., 1999, 20, ritiene che «i tratti di tale responsabilità,<br />

con tutta evidenza, sono quelli caratteristici di una responsabilità penale» e che<br />

«se le convenzioni si astengono dall’attribuirle espressamente tale qualifica, lo fanno soltanto<br />

in ossequio formale alle scelte di quei legislatori nazionali che ancora non prevedono la responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche». Contra v. A.M. Castellana, Diritto penale<br />

dell’Unione Europea e principio «societas delinquere non potest», inRiv. trim. dir. pen. econ.,<br />

1996, 758 ss. e spec. 802 ss., la quale rileva che l’armonizzazione sanzionatoria delle normative<br />

nazionali, necessaria per una adeguata realizzazione degli scopi dell’Unione Europea,<br />

viene attuata dagli organi comunitari ricorrendo allo strumento del diritto penale amministrativo,<br />

onde gli enti collettivi dovrebbero essere sanzionati nello stesso modo; l’autore, infatti,<br />

aderisce alla posizione di coloro che sono contrari all’introduzione della responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche, propugnando il ricorso a strumenti sanzionatori alternativi<br />

quali le sanzioni penali-amministrative.<br />

( 40 ) Sull’attività del Consiglio d’Europa cfr. C. Bolognese, The criminal responsibility<br />

of legal person in the instruments of the Council of Europe: un ongoing project, intervento al<br />

seminario di studio (programma comunitario Grotius) sul tema La responsabilità penale delle


SAGGI E OPINIONI<br />

28 sul ‘‘contributo del diritto penale alla protezione dell’ambiente’’, adottata<br />

dal Comitato dei Ministri il 28 settembre 1977; la Raccomandazione<br />

n. R. (81) 12 del 25 giugno 1981 sulla criminalità economica; la Raccomandazione<br />

n. R. (82) 15 del 24 settembre 1982 sul ‘‘Ruolo del diritto penale<br />

nella tutela del consumatore’’; la nota Raccomandazione n. R. (88) 18<br />

adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 20 ottobre<br />

1988( 41 ), che contiene una presa di posizione generale a favore della responsabilità<br />

delle persone giuridiche, giacché ha sollecitato gli stati<br />

membri a colpire con sanzioni dirette (eventualmente anche penali) le imprese<br />

che tengono comportamenti criminali; ed infine la Raccomandazione<br />

n. R (96) 8 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa<br />

il 5 settembre 1996 e dedicata a ‘‘Politica criminale e diritto penale<br />

in un’Europa in trasformazione’’( 42 ).<br />

Nel quadro di un’armonizzazione del diritto penale degli stati membri<br />

dell’Unione Europea e della creazione di uno ‘‘spazio giuridico europeo’’,<br />

si inserisce poi il Corpus Juris, un documento che è il prodotto di uno<br />

studio elaborato per conto del Parlamento europeo con la supervisione<br />

della Commissione dell’Unione Europea, che ha avuto una prima versione<br />

nel 1996 ed una seconda nel 2000( 43 ). Questo elaborato è «un insieme di<br />

norme penali che costituiscono una sorta di corpus juris, limitatamente alla<br />

tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione Europea, e volte a garantire,<br />

in uno spazio giudiziario ampiamente unificato, una repressione più<br />

giusta, più semplice, più efficace»( 44 ); al suo interno, l’art. 13 disciplina<br />

la responsabilità penale delle persone giuridiche per una serie di reati lesivi<br />

degli interessi finanziari dell’Unione Europea( 45 ).<br />

persone giuridiche, organizzato dal Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari<br />

Penali, Roma, 10-12 giugno 1999.<br />

( 41 ) Il testo della Raccomandazione è pubblicato in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, 653<br />

ss., con traduzione di V. Militello.<br />

( 42 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 231 ss.; G. Amarelli, op. ult. cit., 38s.<br />

( 43 ) Sul Corpus Juris cfr. G. Grasso, Il ‘‘Corpus Juris’’ e le prospettive di formazione di<br />

un diritto penale dell’Unione Europea, inG. Grasso (a cura di), Verso uno spazio giuridico<br />

europeo, Milano, 1997, 1 ss.; Id., Il Corpus Juris: Profili generali e prospettive di recepimento<br />

nel sistema delle fonti e delle competenze comunitarie, inL. Picotti (a cura di), Possibilità e<br />

limiti di un diritto penale dell’Unione Europea, Milano, 1999, 127 ss.; M. Delmas-Marty-<br />

J.A.E. Vervaele (a cura di), The implementetion of the Corpus Juris in the Member States:<br />

penal previsions for the protection of the European finance, voll. I, II, III, IV, Antwerpen-Groningen-Oxford,<br />

2000; M. Delmas-Marty, Il Corpus Juris delle norme penali per la protezione<br />

degli interessi finanziari dell’Unione Europea, inQuest. giust., 2000, 164 ss.<br />

( 44 ) Corpus Juris – Motivazione, inG. Grasso (a cura di), Verso uno spazio, op.<br />

cit., 50.<br />

( 45 ) L’art. 13 comma 1 prevede che per i reati di cui agli artt. 1-8 (frode al bilancio<br />

comunitario, frode in materia di appalti, corruzione, abuso d’ufficio, malversazione, rivelazione<br />

di segreti d’ufficio, riciclaggio e ricettazione, associazione per delinquere) «Sono responsabili<br />

(...) anche gli enti che possiedono la personalità giuridica, così come quelli che<br />

39


40<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Non va dimenticata, inoltre, come fattore di pressione, l’enorme diffusione<br />

che la responsabilità penale delle persone giuridiche – originariamente<br />

confinata nei paesi di common law – ha avuto nei paesi dell’Europa<br />

continentale( 46 ) (l’istituto è ormai presente in Olanda, Irlanda, Danimarca,<br />

Svezia, Finlandia, Norvegia, Portogallo, Francia, Belgio, Svizzera( 47 )).<br />

3. La natura giuridica della responsabilità dell’ente: un falso problema?<br />

È opportuno ora prendere in esame il problema, molto dibattuto in<br />

dottrina, della natura della responsabilità dell’ente, al fine di verificare se<br />

si tratti di una questione del tutto astratta e teorica, o se invece essa non<br />

rivesta comunque una rilevanza pratica.<br />

Secondo l’opinione prevalente in dottrina, nonostante il d. lgs. n. 231/<br />

2001 preveda formalmente una responsabilità amministrativa, ci troviamo<br />

di fronte ad una responsabilità sostanzialmente penale, che di amministrativo<br />

presenta solo il nome. In sostanza, il legislatore avrebbe realizzato una<br />

vera e propria ‘‘frode delle etichette’’( 48 ) per evitare ogni problema di com-<br />

possiedono la qualità di soggetti di diritto e che sono titolari di un patrimonio autonomo,<br />

quando il reato è stato realizzato per conto dell’ente da un organo, da un rappresentante<br />

o da qualunque persona che abbia agito in nome dell’ente o che abbia un potere di decisione,<br />

di diritto o di fatto». Per un commento dell’art. 13 cfr. I. Caraccioli, La responsabilità<br />

penale delle persone morali, inL. Picotti (a cura di), Possibilità e limiti, op. cit., 177 ss.; G.<br />

De Simone, La responsabilità penale dell’imprenditore e degli enti collettivi nel Corpus Juris,<br />

ivi, 187 ss.; C. De Maglie, op. ult. cit., 240 s.; G. Amarelli, op. ult. cit., 39 ss.<br />

( 46 ) Per un quadro di diritto comparato cfr. H. De Doelder-K. Tiededmann (a cura<br />

di), La criminalisation du comportement collectif. Criminal Liability of Corporations, 1996,<br />

passim; A. Eser-G. Heine-B. Huber (a cura di), Criminal responsibility of legal and collective<br />

entities, Freiburg, 1999, passim.; nonché l’approfondita indagine di C. De Maglie, L’etica<br />

e il mercato, op. cit., 11-226. Da ultimo cfr. A. Menghini, Sistemi sanzionatori a confronto,<br />

inG. Fornasari-A. Menghini, Percorsi europei di diritto penale, Padova, 2005, 207 ss.<br />

( 47 ) In Svizzera la responsabilità penale delle persone giuridiche – novità storica per<br />

questo paese – è in vigore dal 1º ottobre 2003. Sono previste due forme di responsabilità<br />

penale dell’impresa: una primaria ed una sussidiaria. Si ha responsabilità primaria se in<br />

un’impresa viene commesso uno dei reati connessi al crimine organizzato ed al terrorismo,<br />

al riciclaggio o alla corruzione di funzionari, «qualora le si possa rimproverare di non avere<br />

preso tutte le misure organizzative, ragionevoli ed indispensabili per impedire un simile reato»<br />

(art. 100-quater cpv. 2 c.p.s.); mentre si ha responsabilità sussidiaria se in un’impresa viene<br />

commesso un crimine o un delitto, intenzionale o colposo, il cui autore non può essere<br />

accertato a causa dell’organizzazione interna carente dell’impresa medesima (art. 100-quater<br />

cpv. 1 c.p.s.): la responsabilità dell’impresa, dunque, scatta solo se non è individuata la persona<br />

fisica autore del reato (cfr. P. Bernasconi, Introdotta anche in Svizzera la responsabilità<br />

penale dell’impresa, inCass. pen., 2003, 4043 ss.).<br />

( 48 ) In proposito, vi è chi intelligentemente ha osservato che non si può parlare di ‘‘frode<br />

delle etichette’’ in senso tecnico, dato che questa espressione si riferisce ad ipotesi in cui la<br />

classificazione formale serve a coprire l’elusione di garanzie rese necessarie dalla sostanza


SAGGI E OPINIONI<br />

patibilità della nuova disciplina con l’art. 27 della Costituzione( 49 ). Ed in<br />

favore della natura penale della responsabilità depongono in primo luogo<br />

il fatto che la responsabilità dell’ente è collegata alla commissione di un<br />

reato, viene accertata dal giudice penale all’interno di un processo penale,<br />

e comporta l’irrogazione di sanzioni afflittive e stigmatizzanti( 50 ). A questo<br />

argomento, indubbiamente forte, si aggiunge l’individuazione di una serie<br />

di indici che portano nella stessa direzione( 51 ): l’autonomia della responsabilità<br />

dell’ente rispetto a quella della persona fisica (art. 8); il sistema di<br />

commisurazione delle pene pecuniarie, di chiara ispirazione penalistica<br />

‘‘punitiva’’ degli istituti (è il caso delle misure di sicurezza), mentre nel caso del d. lgs. n. 231/<br />

2001 il legislatore ha apprestato tutte le garanzie, sostanziali e processuali, tipiche del diritto<br />

penale (D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, inRiv.<br />

it. dir. proc. pen., 2002, 417 s.).<br />

( 49 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente<br />

da reato. Luci ed ombre nell’attuazione della delega legislativa, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001,<br />

1158, evidenzia che l’etichetta «responsabilità amministrativa» è dettata «dalla sola motivazione<br />

di non urtare la pruderie di quanti si dichiarano in via di principio contrari ad ammettere<br />

un’autentica responsabilità penale delle persone giuridiche»; Id., Introduzione al sistema<br />

penale, Torino, 2002, 105.<br />

( 50 ) In tal senso cfr. E. Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie<br />

e misura interdittive, inDir. e Giust., 2001, n. 23, 8, il quale osserva che tale responsabilità,<br />

per struttura e funzione, «di amministrativo presenta solo il nome, apparendo, con una probabilità<br />

che rasenta la certezza, un mascheramento di quella responsabilità penale della persona<br />

giuridica di cui si predica da anni la necessità e/o opportunità di una valorizzazione anche<br />

nel sistema penale italiano»; P. Ferrua, Le insanabili contraddizioni nella responsabilità<br />

dell’impresa, inDir. e Giust., 2001, n. 29, 8; L. Conti, La responsabilità amministrativa delle<br />

persone giuridiche. Abbandonato il principio societas delinquere non potest?, in Il diritto penale<br />

dell’impresa, a cura di L. Conti, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico<br />

dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 2001, 866, secondo cui vi è stato un mascheramento<br />

legislativo di veri e propri reati indicati come illeciti amministrativi per superare remore<br />

costituzionali; C.E. Paliero, Il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas<br />

delinquere (et puniri) potest, in Corr. giur., 2001, 845; G. Graziano, La responsabilità ‘‘penale-amministrativa’’<br />

delle persone giuridiche, inDir. prat. soc., 2002, n. 21, 22; A. Manna,<br />

La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista, in<br />

Cass. pen., 2003, 1103 s.; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto Penale, Parte gen., IV ed., rist.<br />

agg., Bologna, 2004, 146; T. Padovani, Diritto penale, Parte gen., VII ed., Milano, 2004, 88<br />

s. Sostanzialmente su questa linea si pone anche A. Fiorella, Principi generali e criteri di<br />

attribuzione all’ente della responsabilità amministrativa, inA. Fiorella-G. Lancellotti,<br />

La responsabilità dell’impresa per i fatti di reato. Commento alla legge 29 settembre 2000,<br />

n. 300 ed al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Presupposti della responsabilità e modelli organizzativi,<br />

Torino, 2004, 3 s., 14, che parla di responsabilità para-penale o in ogni caso assimilabile<br />

se non addirittura da identificare a quella penale, almeno dal punto di vista delle garanzie<br />

costituzionali.<br />

( 51 ) Cfr. P. Patrono, Verso la soggettività penale di società ed enti, inRiv. trim. dir.<br />

pen. ec., 2002, 187 ss.; V. Maiello, La natura (formalmente amministrativa ma sostanzialmente<br />

penale) della responsabilità degli enti nel d. lgs. n. 231/2001: una «truffa delle etichette»<br />

davvero innocua?, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 900 ss.; G. Amarelli, Mito giuridico ed<br />

evoluzione della realtà, op. cit., 969 ss.<br />

41


42<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

(artt. 10 e 11); la punizione della persona giuridica anche per il tentativo<br />

(art. 26); la rinunciabilità all’amnistia da parte dell’ente (art. 8, comma<br />

3); l’istituzione dell’anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative comminate<br />

agli enti (art. 80); l’applicazione dei principî di legalità (art. 2) e<br />

di retroattività della lex mitior (art. 3, comma 2).<br />

Autorevole ma minoritaria dottrina( 52 ) ritiene invece trattarsi di responsabilità<br />

in tutto e per tutto amministrativa, facendo leva su tre argomenti:<br />

1) recentemente una serie di reati in materia alimentare sono stati<br />

depenalizzati e ridotti al rango di illeciti amministrativi, ma ai fatti più gravi<br />

si applicano sempre sanzioni accessorie di carattere interdittivo, che hanno<br />

mantenuto inalterato il loro contenuto a prescindere dalla qualificazione<br />

giuridica, per cui è il nome della sanzione che ne determina la natura e<br />

non viceversa; 2) nel d. lgs. n. 231/2001 sono presenti elementi estranei<br />

al sistema penale, come la disciplina della prescrizione (art. 22) e quella<br />

delle vicende modificative dell’ente (fusione, scissione, cessione e conferimento<br />

di azienda: artt. 28-33); 3) il fatto che la responsabilità dell’ente<br />

sia accertata con le forme e le garanzie del processo penale non implica necessariamente<br />

la sua natura penale, in quanto «se è vero che ‘‘non c’è pena<br />

senza processo penale’’, non è vero l’opposto, perché ‘‘vi può essere una<br />

sanzione amministrativa anche se inflitta nel corso e con le garanzie del<br />

processo penale’’», come nell’ipotesi di connessione obiettiva di un illecito<br />

amministrativo con un reato di cui all’art. 8 della legge n. 689/1981.<br />

In realtà, se all’interno di questa spinosa problematica c’è un dato<br />

certo, è che deve escludersi la natura amministrativa della responsabilità<br />

dell’ente, che nulla possiede del paradigma amministrativo sia perché<br />

«non è in questione una funzione amministrativa, ma si è in presenza di<br />

una funzione giurisdizionale penale»( 53 ) – tant’è che la sanzione non è irrogata<br />

tramite un atto amministrativo – sia perché l’ente risponde per la<br />

commissione di un reato e non di un illecito amministrativo. Né le predette<br />

argomentazioni sono in grado di ribaltare questa conclusione: all’argomento<br />

sub 1) deve ribattersi che il titolo è solo uno degli elementi da utilizzare<br />

per l’interpretazione di una norma: laddove tutto o quasi nella disciplina<br />

sia in disaccordo con esso non può non prevalere l’interpretazione<br />

sistematica( 54 ); riguardo all’argomento sub 2) la presenza di elementi in-<br />

( 52 ) G. Marinucci, op. cit., 1201 ss. Qualifica la responsabilità dell’ente come amministrativa<br />

anche M. Romano, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni:<br />

profili generali, inRiv. soc., 2002, 398.<br />

( 53 ) Così A. Travi, La responsabilità della persona giuridica nel D. Lgs. n. 231/2001:<br />

prime considerazioni di ordine amministrativo, inLe soc., 2001, 1305.<br />

( 54 ) Cfr. Corte cost., sentenza 28 novembre 1968, n. 116, in Giur. cost., 1968, II, 2071<br />

ss., con nota di A. Pradieri, I titoli delle leggi – Osservazioni sul loro procedimento di formazione;<br />

G. Amarelli, op. ult. cit., 967 ss.


SAGGI E OPINIONI<br />

compatibili con la natura penale della responsabilità non depone automaticamente<br />

a favore della sua qualificazione come amministrativa; infine, in<br />

merito all’argomento sub 3), è vero che il giudice penale talvolta è chiamato<br />

ad applicare sanzioni amministrative, ma ciò non avviene «mai come concretizzazione<br />

di uno scopo esclusivo ed originario del processo»( 55 ).<br />

Secondo un altro punto di vista, stante l’impossibilità di una rieducazione<br />

dell’ente, si è in presenza di un terzo binario del diritto penale criminale,<br />

che si affianca alla pena e alle misure di sicurezza, il quale si concreta<br />

in «una sanzione punitiva intesa a realizzare la prevenzione dei reati per il<br />

tramite delle componenti più superficiali (negative) della prevenzione generale<br />

e speciale, le sole compatibili con la depotenziata e settoriale dimensione<br />

soggettiva dell’ente collettivo»( 56 ).<br />

Il dato che emerge è che sono presenti elementi che legittimano differenti<br />

inquadramenti, anche se la struttura e le modalità del modello disegnano<br />

un paradigma sanzionatorio che è più vicino a quello penale( 57 ),<br />

pur non essendo interamente tale( 58 ). Per questo motivo è più importante<br />

valutare il nuovo modello punitivo sul piano dell’effettività e delle garanzie,<br />

rifiutando comunque l’etichetta ambigua ed indefinita di tertium genus utilizzata<br />

nella relazione governativa al decreto legislativo( 59 ). La formula «re-<br />

( 55 ) V. Maiello, op. cit., 901.<br />

( 56 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente<br />

da reato, op. cit., 1165 ss.; Id., La responsabilità diretta ex crimine degli enti collettivi: modelli<br />

sanzionatori e modelli strutturali, in AA.VV., L’ultima sfida della politica criminale: la responsabilità<br />

(penale?) degli enti collettivi, inLeg. pen., 2003, 358. Nello stesso senso cfr. F. Nuzzo,<br />

Primi appunti sugli aspetti probatori e sulle decisioni finali concernenti l’illecito amministrativo<br />

dipendente da reato, inArch. nuova proc. pen., 2001, 455 s., nonché – tra gli economisti<br />

che ascrivono la criminalità economica al calcolo razionale dei vantaggi conseguibili<br />

attraverso il reato – M. Centorrino-F. Ofria, L’impatto criminale sulla produttività del<br />

settore privato, Milano, 2002, passim.<br />

( 57 ) Cfr. C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1365; A. Alessandri, Note penalistiche,<br />

op. cit., 55 ss. e spec. 58: «si tratta di una responsabilità punitiva, che sorge in ambiente<br />

penalistico, per esigenze di migliore tutela dei beni giuridici, ma non assume lo schema penalistico»;<br />

C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 329.<br />

( 58 ) Segnano un distacco dal modello penalistico il regime della prescrizione, la disciplina<br />

dell’archiviazione (art. 58) e della contestazione dell’illecito (art. 59), l’inesistenza di un<br />

regime di conversione per le sanzioni pecuniarie e l’assenza di istituti sospensivi (cfr. C.<br />

Piergallini, op. e loc. ult. cit.).<br />

( 59 ) La Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, inGuida al diritto, 2001, n. 26, 31<br />

ss., parla di «tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo<br />

nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor<br />

più ineludibili, della massima garanzia». Il Progetto preliminare di riforma del codice penale<br />

elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso, in<br />

cui è contenuta una forma di responsabilità da reato delle persone giuridiche che ha ispirato<br />

il legislatore del d. lgs. n. 231/2001, ha invece scelto di non qualificare la responsabilità né<br />

come penale, né come amministrativa, delineando – secondo la Relazione al Progetto – «una<br />

sorta di tertium genus, che è sìancorato a presupposti penalistici (commissione di un reato) e<br />

43


44<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

sponsabilità amministrativa» adoperata dal legislatore si rivela dunque<br />

nulla più che «un’etichetta carica di significati simbolici, del tutto neutra rispetto<br />

alla disciplina degli istituti»( 60 ), mentre in ultima analisi siamo di<br />

fronte ad «un sottosistema autonomo, entro il complesso di quello che può<br />

essere ed è definito dalla dottrina come sistema punitivo, comprendente sia<br />

il diritto penale sia il sistema dell’illecito ‘‘amministrativo’’», rispetto al<br />

quale la formula ‘‘responsabilità da reato’’ appare come la più congeniale(<br />

61 ).<br />

Non si può però concordare con chi ritiene che la questione della natura<br />

giuridica della responsabilità degli enti sia questione meramente accademica(<br />

62 ): se è innegabile che ciò che conta maggiormente in concreto è il<br />

governato dalle garanzie forti del diritto penale, ma che rispetto al diritto penale classico presenta<br />

inevitabili diversità, dovute alla diversità dei destinatari» (l’Articolato del Progetto e la<br />

Relazione sono consultabili sul sito www.giustizia.it, nonché inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, 3<br />

ss.). Criticano la scelta di etichettare come amministrativa la responsabilità dell’ente operata<br />

dal legislatore, esaltando invece l’opzione astensionistica presente nel Progetto Grosso M.<br />

Pelissero-G. Fidelbo, La ‘‘nuova’’ responsabilità amministrativa delle persone giuridiche<br />

(d. lgs. 8.6.2001 n. 231), inLeg. pen., 2002, 592 s. A sé stante la posizione di S. Vinciguerra,<br />

Quale specie di illecito?, inS. Vinciguerra-M. Ceresa Gastaldo-A. Rossi, La responsabilità<br />

dell’ente per il reato commesso nel suo interesse (D. Lgs. n. 231/2001), Padova,<br />

2004, 183 ss., spec. 211 s., il quale configura addirittura un quartum genus tra responsabilità<br />

civile, penale, penale-amministrativa, dato che «Il risultato dell’ibridazione è un modello che<br />

non riproduce la responsabilità punitivo-amministrativa né si colloca esclusivamente fra quest’ultima<br />

e la responsabilità penale, perché riproduce anche caratteri della responsabilità civile<br />

aquiliana», modello ottenuto recependo caratteri comuni e caratteri esclusivi delle suddette<br />

forme di responsabilità.<br />

( 60 ) D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, op.<br />

ult. cit., 417; Id., voce Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, in<br />

Enc. dir., Aggiornamento, vol. VI, Milano, 2002, 954: «il legislatore italiano ha fatto una scelta<br />

di forte valenza simbolica: l’etichetta adoperata trasmette un messaggio di minor gravità e<br />

di minore riprovazione, rispetto alla responsabilità penale. Soltanto dentro questo involucro<br />

simbolico la responsabilità degli enti è stata accettata (e non senza contrasti) nel contesto culturale<br />

e (soprattutto) nel contesto politico italiano, ancora alla svolta del millennio».<br />

( 61 ) Così D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione,<br />

op. cit., 417 ss.; in senso adesivo v. C. De Maglie, op. ult. cit., 329 s.<br />

( 62 ) Di questa idea sono D. Pulitanó, op. ult. cit., 417, che reputa sterile la discussione<br />

sulla natura giuridica della responsabilità dell’ente, in quanto rischia di «scambiare<br />

per problemi ‘‘dogmatici’’, di sostanza, problemi di mera costruzione del linguaggio»; Id.,<br />

voce Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, op. cit., 954; Id., La<br />

responsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano, in AA.VV., Responsabilità degli<br />

enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 9;C. De Maglie, op. ult. cit., 328; Id.,<br />

Corporate criminal liability in italian law, op. cit., 398. Contra v. M.A. Pasculli, Questioni<br />

insolute ed eccessi di delega nel d.l.vo n. 231/01, inRiv. pen., 2002, 740; A. Manna, La c.d.<br />

responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, op. cit.,<br />

517; G. Amarelli, op. ult. cit., 967 s.; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, inS. Vinciguerra-M.<br />

Ceresa Gastaldo-A. Rossi, op. cit., 5: «La qualificazione del tipo di responsabilità<br />

venuta in essere con il d. lgs. n. 231/2001 non presenta un interesse puramente<br />

accademico, perché da essa dipendono importanti conseguenze, quali il grado di completez-


SAGGI E OPINIONI<br />

contenuto della disciplina, al fine di contemperare le esigenze politico-criminali<br />

con quelle garantistiche, è altresì vero che la qualificazione giuridica<br />

mantiene una sua rilevanza pratica oltre che dogmatica, e ciò per due ordini<br />

di ragioni. In primo luogo, per coloro che ritengono la responsabilità<br />

penale degli enti in contrasto con l’art. 27, commi 1 e 3, Cost., conoscere la<br />

natura della responsabilità èindispensabile per stabilire la legittimità costituzionale<br />

del d. lgs. n. 231/2001; in secondo luogo, qualificare la responsabilità<br />

come penale renderebbe i principî garantistici che governano la<br />

responsabilità dell’ente – traslati dagli stessi principî che la Costituzione<br />

prevede per la persona fisica – inderogabili da parte del legislatore ordinario(<br />

63 ). Il problema è che il legislatore, con una scelta timida e compromissoria,<br />

ha reso impossibile stabilire la reale natura della responsabilità(<br />

64 ), mentre sarebbe stato opportuno imboccare chiaramente e con decisione<br />

la strada della responsabilità penale stricto sensu, soprattutto se si<br />

ritiene «superata l’antica obiezione legata al presunto sbarramento dell’art.<br />

27 Cost., e cioè all’impossibilità di adattare il principio di colpevolezza alla<br />

responsabilità degli enti»( 65 ), in forza del prevalere della concezione normativa<br />

della colpevolezza sulla concezione psicologica( 66 ).<br />

za richiesto alla delega parlamentare, la misura della discrezionalità consentita al legislatore<br />

delegato, i limiti costituzionali della responsabilità degli enti, la disciplina di riferimento per<br />

integrare la legge istitutiva nelle parti in cui si rivela lacunosa».<br />

( 63 ) Similmente cfr. G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa<br />

degli enti: la «parte generale» e la «parte speciale» del d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231,in<br />

AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, op. cit., 80,<br />

secondo cui «il problema della qualificazione formale (...) andrebbe forse sdrammatizzato ed<br />

assumerebbe un rilievo tutto sommato marginale, una volta imboccata la via della ‘‘massimizzazione’’<br />

dei principî e delle garanzie di stampo penalistico. Non si deve, però, dimenticare<br />

che talune opzioni tutt’altro che irrilevanti (quale, in primis, quella relativa ai ‘‘referenti costituzionali’’<br />

cui agganciare questi principî e queste garanzie) potrebbero dipendere proprio<br />

dall’etichetta che si intende assegnare a questo modello di responsabilità»; Id., La responsabilità<br />

da reato dell’impresa nel sistema italiano: alcune osservazioni rapsodiche e una preliminare<br />

divagazione comparatistica, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato<br />

degli enti collettivi, op. cit., 223 s.<br />

( 64 ) In senso critico nei confronti della mancanza di chiarezza del legislatore nella definizione<br />

della natura della responsabilità degli enti cfr. F. Foglia Manzillo, Responsabilità<br />

dell’ente: amministrativa, penale o ‘‘tertium genus’’, inDir. prat. soc., 2002, n. 8, 19.<br />

( 65 ) Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 31.<br />

( 66 ) Secondo la concezione psicologica, la colpevolezza consiste in una mera relazione<br />

psicologica tra fatto e autore, mentre secondo la concezione normativa – oggi accolta dalla<br />

dottrina dominante – la colpevolezza consiste nella rimproverabilità dell’atteggiamento psicologico<br />

tenuto dal soggetto agente: il giudizio di rimprovero da parte dell’ordinamento verte<br />

sull’atteggiamento antidoveroso della volontà presente sia nel fatto doloso che nel fatto<br />

colposo; il vantaggio offerto da questa seconda concezione è di prospettare un concetto<br />

di colpevolezza che funga anche da criterio di commisurazione giudiziale, consentendo di<br />

tenere conto dei motivi e delle circostanze dell’agire (fra gli autori che hanno fatta propria<br />

la concezione normativa cfr. G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova,<br />

45


46<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

La dottrina prevalente ha sempre sostenuto sia l’incompatibilità della<br />

responsabilità penale delle persone giuridiche con il principio costituzionale<br />

di colpevolezza, ritenendo che l’ente non possa per sua natura esprimere<br />

una volontà psicologica colpevole( 67 ), sia l’impossibilità di concepire<br />

un finalismo rieducativo nei confronti dell’ente, dato che questo presuppone<br />

una personalità strutturata, una storia di vita reale, un substrato psicologico<br />

minimo che possa essere orientato verso la riappropriazione dei<br />

valori della legalità( 68 ). Si è anche sostenuto che, pur non essendovi forse<br />

ostacoli dogmatici e costituzionali tali da impedire la configurazione di una<br />

responsabilità penale delle persone giuridiche, la criminalizzazione degli<br />

enti avrebbe l’effetto di sfigurare il volto costituzionale dell’illecito penale,<br />

aprendo la via ad un diritto penale tecnocratico, che rischierebbe di compromettere<br />

anche le garanzie faticosamente conquistate per l’individuo( 69 ).<br />

1930, 85; C. Fiore, Diritto penale, Parte gen., vol. I, Torino, 1993, 139 ss.; G. Fiandaca-E.<br />

Musco, op. cit., 282 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, Parte gen., Padova, 2001, 297; G.<br />

Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., Milano, 2001, 489 ss.; M. Romano,<br />

sub Pre-Art. 39 c.p., in Commentario sistematico del codice penale, vol. I, III ed., Milano,<br />

2004, 329 ss. Contra v. F. Pagliaro, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 240 ss.; Id., Principi di<br />

diritto penale, Parte gen., VIII ed., Milano, 2003, 322 s.). In giurisprudenza, per una importante<br />

pronuncia di accoglimento della concezione normativa della colpevolezza, cfr. Cass.,<br />

Sez. Un., 25 gennaio-8 marzo 2005, n. 9163, in Guida al diritto, 2005, n. 17, 54 ss.<br />

( 67 ) Cfr., fra i tanti, C.F. Grosso, voce Responsabilità penale, inNoviss. Dig. It., vol.<br />

XV, Torino, 1968, 712; M. Romano, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco<br />

Bricola), inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, 1031 ss.; Id., La responsabilità, op. cit., 398 ss.;<br />

G. Maiello, op. cit., 887, spec. 897 ss., che ripropone con forza tutte le tradizionali obiezioni<br />

alla criminalizzazione degli enti; G. Amarelli, op. cit., 982 ss., per il quale, se si vuole<br />

introdurre una responsabilità penale delle persone giuridiche, la via obbligata è quella della<br />

riforma dell’art. 27 Cost., rimanendo preclusa ogni lettura evolutiva dello stesso. In passato,<br />

si sono invece espressi – con varietà di argomenti – a favore della responsabilità penale degli<br />

enti L. Stortoni, op. cit., 1163 ss.; F.C. Palazzo, op. cit., 418 ss.; G. Pecorella, Societas<br />

delinquere potest, inRiv. giur. lav., IV, 1977, 357 ss. Vi è chi acutamente ha notato come la<br />

responsabilità penale delle persone giuridiche è «l’unico terreno in cui l’orientamento costituzionale<br />

del sistema penale italiano ha svolto un ruolo frenante e conservatore, anziché progressista,<br />

vale a dire di adeguamento dello strumento penale alle moderne esigenze politicocriminali»<br />

(così C.E. Paliero, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la<br />

«Parte generale» di un codice penale dell’Unione Europea, inRiv. it. dir. proc. pen., 2000,<br />

499).<br />

( 68 ) Cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 58; Id., Commento, op. cit., 160 s.<br />

L’autore ha ribadito la sua posizione anche di recente in Id., Note penalistiche, op. cit., 44.<br />

( 69 ) In tal senso cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 57 s.; Id., Commento, op.<br />

cit., 159 s. In senso adesivo v. G. Flora, L’attualità del principio «societas delinquere non<br />

potest», inRiv. trim. dir. pen. econ., 1995, 18 s.; G. Izzo, Prospettive di esclusione per la responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche, inIl fisco, 1999, n. 21, 7057 s., che suggerisce di<br />

introdurre nei confronti delle persone giuridiche sanzioni emanate dall’autorità amministrativa;<br />

nonché, da ultimo, M.L. Ferrante, Considerazioni sul titolo VII dell’articolato del progetto<br />

preliminare di riforma del codice penale elaborato dalla commissione presieduta da C.F.<br />

Grosso, in AA.VV., La riforma della parte generale del codice penale. La posizione della dot-


SAGGI E OPINIONI<br />

Queste obiezioni, come ha dimostrato la dottrina più recente, sono<br />

però tutte superabili.<br />

Riguardo alla colpevolezza, è evidente che l’art. 27, comma 1, Cost.<br />

non contiene alcun divieto espresso di criminalizzazione degli enti( 70 ),<br />

per cui – adattando il principio di colpevolezza alla persona giuridica ed<br />

evitando di rimanere prigionieri di un deleterio antropomorfismo – è possibile<br />

configurare una colpevolezza autonoma dell’ente di contenuto esclu-<br />

trina sul progetto Grosso, a cura di A.M. Stile, Napoli, 2003, 650 s. A sé stante è invece l’opinione<br />

di I. Caraccioli, Osservazioni sulla responsabilità penale propria delle persone giuridiche,<br />

in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, 73 ss.,<br />

spec. 77 ss., il quale ritiene che l’art. 27, comma 1, Cost. impedisca esclusivamente l’applicazione<br />

alla persona giuridica di una sanzione penale in conseguenza di un fatto realizzato da<br />

una persona fisica: il principio di personalità della responsabilità penale implicherebbe dunque<br />

che la responsabilità penale della persona giuridica possa legittimamente configurarsi solo<br />

nel caso in cui per la stessa condotta non si abbia la contemporanea responsabilità della<br />

persona fisica e della persona giuridica. In questo quadro, la persona giuridica risponderebbe<br />

penalmente solo per i fatti che non possono strutturalmente essere realizzati dalla persona<br />

fisica e che presuppongono necessariamente come autore un ente collettivo, quali i fatti criminosi,<br />

necessariamente plurisoggettivi, che nascono da un delibera o una decisione o una<br />

votazione di più persone nell’ambito di un’impresa (l’autore porta ad esempio il caso di<br />

un reato ambientale derivante dalla mancata attuazione delle misure anti-inquinamento in<br />

conseguenza di una delibera del consiglio di amministrazione che abbia omesso di destinare<br />

i fondi necessari all’acquisto delle apparecchiature disinquinanti), o i reati che nascono da<br />

atti giuridici (per esempio il bilancio) che sono il frutto della necessaria collaborazione-partecipazione<br />

di più soggetti (è l’ipotesi delle false comunicazioni sociali ex artt. 2621-2622<br />

c.c.). Non vi è chi non veda come una tale impostazione – pur presentata all’insegna di<br />

una liberazione della persona fisica ‘‘debole’’ (a fronte di una persona giuridica ‘‘forte’’)<br />

da un diritto penale vessatorio e alla ricerca di capri espiatori, comporti l’introduzione di vastissime<br />

zone di impunità per la persona fisica, in particolare nel campo della criminalità economica,<br />

determinando in tal modo gravi ed irragionevoli disuguaglianze fra ‘‘colletti bianchi’’<br />

e ‘‘cittadini comuni’’ che si rendano autori di reati, con seri rischi di tenuta del sistema penale:<br />

non è un caso, d’altronde, che in tutti gli ordinamenti che accolgono la responsabilità<br />

penale delle persona giuridiche essa dia luogo ad una responsabilità cumulativa della persona<br />

fisica che ha commesso il reato, qualora sia possibile identificarla.<br />

( 70 ) Cfr. E. Dolcini, op. cit., 23; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 341 ss.<br />

Negli anni settanta Bricola aveva già dimostrato – attraverso il ricorso alla teoria organica – la<br />

compatibilità tra responsabilità penale delle persone giuridiche e divieto di responsabilità per<br />

fatto altrui, ma aveva ritenuto insuperabile la barriera del nulla poena sine culpa, proponendo<br />

– secondo una tesi risalente a Exner – l’adozione di apposite misure di sicurezza (cfr. F. Bricola,<br />

Il costo, op. cit., 1010 ss.); successivamente il compianto autore modificò la propria<br />

opinione, ritenendo anche l’utilizzo delle misure di sicurezza nei confronti degli enti in contrasto<br />

con il principio di colpevolezza e optando per le sanzioni amministrative (v. F. Bricola,<br />

Responsabilità penale per il tipo e il modo di produzione, inLa responsabilità dell’impresa<br />

per i danni all’ambiente e ai consumatori, Atti del Convegno di studi organizzato dal<br />

Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, Milano, 17-18 dicembre 1976, Milano,<br />

1978, 89 s., ora anche in F. Bricola, Scritti, op. cit., vol. I, tomo II, 1252 s.; Id., Tecniche<br />

di tutela penale e tecniche alternativa di tutela, in AA.VV., Funzioni e limiti del diritto penale,<br />

a cura di M. De Acutis e G. Palombarini, Padova, 1984, 73).<br />

47


48<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

sivamente normativo, fondata essenzialmente sulle nozioni di politica di<br />

impresa e di colpa di organizzazione( 71 ), come insegnano le esperienze<br />

di molti dei paesi che già accolgono la responsabilità penale degli enti.<br />

La bontà di questa soluzione è confermata dal fatto che in un paese in<br />

cui il principio di colpevolezza è costituzionalizzato (Spagna), il Tribunale<br />

Costituzionale – nella sentenza n. 246/1991 – ha affermato la compatibilità<br />

della responsabilità penale-amministrativa degli enti con il principio di colpevolezza,<br />

dovendo la colpevolezza per le persone giuridiche essere intesa<br />

diversamente che per le persone fisiche: per gli uomini essa consiste nella<br />

capacità di infrazione e quindi nella rimproverabilità diretta, mentre per gli<br />

enti essa va individuata nel fatto di non stimolare il rigoroso adempimento<br />

delle misure di sicurezza da parte dei dipendenti( 72 ). Quanto alla rieducazione,<br />

l’esperienza di altri ordinamenti – in particolare quello statunitense e<br />

quello francese – ha già dimostrato che nei confronti dell’ente è possibile<br />

ricorrere, oltre alla pena pecuniaria, a sanzioni (quali il probation,ilcommunity<br />

service oiremedial orders) che possono produrre effetti risocializzanti<br />

nettamente superiori rispetto a quelli prodotti dalla pena detentiva nei confronti<br />

delle persone fisiche( 73 ), in quanto «non essendoci un corpo da straziare<br />

e un animo da umiliare, la sanzione diretta all’impresa può permettersi<br />

quell’invadenza, quella pervasività e anche quella violenza che un diritto<br />

penale moderno e rispettoso della dignità umana respinge con forza<br />

qualora il destinatario sia una persona fisica. Nei confronti di un’impresa<br />

il diritto penale può dar sfogo a tutte le pretese di rimodellamento e di ri-<br />

( 71 ) In tal senso cfr. J. De Faria Costa, op. cit., 1253 ss.; H.J. Hirsch, La criminalisation<br />

du comportement collectif – Allemagne, inH. De Doelder-K. Tiedemann (a cura<br />

di), op. cit., 59 s.; G. De Simone, Societas, op. cit., 117 ss., spec. 127 ss.; S. Bacigalupo, La<br />

responsabilidad penal de las personas jurídicas, Barcelona, 1998, 359; A. Manna, op. ult. cit.,<br />

505; G. Marinucci, op. cit., 1208 ss.; C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non<br />

potest : la fine tardiva di un dogma, op. cit., 582; D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’<br />

degli enti: i criteri di imputazione, op. cit., 423, secondo cui «La ‘‘capacità di colpevolezza’’<br />

della persona giuridica, ideologicamente negata da un filone della dottrina, è implicita nella<br />

configurazione fattuale e giuridica di un soggetto capace di agire», per cui «la tesi che nega<br />

in radice la ‘‘capacità di colpevolezza’’ delle persone giuridiche è supporto ideologico di pretese<br />

di ingiustificato privilegio»; C. De Maglie, op. ult. cit., 355 ss.; Id., Verso un codice penale<br />

europeo: la responsabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., Verso un codice penale<br />

modello per l’Europa. Offensività e colpevolezza, a cura di A. Cadoppi, Padova, 2002, 65 ss.;<br />

L. Zúñiga Rodríguez, La cuestión, op. cit., 8.<br />

( 72 ) Sul punto cfr. L. Arroyo Zapatero, Persone giuridiche e responsabilità penale in<br />

Spagna, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 182 s. In Spagna a carico dell’ente esiste un<br />

sistema di Consecuencias Accesorias (art. 129 c.p. del 1995) derivanti dalla commissione di<br />

determinati reati, la cui natura giuridica è molto controversa in dottrina (in argomento v.<br />

A. Menghini, Consecuencias accesorias e responsabilità delle persone giuridiche, in AA.VV.,<br />

Le strategie di contrasto alla criminalità organizzata nella prospettiva di diritto comparato, a<br />

cura di G. Fornasari, Padova, 2002, 147 ss.).<br />

( 73 ) Cfr. E. Dolcini, op. cit., 23s.


SAGGI E OPINIONI<br />

formulazione completa della struttura; può ricostruire una ‘‘persona<br />

nuova’’, modificando il carattere e reimpostando la condotta di vita»( 74 ).<br />

Infine, in merito al paventato vulnus nei confronti delle garanzie dei singoli,<br />

è stato efficacemente affermato che «una disciplina legislativa che dall’operato<br />

dell’amministratore di una società faccia conseguire sanzioni penali<br />

non solo nei confronti della persona fisica, ma anche nei confronti della società<br />

non rende nessun uomo responsabile per il fatto altrui, né lo rende<br />

responsabile oltre i limiti segnati dalla colpevolezza»( 75 ).<br />

Una volta superati gli ostacoli costituzionali, una corretta applicazione<br />

del principio di sussidiarietà depone – in una prospettiva de iure condendo<br />

– a favore dell’introduzione di una responsabilità penale in senso stretto<br />

degli enti, rivelandosi gli strumenti sanzionatori alternativi a quello penale<br />

(controllo amministrativo e controllo civilistico) del tutto insufficienti di<br />

fronte all’aggressività e alla dannosità dei corporate crimes: solo la sanzione<br />

penale è in grado di offrire protezione ai beni giuridici offesi dai reati riconducibili<br />

alle persone giuridiche giacché solo il diritto penale è in grado di<br />

esprimere condanna morale per il comportamento tenuto, stigmatizzando<br />

il valore particolare e superiore posseduto da certi beni giuridici. Il criterio<br />

per stabilire l’entrata in gioco del diritto penale, infatti, è l’offesa al bene<br />

giuridico e non certo il tipo di autore( 76 ).<br />

4. I criteri di attribuzione della responsabilità: il criterio oggettivo:<br />

A) Le persone fisiche che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente<br />

Affinché possa ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente è necessario innanzitutto<br />

che il reato sia stato commesso da determinate persone fisiche.<br />

Il sistema si articola su due livelli. L’ente risponde se il reato è stato<br />

commesso da: a) soggetti posti al vertice della persona giuridica (i c.d. soggetti<br />

in posizione apicale), categoria che comprende coloro che rivestono<br />

( 74 ) C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 291, 377 ss., la quale rileva inoltre che<br />

grazie a questo tipo di rimedi, demolitori e ricostruttivi, «la persona giuridica è indotta giocoforza<br />

ad individuare i punti deboli delle gestione da cui sono scaturiti gli illeciti ed a modificarli,<br />

adottando precauzioni che impediscono la commissione di nuovi reati: il risultato è<br />

un’opera di ristrutturazione, che assicura per il futuro l’adozione da parte dell’ente di una<br />

linea di politica organizzativa rispettosa dei precetti della legge penale. Non solo: la manipolazione<br />

dell’organizzazione interna trasforma la persona giuridica autrice di reati in un ‘‘cittadino<br />

modello’’, cambiandone completamente lo stile di vita: l’obiettivo della rieducazione<br />

viene così conseguito nella sua espressione più intensa e totale, improponibile quando il condannato<br />

è un individuo!».<br />

( 75 ) Così E. Dolcini, op. cit., 21.<br />

( 76 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 292 ss.; Id., Verso un codice penale europeo, op.<br />

cit., 64.<br />

49


50<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di<br />

una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale,<br />

nonché coloro che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente<br />

(art. 5, comma 1, lett. a); ß) persone sottoposte alla direzione o vigilanza<br />

dei vertici (art. 5, comma 1, lett. b).<br />

Si è giustamente precisato che la nozione di soggetti in posizione apicale<br />

deve essere intesa in senso relativo, giacché «èevidente che solo l’amministratore<br />

unico o il consiglio di amministrazione nel suo complesso possono<br />

dirsi davvero all’apice della struttura societaria, mentre qualsiasi diverso<br />

soggetto è sempre in qualche misura tenuto a rendere conto del<br />

proprio operato all’organo amministrativo»( 77 ). Nella categoria dei vertici<br />

sono stati comunque inclusi tutti soggetti che esprimono la volontà dell’ente<br />

e formano la sua politica di impresa, al fine di consentire – in forza<br />

della teoria organica – il rispetto nel principio di personalità della responsabilità<br />

penale (art. 27, comma 1, Cost.) nella sua accezione minima (divieto<br />

di responsabilità per fatto altrui)( 78 ). Nell’individuare i soggetti apicali<br />

il legislatore ha opportunamente seguito un criterio funzionale, di tipo<br />

pragmatico, incentrato non sulla qualifica formale ricoperta dalla persona<br />

fisica, ma sulla funzione svolta in concreto( 79 ), consentendo in tal modo<br />

di dare rilevanza all’operato dell’amministratore di fatto e, più in generale,<br />

di tutti coloro che – nell’ambito delle proprie mansioni – siano in grado di<br />

esercitare un vero e proprio dominio sull’ente o su una sua unità operativa(<br />

80 ).<br />

( 77 ) R. Rordorf, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e<br />

gestionali idonei a prevenire i reati, inLe soc., 2001, 1299; G. Graziano, op. cit., 23.<br />

( 78 ) Cfr. G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli<br />

enti, op. cit., 102 s.; contra v. F. Vignoli, Societas puniri postest: profili critici di un’autonoma<br />

responsabilità dell’ente collettivo, inDir. pen. proc., 2004, 908, secondo cui un’applicazione<br />

ortodossa della teoria organica – la quale comporta l’imputazione all’ente della condotta<br />

materiale e degli atteggiamenti psicologici del soggetto agente – dovrebbe condurre ad<br />

una responsabilità esclusiva della persona giuridica, con esclusione di ogni responsabilità della<br />

persona fisica, mentre il d. lgs. n. 231/2001 opta per la punizione di entrambi.<br />

( 79 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34: «L’utilizzazione di una<br />

formula elastica è stata preferita ad una elencazione tassativa di soggetti, difficilmente praticabile,<br />

vista l’eterogeneità degli enti e quindi delle situazioni di riferimento (quanto a dimensioni<br />

e a natura giuridica), e dota la disciplina di una connotazione oggettivo-funzionale»;<br />

S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 40 s.; C. Pecorella, op. cit., 82; G. De Simone, op.<br />

ult. cit., 103.<br />

( 80 ) Si è così seguita una tendenza che era già presente nella legislazione – si pensi all’art<br />

134 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d. lgs. n. 385/1993) e a<br />

diverse disposizioni del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria<br />

(d. lgs. n. 58/1998) – ora ulteriormente rafforzata dal nuovo art. 2639 c.c. introdotto dal<br />

d. lgs. n. 61/2002. La scelta del legislatore di limitare la responsabilità dell’ente al comportamento<br />

di soggetti che, esercitando di fatto la gestione e il controllo, siano veri e propri dominus<br />

dell’impresa è bollata coma troppo prudente da F. Vignoli, op. cit., 906.


SAGGI E OPINIONI<br />

Con riferimento alla concreta individuazione dei soggetti in posizione<br />

apicale, occorre interrogarsi sugli effetti che su di essa può esercitare la recente<br />

riforma del diritto societario introdotta dal d. lgs. n. 6/2003. La riforma,<br />

accanto a quello già esistente, ha previsto due sistemi alternativi<br />

di amministrazione e di controllo della società di capitali: il sistema dualistico<br />

(artt. 2409-octies-2409-quinquedecies c.c.) ed il sistema monistico<br />

(artt. 2409-sexiesdecies-2409-noviesdecies c.c.). Nel sistema dualistico, la<br />

gestione dell’impresa spetta esclusivamente al consiglio di gestione( 81 ),<br />

mentre il consiglio di sorveglianza esercita le funzioni di controllo (assorbendo<br />

quelle tradizionalmente spettanti al collegio sindacale più alcuni poteri<br />

appartenenti all’assemblea): appare dunque evidente che all’interno del<br />

sistema dualistico, nonostante l’ispirazione al modello tedesco, il consiglio<br />

di sorveglianza è del tutto privo di potere gestorio, riservato ex lege al consiglio<br />

di gestione. Ciò ha come conseguenza che i membri del consiglio di<br />

sorveglianza non potranno mai rientrare nel novero dei soggetti in posizione<br />

apicale in grado di dar luogo alla responsabilità della società in caso<br />

di commissione di un reato( 82 ). Questa conclusione potrebbe però essere<br />

rovesciata laddove si condivida quell’opinione dottrinale che, in virtù del<br />

fatto che il consiglio di sorveglianza nomina i membri del consiglio di gestione,<br />

ritiene logico e naturale che esso possa dare ai soggetti che nomina<br />

le linee a cui attenersi, potendo quindi compiere atti di gestione e di indirizzo<br />

o approvare operazioni di particolare rilevanza( 83 ). L’orientamento<br />

prevalente, tuttavia, sostiene che nel silenzio della legge gli statuti non possano<br />

attribuire al consiglio di sorveglianza il potere di autorizzare operazioni<br />

gestorie o di dettare le linee di indirizzo della gestione( 84 ).<br />

Analogamente – in linea con quanto affermato dalla Relazione governativa<br />

al decreto legislativo( 85 ) – sono esclusi dal novero dei soggetti in posizione<br />

apicale i sindaci: essi non sono formalmente menzionati dall’art. 5,<br />

né possono considerarsi soggetti che esercitano, anche di fatto, la gestione<br />

e il controllo dell’ente dato che hanno solo funzioni di vigilanza, mentre<br />

l’endiadi «gestione e controllo» si riferisce a chi ha il dominio ed il pilotaggio<br />

dell’ente (si pensi al socio sovrano o al socio tiranno)( 86 ).<br />

( 81 ) Tale organo «compie le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale<br />

e nel suo seno può delegare le proprie attribuzioni ad uno o più dei suoi componenti» (art.<br />

2409-novies, comma 1, c.c.).<br />

( 82 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 166 ss.<br />

( 83 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 168.<br />

( 84 ) Cfr. F. Santi, op. e loc. ult. cit.<br />

( 85 ) Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34.<br />

( 86 ) Cfr. S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 43; R. Rordorf, op. e loc. ult. cit.; F. Santi,<br />

op. cit., 189 ss. È stato altresì notato che un discorso differente deve essere fatto per i reati<br />

propri commessi dai sindaci – ovviamente afferenti alla classe dei reati societari – che in base<br />

alle disposizioni generali del d. lgs. n. 231/2001 dovrebbero essere ascritti all’ente, in quanto<br />

51


52<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Riguardo alla categoria dei sottoposti alla direzione o alla vigilanza<br />

degli organi apicali, la loro inclusione nel novero dei soggetti che fanno<br />

‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente, in conformità con la soluzione adottata<br />

dalla prassi nell’avanzato sistema statunitense( 87 ), è quanto mai opportuna<br />

al fine di evitare scaricamenti verso il basso della responsabilità da<br />

«nel compimento di una specifica condotta giudicata nel contempo meritevole di pena dal<br />

legislatore e in contrasto con gli specifici doveri inerenti alla qualifica funzionale, il soggetto<br />

(in questo caso il sindaco) agisce come rappresentante dell’ente», ma che a ben guardare non<br />

possono essere attribuiti alla società in seguito all’intervento in deroga dell’art. 25-ter, che<br />

determina l’esclusione del nesso imputativo a carico dell’ente per il fatto del sindaco (in<br />

tal senso v. C.E. Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche: profili generali e criteri<br />

di imputazione, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002, 59).<br />

( 87 ) Negli Stati Uniti l’orientamento prevalente delle corti federali è di estendere al<br />

massimo la nozione di agent: la persona giuridica deve essere considerata penalmente responsabile<br />

per gli atti commessi da qualsiasi dipendente, anche di infimo grado, mentre sono<br />

irrilevanti lo status, le mansioni o il settore del soggetto agente; l’unico limite all’imputazione<br />

alla persona giuridica dei reati commessi dai suoi dipendenti è rappresentato dal fatto che<br />

essi devono agire nell’ambito delle proprie mansioni (scope of employment) e nell’interesse<br />

della persona giuridica (intent to benefit the corporation). Minoritaria è invece la soluzione<br />

restrittiva seguita dal Model Penal Code, che ritiene la persona giuridica responsabile solo<br />

per le violazioni commesse da un soggetto che svolge funzioni di dirigente (high managerial<br />

agent). In argomento cfr. E.M. Wise, Criminal liability of corporations – Usa, inH. De<br />

Doelber-K. Tiedemann (a cura di), La criminalisation du comportement collectif, op.<br />

cit., 390 s.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 16 ss., e la copiosa giurisprudenza<br />

ivi citata; E. Gilioli, La responsabilità penale delle persone giuridiche negli Stati uniti: pene<br />

pecuniarie e modelli di organizzazione e di gestione (‘‘compliance programs’’), in AA.VV., Responsabilità<br />

degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 48, il quale sottolinea che<br />

la casistica americana segue un principio anche più ampio rispetto alla disciplina italiana, la<br />

quale stabilisce che la responsabilità dell’ente discende dagli atti di persone che rivestono<br />

funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione, o di coloro che sono sottoposti alla<br />

direzione o alla vigilanza dei primi. Più restrittiva, invece, la scelta fatta dal sistema francese,<br />

in cui l’art. 121-2 del codice penale prevede che la persona giuridica risponda quando il reato<br />

è stato commesso da parte di un proprio organo o rappresentante. La dottrina interpreta<br />

pacificamente tale previsione nel senso che la personne morale risponde per un reato commesso<br />

non da un soggetto qualunque (quale un semplice impiegato o dipendente), ma da<br />

un soggetto qualificato, che esprime e rappresenta la linea politica dell’organizzazione<br />

(cfr. R. Guerrini, La responsabilità penale delle persone giuridiche, inLe soc., 1993, 695;<br />

J. Pradel, Il nuovo codice penale francese. Alcune note sulla sua parte generale, inInd.<br />

pen., 1994, 15 s., spec. nota n. 25; B. Bouloc, La criminalisation du comportement collectif<br />

– France, inH. De Doelder-K. Tiedemann (a cura di), La criminalisation du comportement<br />

collectif, op. cit., 240; C. De Maglie, op. ult. cit., 204 s.), mentre in giurisprudenza<br />

si è affermata un’interpretazione molto ampia del concetto di organo o rappresentante, secondo<br />

cui è sufficiente che il rappresentante abbia la possibilità di cooperare nella commissione<br />

dell’illecito, tanto che si è giunti a qualificare rappresentate ai fini penalistici impiegati, soci di<br />

associazioni e membri di organizzazioni sindacali (per un quadro di tale casistica giurisprudenziale<br />

cfr. C. Ducouloux-Favard, Un primo tentativo di comparazione della responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche francese con la cosiddetta responsabilità amministrativa delle<br />

persone giuridiche italiana, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli<br />

enti collettivi, op. cit., 99 s.).


SAGGI E OPINIONI<br />

parte dell’ente( 88 ), visto che «considerata la complessità delle attuali strutture<br />

aziendali e la molteplicità degli incombenti, con conseguente inevitabile<br />

frammentazione di compiti e attribuzioni, sottrarre all’operatività del<br />

provvedimento legislativo la responsabilità connessa agli eventuali illeciti<br />

penali posti in essere dai suddetti soggetti avrebbe comportato un’area<br />

di ‘‘impunità’’ per l’ente»( 89 ).<br />

Non è condivisibile la tesi di chi circoscrive la categoria dei sottoposti<br />

ai lavoratori subordinati( 90 ): senza dubbio devono esservi ricompresi anche<br />

tutti i soggetti esterni alla societas, che eseguono un incarico sotto la direzione<br />

e il controllo dei soggetti apicali dell’ente, dato che situazioni di<br />

questo genere ben potrebbero essere strumento od occasione di illeciti:<br />

ciò che conta, infatti, non è l’essere inquadrati in uno stabile rapporto subordinato,<br />

bensì che l’ente risulti impegnato dal compimento di un’attività<br />

destinata ad esplicare i suoi effetti nella sua sfera giuridica( 91 ). In dottrina e<br />

nel mondo imprenditoriale permangono comunque incertezze interpretative<br />

in merito alla concreta individuazione dei rapporti rientranti nella categoria<br />

dei sottoposti( 92 ).<br />

( 88 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34: «una diversa opzione<br />

avrebbe significato ignorare la crescente complessità delle realtà economiche disciplinate e<br />

la conseguente frammentazione delle relative fondamenta operative»; G. De Simone, op.<br />

ult. cit., 105.<br />

( 89 ) S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 44.<br />

( 90 ) Di questo avviso sono S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 43s.<br />

( 91 ) Cfr. D. Pulitanó, La responsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano,<br />

in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit.,<br />

16. Di diversa opinione è chi reputa che l’unica soluzione de iure condito per chiamare a<br />

rispondere l’ente dei reati commessi dai dipendenti di fatto, se non si vuole incorrere in<br />

un’inammissibile analogia in malam partem, èimboccare la stretta via del concorso nel<br />

reato-presupposto, in cui l’autore materiale del reato è il soggetto avulso dalla struttura<br />

aziendale, mentre concorrente morale risulta il soggetto in posizione apicale (cfr. F. Vignoli,<br />

op. cit., 907).<br />

( 92 ) Cfr. R. Rordorf, op. e loc. ult. cit.: «‘‘Soggetto all’altrui direzione’’ può essere<br />

chiunque si trovi ad operare nell’ente in una posizione anche non formalmente inquadrabile<br />

in un rapporto di lavoro dipendente, purché sottoposto alla direzione o alla vigilanza<br />

altrui»; A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli di organizzazione previsti dal D.<br />

Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, inLe soc., 2002, 153, che includono nella<br />

categoria collaboratori esterni che subiscono compressioni anche significative della propria<br />

autonomia, ricomprendendo rapporti inerenti alla distribuzione quali quelli degli<br />

agenti, dei concessionari alla vendita e dei franchisees; Id., La responsabilità ‘‘amministrativa’’<br />

degli enti ed i ‘‘modelli di organizzazione e gestione’’ di cui agli artt. 6 e 7 del d. lgs. n.<br />

231/2001, inRiv. del dir. comm. e del diritto generale delle obbligazioni, 2003, 186 s., i<br />

quali rilevano che se da un lato è evidente l’esigenza di evitare che l’ente sfugga alla responsabilità<br />

semplicemente delegando a collaboratori esterni la commissione di reati, dall’altro<br />

lato il principio di stretta interpretazione (divieto di analogia) impedisce di dilatare<br />

oltre misura l’ambito della responsabilità dell’ente. Le ‘‘Linee guida dell’Associazione<br />

Bancaria Italiana’’ (ABI) fanno riferimento, oltre che ai dipendenti, ai rapporti di lavoro<br />

53


54<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Per quanto riguarda i reati societari, l’art. 25-ter, introdotto nel d. lgs.<br />

n. 231/2001 dal d. lgs. n. 61/2002 (il quale ha esteso il catalogo dei reati<br />

presupposto a gran parte dei reati societari), ha delimitato l’ambito dei soggetti<br />

in posizione apicale di cui all’art. 5, indicando espressamente e tassativamente<br />

gli amministratori, i direttori generali ed i liquidatori; ne consegue<br />

una restrizione indiretta della cerchia dei sottoposti a coloro che<br />

sono soggetti alla vigilanza di amministratori, direttori generali e liquidatori(<br />

93 ). In dottrina è stato evidenziato come tale previsione debba essere<br />

interpretata alla luce del nuovo art. 2639 c.c.( 94 ), che estende le qualifiche<br />

parasubordinato e addirittura a quelli di lavoro autonomo (v. ABI, Linee guida dell’ABI<br />

per l’adozione di modelli organizzativi sulla responsabilità amministrativa delle banche – d.<br />

lgs. 231/2001, 2002, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti<br />

collettivi, op. cit., 386 ss., con commento di E. Busson, nonchéinwww.abi.it); il ‘‘Codice<br />

etico ai sensi del d. lgs. n. 231/2001’’, predisposto dall’Associazione italiana intermediari<br />

mobiliari (ASSOSIM) annovera in un’unica classe dipendenti e collaboratori; le ‘‘Linee<br />

guida per il settore assicurativo ex art. 6, comma 3, d. lgs. 8.6.2001, n. 231 (responsabilità<br />

amministrativa delle imprese di assicurazione)’’ predisposte dall’ANIA includono gli agenti<br />

di assicurazione e le società costituite per l’esternalizzazione di funzioni comprese nel<br />

ciclo produttivo dell’impresa assicuratrice; ed infine l’Associazione fra le società italiane<br />

per azioni (ASSONIME), nella circolare del 19 novembre 2002, n. 68, interpreta il termine<br />

sottoposti ricomprendendovi, oltre ai lavoratori subordinati, tutti quei prestatori di lavoro<br />

che abbiano con l’ente «un rapporto tale da far ritenere sussistente un obbligo di<br />

vigilanza da parte dei vertici dell’ente medesimo» quali, ad esempio, gli agenti, i partners<br />

in operazioni di joint-ventures, i c.d. parasubordinati in genere, i distributori, i fornitori, i<br />

consulenti e i collaboratori. La tesi estensiva sembra condivisa anche dalla nota ordinanza<br />

Siemens (che ha applicato alla società Siemens AG – sottoposta a procedimento per responsabilità<br />

amministrativa derivante dal reato di corruzione posto in essere da alcuni<br />

suoi alti dirigenti nei confronti di funzionari Enel al fine di aggiudicarsi alcuni appalti<br />

per la fornitura di turbine a gas – la misura interdittiva, sotto forma di misura cautelare,<br />

del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno), laddove prende<br />

in considerazione i gravi indizi di illiceità della condotta di due dipendenti e di un consulente<br />

(ex dipendente) della Siemens, senza che l’estraneità all’organigramma aziendale<br />

di quest’ultimo sia valorizzata in alcun modo (cfr. Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord.<br />

27 aprile 2004, in Guida al diritto, 2004, n. 19, 72 ss., con commento di A. Lanzi, L’obbligatorietà<br />

della legge italiana non si ferma davanti alle multinazionali, nonché in Dir.<br />

prat. soc., 2004, n. 10, 75 ss., con commento di U. Guerini, einLe soc., 2004, 1275<br />

ss., con commento di F. Pernazza, 1282 ss., il quale critica la tesi estensiva rilevando<br />

che «così opinando gli enti possono essere chiamati a rispondere della condotta criminosa<br />

di persone fisiche ad essi estranee e con le quali intrattengono rapporti della più diversa<br />

natura e, conseguentemente, sono di fatto tenuti a configurare i modelli organizzativi di<br />

prevenzione in modo tale da poter vigilare anche sull’attività di collaboratori esterni»;<br />

l’ordinanza può leggersi da ultimo in A. Fiorella-G. Lancellotti, op. cit., 287 ss.,<br />

con nota di F. Prete, Le misure cautelari nel processo contro gli enti, 304 ss.).<br />

( 93 ) Cfr. G. De Vero, I reati societari nella dinamica evolutiva della responsabilità ex<br />

crimine degli enti collettivi, inRiv. it. dir. proc. pen., 2003, 723.<br />

( 94 ) Sull’art. 2639 c.c. cfr. A. Alessandri, I soggetti, in AA.VV., Il nuovo diritto penale<br />

delle società, op. cit., 37 ss.; O. Di Giovine, L’estensione delle qualifiche soggettive (art.<br />

2639), in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. Giarda-S. Seminara,


SAGGI E OPINIONI<br />

soggettive anche a coloro che esercitano di fatto (in modo continuativo e<br />

significativo) i poteri inerenti alla funzione: stante la natura di reati propri<br />

della quasi totalità dei reati societari, dunque, coloro che esercitano di fatto<br />

le funzioni di amministratore, direttore generale o liquidatore possono determinare<br />

la responsabilità della società qualora commettano uno dei reati<br />

di cui all’art. 25-ter( 95 ).<br />

Con la disposizione di cui all’art. 8, comma 1, lett. a), secondo la quale<br />

l’ente risponde anche se l’autore del reato non è stato identificato o non è<br />

imputabile, il legislatore ha opportunamente introdotto il principio di autonomia<br />

della responsabilità dell’ente, svincolando la responsabilità delle persone<br />

giuridiche dalla necessità di accertare la responsabilità penale in capo<br />

a determinate persone fisiche, operazione spesso impossibile nelle moderne<br />

organizzazioni caratterizzate, come precisato in precedenza, dalla decentralizzazione:<br />

in particolare, nell’ambito dei c.d. rischi tecnologici, «subordinare<br />

la responsabilità dell’organizzazione alla verifica della commissione,<br />

da parte dei singoli, diunreato completo di tutti i suoi elementi oggettivi<br />

e soggettivi è un criterio che, fondato su premesse empiriche inconsistenti<br />

(...), impegnerebbe l’accusa in una irragionevole ricerca di ciò che nella<br />

maggior parte dei casi non esiste o non può essere trovato: la responsabilità<br />

penale individuale»( 96 ).<br />

Padova, 2002, 5 ss.; P. Veneziani, Art. 2639 c.c., in AA.VV., I nuovi reati societari (Commentario<br />

al decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61), a cura di A. Lanzi-A. Cadoppi, Padova,<br />

2002, 189 ss.; F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive: questioni normative ed interpretative,<br />

inDir. prat. soc., 2004, n. 19, 31 ss.<br />

( 95 ) Cfr. R. Guerrini, Art. 3. Responsabilità amministrativa delle società, in AA.VV., I<br />

nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di F. Giunta,<br />

Torino, 2002, 253 ss.; C.E. Paliero, op. ult. cit., 58 s.; M. Formica, La responsabilità amministrativa<br />

degli enti ed i reati societari, inLa riforma dei reati societari, Atti del seminario,<br />

Macerata, 21 marzo 2003, a cura di C. Piergallini, Milano, 2004, 217 s. In proposito, vi è chi<br />

ritiene che in assenza dell’art. 2639 c.c. non sarebbe stato possibile estendere la responsabilità<br />

dell’ente ai reati commessi dai soggetti che esercitano di fatto le funzioni poiché «altrimenti<br />

l’ambito dei soggetti attivi rilevante ai fini della responsabilità dell’ente sarebbe risultato<br />

più ampio di quello che circoscrive la responsabilità penale individuale» (G. De Vero,<br />

op. ult. cit., 724 ss.). Contra v. C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone<br />

giuridiche, in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, op. cit., 83 s., secondo cui<br />

anche se si reputasse che l’art. 25-ter descrive un microsistema autonomo di responsabilità<br />

da reato dell’ente collettivo, sarebbe legittima un’interpretazione estensiva della disposizione,<br />

che ne apra l’applicazione agli ‘‘autori di fatto’’.<br />

( 96 ) F. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo dal<br />

diritto penale, Milano, 2004, 437, il quale ricorda che i disastri tecnologici sono il frutto<br />

della combinazione di diverse condotte e di inconvenienti del sistema, che interagiscono<br />

in modo imprevedibile ed inevitabile cagionando il disastro, onde quasi mai è presente<br />

un reato realizzato da un individuo, specialmente quando concorrono tra loro diverse organizzazioni<br />

(come nei disastri di Linate, della ValuJet e dello Shuttle Challenger Columbia).<br />

L’autore, con riferimento al campo dei disastri tecnologici, propone un modello di<br />

responsabilità dell’ente articolato su tre livelli (421 ss.): 1) un primo livello implica la fissa-<br />

55


56<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

B) Il criterio dell’interesse o vantaggio: un ostacolo alla funzionalità della responsabilità<br />

degli enti?<br />

L’altro criterio di attribuzione della responsabilità da reato dell’ente<br />

operante sul piano oggettivo è costituito dal fatto che la persona fisica<br />

che ha commesso il reato deve avere agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente<br />

(art. 5, comma 1).<br />

Il soggetto che commette il reato nell’interesse o a vantaggio della<br />

persona giuridica si identifica con l’ente: si è dunque scelto di aderire<br />

alla teoria organica, consentendo in tal modo il rispetto del principio<br />

di personalità della responsabilità penale nella sua accezione minima<br />

di divieto di responsabilità per fatto altrui( 97 ), se è veroche«Laprova<br />

dell’esistenza di un collegamento rilevante tra individuo e persona<br />

giuridica consente (...) di identificare l’organizzazione come assolutamente<br />

protagonista di tutte le vicende che caratterizzano la vita sociale<br />

ed economica dell’impresa e quindi anche come fonte di rischio di<br />

reato»( 98 ).<br />

Secondo la Relazione governativa al decreto legislativo – la cui impostazione<br />

è condivisa da parte della dottrina e dalla giurisprudenza – il richiamo<br />

all’interesse caratterizza la condotta criminosa della persona fisica<br />

in senso marcatamente soggettivo, rendendo necessario un accertamento<br />

ex ante condotto dal giudice col metodo della prognosi postuma, mentre<br />

il vantaggio (che può essere ricavato dall’ente anche se la persona fisica<br />

zione da parte di un’apposita autorità indipendente o agenzia di una regolamentazione dei<br />

parametri di sicurezza che le imprese devono seguire, evitando di lasciare – come avviene<br />

oggi – ogni valutazione sui rischi tecnologici nelle mani dell’organizzazione: questo apparato<br />

normativo sarebbe presidiato da sanzioni amministrative irrogate dalla stessa autorità<br />

nei confronti delle imprese che pongono in essere violazioni minime degli standard precauzionali,<br />

inottemperanze alle ingiunzioni, mancata previsione di un sistema informativo, trasgressione<br />

del dovere di reporting (tutte avvisaglie di una cultura deviante); 2) un secondo<br />

livello prevede il ricorso al diritto penale nei confronti della persona giuridica per violazione<br />

di norme poste immediatamente a tutela della sicurezza e del controllo del rischio tecnologico;<br />

3) un terzo livello comporta sempre l’applicazione della sanzione penale quando<br />

dalla violazione delle predette norme scaturisca la verificazione di un disastro o di eventi<br />

lesivi dell’incolumità individuale.<br />

( 97 ) Considerato che l’ente risponde anche nell’ipotesi in cui non sia stata identificata<br />

la persona fisica che ha commesso il reato (art. 8), qualcuno si è giustamente chiesto che fine<br />

faccia in tal caso il criterio di attribuzione oggettivo, visto che non è possibile accertare né il<br />

ruolo rivestito dalla persona fisica all’interno dell’ente, né se il soggetto agente ha realizzato il<br />

fatto nell’interesse esclusivo suo o di terzi, nell’interesse della persona giuridica o prevalentemente<br />

nel proprio interesse (cfr. P. Patrono, op. ult. cit., 189 s.). Si tratta di un’evidente<br />

lacuna della disciplina.<br />

( 98 ) C. De Maglie, La disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche<br />

e delle associazioni. Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità,inDir.<br />

pen. proc., 2001, 1350.


SAGGI E OPINIONI<br />

non ha operato nel suo interesse) assume una connotazione oggettiva, che<br />

richiede sempre una verifica ex post( 99 ).<br />

Di diverso avviso è chi – forzando il dato letterale – ritiene preferibile<br />

interpretare i due termini come un’endiadi che esprime un criterio unitario,<br />

riducibile ad un interesse dell’ente inteso in senso obiettivo: non necessariamente<br />

un interesse in concreto soddisfatto, ma un interesse (o un possibile<br />

vantaggio) dell’ente riconoscibilmente connesso alla condotta dell’autore<br />

del reato, visto che non sarebbe ragionevole affidare il collegamento<br />

del reato con l’ente alle soggettive intenzioni o rappresentazioni dell’agente(<br />

100 ).<br />

In realtà, se è condivisibile agganciare l’interesse dell’ente a dei dati<br />

obiettivi, è altresì vero che tale interesse deve pur sempre «rispondere ad<br />

una tensione al risultato o all’utilità anticipata ideologicamente dal suo<br />

( 99 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34; S. Gennai-A. Traversi,<br />

op. cit., 38; G. De Simone, op. ult. cit., 101. In giurisprudenza cfr. Trib. Milano, Sezione XI<br />

riesame, Ord. 20 dicembre 2004, in Dir. prat. soc., 2005, n. 6, 74, con commento di L.D.<br />

Cerqua (76 ss.), nonché inwww.reatisocietari.it, ove dopo aver richiamato la disposizione<br />

di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), si afferma che, in virtù del criterio ermeneutico dell’interpretazione<br />

utile, «deve ritenersi che i sintagmi ‘‘interesse’’ e ‘‘vantaggio’’ non siano usati<br />

come sinonimi e che il secondo termine faccia riferimento alla concreta acquisizione di un’utilità<br />

economica, mentre l’‘‘interesse’’ implica solo la finalizzazione del reato a quella utilità,<br />

senza peraltro richiedere che questa venga effettivamente conseguita: se l’utilità economica<br />

non si consegue o si consegue solo in minima parte, sussisterà un’attenuante e la sanzione nei<br />

confronti dell’ente potrà essere ridotta».<br />

( 100 ) Così D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione,<br />

op. cit., 425. Condividono questa tesi M. Guernelli, La responsabilità delle persone giuridiche<br />

nel diritto penale-amministrativo, Parte I, in Studium Juris, 2002, 290 s., secondo cui<br />

«soccorrono al riguardo (...) la ratio legis, che sarebbe frustrata qualora si consentisse all’ente<br />

di trarre vantaggio da una erronea autorappresentazione dei mezzi e dei fini da parte della<br />

persona fisica; sia la generale irrilevanza nel nostro sistema penale del movente del reo; sia la<br />

considerazione che la delega, già prevedente il requisito, si riferiva espressamente anche alla<br />

copertura di possibili reati colposi, in cui l’atteggiamento soggettivo dell’individuo può, sia<br />

pure astrattamente, rivelarsi estraneo alla considerazione del predetto interesse o vantaggio»,<br />

nonché il fatto che l’ente è responsabile o subisce conseguenze in senso lato sanzionatorie<br />

anche quando può risultare impossibile verificare se l’autore del reato era motivato dall’intento<br />

di perseguite l’interesse o vantaggio ‘‘collettivo’’ (art. 8, comma 1) o quando il reo consapevolmente<br />

ne trasgredisce le norme interne (art. 6, comma 5); A. Manna, La c.d. responsabilità<br />

amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista, op. cit., 1114.<br />

Contra v. A. Astrologo, ‘‘Interesse’’ e ‘‘vantaggio’’ quali criteri di attribuzione della responsabilità<br />

dell’ente,inInd. pen., 2003, 656 ss., la quale ritiene che considerare l’espressione «interesse<br />

o vantaggio» come una mera tautologia contrasta con il principio ermeneutico di conservazione<br />

delle norme, oltre che con un’interpretazione sistematica della disciplina, dato che<br />

l’art. 12, che prevede uno dei casi di pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta,<br />

configura una fattispecie in cui sussistono contestualmente entrambi i presupposti: il prevalente<br />

interesse dell’autore materiale dell’illecito o di un terzo e il vantaggio minimo che l’ente<br />

ha tratto dal reato (l’autore intende l’interesse nel senso di politica d’impresa e il vantaggio<br />

come profitto, arricchimento economico o beneficio); F. Vignoli, op. cit., 909.<br />

57


58<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

autore nel momento in cui ha posto in essere il comportamento criminoso»(<br />

101 ).<br />

L’interesse deve essere concreto ed attuale( 102 ), e non deve avere necessariamente<br />

contenuto economico (anche se ciò accadrà nella normalità<br />

dei casi)( 103 ).<br />

Qualora la persona fisica abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o<br />

di terzi l’ente non risponde (art. 5, comma 2): si tratta di una causa oggettiva<br />

di esclusione della responsabilità dell’ente, fondata sulla rottura dell’immedesimazione<br />

organica che si determina in questo caso( 104 ). Ne deriva<br />

che il riferimento al vantaggio risulta del tutto privo di utilità, dovendo<br />

il reato essere commesso sempre quantomeno nell’interesse parziale dell’ente(<br />

105 ): «appare infatti difficile immaginare un reato che non sia stato<br />

commesso, neppure in parte, nell’interesse dell’ente, ma neanche nell’interesse<br />

esclusivo dell’agente o di terzi, e che risulti quindi attribuibile all’ente<br />

solo in quanto ad una verifica successiva risulti essere stato commesso a suo<br />

vantaggio»( 106 ). Questa osservazione ci porta a ritenere privo di ogni rile-<br />

( 101 ) F. Santi, op. cit., 236.<br />

( 102 ) F. Santi, op. e loc. ult. cit.<br />

( 103 ) Cfr. D. Pulitanó, op. ult. cit., 426.<br />

( 104 ) Èinteressante notare come la giurisprudenza ha ritenuto, nell’ambito del fenomeno<br />

del gruppo di società, che il reato di corruzione di un alto funzionario di Poste Italiane<br />

s.p.a. al fine di ottenere il rinnovo per un triennio dell’appalto per i servizi di scorta valori<br />

presso gli uffici postali di numerose province, posto in essere dal (rispettivamente) presidente<br />

del consiglio di amministrazione e amministratore unico di due holding operative (Ivri<br />

Holding e Cogefi) in qualità di amministratore di fatto di due società controllate (VCM e<br />

Ivri Torino), debba essere considerato commesso nell’interesse delle medesime società controllanti<br />

all’interno di una logica infra-gruppo: in questi termini v. Trib. Milano, Ufficio<br />

G.I.P., Ord. 9 novembre 2004, in www.reatisocietari.it. Nello stesso senso, per un caso analogo,<br />

cfr. Trib. Milano, Sezione XI riesame, Ord. 20 dicembre 2004, cit., 69 ss.<br />

( 105 ) Al riguardo vi è chi ritiene che il reato commesso nell’interesse dell’autore (o di<br />

un terzo) e solo in misura ridottissima nell’interesse dell’ente non è idoneo a fungere da ragionevole<br />

criterio di collegamento tra la persona fisica che agisce per l’ente e l’ente stesso,<br />

non essendo in grado un simile criterio di rispettare il principio di personalità della responsabilità<br />

penale con riferimento all’ente (in tal senso v. A. Fiorella, Principi generali, op. cit.,<br />

11 s.).<br />

( 106 ) C. Pecorella, op. cit., 83, nota n. 54; contra v. D. Pulitanó, voce Responsabilità<br />

amministrativa per i reati delle persone giuridiche, op. cit., 958, il quale rileva che tale<br />

disposizione va interpretata in coerenza con il criterio di cui al comma 1 e con l’ipotesi di<br />

riduzione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), onde se l’ente ha ottenuto<br />

un qualche vantaggio, il fatto non potrà essere considerato nell’esclusivo interesse di<br />

altri. Critico nei confronti della scelta del legislatore è C.E. Paliero, op. ult. cit., 52, che<br />

riguardo ai casi di reati commessi nell’interesse esclusivo dell’autore o di terzi ma che comportano<br />

un vantaggio obiettivo per l’ente parla di «ipotesi tutt’altro che marginali, rispetto<br />

alle quali era preferibile configurare comunque la responsabilità dell’ente, al più ricorrendo,<br />

sul versante sanzionatorio, alla irrogazione di una pena pecuniaria attenuata e/o alla sola confisca<br />

del profitto del reato».


SAGGI E OPINIONI<br />

vanza pratica il fatto che l’art. 25-ter, con riferimento ai reati societari, contempli<br />

solo il criterio di collegamento dell’interesse, omettendo completamente<br />

il vantaggio( 107 ).<br />

Occorre ora chiedersi se almeno in certi casi l’ancoraggio della responsabilità<br />

dell’ente al requisito dell’interesse o vantaggio non vada a scapito<br />

della funzionalità della responsabilità da reato degli enti, frustrando le esigenze<br />

di politica criminale alla base dell’introduzione dell’istituto.<br />

Si pensi, in primo luogo, alle fattispecie di infedeltà patrimoniale (art.<br />

2634 c.c.) e di corruzione in seguito a dazione o promessa di utilità (art.<br />

2635 c.c.), escluse dal novero dei reati societari che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità<br />

della persona giuridica in quanto ontologicamente orientate in<br />

danno della società( 108 ): se la funzione della responsabilità degli enti è innanzitutto<br />

una funzione di prevenzione del rischio-reato, non si capisce<br />

perché esonerare l’ente dalla responsabilità per reati, quali quelli di infedeltà,<br />

che sono spesso all’origine di ulteriori comportamenti criminosi, lesivi<br />

di una pluralità di soggetti (creditori sociali, dipendenti, stakeholders in<br />

generale)( 109 ), come insegnano i clamorosi casi Enron, Arthur Andersen,<br />

WorldCom, Parmalat e Cirio( 110 ).<br />

( 107 ) Sul punto cfr. R. Guerrini, op. ult. cit., 257; C.E. Paliero, op. ult. cit., 59s.S.<br />

Putinati, La responsabilità amministrativa degli enti per i reati societari, inDir. prat. soc.,<br />

2002, n. 2, 84; G. De Vero, op. ult. cit., 727 s.; M. Formica, op. cit., 219 s.<br />

( 108 ) Il legislatore è però incorso in una svista poiché ha ricompreso nel catalogo dei<br />

reati le fattispecie di illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante<br />

(art. 2628 c.c.) e di formazione fittizia del capitale (art. 2632 c.c.), entrambe contrassegnate<br />

dalla produzione di un danno per la società sub specie di lesione dell’integrità del capitale<br />

sociale e/o delle riserve non distribuibili per legge (cfr. F. Santi, op. cit., 240 s.).<br />

( 109 ) Cfr. L. Foffani, Le infedeltà, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, op.<br />

cit., 371 ss.; Id., Responsabilità delle persone giuridiche e riforma dei reati societari, in<br />

AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 256<br />

ss., il quale soggiunge che esiste un interesse generale alla prevenzione non solo dei reati societari<br />

commessi nell’interesse della società, ma anche di quelli realizzati in danno della società,<br />

in quanto l’intreccio di interessi interdipendenti che caratterizza la società commerciale<br />

ingenera un interesse di mercato alla sua fedele e corretta amministrazione. In argomento cfr.<br />

G. Marinucci-M. Romano, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli<br />

amministratori di società per azioni, in AA.VV., Il diritto penale delle società commerciali, a<br />

cura di P. Nuvolone, Milano, 1971, 96: «il passaggio dell’impresa personale ad una organizzazione<br />

societaria sovrapersonale – di dimensioni economiche e strutturali sempre più vaste<br />

– determina l’individuazione di una serie di ‘‘categorie’’ di soggetti (istituti di credito, risparmiatori,<br />

azionisti, lavoratori, terzi, contraenti), i cui interessi sono ad un tempo colossali e a<br />

tal punto interdipendenti, che la lesione di alcuni di essi si trasferisce immediatamente sugli<br />

altri, in una sorta di reazione a catena».<br />

( 110 ) Per un’attenta disamina delle vicende Enron e Parmalat, che offre un raffronto<br />

fra i due fenomeni e solleva inquietanti interrogativi sul fallimento dei meccanismi di regolazione<br />

e controllo dei mercati, dell’etica e della morale, cfr. G. Sapelli, Giochi proibiti. Enron<br />

e Parmalat capitalismi a confronto, Milano, 2004. Sul caso della Arthur Andersen, la società<br />

di revisione e consulenza contabile condannata negli Stati Uniti per il reato di ostruzio-<br />

59


60<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Vi è chi come Stella rileva il grave ‘‘buco’’ della disciplina, ma ritiene<br />

impraticabile sanzionare con pesanti pene pecuniarie società già ‘‘spogliate’’<br />

dai propri amministratori e managers( 111 ). La soluzione potrebbe<br />

essere quella di escludere la sanzione pecuniaria per queste ipotesi, sottoponendo<br />

l’ente solo a sanzioni che incidano sull’attività e sull’organizzazione.<br />

Inoltre, effetti negativi per l’ente sono a volte determinati anche<br />

da reati commessi ex ante nel suo interesse: si pensi ad un falso in bilancio<br />

realizzato per costituire fondi neri destinati al pagamento di tangenti nell’interesse<br />

della società, il quale, ad una valutazione ex post, potrebbe avere<br />

concretamente prodotto conseguenze disastrose per la società, come dimostra<br />

l’esperienza di Tangentopoli( 112 ).<br />

Non si può quindi che concordare quando si osserva che «il criterio<br />

dell’interesse (...) se appare come un meccanismo di imputazione oggettiva<br />

congruo e accettabile con riferimento al ristretto nucleo di fattispecie incriminatrici<br />

originariamente individuate dal d. lgs. 231/2001 (...), rivela tuttavia<br />

i suoi limiti se riferito a fatti di reato commessi da soggetti in posizione<br />

apicale e strettamente e strutturalmente inerenti – come nel caso<br />

delle figure di infedeltà – al cuore dell’esercizio delle funzioni di gestione<br />

sociale»( 113 ).<br />

In secondo luogo si pensi ai reati colposi, attualmente non inclusi nel<br />

catalogo dei reati ascrivibili agli enti ma che in futuro non potranno non<br />

esservi inseriti, rispetto ai quali il criterio dell’interesse – che nella prospettiva<br />

della persona fisica autore del reato assume necessariamente un connotato<br />

soggettivo – impedirebbe qualunque collegamento con l’ente( 114 ).<br />

Insomma, se è vero che in molti ordinamenti che accolgono la responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche si ricorre al criterio di collegamento<br />

dell’interesse (si pensi all’intent to benefit del sistema statunitense( 115 )) – in<br />

ne alla giustizia in relazione alla bancarotta della Enron, cfr. M. Arena, Il caso Enron e l’incriminazione<br />

dell’Arthur Andersen, 18 marzo 2002, in www.reatisocietari.it; Id., La condanna<br />

dell’Arthur Andersen, 14 settembre 2002, ivi.<br />

( 111 ) F. Stella, Il mercato senza etica, Prefazione a C. De Maglie, op. cit., XIV.<br />

( 112 ) Cfr. L. Foffani, op. cit., 259 s.<br />

( 113 ) L. Foffani, op. cit., 265 s.<br />

( 114 ) Sul punto cfr. M. Pelissero, La responsabilizzazione degli enti. Alla ricerca di un<br />

difficile equilibrio tra modelli ‘‘punitivi’’ e prospettive di efficienza, in AA.VV., L’ultima sfida<br />

della politica criminale, op. cit., 366, il quale osserva che se si interpreta in senso finalistico il<br />

requisito dell’interesse, la futura estensione del catalogo dei reati alle fattispecie colpose comporterà<br />

la necessità di modificare il criterio di imputazione oggettiva, per esempio sostituendo<br />

il riferimento ai reati commessi «nel suo interesse o a suo vantaggio» con un più generico<br />

«per suo conto»; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, op. cit., 23.<br />

( 115 ) Il requisito dell’intent to benefit è interpretato in maniera estensiva dalla giurisprudenza<br />

statunitense, secondo cui non è necessario che l’agent commetta il reato con lo<br />

scopo esclusivo e totale di recare un beneficio all’impresa, ma è sufficiente anche un motivo<br />

misto, cioè che abbia di mira almeno in parte l’interesse dell’ente; le corti federali, inoltre,


SAGGI E OPINIONI<br />

quanto rappresenta «quel nesso in assenza del quale il reato si configurerebbe<br />

come fatto ‘‘altrui’’ rispetto alla societas, allo stesso modo che risulta<br />

irrimediabilmente estraneo alla persona fisica il fatto che non abbia con<br />

essa alcun collegamento già sul piano della causalità materiale»( 116 )–èaltresì<br />

innegabile che non mancano esempi di segno opposto (è il caso dell’Olanda(<br />

117 )): la soluzione più equilibrata potrebbe essere quella mediana,<br />

nel senso di prevedere il criterio dell’interesse o vantaggio come requisito<br />

generale e di escluderlo nelle ipotesi in cui esso si riveli disfunzionale ed<br />

incompatibile rispetto alle esigenze di politica criminale, essendo più che<br />

sufficiente il criterio di ascrizione soggettiva di cui agli artt. 6 e 7 (responsabilità<br />

per la politica di impresa o per colpa organizzativa) a garantire l’osservanza<br />

del principio di responsabilità per fatto proprio, oltre che del<br />

non richiedono la prova che di fatto la persona giuridica abbia ottenuto un vantaggio concreto<br />

dal comportamento dell’agente, mentre nell’ipotesi in cui la persona fisica abbia agito<br />

nello scope of employment ma con l’obiettivo di danneggiare l’ente ed avvantaggiare terzi<br />

escludono la responsabilità penale delle imprese (cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato,<br />

op. cit., 21 s.; E. Gilioli, op. cit., 49). In Francia, riguardo ai comportamenti rientranti nella<br />

locuzione reati commessi dagli organi o rappresentanti per conto della personne morale, si<br />

fronteggiano tre teorie (cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 208 s.): 1) quella minima, secondo<br />

cui l’organo o il rappresentante deve aver commesso il reato allo scopo di arrecare un vantaggio<br />

(materiale o morale, attuale o eventuale) all’ente, rimanendo esclusi i fatti posti in essere<br />

nell’esclusivo interesse dell’agente o di un’altra persona (cfr. R. Guerrini, La responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche, op. cit., 695; B. Bouloc, op. cit., 240; G. De Simone,<br />

Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in Riv. it. dir.<br />

proc. pen., 1995, 226); 2) quella estensiva, in base alla quale atto commesso pour compte della<br />

persona giuridica significa realizzato nell’esercizio dell’attività dell’ente; 3) quella intermedia,<br />

che distingue caso per caso, ricorrendo a un criterio misto, oggettivo (il profitto ottenuto o<br />

preso di mira) e soggettivo (la faute della persona fisica), nell’ipotesi di infraction intentionelle<br />

contro il patrimonio, al criterio dell’intention criminelle dell’agente per i reati intenzionali<br />

contro la persona, ed al criterio oggettivo del profitto per i reati non intenzionali.<br />

( 116 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1131.<br />

( 117 ) Nell’ordinamento olandese – in cui la responsabilità penale delle persone giuridiche<br />

è stato introdotta a livello settoriale, nel campo del diritto penale economico, già dal<br />

1951, e a livello generale nel 1976 dal paragrafo 51 del codice penale olandese – è sufficiente<br />

che l’atto del singolo sia commesso nel contesto sociale della persona giuridica (per esempio,<br />

se compro un oggetto ai grandi magazzini Harrods, io compro da Harrods e non dal commesso<br />

che materialmente mi consegna l’oggetto, ma se acquisto cocaina dal commesso agli<br />

stessi grandi magazzini, in realtà non compro da Harrods ma dal commesso): cfr. H. De<br />

Doelder, Criminal liability of corporations – Netherlands, inH. De Doelder-K. Tiedemann<br />

(a cura di), La criminalisation du comportement collectif, op. cit., 299 s.; C. De Maglie,<br />

op. ult. cit., 182. In generale sul sistema olandese di responsabilità penale degli enti v.<br />

R. Screvens, Les sanctions applicables aux personnes morales, in AA.VV., La responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche in diritto comunitario - Atti della Conferenza di Messina, op.<br />

cit., 177 ss.; J.A.E. Vervaele, La responsabilité pénale de et au sein de la personne morale<br />

aux Pais-Bas. Marriage entre pragmatisme et dogmativisme jurudique, in Rev. sc. crim.,<br />

1997, 325 ss.; Id., La responsabilità penale della persona giuridica nei Paesi Bassi. Storia e sviluppi<br />

recenti, in AA.VV., Verso un codice penale modello per l’Europa, op. cit., 3 ss., nonché in<br />

AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 135 ss.<br />

61


62<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

principio di colpevolezza, nei confronti dell’ente. In definitiva, se si intende<br />

costruire una forma responsabilità punitiva della persona giuridica veramente<br />

autonoma, occorre liberarsi di ogni residuo di antropocentrismo<br />

anche con riferimento al profilo oggettivo dell’illecito( 118 ), seguendo l’esempio<br />

del legislatore inglese che nel 1996 ha progettato – anche se non<br />

ancora introdotto( 119 ) – la fattispecie di corporate killing, ovvero di omicidio<br />

colposo di impresa, nella quale l’ente è ritenuto responsabile per il<br />

solo fatto che la morte è la conseguenza (anche indiretta) di un proprio difetto<br />

di organizzazione (management failure)( 120 ).<br />

5. (Segue:) I criteri di attribuzione soggettiva: alla ricerca della colpevolezza<br />

dell’ente:<br />

A) Reati commessi dai vertici e reati commessi dai sottoposti: aspetti problematici<br />

Il fulcro della disciplina di cui al d. lgs. n. 231/2001 è costituito dai<br />

criteri di attribuzione soggettiva della responsabilità.<br />

Il legislatore italiano, infatti, ha opportunamente deciso di introdurre<br />

una colpevolezza autonoma dell’ente, seguendo il modello avanzato di ordinamenti<br />

come quello statunitense e non accontentandosi di una semplice<br />

responsabilità par ricochet come nel sistema francese, dove la responsabilità<br />

dell’ente è il semplice riflesso della responsabilità della persona fisica che<br />

ha agito per suo conto( 121 ).<br />

( 118 ) In tal senso cfr. F. Vignoli, op. cit., 911.<br />

( 119 ) È singolare che una riforma progettata per costringere le imprese ad adottare misure<br />

organizzative volte a prevenire incidenti sul lavoro e in generale danni alla sicurezza<br />

pubblica non sia stata ancora portata a compimento da un governo laburista come quello<br />

attualmente in carica, nonostante le ripetute assunzioni di impegno in tal senso (cfr., da ultimo,<br />

J. Eaglesham, Blear to break corporate killing pledge, inFinancial Times, 23 ottobre<br />

2004).<br />

( 120 ) Sulla fattispecie di corporate killing – contenuta nel Law Commission Report n.<br />

237 del 1996 e congegnata per frenare la devastante aggressività delle corporations nel campo<br />

della public safety, manifestatasi in episodi come il naufragio di Zeebrugge, l’incendio della<br />

metropolitana a King’s Cross e il deragliamento di Clapman Junction – cfr. C. De Maglie,<br />

op. ult. cit., 159 ss.; C. Wells, Corporate criminal liability in England and Wales, in AA.VV.,<br />

Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 125 ss.<br />

( 121 ) L’art. 121-2 del codice penale francese prevede che le personnes morales sono penalmente<br />

responsabili dei reati commessi per loro conto (pour compte) dai loro organi o rappresentanti.<br />

Si è scelto dunque di costruire un criterio di imputazione fondato esclusivamente<br />

sul rapporto di causalità tra la realizzazione materiale del reato e l’attività svolta dall’ente,<br />

prescindendo del tutto dalla dimostrazione di una colpevolezza (faute) della persona giuridica:<br />

si tratta di un modello di responsabilità dell’ente la cui manovrabilità rischia di essere<br />

notevolmente limitata dalla necessità di accertare la responsabilità del singolo individuo


SAGGI E OPINIONI<br />

La colpevolezza dell’ente si articola in un duplice criterio di imputazione(<br />

122 ). Per i reati commessi dai c.d. soggetti apicali l’ente (art. 6), in<br />

virtù della teoria organica, risponde per la politica di impresa, eccetto<br />

che nel caso in cui esso riesca a provare (inversione dell’onere della prova):<br />

1) l’adozione e l’efficace attuazione di modelli organizzativi (ritagliati sui<br />

compliance programs statunitensi) volti alla prevenzione dei reati; 2) l’ado-<br />

(in argomento cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 206 s., 226), che infatti ha subito le critiche<br />

della migliore dottrina, la quale sostiene la necessità di aggirare la regola, richiedendo un’autonoma<br />

colpevolezza dell’ente: «La responsabilité pénale des entitès personnifiées est une<br />

responsabilité personnelle (art. 121-1) et pas un simple refles des malversations des personnes<br />

qui agissent en leur sein. Il faut en effet se garder (...) de faire de la responsabilité pénale<br />

des personnes morales une responsabilité par ricochet en trasposant les solutions du droit<br />

civil (et de la responsabilité du préposé) au droit répressif. S’il est possible d’affirmer que<br />

la responsabilité pénale des personnes morales est une responsabilité indirecte, c’est uniquement<br />

parce qu’il faut nécessairement un bras, une main, une personne en chair et en os pour<br />

se prêter à l’acte délictueux, en l’occurrence pour user des fausses attestations en les transmettant<br />

dans le dossier adressé au tribunal. C’est au niveau de la commission matérielle<br />

du délit que le personnes physiques sont indispensables; cela ne signifie pas que le personnes<br />

physiques doivent être également coupables. L’élément moral de l’infraction imputée à la<br />

personne morale reste propre à celle-ci. Sinon, on ne comprendrait pas pourquoi le législateur<br />

a cru bon d’écrire que la responsabilité pénale de la personne morale n’excluait pas celle<br />

de la personne physique» (C. Ducouloux-Favard, Quatre annés de sanctions pénales à<br />

l’encontre des personnes morales, inRecueil Dalloz, 1998, 396). La giurisprudenza è invece<br />

divisa, con la Corte di Cassazione arroccata nella difesa nella responsabilità par ricochet, e<br />

le corti di merito che al contrario hanno condannato più volte persone giuridiche in assenza<br />

dell’accertamento della responsabilità dei suoi agenti o rappresentanti, spingendosi addirittura<br />

ad elaborare una colpevolezza autonoma dell’ente. L’ambito della responsabilità par ricochet<br />

è stato ridotto dal legislatore con la legge 2000-647 del 10 luglio 2000 che, con riferimento<br />

alle infractions non intentionnelles, ha distinto le ipotesi in cui vi è un collegamento<br />

diretto tra colpevolezza della persona fisica e danno da quelle in cui tale collegamento è indiretto:<br />

nel primo caso la persona fisica risponde sempre insieme alla persona giuridica, mentre<br />

nel secondo caso le persone fisiche rispondono solo per colpa grave e qualificata, vale a<br />

dire che qualora manchi il suddetto elemento soggettivo la responsabilità della personne morale<br />

non sarà agganciata a quella dei suoi organi o rappresentanti; la piena validità della responsabilità<br />

par ricochet, sia prima che dopo l’entrata in vigore della legge 2000-647 del 10<br />

luglio 2000, qualunque sia il reato commesso dalla persona fisica, ancorché non punibile per<br />

difetto dell’elemento soggettivo, è stata però ribadita da Corte di Cassazione, Sezione penale<br />

(Chambre criminelle), 24 ottobre 2000, n. 6289, Avril, in Diritto penale XXI secolo, 2003, n.<br />

1, 145 s., con commento di A.F. Morone, La responsabilità penale par ricochet della personne<br />

morale in Francia dopo la L. 10 luglio 2000 N. 2000-647, 146 ss., spec. 151 ss. In argomento<br />

cfr. altresì J. Pradel, La responsabilité des personnes morales en France, in AA.VV.,<br />

Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 79 ss.; C. Ducouloux-Favard,<br />

Un primo tentativo di comparazione, op. cit., 100 ss., il quale evidenzia<br />

che i casi in cui non è necessario verificare la presenza di una colpevolezza dell’ente – come<br />

quello esaminato dalla nota sentenza Carrefour della Corte di Cassazione (26 giugno 2001, n.<br />

4700) – sono del tutto eccezionali e non rappresentano un principio generale, come pretendono<br />

invece i sostenitori della teoria du ricochet.<br />

( 122 ) Sul punto v. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1351; Id., L’etica e il mercato, op.<br />

cit., 333 ss.<br />

63


64<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

zione di un organismo di controllo interno all’ente, autonomo e indipendente,<br />

che vigili sull’osservanza del modello; 3) che i vertici hanno commesso<br />

il reato eludendo fraudolentemente i modelli organizzativi; 4) che<br />

non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo di controllo.<br />

Per reati commessi dai c.d. sottoposti (art. 7), invece, la persona giuridica<br />

è chiamata a rispondere per una colpevolezza di organizzazione, la<br />

quale si sostanzia nella violazione dei propri doveri di direzione e vigilanza<br />

da parte dei soggetti apicali: l’adozione preventiva da parte dell’ente dei<br />

modelli di organizzazione, gestione e controllo comporta una presunzione<br />

iuris et de iure di rispetto dei suddetti obblighi di direzione e vigilanza, con<br />

la conseguente esclusione della responsabilità dell’ente.<br />

Le critiche della dottrina hanno immediatamente investito il complesso<br />

meccanismo che consente all’ente di evitare di incorrere in responsabilità<br />

amministrativa da reato, da molti autori considerata una<br />

scusante che esclude la colpevolezza dell’ente( 123 ), ma più fondatamente<br />

qualificabile come causa di esclusione della punibilità in quanto è costruita<br />

secondo lo schema dell’inversione dell’onere della prova (talché<br />

l’accusa non deve provare l’assenza delle quattro condizioni di cui all’art.<br />

6, comma 1( 124 )) e non esclude la confisca (anche per equivalente) del<br />

profitto che l’ente ha tratto dal reato (art. 6, comma 5), confisca che<br />

– non si dimentichi – nel sistema della responsabilità da reato dell’ente<br />

rappresenta una sanzione e presuppone quindi un riconoscimento di responsabilità(<br />

125 ).<br />

Secondo la Relazione governativa al decreto legislativo, a cui si accoda<br />

una parte della dottrina, la previsione del fatto impeditivo di cui all’art. 6<br />

risponde all’esigenza garantistica di rendere anche la responsabilità delle<br />

persone giuridiche per i reati commessi dai vertici conforme al principio<br />

( 123 ) Cfr. G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1135 s.; C.E. Paliero, op.<br />

ult. cit., 55: «il legislatore ha introdotto un paradigma di organizzazione, per il vertice societario,<br />

costruito negativamente, alla stregua cioè di una scusante con inversione dell’onere della<br />

prova a carico dell’ente».<br />

( 124 ) Cfr. P. Ferrua, op. cit., 80, il quale osserva come la colpa organizzativa non è<br />

elemento costitutivo della responsabilità dell’ente poiché non vi è un onere probatorio a carico<br />

dell’accusa, ma si configura come un fatto impeditivo la cui prova grava interamente sulla<br />

difesa. Secondo l’opinione di A. Fiorella, Principi generali, op. cit., 15, i modelli organizzativi<br />

avrebbero la funzione di circoscrivere un’area di ‘‘rischio permesso’’ nell’esercizio<br />

dell’attività dell’ente: giacché l’ente per il fatto stesso di esistere ed agire dovuti al fatto<br />

che taluno può approfittarne per commettere fatti di reato, il legislatore avrebbe creato un’area<br />

di ‘‘rischio permesso’’ in cui il rischio non può essere imputato all’impresa quando questa<br />

abbia creato soddisfacenti modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire i fatti di<br />

reato.<br />

( 125 ) In tal senso cfr. D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di<br />

imputazione, op. cit., 428; G. Cocco, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei<br />

modelli di prevenzione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, 103 s.


SAGGI E OPINIONI<br />

costituzionale di colpevolezza, tenuto conto che la realtà societaria attuale è<br />

costellata da una serie di entità organizzativamente complesse, in cui il management<br />

non si sviluppa più secondo un modello verticistico, ma si<br />

estende su un’ampia base orizzontale, con la conseguente frantumazione<br />

dei centri decisionali, onde in una situazione di questo tipo imputare all’ente<br />

nella sua interezza le conseguenze di comportamenti criminosi tenuti<br />

da soggetti che pure svolgono funzioni apicali, ma che non risultano pienamente<br />

rappresentativi della societas, esporrebbe la riforma a censure di costituzionalità,<br />

perché fonda la responsabilità degli enti su criteri meramente<br />

oggettivi( 126 ). In sostanza, dunque, anche la responsabilità dell’ente per<br />

reati posti in essere dai vertici ricadrebbe nell’alveo della colpa di organizzazione(<br />

127 ).<br />

Questa impostazione non può tuttavia essere condivisa, perché si<br />

( 126 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 36; C. Paliero, Il d. lgs. 8<br />

giugno 2001, n. 231, op. cit., 847; Id., La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit., 54 s.,<br />

il quale parla di «un concetto di colpevolezza organizzativa che ricorda molto da vicino la c.d.<br />

misura oggettiva della colpa»; Id., La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento<br />

italiano: profili sistematici, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 29 s., secondi cui<br />

la necessità di introdurre tale esimente «deriva dal fatto che la persona giuridica, nella sua<br />

storia, nella sua politica di impresa di periodo lungo o medio-lungo, da un lato, e il concreto<br />

amministratore del momento, dall’altro, possono presentare, per così dire, una ‘‘dissociazione<br />

di personalità’’»; A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche:<br />

un primo sguardo d’insieme, op. cit., 509 ss.; Id., La c.d. responsabilità amministrativa delle<br />

persone giuridiche: il punto di vista del penalista, op. cit., 1116 ss.; C. Piergallini, Societas<br />

delinquere et puniri non potest : la fine tardiva di un dogma, op. cit., 589 s. In senso conforme<br />

cfr. Trib. Torino, Sezione G.U.P., Ord. 10 febbraio 2005, in www.reatisocietari.it.<br />

( 127 ) Pur convenendo sulla collocazione del criterio di imputazione soggettiva previsto<br />

per i reati commessi dai vertici all’interno dello schema della colpa di organizzazione, alcuni<br />

autori negano in radice la capacità di questo modello di fondare un’autentica colpevolezza<br />

dell’ente: cfr. A. Alessandri, Note penalistiche, op. cit., 54 s: «Ci si dovrebbe chiedere se<br />

una siffatta colpa di organizzazione (...) possa davvero integrare la colpevolezza penalistica, seppur<br />

in senso normativo. Non è che l’accezione ‘‘normativa’’ della colpevolezza permetta di<br />

trascurare gli elementi psicologici: com’è ben noto li organizza e li supera in una visione unitaria,<br />

che combina elementi psicologici con elementi normativi, rendendo il prezioso servizio<br />

di poter graduare il giudizio», «Se non si vuole arrivare al drastico giudizio di fictio culpae,<br />

certo si ha a che fare con una ‘‘colpa’’ intessuta esclusivamente di elementi oggettivi, riconducibili<br />

all’operato di una moltitudine di soggetti, che non si vede come possano lasciare spazio<br />

ai tradizionali elementi psicologici della colpa, ridotti ma esistenti (e, a maggior ragione,<br />

del dolo)»; P. Patrono, Verso la soggettività penale, op. cit., 191 s., il quale rileva che «tale<br />

colpevolezza non riesce a staccarsi dalla sua dimensione prevalentemente oggettiva e comunque,<br />

appare assumere i caratteri di una colpevolezza per la condotta di vita: per ciò che l’ente<br />

ha dimostrato di essere attraverso le carenze e i difetti di organizzazione e non per ciò che ha<br />

fatto». Tali obiezioni non colgono però nel segno in quanto viziate da antropomorfismo: in<br />

verità non si riesce ad immaginare quale altro tipo di colpevolezza sia configurabile per gli<br />

enti se non una colpevolezza fondata su elementi oggettivi ed eventualmente anche sulla condotta<br />

di vita, giacché non si può pretendere che il diritto penale delle persone giuridiche sia<br />

modellato su principî che hanno la loro ragion d’essere esclusivamente per le persone fisiche.<br />

65


66<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

espone ad una serie di rilievi critici molto convincenti. In primo luogo, si è<br />

evidenziato come enfatizzare in questo modo la frantumazione della base<br />

manageriale nelle moderne imprese sminuisce la concezione della persona<br />

giuridica come autonomo centro di interessi, attività e decisioni alla base<br />

della criminalizzazione degli enti, favorendo una deresponsabilizzazione<br />

complessiva dell’ente collettivo( 128 ); secondariamente, si è osservato che<br />

l’insieme degli elementi concorrenti che compongono la causa di esclusione<br />

della punibilità di cui all’art. 6 determina una formulazione normativa farraginosa,<br />

la quale – unitamente alla totale implausibilità empirico-criminosa<br />

– comporta a carico dell’ente una vera e propria probatio diabolica<br />

(si pensi alla enorme difficoltà di provare che il reato è stato commesso<br />

dal soggetto apicale eludendo fraudolentemente i modelli organizzativi e<br />

senza che vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo<br />

di controllo( 129 )). Tale implausibilità empirico-criminosa è dimostrata dal<br />

fatto che non sembra rimanere alcuno spazio logico per la configurabilità<br />

dell’‘‘esimente’’ de qua, dato che: o si verifica effettivamente una cesura<br />

netta tra il comportamento dei vertici e la condotta virtuosa dell’ente,<br />

ma in tal caso è altamente probabile che la persona fisica abbia agito nell’esclusivo<br />

interesse proprio o di terzi (se non a danno dell’ente), con conseguente<br />

venir meno – prima ancora della colpevolezza – del criterio di imputazione<br />

oggettivo; oppure il diaframma fra i vertici e ‘‘la condotta di<br />

vita’’ aziendale nasconde in realtà una collusione fra dirigenti e controllori,<br />

in cui l’adozione e l’efficace attuazione dei compliance programs si rivela essere<br />

nient’altro che un’impalcatura di facciata che può dar luogo ad ingiustificate<br />

aree di impunità( 130 ).<br />

( 128 ) Cfr. G. De Vero, op. ult. cit., 1136.<br />

( 129 ) La difficoltà di prova dell’esimente è aggravata dal c.d. management override, cioè<br />

dalla ridotta efficacia dei controlli effettuati dai subordinati sull’operato dei soggetti apicali:<br />

infatti, non è difficile per un amministratore o un dirigente costringere o indurre un dipendente<br />

a compiere o a ignorare un’operazione irregolare, soprattutto quando, a causa di uno<br />

stile di direzione autocratico, i sottoposti assumono atteggiamenti poco critici, compiacenti,<br />

servili o ricattatori; in tali casi, sarà necessario dimostrare che il modello organizzativo conteneva<br />

tutti gli elementi dissuasivi, persuasivi, culturali ed etici occorrenti per limitare ragionevolmente<br />

il rischio di management override (sul punto v. S. Fortunato, La prevenzione<br />

degli illeciti nel D. Lgs. 231/2001,inD. Davies, La prevenzione degli illeciti societari, Milano,<br />

2002, 279). Per ovviare al problema in dottrina vi è chi addirittura arriva a sostenere che «Se<br />

si vuole evitare di rendere fittizia la prova liberatoria voluta dal legislatore e di costringere la<br />

difesa dell’ente a trasmodare nell’accusa della persona fisica, non resta (...) che negare autonomia<br />

alla fraudolenta elusione del modello, considerando quest’ultima eventualità implicitamente<br />

dimostrata con la prova dell’efficace adozione del modello, il quale non può certo<br />

garantire anche contro le sue elusioni fraudolente» (così F. Giunta, Attività bancaria e responsabilità<br />

ex crimine degli enti collettivi, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 9 s.).<br />

( 130 ) Cfr. G. De Vero, op. ult. cit., 1137 ss.; Id., Introduzione al diritto penale, op. cit.,<br />

111 s.; Id., La responsabilità diretta ex crimine, op. cit., 360. Similmente cfr. A. Carmona,<br />

op. cit., 212 ss., il quale chiosa affermando come «non esiste, né possa esistere, alcuna regola


SAGGI E OPINIONI<br />

Ma anche ad ammettere la configurabilità dell’‘‘esimente’’ ex art. 6,<br />

non sembra comunque opportuno, dal punto di vista politico-criminale e<br />

della prevenzione generale, consentire l’impunità dell’ente per un reato<br />

commesso nel suo interesse da un soggetto apicale: «Sarebbe come dire<br />

(...) che il reato commesso dal soggetto individuale non debba essere punito<br />

(e non soltanto punito di meno) quando non si ponga in alcuna relazione<br />

di continuità con la condotta di vita precedente»( 131 ).<br />

L’errore in cui è incorso il legislatore delegato – peraltro andando al di<br />

là di quanto richiesto dalla legge delega( 132 )–èstato quello di voler costruire<br />

una colpevolezza di organizzazione a tutti i costi, estendendola<br />

anche ad ambiti in cui essa non è necessaria, in quanto «non esiste alcuna<br />

controindicazione a ritenere che il dolo del reato commesso dal soggetto in<br />

posizione apicale, qualificato dallo scopo di perseguire l’interesse o il vantaggio<br />

dell’ente collettivo, rappresenta un coefficiente di imputazione soggettiva<br />

del reato alla societas del tutto adeguato e non bisognevole di ulte-<br />

organizzativa che consenta all’interno di una impresa, gestita in forma societaria, un controllo<br />

– da parte di alcuno o in automatico – sugli atti di gestione dell’amministratore delegato o<br />

dell’amministratore unico. Il vertice aziendale e l’azienda sono sul piano dell’operare – proprio<br />

per la stessa teoria organicistica in forza della quale possiamo oggettivamente ritenere<br />

sussistente la responsabilità dell’ente per le attività dell’organo – esattamente la stessa entità»;<br />

M. Guernelli, op. cit., 292: «La disposizione lascia perplessi perché, più che dettata dalla<br />

acquisizioni della scienza dell’organizzazione, nella sua complessità talvolta superflua sembra<br />

non tener conto del fatto che l’organo dirigente o è coinvolto nei reati, o comunque non può<br />

essere controllato da un organismo, sia pure autonomo, che gli è sottoordinato: si intende<br />

dire che, o il modello è di difficile se non impossibile efficacia (...), e quindi non se ne potrà<br />

quasi mai provare l’idoneità a prevenire reati, specialmente in ragione delle rispettive qualifiche<br />

soggettive, ovvero varrà solo per funzionari intermedi (ad es. direttori di filiali) per i<br />

quali la gerarchia interna, i relativi protocolli, eventuali servizi di ispettorato, cautele quali<br />

le firme congiunte, le sanzioni disciplinari ecc., possono essere offerte in giudizio quali elementi<br />

integratori delle previsioni normative; dovendosi altrimenti concludere che basti un<br />

adeguamento formale, con organigrammi e procedure solo sulla carta, per eludere il sistema»;<br />

D. Pulitanó, op. ult. cit., 429 s., che paventa il rischio che la possibile esenzione dell’ente<br />

in casi di commissione del reato possa «aprire la strada alla predisposizione di adempimenti<br />

fittizi, premessa di scuse pretestuose, con effetti di inutile complicazione del processo».<br />

( 131 ) La bella metafora è diG. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1142, che<br />

fa l’esempio di un soggetto apicale che – in un momento delicato per la stessa sopravvivenza<br />

dell’impresa – realizza un delitto di corruzione di pubblico ufficiale straniero all’interno di<br />

una importante e delicata operazione economica internazionale, eludendo fraudolentemente<br />

i meccanismi di controllo attivati dalla società.<br />

( 132 ) Ci troviamo dunque di fronte ad un eccesso di delega per illegittimo restringimento<br />

della responsabilità degli enti in relazione alla commissione di reati da parte di soggetti<br />

apicali, dato che l’art. 11, comma 1, lett. n) della legge n. 300/2000 ricollegava all’adozione<br />

del modello organizzativo-gestionale idoneo l’esclusione delle sanzioni interdittive e la<br />

diminuzione da un terzo alla metà delle sanzioni pecuniarie, mentre il Governo vi ha ricondotto<br />

un’esenzione completa dalla responsabilità (in tal senso cfr. M.A. Pasculli, op. cit.,<br />

743; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, op. cit., 17).<br />

67


68<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

riori integrazioni»( 133 ), tanto più che «non è con la creazione di categorie<br />

giuridiche di pura apparenza che si supera il versari in re illicita e si rispettano<br />

i principî costituzionali»( 134 ).<br />

Questa conclusione è avallata da due ordini di considerazioni. In<br />

primis, néil Progetto Grosso, né l’ordinamento statunitense – che è il<br />

più evoluto in materia di responsabilità penale delle corporations – prevedono<br />

un’esclusione di responsabilità per l’ente in caso di reato commesso<br />

dai vertici qualora la persona giuridica abbia preventivamente adottato ed<br />

efficacemente attuato un compliance program, disponendo il primo che non<br />

vi è esclusione della responsabilità se l’autore del reato aveva poteri di direzione<br />

della persona giuridica, o di una unità organizzativa dotata di autonomia<br />

finanziaria e tecnico funzionale, o ne esercitava di fatto la direzione<br />

(art. 126, comma 3 dell’Articolato( 135 )), e limitandosi il secondo a contemplare<br />

una circostanza attenuante (soluzione preferibile anche per il sistema<br />

italiano), peraltro circoscritta fortemente nel suo campo di applicazione(<br />

136 ). E ciò dimostra che l’immedesimazione organica è più che suffi-<br />

( 133 ) Così G. De Vero, op. ult. cit., 1141; cfr. altresì Id., Intervento, in AA.VV., Societas<br />

puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 270: «Questo è uno<br />

dei punti della disciplina del decreto legislativo in cui l’esigenza di tener presenti criteri di<br />

imputazione soggettivi ulteriori rispetto a quelli postulati dalla teoria dell’identificazione, e<br />

coerenti con il modello della colpa di organizzazione, si traduce, in chiave scusante, in<br />

uno scrupolo garantistico difficilmente condivisibile. Già èsufficiente a salvaguardare il principio<br />

di personalità della responsabilità penale il fatto che il (...) reato (...) sia stato posto in<br />

essere dolosamente da un ‘‘vertice’’ nell’esclusivo interesse dell’ente».; G. De Simone, I profili<br />

sostanziali, op. cit., 110, che stigmatizza l’«eccesso di zelo ipergarantistico» del legislatore<br />

«perché nel fatto doloso e colpevole commesso dai ‘‘vertici’’ vi è già quanto basta e avanza<br />

per fondare una responsabilità dolosa della societas»; M. Pelissero-G. Fidelbo, op. cit.,<br />

581, la cui critica è però rivolta indistintamente a entrambi i criteri di attribuzione soggettiva:<br />

«trattandosi della responsabilità di un ente, il giudizio non può essere arricchito delle stesse<br />

componenti personali che ne giustificano l’addebito nella responsabilità penale delle persone<br />

fisiche: è, infatti, indubbio che la ricerca di parallelismi di struttura tra responsabilità delle<br />

persone fisiche e responsabilità delle persone giuridiche rischia di antropomorfizzare l’approccio<br />

alla nuova disciplina, sollecitando inutili forzature nella interpretazione delle norme<br />

e ricercando all’interno dell’ente elementi di tipo ‘‘pseudo-volontaristico’’»; F. Giunta, op.<br />

cit., 10.<br />

( 134 ) A. Carmona, op. cit., 213.<br />

( 135 ) Progetto preliminare di riforma del codice penale, Articolato, cit. LaRelazione al<br />

Progetto, cit., spiega la mancata esclusione della responsabilità in questa ipotesi affermando<br />

che «l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigente<br />

ricoperto nell’organizzazione, consente di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazione<br />

stessa».<br />

( 136 ) Le Federal Sentencing Guidelines del 1991 considerano la mera adozione di un<br />

compliance program insufficiente per la concessione delle attenuanti in tre casi: 1) quando<br />

un soggetto facente parte del gruppo dirigente dell’impresa o il responsabile della gestione<br />

di un compliance program ha partecipato ad un reato, lo ha consentito o consapevolmente<br />

ignorato; 2) quando si sia ritardata la denuncia all’autorità giudiziaria del reato di cui si<br />

sia venuti a conoscenza all’interno della società; 3) quando abbia partecipato al reato un sog-


SAGGI E OPINIONI<br />

ciente per imputare agli enti i reati posti in essere dai vertici nel loro interesse.<br />

In secundis, anche autorevole dottrina aziendalistica ritiene astratto<br />

ed incoerente rispetto a una sostenibile teoria dell’impresa il meccanismo<br />

di esenzione dell’ente disciplinato dall’art. 6, giacché identificare la responsabilità<br />

dell’impresa esclusivamente in termini di colpa organizzativa equivale<br />

ad accogliere implicitamente un concetto riduttivo di azienda, degradandola<br />

a mero apparato impersonale e burocratico, mentre la moderna<br />

teoria economica considera l’impresa come un’istituzione umana e intenzionale,<br />

come la ‘‘mano visibile del management’’, dove la struttura organizzativa<br />

deriva dalla strategia deliberatamente attuata dal top management,<br />

così che può affermarsi che «Per i reati commessi da soggetti in posizione<br />

apicale, che tendono ad identificare i propri obiettivi con quelli dell’azienda<br />

e che comunque hanno l’autorità e la responsabilità della progettazione<br />

organizzativa, la possibilità di escludere la responsabilità dell’azienda<br />

appare (...) priva di sostegno logico e pericolosa per la concreta lotta alla<br />

criminalità aziendale, pur con l’inversione dell’onere della prova»( 137 ).<br />

Riguardo alla responsabilità dell’ente per i reati commessi dai sottoposti,<br />

costruita come fattispecie di agevolazione colposa, è pacifico in dottrina<br />

che l’onere di provare la mancata adozione o la mancata attuazione<br />

dei modelli di organizzazione, gestione e controllo finalizzati alla prevenzione<br />

dei reati grava stavolta sulla pubblica accusa, dovendosi applicare<br />

la regola generale in mancanza di una deroga espressa come quella prevista<br />

dall’art. 6( 138 ).<br />

Quanto alla sua qualificazione, in letteratura vi è chi ritiene che tale<br />

forma di attribuzione della responsabilità rientri pur sempre nello schema<br />

dell’immedesimazione organica e non in quello della colpa di organizzazione,<br />

è ciò sulla base del rilievo che ai fini della responsabilità dell’ente è necessario<br />

getto che si trova in posizione di comando sostanziale (in questo caso si è di fronte ad una<br />

presunzione iuris tantum che l’impresa è priva di un compliance program caratterizzato dall’effettività):<br />

cfr. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi<br />

e innovazioni nel diritto penale statunitense, inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, I, 137 s.; Id., L’etica<br />

e il mercato, op. cit., 111; F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 474.<br />

( 137 ) Così, efficacemente, P. Bastia, op. cit., 50s.<br />

( 138 ) Per tutti cfr. S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 55; G. De Simone, op. ult. cit.,<br />

110 s.; M. Guernelli, op. cit., 293. Il pubblico ministero nel corso delle indagini dovrà<br />

dunque richiedere all’ente la produzione del modello: se questo manca la responsabilità della<br />

societas non è automatica poiché occorrerà provare l’inosservanza degli obblighi di direzione<br />

e vigilanza ed il rapporto di causalità tra la culpa in vigilando e la commissione del reato; se<br />

invece il modello esiste le ipotesi sono due: 1) esso viene giudicato idoneo, magari in seguito<br />

al ricorso ad una consulenza tecnica, e la responsabilità dell’ente è esclusa automaticamente;<br />

2) il modello è giudicato insufficiente, il ché non implica necessariamente la responsabilità<br />

dell’ente, la quale può comunque essere esclusa dall’adozione di misure particolari che provino<br />

la mancata violazione degli obblighi di direzione e vigilanza (cfr. F. Santi, op. cit.,<br />

328 ss.).<br />

69


70<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

che la realizzazione del reato sia stata resa possibile dall’inosservanza degli<br />

obblighi di direzione o vigilanza da parte dei vertici, richiedendosi dunque<br />

la possibilità di muovere loro un rimprovero per negligenza, di cui è causa<br />

di esclusione l’attuazione dei modelli di prevenzione dei reati( 139 ). Tale opinione<br />

non può peròessere condivisa poiché – se è vero che il riferimento all’inosservanza<br />

dei doveri di direzione o vigilanza da parte dei soggetti apicali<br />

può risultare fuorviante, rischiando di appiattire la responsabilità dell’ente<br />

per il fatto dei sottoposti sulla colpevolezza (sub specie di condotta colposa)<br />

dei vertici – quello che l’accusa in ultima analisi deve provare è pur sempre la<br />

mancata adozione ed attuazione dei modelli organizzativi da parte dell’ente<br />

nel suo complesso, elemento quest’ultimo che inequivocabilmente configura<br />

una forma di colpa di organizzazione oggettiva e normativa in quanto riferita<br />

impersonalmente alla struttura( 140 ).<br />

È pacifico in dottrina e tra le associazioni imprenditoriali che l’adozione<br />

e l’efficace attuazione dei modelli organizzativi rappresenti per l’ente<br />

un semplice onere( 141 ). Tuttavia, attenta dottrina ha sottolineato come al<br />

fine di stabilire si ci si trovi in presenza di un obbligo o di un onere occorre<br />

verificare se gli adempimenti da cui dipende l’esclusione della sanzionabilità<br />

per l’ente corrispondono oppure no ad obblighi già altrimenti imposti<br />

dall’ordinamento giuridico o derivanti dalla disciplina in esame( 142 ).<br />

( 139 ) In tal senso cfr. G. Cocco, op. cit., 108 ss., il quale rimarca che «la pervasiva<br />

presenza nel dettato normativo dell’influsso della dottrina della c.d. identificazione, che cacciata<br />

dalla porta immancabilmente rientra dalla finestra, in effetti non solo impedisce una<br />

coerente costruzione normativa della colpevolezza di organizzazione, ma finisce per negarne<br />

la stessa sussistenza, con innegabili conseguenze sul piano della linearità del dettato normativo».<br />

( 140 ) Cfr. C.E. Paliero, Il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 846: «superando gli<br />

schemi tradizionali, questo modello fonda la responsabilità, non sulla prova della negligenza<br />

della persona fisica-sorvegliante (dirigente) nel controllo della persona fisica-sorvegliato (dipendente),<br />

bensì sulla prova della (di una) generale e strutturale colpa di organizzazione nella<br />

prevenzione e protezione dell’azienda (società, company, etc.) dallo specifico rischio (...) della<br />

commissione di un reato ‘‘della specie di quelli indicati’’, da parte di un qualsiasi dipendente,<br />

o nuncius, dell’impresa stessa»; Id., La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit., 56; A.<br />

Alessandri, op. ult. cit., 49; F. Giunta, op. cit., 11.<br />

( 141 ) In dottrina v., ex plurimis, G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit. 1146.<br />

Nella stessa direzione vanno, come detto, le prese di posizione delle associazioni di categoria<br />

degli imprenditori: cfr. Abi, Linee guida, cit., 363; Confindustria, Linee guida per la costruzione<br />

dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. n. 231/2001, Roma,<br />

7 marzo 2002 (aggiornate al 24 maggio 2004), in www.confindustria.it, 5 s.: «la legge prevede<br />

l’adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo in termini di facoltatività e non<br />

di obbligatorietà. La mancata adozione non è soggetta, perciò, ad alcuna sanzione, ma espone<br />

l’ente alla responsabilità per gli illeciti realizzati da amministratori e dipendenti. Pertanto,<br />

nonostante la ricordata facoltatività del comportamento, di fatto l’adozione del modello diviene<br />

obbligatoria se si vuole beneficiare dell’esimente»; nonché la circolare dell’ASSONI-<br />

ME n. 68/2002.<br />

( 142 ) Cfr. D. Pulitanó, op. ult. cit., 431.


SAGGI E OPINIONI<br />

In merito ai reati commessi dai sottoposti, il riferimento all’inosservanza<br />

di obblighi di direzione o di vigilanza presuppone una disciplina correlata,<br />

dettata dalla legge o interna all’ente, che preveda i poteri ed i relativi<br />

doveri dei soggetti apicali, costituendo quindi i modelli organizzativi esercizio<br />

di poteri e adempimento di doveri altrove stabiliti, finalizzati al buon<br />

funzionamento dell’ente. Dunque si può affermare che «La predisposizione<br />

di modelli organizzativi idonei a prevenire il reato dei sottoposti è<br />

(...) un obbligo, ad un tempo, dei soggetti apicali e dell’ente che essi ‘‘impersonano’’»(<br />

143 ).<br />

Per quanto concerne i reati commessi dai vertici, si è detto invece che<br />

«L’adozione di modelli ‘‘preventivi’’ ai sensi dell’art. 6 è (...) una possibilità<br />

che la legge ha introdotto, rimettendola alla scelta discrezionale dell’ente.<br />

Non un obbligo, se non nella misura in cui doveri attinenti all’organizzazione<br />

siano desumibili da altre fonti normative»( 144 ). Ma proprio quest’ultimo assunto<br />

legittima la ricerca di eventuali fonti normative contenenti l’obbligo<br />

di adottare i modelli organizzativi per prevenire i reati dei soggetti apicali.<br />

Questa via è stata percorsa di recente, in maniera solo parzialmente convincente,<br />

da chi ritiene di potere fondare siffatto obbligo sulle norme inerenti<br />

la gestione delle imprese e delle società, la quale è agganciata al criterio di<br />

diligenza e prudenza nell’espletamento del mandato. Per cui da un lato – in<br />

un’ottica interna all’ente – l’amministratore prudente deve porre la società<br />

al riparo dalle ripercussioni negative che l’attività sociale può subire in seguito<br />

all’irrogazione di sanzioni pecuniarie, interdittive e stigmatizzanti,<br />

dall’altro lato – in un’ottica esterna – l’organo ricopre una ‘‘posizione di<br />

garanzia’’ che lo obbliga alla prudenza ed a prendere tutte le cautele che<br />

la sua diligenza professionale gli impone per evitare che la società subisca<br />

un danno in conseguenza di una grave irregolarità, onde non vi è dubbio<br />

che la mancata adozione ed attuazione del modello organizzativo possa giustificare<br />

l’intervento del collegio sindacale, il quale – ai sensi del nuovo art.<br />

2403 c.c. – vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei<br />

principî di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assetto<br />

organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e<br />

sul suo concreto funzionamento, avvalendosi dei poteri di cui ai novellati<br />

artt. 2403-bis, 2406 e 2409 c.c.( 145 ). Mentre per le società quotate e per<br />

le società finanziarie l’obbligo di munirsi di un compliance program potrebbe<br />

essere ricavato – forse un po’ arditamente, vista la genericità della<br />

previsione – dall’art. 149, comma 1, d. lgs. n. 58/1998, il quale dispone<br />

( 143 ) D. Pulitanó, op. e loc. ult. cit.<br />

( 144 ) D. Pulitanó, op. ult. cit., 432 s.<br />

( 145 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 291 s. Nello stesso senso v. G. Rubboli-M. Bramieri-D.<br />

Bagaglia-A. Bogliacino, La responsabilità amministrativa della società. Analisi del rischio<br />

reato e modelli di prevenzione, Milano, 2003, 127.<br />

71


72<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

che il collegio sindacale ha il dovere di vigilare sull’osservanza della legge e<br />

dell’atto costitutivo, sul rispetto dei principî di corretta amministrazione,<br />

sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società in relazione alla<br />

natura finanziaria dell’ente( 146 ).<br />

Ci si è interrogati, inoltre, sulla mancanza di ogni riferimento ai modelli<br />

organizzativi – che costituiscono l’architrave dei criteri di imputazione<br />

soggettiva – da parte dell’art. 25-ter in relazione alla responsabilità degli<br />

enti per i reati societari. L’opinione prevalente è nel senso di ritenere<br />

che anche in questo caso – come per i criteri di attribuzione oggettiva –<br />

non si sia dato luogo alla creazione di «un sottosistema nel sottosistema»(<br />

147 ) per i reati societari, giacché il richiamo effettuato dall’art. 11<br />

lett. h) della legge delega n. 366/2001 ai principî generali contenuti nella<br />

legge delega n. 300/2000 e nel d. lgs. n. 231/2001 comporta l’impossibilità<br />

di escludere la rilevanza, sul piano della colpevolezza, dell’adozione dei<br />

modelli di prevenzione del rischio-reato, i quali integrano un elemento costitutivo<br />

del sistema di responsabilità da reato degli enti( 148 ). Se il legislatore<br />

del 2002 avesse voluto mettere ‘‘fuori gioco’’ i modelli organizzativi in<br />

questa specifica ipotesi, sarebbe stata necessaria un’esclusione espressa ed<br />

inequivoca, che derogasse alla regola generale( 149 ).<br />

B) Il modello quadripartito di colpevolezza dell’ente proposto dalla de Maglie<br />

Per superare le insufficienze e le aporie che affliggono l’attuale modello<br />

di colpevolezza dell’ente previsto dal d. lgs. n. 231/2001, sarebbe opportuno<br />

– in una prospettiva de lege ferenda – adottare il modello di colpevolezza della<br />

persona giuridica autorevolmente proposto dalla de Maglie, articolato in<br />

«quattro forme fondamentali che (...) racchiudono ed esauriscono le diverse<br />

manifestazioni della patologia della gestione della società, dal grado più intenso<br />

a quello più leggero»: 1) la colpevolezza derivante dalle scelte di politica<br />

di impresa; 2) la colpevolezza che scaturisce dalla cultura di impresa; 3) la colpevolezza<br />

di organizzazione; 4) la colpevolezza di reazione( 150 ).<br />

( 146 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 292.<br />

( 147 ) Il rischio di una simile eventualità èprospettato da E. Musco, Gli amministratori<br />

disonesti producono sanzioni alle società, inDir. e Giust., 2002, n. 20, 82; Id., I nuovi reati<br />

societari, Milano, 2004, 32.<br />

( 148 ) Cfr. C.E. Paliero, Nasce il sistema delle soglie quantitative: pronto l’argine alle<br />

incriminazioni, inGuida al diritto, 2002, n. 16, 44; Id., La responsabilità delle persone giuridiche,<br />

op. cit., 57 s.; C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,<br />

op. cit., 83 ss.; U. Guerini, La disciplina della responsabilità ‘‘penale-amministrativa’’ degli<br />

enti, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc.,<br />

2002, n. 3, 30; S. Putinati, op. cit., 87.<br />

( 149 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 87; G. De Vero, I reati societari, op. cit., 730.<br />

( 150 ) Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 355 s.; Id., In difesa della respon-


SAGGI E OPINIONI<br />

Tale modello quadripartito di colpevolezza avrebbe il pregio evidente<br />

di consentire una graduazione della ‘‘riprovevolezza d’impresa’’ dalla forma<br />

più grave (equiparabile al dolo intenzionale) a quella meno grave (equiparabile<br />

alla colpa)( 151 ), che ovviamente troverebbe una corrispondenza nella<br />

diversa modulazione quantitativa e qualitativa delle sanzioni( 152 ).<br />

La colpevolezza come espressione delle scelte di politica di impresa,<br />

che integra la forma più grave di colpevolezza dell’ente, si ha o quando<br />

la persona giuridica ha operato principalmente per perseguire scopi criminosi<br />

o servendosi di mezzi criminosi (c.d. impresa criminale), oppure nell’ipotesi<br />

in cui i dirigenti abbiano – piegando le strutture organizzative interne<br />

– realizzato, determinato, accettato o tollerato la commissione di un<br />

reato( 153 ).<br />

Al secondo stadio di riprovevolezza si colloca la colpevolezza manifestazione<br />

della cultura d’impresa, la quale fa riferimento ai fenomeni criminali<br />

che hanno un’origine ‘‘ambientale’’, che cioè sono il prodotto di<br />

una mentalità e di uno stile di vita radicato nella persona giuridica. Palese<br />

è la carenza di tassatività di una simile categoria, tanto che gli studiosi – si<br />

va dagli sforzi degli anni settanta compiuti da Stone e Bucy, fino alle recenti<br />

elaborazioni di Schein, Vance e Stupack – hanno più volte tentato di<br />

precisarne il contenuto. La formalizzazione del concetto è stata operata<br />

per la prima volta dal legislatore australiano del 1995, che al div. 12.3<br />

del Criminal Code Act definisce la corporate culture come «una mentalità,<br />

un’insieme di usi, di regole, un modo di gestire e di condurre l’azienda<br />

che è radicato generalmente all’interno della struttura della persona giuridica<br />

o nell’ambito di quella parte dell’impresa in cui si svolgono le attività<br />

di rilievo»( 154 ). Certamente il ricorso a tale forma di colpevolezza<br />

sabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., L’ultima sfida della politica criminale, op.<br />

cit., 351 ss.<br />

( 151 ) In tal senso cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 356; contra v. C.<br />

Piergallini, La disciplina, op. cit., 1362, il quale – partendo dal presupposto che la colpevolezza<br />

dell’ente, essendo intrinsecamente normativa, sfugge alla possibilità di scandagliare a<br />

fondo il nesso psicologico con il fatto illecito – arriva alla conclusione che, «mentre nel contesto<br />

della responsabilità della persona fisica, l’autonomia dei delitti dolosi e di quelli colposi<br />

poggia sopra un’indiscutibile piattaforma empirica, nell’ambito della responsabilità dell’ente<br />

è la violazione delle regole di prevenzione del rischio-reato nell’esercizio dell’attività economica<br />

a costituire l’ossatura della disciplina, senza che residuino soverchi spazi per sottili distinguo<br />

sulle forme di colpevolezza».<br />

( 152 ) Nell’attuale disciplina la differenza tra la colpevolezza dell’ente per i reati commessi<br />

dai vertici e quella per i reati commessi dai sottoposti è purtroppo «neutralizzata<br />

sul piano sanzionatorio dall’identità delle comminatorie edittali» (lo nota G. De Vero,<br />

Struttura e natura giuridica, op. cit., 1136).<br />

( 153 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 356 s.<br />

( 154 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 359 ss.; F. Centonze, op. cit., 438, il quale considera<br />

riduttiva la definizione di corporate culture presente nel codice australiano, in quanto<br />

73


74<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

consentirebbe di sanzionare gli enti che attuano un’adesione meramente<br />

di facciata alla legalità, adottando un compliance program cherimanesolo<br />

sulla carta e seguendo invece regole non scritte orientate verso l’illegalità(<br />

155 ), tuttavia permangono i dubbi sull’eccessiva genericità nella nozione<br />

di corporate culture, che potrebbe prestarsi ad abusi applicativi da<br />

parte della giurisprudenza, pericolo segnalato dalla dottrina in relazione<br />

alla eventuale introduzione nel nostro codice penale della fattispecie di<br />

‘‘concussione ambientale’’( 156 ), peraltro già entrata nel linguaggio giurisprudenziale(<br />

157 ), le cui analogie con il concetto di corporate culture sono<br />

evidenti.<br />

La colpa di organizzazione consiste in un difetto organizzativo inerente<br />

i processi di gestione interna dell’ente: la persona giuridica è con-<br />

non fa riferimento «alla persistenza e alla istituzionalizzazione di questo insieme di norme,<br />

valori e consuetudini nel contesto dell’organizzazione, a quel processo capace di determinare<br />

le condotte dei singoli, orientandoli ad allinearsi a questo sistema normativo e non a quello<br />

imposto dall’ordinamento».<br />

( 155 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 362.<br />

( 156 ) In tal senso cfr. R. Zannotti, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione:<br />

inefficienze attuali e prospettive di riforma, in AA.VV., Studi economico-giuridici<br />

della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari, vol. LX, 2003-2004, In memoria<br />

di Franco Ledda, II, Torino, 2004, 1371 s., secondo cui una fattispecie come quella descritta<br />

nell’art. 138 n. 5 del Progetto Pagliaro (1992) – consistente nel fatto del pubblico<br />

agente che «riceve o ritiene denaro o altra utilità sfruttando l’altrui convinzione, determinata<br />

da situazioni ambientali, reali o supposte, di non poter altrimenti contare su un trattamento<br />

imparziale» – «eliminerebbe i problemi sollevati dalla concussione per induzione, ma ne<br />

aprirebbe altri ben più gravi, sollevati dalla preoccupante indeterminatezza della norma e<br />

dalla vaghezza dei confini della stessa»; v. altresì E. Musco, Le attuali proposte individuate<br />

in tema di corruzione e concussione, in AA.VV., Revisione e riformulazione delle norme in tema<br />

di corruzione e concussione, Bari, 1995, 46, il quale rileva che introdurre una fattispecie<br />

basata sullo «sfruttamento di una convinzione soggettiva – reale o addirittura supposta – di<br />

non poter contare su un trattamento imparziale, significa tradire il principio di legalità e affidarsi<br />

agli inevitabili abusi e soprusi della prassi, come sempre accade quando la fattispecie<br />

penale abdica ad una descrizione semplice e tassativa e va a rifluire nella discrezionalità giudiziale»;<br />

Id., L’illusione penalistica, Milano, 2004, 89, ove si definisce la concussione ambientale<br />

una «manipolazione interpretativa, un arbitrio per varie ragioni che nessuna esigenza di<br />

ordine sociale può giustificare e/o sanare».<br />

( 157 ) Cfr. App. Venezia, 24 giugno 1996, in Giur. merito, 1998, 92 ss.; Cass., 13 luglio<br />

1998, Salvi e altri, in Foro it., 1999, II, 644 ss., con nota di V. Manes, La «concussione ambientale»<br />

da fenomenologia a fattispecie «extra legem»; Trib. Roma, 20 luglio 2000, Bosca e<br />

altri, in Giur. merito, 2002, 110 ss. In dottrina cfr. G. Forti, L’insostenibile pesantezza della<br />

tangente ambientale: inattualità di disciplina e disagi applicativi del rapporto corruzione-concussione,<br />

inRiv. it. dir. proc. pen., 1996, 491 ss.; G. Contento, La concussione, inT. Padovani<br />

(a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino,<br />

1998, 112 ss.; E. Palombi, La concussione, Torino, 1998, 145 ss.; G. Fiandaca, Esigenze e<br />

prospettive di riforma dei reati di concussione e corruzione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2000, 889<br />

ss.; C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, inTrattato di diritto penale, Parte<br />

speciale, diretto da G. Marinucci e E. Dolcini, vol. I, tomo I, Padova, 2001, 372 ss.


SAGGI E OPINIONI<br />

siderata colpevole se si dimostra che non ha adottato misure organizzative<br />

dirette a prevenire la commissione di reati al proprio interno o se<br />

l’implementazione di tali misure si è rivelata insufficiente. Perno di<br />

questa forma di colpevolezza sono dunque i compliance programs. Indubbi<br />

sono i vantaggi offerti dalla colpa di organizzazione: 1) la possibilità,<br />

grazie ai compliance programs, di prevenire o scoprire nella fase iniziale<br />

– evitandone le conseguenze dannose o pericolose – reati altrimenti<br />

spesso imprevedibili; 2) la creazione di una cultura di impresa volta al<br />

rispetto della legge e di natura ‘‘specialistica’’, ovvero diretta ad individuare<br />

con precisione e a neutralizzare le fonti di rischio; 3) l’instaurazione<br />

di una collaborazione fra impresa e ordinamento giuridico nella<br />

prevenzione dei reati, determinata dalla premialità del meccanismo dei<br />

compliance programs, la cui efficace adozione consente il proscioglimento<br />

della persona giuridica (eccetto che nel caso di reati dolosi posti in essere<br />

dai vertici)( 158 ).<br />

Infine, lo schema della colpevolezza di reazione (reactive corporate<br />

fault) – ideato dagli studiosi australiani Fisse e Braithwaite – è l’unico<br />

che consenta di configurare la responsabilità penale degli enti in relazione<br />

a reati – come quelli ambientali – che per giungere a consumazione hanno<br />

bisogno della somma di una pluralità di comportamenti distribuiti nel<br />

tempo. Vi sono infatti beni, come l’ambiente, che solo eccezionalmente<br />

possono essere lesi da una singola condotta, richiedendosi in genere il cumulo<br />

di una pluralità di comportamenti. La particolare struttura di tali fattispecie<br />

rende impraticabile il ricorso sia al criterio dell’immedesimazione<br />

organica, facilmente eludibile attraverso una sostituzione del personale dirigente<br />

(cosicché non vi sarebbe mai una persona fisica responsabile dell’intera<br />

serie dei comportamenti), che a quello della colpa di organizzazione,<br />

giacché l’inefficacia del compliance program si manifesterebbe<br />

quando ormai l’offesa si è prodotta, vanificando sistematicamente la funzione<br />

preventiva della colpa di organizzazione. Per questo motivo, l’unico<br />

modo di sanzionare gli enti per le c.d. offese dinamiche è quello di accertare<br />

la colpevolezza non al momento o prima della realizzazione del comportamento,<br />

ma successivamente alla condotta, valutando la reazione che<br />

l’ente ha avuto dopo la realizzazione di una parte del fatto tipico: occorre<br />

cioè verificare quali contromisure (rafforzamento dei meccanismi di controllo<br />

interno, modificazioni strutturali, ecc.) l’ente ha adottato nel periodo<br />

di tempo immediatamente successivo alla condotta. La mancata o insufficiente<br />

reazione, dolosa o colposa, integrerà la colpevolezza della persona<br />

giuridica( 159 ).<br />

( 158 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 363 ss.<br />

( 159 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 373 ss.<br />

75


76<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

C) I modelli di organizzazione, gestione e controllo:<br />

a) Profili disciplinari<br />

I modelli di organizzazione, gestione e controllo rappresentano – come<br />

si è visto – l’architrave dell’intero sistema di responsabilità da reato degli<br />

enti.<br />

Attraverso l’introduzione di questo istituto – palesemente ispirato ai<br />

compliance programs statunitensi e sconosciuto agli ordinamenti europei –<br />

si è scelto di privilegiare, nella lotta contro la criminalità di impresa, la prevenzione<br />

rispetto alla mera repressione, ricorrendo al c.d. carrot-stick approach,la<br />

filosofia del bastone e della carota, che prevede sanzioni elevate nei confronti<br />

degli enti privi di modello organizzativo o che si sono dotati di modelli inefficaci<br />

e forti riduzioni di pena nel caso in cui l’ente abbia tenuto un comportamento<br />

virtuoso, adottando misure idonee a prevenire la commissione di<br />

reati al suo interno( 160 ). La via italiana ai compliance programs è però caratterizzata<br />

da una notevole eccentricità rispetto al modello americano, visto che il<br />

bastone – almeno per quanto riguarda la pena pecuniaria – è praticamente<br />

inesistente, potendo raggiungere la misura massima di ‘‘soli’’ un milione e<br />

mezzo di euro, mentre la carota è esageratamente grande giacché si sostanzia<br />

nell’esclusione della responsabilità dell’ente e non in una semplice riduzione<br />

di pena (che negli Stati Uniti può essere anche superiore all’80%)( 161 ).<br />

Un’ulteriore peculiarità rispetto al sistema statunitense è la polifunzionalità<br />

dei modelli organizzativi emergente dall’impianto del d. lgs. n. 231/<br />

2001. Oltre ad escludere la responsabilità dell’ente per i reati commessi<br />

dai vertici o dai sottoposti, i modelli organizzativi – se adottati prima dell’apertura<br />

del dibattimento di primo grado – possono concorrere ad evitare all’ente<br />

l’applicazione delle sanzioni interdittive (art. 17) e, conseguentemente,<br />

impedire la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18), nonché determinare<br />

una sensibile riduzione della sanzione pecuniaria (art. 12, comma<br />

2, lett. b), e comma 3). Inoltre, la semplice dichiarazione di voler munirsi di<br />

( 160 ) Cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 473 ss., il quale osserva che «l’esperienza<br />

nord-americana sta ad indicare che il diritto penale può esercitare una efficace<br />

azione deterrente e di prevenzione, nei confronti dei reati commessi all’interno della società<br />

e dei gruppi, solo se si imbocca la strada di una reale ed efficace regolamentazione dell’impresa»;<br />

Id., Criminalità di impresa: nuovi modelli di intervento, inRiv. it. dir. proc. pen.,<br />

1999, 1254 ss., ove l’autore ribadisce il giudizio positivo sull’istituto dei compliance programs<br />

come strumento per combattere la criminalità di impresa; C. De Maglie, op. ult. cit., 71 ss.<br />

Secondo P. Severino, Il codice etico, in AA.VV., La responsabilità amministrativa della società<br />

e degli enti, Atti del Convegno di studi tenuto a Roma – Lido di Ostia, 9 dicembre<br />

2002, presso la Scuola di polizia tributaria della Guardia di Finanza, Roma, 2003, 36, il passaggio<br />

ad un’ottica preventiva è scaturito dalla maturazione di una coscienza sociale sulla<br />

gravità del reato di impresa.<br />

( 161 ) Cfr. F. Stella, Il mercato senza etica, op. cit., XII s.


SAGGI E OPINIONI<br />

tali modelli, unitamente alle altre condizioni di cui all’art. 17, può far ottenere<br />

all’ente la sospensione delle misure cautelari interdittive eventualmente<br />

adottate nel corso del procedimento (art. 49, comma 1); misure destinate poi<br />

ad essere revocate nell’ipotesi di effettiva attuazione dei modelli e delle suddette<br />

condizioni (artt. 49, comma 4, e 50, comma 1). Ancora, l’art. 78 prevede<br />

che se entro venti giorni dalla notifica della sentenza di condanna l’ente<br />

documenta l’attuazione dei modelli organizzativi e delle altre condizioni richieste<br />

dall’art. 17 ottiene la conversione delle sanzioni interdittive in sanzione<br />

pecuniaria. Infine, nell’ipotesi di nomina di un commissario giudiziario<br />

sostitutiva dell’applicazione della sanzione interdittiva che comporta l’interruzione<br />

dell’attività di cui all’art. 15, il commissario dovrà, tra le altre cose,<br />

provvedere all’adozione dei modelli ex art. 15, comma 3( 162 ).<br />

L’art. 6, comma 2, prevede che il modello organizzativo volto a prevenire<br />

i reati dei vertici deve possedere le seguenti caratteristiche( 163 ): a)<br />

individuare le attività dell’ente al cui interno possono essere commessi<br />

reati (c.d. mappatura del rischio)( 164 ), secondo un modello mutuato<br />

( 162 ) Cfr. R. Rordorf, op. cit., 1300; Id., La normativa sui modelli di organizzazione<br />

dell’ente, in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit.,<br />

81. L’importanza del ruolo svolto dai modelli organizzativi nella disciplina della responsabilità<br />

da reato degli enti collettivi e la loro funzione di prevenzione del rischio reato all’interno<br />

delle aziende li ha resi oggetto di studio privilegiato da parte della dottrina penalistica ed<br />

aziendalistica: in argomento cfr., di recente, S. Bartolomucci, Corporate Governance e responsabilità<br />

delle persone giurfidiche. Modelli preventivi ad efficacia esimente ex d. lgs. n. 231<br />

del 2001, Milano, 2004; O. Di Giovine, La responsabilità degli enti: lineamenti di un nuovo<br />

modello di illecito punitivo, in AA.VV., Diritto e impresa: un rapporto controverso, a cura di<br />

A. Manna, Milano, 2004, 508 ss.; AA.VV., I modelli organizzativi ex d. lgs. 231/2001. Etica<br />

d’impresa e punibilità degli enti, a cura di C. Monesi, Milano, 2005; A. Iannini-G.M. Armone,<br />

Responsabilità amministrativa degli enti e modelli di organizzazione aziendale, Roma,<br />

2005.<br />

( 163 ) Negli Stati Uniti, le Guidelines del 1991 prevedono sette requisiti minimi che le<br />

imprese devono rispettare nella progettazione ed applicazione pratica dei compliance programs<br />

affinché possa ritenersi soddisfatto il dovere di diligenza: 1) la capacità di ridurre la<br />

possibilità di commettere reati; 2) la scelta di supervisori per l’attuazione del programma;<br />

3) la selezione dei dipendenti in base al criterio della ‘‘propensione al reato’’; 4) l’adozione<br />

di tecniche di comunicazione pedagogica del modello all’interno dell’impresa; 5) l’instaurazione<br />

di meccanismi di controllo e di canali di informazione interna; 6) la predisposizione di<br />

un apparato disciplinare; 7) l’adozione, una volta accertato un reato, di misure volte ad evitare<br />

il ripetersi di comportamenti criminosi (in argomento cfr. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie,<br />

op. cit., 139 ss.; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 115 ss.; G. Capecchi, Le sentencing<br />

guidelines for organizations e i profili di responsabilità delle imprese nell’esperienza statunitense,<br />

inDir. comm. int., 1998, 471 ss.; E. Gilioli, op. cit., 52 s. Per un parallelo fra la<br />

disciplina italiana e quella statunitense v. G. Graziano, Modelli organizzativi: disciplina italiana<br />

e statunitense a confronto, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, monografia<br />

di Dir. prat. soc., op. cit., 58 ss.).<br />

( 164 ) Tale requisito è stato così efficacemente definito: «in pratica, si richiede che l’impresa<br />

identifichi specifiche funzioni operative (per esempio, acquisti, vendite, investimenti,<br />

tesoreria, ecc.), oppure determinati mercati (per esempio, geografici, settoriali, a pronti o<br />

77


78<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

dal d. lgs. n. 626/1994 in materia di sicurezza del lavoro( 165 ); b) prevedere<br />

specifici protocolli finalizzati a procedimentalizzare la formazione e<br />

l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire( 166 );<br />

c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie adeguate a<br />

impedire la verificazione di reati; d) prevedere un flusso di informazioni<br />

obbligatorio verso l’organo di controllo che deve vigilare sul corretto funzionamento<br />

e l’osservanza del modello; e) introdurre un sistema disciplinare<br />

diretto a sanzionare la violazione delle misure contemplate dal modello.<br />

Con riferimento ai modelli organizzativi finalizzati alla prevenzione dei<br />

reati dei sottoposti, invece, la disciplina è più scarna. Essa si limita a prevedere<br />

che il modello, in relazione alla natura e alla dimensione dell’ente<br />

nonché al tipo di attività svolta, deve contenere misure idonee a garantire<br />

lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a individuare e rimuovere<br />

tempestivamente le situazioni di rischio (art. 7, comma 3). A tal fine,<br />

l’efficace attuazione del modello viene fatta dipendere da due requisiti: a)<br />

una manutenzione periodica del modello, realizzata per mezzo di un sistema<br />

di verifica ed aggiornamento in presenza di significative violazioni<br />

delle prescrizioni o di mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; b) un<br />

sistema disciplinare idoneo a sanzionare le violazioni delle misure contenute<br />

nel modello (art. 7, comma 4).<br />

Apparentemente, dunque, le disposizioni normative sembrano indicare<br />

la necessità per l’ente di adottare due diversi modelli organizzativi,<br />

con caratteristiche strutturali differenziate in funzione dei potenziali soggetti<br />

attivi (vertici o sottoposti). In realtà, un’interpretazione funzionale<br />

delle due norme suggerisce di considerare il modello unitario, costituendo<br />

gli elementi di cui all’art. 6, comma 2, nient’altro che una specificazione<br />

a termine, governativi o privati ecc.), oppure determinati prodotti (per esempio, beni materiali<br />

o immateriali, servizi, condizioni di vendita ecc.) che si prestano più di altri all’ottenimento<br />

di vantaggi illeciti attraverso la violazione di una o più norme di legge» (S. Fortunato,<br />

op. cit., 281).<br />

( 165 ) Vi è altresì chi individua un’analogia fra i modelli organizzativi ex d. lgs. n. 231/<br />

2001 ed il piano di autocontrollo igienico sanitario di cui al d. lgs. n. 155/1997 (cfr. V. Pacileo,<br />

Autocontrollo igienico-sanitario nell’impresa alimentare e modelli di organizzazione<br />

aziendale: un confronto possibile tra d.lg. n. 155/97 e d.lg. n. 231/01, inCass. pen., 2003,<br />

2494 ss.).<br />

( 166 ) In sostanza, è necessario «prevedere per ciascuna area di rischio le specifiche procedure<br />

operative interne per la gestione delle fasi salienti di approvazione e di conduzione<br />

delle operazioni più sensibili; quindi, per procedere alla definizione delle procedure operative,<br />

occorrerà prima aver individuato in ciascuna attività a rischio sia la gamma di comportamenti<br />

che configurano tutte le potenziali irregolarità per un ampio spettro di possibili reati<br />

sia le funzioni aziendali e i processi coinvolti e infine, in ciascuna funzione e in ciascun processo,<br />

i possibili casi di transazione o comportamenti aziendali anomali, identificandone i segnali<br />

premonitori» (così S. Fortunato, op. cit., 282).


SAGGI E OPINIONI<br />

(minima) della clausola generale di cui all’art. 7, comma 3( 167 ). È evidente,<br />

infatti, che qualunque modello organizzativo deve essere forgiato<br />

in funzione della natura e della dimensione della societas, oltrechedel<br />

tipo di attività svolta (commerciale, industriale, finanziaria, ecc.), comportando<br />

tali fattori diverse scelte in termini di modalità di strutturazione del<br />

modello (delega di poteri ed estensione dei poteri delegati, natura e gradazione<br />

dei rischi di commissione dei reati giacché diverse possono essere<br />

le potenziali modalità attuative degli stessi)( 168 ). Inoltre, le pur innegabili<br />

differenze nelle procedure e nei controlli postulate dalla diversità dei soggetti<br />

attivi possono essere comunque salvaguardate e distinte nell’ambito<br />

di un’unica procedimentalizzazione di regole e comportamenti( 169 ).<br />

Stesso discorso deve farsi riguardo all’organo di controllo sul funzionamento<br />

e sull’aggiornamento del modello, espressamente richiesto dall’art.<br />

6, ma non dall’art. 7: un’interpretazione teleologica conduce necessariamente<br />

a ritenere l’organismo di vigilanza nient’altro che una specializzazione<br />

della funzione di controllo enunciata dall’art. 7, comma 2( 170 ),<br />

anche se vi è chi reputa che estendere la previsione dell’organo di vigilanza<br />

al modello organizzativo inerente i reati dei sottoposti equivalga<br />

ad introdurre un elemento impeditivo della fattispecie che non è ‘‘scritto’’<br />

nella legge, con conseguente violazione del principio di legalità, che ha tra<br />

( 167 ) In tal senso v. P. Sfameni, La responsabilità delle persone giuridiche: fattispecie e<br />

disciplina dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, in AA.VV., Il nuovo diritto penale<br />

delle società, op. cit., 70s.<br />

( 168 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 71. Di diverso avviso sono A. Frignani-P. Grosso-G.<br />

Rossi, La responsabilità, op. cit., 168 s., secondo cui la necessità di uno sdoppiamento dei<br />

modelli deriva dalla natura dualistica del sistema di responsabilità, dai differenti presupposti<br />

su cui si basa la responsabilità dell’ente in relazione ai reati commessi dai vertici e dai sottoposti<br />

e dalle diverse funzioni che i modelli dovranno svolgere nei due casi; F. Santi, op. cit.,<br />

330 s., il quale distingue fra modelli di primo (soggetti apicali) e di secondo livello (sottoposti),<br />

pur riconducendo entrambi i modelli al principio unitario dell’esigenza che tutta l’attività<br />

dell’ente, in ogni comportato o manifestazione, sia improntata a canoni etici comunemente<br />

condivisi e che siano adottate tutte le misure necessarie ad evitare la commissione<br />

di reati; la funzione e la struttura dei due modelli si diversificherebbero in virtù della differente<br />

natura, qualità e posizione nell’organizzazione dell’ente di apicali e sottoposti, dovendo<br />

il modello di secondo livello indicare le linee di comportamento di un soggetto che agisce per<br />

altri, che deve rendere conto e che è strumento di un decisore, quale è il soggetto apicale.<br />

( 169 ) Cfr. F. Maimeri, Controlli interni delle banche tra regolamentazione di vigilanza e<br />

modelli di organizzazione, inRiv. dir. comm., 2002, I, 622.<br />

( 170 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 88. Vi è chi ritiene che dalla mancata previsione dell’organo<br />

di controllo nell’art. 7 possa desumersi la non imposizione di una competenza accentrata<br />

dell’organo di vigilanza con riferimento ai sottoposti, potendo in tal caso la funzione di<br />

vigilanza essere affidata ad altri organi e funzioni interne (dotati delle competenze necessarie<br />

ad assumere decisioni effettive), dato che la qualifica non apicale dei destinatari del modello<br />

non rende più necessaria una posizione di terzietà e indipendenza dei responsabili del controllo<br />

rispetto ai vertici aziendali (A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, op. ult. cit., 179).<br />

79


80<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

i suoi corollari il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici(<br />

171 ).<br />

Occorre ora definire le nozioni di organizzazione, gestione e controllo.<br />

Il concetto di organizzazione è un concetto statico, che fa riferimento alla<br />

struttura, all’articolazione e alla progettazione delle funzioni (interne ed<br />

esterne all’impresa), delle responsabilità e dei processi decisionali: per prevenire<br />

la commissione di reati è necessario prima individuare le aree a rischio<br />

e poi al loro interno procedere a ridefinire l’organigramma delle funzioni<br />

e delle responsabilità, nonché i meccanismi decisionali( 172 ). Il concetto<br />

di gestione è invece un concetto dinamico, relativo sia alle modalità<br />

di assunzione delle decisioni che alle scelte di acquisizione e di utilizzazione<br />

delle risorse umane ed economico-finanziarie( 173 ). Cruciale al fine dell’efficacia<br />

del modello organizzativo è poi la funzione di controllo, costituita<br />

da un lato da meccanismi di controllo preventivo da innestare all’interno<br />

della struttura organizzativa e delle modalità gestionali dell’impresa (si<br />

pensi alla previsione della firma congiunta per il compimento di operazioni<br />

che superano una certa soglia o alla precauzione di evitare che l’intero procedimento<br />

di adozione di una decisione faccia capo ad un solo soggetto),<br />

dall’altro dall’organo di controllo, che ha il compito di segnalare le violazioni<br />

delle prescrizioni del modello e di proporre integrazioni e modificazioni<br />

per il suo aggiornamento( 174 ).<br />

L’art. 6, comma 3, prevede che i modelli organizzativi possono essere<br />

adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni<br />

rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia, che<br />

può formulare, di concerto con gli altri ministeri competenti, osservazioni<br />

sulla loro idoneità( 175 ). Emerge così un sistema a tre livelli: il primo costituito<br />

dalle (volutamente) generiche previsioni dettate dal legislatore negli<br />

artt. 6 e 7, il secondo rappresentato dai codici di comportamento elaborati<br />

dalle associazioni di categoria ed il terzo consistente nei singoli modelli<br />

adottati da ciascun ente( 176 ). È chiaro che l’adeguamento dei modelli<br />

aziendali ai codici di comportamento – che le più importanti associazioni<br />

( 171 ) Così F. Santi, op. cit., 334 ss.<br />

( 172 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 73. s.<br />

( 173 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 74.<br />

( 174 ) Cfr. P. Sfameni, op. e loc. ult. cit. Quanto all’organo di controllo si è prospettato<br />

il rischio che un’interpretazione rigorista del ruolo di tale organismo determini forti rallentamenti,<br />

se non vere e proprie situazioni di stallo, nella gestione dell’ente (così A. Fiorella,<br />

Principi generali, op. cit., 13 s.).<br />

( 175 ) La procedura di validazione dei codici di comportamento è stata disciplinata dal<br />

D.M. 26 giugno 2003, n. 201, su cui v. O. Forlenza, Definiti i termini per valicare i codici di<br />

comportamento, inGuida normativa – Il Sole 24 Ore, 2003, n. 152, 15 s.; A. De Vivo, Luci e<br />

ombre sull’esenzione dell’ente dalla responsabilità, ivi, 17; F. Santi, op. cit., 276 ss.<br />

( 176 ) Cfr. R. Rordorf, op. ult. cit., 83s.


SAGGI E OPINIONI<br />

imprenditoriali italiane hanno tempestivamente predisposto( 177 ) – non determina<br />

alcuna automatica esclusione della responsabilità degli enti che li<br />

recepiscono, in quanto essi costituiscono delle semplici indicazioni di massima<br />

dirette a favorire uniformità di approccio e sensibilizzazione alle problematiche(<br />

178 ): ogni ente è tenuto ad adottare un modello individuale, costruito<br />

– come insegna la preziosa esperienza statunitense dei compliance<br />

programs – in base alle caratteristiche concrete dell’ente stesso, dovendosi<br />

perciò tener conto delle dimensioni dell’impresa (size of the organization),<br />

del tipo di attività esercitata (the nature of its business) e della storia precedente<br />

della società (prior history of the organization), fattore quest’ultimo<br />

che può contribuire all’individuazione dei punti deboli della gestione e suggerire<br />

quindi i correttivi da apportare per eliminare le disfunzioni interne(<br />

179 ); né alcun valore vincolante ha per il giudice la positiva valutazione<br />

ministeriale dei codici di comportamento( 180 ).<br />

In ultima analisi, spetta al giudice penale il sindacato sull’idoneità del<br />

modello organizzativo: egli deve verificare l’adeguatezza del modello a prevenire<br />

il rischio di commissione di reati all’interno dell’ente tramite il criterio<br />

della prognosi postuma, collocandosi mentalmente ex ante nel momento<br />

in cui, all’interno della realtà aziendale, si è verificato l’illecito penale(<br />

181 ). Il criterio è lo stesso utilizzato per verificare l’idoneità degli<br />

( 177 ) Tra le associazioni che hanno provveduto ad emanare i codici di comportamento<br />

si segnalano: CONFINDUSTRIA, ABI, ANCE, ANIA, ASSONIME, ASSOSIM, ASSO-<br />

BIOMEDICA. Tali documenti integrano i precetti normativi contenuti nel d. lgs. n. 231/<br />

2001 con le indicazioni provenienti dalla scienza aziendalistica e dalla migliore prassi internazionale.<br />

( 178 ) Sul punto cfr. S. Bartolomucci, Codici comportamentali di categoria, tra aspettative<br />

e reale portata normativa, inDir. prat. soc., 2003, n. 18, 37 ss., il quale rileva che «permane<br />

in capo al singolo associato il rischio della conformità e congruenza dei modelli concretamente<br />

adottati, pur uniformandosi alla raccomandazioni categoriali»; D. Pulitanó, La<br />

responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, op. cit., 438: «Linee guida di categoria<br />

possono aiutare il singolo ente nell’adempimento dei suoi doveri di buona organizzazione,<br />

ma non servono a risolvere il problema dell’eventuale colpa di organizzazione,<br />

con riferimento a vicende concrete di singoli enti». Critico nei confronti dei codici di comportamento<br />

è P. Bastia, op. cit., 55, il quale registra «l’incongruenza di fondo nel voler fare<br />

riferimento a codici prodotti all’esterno dell’azienda, da parte di associazioni, che naturalmente<br />

possono solo proporre degli standard generali che non potranno immediatamente<br />

adattarsi alle singole fattispecie aziendali, alle peculiarità organizzative, alle specificità gestionali»,<br />

rivestendo al più il ruolo di «linee guida utili per una progettazione a fini interni: da<br />

soli, infatti, essi rischieranno di risultare inefficaci allo scopo e dannosi in termini di burocratizzazione<br />

del sistema aziendale».<br />

( 179 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 369 s.<br />

( 180 ) In tal senso v. V. Salafia, La responsabilità delle società alla luce del D.M. n. 201/<br />

2003 e delle modifiche al D.Lgs. n. 231/2001, inLe soc., 2003, 1436, il quale nota altresì che<br />

la valutazione ministeriale «rappresenta un’autorevole opinione, che potrà certamente essere<br />

disattesa, in presenza però di valide giustificazioni».<br />

( 181 ) Cfr. G. Izzo, Sindacato giudiziario sull’idoneità dei modelli organizzativi, inIl fi-<br />

81


82<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

atti nel tentativo, per cui il giudice, al fine di accertare l’idoneità dei modelli<br />

organizzativi, dovrà calibrare il proprio giudizio sull’allocazione del rischio<br />

reato, sulle caratteristiche dell’ente (prassi operative, organigrammi,<br />

deleghe di funzioni) e su tutte le circostanze conosciute o conoscibili al momento<br />

della realizzazione del reato, vale a dire sulla capacità causale del<br />

modello di prevenire con un tasso apprezzabile di probabilità il reato concretamente<br />

verificatosi( 182 ). Va sans dire che il giudice, per esprimere<br />

questa valutazione, dovrà analizzare non solo il modello organizzativo generale,<br />

ma anche i singoli protocolli applicativi, che contengono previsioni<br />

molto più specifiche e dettagliate.<br />

In ogni caso, volendo descrivere sinteticamente un modello organizzativo<br />

ideale, si può pensare ad un articolato sempre formalizzato per iscritto,<br />

caratterizzato da regole chiare, precise ed espresse in un linguaggio non<br />

complesso e comprensibile a tutto il personale dell’impresa( 183 ).<br />

Deve inoltre essere stigmatizzata una grave lacuna concernente la disciplina<br />

dei modelli organizzativi: l’assenza, fra le norme che disciplinano<br />

il procedimento a carico dell’ente, di una norma che garantisca la segretezza<br />

di tutto il materiale istruttorio utilizzato per la preparazione del modello<br />

organizzativo (documenti, informazioni, colloqui, ispezioni, ecc.), la<br />

cui divulgazione potrebbe avere ripercussioni negative per l’ente (si pensi<br />

alla cattiva pubblicità o all’avvio di procedimenti penali per reati che hanno<br />

segnato il passato della persona giuridica)( 184 ).<br />

b) L’impatto sul sistema delle imprese<br />

A distanza di oltre tre anni dall’introduzione della responsabilità da<br />

sco, 2002, n. 44, 16504 s.; C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest : la fine<br />

tardiva di un dogma, op. cit., 591. Fortemente critico nei confronti dell’utilizzo del criterio<br />

della prognosi postuma è S. Vinciguerra, Quale specie di illecito?, op. cit., 216 s., secondo<br />

cui «un giudizio del genere è, nel caso degli enti, uno pseudo giudizio. Infatti, nel caso del<br />

tentativo il delitto non si consuma e, quindi, ha senso chiedersi se, nonostante ciò, gli atti<br />

compiuti fossero suscettibili di sfociare nella consumazione (...). Invece, nel caso dell’ente,<br />

come si potrà dimostrare che il modello era idoneo a prevenire il reato, dal momento che<br />

nei fatti si è rivelato inadeguato, essendo il reato avvenuto?»; sulla base di questa considerazione,<br />

l’autore si dichiara contrario all’attribuzione di una funzione esimente ai modelli organizzativi.<br />

F. Giunta, op. cit., 15, mette giustamente in guardia dal rischio di pretendere<br />

che l’ente plasmi il modello «non già sulle caratteristiche del tipo di impresa, bensì unicamente<br />

alla stregua dei parametri della prevedibilità ed evitabilità dei reati, sì da ottenere il<br />

modello che avrebbe saputo delineare col senno di poi l’esperto universale. Si sa infatti<br />

che tutto o quasi è prevedibile da parte della migliore scienza ed esperienza, e che quanto<br />

è prevedibile è per lo più evitabile».<br />

( 182 ) Cfr. G. Izzo, op. cit., 16505.<br />

( 183 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 370.<br />

( 184 ) L’importante rilievo è diC. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1352; Id., L’etica e<br />

il mercato, op. cit., 339, 372 s.


SAGGI E OPINIONI<br />

reato degli enti, ci si deve interrogare su quale sia stato l’impatto pratico<br />

della disciplina, ed in particolare dei modelli organizzativi, sul sistema delle<br />

imprese italiano.<br />

In un primo momento, immediatamente successivo all’entrata in vigore<br />

del d. lgs. n. 231/2001, si è verificata una fisiologica fase di transizione<br />

durante la quale le imprese – in attesa di predisporre i modelli organizzativi<br />

– hanno rispolverato o attivato i codici etici( 185 ), contenenti prescrizioni di<br />

stampo morale, da sempre oggetto di aspra contestazione da parte della<br />

dottrina europea perché privi di un meccanismo di coazione giuridica e<br />

dunque considerati uno strumento con cui le società ‘‘ripuliscono’’ la propria<br />

immagine di fronte ai consumatori ed alle istituzioni( 186 ). Tuttavia, nonostante<br />

l’assenza di dati statistici ufficiali, un’analisi empirica consente di<br />

affermare che, superato questo periodo intermedio, solo un ridotto numero<br />

di aziende ha adottato i modelli organizzativi. Essi sono stati recepiti<br />

per ora soprattutto da società di dimensioni grandi o medio-grandi: si<br />

tratta per lo più di banche, società quotate in borsa e società di intermediazione<br />

mobiliare (Sim), le quali sono state facilitate dal fatto di possedere già<br />

al proprio interno la funzione di internal auditing( 187 ) – finalizzata al con-<br />

( 185 ) Cfr. P. Severino, op. cit., 38. A titolo meramente esemplificativo si segnalano,<br />

tra quelli adottati o modificati da aziende italiane dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n.<br />

231/2001, i seguenti codici etici: ENEL s.p.a., Codice Etico, 2002, in www.enel.it; BASIC<br />

NET s.p.a., Codice etico di comportamento, 2003, in www.basicnet.com/html/gruppo.asp;<br />

BANCA POPOLARE DI PUGLIA E BASILICATA s.p.a., Codice etico della Banca Popolare<br />

di Puglia e Basilicata ai sensi del decreto legislativo n. 231/01, 2003, in www.bankpulias.it;<br />

ENI s.p.a., Codice di comportamento, 1998, 2003 (aggiornamento), in www.eni.it;<br />

GRUPPO EDITORIALE L’ESPRESSO s.p.a., Codice etico, 2003, in download.kataweb.it/gruppoespresso/codicetico.pdf;<br />

GRUPPO IMPREGILO, Codice etico, 2003, in www.impregilo.it/impregiloist.<br />

Sulla diversa funzione svolta dai codici etici e dai modelli organizzativi<br />

cfr. IMPREGILO s.p.a., Modello di organizzazione e di gestione, 2003, in www.impregilo.it/<br />

impregiloist, 11: «Il modello risponde all’esigenza di prevenire, per quanto possibile, la commissione<br />

dei reati (...) attraverso la predisposizione di regole di comportamento specifiche.<br />

Da ciò emerge chiaramente la differenze con il Codice Etico, che è strumento di portata generale,<br />

finalizzato alla promozione di una ‘‘deontologia aziendale’’ ma privo di una specifica<br />

proceduralizzazione». Peraltro, non è infrequente che le imprese adottino sia il codice etico<br />

che il modello organizzativo.<br />

( 186 ) In tal senso cfr. G. Rossi, L’etica degli affari, inRiv. soc., 1992, 541, il quale –<br />

constatando che i comportamenti delle grandi corporations americane non obbediscano minimamente<br />

a principî etici – osserva come sia difficile «ritenere del tutto infondato il sospetto<br />

che l’emanazione dei codici etici costituisca una sorta di tentativo estremo di salvataggio<br />

dell’immagine sociale dell’impresa, allo scopo di legittimare a tutti i costi e in tutti i settori il<br />

suo operare». Sui codici etici negli Stati Uniti v. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie, op. cit.,<br />

130 ss.; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 104 ss.<br />

( 187 ) Cfr. P. Bastia, op. cit., 54: «L’osservanza di queste prescrizioni può più facilmente<br />

essere realizzata da quelle imprese già attrezzate in termini di strumenti di pianificazione e<br />

controllo della gestione, il cui management ha confidenza con l’impiego di supporti di pianificazione<br />

per le decisioni. Diversamente, nelle ancora numerose aziende italiane ancorate<br />

83


84<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

trollo della correttezza, dell’efficacia e dell’efficienza della gestione( 188 )–<br />

che presenta importanti analogie con i compliance programs. Particolarmente<br />

evidenti sono i punti di contatto con la struttura organizzativa delle<br />

banche, che è da tempo funzionalizzata a porre in essere una serie di procedure<br />

indirizzate a conseguire una gestione complessivamente sana, e<br />

quindi ad evitare l’insorgere di rischi di commissione di reati: infatti, elementi<br />

quali la procedimentalizzazione delle attività a rischio, il loro monitoraggio,<br />

l’adeguamento del sistema di controllo e il reporting ai vertici<br />

fanno già parte integrante dell’internal auditing bancario( 189 ). Non devono<br />

però sfuggire le pur importanti differenze che sussistono fra i due modelli:<br />

il sistema di controllo interno è finalizzato alla prevenzione di reati commessi<br />

dai dipendenti a danno della banca, mentre i modelli organizzativi<br />

ad una gestione informale, con processi decisionali spontanei e destrutturati, l’impatto di<br />

modelli formali per le decisioni può risultare alquanto impegnativo».<br />

( 188 ) Per una definizione del controllo operativo nelle banche cfr. ABI, Sistemi di<br />

Controllo Interno ed evoluzione dell’Internal Auditing, Roma, 1999, ove per controllo operativo<br />

si intende «l’insieme dei processi finalizzati a fornire una ragionevole certezza che<br />

tutte le attività della Banca nei vari settori si svolgano nel rispetto formale e sostanziale delle<br />

statuizioni legislative, regolamentari, di normativa secondaria nonché di autoregolamentazione<br />

nella più ampia accezione del termine; che le stesse siano volte alla tutela del patrimonio<br />

e alla garanzia della veridicità e significatività dei dati contabili». Negli Stati Uniti,<br />

per fronteggiare le pratiche illegali delle imprese, alcune grandi associazioni (American Institute<br />

of Certified Public Accountants, American Accounting Association, The Institute of<br />

Internal Auditors, Financial Executive Institute) hanno creato una commissione di studio<br />

(Committee of Sponsorising Organizations of the Treadway Commission) con il compito di<br />

individuare le cause del fenomeno e di formulare possibili soluzioni; nel 1992 la commissione<br />

ha elaborato uno studio confluito in un documento noto come CoSo Report, che rappresenta<br />

un punto di riferimento importante per dare vita ad un adeguato sistema di controllo<br />

interno. Sulla scorta dell’esperienza statunitense, nel nostro paese è stato elaborato il<br />

Codice di autodisciplina adottato dal Comitato per la Corporate Governance delle società<br />

quotate presso la Borsa italiana nel 1999 ed aggiornato nel 2002, in cui il controllo interno<br />

viene concepito come processo svolto dal consiglio di amministrazione, dall’alta dirigenza e<br />

dagli operatori della struttura aziendale al fine di fornire una ragionevole sicurezza sulla<br />

realizzazione dei seguenti obiettivi: 1) efficacia ed efficienza delle attività operative; 2) attendibilità<br />

delle informazioni di bilancio; 3) conformità alle leggi e ai regolamenti in vigore<br />

(cfr. F. Santi, op. cit., 307 s.). Cfr. altresì P. Montalenti, Corporate Governance, consiglio<br />

di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione, inRiv. soc.,<br />

2002, II, 821 ss., secondo cui il sistema di controllo interno «È mirato, in definitiva, a garantire<br />

il rispetto delle regole sia legislative (si pensi alla normativa contabile, alla disciplina<br />

sulla sicurezza del lavoro, alla legislazione sulla privacy) sia private (si pensi ai codici etici) e<br />

il perseguimento degli obiettivi di efficienza ed efficacia compendiati, oggi, nella formula<br />

shareholder value».<br />

( 189 ) Cfr. F. Maimeri, op. cit., 622; ABI, Linee guida, cit., 363: «tali regole – contenute<br />

in ordini di servizio, normative aziendali, codici di autodisciplina, codici deontologici, codici<br />

disciplinari, ecc. – già di per sé possono costituire dei modelli organizzativi o quantomeno la<br />

base precettiva di ciò che è un modello organizzativo secondo il d. lgs. n. 231/2001».


SAGGI E OPINIONI<br />

sono diretti a prevenire la commissione di reati da parte dei vertici o dei<br />

sottoposti nell’interesse o a vantaggio dell’ente( 190 ).<br />

In generale si può dire che le grandi aziende, sia per una questione di<br />

costi che per il loro assetto organizzativo già collaudato nella gestione di<br />

processi di risk management edirisk assessment, sono sicuramente più predisposte<br />

delle piccole a dotarsi dei modelli organizzativi, per cui, essendo il<br />

tessuto produttivo del nostro paese caratterizzato da una larga prevalenza<br />

delle aziende piccole e medie, si spiega facilmente il basso livello di diffusione<br />

dei modelli organizzativi finora raggiunto. La lentezza nell’adeguarsi<br />

da parte del sistema imprenditoriale italiano può essere ascritta altresì a<br />

motivi culturali: la partecipazione delle imprese in prima persona alla prevenzione<br />

dei reati, attraverso l’adozione di adeguate misure interne che costituiscono<br />

un’iniezione di etica degli affari diretta alla protezione degli interessi<br />

degli stakeholders( 191 ), rappresenta una novità di portata tale da richiedere<br />

un certo tempo per essere compresa, metabolizzata e recepita dal<br />

capitalismo italiano, tra i cui valori ispiratori di fondo non rientra certo l’etica<br />

calvinista dei paesi anglosassoni( 192 ). I recenti scandali finanziari che<br />

hanno investito gli Stati Uniti spingono tuttavia a rifuggire dall’idea che<br />

( 190 ) Cfr. F. Maimeri, op. cit., 623.<br />

( 191 ) Con riferimento ai codici etici – ma il discorso vale a fortiori per i modelli organizzativi<br />

– è stato sottolineato che essi possono contribuire, in un sistema di economia di<br />

mercato, ad assicurare il rispetto del limite dell’utilità sociale che l’art. 41 Cost. pone all’iniziativa<br />

economica esplicando una duplice funzione: a) l’integrazione della disciplina positiva,<br />

attraverso un’autodisciplina privata che può anticipare e guidare l’intervento del legislatore,<br />

nonché surrogarlo nelle materie che mal si prestano a regolamentazioni troppo generali e<br />

astratte; b) agevolare e garantire l’osservanza della legge positiva; in ultima analisi, «Un’aperta<br />

professione di principî e di criteri operativi eticamente fondati, debitamente ufficializzata,<br />

sembra singolarmente idonea a bonificare la mentalità dominante in azienda, aprendola ai<br />

valori della legalità e del civismo» (così C. Pedrazzi, Codici etici e leggi dello Stato, in<br />

Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, 1050 s.). In senso critico v. però G. Rossi, op. cit., 539, il quale<br />

evidenzia che «Il disagio insito nel voler dare un contenuto etico ai comportamenti imprenditoriali<br />

affiora soprattutto quando le istituzioni e le strutture fondamentali del sistema appaiono<br />

insufficienti a colpire atti riprovevoli non solo e non tanto sotto il profilo etico, bensì<br />

ai fini della sopravvivenza del sistema stesso. In questo caso si ricorre al concetto dell’‘‘eticatampone’’,<br />

dell’etica cioè alla quale ci si affida per evitare che il sistema del capitalismo entri<br />

in una fase critica irreversibile e perda il consenso dei consociati e perciò ogni legittimazione<br />

sociale, che andrebbe, a quel punto, ricercata al di fuori della sua logica di sviluppo». Dalle<br />

considerazioni dell’illustre autore discende che il ricorso ad un sistema di regole etiche nel<br />

governo delle imprese deve costituire un dato strutturale, un vero e proprio principio fondante<br />

del capitalismo moderno e non il risultato di un’adesione episodica e di facciata: i modelli<br />

organizzativi, a differenza dei codici etici, essendo caratterizzati dal crisma della giuridicità,<br />

hanno le potenzialità per realizzare questa svolta.<br />

( 192 ) Cfr. B. Assumma, Principi e fondamenti della responsabilità amministrativa degli<br />

enti, in AA.VV., La responsabilità amministrativa della società e degli enti, Atti del Convegno<br />

di studi tenuto a Roma – Lido di Ostia, op. cit., 10: «le aziende si trovano a fronteggiare una<br />

cultura penalistica, una cultura sanzionatoria ovviamente estranea alla loro tradizione».<br />

85


86<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

il ricorso ai compliance programs sia la panacea per tutti i mali( 193 ): occorre<br />

essere consapevoli che i modelli organizzativi costituiscono un utile strumento<br />

di prevenzione della criminalità di impresa, ma il cui successo è comunque<br />

legato all’orientarsi dell’intero sistema-paese verso la cultura della<br />

legalità( 194 ).<br />

Quanto al problema dei costi, è stato paventato il pericolo che, sulla<br />

base di un’analisi costi-benefici, le aziende rinuncino all’adozione del<br />

modello tutte le volte in cui i costi per la sua implementazione siano superiori<br />

a quelli che deriverebbero dalla commissione del reato (in termini<br />

di sanzioni pecuniarie e/o interdittive e di pubblicità negativa presso l’opinione<br />

pubblica)( 195 ). La soglia concettuale di accettabilità del rischio,<br />

che l’art. 6, comma 1, indica nella creazione di un sistema di prevenzione<br />

tale da non poter essere aggirato se non fraudolentemente, dovrà<br />

dunque essere necessariamente identificata con quella in cui i controlli<br />

aggiuntivi rispetto al livello predisposto ‘‘costano’’ più della risorsa da<br />

proteggere( 196 ). In applicazione del principio ad impossibilia nemo tenetur,<br />

nonèesigibile – anche perché distorsivo del mercato – «destinare<br />

risorse finanziarie ingenti e sproporzionate rispetto alla dimensione economico-patrimoniale<br />

dell’ente, per finalizzarle al raggiungimento di un<br />

ideale assoluto di perfezione rispetto alla astratta possibilità di evitare<br />

la commissione di reati»( 197 ). L’utilizzo di questo parametro di ragionevolezza<br />

consente di scongiurare il pericolo di un’eccessiva burocratizzazione<br />

delle imprese.<br />

( 193 ) Cfr. V. Nobili, La responsabilità sociale e la responsabilità penale delle imprese,<br />

2003, in www.feem.it (sito della Fondazione Eni Enrico Mattei), 18 s., che evidenzia l’incapacità<br />

dimostrata dai compliance programs nel prevenire reati economico-finanziari come<br />

quelli che hanno caratterizzato il caso Enron (società che era dotata di un modello organizzativo).<br />

( 194 ) Per considerazioni simili inerenti il ruolo dei Codes of best practice rispetto alla<br />

gestione delle public companies cfr. P. Montalenti, op. cit., 837 ss.<br />

( 195 ) Cfr. A. Bernardo, La responsabilità amministrativa delle società alla prova dei<br />

fatti, inDir. prat. soc., 2004, n. 6, 30: «Poiché ogni innovazione strutturale e procedimentale<br />

comporta costi significativi, in termini economici e organizzativi, il rischio è che le imprese, a<br />

seguito della cost-benefit analysis, scelgano di assumersi il rischio di un futuro processo, piuttosto<br />

che investire in una ristrutturazione gravosa e di dubbia efficacia»; Id., Prime pronunce<br />

sulla responsabilità amministrativa di società ed enti, ivi, n. 21, 27.<br />

( 196 ) Cfr. Confindustria, Linee guida, cit., 8;A. Bernardo, op. ult. cit., 30.<br />

( 197 ) A. Carmona, op. cit., 218. Cfr. inoltre S. Bartolomucci, Prevenzione dei<br />

reati d’impresa e interesse dell’ente all’esenzione da responsabilità, in AA.VV., La responsabilità<br />

amministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc., op. cit., 55, il quale rileva<br />

che «È indispensabile evitare posizioni estreme, come dar vita ad una sterile raccolta di<br />

principî vaghi e astratti, capaci di burocratizzare i processi dilatandone i tempi, inducendo<br />

al discarico della responsabilità i centri decisionali o, all’opposto, costruire un rigido<br />

reticolo di passaggi obbligati che ingessano l’operatività dell’impresa a danno della sua<br />

competitività».


SAGGI E OPINIONI<br />

Si può dire che se da un lato un certo aumento dei costi organizzativi e<br />

di controllo è inevitabile, dall’altro lato un’azienda che ispira la propria cultura<br />

aziendale alla correttezza e alla legalità dell’amministrazione può interpretare<br />

questi valori fondamentali come risorse strategiche che contribuiscono<br />

al suo successo di lungo periodo( 198 ). Pertanto, per l’azienda investire<br />

nel modello organizzativo è come investire in risorse destinate allo<br />

sviluppo dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità, senza contare i vantaggi<br />

indiretti derivanti dalla reputazione favorevole che nel consorzio sociale<br />

circonda le imprese che si dotano di sistemi per la prevenzione dei<br />

reati( 199 ). Quello che emerge è un legame fra redditività dell’impresa ed<br />

etica aziendale, in cui quest’ultima non è più concepita come un costo,<br />

bensì come un investimento in termini di capacità competitiva, autorevolezza,<br />

integrazione sociale dei soggetti economici: se l’etica è un buon affare,<br />

allora il ruolo della business ethics va ripensato: non più valore esterno all’economia,<br />

ma strumento strategico, strettamente connesso alla capacità<br />

dell’impresa di creare valore rispettando i valori( 200 ). I modelli organizzativi<br />

possono dunque svolgere un ruolo importante ai fini dell’affermazione<br />

della c.d. Corporate Social Responsibility, cioè di quella responsabilità sociale<br />

d’impresa (Rsi) in base alla quale le aziende non devono avere come<br />

fine esclusivo la produzione del massimo profitto possibile (c.d. massimo<br />

economico), ma devono tenere conto anche degli interessi dei numerosi stakeholders<br />

interni ed esterni all’impresa (azionisti, management, dipendenti,<br />

fornitori, sindacati, consumatori, associazioni, comunità-locali, università,<br />

ecc.), perseguendo altresì finalità ambientali e sociali (c.d. sviluppo sostenibile):<br />

il punto di incontro fra l’esigenza di creare profitto e quella di rispondere<br />

ad istanze sociali viene definito ottimo economico( 201 ); a questo pro-<br />

( 198 ) Cfr. P. Bastia, op. cit., 56; G.B. Alberti, Fondamenti aziendalistici della responsabilità<br />

degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, inLe soc., 2002, 542: «La presenza in<br />

un’organizzazione di una cultura del controllo e della regolarità èa sua volta presupposto<br />

fondamentale per l’esistenza di una cultura dello sviluppo e della creazione di valore».<br />

( 199 ) Cfr. P. Bastia, op. e loc. ult. cit.<br />

( 200 ) Per una approfondita analisi di questa concezione cfr. A. Marra, L’etica aziendale<br />

come motore di progresso e di successo, Milano, 2002, passim.<br />

( 201 ) Il concetto di Corporate Social Responsibility nasce in seguito all’elaborazione,<br />

nella seconda metà degli anni ottanta, della teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholders<br />

ad opera degli americani W. Evan e E. Freeman. Fondamento di tale teoria è l’imperativo<br />

categorico kantiano secondo cui le persone devono essere trattate come fini in sé e<br />

non come mezzi per il perseguimento di un determinato fine. Questa concezione si contrappone<br />

alla teoria degli stockholders – che peraltro ha formato la cultura imprenditoriale italiana<br />

degli anni settanta e ottanta – in base alla quale l’impresa è responsabile esclusivamente<br />

nei confronti degli azionisti (gli stockholders) in quanto portatori di capitale, mentre gli stakeholders<br />

sono solo dei mezzi per il raggiungimento del profitto e le questioni sociali, ambientali<br />

ed etiche un mero costo aggiuntivo che nuoce all’impresa. La logica della teoria degli<br />

stakeholders è che l’impresa deve essere orientata verso il perseguimento non solo del pro-<br />

87


88<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

posito è importante sottolineare che il tema della responsabilità sociale<br />

delle imprese non è più appannaggio esclusivo del mondo degli studiosi,<br />

ma è ormai entrato nell’agenda degli obiettivi della comunità internazionale<br />

e delle istituzioni europee: si pensi al Global Compact( 202 ) presentato nel<br />

luglio del 2000 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan,<br />

oalLibro Verde predisposto nel 2001 dalla Commissione europea( 203 ).<br />

fitto per gli azionisti, ma anche di istanze sociali da realizzare attraverso il soddisfacimento<br />

degli interessi degli stakeholders con cui essa interagisce. In argomento cfr. V. Nobili, op.<br />

cit., 2 ss., la quale rileva come affinché i codici etici – che costituiscono lo strumento di attuazione<br />

della Corporate Social Responsibility – non diventino dei prodotti preconfezionati di<br />

marketing aziendale che consentono alle imprese di rifarsi l’immagine è necessario che essi<br />

siano il frutto di un duplice processo di negoziazione: uno interno, con le associazioni di categoria,<br />

e soprattutto uno esterno, con il personale interno all’azienda, che consenta ai valori<br />

e ai precetti del codice etico di essere condivisi e sentiti come propri non solo dai dirigenti<br />

ma anche dai dipendenti, garantendone in tal modo l’effettività; l’esperienza italiana e quella<br />

statunitense in materia di codici etici avuta fino ad ora ha però dimostrato che questo circuito<br />

virtuoso non si è realizzato per problemi di costi, di incapacità organizzativa delle aziende<br />

e soprattutto di asimmetrie informative che hanno consentito alle imprese che hanno tenuto<br />

comportamenti opportunistici di non essere punite dal mercato e a quelle rispettose di modelli<br />

di responsabilità sociale di non essere premiate. Si vedano altresì i contributi di F. D’Alessandro,<br />

La responsabilità sociale delle imprese: un contributo per un nuovo modello di<br />

‘‘governance’’, inIter legis, 2003, 103 ss.; L. Sacconi, Etica e responsabilità sociale dell’impresa:<br />

cosa accomuna e cosa distingue l’impresa sociale dalle altre imprese, in AA.VV., Qualità<br />

come strategia dell’impresa sociale di comunità, a cura di G. Scaratti e G. Farinotti, Milano,<br />

2003, 71 ss.; Id., Responsabilità Sociale come Governance allargata d’impresa: una interpretazione<br />

basata sulla teoria del contratto sociale e della reputazione, in AA.VV., La responsabilità<br />

sociale dell’impresa, vol. I (Persone, Impresa e Società), a cura di G. Rusconi e M. Dorigatti,<br />

Milano, 2004, 107 ss.; R. Del Punta, Per un’impresa ‘‘responsabile’’, 7 marzo 2005, in<br />

www.lavoce.info, 1 s.; P. Garibaldi-F. Panunzi, Responsabilità sociale d’impresa, ma<br />

non per legge, 7 marzo 2005, ivi, 1 s., i quali evidenziano che quando Rsi e massimizzazione<br />

del valore d’impresa vanno nella stessa direzione, non esiste alcun trade-off e non vi sono ragioni<br />

per opporsi all’attuazione della Rsi (ma in tal caso non vi sarebbe nemmeno la necessità<br />

che lo Stato incoraggi la Rsi), mentre i problemi nascono nel caso in cui la Rsi e la massimizzazione<br />

del valore d’impresa sono (anche solo parzialmente) in conflitto tra loro: al riguardo<br />

la letteratura economica individua tre difficoltà a cui va incontro il perseguimento degli interessi<br />

degli stakeholders diversi dagli azionisti: 1) il pericolo che venga meno il finanziamento<br />

aziendale da parte degli azionisti, 2) il rischio di rendere l’attività imprenditoriale ingestibile<br />

a causa del coinvolgimento dei diversi stakeholders, 3) la difficoltà (dovuta a problemi di<br />

misurabilità delle performance) di controllare il management nel perseguimento degli obiettivi<br />

di Rsi.<br />

( 202 ) Il Global Compact è un documento che invita le imprese ad aderire a nove principî<br />

universali nelle aree dei diritti umani, delle condizioni di lavoro e dell’ambiente: per approfondimenti<br />

si rinvia a www.unglobalcompact.org.<br />

( 203 ) Il Libro Verde definisce la Rsi come «l’integrazione su base volontaria, da parte<br />

delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali<br />

e nei rapporti con le parti interessate». La Commissione europea ha inoltre emanato nel luglio<br />

del 2002 una articolata e dettagliata Comunicazione intitolata Responsabilità sociale delle<br />

imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile, consultabile all’indirizzo internet<br />

europa.eu.int/comm/employment/soc-dial/csr/csr2002_it. Sull’attività delle istituzioni co-


SAGGI E OPINIONI<br />

A un livello più generale, inoltre, l’adozione dei modelli organizzativi,<br />

in virtù del suddetto effetto reputazione e della riduzione dei comportamenti<br />

opportunistici, favorirà l’efficienza del mercato( 204 ): la diffusione capillare<br />

dei compliance programs tra le imprese costituirà quindi «una rete di<br />

legalità a sostegno del mercato»( 205 ).<br />

Sono poi evidenti i riflessi che l’adozione dei modelli organizzativi ha<br />

sulla corporate governance, intendendo questa espressione non genericamente<br />

come sistema con il quale le società sono amministrate e controllate,<br />

bensì in un’accezione più ampia, che richiama un fascio di problemi: il governo<br />

della società ed i mezzi per garantire un’efficiente allocazione del<br />

controllo delle imprese, i rimedi in grado di contemperare gli interessi degli<br />

amministratori con quelli degli azionisti (incremento dello shareholder’s<br />

value) e, più in generale, degli stakeholders, evitando – o quantomeno minimizzando<br />

– i comportamenti opportunistici dei managers ed i conseguenti<br />

agency costs( 206 ). È vero che i modelli organizzativi sono principalmente<br />

volti a prevenire la commissione di reati i cui effetti si riverberano<br />

sulla collettività quale conseguenza dell’attività di impresa, ma esigenze<br />

come la separatezza tra gestione e controllo o la costruzione di strutture<br />

dedicate all’audit interno della produzione e dell’impiego di risorse finanziarie<br />

creano inevitabilmente aree di possibile sovrapposizione( 207 ).<br />

A questo proposito, la dottrina più accorta ha tempestivamente messo<br />

munitarie in materia di Corporate Social Responsibility cfr. F. Sciaudone, Iniziative comunitarie<br />

in tema di responsabilità sociale delle imprese: prime riflessioni, inDir. pub. comp.<br />

eur., 2003, 1419 ss. Il Governo italiano, da parte sua, si è reso protagonista di un’azione a<br />

sostegno della Rsi, tramite la presentazione del Progetto Csr-Sc alla Conferenza europea<br />

di Venezia del novembre 2003 nel corso del semestre di presidenza italiano; in attuazione<br />

di tale progetto sono stati stipulati, nel corso del biennio 2003-2004, vari protocolli di intesa<br />

fra il Governo e alcune associazioni di categoria (quali, ad esempio, Unioncamere, Confapi,<br />

Assolombarda, Associazione nazionale dei consulenti del lavoro) al fine di diffondere tra gli<br />

associati la cultura della Rsi.<br />

( 204 ) Cfr. P. Bastia, op. e loc. ult. cit.<br />

( 205 ) A. Carmona, op. cit., 222.<br />

( 206 ) Cfr. A. Alessandri, Corporate Governance nelle società quotate: riflessi penalistici<br />

e nuovi reati societari,inGiur. comm., 2002, I, 524. Vi è chi acutamente ha osservato come,<br />

nel caso in cui proprietà e controllo non siano separati (come prevalentemente avviene nel<br />

capitalismo italiano), le regole di corporate governance devono essere completamente differenti<br />

rispetto a quelle adottabili nelle public companies, seèvero che «ogni sistema di corporate<br />

governance deve (...) tenere conto delle condizioni sociali, economiche, legali e politiche<br />

nelle quali andrà ad operare» e che «comportamenti passati sono estremamente resistenti a<br />

qualunque raccomandazione di buon governo societario, come dimostra la circostanza che,<br />

sebbene le discipline previste da paesi anche lontanissimi quali Giappone, Gran Bretagna,<br />

Italia e Russia non siano radicalmente differenti in termini di struttura, i risultati a cui conducono<br />

sono profondamente diversi» (così G. Rossi, Le c.d. regole di «corporate governance»<br />

sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, inRiv. soc., 2001, I,<br />

18 s.).<br />

( 207 ) Cfr. A. Alessandri, op. ult. cit., 547.<br />

89


90<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

in evidenza una serie di problematiche applicative con cui la prassi – come<br />

si vedrà attraverso l’esame di singoli modelli organizzativi – si è già confrontata.<br />

In primo luogo, ci si è chiesti da chi debba essere adottato il modello<br />

organizzativo. Vi è chi ritiene che in assenza di qualunque indicazione da<br />

parte del legislatore su quale organo – se l’assemblea o il consiglio di amministrazione<br />

– debba procedere all’adozione del modello, vi sia in materia<br />

un’ampia autonomia di scelta( 208 ). Secondo un’opinione più rigorosa, invece,<br />

l’introduzione di un organo di controllo ad hoc o l’adeguamento<br />

dei doveri e delle competenze del collegio sindacale in funzione della creazione<br />

di un organo di vigilanza, introducendo nella disciplina della società<br />

un elemento strutturale, dovrebbe trovare collocazione tra le norme sul<br />

funzionamento della società contenute nello statuto ex art. 2328, ultimo<br />

comma, c.c., con la conseguenza che spetterebbe all’assemblea adottare<br />

il modello organizzativo( 209 ). La soluzione migliore sembra però quella seguita<br />

dalla prassi aziendale – peraltro avallata dalla giurisprudenza – da cui<br />

è emerso che l’adozione del modello è avvenuta invariabilmente ad opera<br />

del consiglio di amministrazione, in linea, del resto, con quanto l’espressione<br />

«organo dirigente» di cui all’art. 6, comma 1, lett. a) sembra indicare(<br />

210 ).<br />

Gli interrogativi maggiori sono sorti in relazione all’organo di con-<br />

( 208 ) Cfr. A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. cit., 147.<br />

( 209 ) Cfr. R. Rordorf, op. ult. cit., 86.<br />

( 210 ) Cfr. ABI, Linee guida, cit., 364 s.; Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003,<br />

in Cass. pen., 2003, 2803 ss., nonché inGuida al diritto, 2003, n. 31, 66 ss., con commento di<br />

G. Amato, Con l’eliminazione delle situazioni di rischio le misure cautelari diventano superflue,<br />

einRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 293 ss., con nota di A. Nisco, Responsabilità amministrativa<br />

degli enti: riflessioni sui criteri ascrittivi soggettivi e sul nuovo assetto delle posizioni<br />

di garanzia nelle società, il quale sul punto – premesso che stante la tassatività delle attribuzioni<br />

assembleari emergente dal nuovo art. 2364, comma 1, n. 5 c.c., la validità di un modello<br />

organizzativo adottato con delibera del consiglio di amministrazione non può essere messa in<br />

discussione – rileva: «È evidente che siamo in una sfera di competenza degli amministratori.<br />

Da un lato, è empiricamente riscontrabile che gli amministratori sono in una posizione privilegiata<br />

rispetto alla valutazione del coefficiente di rischio preliminare all’adozione di un<br />

programma preventivo, essendo dimostrato che la criminalità d’impresa si concentra nei livelli<br />

gerarchici intermedi; dall’altro, coerentemente, la legge assegna loro i poteri organizzativi<br />

necessari e sufficienti all’attuazione del modello. Quest’ultima affermazione trova sostegno<br />

nel nuovo assetto della s.p.a., la cui filosofia di fondo è animata dalla volontà di sottrarre<br />

l’azione degli amministratori – la ‘‘gestione’’ – ad ingerenze assembleari, in una prospettiva di<br />

tendenziale ampliamento dei poteri degli amministratori» (301 s.), e della gestione – neanche<br />

a dirlo – fa parte integrante l’adozione e la concreta ed efficace attuazione del modello organizzativo.<br />

In dottrina v. altresì F. Santi, op. cit., 287, il quale ritiene che «il compito spetta<br />

all’organo che nell’ente è posto nella posizione di conoscere il rischio della commissione di<br />

reati da parte dell’organizzazione e di decidere l’adozione di misure idonee ad assorbirlo»,<br />

ovvero – per quanto riguarda la società – agli amministratori, come rileva anche la circolare<br />

dell’ASSONIME n. 68/2002.


SAGGI E OPINIONI<br />

trollo, allorché cisièdomandati da chi debba essere nominato tale organo,<br />

quale debba essere la sua composizione ed a chi debba rispondere( 211 ).<br />

Quanto alla composizione, vi è chi non esclude che esso possa essere<br />

individuato – con gli opportuni correttivi – nel collegio sindacale( 212 ), ma<br />

la maggior parte degli autori è di contrario avviso, ritenendo il collegio sindacale<br />

non in grado di assicurare la necessaria continuità di azione, nonché<br />

privo dei requisiti di indipendenza ed autonomia che devono contraddistinguere<br />

l’organo di controllo, giacché nominato da quella stessa maggioranza<br />

di cui gli amministratori sono espressione( 213 ). Argomento, quest’ultimo,<br />

che rende insoddisfacente qualunque soluzione si adotti per stabilire<br />

chi debba nominare l’organo di vigilanza: se il consiglio di amministrazione<br />

o l’assemblea( 214 ). Anche l’ipotesi di affidare l’attività di vigilanza ad una<br />

funzione aziendale già attiva quale l’ufficio legale o meglio ancora l’internal<br />

auditing( 215 ) viene respinta poiché tali funzioni non presentano un suffi-<br />

( 211 ) Cfr. C. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1351 s.; Id., L’etica e il mercato, op.<br />

cit., 338 s.<br />

( 212 ) Cfr. R. Rordorf, Prime (e sparse) riflessioni sulla responsabilità amministrativa<br />

degli enti collettivi per reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio, in AA.VV., La responsabilità<br />

amministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 18: «in via di<br />

principio (...) non (...) sembra si possa escludere l’attribuzione di tali compiti al collegio sindacale,<br />

che di piena autonomia gode, salvo integrarne statutariamente i poteri di iniziativa<br />

per quel che riguarda l’aggiornamento dei modelli. Il fatto che la legge parli di ‘‘organismo<br />

dell’ente’’, senza menzionare i sindaci, non significa che li abbia voluti escludere, ma solo che<br />

ha adoperato un’espressione generica; né avrebbe potuto essere altrimenti dal momento che<br />

la portata della norma è estesa anche ad enti sforniti di organo sindacale, per i quali, ovviamente,<br />

un analogo problema di coordinamento con preesistenti organi di controllo non si<br />

pone»; Id., La normativa sui modelli di organizzazione dell’ente, op. cit., 85s.<br />

( 213 ) Cfr. A. Bernardo, La responsabilità, op. cit., 28 s.; Id., Prime pronunce, op. cit.,<br />

31 s. Analoghe obiezioni possono essere mosse, in seguito alla riforma del diritto societario,<br />

all’idea di individuare l’organo di controllo negli amministratori non esecutivi (modello monastico)<br />

o nel consiglio di sorveglianza (modello dualistico).<br />

( 214 ) Lo nota A. Bernardo, La responsabilità, op. cit., 29, che tuttavia ritiene preferibile<br />

attribuire il compito di nominare l’organo di controllo all’assemblea.<br />

( 215 ) In questo senso appare orientata l’Associazione Italiana Internal Auditors, nel position<br />

paper dal titolo D. lgs. 231/2001. Responsabilità amministrativa della società: modelli<br />

organizzativi di prevenzione e di controllo, ottobre 2001, 36: «l’organo di Internal Auditing<br />

sembra più di altre funzioni istituzionalmente e deontologicamente connotato da quei requisiti<br />

di indipendenza ed autonomia che la normativa prescrive e dotato, inoltre, della visione<br />

di insieme necessaria ad assicurare la corretta tenuta del modello». Favorevoli a conferire la<br />

funzione di controllo all’internal auditing – laddove sia presente – sono E. Mattei, Modelli<br />

organizzativi e organismo di controllo come strumenti di prevenzione, in AA.VV., La responsabilità<br />

amministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc., op. cit., 47 ss., il quale osserva<br />

che in tal modo «si evita di istituire ulteriori unità organizzative che, indipendentemente da<br />

considerazioni economiche, rischiano di ingenerare sovrapposizioni o eccessive parcellizzazioni<br />

di attività»; l’autore evidenzia altresì il rischio che con la costituzione di un organo<br />

di controllo ad hoc una s.p.a. si ritrovi con la contemporanea presenza di ben cinque strutture<br />

(collegio sindacale, società di revisione, funzione di controllo interno, organismo di con-<br />

91


92<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

ciente livello di autonomia ed indipendenza rispetto ai soggetti in posizione<br />

apicale( 216 ), così come viene rigettata l’idea di affidare la funzione di controllo<br />

in outsourcing, dato che l’art. 6, comma 1, parla di organismo interno<br />

all’ente, che deve essere inserito permanentemente all’interno dell’organizzazione<br />

aziendale( 217 ).<br />

L’opinione che riscuote più adesioni fra i commentatori – seguita<br />

anche dalle linee guida delle associazioni di categoria degli imprenditori<br />

–èquella di istituire un organo ad hoc, che nelle banche e nelle società<br />

di diritto speciale potrebbe essere composto da responsabili di funzioni interne<br />

alla società come l’internal auditing, da amministratori indipendenti e<br />

da esperti esterni all’impresa, che assicurino all’organismo il tasso di tecnicismo<br />

richiesto( 218 ). L’importante è che quest’organo sia posto sempre in<br />

posizione di staff e non di line rispetto al consiglio di amministrazione( 219 ).<br />

Indicazioni in tal senso arrivano anche dalla giurisprudenza, laddove si afferma<br />

che «Al riguardo appare auspicabile che si tratti di un organismo di<br />

vigilanza formato da soggetti non appartenenti agli organi sociali, soggetti<br />

da individuare eventualmente ma non necessariamente, anche in collabora-<br />

trollo ex art. 6 d. lgs. n. 231/2001, staff adibito alla certificazione di qualità e al controllo<br />

degli standard certificati), che rappresenterebbero «più un ostacolo allo sviluppo dell’impresa<br />

che un incentivo alla crescita e alla efficienza della stessa»; nonché R. Rosato, Il controllo<br />

interno nel D.Lgs. 231/01: la configurabilità del collegio sindacale come organismo di vigilanza,<br />

in Auditing, maggio-agosto 2003, 54.<br />

( 216 ) Cfr. A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. cit., 149; Id., La responsabilità,<br />

op. cit., 176 s.; F. Maimeri, op. cit., 624; R. Rordorf, op. ult. cit., 86. In giurisprudenza<br />

v. Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003, cit., che in sede di adozione di misure<br />

cautelari nei confronti di una società, ha ritenuto non idoneo – ai fini della non applicazione<br />

della misura – il modello di organizzazione adottato dopo la commissione del reato,<br />

tra l’altro, in quanto un componente dell’organo di controllo ex art. 6 d. lgs. n. 231/2001 era<br />

già deputato a svolgere compiti di controllo interno (si trattava del responsabile della sicurezza<br />

e del sistema Iso 9002).<br />

( 217 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 92; R. Rordorf, op. ult. cit., 87.<br />

( 218 ) In dottrina cfr., ex multis, A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. e<br />

loc. ult. cit.: «Sembra quindi preferibile l’istituzione di un organo ad hoc, a favore del quale<br />

sarà necessario prevedere apposite garanzie di stabilità, indipendenza, qualificazione professionale<br />

ed efficienza, attraverso l’inserimento nel ‘‘modello’’ di previsioni sulla composizione<br />

dell’organo di controllo, sulle cause di ineleggibilità e decadenza dei suoi membri, sulla nomina<br />

e cessazione dall’ufficio, sulla presidenza dell’organo di controllo, sulle modalità di riunioni<br />

dello stesso, sulle responsabilità attribuite»; F. Santi, op. cit., 321 s. In tal senso cfr.<br />

inoltre Confindustria, Linee guida, cit., 28 ss., ove in alternativa all’organo ad hoc si suggerisce,<br />

alle aziende che ne sono munite, di affidare l’attività di vigilanza al comitato di controllo<br />

interno o all’internal auditing; ABI, Linee guida, cit., 365 ss., in cui sono indicate tre<br />

alternative per la costituzione dell’organo ad hoc: 1)internal auditing eventualmente integrato<br />

nella composizione e nei poteri; 2) funzione costituita da professionalità interne alla banca<br />

(legali, esperti contabili, di gestione del personale o di controllo interno, membri del collegio<br />

sindacale, ecc.); 3) organismo composto da soli amministratori non esecutivi o indipendenti.<br />

( 219 ) Sul punto cfr. P. Bastia, op. cit., 62.


SAGGI E OPINIONI<br />

tori esterni, forniti della necessaria professionalità, che vengono a realizzare<br />

effettivamente quell’organismo dell’ente dotato di autonomia di poteri di<br />

iniziativa e controllo. Indubbio che per enti di dimensioni medio grande<br />

la forma collegiale si impone, così come si impone una continuità di azione,<br />

ovverosia un impegno esclusivo sull’attività di vigilanza relativa alla concreta<br />

attuazione del modello»( 220 ).<br />

L’unica norma in materia è l’art. 6, comma 4, il quale prevede che<br />

negli enti di piccole dimensioni – per la cui individuazione non è indicato<br />

alcun criterio dimensionale o qualitativo – le funzioni di vigilanza e aggiornamento<br />

del modello possono essere svolte direttamente dall’organo dirigente:<br />

la disposizione, in base alla quale si verifica una paradossale coincidenza<br />

fra controllore e controllato, è dettata dall’esigenza di non sottoporre<br />

le piccole imprese all’aggravio, sia in termini di costi che in termini di funzionalità<br />

gestionale, che l’introduzione di un siffatto organo determinerebbe.<br />

In realtà la disciplina non fornisce elementi per escludere aprioristicamente<br />

alcun organo della società dalla funzione di vigilanza, per cui gli enti<br />

devono procedere sulla scorta di una valutazione condotta caso per caso,<br />

tenendo conto della specifica organizzazione della società ed in base ad<br />

un’analisi costi-benefici delle diverse opzioni praticabili( 221 ).<br />

Dall’analisi dei singoli modelli organizzativi( 222 ) emerge che nelle<br />

grandi aziende l’organo di controllo è nominato sempre dal consiglio<br />

di amministrazione. Varietà di soluzioni – tendenzialmente idonee ad assicurare<br />

l’autonomia e l’indipendenza dell’organo di controllo – si riscontra<br />

invece riguardo alla composizione di detto organo: talvolta esso<br />

costituisce evoluzione della funzione di internal auditing ed ha natura<br />

( 220 ) Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003, cit.<br />

( 221 ) Cfr. A. Bernardo, op. e loc. ult. cit. Similmente v. S. Fortunato, op. cit., 282<br />

s., secondo cui l’organo di controllo «può essere costituito come Comitato di varie funzioni e<br />

organi societari (per esempio, Risorse Umane, Ufficio Affari Legali, Revisione Interna, Amministrazione<br />

e Finanza, Operazioni, Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale), oppure<br />

essere identificato nell’ambito di un’unica funzione (per esempio, Revisione Interna),<br />

con diversi vantaggi e svantaggi in tema di autorevolezza, competenza specifiche disponibili,<br />

tempestività di intervento, aggiornamento delle informazioni, visione globale, ecc. – La soluzione<br />

da scegliere dipenderà, infine, anche dalla volontà degli azionisti e/o amministratori<br />

e dalle caratteristiche e dalla complessità aziendale di ciascuna impresa».<br />

( 222 ) Sono stati esaminati i seguenti modelli organizzativi: ENEL s.p.a., Modello di organizzazione<br />

e di gestione ex Decreto Legislativo 8 giungo 2001 n. 231, 2002, in www.enel.it;<br />

AEM s.p.a., Modello organizzativo interno di AEM s.p.a. (ex decreto legislativo 8 giugno 2001<br />

n. 231), Milano, 2003, in www.aem.it/home/cms/default.jsp; ENI s.p.a., Principi del modello<br />

231, 2003, 2004, in www.eni.it; IMPREGILO s.p.a., cit.; GRUPPO MONDADORI s.p.a.,<br />

Modello di Organizzazione di Gestione e di Controllo, 2004, in www.mondadori.com/ame/it/<br />

corporate/modello.html.; UNICREDITO ITALIANO s.p.a., Modello di organizzazione e di<br />

gestione di UniCredito Italiano s.p.a., inedito.<br />

93


94<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

collegiale( 223 ); in altri casi è un organo monocratico che può( 224 ) o<br />

meno( 225 ) identificarsi con il responsabile dell’internal auditing ed è supportato<br />

da un apposito ufficio di staff e/o da consulenti esterni( 226 ); altre<br />

volte ancora può essere un organo collegiale di composizione mista( 227 ).<br />

Si segnala, per la sua originalità ed efficacia, la soluzione ideata da Uni-<br />

Credito Italiano s.p.a., che ha affiancato all’organo di controllo i responsabili<br />

delle unità operative di ciascun settore in cui sono stati individuati<br />

rischi di commissione di reati, assegnando loro il compito di effettuare<br />

continuativamente verifiche sul rispetto e sull’adeguatezza del mo-<br />

( 223 ) Cfr. UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 11: «L’Organismo di Controllo ha<br />

natura collegiale ed è composto dai seguenti soggetti: il Presidente, individuato in un amministratore<br />

non esecutivo e indipendente; i Responsabili della Direzione Risorse e Organizzazione;<br />

della Direzione Audit di Gruppo; della Direzione Affari Societari e Legali; della Direzione<br />

Corporate Identità di UniCredito Italiano s.p.a.».<br />

( 224 ) Cfr. ENEL s.p.a., cit., 14 s., ove si chiarisce che la scelta di affidare le funzioni di<br />

Compliance Officer (CO) al responsabile dell’internal audit è stata determinata dal fatto che<br />

tale figura è stata riconosciuta come la più adeguata in virtù dei requisiti di autonomia, indipendenza,<br />

professionalità e continuità d’azione che possiede; IMPREGILO s.p.a., cit., 15.<br />

( 225 ) Cfr. GRUPPO MONDADORI s.p.a., cit., 6: «A tale organo monocratico sono<br />

stati conferiti tutti i poteri necessari al compito di vigilare sul funzionamento, sull’efficacia<br />

e sull’osservanza del modello stesso, conferendogli altresì le responsabilità attribuite dal Decreto;<br />

nonché l’incarico di curarne l’aggiornamento. – Nello svolgimento della propria funzione<br />

l’Organismo di Vigilanza e di Controllo, a supporto della propria azione e tenuto conto<br />

dei contenuti professionali specifici richiesti per l’espletamento di alcune attività di controllo,<br />

potrà avvalersi, nell’ambito delle disponibilità previste ed approvate nel budget, della collaborazione<br />

di risorse interne, per quanto possibile, nonché di professionisti esterni». Analoga<br />

scelta sembra aver fatto Poste Italiane s.p.a. – prima società italiana per numero di dipendenti<br />

– nel cui modello organizzativo si dispone che il Compliance Officer opera con l’ausilio della<br />

funzione di internal auditing (lo si evince da C. Dittmeier, Poste italiane sceglie la prevenzione,<br />

inItaliaOggi, 2 marzo 2004, 47).<br />

( 226 ) Al riguardo, deve osservarsi che la soluzione di istituire un organo monocratico –<br />

per quanto supportato da appositi uffici di staff e/o da consulenti esterni – non appare idonea<br />

nelle società di dimensioni medie o grandi come Enel, Poste Italiane, Impregilo e Mondadori<br />

a garantire reale autonomia ed effettività all’organo di controllo: meglio darebbe stato<br />

– anche in considerazione delle indicazioni giurisprudenziali – prevedere un organo collegiale.<br />

( 227 ) Cfr. AEM s.p.a., cit., 19: «In considerazione della specificità dei compiti che ad<br />

esso fanno capo, è stato individuato quale Organismo di Vigilanza un Comitato composto<br />

da: Responsabile Internal Auditing, Responsabile Affari Generali, Responsabile Personale<br />

e Relazioni Industriali»; ENI s.p.a., cit., 13 s., ove si prevede che l’Organismo di Vigilanza<br />

è composto dal Segretario del Consiglio di Amministrazione e Assistente dell’Amministratore<br />

Delegato, dal Direttore dell’ufficio Affari Legali e dal Responsabile dell’Internal Audit,<br />

nonché che esso si avvale nello svolgimento dei propri compiti «della funzione di Internal<br />

Audit nell’ambito della quale è costituita l’unità organizzativa dedicata a tempo pieno ai<br />

compiti di vigilanza ai sensi del d. lgs. 231/2001, dotata di risorse adeguate, autonoma e indipendente<br />

dalle unità che assicurano le altre attività della funzione di Internal Audit» ed «è<br />

supportato dalle risorse della Direzione Affari Legali e della Direzione Personale e Organizzazione<br />

che a tal fine sono adeguatamente rafforzate».


SAGGI E OPINIONI<br />

dello( 228 ), nonché il meccanismo predisposto da Aem s.p.a., secondo cui<br />

il responsabile interno di ogni attività sensibile deve compilare all’inizio<br />

di ogni operazione ritenuta rilevante un’apposita ‘‘scheda di evidenza’’,<br />

in modo da costruire una documentazione funzionale all’attività dell’organo<br />

di controllo( 229 ).<br />

Se realisticamente l’organo di controllo non può che essere nominato<br />

dall’organo amministrativo, è chiaro che la sua indipendenza e autonomia<br />

si gioca tutta sul piano delle linee di reporting, per cui è indispensabile che<br />

esso abbia come referente non solo il consiglio di amministrazione (o il presidente,<br />

o l’amministratore delegato), ma anche il collegio sindacale e/o il<br />

comitato di controllo interno( 230 ).<br />

In relazione all’organo di controllo, ci si è poi chiesti se possa sorgere<br />

in capo ai suoi componenti una responsabilità penale ex art. 40, comma 2,<br />

c.p. per non aver impedito il reato commesso all’interno dell’ente (concorso<br />

omissivo). La mancanza di poteri impeditivi del fatto-reato in capo<br />

ai membri dell’organo di vigilanza, su cui grava esclusivamente un obbligo<br />

di sorveglianza, dovrebbe portare a ritenere inconfigurabile una posizione<br />

di garanzia penalmente rilevante ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p.: il mancato<br />

o insufficiente controllo comporterebbe quindi delle semplici conseguenze<br />

di tipo contrattuale (scioglimento dell’organo, revoca di alcuni<br />

componenti, ecc.) nei confronti dei soggetti responsabili del controllo( 231 ).<br />

( 228 ) Cfr. UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 11 s.: «L’istituzione dei Responsabili<br />

di Unità Operative resta a garanzia di una più concreta e perciò efficace possibilità di attuazione<br />

del Modello, costituendo gli stessi un effettivo anello di congiunzione, operativo e informativo,<br />

tra l’OdC e le concrete unità operative nell’ambito delle quali sono stati individuati<br />

profili di rischio».<br />

( 229 ) Cfr. AEM s.p.a., cit., 26 ss. In dottrina cfr. F. Giunta, op. cit., 21, il quale sottolinea<br />

la necessità che i vari passaggi del procedimento decisionale possano trovare un riscontro<br />

scritto anche in forma sintetica, in modo tale da consentire in monitoraggio già in<br />

itinere della decisione.<br />

( 230 ) Tutti i modelli analizzati vanno in questa direzione: in tal senso cfr. ENEL s.p.a.,<br />

cit., 17, in cui sono previste due linee di reporting: una continuativa direttamente al Presidente<br />

e all’Amministratore Delegato, ed una periodica nei confronti del Comitato di Controllo<br />

Interno, del Consiglio di Amministrazione e del Collegio Sindacale; ENI s.p.a., cit., 17, AEM<br />

s.p.a., cit., 23, e IMPREGILO s.p.a., cit., 17, che seguono la stessa soluzione del modello<br />

Enel; GRUPPO MONDADORI s.p.a., cit., 7: «L’Organismo di Vigilanza e di Controllo riferisce<br />

al Consiglio di Amministrazione, al Comitato di Controllo Interno (...) e al Collegio<br />

Sindacale, in merito all’applicazione e all’efficacia del Modello o con riferimento a specifiche<br />

e significative situazioni»; UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 14: «l’Organismo di Controllo<br />

riporta direttamente al Consiglio di Amministrazione della società e al Collegio sindacale».<br />

( 231 ) In tal senso cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 594; F. Foglia Manzillo, Nessun<br />

obbligo per l’organo di vigilanza di impedire gli illeciti penali, inDir. prat. soc., 2003, n. 5, 36<br />

ss. Alla medesima conclusione giunge chi ritiene che «la volontà privata (espressa nella cornice<br />

contrattuale e, a fortiori, in forme non negoziali) non possa creare nuovi obblighi penal-<br />

95


96<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

A una diversa conclusione si potrebbe invece pervenire considerando l’intervento<br />

dei controllori come condizione necessaria, anche se non sufficiente,<br />

ai fini dell’impedimento del reato da parte dei vertici societari, analogamente<br />

a quanto sostenuto dalla giurisprudenza per i sindaci, di cui enfatizza<br />

i poteri di indagine, accertamento, sorveglianza e impulso<br />

sanzionatorio( 232 ). Uno sviluppo giurisprudenziale di questo tipo non è<br />

certo auspicabile, dato che con elevata probabilità provocherebbe «l’impossibilità<br />

pratica di adottare modelli per l’estrema difficoltà di reperire<br />

martiri al di fuori degli amministratori; determinandosi così il naufragio<br />

della speranza che l’adozione generalizzata dei modelli possa condurre,<br />

in chiave di prevenzione, ad una ripulitura del mercato e dei suoi comportamenti»(<br />

233 ).<br />

È opportuno altresì accennare ad alcuni problemi che possono caratterizzare<br />

l’implementazione e la concreta attuazione dei modelli organizzativi<br />

da parte delle imprese, già verificatisi negli Stati Uniti in relazione ai<br />

compliance programs( 234 ). Essi sono: 1) il rischio che nella predisposizione<br />

mente sanzionabili, ma soltanto ‘‘spostare’’ su altri centri di imputazione l’esecuzione di una<br />

preesistente ‘‘posizione di garanzia’’» (così F. Giunta, op. cit., 19).<br />

( 232 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 594 s. A quest’esito giunge chi paventa – a causa<br />

della presenza di una norma generica coma l’art. 40, comma 2, c.p. – una vera e propria<br />

moltiplicazione delle posizioni di garanzia per le persone fisiche che fanno parte dell’ente:<br />

«Potenzialmente, tutti i soggetti coinvolti nella progettazione, predisposizione, esecuzione,<br />

attuazione e applicazione dei protocolli (elaboratori, progettisti, vigilantes, investigatori,<br />

membri di commissioni disciplinari, supervisori, ecc.) potrebbero risultare destinatari di<br />

un obbligo giuridico di prevenzione/impedimento dei reati, discendente direttamente dal<br />

singolo modello organizzativo-gestionale adottato in concreto, quale attuazione della disciplina<br />

prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001, la quale assurgerebbe a vera e propria fonte generatrice<br />

dell’obbligo giuridico di impedimento dei reati all’interno dell’impresa» (A. Gargani,<br />

Imputazione del reato agli enti collettivi e responsabilità penale dell’intraneo: due piani irrelati?,inDir.<br />

pen. proc., 2002, 1061 ss., spec. 1066; Id., Le conseguenze indirette della corresponsabilizzazione<br />

degli enti collettivi, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 235 ss.). Fermamente<br />

convinto della configurabilità di una posizione di garanzia in capo ai componenti dell’organo<br />

di controllo è A. Nisco, op. cit., 317 ss., il quale – partendo dal presupposto che la<br />

mancanza di compiti operativi non degrada la posizione dell’organismo di controllo ad un<br />

obbligo di mera sorveglianza ma è finalizzata a garantirne l’indipendenza in funzione dell’espletamento<br />

dei compiti che gli sono attribuiti – afferma che «pur dovendosi ammettere che,<br />

in ultima istanza, la modifica del modello preventivo, a seguito di infrazioni, passi attraverso<br />

una scelta dell’organo amministrativo, l’operato dell’organismo di vigilanza si interpone quale<br />

ingranaggio necessario ai fini di un’idonea azione preventiva: avrebbe scarsa efficacia preventiva<br />

il modello che affidasse la sua supervisione ad un organo adibito ad una semplice<br />

‘‘sorveglianza’’, quindi debilitato in ordine alle funzioni attribuitegli dall’art. 6, le quali si sostanziano<br />

in un autonomo potere di intervento sul modello, oltre che di sollecitazione dei<br />

vertici societari»; contra v. C. Pedrazzi, Corporate governance e posizioni di garanzia: nuove<br />

prospettive?, in AA.VV., Governo delle imprese e mercato delle regole, Milano, 2002, II, 1374.<br />

( 233 ) Così A. Carmona, op. cit., 217 s.<br />

( 234 ) Sul punto v. D. Davies, op. cit., 56, 76, 80, anche se l’autore utilizza impropria-


SAGGI E OPINIONI<br />

dei modelli si diffonda un approccio ‘‘copia e incolla’’, che consiste nel<br />

prendere il codice di un’altra società, modificandone solo il nome; 2) la<br />

presenza di deficit informativi nella diffusione del modello fra il personale<br />

dell’azienda, spesso riconducibile alla prassi delle società di chiedere ai<br />

propri dipendenti una dichiarazione annuale che confermi la lettura dell’aggiornamento<br />

del modello, mentre la maggior parte di essi non ha mai<br />

letto né il modello originario, né gli aggiornamenti( 235 ); 3) l’inadeguatezza<br />

dei canali di reporting e dei momenti di dialogo con i dipendenti; 4) l’eccessiva<br />

astrattezza del modello in caso di mancanza di indicazioni sulle circostanze<br />

specifiche o sulle situazioni concrete in cui il personale potrebbe<br />

trovarsi (assenza di una valutazione dettagliata del rischio), che può comportare<br />

un’interpretazione dei controlli come procedimenti burocratici gravosi,<br />

con impossibilità di gestire i rischi più importanti; 5) l’inesistenza di<br />

indicazioni sull’atteggiamento della società nei confronti dell’integrità del<br />

reporting e delle informazioni finanziarie. Non deve inoltre essere sottovalutato<br />

il pericolo che molte imprese adottino protocolli caratterizzati da assoluta<br />

genericità, che costituiscono un mero ossequio giuridico-formale alla<br />

disciplina del d. lgs. n. 231/2001( 236 ), mentre i modelli organizzativi dovrebbero<br />

essere specifici, concreti e dinamici.<br />

In conclusione, l’esame dei singoli modelli organizzativi sembra evidenziare<br />

una certa tendenza delle aziende (quantomeno di quelle grandi<br />

e medio-grandi) a garantire al modello una ragionevole effettività ed efficacia:<br />

l’idea del legislatore di non tipizzare le misure preventive a carico<br />

dell’ente sembra essersi rivelata vincente, poiché consente di adeguare i<br />

mente l’espressione «codici etici», il fenomeno riguarda i modelli organizzativi nella loro interezza.<br />

( 235 ) Dai modelli organizzativi esaminati emerge un ampio ventaglio di strumenti informativi<br />

rivolti al personale: corsi di formazione per dirigenti e dipendenti in aula e on line,<br />

affissione del modello in bacheca, creazione di una rete intranet aziendale per diffondere il<br />

modello ed i suoi aggiornamenti, note informative interne, e-mail di aggiornamento, ecc. (cfr.<br />

ENI s.p.a., cit., 25 s.; AEM s.p.a., cit., 40; IMPREGILO s.p.a., cit., 24; UNICREDITO ITA-<br />

LIANO s.p.a., cit., 18 s.).<br />

( 236 ) In proposito cfr. Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord. 9 novembre 2004, cit., il quale,<br />

valutando i modelli organizzativi adottati dalle società Ivri Holding, Cogefi, VCM e Ivri<br />

Torino ai fini della sospensione delle misure cautelari interdittive, li ha ritenuti non idonei ad<br />

escludere il rischio di commissione dei reati proprio per la genericità e la mancanza di effettività<br />

e concretezza che li contraddistingue; in particolare sono stati oggetto di censura: 1) la<br />

mancanza di protocolli dettagliati che individuino le aree aziendali a rischio di verificazione<br />

di reati sulla base di una ricostruzione della storia dell’ente; 2) la possibilità per soggetti interni<br />

all’ente non condannati con sentenza passata in giudicato di far parte dell’organo di<br />

controllo; 3) la mancata previsione di specifici obblighi di informazione nei confronti dell’organismo<br />

di vigilanza; 4) l’assenza di misure concrete per realizzare una diffusione del modello<br />

fra il personale dell’azienda, nonché il non aver previsto una formazione differenziata per<br />

categorie di soggetti; 5) la mancata predisposizione di un sistema di misure disciplinari per<br />

sanzionare le violazioni del modello e la commissione di illeciti penali.<br />

97


98<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

modelli alle singole realtà aziendali – che variano per forma giuridica, tipo<br />

di attività, dimensioni – e di procedere celermente agli aggiornamenti che si<br />

rendessero necessari, evitando gli ingessamenti e le rigidità che possono derivare<br />

da un’insieme chiuso di prescrizioni( 237 ).<br />

6. I limiti del d. lgs. n. 231/2001: il catalogo dei reati<br />

Per quanto concerne i difetti e le aporie che affliggono il d. lgs. n. 231/<br />

2001, oltre alle insufficienza viste sopra, inerenti i criteri di attribuzione<br />

della responsabilità, il limite principale della disciplina è stato individuato<br />

nella esiguità del catalogo dei reati per cui è prevista la responsabilità amministrativa<br />

dell’ente.<br />

Il legislatore delegato ha compiuto infatti, anche sulla scorta della forti<br />

pressioni esercitate da Confindustria( 238 ), una scelta minimalista( 239 ), pre-<br />

( 237 ) In senso contrario v. G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1146, secondo<br />

cui le norme organizzative dirette alla neutralizzazione del rischio-reato all’interno<br />

delle imprese «dovrebbero essere contenute in atti normativi legislativi o regolamentari,<br />

che delineino un corpus tendenzialmente esaustivo di disposizioni intese ad evitare che nell’esercizio<br />

di attività lecite si commettano determinati reati portatori di particolare pregiudizio<br />

sociale»; D. Pulitanó, op. ult. cit., 436, il quale – partendo dal presupposto che sia contraddittorio<br />

desumere tout court il contenuto delle regole cautelari da inserire nei modelli<br />

organizzativi da quella stessa prassi che la regola ha il compito di orientare – auspica una<br />

tipizzazione legislativa quanto più precisa ed esaustiva delle regole cautelari. Tale proposta,<br />

tuttavia, anche a voler soprassedere sui gravi guasti che determinerebbe una soluzione così<br />

rigida, appare del tutto irrealizzabile dal punto di vista pratico, a causa dell’impossibilità per<br />

il legislatore di individuare tutte le regole cautelari esistenti in materia di prevenzione del rischio-reato.<br />

( 238 ) Le reali e poco nobili ragioni che hanno determinato lo sfoltimento del catalogo<br />

dei reati ad opera del legislatore delegato sono ben illustrate da C. Piergallini, La disciplina,<br />

op. cit., 1355 s.; Id., Societas delinquere et puniri non potest : la fine tardiva di un dogma,<br />

op. cit., 585 s.<br />

( 239 ) Il Governo ha giustificato tale scelta affermando che «poiché l’introduzione della<br />

responsabilità sanzionatoria degli enti assume un carattere di forte innovazione nel nostro<br />

ordinamento, sembra opportuno contenerne, per lo meno nella fase iniziale, la sfera di operatività,<br />

allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura delle legalità che, se<br />

imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare<br />

non trascurabili difficoltà di adattamento» (cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/<br />

2001, cit.). Il self-restraint del legislatore è apprezzato da G. De Vero, op. ult. cit., 1128 s.,<br />

secondo cui si è in presenza di «un’esemplare applicazione ‘‘sul campo’’ del principio di<br />

frammentarietà»; nonché, più timidamente, da A. Rossi, Le sanzioni dell’ente, inS. Vinciguerra-M.<br />

Ceresa Gastaldo-A. Rossi, op. cit., 42. A tali posizioni deve però replicarsi<br />

che se «allo strumento giuridico è affidata la custodia della libertà economica e la determinazione<br />

della sua misura, si effettua una selezione nel trattamento che, realizzata sul piano<br />

penalistico attraverso l’incriminazione di certe modalità e forme della condotta piuttosto<br />

che di altre, corre il rischio gravissimo, sul piano delle propedeutiche valutazioni politiche,<br />

d’essere operata in base al potere di contrattazione che ciascun gruppo sociale riesce a met-


SAGGI E OPINIONI<br />

vedendo la responsabilità dell’ente solo per reati finalizzati al profitto quali<br />

la corruzione e la concussione (artt. 24, 25)( 240 ), escludendo invece reati<br />

già contemplati dalla legge delega (i reati contro l’incolumità pubblica, l’omicidio<br />

e le lesioni colpose commessi in violazione delle norme antinfortunistiche<br />

e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, i reati in materia di<br />

ambiente e territorio), che costituiscono manifestazione tipica della criminalità<br />

di impresa. In questo modo si è creata una parte speciale che risulta<br />

assolutamente sottodimensionata rispetto alla parte generale, frustrando le<br />

esigenze politico-criminali alla base della criminalizzazione degli enti e svilendo<br />

l’effettività del nuovo istituto( 241 ). Né si può dire che i successivi ampliamenti<br />

del catalogo dei reati effettuati dal legislatore abbiano posto rimedio<br />

a tale situazione. Vediamo perché.<br />

tere in moto» così che «la forza del peso gettato sulla bilancia da parte chi possiede potere<br />

economico può ben essere difficilmente resistibile e l’uso del potere di normazione penale<br />

tradursi nella creazione di spazi di non intervento a carattere sostanzialmente esentativo e<br />

di privilegio. Il rischio è straordinariamente grave in democrazia dove il consenso elettorale<br />

si forma sulle opinioni comunicate e la comunicazione si fonda sul possesso di mezzi finanziari»<br />

(così, lucidamente, A. Carmona, La responsabilità degli enti: alcune note sui reati presupposto,<br />

inRiv. trim. dir. pen. ec., 2003, 1003).<br />

( 240 ) Gli artt. 24 e 25 contemplano alcuni fra i delitti dei pubblici ufficiali contro la<br />

pubblica amministrazione (malversazione ai danni dello Stato, art. 316-bis c.p.; indebita percezione<br />

di erogazioni a danno dello Stato, art. 316-ter c.p.; concussione, art. 317 c.p.; corruzione<br />

e istigazione alla corruzione commesse anche da funzionari comunitari, artt. 318, 319,<br />

319-bis, 319-ter, 321 e 322 c.p., anche se commessi da incaricati di pubblico servizio o membri<br />

degli organi delle Comunità europee e da funzionari delle Comunità europee e di stati<br />

esteri) ed alcuni dei delitti contro il patrimonio commessi mediante frode (truffa a danno<br />

dello Stato o di altri enti pubblici e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche,<br />

artt. 640, comma 2, n. 1 e 640-bis c.p.; frode informatica commessa a danno dello<br />

Stato o di altro ente pubblico, art. 640-ter, comma 2, c.p.). Con riferimento alla frode informatica<br />

ex art. 640-ter, mentre la legge delega escludeva espressamente quella compiuta con<br />

abuso della qualità di operatore del sistema, il d. lgs. n. 231/2001 utilizza una formula che<br />

sembra includere anche le ipotesi in cui ricorrano entrambe le aggravanti (fatto commesso a<br />

danno dello Stato o di altro ente pubblico e abuso della qualità di operatore del sistema): sul<br />

punto v. M. Guernelli, Frodi informatiche e responsabilità delle persone giuridiche alla luce<br />

del decreto legislativo 8.6.2001, n. 231, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 308.<br />

( 241 ) In senso critico nei confronti della scelta effettuata dal legislatore delegato cfr. L.<br />

Stortoni, I reati per i quali è prevista la responsabilità degli enti, in AA.VV., Responsabilità<br />

degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 67 ss., che parla tra l’altro di «un ben<br />

poco edificante mercanteggiamento politico che ha dato vita ad un prodotto ben poco apprezzabile<br />

da qualsiasi punto di vista lo si guardi»; G. De Simone, I profili sostanziali, op.<br />

cit., 118: «sono stati tagliati fuori dall’ambito di applicazione della nuova disciplina, paradossalmente,<br />

proprio quei reati che ricadono fisiologicamente nel ‘‘cono d’ombra’’ della criminalità<br />

d’impresa e per i quali è da sempre particolarmente avvertita l’esigenza di una revisione<br />

dell’arcaico societas delinquere non potest. Reati che rappresentano, d’altra parte, una sorta<br />

di proiezione sul piano fattuale di quella colpevolezza di organizzazione che si è voluto<br />

porre a fondamento della responsabilità degli enti»; A. Carmona, op. ult. cit., 1004; F.<br />

Giunta, op. cit., 23.<br />

99


100<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

La prima estensione è stata realizzata dal d.l. n. 350/2001, convertito<br />

dalla legge n. 409/2001, che ha inserito i delitti in materia di contraffazione<br />

dell’Euro (art. 25-bis), in attuazione della Decisione quadro del Consiglio<br />

dell’Unione Europea del 29 maggio 2000, ispirata dalla considerazione<br />

che in molti paesi dell’Unione Europea – a differenza di quanto avviene<br />

in Italia – la fabbricazione delle banconote e delle monete è affidata a società<br />

private. È evidente l’assenza, nel nostro paese, di ogni esigenza politico-criminale<br />

che giustifichi una simile scelta estensiva( 242 ), stante l’assoluta<br />

implausibilità pratica che reati di questo tipo possano essere commessi<br />

in contesti aziendali leciti, a meno ché non si vogliano ipotizzare realtà del<br />

tutto «folkloristiche»( 243 ).<br />

Successivamente, l’opportuna estensione della responsabilità amministrativa<br />

degli enti ai reati societari (art. 25-ter introdotto dal d. lgs. n.<br />

61/2002) è stata vanificata dal legislatore delegato che, perseguendo un lucido<br />

disegno di sterilizzazione all’interno di un quadro complessivo di<br />

smantellamento del controllo di legalità nel settore dell’economia( 244 ), ha<br />

escluso per i reati societari l’applicazione agli enti delle sanzioni interdittive,<br />

compiendo una scelta che determina la quasi certa ineffettività della<br />

nuova normativa( 245 ), visto che l’esperienza comparata ha ormai dimo-<br />

( 242 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 586.<br />

( 243 ) Cfr. A. Rossi, op. cit., 58, che fa l’esempio delle imprese che svolgono attività di<br />

tipografia.<br />

( 244 ) Sul punto cfr. B. Tinti, Il nuovo Corpus Iuris dell’economia, inIl fisco, 2003, n.<br />

4, 555 ss., spec. 565 s.<br />

( 245 ) In tal senso cfr. C.E. Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit.,<br />

48, 60 ss.; C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, op. cit.,<br />

106 ss., che parla di «una scelta criminologicamente sciagurata»; A. Alessandri, Corporate<br />

Governance, op. cit., 559: «L’amputazione delle misure interdittive evidenzia un lucido disegno<br />

di sterilizzazione dell’istituto e smentisce i sostenitori di una penalizzazione più ‘‘discreta’’<br />

ma diffusa»; M. Pelissero, La responsabilizzazione degli enti, op. cit., 371. Tra gli<br />

effetti negativi derivanti dall’esclusione della sanzioni interdittive vi è l’impossibilità di applicazione<br />

della pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18), che si traduce in un vantaggio<br />

per le società marketing oriented, le quali potranno contabilizzare la sanzione pecuniaria<br />

come un mero costo di gestione ed evitare i gravi danni di immagine conseguenti alla<br />

pubblicazione, e dell’intero sistema delle misure cautelari (eccezion fatta per quelle reali),<br />

nonché il probabile ricorso indiscriminato al procedimento per decreto (art. 64), di cui è<br />

condizione l’applicazione della solo sanzione pecuniaria, ed al patteggiamento (art. 63), sempre<br />

ammesso in caso di sola sanzione pecuniaria (cfr. M. Formica, op. cit., 226 ss.). Non<br />

condivisibile è l’opinione di A. Lanzi, L’obbligatorietà della legge italiana, op. cit., 79 s., secondo<br />

cui l’estromissione delle sanzioni interdittive in relazione ai reati societari si giustifica<br />

con esigenze di tutela dei soci di minoranza, che – essendo già stati danneggiati dal reato –<br />

verrebbero colpiti due volte in seguito all’applicazione delle sanzioni interdittive: in verità, la<br />

possibile lesione dei terzi innocenti è una delle obiezioni che tradizionalmente vengono mosse<br />

alla responsabilità penale degli enti, per cui non la si può abbracciare solo per alcuni reati<br />

e per altri no; per di più, la dottrina moderna ha già da tempo dimostrato che essa è priva di<br />

pregio, in quanto da un lato anche le pene inflitte alle persone fisiche hanno un effetto di


SAGGI E OPINIONI<br />

101<br />

strato in maniera incontrovertibile che l’unico modo efficace di combattere<br />

la criminalità delle imprese è di adottare un sistema sanzionatorio misto,<br />

che combini l’impiego di sanzioni di diversa natura (pecuniarie, interdittive,<br />

ripristinatorie, stigmatizzanti, ecc.)( 246 ).<br />

Per di più, la vocazione all’ineffettività dell’art. 25-ter risulta aggravata<br />

da altri due fattori: 1) l’infimo livello dei limiti edittali – in quanto calibrati<br />

sulla gravità insédelle singole fattispecie penali presupposto – che caratterizza<br />

le sanzioni pecuniarie previste per l’ente in relazione ai reati societari(<br />

247 ) (vizio che in verità contraddistingue anche i limiti edittali di cui<br />

agli artt. 24 e 25( 248 )), nonché la ridotta escursione tra minimo e massimo<br />

che impedisce ogni commisurazione da parte del giudice( 249 ); 2) la ‘‘depenalizzazione<br />

di fatto’’ dei reati societari realizzata con il d. lgs. n. 61/<br />

2002( 250 ) – impedendo a monte la configurabilità della responsabilità pe-<br />

rimbalzo su terzi innocenti (lavoratori, familiari, ecc.), che rappresenta una conseguenza inevitabile<br />

del ricorso al diritto penale, dall’altro lato, per i soci di minoranza gli effetti negativi<br />

prodotti dalle sanzioni interdittive rientrano nel rischio di impresa che essi si sono assunti<br />

entrando a far parte della società (cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 52; Id., Commento,<br />

op. cit., 144; E. Dolcini, Principi costituzionali, op. cit., 22; D. Pulitanó, op. ult.<br />

cit., 421 s.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 313). Nel tentativo di dare una giustificazione<br />

razionale alla scelta del legislatore si è altresì ipotizzato che l’esclusione delle sanzioni<br />

interdittive in relazione ai reati societari possa essere stata indotta dalla carente determinatezza<br />

che caratterizza i presupposti applicativi (rilevante entità del profitto e gravità delle<br />

carenze organizzative dell’ente) di tali misure: in tal senso cfr. F. Giunta, op. cit., 28.<br />

( 246 ) In argomento v. C. De Maglie, op. ult. cit., 34 ss., 337.<br />

( 247 ) Al riguardo si deve però tenere conto del fatto che la legge 28 dicembre 2005, n.<br />

262 di riforma del sistema di tutela del risparmio – oltre a inserire tra i reati societari per cui<br />

risponde l’ente la nuova fattispecie di omessa comunicazione del conflitto di interessi (art.<br />

2629-bis c.c.) – prevede, all’art. 39 comma 5, il raddoppio delle sanzioni pecuniarie di cui<br />

all’art. 25-ter.<br />

( 248 ) Lo rileva correttamente A. Carmona, op. ult. cit., 1011 ss.<br />

( 249 ) Cfr. C.E. Paliero, op. ult. cit., 60 s.; C. Piergallini, op. ult. cit., 107. Contra v.<br />

S. Putinati, La responsabilità, op. cit., 83 s., il quale non ritiene la sanzione pecuniaria una<br />

sanzione ‘‘manifesto’’, priva del contenuto affittivo necessario a svolgere una funzione di preventiva.<br />

( 250 ) Tale riforma è stata giustamente definita come «la riforma penale italiana che ha<br />

forse suscitato il maggior numero di critiche, dal dopoguerra ad oggi, sia tra i tecnici che<br />

nell’opinione pubblica» (C.E. Paliero, op. ult. cit., 47). Tra le tante voci critiche che si sono<br />

levate in dottrina nei confronti del d. lgs. n. 61/2002 cfr., a titolo meramente esemplificativo,<br />

A. Alessandri, La legge delega n. 366 del 2001: un congedo dal diritto penale societario, in<br />

Corr. giur., 2001, 1365 ss.; Id., Alcune considerazioni generali sulla riforma, in AA.VV., Il<br />

nuovo diritto penale delle società, op. cit., 3 ss.; A. Crespi, Le false comunicazioni sociali:<br />

una riforma faceta, inRiv. soc., 2001, 1365 ss.; Id., Il falso in bilancio e il pendolarismo delle<br />

coscienze, ivi, 2002, 449 ss.; L. Foffani, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale<br />

societario, inDir. pen. proc., 2001, 1197 ss.; F. Giunta, La riforma dei reati societari ai blocchi<br />

di partenza. Prima lettura del d. legisl. 11 aprile 2002, n. 61,inStudium Juris, 2002, 695 ss.<br />

e 833 ss.; G. Marinucci, Falso in bilancio: con la nuova legge avviata una depenalizzazione di<br />

fatto, inGuida al diritto, 2001, n. 45, 10 ss.; Id., ‘‘Depenalizzazione’’ del falso in bilancio con


102<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

nale in capo alle persone fisiche – renderà quasi sempre impossibile far<br />

‘‘scattare’’ la responsabilità amministrativa dell’ente( 251 ). La conseguenza<br />

è che il criminale d’impresa, che è il criminale razionale per eccellenza,<br />

tra un costo certo – rappresentato dall’adozione dei modelli organizzativi<br />

per prevenire i reati – ed un costo remoto e di lieve entità costituito dall’applicazione<br />

della sanzione pecuniaria, sceglierà senza ombra di dubbio la seconda<br />

strada( 252 ). Il legislatore è dunque riuscito nell’impresa di mortifi-<br />

l’avallo della SEC: ma è proprio così?,inDir. pen. proc., 2002, 137 ss.; A. Mereu, Il problema<br />

del ‘‘falso quantitativo’’ e del ‘‘falso qualitativo’’ nel falso in bilancio prima e dopo la riforma,in<br />

Il fisco, 2002, n. 47, 7514 ss.; C.E. Paliero, Nasce il sistema delle soglie, op. cit., 44 ss.; C.<br />

Pedrazzi, In memoria del ‘‘falso in bilancio’’, inRiv. soc., 2001, 1373 ss.; D. Pulitanó, Falso<br />

in bilancio: arretrare sui principi non contribuisce al libero mercato, inGuida al diritto,<br />

2001, n. 39, 9 ss.; S. Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione<br />

contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, inDir. pen. proc., 2002, 676 ss.; B.<br />

Tinti, La legge ‘‘forza ladri’’, inMicroMega, 2001, n. 4, 173 ss.; R. Zannotti, False comunicazioni<br />

sociali: reato uno e trino a valenza patrimoniale, inDir. e Giust., 2001, n. 37, 21 ss.;<br />

Id., Il futuro del diritto penale societario nella bozza del decreto legislativo, ivi, 2002, n. 1, 16<br />

ss.; Id., Il falso in bilancio è delitto quando è «dannoso», inGuida normativa – Il Sole 24 Ore,<br />

Dossier mensile su La riforma dei reati societari, maggio 2002, n. 5, 85 ss. Tra i pochi autori<br />

favorevoli alla riforma cfr. I. Caraccioli, Una riforma in linea con la realtà economica, in<br />

AA.VV., La tavola rotonda, inLeg. pen., 2002, 531 ss.; A. Lanzi, La riforma sceglie una risposta<br />

‘‘civile’’ contro l’uso distorto dei reati societari, inGuida al diritto, 2002, n. 16, 9 ss.; C.<br />

Nordio, Novella necessaria e doverosa per riportare certezza nel diritto, ivi, 2001, n. 45, 12<br />

ss. Autorevole dottrina ha condivisibilmente osservato che la riforma dei reati societari del<br />

2002 rientra nel fenomeno delle c.d. leggi penali ad personam, cioè di quelle norme penali<br />

solo formalmente generali e astratte, ma in realtà modellate sugli specifici casi giudiziari di<br />

questo o di quel personaggio eccellente al fine di ottenere l’impunità per fatti pregressi e<br />

per fatti futuri, fenomeno che ha tristemente contrassegnato la XIV legislatura (sul tema<br />

v. le illuminati considerazioni di E. Dolcini, Leggi penali ‘ad personam‘, riserva di legge<br />

e principio costituzionale di eguaglianza, inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, 50 ss., spec. 56<br />

ss.). Peraltro, deve rilevarsi come la legge 28 dicembre 2005, n. 262 – approvata dopo quasi<br />

due anni di gestazione schizofrenica, sotto la spinta emotiva dei gravi scandali finanziari verificatisi<br />

di recente in Italia – «ha apportato nei confronti del diritto penale societario una<br />

serie di modifiche marginali, comunque non idonee a mutare la filosofia di fondo impressa<br />

al sistema dalla riforma del 2002» (così R. Zannotti, Il nuovo diritto penale dell’economia -<br />

Reati societari e reati in materia di mercato finanziario, Milano, 2006, in corso di pubblicazione,<br />

pagina 98 del dattiloscritto).<br />

( 251 ) In tal senso v. C.E. Paliero, op. ult. cit., 63 s.; A. Alessandri, op. ult. cit., 559<br />

s.: «la forte selettività delle figure ora introdotte, riservate a ipotesi di elevatissima gravità edi<br />

accertamento assai complesso, e l’esclusione dall’area del penalmente rilevante di ipotesi in<br />

precedenza pacificamente ricomprese nella vecchia norma, con un consistente grado di disvalore,<br />

importano che la responsabilità degli enti sarà in ogni casi assai rara, nella prassi,<br />

ed andrà a colpire figure che erano già al vertice della gravità, divenendo un ‘‘costo’’ per<br />

le operazioni societarie più spericolate, non uno stimolo per una continuativa, quotidiana<br />

cultura della legalità degli affari»; G. De Francesco, La responsabilità della societas: un crocevia<br />

di problematiche per un nuovo ‘‘modello’’ repressivo, in AA.VV., L’ultima sfida della politica<br />

criminale, op. cit., 377; Id., Disciplina penale societaria e responsabilità degli enti: le occasioni<br />

perdute della politica criminale, inDir. pen. proc., 2003, 930.<br />

( 252 ) Così, quasi testualmente, C.E. Paliero, op. ult. cit., 64.


SAGGI E OPINIONI<br />

103<br />

care ogni funzione preventiva della responsabilità amministrativa degli enti<br />

proprio nel settore dei reati societari, che rappresenta uno dei suoi campi<br />

di applicazione più congeniali.<br />

L’art. 3 della legge 14 gennaio 2003, n. 7, ha inserito l’art. 25-quater,<br />

ampliando la platea dei reati-presupposto ai delitti con finalità di terrorismo<br />

o di eversione dell’ordine democratico previsti dal codice penale o<br />

da leggi speciali e ai delitti diversi da questi, posti in essere in violazione<br />

di quanto previsto dall’art. 2 della Convenzione internazionale per la repressione<br />

del finanziamento al terrorismo adottata a New York il 9 dicembre<br />

1999( 253 ). Oltre a sanzioni pecuniarie, nei confronti dell’ente sono<br />

disposte sanzioni interdittive per una durata non inferiore ad un anno,<br />

mentre si applicherà l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività qualora<br />

si accerti che l’ente o una sua unità organizzativa vengano stabilmente<br />

utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione<br />

dei reati suddetti.<br />

Palese è la violazione del principio di legalità, sotto il profilo della tassatività<br />

e determinatezza della fattispecie, che caratterizza la nuova normativa.<br />

Discostandosi dal metodo seguito nel d. lgs. n. 231/2001, il legislatore<br />

non ha elencato le singole fattispecie incriminatrici, ma ha fatto ricorso ad<br />

una clausola generale potenzialmente in grado di ricomprendere qualunque<br />

reato purché aggravato dalla finalità di terrorismo o di eversione,<br />

con inevitabili ripercussioni sulla capacità dell’ente collettivo di rispettare<br />

il dettato normativo, in particolare per quanto riguarda la predisposizione<br />

di un adeguato modello organizzativo( 254 ). Così, al fine di evitare possibili<br />

censure di indeterminatezza da parte della Corte costituzionale, si è suggerito<br />

di interpretare la disposizione come riferibile ai delitti che prevedono<br />

la finalità di terrorismo o di eversione come elemento costitutivo della fattispecie,<br />

escludendo i delitti ‘‘comuni’’ semplicemente aggravati dall’art. 1<br />

della legge n. 15/1980( 255 ).<br />

La critica di fondo che deve muoversi alla disciplina dell’art. 25quater<br />

verte però sull’assoluta inverosimiglianza dell’ipotesi che un sog-<br />

( 253 ) Questa seconda categoria di reati viene divisa dal paragrafo 1 dell’art. 2 della<br />

Convenzione in tre gruppi: a) reati contemplati nelle convenzioni internazionali indicate<br />

in allegato alla Convenzione e riguardanti, in generale, crimini in materia di sicurezza aerea<br />

e aeroportuale, presa di ostaggi, persone internazionalmente protette, navigazione marittima,<br />

piattaforme fisse e uso di esplosivo; b) reati di omicidio o lesioni personali rivolti contro «vittime<br />

innocenti» e finalizzati a intimidire la popolazione o a costringere un Governo o uno<br />

Stato a fare o non fare qualcosa; c) la somministrazione o la raccolta di fondi destinati a finanziare<br />

l’esecuzione degli atti terroristici sopra indicati.<br />

( 254 ) Cfr. G. Amarelli, La responsabilità, op. cit., 50 s.; M. Leccese, Responsabilità<br />

delle persone giuridiche e delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico<br />

(art. 25 quater d. lgs. n. 231 del 2001), inRiv. trim. dir. pen. ec., 2003, 1193 ss.<br />

( 255 ) Cfr. M. Leccese, op. cit., 1195.


104<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

getto apicale o un sottoposto commettano un delitto con finalità di terrorismo<br />

o di eversione nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica:<br />

la realtà del fenomeno terroristico, infatti, dimostra che le società<br />

commerciali forniscono alle organizzazioni terroristiche contributi sganciati<br />

da qualunque interesse o vantaggio per le stesse, se non addirittura<br />

dannosi per l’ente( 256 ), in virtù del fatto che la criminalità terroristica ed<br />

eversiva è «radicalmente diversa da quella economica poiché basata su<br />

fini ‘‘politici’’ e ‘‘antisociali’’ tendenzialmente incompatibili con quelli<br />

di lucro»( 257 ).<br />

Ancora, l’art. 4, comma 1, della legge 11 agosto 2003, n. 228, introducendo<br />

l’art. 25-quinquies, ha esteso il catalogo dei reati ai delitti contro la<br />

personalità individuale disciplinati nella Sezione I del Capo III del Titolo<br />

XII del codice penale (riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi,<br />

alienazione e acquisto di schiavi, prostituzione minorile, pornografia minorile<br />

e detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo<br />

sfruttamento della prostituzione minorile)( 258 ), prevedendo a carico dell’ente<br />

sanzioni pecuniarie e interdittive.<br />

Deve osservarsi che l’inclusione fra i reati-presupposto dei delitti con<br />

( 256 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1016, che parla altresì di «inverosimiglianza criminologica<br />

della conversione al terrorismo internazionale di un’azienda normale»; M. Leccese,<br />

op. cit., 1204 s., il quale cita il caso dell’immigrato algerino titolare di un’impresa commerciale<br />

in Italia che, aderendo alle rivendicazioni del FIS, distrae, sia pure saltuariamente,<br />

una parte del reddito d’impresa per sostenere i terroristi algerini; quello del commerciante (o<br />

fabbricante) di armi italiano simpatizzante del PKK che decida di vendere sottocosto le armi<br />

che commercializza tramite la società a cui appartiene, pur sapendo che dette armi saranno<br />

utilizzate per compiere attentati terroristici in Turchia; e quello del dirigente d’azienda che<br />

pone a disposizione di un gruppo terroristico l’appartamento che la propria società normalmente<br />

adibisce ad uso foresteria per i clienti stranieri, pur essendo consapevole che esso verrà<br />

utilizzato per custodire ostaggi.<br />

( 257 ) M. Leccese, op. cit., 1208. L’autore considera comunque possibili due ipotesi<br />

applicative della normativa in questione: 1) l’impresa intrinsecamente illecita, in cui lo scopo<br />

commerciale dissimula quello unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di<br />

reati con finalità di terrorismo o di eversione; 2) la condotta di finanziamento di un’associazione<br />

terroristica o eversiva di cui all’art. 270-bis c.p.: si pensi, per esempio, al direttore di<br />

banca che concede un prestito o compie operazioni di trasferimento titoli in favore di un’organizzazione<br />

terroristica e che, pur sapendo che le utilità derivanti dalle operazioni che compie<br />

contribuiranno a rafforzare l’organizzazione terroristica (verso cui nutre sentimenti di indifferenza),<br />

agisce ugualmente perché interessato ad allargare il portafoglio clienti della propria<br />

filiale e a mostrare ai suoi superiori le proprie capacità professionali, in vista di una<br />

futura promozione.<br />

( 258 ) Anche con riferimento a queste fattispecie si è messa in evidenza la difficoltà di<br />

configurare una connessione fra l’attività illecita – che dovrà necessariamente fuoriuscire dai<br />

limiti dell’oggetto sociale – e l’interesse o il vantaggio della società, con l’unica eccezione dell’ipotesi<br />

in cui i costi sostenuti e gli utili conseguiti siano imputati al conto economico della<br />

società (cfr. V. Salafia, op. cit., 1434 s., che individua una serie di attività in cui i reati de<br />

quibus potrebbero realizzarsi: la riduzione in schiavitù, così come la tratta e l’alienazione ed


SAGGI E OPINIONI<br />

105<br />

finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e dei delitti<br />

contro la personalità individuale, anche se conseguenza inevitabile dell’adesione<br />

del nostro paese a convenzioni internazionali, determina un’eterogeneità<br />

malsana( 259 ), che fa deviare la responsabilità amministrativa da reato<br />

degli enti dal suo ambito di applicazione naturale, rappresentato dalla criminalità<br />

di impresa, snaturando lo spirito della nuova disciplina( 260 ). Allo<br />

stesso tempo, permangono gravi lacune all’interno del catalogo dei reati,<br />

che dovrebbe essere esteso quantomeno ai reati originariamente contemplati<br />

dalla legge delega, ai reati tributari, alle fattispecie di spionaggio industriale<br />

e alle truffe in danno dei consumatori( 261 ), ai reati di abusivismo in<br />

funzione antiriciclaggio( 262 ), nonché ai reati previsti dalla legge sul trattamento<br />

dei dati personali( 263 ). Nel complesso, l’attuale assetto del catalogo<br />

dei reati è la principale (se non unica) causa della sporadica applicazione<br />

giurisprudenziale che la responsabilità amministrativa da reato degli enti<br />

ha avuto a quasi cinque anni dall’entrata in vigore del d. lgs. n. 231/<br />

2001( 264 ).<br />

acquisto di schiavi, potrebbe riguardare le società di lavoro interinale; l’induzione alla prostituzione<br />

di minori degli anni diciotto è ipotizzabile in seno a società che impiegano o addestrano<br />

minorenni o svolgono attività a favore di essi, come le società cinematografiche,<br />

quelle che addestrano alla danza o erogano terapie fisioterapiche; infine, la pornografia minorile<br />

potrebbe svilupparsi in società o enti cinematografici o editoriali. Secondo A. Rossi,<br />

op. cit., 56, le iniziative turistiche finalizzate allo sfruttamento della prostituzione minorile<br />

potrebbero rientrare tra le attività imprenditoriali dei tour operators).<br />

( 259 ) Il rischio di un allargamento irrazionale del catalogo dei reati come conseguenza<br />

dell’adesione a convenzioni internazionali era stato segnalato da M. Miedico, I reati che determinano<br />

la responsabilità amministrativa dell’ente, in AA.VV., La responsabilità amministrativa<br />

degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 148: «Sussiste quindi il pericolo<br />

che (...) il nostro legislatore realizzi un’estensione irragionevole dell’ambito di operatività della<br />

nuova disciplina della responsabilità degli enti, per ottemperare ai numerosissimi impegni<br />

presi in sede internazionale – ove peraltro tale responsabilità può essere prevista non in base<br />

ad una vera e propria scelta razionale ma per effetto di ‘‘clausole di stile’’ adottate all’interno<br />

delle Convenzioni internazionali – senza che invece si sia riconosciuta preliminarmente tale<br />

responsabilità nelle ipotesi più frequenti e più gravi di criminalità d’impresa»; L. Stortoni,<br />

op. ult. cit., 70.<br />

( 260 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1015, che ravvisa «un percorso di deviazione dalla<br />

logica ispiratrice» del sistema di responsabilità amministrativa degli enti iniziato con l’art. 25quater<br />

e proseguito con l’art. 25-quinquies; A. Rossi, op. cit., 55s.<br />

( 261 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1004.<br />

( 262 ) Cfr. R. Zannotti, La tutela dell’accesso al mercato nella prospettiva della lotta<br />

contro il riciclaggio: il caso dell’abusivismo, inInd. pen., 2003, 948 s., e in Riv. Guardia di<br />

Finanza, 2004, n. 1, 62 ss.: «L’estensione della responsabilità amministrativa anche nei confronti<br />

delle società che operano abusivamente rivestirebbe indubbiamente una funzione di<br />

enforcement nei confronti della tutela del mercato, in quanto renderebbe la persona giuridica<br />

responsabile in via diretta dell’operato dei suoi amministratori».<br />

( 263 ) Cfr. M. Miedico, op. cit., 149.<br />

( 264 ) Le poche applicazioni giurisprudenziali, a quanto consta, sono per ora costituite<br />

pressoché esclusivamente da sentenze di patteggiamento e da ordinanze che dispongono o


106<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Peraltro, deve segnalarsi come negli ultimi tempi il quadro complessivo<br />

del catalogo dei reati si sia ulteriormente arricchito e complicato,<br />

sempre sulla spinta del diritto internazionale e del diritto comunitario.<br />

In primo luogo l’art. 9 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria<br />

2004), nel recepire la direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo<br />

e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate<br />

e alla manipolazione del mercato, nonché agli abusi di mercato<br />

(c.d. direttiva sul market abuse), e delle direttive di attuazione della Commissione<br />

2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE, ha creato una nuova<br />

figura di responsabilità amministrativa degli enti (emittenti strumenti finanziari<br />

ammessi, o per i quali sia stata presentata richiesta di ammissione, alle<br />

negoziazioni in un mercato regolamentato italiano o di altro paese U.E.)<br />

per i nuovi illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate (insider<br />

trading) e di manipolazione del mercato (art. 187-quinquies d. lgs. n.<br />

58/1998), le cui condotte sono pressoché coincidenti con quelle delle parallele<br />

figure di reato( 265 ) (nuovi artt. 184 e 185 d. lgs. n. 58/1998): si crea<br />

dunque un’anomala forma di responsabilità amministrativa dell’ente – il<br />

quale è responsabile del pagamento di una somma pari all’importo della<br />

sanzione amministrativa irrogata alla persona fisica – derivante da un illecito<br />

amministrativo, che quasi sempre è anche illecito penale, commesso<br />

nel suo interesse o a suo vantaggio( 266 ), la cui procedura sanzionatoria è<br />

negano l’applicazione di misure cautelari: cfr. Trib. Pordenone, Ufficio G.U.P., 4 novembre<br />

2002, in Dir. prat. soc., 2003, n. 11, 79 ss., con commento di F. Foglia Manzillo, einDir.<br />

comm. int., 2003, 193 ss., con nota di G. Capecchi, Funzione rieducatrice della pena e responsabilità<br />

penale delle persone giuridiche; Trib. Salerno, Ufficio G.I.P., Ord. 28 marzo<br />

2003, in Dir. prat. soc., 2004, n. 23, 77 ss., con commento di I. Di Domenico; Trib. Roma,<br />

Ufficio G.I.P., 7 marzo 2003, in www.reatisocietari.it; Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4<br />

aprile 2003, cit.; Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord. 27 aprile 2004, cit.; Trib. Milano, Ufficio<br />

G.I.P., Ord. 9 novembre 2004, cit.; Trib. Milano, Sezione XI riesame, 20 dicembre 2004,<br />

cit.; Trib. Torino, Sezione G.U.P., Ord. 10 febbraio 2005, cit.<br />

( 265 ) Deve precisarsi che tra il reato di abuso di informazione privilegiate (insider trading)<br />

ed il parallelo illecito amministrativo vi è una coincidenza totale della condotta, mentre<br />

la sovrapposizione tra illecito penale e illecito amministrativo è solo parziale per la manipolazione<br />

del mercato. Incidentalmente si rileva come l’aver qualificato condotte pressoché<br />

coincidenti sia come illecito amministrativo che come illecito penale costituisce una macroscopica<br />

violazione del principio di sussidiarietà del diritto penale, in contrasto con le indicazioni<br />

contenute nella circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri del 19 dicembre<br />

1983 in tema di criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative<br />

e con i principi in materia di concorso tra sanzioni penali e sanzioni amministrative (art. 9<br />

legge 24 novembre 1981, n. 689).<br />

( 266 ) Che ci troviamo di fronte ad una nuova forma di responsabilità dell’ente pare altresì<br />

confermato dalla previsione di cui al comma 4 del nuovo art. 187-quinquies d. lgs. n. 58/<br />

1998: «In relazione agli illeciti di cui al comma 1 si applicano, in quanto compatibili, gli articoli<br />

6, 7, 8 e 12 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231...». Ricalcando il meccanismo<br />

di cui all’art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 231/2001, l’art. 187-quinquies, comma 2, ha previsto


SAGGI E OPINIONI<br />

107<br />

affidata alla Consob (art. 187-septies d. lgs. n. 58/1998). A fianco a tale<br />

forma di responsabilità si introduce inoltre nel d. lgs. n. 231/2001 l’articolo<br />

25-sexies, che amplia il catalogo dei reati alle fattispecie incriminatrici di<br />

abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato( 267 ), determinando<br />

così a carico dell’ente una duplicazione di responsabilità e procedimenti<br />

sanzionatori in relazione allo stesso fatto( 268 ). In questa novella il<br />

legislatore si è altresì orientato a perseverare nella scelta nefasta, già compiuta<br />

per i reati societari, di escludere le sanzioni interdittive nei confronti<br />

degli enti.<br />

In secondo luogo l’art. 8 della legge 9 gennaio 2006, n. 7 ha esteso la<br />

responsabilità da reato degli enti – tramite l’inserimento di un nuovo art.<br />

25-quater 1( 269 ) nel d. lgs. n. 231/2001 – alla nuova fattispecie incriminatrice<br />

di cui all’art. 583-bis c.p., che punisce le pratiche di mutilazione degli<br />

organi genitali femminili.<br />

Infine la legge 16 marzo 2006, n. 146 – che ha finalmente ratificato e<br />

dato esecuzione nel nostro ordinamento alla Convenzione ONU, nonché ai<br />

relativi Protocolli, contro il crimine organizzato transnazionale, adottati<br />

dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001 – ha<br />

previsto la responsabilità amministrativa da reato degli enti per una serie<br />

di reati tipici della criminalità organizzata( 270 ), laddove essi presentino il<br />

carattere della transnazionalità così come definito nell’art. 3 della legge.<br />

un’esimente per il caso in cui l’ente – su cui dunque grava l’onere della prova – dimostri che<br />

la persona fisica ha agito «esclusivamente nell’interesse proprio o di terzi».<br />

( 267 ) Sull’argomento v. G. Paolozzi, Modelli atipici a confronto. Nuovi schemi per<br />

l’accertamento della responsabilità degli enti (II), in Dir. pen. proc., 2006, 239 ss., nonché l’approfondito<br />

contributo di F. Santi, La responsabilità delle «persone giuridiche» per illeciti penali<br />

e per illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del<br />

mercato, in Banca, borsa e titoli cred., 2006, I, 81 ss.<br />

( 268 ) In senso critico verso tale sovrapposizione di responsabilità a carico dell’ente cfr.<br />

S. Bartolomucci, Market abuse e «le» responsabilità amministrative degli emittenti, in Le<br />

soc., 2005, 924; M. Bellacosa, ‘‘Insider trading’’: manipolazione, abusi di mercato e responsabilità,<br />

in Dir. prat. soc., 2005, n. 11, 26; R. Zannotti, Il nuovo diritto penale dell’economia,<br />

op. cit., pagina 359 del dattiloscritto, il quale parla di «incomprensibile accanimento del legislatore<br />

che, per quanto motivato dalla gravità dei fatti di abuso di informazioni privilegiate,<br />

appare comunque sproporzionato e vessatorio».<br />

( 269 ) La nuova disposizione prevede che la sanzione pecuniaria da 300 a 700 quote e le<br />

sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, d. lgs. n. 231/2001 si applicano all’ente «nella<br />

cui struttura è commesso il delitto»: un’interpretazione rigidamente letterale del dato normativo<br />

potrebbe indurre a ritenere non necessario il requisito dell’interesse o del vantaggio, essendo<br />

sufficiente il dato fattuale del compimento della mutilazione all’interno della struttura<br />

dell’ente, con la conseguenza che ci troveremmo di fronte ad un’ipotesi di vera e propria<br />

responsabilità oggettiva.<br />

( 270 ) L’art. 8 della legge 16 marzo 2006, n. 146 ha introdotto la responsabilità amministrativa<br />

degli enti, prevedendo l’applicazione della sanzione pecuniaria e delle sanzioni interdittive,<br />

per i seguenti reati: associazione per delinquere (art. 416 c.p.); associazione per<br />

delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.); associazione per delinquere finalizzata al


108<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Appare singolare la non inclusione dei suddetti reati nel d. lgs. n. 231/<br />

2001, mentre per il resto vi è un rinvio alle disposizioni del citato testo normativo.<br />

Questi recenti ed innumerevoli ampliamenti del catalogo dei reati, unitamente<br />

alle ulteriori integrazioni che si determineranno in seguito alle sollecitazioni<br />

comunitarie( 271 ), dovrebbero contribuire ad incrementare l’applicazione<br />

pratica della disciplina sulla responsabilità amministrativa da<br />

reato degli enti.<br />

Andrea Mereu<br />

contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43); associazione<br />

finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.P.R. 9<br />

ottobre 1990, n. 309); riciclaggio (art. 648-bis c.p.); impiego di denaro, beni o utilità di provenienza<br />

illecita (art. 648-ter c.p.); reati concernenti il traffico dei migranti (art. 12 commi 3,<br />

3-bis, e-ter, e 5 d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286); art. 377-bis c.p. (induzione a non rendere dichiarazioni<br />

o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria); art. 378 c.p. (favoreggiamento<br />

personale).<br />

( 271 ) Il riferimento è alle seguenti decisioni quadro del Consiglio dell’U.E.: 2003/80/<br />

GAI del 27 gennaio 2003 sulla tutela ambientale (sul tema v. M. Arena-M. Pansarella,<br />

Verso l’(auspicabile) introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche<br />

in relazione ai reati ambientali, in Temi romana, 2003, 72 ss.); 2003/568/GAI in tema di lotta<br />

alla corruzione nell’esercizio di attività professionali provate; 2004/757/GAI del 25 ottobre<br />

2004 in tema di traffico di stupefacenti (in argomento cfr. M. Arena, Traffico di stupefacenti<br />

e responsabilità delle persone giuridiche, 15 marzo 2005, in www.reatisocietari.it); 2005/222/<br />

GAI del 24 febbraio 2005 su l’accesso e l’influenza illecita su sistemi e dati informatici.


SAGGI E OPINIONI<br />

SILENZIO COLPEVOLE, SILENZIO INNOCENTE.<br />

L’INTERROGATORIO DELL’IMPUTATO DA MEZZO DI PROVA<br />

A STRUMENTO DI DIFESA NELL’ESPERIENZA<br />

GIURIDICA ITALIANA<br />

109<br />

Sommario: 1. Dopo la riforma del 2001: vicende nuove dal sapore antico. – 2. L’antefatto:<br />

ad eruendam veritatem. – 3. La ‘terza via’: la soluzione italiana del codice del 1807. – 4.<br />

Nella legislazione postunitaria: da indizio di colpevolezza a strumento di difesa. – 5. La<br />

storia infinita.<br />

1. Dopo la riforma del 2001: vicende nuove dal sapore antico. – Il processo<br />

è, per eccellenza, luogo di parola. Essa riveste un ruolo da protagonista<br />

non soltanto nel contraddittorio, momento di massima drammaticità,<br />

quasi ‘rappresentazione teatrale’ di un ‘diritto che va in scena’, ma anche<br />

gli atti, le carte, i verbali, nella loro apparente inerzia, ‘parlano’. Si può affermare<br />

altrettanto per il silenzio dell’imputato?<br />

Il ‘silenzio giuridico’ non è incolore, né neutro; non è inazione, non si<br />

sostanzia in un semplice non fare, in un atteggiamento passivo contrapposto<br />

all’agire di chi interroga. «Il silenzio è un fatto, un accadimento e<br />

il suo contenuto sarà più o meno negativo a seconda dell’interpretazione<br />

che si potrà o si dovrà dare a tale comportamento»( 1 ). L’affermazione<br />

qui riprodotta implicitamente presuppone e accetta come vera l’idea che<br />

il silenzio abbia forma negativa e contenuto positivo; esprima in sé un significato,<br />

non certo né univoco, ma, al contrario, correlato all’interpretazione<br />

offertane.<br />

Come è stato osservato, chi tace opera una frattura tra comportamento<br />

esteriore e contenuto interiore; rifiuta l’assunzione di un impegno personale<br />

(quello che deriva dalla parola, ma ancor di più dalla risposta ad<br />

una domanda) e addossa il compito di sanare e di ricucire lo strappo tra<br />

forma e sostanza alla persona nei cui confronti oppone il silenzio( 2 ). C’è<br />

l’atto di chi tace (e di quest’unica scelta il silente si assume la responsabilità,<br />

( 1 ) M.S. Goretti, Il problema giuridico del silenzio, Milano 1982, p. 12.<br />

( 2 ) M.S. Goretti, Il problema cit., p. 22.


110<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

esentandosene per ciò che concerne il valore attribuito al suo silenzio) e<br />

l’atto di chi interpreta (chiamato a riempire di significato lo spazio vuoto<br />

creato dall’assenza della parola).<br />

Nel rito processuale le conseguenze del silenzio sono predeterminate<br />

dalla legge. E questo può condurci a sostenere che lo stesso valore di tale<br />

comportamento (colpevole o innocente) sia stato rimesso nel tempo ad una<br />

determinazione a fortiori della legge (o della prassi)( 3 ), a prescindere dall’eventuale<br />

corrispondenza tra il significato giuridico ad esso attribuito (verità<br />

processuale) e il suo significato reale (verità materiale)( 4 ): sempre che si<br />

ritenga possibile, anche solo in via teorica, una simile distinzione.<br />

La questione del silenzio dell’imputato nel processo penale si è proposta<br />

quasi ciclicamente all’attenzione dei giuristi. Per i processualpenalisti,<br />

in particolare, essa rappresenta una sorta di ‘croce e delizia’.<br />

Il tema torna oggi ad essere di estrema attualità. Dopo la scossa generata<br />

dalla legge 5 dicembre 1969 n. 932, che, per la prima volta in modo<br />

esplicito( 5 ), ha introdotto nel nostro ordinamento (all’art. 78, 3º comma<br />

( 3 ) A. LaTorre, Silenzio (dir. priv.), inEnciclopedia del diritto, XLII, Milano 1990, p.<br />

545.<br />

( 4 ) Il significato della ‘verità’ all’interno del processo è un problema centrale, così come<br />

lo è la possibilità o meno di distinguere tra una verità materiale oggettiva ed una processuale.<br />

Sul punto mi permetto di rinviare al mio Il diabolico intreccio. Reo convinto e indizi<br />

indubitati nel commento di Bartolomeo da Saliceto (C. 4.19.25): alle radici di un problema,<br />

in ‘Panta rei’. Studi dedicati a Manlio Bellomo, a cura di O. Condorelli, t. II, Roma<br />

2004, pp. 387-8 e relative ntt.; si veda L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo<br />

penale, Roma-Bari 1989, pp. 23-4 e 40-1; G. Ubertis, La ricerca della verità giudiziale, inLa<br />

conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano 1992, pp. 1-3; Id., La<br />

prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino 1995, pp. 1-7; P. Comanducci, La<br />

motivazioni in fatto, inLa conoscenza del fatto cit., pp. 237-9; P. Ferrua, Anamorfosi del<br />

processo accusatorio, inId., Studi sul processo penale, II, Torino 1992, pp. 170-1; M. Taruffo,<br />

La prova dei fatti giuridici, inTrattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu –<br />

F. Messineo, continuato da L. Mengoni, III, 2, 1, Milano 1992, pp. 152-6. Da ultimo, efficace<br />

e suggestiva la ricostruzione sui diversi significati di ‘verità’ operata da O. Mazza,<br />

L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, inTrattato di procedura penale,<br />

diretto da G. Ubertis e G.P. Voena, 7, 1, Milano 2004, pp. 10-21. Donà ammoniva sull’esagerata<br />

rilevanza data alla ricerca della verità, reale o materiale, nel procedimento penale,<br />

contrapposto a quello civile dominato invece dal principio della verità formale: «la verità non<br />

può essere che una, ai fini della giustizia», secondo l’autore (G. Dona’, Il silenzio nella teoria<br />

delle prove giudiziali, Torino 1929, p. 61). Respinge, invece, la dottrina secondo cui lo scopo<br />

del processo sarebbe la ricerca e la scoperta della verità materiale G. Sabatini, Principi di<br />

diritto processuale penale italiano, Città di Castello 1931, pp. 38-9, di cui sostenitore era U.<br />

Ferrari, La verità penale e la sua ricerca nel diritto processuale penale italiano, Milano 1927.<br />

( 5 ) In tali termini si esprime Vassalli, il quale sostiene che la consacrazione del canone<br />

nemo tenetur se detegere era rimasto fino ad allora implicito nel nostro ordinamento. La legge<br />

del ’69 assumeva quindi per la prima volta questo principio (dopo i tentativi esperiti ad<br />

inizio secolo dal codice di Finocchiaro-Aprile) come un diritto fondamentale dell’imputato e<br />

dell’indiziato (G. Vassalli, Modificazioni al c.p.p. in merito alle indagini preliminari, al di-


SAGGI E OPINIONI<br />

111<br />

del c.p.p. del 1930) l’obbligo per l’autorità procedente di avvertire l’imputato(<br />

6 ), prima dell’inizio dell’interrogatorio, della possibilità di avvalersi<br />

della facoltà di non rispondere (attuando il riconoscimento della difesa<br />

quale diritto inviolabile così come sancito dall’art. 24, 2º comma della Costituzione)(<br />

7 ), una nuova ‘impennata’ di interesse si è avuta in seguito alla<br />

ritto di difesa, all’avviso di procedimento ed alla nomina del difensore, inRiv. it. di dir. e proc.<br />

penale, 1969, p. 927).<br />

( 6 ) La dialettica del giudizio impone che all’esistenza di un’accusa faccia da contraltare<br />

un diritto alla difesa, che è quello che «meglio caratterizza la posizione stessa dell’imputato<br />

all’interno del processo penale» (O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p.<br />

42), intendendosi perciò l’espressione ‘imputato’ in senso lato e atecnico, secondo una valutazione<br />

comunemente accolta, comprensiva del concetto di ‘accusato’, ‘indagato’, ‘inquisito’<br />

ecc. Sul punto cfr. M. Chiavario, Giudice, parti e altri personaggi sulla scena del nuovo processo<br />

penale, inCommento al nuovo codice di procedura penale, Torino 1989, I, p. 383; E.<br />

Marzaduri, Imputato e imputazione,inDigesto italiano, IV ed., Sez. Discipline penalisitiche,<br />

vol. VI, Torino 1992, pp. 279 e 283; G. Ubertis, La previsione del giusto processo secondo la<br />

‘‘Commissione bicamerale’’, inId., Argomenti di procedura penale, Milano 2003, pp. 36-8;<br />

G.P. Voena, Soggetti, inCompendio di procedura penale, diretto da G. Conso –V.Grevi,<br />

Padova 2003, pp. 90-6. Vale la pena di ricordare che, come si vedrà più avanti, nel passato<br />

per lungo tempo l’imputato era designato dalle fonti con il termine di reo. Addirittura il pavese<br />

Giacomo Maria Anfossi, indotto a scrivere una proposta di riforma del diritto e della<br />

procedura penale dai quarant’anni trascorsi in magistratura in cui «troppe ne vidi e ne passai»,<br />

prevedeva all’art. 7 del suo progetto di introdurre in via normativa una diversa nomenclatura<br />

definitoria. Il susseguirsi delle fasi processuali influiva, secondo l’Anfossi, sulla relativa<br />

denominazione adottabile per definire il soggetto in causa. Si doveva chiamare reo sospetto<br />

colui contro il quale, per mancanza di indizi legali, non era possibile aprire<br />

l’istruzione; l’espressione inquisito reo indicava colui contro il quale l’inquisizione era ‘deliberata’<br />

e reo condannato o assoluto chi era giudicato colpevole o innocente. Di conseguenza<br />

anche gli esami, a cui i ‘rei’ erano sottoposti, ricevevano una distinta appellazione: si dicevano<br />

interrogatori gli esami del reo sospetto e costituti quelli del reo inquisito (G.M. Anfossi,<br />

Studio e prime idee per servire alla compilazione di un nuovo codice di procedura criminale,<br />

Milano 1838, art. 7, pp. 254-5). Sul punto si veda anche S. Graziano, La difesa penale nell’istruttoria<br />

in rapporto alla scienza e al nuovo codice di procedura penale, Bologna 1913, p. 39.<br />

Scrive Carrara che il temine reo, la cui etimologia discende da reor, putare cioè supporre, sta<br />

ad indicare lo stato di accusa, ossia quella posizione intermedia fra l’innocenza e la condanna,<br />

in cui il soggetto si sospetta colpevole, ma non è ancora riconosciuto tale. La sua portata definitoria<br />

è perciò ampia, nel senso che designa qualunque persona nei cui confronti si dirige<br />

una domanda giudiziale, chiarendo che la parola reo ha nel linguaggio giuridico un significato<br />

assai diverso da quello in cui si adopera comunemente: per il ‘volgo’ il reo è colpevole,<br />

per il giurista può essere innocente: «ed è grave errore quello di chi, per una prevenzione<br />

funesta, osi confondere il senso giuridico di questa denominazione col suo volgare significato»<br />

(F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, vol. II, Firenze<br />

1902, § 870, pp. 354-5). Conferisce all’espressione un diverso significato Sbriccoli, per il<br />

quale l’accusato è reus, ossia un oggetto (reus da res) «o una figura ficta, praticamente senza<br />

voce, che nel combattimento processuale ha contro tutti i protagonisti» (M. Sbriccoli,<br />

«Tormentum idest torquere mentem». Processo inquisitorio e interrogatorio per tortura nell’Italia<br />

comunale, inLa parola all’accusato, Palermo 1991, p. 23).<br />

( 7 ) Sull’art. 24 della Costituzione e il suo riconoscimento della difesa come diritto inviolabile<br />

dell’uomo, si veda, tra i tanti, A. Carli Gardino, Il diritto alla difesa nell’istrutto-


112<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

legge di revisione costituzionale del 1999, che ha introdotto i principi del<br />

‘giusto processo’ (formula, forse, infelice, quasi a presupporre per l’addietro<br />

un processo ingiusto).<br />

L’art. 111 della Costituzione, modificato secondo le nuove direttive,<br />

nei commi 2º e 4º ha elevato il contraddittorio a valore cardine dell’esercizio<br />

della giurisdizione penale, sancendone una doppia valenza: da un lato<br />

esso si presenta quale mezzo di tutela della posizione del singolo; dall’altro<br />

è strumento di ricostruzione della verità giudiziale. Si è cercato così di bilanciare<br />

il significato del contraddittorio quale metodo di conoscenza con<br />

quello di garanzia individuale( 8 ).<br />

Se questo profilo ha sollevato qualche perplessità in ordine alla possibile<br />

e concreta conciliazione di termini tra loro eterogenei (aspetto soggettivo<br />

ed oggettivo del contraddittorio), ulteriori quesiti ermeneutici sono<br />

stati posti dal 3º comma dell’art. 111, che stila un elenco, eccessivamente<br />

dettagliato ma non per questo privo di omissioni e lacune( 9 ), delle facoltà<br />

attribuite alla persona accusata di un reato. Tra queste, l’informativa nel<br />

più breve tempo possibile circa la natura e i motivi dell’accusa elevata<br />

nei suoi confronti o la garanzia del tempo e delle condizioni necessarie<br />

per predisporre la difesa; la facoltà di interrogare o di far interrogare, davanti<br />

al giudice, le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, o di ottenere<br />

la convocazione e l’interrogatorio di persone a difesa nelle medesime<br />

condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a favore;<br />

infine, l’assistenza di un interprete a beneficio dei soggetti non in<br />

grado di comprendere la lingua impiegata nel processo.<br />

ria penale. Saggio sull’art. 24 comma 2 Cost., Milano 1983, in particolare pp. 37-8. Tra le implicazioni<br />

dell’art. 24 Vassalli vi riconosce anche il diritto di difendersi provando, consistente<br />

nel diritto di non vedere menomata la possibilità di difesa attraverso un’arbitraria restrizione<br />

dei mezzi di prova (G. Vassalli, Il diritto alla prova nel processo penale, inRiv.it. dir. proc.<br />

pen., 1968, p. 12).<br />

( 8 ) L’art. 111 afferma nel 2º comma che ogni processo si svolge nel contraddittorio<br />

delle parti. Il 4º comma dispone che il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio<br />

nella formazione della prova. È una formula breve, ma potente, dove il contraddittorio<br />

non figura come semplice diritto individuale, ma come garanzia oggettiva e condizione<br />

di regolarità del processo (P. Ferrua, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, inDiritto<br />

e giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 79). Esalta il significato non univoco del principio del<br />

contraddittorio, che in sé contiene due anime, l’una oggettiva di accertamento dei fatti e l’altra<br />

soggettiva che si configura come garanzia individuale, C. Conti, Le due ‘‘anime’’del contraddittorio<br />

nel nuovo art. 111 Cost., inDiritto penale e processo, 2000, pp. 197-202.<br />

( 9 ) Così lamenta M. Chiavario, Nelle Carte europee garanzie più equilibrate e un freno<br />

agli abusi,inDiritto e giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 77; sono regole confusamente affastellate,<br />

fa eco P. Ferrua, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, inQuestione<br />

giustizia, 1, 2000, p. 50. Si rinvia anche a M. Bargis, Studi di diritto processuale penale,<br />

I ‘‘Giusto processo’’ italiano e Corpus juris europeo, Torino 2002, pp. 43-53.


SAGGI E OPINIONI<br />

113<br />

Come si nota, manca l’espressa previsione della facoltà di non rispondere,<br />

e, più in generale, del possibile esercizio di un’autodifesa passiva.<br />

Si sostiene che nel mutato quadro costituzionale tale assenza derivi dal<br />

fatto che l’autodifesa mediante silenzio sia «una componente ineliminabile<br />

del concetto stesso di giusto processo [...] implicita nella struttura di un<br />

processo che voglia dirsi giusto»( 10 ), e che l’articolo in oggetto abbia elevato<br />

la scelta tra tacere e rispondere a diritto costituzionalmente protetto(<br />

11 ) nel 4º comma dell’art. 111 («la colpevolezza dell’imputato non<br />

può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta,<br />

si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio dell’imputato o del<br />

suo difensore»).<br />

È stato tuttavia rilevato come l’espressione ‘libera scelta’ (formula introdotta<br />

per evitare ad esempio l’inutilizzabilità di dichiarazioni rese da un<br />

soggetto silenzioso perché minacciato, il quale rimane sì in silenzio volontariamente,<br />

ma non liberamente) non significhi ‘scelta legittima’ (anche la<br />

decisione di commettere un reato è libera ma non lecita)( 12 ). Di conseguenza,<br />

non potrebbe trarsi dall’art. 111 alcuna conferma riguardo all’esistenza<br />

in capo all’imputato della ‘legittima’ facoltà di tacere( 13 ): tale principio,<br />

viceversa, continuerebbe a trovare, ad oggi, la propria ragion d’essere<br />

negli artt. 24 (a cui unanimemente si attribuisce la funzione di<br />

garantire anche il ‘‘diritto’’ al silenzio) e 27 comma 2 della Costituzione<br />

(presunzione di non colpevolezza).<br />

È innegabile tuttavia che la Carta repubblicana contenga una restrizione<br />

della facoltà di rimanere in silenzio laddove, assicurando all’imputato<br />

di interrogare davanti al giudice o di far interrogare le persone che rendano<br />

dichiarazioni a suo carico, delinea una strategia difensiva libera finché non<br />

lesiva di un diritto altrui. L’ampia dizione costituzionale (si parla di ‘per-<br />

( 10 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 63.<br />

( 11 ) Cfr. E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato<br />

sul fatto altrui, inCassazione penale, 2001, p. 3589.<br />

( 12 ) A. Trapani, Finalmente recepiti gli accordi internazionali, inGuida al diritto,<br />

1999, p. 9 e 60.<br />

( 13 ) La scelta è libera, ma non legittima qualora sia contraria all’ordinamento. Sul punto<br />

cfr. P. Tonini, Diritto al silenzio e tipologia dei dichiaranti, inGiusto processo e prove penali.<br />

Legge 1º marzo 2001 n. 63, Milano 2001, pp. 73-4; Id., L’attuazione del contraddittorio<br />

nell’esame di imputati e testimoni, inCassazione penale, 2001, p. 690; Id., Il diritto al silenzio<br />

tra giusto processo e disciplina di attuazione, inCassazione penale, 2002, p. 837; F. Cordero,<br />

Procedura penale, Milano 2003, pp. 743-4; V. Grevi, Spunti problematici sul nuovo modello<br />

costituzionale di ‘‘giusto processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole’’ durata, diritti dell’imputato e garanzia<br />

del contraddittorio), inAlla ricerca di un processo penale ‘‘giusto’’. Itinerari e prospettive,<br />

Milano 2000, p. 339; Id., Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e<br />

garanzia del contraddittorio, inAlla ricerca di un processo cit., pp. 280-3. Sulla necessità<br />

che sia tutelata espressamente l’autodifesa a livello costituzionale cfr. L. Marafioti, Scelte<br />

autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino 2000, pp. 97-8.


114<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

sone’ e non di ‘testimoni’) consente di ricomprendere nel novero di soggetti<br />

sottoponibili ad interrogatorio anche quel dichiarante che sia a sua<br />

volta imputato in altro processo. Ne discende, ovviamente, che se un imputato<br />

sceglie di accusare altri davanti al giudice, secondo l’art. 111 rinuncia<br />

irrevocabilmente al diritto al silenzio.<br />

Le indicazioni programmatiche costituzionali si sono tradotte nella<br />

legge n. 63 del 2001, che, relativamente al tema di cui si tratta, ne ha innovato<br />

in modo significativo i connotati originari, in seguito alla riformulazione<br />

del terzo comma dell’art. 64 del c.p.p. e all’inserimento di una nuova<br />

disposizione, il terzo comma bis. Ebbene, nel 3º comma dell’art. 64 al<br />

punto b la norma ribadisce che prima dell’inizio dell’interrogatorio la persona<br />

deve essere avvertita che ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda(<br />

14 ) (avvertimento che era presente anche nella versione originaria<br />

dell’art. 64). Al punto c invece, in ottemperanza al dettato costituzionale,<br />

stabilisce che qualora egli renda dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità<br />

di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone.<br />

Questa è la novità più rilevante e discussa della riforma: nella fase dibattimentale<br />

può accadere che uno stesso soggetto rivesta contemporaneamente<br />

e contestualmente la qualifica di imputato e di testimone( 15 ); il passaggio<br />

dall’una all’altra genera ‘conflitto di posizioni’, precisamente fra la<br />

facoltà di non rispondere propria dell’imputato e l’obbligo di rispondere<br />

secondo verità esistente in capo al testimone ex art. 197 bis c.p.p.<br />

Uno dei risultati di attuazione dell’art. 111 della Costituzione sta proprio<br />

in questo: una consistente riduzione dell’incompatibilità a testimoniare<br />

ex art. 197, poiché cade il divieto di sentire come teste l’imputato<br />

di reato connesso a quello per cui si procede e l’imputato di reato collegato.<br />

Si nota dunque come, accanto all’avvertimento, per così dire, tradizionale<br />

rivolto all’imputato, le legge ne sottintende un altro di segno opposto<br />

per rendere edotto l’interrogato sugli effetti delle sue dichiarazioni. In pratica<br />

egli deve innanzitutto sapere, sul modello angloamericano, che quanto<br />

da lui riferito all’autorità procedente potrà essere sempre utilizzato nei suoi<br />

confronti, seppur nei limiti sanciti dalla legge processuale in ordine all’ef-<br />

( 14 ) Sono fatte salve le domande che riguardano le sue generalità, sulle quali grava un<br />

vero e proprio obbligo di rispondere secondo verità e di cooperare con l’autorità indagante,<br />

poiché tali dichiarazioni non intaccherebbero l’esercizio del diritto alla difesa (così O. Campo,<br />

Interrogatorio: 1) interrogatorio dell’imputato, inEnc. Dir., XXII, Milano 1972, p. 342;<br />

cfr. anche O. Mazza, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di<br />

efficacia probatoria,inRiv.it.dir.proc.pen., 1994, p. 836; Id., L’interrogatorio e l’esame dell’imputato<br />

cit., pp. 113-114).<br />

( 15 ) Si sostiene che ciò avvenga per la prima volta in Italia: cfr. P. Tonini, Il diritto a<br />

confrontarsi con l’accusatore, inDir. pen. proc., 1988, p. 1511; Id., L’alchimia del nuovo sistema<br />

probatorio: una attuazione del giusto processo?, inGiusto processo cit., pp. 7-8.


SAGGI E OPINIONI<br />

115<br />

ficacia propria dell’atto considerato. Tale ammonimento «punta comprensibilmente<br />

a rendere effettivo il ius tacendi»( 16 ).<br />

Il problema, però, nasce riguardo alla citata lettera c dello stesso art.<br />

64 terzo comma. Essa infatti, per quanto circoscritta ai casi di procedimenti<br />

teleologicamente connessi ex art. 12 comma 1 lett. c del c.p.p.<br />

(«se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire<br />

o per occultare gli altri») e a quelli di collegamento probatorio previsti dall’art.<br />

371 comma 2 lett. b («se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati<br />

commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole<br />

o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono stati<br />

commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la<br />

prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato<br />

o di un’altra circostanza»), escludendo l’ipotesi in cui le dichiarazioni dell’imputato<br />

si riferiscano alla responsabilità di coimputati del medesimo<br />

reato nello stesso procedimento o in procedimenti connessi ex art. 12<br />

comma 1 lett. a c.p.p., è comunque tale da far sorgere seri dubbi sull’effettiva<br />

tutela, oggi, del ius tacendi.<br />

L’ibrida( 17 ) figura di soggetti, testimoni per quanto affermano nei<br />

confronti degli altri, imputati per ciò che li concerne in via diretta( 18 ), qualità<br />

nel passato mantenute nettamente distinte, come risulta dall’art. 348,<br />

comma 3 del Codice Rocco, induce a chiedersi se l’imputato, in relazione<br />

a dichiarazioni rese su responsabilità di terzi, possa oppure no, nel procedimento<br />

connesso, esercitare quello che è stato chiamato un «uso obliquo<br />

del silenzio»( 19 ). Se la norma pare indicare sul punto una risposta negativa,<br />

tracciando una distinzione tra diritto al silenzio sul fatto proprio e diritto al<br />

silenzio sul fatto altrui, nulla è invece pacifico sul piano ermeneutico e applicativo(<br />

20 ), e non solo per la palese difficoltà di separare nettamente all’interno<br />

delle singole dichiarazioni ciò che riguarda la posizione processuale<br />

altrui e quella relativa al suo autore( 21 ), ma anche per l’evidente con-<br />

( 16 ) R. Orlandi, Dichiarazioni dell’imputato su responsabilità altrui: nuovo statuto del<br />

diritto al silenzio e restrizioni in tema d’incompatibilità a testimoniare, inIl giusto processo tra<br />

contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R. E. Kostoris, Torino 2002, p. 162.<br />

( 17 ) La definizione è di G.D. Pisapia, Relazione introduttiva, inLa legislazione premiale.<br />

Atti del XV Convegno Enrico de Nicola, Milano 1987, p. 34.<br />

( 18 ) Cfr., tra gli altri, A. Giarda, Le ‘‘novelle di una notte di mezza estate’’, inLe nuove<br />

leggi penali, Padova 1987, p. 137; P. Tonini, Giusto processo, diritto al silenzio ed obbligo di<br />

verità: la possibile coesistenza, inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. II Procedura<br />

penale, Milano 2000, p. 735-40.<br />

( 19 ) P. Ferrua, Il processo penale cit., p. 61.<br />

( 20 ) V. Grevi, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in<br />

Riv.it.dir.proc.pen., 1998, p. 1136.<br />

( 21 ) Cfr. C. Conti, Le nuove norme sull’interrogatorio dell’indagato (art. 64 c.p.p.), in<br />

Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1º marzo 2001,<br />

n. 63), a cura di P. Tonini, Padova 2001, pp. 201-9.


116<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

trasto nascente tra due diritti di difesa ugualmente meritevoli di protezione(<br />

22 ).<br />

Si pone, in altri termini, il problema di valutare il silenzio come un<br />

fatto contra ius o secundum ius. Nella dialettica domanda-risposta si tratta<br />

di stabilire se e quando il soggetto interpellato possa o no rimanere in silenzio<br />

e, di conseguenza, quale sia il significato dell’elusione della domanda,<br />

giungendo alla conclusione che il silenzio dell’imputato è un diritto,<br />

quello del testimone è un delitto, in ragione del variare, nei due casi,<br />

della finalità dell’interrogatorio: nel primo prevale la garanzia di difesa e<br />

quindi l’interesse dell’imputato; nel secondo la ricerca della verità e quindi<br />

l’interesse dell’interrogante. Occorre perciò accertare, per stabilire l’eccezionalità<br />

o meno dell’esistenza di un dovere a rispondere, a quale interesse<br />

la legge accordi maggiore tutela: solo così l’attesa di risposta diventa legittima<br />

aspettativa delusa dal silenzio( 23 ).<br />

La figura dell’imputato accusatore induce perciò a ripensare il tema<br />

del silenzio. La dottrina avverte quanto sia precario il bilanciamento tra diritto<br />

al confronto con l’accusatore (che incita ad ampliare quanto più possibile<br />

la cerchia dei soggetti obbligati a rispondere secondo verità) e diritto<br />

dell’imputato di sottrarsi alle domande incrociate opponendo un inespugnabile<br />

silenzio. È, in altri termini, il dilemma tra istanza del contraddittorio<br />

ex art. 111 Cost. nei confronti di chi accusa e diritto di astenersi<br />

da risposte autoincriminanti.<br />

L’art. 111 Cost. e l’art. 64 3º comma c.p.p. sanciscono, di fatto, la perdita<br />

di un diritto al silenzio totale a carico dell’imputato connesso( 24 ). Non<br />

manca chi scorge nelle tendenze legislative attuali un pericoloso ritorno al<br />

passato( 25 ), attraverso la creazione di un sistema che mira a valorizzare le<br />

dichiarazioni contra se, ed eventualmente contra alios, dell’indagato, inventando<br />

strategie processuali volte ad ottenere ad arte confessioni ‘spontanee’<br />

da parte di chi potrebbe appellarsi alla facoltà di non rispondere, grazie ad<br />

( 22 ) Per non parlare poi della possibilità che l’imputato, onde evitare ogni conseguenza,<br />

decida fin dal principio di astenersi da qualunque dichiarazione, con conseguente dispersione<br />

del sapere processuale.<br />

( 23 ) A. La Torre, Silenzio cit., p. 552.<br />

( 24 ) Esistono tuttavia in merito posizioni sfumate. Queste mirano a precisare come<br />

l’imputato che rende dichiarazioni sulle responsabilità di altri coimputati in realtà non mette<br />

in gioco alcun interesse difensivo: non avrebbe senso, pertanto, invocare il diritto di difesa<br />

per escludere l’assunzione degli obblighi testimoniali sul fatto altrui. Cfr. M. Chiavario,<br />

Contraddittorio e ‘‘ius tacendi’’: troppo coraggio o troppa prudenza nell’attuazione di una riforma<br />

costituzionale ‘‘a rime (non sempre) obbligate’’?, inLeg. pen., 2002, pp. 146-8; O. Dominioni,<br />

Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria,inRiv. it. dir. proc.<br />

pen., 1997, p. 764.<br />

( 25 ) P. Corso, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?,<br />

inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia, cit., pp. 167-90, il quale esplicitamente<br />

dichiara che oggi sembra di ripercorrere «all’indietro strade già battute» (ivi, p. 189).


SAGGI E OPINIONI<br />

117<br />

una politica ‘premiale’ che ricorda da vicino esperienze che si credevano<br />

superate( 26 ).<br />

Questo segnerebbe, a detta di alcuni, la sconfitta di un impianto processual<br />

penalistico che per anni, come vedremo, ha sbandierato la propria<br />

capacità di giungere al giudizio finale facendo a meno del supporto conoscitivo<br />

dell’imputato. Oggi si pone nuovamente al centro del processo il recupero<br />

delle dichiarazioni dell’accusato, accogliendo il principio di non dispersione<br />

della prova.<br />

Un ritorno alle origini? Lo storico del diritto (e non lui soltanto, a<br />

dire il vero) ritrova spunti familiari quando, ad esempio, scorre il dibattito<br />

dottrinale in atto sull’abuso della carcerazione preventiva (filo di<br />

continuità con le logiche inquisitorie del passato)( 27 ), o sulla promessa<br />

di impunità, premi, benefici, sconti di pena a chi decide di collaborare,<br />

quasi che nella circolarità degli eventi tornassero a galla argomenti già<br />

dibattuti.<br />

Se la ‘nuova legislazione premiale’ è lontana dal poter essere assimilata<br />

alla tortura dei bui tempi andati, con questa tuttavia condivide il carattere<br />

persuasivo e la capacità di pressione sulla volontà dell’imputato, limitandone<br />

la libertà di autodeterminazione. Simili incentivi dimostrano come alcune<br />

soluzioni attuali possano accostarsi a quelle del passato: come allora,<br />

la parola dell’imputato rimane uno strumento necessario, talvolta persino<br />

indispensabile, per ‘far vivere’ il processo, combattere la delinquenza e stanare<br />

i colpevoli. Sotto forme e con modi diversi, si cerca tuttora la collaborazione<br />

dell’imputato per «supplire alle carenze funzionali di un sistema incapace<br />

di fronteggiare il fenomeno criminale senza ricorrere al contributo<br />

di chi è presunto innocente»( 28 ).<br />

In un simile schema la protezione ad oltranza e senza eccezioni del diritto<br />

al silenzio assume i contorni di una sorta di ‘forma patologica’ in<br />

grado di generare conseguenze devastanti. Si profila il timore che «il dichiarante<br />

contra alios», attraverso un «uso improprio» di tale diritto, finisca<br />

per sottrarsi al contraddittorio con l’accusato, con buona pace dei dettami<br />

costituzionali( 29 ). La tutela del diritto al silenzio – si sostiene – non andrebbe<br />

spinta oltre misura: non sino al punto, cioè, di scalfire l’effettività<br />

del contraddittorio. Il rischio che tale confine possa esser travalicato esiste,<br />

sia in senso oggettivo (il silenzio potrebbe risultare di ostacolo all’accerta-<br />

( 26 ) Sul punto O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., pp. 359-68.<br />

( 27 ) T. Padovani, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove<br />

ipotesi di ‘ravvedimento’, inRiv. it dir. proc. pen., 1981, p. 541.<br />

( 28 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 366.<br />

( 29 ) M. Ceresa Gastaldo, Le dichiarazioni spontanee dell’indagato alla polizia giudiziaria,<br />

Torino 2002, pp. 18-20.


118<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

mento del fatto) che soggettivo (in quanto vanifica la pretesa dell’accusato<br />

al confronto con l’accusatore)( 30 ).<br />

Si è parlato di uno sviluppo ipertrofico di tale facoltà. Essa avrebbe<br />

finito per compromettere un intero settore della sfera probatoria, entrando<br />

in collisione con l’esigenza di garantire la completezza dell’accertamento. Si<br />

sarebbe configurato, a detta di alcuni, un eccesso di tutela, che avrebbe<br />

posto le premesse per un uso improprio, deviato del diritto in questione(<br />

31 ).<br />

Si apre dunque una nuova stagione per il processo penale, che impone<br />

di rivedere l’intangibilità e la sacralità di quel ius tacendi lentamente e faticosamente<br />

accolto nel nostro ordinamento( 32 ). Una simile ‘conquista di<br />

civiltà’, costata secoli di elaborazioni dottrinali e legislative, di voci solitarie<br />

spesso inascoltate, è apparsa per lungo tempo una sorta di «rivoluzione copernicana»(<br />

33 ) e come tale intoccabile. La ‘seconda rivoluzione’ operata<br />

dalla riforma del 2001 sembra invece far vacillare certezze ( 34 ), prospettare<br />

cambi di visuale non da tutti condivisi, delineare una «netta involuzione<br />

delle scelte di politica legislativa»( 35 ).<br />

L’«innovazione fondamentale»( 36 ) della legge del 1969, inserita in un<br />

meccanismo processuale in grado di reprimere i reati e di accertare le responsabilità<br />

penali senza avvalersi del sapere dell’imputato( 37 ), appare oggi<br />

l’ombra, quasi il simulacro di se stessa, mentre strisciante si insinua l’idea<br />

( 30 ) P. Ferrua, Il contraddittorio è salvo, ora va circoscritto il diritto al silenzio, inDiritto<br />

e giustizia, vol. IV, n. 37, 2000, p. 9.<br />

( 31 ) Significativo, sul punto, l’intervento di R. Orlandi, Dichiarazioni dell’imputato<br />

cit., pp. 153-95.<br />

( 32 ) È stato osservato come l’innovazione normativa del 1969 abbia scalfito stentatamente<br />

radicati orientamenti giurisprudenziali, rischiando di rimanere ‘lettera morta’ per la<br />

malcelata insofferenza mostrata dalla magistratura. Cfr. V. Grevi, «Nemo tenetur se detegere».<br />

Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano 1972,<br />

pp. 63-66; F. Cordero, Procedura penale, Milano 1987, p. 1129.<br />

( 33 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di<br />

verità, Padova 2003, p. 17; A. Nappi, Il codice di procedura penale torna alle origini,inDiritto<br />

e giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 6.<br />

( 34 ) Inequivocabili le parole, a tal proposito, di Ceresa Gastaldo: «nonostante le affermazioni<br />

di principio necessariamente coerenti con i postulati costituzionali, il diritto al silenzio<br />

ha subito e sta attraversando una profonda crisi» (M. Ceresa Gastaldo, Le dichiarazioni<br />

spontanee cit., pp. 7-8). Ancora più esplicito Tonini, che parla di una «rinuncia irrevocabile<br />

al silenzio» imposta all’indagato o all’imputato che abbiano reso dichiarazioni<br />

riguardanti la responsabilità di altri (P. Tonini, L’alchimia cit., p. 36; Id., Riforma del sistema<br />

probatorio: un’attuazione parziale del ‘‘giusto processo’’, inDir. pen. proc., 2001, p. 271).<br />

( 35 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 320.<br />

( 36 ) Così G. Vassalli, Relazione alla Camera dei Deputati, inLe Leggi, 1969, p. 950.<br />

( 37 ) Sulle vicende più recenti di tale diritto, dalla legge del 1969, al modificato art. 78<br />

del codice Rocco, all’art. 64 del c.p.p. 1988, prima della legge del 2001, cfr. D. Barbieri,<br />

voce Interrogatorio nel processo penale, inDigesto delle discipline penalistiche, vol. VII, Torino<br />

1993, pp. 222-33.


SAGGI E OPINIONI<br />

119<br />

che «alla tutela del contraddittorio possa essere subordinata la tutela del<br />

diritto al silenzio e che non via sia altra strada percorribile se non quella<br />

di ridimensionare lo ius tacendi», da più parti avvertito come un fardello<br />

ormai ingombrante( 38 ).<br />

«Si tratta di un punto cruciale sul quale si giocano le garanzie di civiltà<br />

conquistate dopo secolari ed eroiche lotte contro il potere assoluto»( 39 ).<br />

Una simile affermazione, unita alla preoccupazione che il passato possa riproporsi<br />

come un ‘modello pericolosamente attrattivo’, rappresenta un invito<br />

irresistibile per lo storico, che si sente chiamato in causa, pronto ad<br />

‘affilare le armi’ del suo sapere e delle sue metodologie di indagine per ripercorrere<br />

a ritroso le vicende storico-giuridiche nelle cui pieghe si annidano,<br />

forse, le risposte ai timori odierni.<br />

Le ragioni di una neppur troppo sotterranea «ostilità che parte della<br />

dottrina italiana tuttora mostra verso qualunque arretramento sul fronte<br />

della tutela del diritto silenzio»( 40 ) vanno forse ricercate in una sorta di<br />

paura ancestrale di ritornare là dove ogni forma di garanzia era negata all’imputato.<br />

Il recupero, da parte del giurista, della dimensione storica è un’esigenza<br />

avvertita dagli stessi studiosi di diritto vigente, come dimostrano alcuni<br />

interventi miranti a sottolineare «l’imprescindibilità di una precisa ricostruzione<br />

del diritto dell’Ottocento e delle sue premesse illuministiche<br />

per la interpretazione delle istanze politiche ed ideologiche dell’esperienza<br />

giuridica contemporanea»( 41 ). Alla domanda di storia dei processualpenalisti<br />

non è possibile che rispondere «come giuristi a giuristi da parte degli<br />

storici del diritto (ché tale è il ruolo di questi ultimi)»( 42 ): forse, l’ideale<br />

viaggio che ci apprestiamo a compiere potrebbe contribuire a decifrare meglio<br />

l’oggi e scrutare i contorni del domani.<br />

2. L’antefatto: ad eruendam veritatem. – È un viaggio che prende le<br />

( 38 ) Cfr. P. Corso, Diritto al silenzio cit., pp. 177-83. Per un ridimensionamento del<br />

diritto al silenzio cfr. P. Tonini, La prova, Padova 1998, p. 75; Id., Giusto processo, diritto al<br />

silenzio ed obbligo di verità: la possibile coesistenza, inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia<br />

cit., pp. 727-43. Si segnalano, tra i tanti, gli interventi di E. Amodio, Il regime probatorio<br />

conseguente alla separazione di procedimenti connessi, inAmodio, Dominioni, Galli,<br />

Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico, Milano 1978, p. 47; C. Vettori, Diritto<br />

dell’imputato a confrontarsi con colui che lo accusa e diritto al silenzio: l’ordinamento inglese,<br />

inLe nuove leggi penali, Padova 1998, p. 273.<br />

( 39 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso cit., p. XV.<br />

( 40 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso cit., p. 17.<br />

( 41 ) E. Amodio, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione? A proposito dell’interrogatorio<br />

dell’imputato in un libro recente, inRivista di diritto processuale, 29 (1974), pp. 408-9.<br />

( 42 ) A. Cavanna, Storia e scienza del diritto penale, inI Regolamenti penali di papa<br />

Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist. anast., in Casi, fonti e studi per il diritto penale,<br />

serie II, Le fonti, 16, Padova 2000, p. CCXCVI.


120<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

mosse,enonacaso,dalSettecento:secolodisnodo,alqualegiunge<br />

compatta l’eredità del passato, ma dal quale, al contempo, si dipartono<br />

suggestioni e intuizioni destinate a segnare il tracciato delle scelte future.<br />

L’eredità ècostituita da un processo penale che vive della parola dell’imputato<br />

e che intorno ad essa costruisce le sue trame. Il silenzio è considerato<br />

una sfida, un’offesa alla corretta amministrazione della giustizia:<br />

sterile dispersione del sapere giuridico in un rito, come quello inquisitorio(<br />

43 ), che riposava sulla deposizione dell’indagato e che a quella tendeva<br />

con spasmodico sforzo.<br />

Un sistema che ‘inseguiva la verità’ non poteva permettersi di soffermarsi<br />

sulla tutela di istanze soggettive. L’imputato era ancora lontano dall’essere<br />

riconosciuto titolare di diritti intangibili. Egli era al servizio della<br />

macchina giudiziaria, protagonista, sì, ma per un unico fine: non intralciarne<br />

il corso. La sua eventuale scelta di tacere era gravida di conseguenze,<br />

tutte negative: la giustizia non poteva arretrare di fronte al rifiuto dell’accusato<br />

di offrire risposte chiare alle sue richieste. Si individuò, perciò,<br />

nel silenzio un indizio, non sufficiente alla condanna, ma legittimo tanto<br />

da condurre alla tortura.<br />

Se non si arrivò all’estremo di considerare colpevole, e perciò condannabile,<br />

l’indagato taciturnus( 44 ), equiparandolo sic et simpliciter al con-<br />

( 43 ) Così descrive efficacemente Carmignani il rito inquisitorio: «questo processo, quasi<br />

tutto concentrato in se stesso, sembra un uomo, che aspetti l’altro all’agguato» (G. Carmignani,<br />

Teoria delle leggi della sicurezza sociale, t. IV, Pisa 1832, p. 66).<br />

( 44 ) Si è cercato nel diritto romano il fondamento di tale soluzione e si è spesso guardato<br />

al frammento di Paolo (D. 50.17.142) in cui si afferma che chi tace non può considerarsi<br />

confessus, mentre D. 11.1.11.4. equipara il silenzio alla parola oscura. In materia di confessioni,<br />

tacite od espresse, i giuristi romani distinguevano tra ambito civile e penale, come<br />

ricorda anche Nicolini: «ne’ giudizii penali non mai que’ sommi filosofi parificarono per regola<br />

generale alla confessione espressa del reo il suo silenzio», richiamando in questo senso il<br />

passo paolino sopra citato (N. Nicolini, Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie<br />

esposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla Maestà del Re N.S., parte III, vol. I, Napoli<br />

1831, p. 321). Più esplicito sul punto era stato Ambrosini, il quale, annoverando il silenzio,<br />

al pari della maggioranza dei suoi colleghi, tra gli indizi sufficienti e legittimi per disporre<br />

la tortura, considerava come conseguenza ovvia che «si tacens haberetur pro confesso,<br />

utique non esset torquendus, sed condemndandus» (T. Ambrosini, Praxis criminalis sive<br />

processus informativus, Augustae Taurinorum 1750, lib. III, cap. VII, n. 13, p. 160). Così anche<br />

si esprimeva Filangieri, per il quale l’equiparazione presente nel diritto romano (confessus<br />

pro iudicato est, qui quodammodo sua sententia damnatur: D. 42.2.1, ma si veda anche D.<br />

11.1.11.4 che stabilisce il principio che il silenzio serve di prova per la legittimità e la giustizia<br />

della proposizione dell’attore) riguardava i giudizi civili e non criminali (G. Filangieri, La<br />

scienza della legislazione, Genova 1798, t. III, pp. 240-1, nt. 2). Si veda anche uno dei più<br />

autorevoli commentatori della Riforma toscana del 1838, A. Ademollo, Il giudizio criminale<br />

in Toscana secondo la Riforma leopoldina del MDCCCXXXVIII. Cenni teorici pratici, Firenze<br />

1840, § 1388, p. 359.


SAGGI E OPINIONI<br />

121<br />

fessus( 45 ), si giunse ad un risultato simile per via mediata, frapponendo alla<br />

diretta equivalenza silenzio=confessione lo ‘schermo’ dei tormenti, insuperabile<br />

strumento produttivo di parole.<br />

Si avvertiva il pericolo logico insito nell’attribuire al silenzio le stesse<br />

conseguenze della confessione: l’una è parola, l’altro ne è la negazione( 46 ).<br />

Chi non parla non ammette né nega e perciò il suo silenzio non può essere<br />

interpretato come una ficta confessio.<br />

Il tacens, tuttavia, poneva in atto un comportamento ostruzionistico(<br />

47 ), che interrompeva l’iter normale del processo e violava «la legge<br />

sociale della chiarezza dei rapporti e quella processuale del rispetto del magistrato<br />

che interroga»( 48 ). Occorreva perciò rompere il ‘sigillo delle<br />

( 45 ) Sorprende pertanto trovare nei primi anni del XIX secolo un’affermazione in tal<br />

senso. Fondandosi sul diritto romano (le cui massime sono richiamate per sostenere soluzioni<br />

diametralmente opposte), Carlo Alberici considerava il silenzio una confessione tacita. È<br />

vero, ritiene l’autore, che sulla base della massima del giureconsulto Paolo, vero perno attorno<br />

al quale ruota la costruzione del tema, qui tacet non utique fatetur, verum est eum negare<br />

(D. 50.17.142), ma esiste un contrapposto principio che consente di desumere la prova del<br />

delitto da tutto ciò che ha rapporto con il medesimo (plurimum quoque in excutienda veritate<br />

etiam vox ipsa et cognitionis suptilis diligentia adfert: nam et ex sermone et ex eo, qua quis<br />

constantia, qua trepidatione quid diceret, vel cuius existimationis quisque in civitate sua est<br />

quaedam ad inluminandam veritatem in lucem emergunt: D. 48.18.10.5). Da ciò Alberici desume<br />

argomenti convincenti a sostegno della sua tesi, ossia che il silenzio si possa valutare<br />

come una tacita confessione (C. Alberici, Commentarj sul codice di procedura penale pel Regno<br />

d’Italia, t. III, Milano 1812, p. 286). Sorprende l’epoca più che il principio, minoritario,<br />

ma comunque presente nella dottrina d’ancien régime, come attesta G. Mascardi, Conclusionum<br />

omnium probationum [...] volume primum, Augustae Taurinorum 1591, concl.<br />

CCCXLVIII, n. 31, f. 166, per il quale «ex taciturnitate alicuius praesumit confessionem».<br />

( 46 ) Giacomo Giuliani, Della procedura penale. Teoria, sez. III Delle interrogazioni, §<br />

88, ms. conservato presso la Biblioteca Antoniana di Padova, cod. 667. Sull’abate vicentino,<br />

professore di diritto criminale nell’ateneo patavino, cfr. A. Maggiolo, I soci dell’accademia<br />

Patavina dalla sua fondazione (1599), Padova 1983, p. 145 e C. Carcereri de Prati, La<br />

libertas ecclesiae nel codice penale napoleonico, inCodice dei delitti e delle pene pel Regno<br />

d’Italia (1811), rist. anast. a cura di S. Vinciguerra, Padova 2002, pp. CLXXXII-CLXXXIII.<br />

Dello stesso avviso era anche Francesco Canofari, per il quale nei giudizi criminali non vi può<br />

essere equipollenza fra silenzio e confessione per il fatto che «la confessione è un atto positivo,<br />

spontaneo, chiaro, circostanziato. [...] Sarebbe un logico ben infelice chi dicesse ‘‘B.<br />

interrogato ha taciuto. Dunque egli ha propinato il veleno’’. Non vi ha rapporto né proporzione<br />

quanto agli effetti. La confessione mena talvolta l’imputato ai ferri, all’ergastolo, alla<br />

morte. Soffrirebbe la giustizia che il suo silenzio abbia la forza stessa» (F. Canofari, Commentario<br />

su la parte quarta del Codice per lo Regno delle Due Sicilie o sia su le leggi della procedura<br />

ne’ giudizi penali, Napoli 1830, lib. I, tit. V Mandati contro gli imputati, §§ VII-VIII,<br />

pp. 192-3).<br />

( 47 ) Marchetti ipotizza in proposito un «atteggiamento di ribellione, di sfida nei confronti<br />

del potere incarnato dal giudice», tale da giustificare la punizione (P. Marchetti, Testis<br />

contra se. L’imputato come fonte di prova nel processo penale dell’età moderna, Milano<br />

1994, p. 119).<br />

( 48 ) M.S. Goretti, Il problema cit., p. 175. È quanto con conclamata chiarezza afferma<br />

Ademollo, per il quale la prova dei delitti riguarda la «pubblica salute, e perciò chiunque


122<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

labbra’ e costringere l’imputato a rivelare ciò di cui era a conoscenza. Era il<br />

segnale più evidente della debolezza endemica dell’intero impianto processuale,<br />

che implicitamente ammetteva di non essere in grado di raggiungere<br />

il proprio scopo (l’accertamento della verità giudiziale) senza l’aiuto della<br />

‘parte antagonista’, le cui dichiarazioni costituivano così non già un valore<br />

aggiunto al quadro probatorio acquisito, ma l’unica base giustificativa della<br />

condanna.<br />

Nel ‘clima inquisitorio’( 49 ) l’interrogatorio era considerato il<br />

fulcro dell’intero procedimento, momento fondante dell’accusa, più<br />

che strumento di protezione e di tutela dell’imputato. L’esame dell’inquisito<br />

era infatti condotto prima che si aprisse la fase difensiva vera e<br />

propria, consistente nella pubblicazione del processo( 50 ), anche se, avvertono<br />

alcuni autori, ciò avveniva per mera consuetudine e non già in<br />

ottemperanza alla legge, la quale anzi, sul punto, si mostrava contraria(<br />

51 ).<br />

Se esiste ancora qualche dubbio sulla funzione dell’interrogatorio nel<br />

processo penale di diritto comune, bastano a dissiparlo alcune citazioni, tra<br />

le tante che efficacemente potrebbero essere riportate: «perché l’interrogare<br />

il reo ordinatamente, chiaramente, sottilmente, debitamente e condurlo<br />

con l’essame accomodatamente al confessare la verità ècosa molto<br />

difficile e consequentemente molto laudabile, è d’honoro a chi la sa<br />

fare»( 52 ). La finalità dell’esame dell’inquisito appare qui una sola: giungere<br />

ad eruendam veritatem( 53 ).<br />

Non è un caso che molte pratiche del tempo si soffermino sull’‘arte’<br />

dell’interrogare. Esse elaborano veri e propri prontuari per i magi-<br />

viene legittimamente interrogato deve rispondere; diversamente delinque contro la pubblica<br />

sicurezza» (A. Ademollo, Il giudizio criminale cit., § 1388, p. 359). Identico concetto è<br />

espresso da Giacomo Giuliani, Della procedura penale cit., sez. III Delle interrogazioni,<br />

§ 88.<br />

( 49 ) E. Amodio, Clima inquisitorio e clima accusatorio: due prassi a confronto, inDif.<br />

Pen., 20-21 (1988), p. 29.<br />

( 50 ) La pubblicazione del processo comportava la messa a disposizione degli atti processuali<br />

alle parti, che solo in quel momento potevano prenderne visione al fine di preparare,<br />

entro un arco di tempo ridotto (dai tre agli otto giorni), le proprie difese. Nella pubblicazione<br />

del processo si ravvisa solitamente l’avvio della fase difensiva, una difesa riconosciuta sulla<br />

‘carta dei principi teorici’, ma vanificata nell’esercizio sostanziale. Sia consentito rinviare al<br />

mio Inseguendo la verità. Processo penale e giustizia nel Ristretto della prattica criminale<br />

per lo Stato di Milano, Milano 1999, pp. 188-205.<br />

( 51 ) Ristretto di pratica criminale raccolto da più scelti e rinomati autori in cui saranno<br />

citati i loro sentimenti non solo, ma le loro sentenze, Piobbico 1794, p. 41, nt. 84.<br />

( 52 ) M.A. Tirabosco, Ristretto di pratica criminale che serve per la formatione de’ Processi<br />

ad offesa, Fuligno 1702, p. 76. L’autore rivela tuttavia un sussulto di consapevolezza<br />

dell’importanza e della delicatezza di questo compito, allorché aggiunge che su questo «si<br />

deve molto invigilare» (ivi, p. 76).<br />

( 53 ) Cfr. V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, Torino 1967, p. 52.


SAGGI E OPINIONI<br />

123<br />

strati( 54 ), finalizzati ad istruirli in modo da vincere ogni resistenza frapposta<br />

dall’indagato e «quasi insensibilmente, e contro sua voglia cavali<br />

di bocca ora un indizio, ora l’altro, e finalmente la verità»( 55 ). L’obiettivo<br />

era quello di perfezionare una «sapiente tecnica discorsiva che solo alla<br />

fine di un lungo percorso produceva i suoi effetti»( 56 ). Simili indicazioni<br />

non sono patrimonio della sola dottrina; si traducono anche in ‘manuali<br />

normativi’ inseriti in alcuni codici del tempo che trasformano in precetti<br />

imperativi semplici consigli o suggerimenti di tecniche istruttorie( 57 ).<br />

L’imputato è dunque fonte di prova nel suo processo( 58 ) in quanto<br />

soggetto informato dei fatti( 59 ). Il meccanismo inquisitorio ne fa forzosamente<br />

un alleato per evitare di restare irreversibilmente paralizzato( 60 ).<br />

Chi è sotto inchiesta contiene in sé ‘la verità’( 61 ), a cui tende la macchina<br />

( 54 ) Tra i tanti si veda, per la loro particolare valenza ed efficacia, F. Cartari, Theoricae<br />

et praxis interrogandum reorum libri quatuor, Venetiis 1600, lib. II, pp. 12-31; G.B. Cavallino,<br />

Actuarium practicae criminalis, §Quid agendum sequuta condemnatione pecuniaria<br />

vel capitali, Milano 1587, f. 61; T. Ambrosini, Praxis criminalis cit., lib. III, cap. II, n. 4-7,<br />

pp. 135-6; Ristretto (1794) cit., pp. 47-52; T. Briganti, Pratica criminale, Napoli 1842, tit.<br />

II, § II, pp. 104-114 e tit. V, pp. 202-13.<br />

( 55 ) Ristretto (1794) cit., n. 105, p. 150.<br />

( 56 ) Così P. Marchetti, Testis contra se cit., p. 59.<br />

( 57 ) Ne costituisce un ottimo esempio il codice austriaco, in cui non è estranea un’aura<br />

pedagogica che proprio in tema di interrogatorio rivela la propria intima ambiguità. Il codice<br />

tenta qui di calibrare, in precario ed instabile equilibrio, volontà garantistica e intenti punitivi,<br />

affidando a magistrati abili nell’uso delle pratiche inquisitorie il compito di incarnare il<br />

volto paternalistico della legislazione conciliandolo con la capacità di condurre l’interrogatorio<br />

fino a ‘penetrare’ l’anima stessa dell’indagato. Ed è così che «un codice in qualche modo<br />

garantistico comincia a diventare terribile» (Cfr. A. Cavanna, Ragioni del diritto e ragioni del<br />

potere nel codice penale austriaco del 1803, inCodice penale universale austriaco (1803), rist.<br />

anast., Padova 2001, pp. CCXXXV-CCCCXLV; in quest’ultima pagina si trova la citazione<br />

riportata). Cfr. M. Sbriccoli, Giustizia criminale, inLo Stato moderno in Europa. Istituzioni<br />

e diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari 2002, p. 185.<br />

( 58 ) «La persona contro cui si dirige la ricerca speciale è dal processo considerata come<br />

mezzo di prova» (G. Carmignani, Teoria cit., p .69).<br />

( 59 ) Ad un imputato che qualora confessi merita fede, perché conosce meglio di chiunque<br />

altro lo stato dei fatti, fanno riferimento G. Carmignani, Teoria cit., p. 138; C.G. Mittermaier,<br />

Teoria della prova nel processo penale, trad. it., Milano 1858, p. 167. Dello stesso<br />

parere è Bentham, per il quale le prove che si ricavano dall’accusato sono le più soddisfacenti<br />

perché le più credibili (J. Bentham, Teoria delle prove giudiziarie, trad. it., Bruxelles 1842,<br />

p. 279).<br />

( 60 ) Il problema di evitare la dispersione del sapere è sìesigenza insopprimibile per il<br />

sistema inquisitorio, ma, come si è visto nelle pagine precedenti, è una necessità anche del<br />

nostro processo: in modi diversi rispetto al passato, in una prospettiva garantistica sconosciuta<br />

ai tempi andati, all’interno di un processo che si è ormai emancipato dalla necessaria confessione<br />

dell’indagato, «la disciplina delle modalità acquisitive del sapere della persona nei<br />

cui confronti si procede conserva intatta la sua fondamentale e peculiare rilevanza», a dimostrazione<br />

di una continuità fra ieri e oggi su tematiche centrali (O. Mazza, L’interrogatorio e<br />

l’esame dell’imputato cit., p. 2).<br />

( 61 ) L’imputato è visto come «una scatola umana che racchiude una verità materiale da


124<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

della giustizia. Come è stato efficacemente sostenuto occorre «premere sull’interrogato<br />

(sarei per dire: spremere l’interrogato) per ottenerne una risposta<br />

positiva»( 62 ), con mezzi che vanno dalla coazione psicologica alla<br />

tortura.<br />

Quest’ultima, ricordiamolo, veniva impiegata in una svariata serie di<br />

ipotesi, tutte generate direttamente dall’interrogatorio( 63 ). Se il reo fingeva<br />

smemoratezza, se si mostrava reticente, se si contraddiceva, se ritrattava<br />

quanto appena ammesso, se deponeva circostanze inverosimili, se coinvolgeva<br />

nella responsabilità del reato altri soggetti e se, ovviamente, si rifiutava<br />

di rispondere.<br />

Il silenzio era perciò inammissibile in un processo ossessionato dalla<br />

parola. Esso rappresentava la sconfitta dell’autorità procedente (indagante<br />

e giudicante, come sappiamo): «il ‘taciturnus’ costituisce un caso tecnicamente<br />

mal riuscito, anche se fosse condannato su prove ottenute<br />

aliunde»( 64 ) e per questo gli si imponeva di parlare e di parlare contra<br />

se( 65 ).<br />

Nei confronti di un imputato tenacemente silenzioso la tortura era applicata<br />

«ut certum respondeat», come sosteneva la maggior parte della dottrina.<br />

Scorrendo le pratiche criminali del tardo diritto comune, si comprende<br />

che la taciturnitas dell’interrogato andava ad alimentare la vasta schiera di<br />

quegli indizi di cui il giudice poteva avvalersi non per irrogare la pena( 66 ),<br />

tirar fuori pezzo per pezzo» (A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, in<br />

Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Milano 1990, p. 179).<br />

( 62 ) F. Carnelutti, Principi del processo penale, Napoli 1960, p. 184. L’espressione è<br />

poi ripresa da Cordero, che scrive infatti di un imputato «inteso come il depositario di una<br />

verità da spremere» (F. Cordero, Procedura penale, ed. Milano 1987, p. 19; ed. 2003,<br />

p. 23).<br />

( 63 ) «L’interrogatorio è della tortura il padre legittimo [...] è un istituto ‘violento’, perché<br />

nasce dal presupposto che la verità appartiene solo a chi detiene il potere, mentre i sospettati<br />

sono dei ‘rei’ che devono solo confessare» (I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa,<br />

Milano 2000, pp. 205-6).<br />

( 64 ) F. Cordero, Procedura penale (2003) cit., p. 247.<br />

( 65 ) A. Giarda, «Persistendo ‘l reo nella negativa», Milano 1980.<br />

( 66 ) L’estrema varietà di prassi esistenti non consente di sostenere che questa fosse la<br />

soluzione univocamente accettata. Di fronte ad un quadro probatorio che non permetteva<br />

l’irrogazione della pena ordinaria e tuttavia costituito da indizi formanti una prova semipiena,<br />

il giudice aveva davanti a sé due possibilità: o ‘accontentarsi’ di disporre la pena straordinaria<br />

sulla base delle risultanze processuali (seguendo una politica del diritto che gli consentiva<br />

di ‘punire meno’ ma di punire comunque) o accettare il rischio della tortura. Quest’ultima<br />

offriva comunque un’alea: se l’imputato confessava (e poi ratificava la<br />

dichiarazione estorta), il giudice raggiungeva la piena prova e poteva dare attuazione alla sanzione<br />

collegata al reato (e questo rappresentava per l’inquirente una vittoria); se il torturato<br />

sopportava lo strazio delle carni, purgava gli indizi e doveva in forza di ciò essere liberato.<br />

Ciò nonostante, un motivo di ‘consolazione’ derivava dal fatto che si vedeva nella tortura una<br />

sorta di castigo anticipato, un patimento ‘ragionevole’ in virtù del forte sospetto di colpevolezza<br />

nutrito nei suoi confronti (cfr. Ristretto [1794] cit., n. 181, p. 88). Si conferma così in-


SAGGI E OPINIONI<br />

125<br />

ma per disporre la tortura( 67 ). Si trattava d’un elemento privo in sé di piena<br />

direttamente la veridicità del principale attacco dell’illuminismo contro la tortura, ossia il suo<br />

essere sostanzialmente una pena (sul punto v. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto<br />

comune, vol. I, Milano 1954, pp. 223-31). Nell’Ottocento, Brugnoli, rifiutando che il silenzio<br />

fosse da intendersi come finta confessione, elencava una serie di cause di tale contegno che<br />

nulla avevano a che spartire con la colpevolezza. Si poteva trattare di timore, di naturale timidezza,<br />

di perplessità, di mancata comprensione delle domande, di sbalordimento ed orrore<br />

di fronte ad un’accusa calunniosa, di indignazione, di generosità. Per questo l’autore invitava<br />

ad annoverare il silenzio fra gli indizi remoti, al pari della latitanza e della contumacia<br />

(G. Brugnoli, Della certezza e prova criminale col confronto di varie legislazioni d’Europa ed<br />

in specie d’Italia, Modena 1846, § 567, pp. 456-9). Di «urgente indizio di reità» parla invece<br />

il Buonfanti, ad attestare, una volta di più, le contrastanti posizioni della dottrina (J. Buonfanti,<br />

Della istruzione de’ processi criminali in Toscana. Commentario, Lucca 1850, p. 251).<br />

( 67 ) Èuna soluzione che trova consensi fin dal Cinquecento. A titolo meramente esemplificativo<br />

cfr. P. Follerio, Practica Criminalis Dialogica, Venetiis 1575, rubr. Etsi comparent,<br />

n. 3, p. 151 e rubr. Et si confitebuntur, III parte, § 3, n. 4, pp. 351-2; G.B. Cavallino,<br />

Actuarium cit., § Quid agendum sequuta condemnatione pecuniaria, vel capitali, f. 61; G. Novello,<br />

Tractatus singularis defensione omnium reorum [...], Venetiis 1586, n. 46, pp. 121-<br />

122 («si ad interrogationem praedictam [reus] taceret haberet satis sufficens inditium ad torturam<br />

quod taciturnitas in civilibus facit semiplenam probationem [...] ea quae in civilibus<br />

faciunt semiplenam probationem, in criminalibus faciunt sufficiens inditium ad torturam»);<br />

F. Cartari, Theoricae et praxis interrogandum reorum cit., lib. III, cap. II, n. 1-3, p. 57; O.<br />

Cavalcani, Tractatus de brachio regio sive de libera, ampla et absoluta potestate iudicis supremi<br />

in prosequendo, iudicando et exequendo, Venetiis 1608, parte III, n. 62-5, pp. 102-3 («ex<br />

hac taciturnitate insurgens auspicio vehemens facit, ut merito torqueri possit»); P. Farinacci,<br />

Praxis et theoricae criminalis...partis primae tomus primus [tertius], Lugduni 1613-16, t. II,<br />

q. XXXVII, n. 176, p. 190 [se in questo passo l’autore afferma che coloro che non vogliono<br />

rispondere «optime torti sunt», in un altro punto sostiene che «non respondens positionibus<br />

habetur pro confesso, tamen non ostante hac ficta confessione, potest qui non respondet<br />

provare contrarium si vult», generando una contraddizione, evidente sì, ma tuttavia relativa,<br />

poiché questa indicazione di Farinaccio si inserisce in un più ampio discorso riguardante il<br />

contumace, contestualizzato in quella serie di praemitto, limita, sublimita, amplia che connotano<br />

– e complicano – lo svolgimento logico-razionale del pensiero del celebre giurista (Id.,<br />

Praxis cit., t. I, q. XI, n. 7, p. 130)]. Non solo, ma forse un aiuto ci può venire da Mancini, il<br />

quale precisa che chi «non repondet positionibus habeatur pro confesso in causa civili, id<br />

non procedit in criminali» (V. Mancini, De confessionibus tam iudicialibus, quam extraiudicialibus<br />

[...] tractatus, Romae 1611, cap. VI, n. 32, p. 176); S. Guazzini, Tractatus ad defensam<br />

inquisitorum, carceratorum reorum, et condemnatorum super quocunque crimine, Venetiis<br />

1639, lib. I, tit. I, defens. XX, cap. XVI, n. 1, p. 369; L. Priori, Pratica criminale secondo il<br />

rito delle leggi della Serenissima Repubblica di Venetia, Venetia 1678, p. 70; A. Barbaro,<br />

Pratica criminale, Venezia 1739, p. 122; M.A. Bassani, Theorico-praxis criminalis addita<br />

ad modernam praxis D. Thomae Scipioni, Ferrariae 1755, l. III, cap. VI, n. 3-6, p. 257 (dove<br />

si afferma che se il reo non vuol rispondere «saltem per tres monetur vices ad respondendum»<br />

e se di nuovo persiste nel diniego, lo si ammonisce un’ultima volta, con l’avvertenza<br />

che la sua ostinazione varrà come indizio a tortura). Diversa nella finalità, ma non nella sostanza<br />

la posizione di Ambrosini, il quale ritiene che il reo che rifiuti di rispondere alle domande<br />

del giudice «potest torqueri, non ad eruendam veritatem, sed ad habendam praecisam<br />

responsionem affirmativam vel negativam». In ragione di ciò egli può essere torturato<br />

non solo quando rifiuti di rispondere «totaliter, sed etiam quando praecise respondere<br />

non vult»: altra questione oggi ripropostasi alla dottrina, che si chiede se l’imputato possa


126<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

valenza probatoria, ma legittimo presupposto per ottenere con la forza la regina<br />

probationum( 68 ).<br />

I criminalisti, in realtà, mischiavano le carte, gettando manciate di<br />

‘fumo garantistico’ negli occhi, sostenendo che i tormenti non miravano<br />

ad estorcere una confessione, ma a far sì che si rispondesse «adeguatamente<br />

e congruamente all’interrogazioni»( 69 ). Il confine tra risposta e confessione<br />

esiste ed è di immediata evidenza; diventa però labile e sfumato<br />

quando si tenti di tracciarlo all’interno di un rito che, prendendo a prestito<br />

le parole di Beccaria, fa della tortura un crogiolo di verità.<br />

Il dato certo è lo spasmodico bisogno del contributo fattivo del sog-<br />

opporre il silenzio sull’intero interrogatorio, o decidere a favore di un ‘silenzio selettivo’, distinguendo<br />

a seconda del tipo di domanda proposta (T. Ambrosini, Praxis criminalis cit.,<br />

lib. III, cap. VI, n. 2, pp. 158-9). Simile impostazione si trova in A. Bonifazi, Institutiones<br />

criminales, Venettis 1768, l. IV, tit. V, n. 24, p. 204 («Il reo poi che ricusa di onninamente<br />

rispondere, o risponde incongruamente, si deve forzare a rispondere precisamente a forza di<br />

tormenti, perché èobbligato a dare risposta precisa, o assolutamente affermativa, o negativa»);<br />

e ancora, quasi traduzione letterale di Ambrosini: «se adunque il reo nell’atto dell’esame<br />

ricusa di rispondere [...] si può tormentare colla corda, e non già per avere la verità del<br />

delitto, ma per avere le risposte affermative, o negative», ammonendolo che «la sua taciturnità<br />

si conterà e s’avrà fra gli indizi contro di lui per il delitto e per il negozio principale [...] e<br />

se sostiene la taciturnità nel tormento non si ha per confesso» (A. Bonifazi, Nuova succinta<br />

pratica civile, e criminale utile e necessaria a’ giudici, procuratori, attuarj, e cancellieri criminale<br />

[...], Venezia 1783, parte III, cap. XXVIII, pp. 178-9). Questa sintetica carrellata, dal valore<br />

meramente esemplificativo, induce ad una riflessione su come il medesimo atteggiamento<br />

dell’inquisito, ossia il chiudersi nel silenzio, fosse produttivo di effetti diametralmente opposti<br />

nella fase pre e post tortura. Se nell’ambito del costituto il silenzio conduce l’indagato a<br />

subire i tormenti, la capacità di mantenerlo mentre si subisce l’orrore della violenza fisica<br />

conduce l’imputato alla salvezza e alla liberazione. Ancora una volta si propone il dualismo<br />

tra ‘silenzio colpevole e innocente’, così come siamo di nuovo di fronte alla dimostrazione<br />

che nel sistema inquisitorio l’assenza di parola è in grado di determinare la sconfitta del processo.<br />

E si è così poco propensi ad accettare l’idea che «non vengano parole dal tormento del<br />

reo» che si preferisce spiegare questo atteggiamento ricorrendo alla magia, agli incantesimi,<br />

al sortilegio (M. Sbriccoli, «Tormentum idest torquere mentem» cit., p. 25).<br />

( 68 ) Precisa Fiorelli che anche se la tortura non può essere definita tecnicamente un<br />

mezzo di prova (lo sarebbe la confessione che con essa si ottiene), non è del tutto inesatto<br />

considerarla tale, in quanto la locuzione mezzo di prova può in senso lato indicare anche quei<br />

fatti e quegli elementi che servono ad agevolarne l’attuazione giudiziale (P. Fiorelli, La tortura<br />

cit., vol. I, pp. 190-1).<br />

( 69 ) «E se [il reo] non volesse rispondere all’interrogazioni, o dicesse non so, non mi<br />

ricordo, o quel che ho detto è scritto, e simili, all’ora si deve far torturare, non per estorquere<br />

la verità, cioè la confessione del delitto, ma acciò risponda adeguatamente e congruamente<br />

all’interrogazioni». Non può sfuggire quell’incidentale equiparazione svolta dall’Anonimo redattore<br />

del Ristretto fra verità e confessione. Cfr. Ristretto per la prattica criminale cit., f. 33,<br />

in Appendice a L. Garlati Giugni, Inseguendo la verità cit., p. 302. Identico concetto si<br />

trova in M. A. Tirabosco, Ristretto cit., p. 86. O ancora: «Ma quale si è l’oggetto dell’interrogatorio<br />

dell’imputato? Niun altro che quello di sentire le sue discolpe nel caso che fosse<br />

innocente, o di conseguire dal medesimo la confessione del proprio reato , ove risultasse colpevole»<br />

(C. Alberici, Commentarj cit., p. 279).


SAGGI E OPINIONI<br />

127<br />

getto, a cui si chiede di proclamarsi o colpevole o innocente; ciò che rileva<br />

è che egli parli per evitare che il silenzio rappresenti lo scoglio su cui si infrange<br />

la speranza di un processo produttivo di soluzioni certe( 70 ).<br />

Era questo un lascito del passato, un punto fermo irrinunciabile e fino<br />

al Settecento mai messo seriamente in discussione. Ad esempio, un attento<br />

osservatore e un testimone fedele della prassi come l’alessandrino Giulio<br />

Claro non nutriva alcun dubbio che in caso di «reus constitutus coram<br />

iudex» il quale «nihil respondeat [...] debet iudex illum ponere ad torturam<br />

et cogere ut respondeat affermative vel negative». E parimenti certo<br />

si mostrava sul fatto che «talis tortura non datur reo ad eruendam veritatem<br />

[...] sed ad extorquendam responsionem». Come sempre, l’illustre<br />

rappresentante del Senato milanese non si sottrae ad una presa di posizione<br />

personale. Fotografata la realtà giudiziaria, egli esprime una propria valutazione:<br />

«est iudicio meo bona pratica et eam saepe vidi observari non<br />

modo quando reus non vult respondere super facto principali, scilicet an<br />

commiserit homicidum vel non, se etiam super circunstantiis substantialibus<br />

pertinentibus ad ipsum delictum», condendo il tutto con ricordi diretti(<br />

71 ).<br />

Se in pieno XVIII secolo sul punto vi è concordanza di massima tra i<br />

giuristi, non mancano tuttavia voci dissenzienti, numericamente esigue ma<br />

non per questo flebili, che si levano contro l’esperimento dei tormenti nei<br />

confronti dell’indagato silente, considerando ciò contrario ai principi posti<br />

dal superiore ordine naturale.<br />

È proprio con l’individuazione e l’enucleazione di diritti soggettivi, appartenenti<br />

all’uomo in quanto tale, che muta lo scenario processuale. Gli<br />

scopi del giudice e quelli dell’imputato, che nel processo inquisitorio finivano<br />

per coincidere, tornano nuovamente a separarsi e quasi impercettibilmente,<br />

ma significativamente, il principio del reus tenetur se detegere vacilla e si affaccia,<br />

seppure in modo ancora incerto e confuso, quello del nemo tenetur.<br />

Si cerca di modificare la logica del processo e il ruolo delle parti, di<br />

ribaltare alcuni canoni di lettura consolidati. Si passa dalla presunzione<br />

di colpevolezza a quella di innocenza; dalla figura del giudice inquisitore<br />

a quella del magistrato super partes, dall’imputato testis contra se a quella<br />

di soggetto titolare di diritti e destinatario di garanzie, prima fra tutte il<br />

non essere l’artefice e il responsabile principale della propria condanna.<br />

( 70 ) Cfr. M. Sbriccoli, «Tormentum idest torquere mentem» cit., pp. 17-32.<br />

( 71 ) «Et recordor» che il 18 ottobre 1554 «quidam Moncinus», interrogato su una rissa<br />

cui si sospettava avesse preso parte, non voleva né rispondere né giurare. Il Senato pensò<br />

bene di infliggere tre tratti di corda pubblicamente, ottenendo alla fine il risultato sperato,<br />

se mai vi fossero dubbi sull’efficacia di simile strumento: «deinde reductus ad carceres iuravit»<br />

(I. Clarus, Volumen alias Liber Quintus, Venetiis 1570, § Finalis, quaestio XLV, vers.<br />

Sed pone, f. 130).


128<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Si nota, in linea di massima, un affievolimento dell’obbligo a rispondere all’interrogatorio,<br />

e a rispondere il vero, mentre si fa lentamente largo l’idea<br />

che nessuno possa essere tenuto ad accusare se stesso( 72 ).<br />

Vi è chi, come Franchino Rusca, adombra l’esistenza di un vero e proprio<br />

‘diritto dell’imputato a rimanere in silenzio’, enunciazione sorprendentemente<br />

anticipatrice di quelle che saranno conquiste dei secoli futuri.<br />

Individuando nei principali e originari diritti di natura la fondamentale<br />

legge che impone a ciascuno la conservazione di se stesso, nessuna legislazione,<br />

secondo l’autore, può esigere da un uomo che egli diventi strumento<br />

della sua morte, ponendo quasi in mano al carnefice la scure «per bocca<br />

sua stessa»( 73 ). La lunga dissertazione, svolta dall’autore al fine di confutare<br />

l’uso della tortura nei confronti dell’indagato silenzioso, è un piccolo<br />

scrigno di indicazioni sulle ragioni che militano a favore del sovvertimento<br />

della prassi in atto, accreditata presso i tutti i tribunali, ma foriera di iniquità.<br />

Rusca non si accontenta di ciò. Egli rifiuta anche il parere di chi, pur<br />

lasciando intravedere un’intima ripugnanza verso il ricorso alla violenza fisica,<br />

mostra di non saper rinunciare alla parola dell’indagato. Taluni, infatti,<br />

suggerivano di soppiantare l’uso della quaestio con la minaccia rivolta<br />

all’inquisito di considerare il suo silenzio come un indizio indubitato( 74 ),<br />

bastevole a renderlo convinto e quindi a condannarlo legittimamente alla<br />

pena ordinaria( 75 ). Sprezzante dell’intimidazione ed incurante dello<br />

spettro della pena, l’accusato poteva tuttavia decidere di persistere in un<br />

( 72 ) Cfr. T. Hobbes, Leviatano, trad. it., Roma 2000, pp. 151-152. Si tratta della prima<br />

«massima del garantismo processuale accusatorio» (L. Ferrajoli, Diritto e ragione cit., p.<br />

623). Anche Tommaso Briganti sul punto velatamente interviene; mentre istruisce il giudice<br />

sul comportamento da tenere di fronte all’interrogato, lo ammonisce che nessuno «è obbligato<br />

sempre di palesare tutto quello, che ha nell’animo» e che il rapporto tra inquirente ed<br />

accusato non deve ricalcare quello tra confessore e penitente. «È cosa certa» – prosegue Briganti<br />

– «che Iddio ci ha tanto raccomandato il silenzio per tacere certe verità dannose, quanto<br />

ci ha dato la facoltà del parlare per pubblicare le necessarie» (T. Briganti, Pratica criminale<br />

cit., tit. V, n. 33, p. 208 e n. 48, p. 212). Si veda anche F. Carrara, Programma cit., §<br />

932, p. 449, nt. 1.<br />

( 73 ) L’Autore configura in capo ad ogni uomo un dovere a conservare se stesso, e ciò lo<br />

dispensa dal rispondere al giudice se ciò sia per lui in qualche modo dannoso (F. Rusca,<br />

Osservazioni pratiche sopra la tortura, Lugano 1776, p. 21).<br />

( 74 ) Sul delicato problema posto dagli indizi indubitati, terreno di incontro tra valore<br />

legale della prova e libero convincimento del giudice, mi si consenta di rinviare al mio Il diabolico<br />

intreccio cit., pp. 387-419.<br />

( 75 ) Di simile avviso era Pietro Verri, che, pur avendo consegnato alla memoria pagine<br />

di non comune bellezza sulle ragioni militanti a favore dell’abolizione della tortura, cerca,<br />

tuttavia, di trovare modi indiretti per costringere «a rispondere un uomo che interrogato<br />

dal giudice si ostina al silenzio», giungendo a schierarsi a favore di quanti sostenevano<br />

«che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualora<br />

contemporaneamente non venisse promulgata l’altra che dichiarasse convinto» chi ricusi di


SAGGI E OPINIONI<br />

129<br />

mutismo ad oltranza. Che fare in questo caso, si chiede Rusca? Il giudice<br />

non dispone che di due alternative: o non dà seguito alle minacce e rinuncia<br />

ad emettere la sentenza (vanificando l’utilità delle intimidazioni) o<br />

vi dà corso e pronuncia la condanna del reo. È a questo punto che si tocca<br />

con mano la fragilità della costruzione: «Quale sarà il delitto, onde si vorrà<br />

punire?». Di che cosa l’individuo sarà chiamato a dar conto? «Di ostinazione<br />

a non rispondere?». E cosa è mai questa «colpa ancora sconosciuta?»(<br />

76 ).<br />

L’autore coglie il cuore del problema: la pena non può essere irrogata<br />

se non in ragione di un reato commesso e il silenzio non può di certo annoverarsi<br />

tra le ipotesi di illecito previste dalle legge. Sono gettate le basi di<br />

un ribaltamento di prospettiva che induce a non vedere più nell’imputato<br />

una «bestia da confessione»( 77 ).<br />

Troppo semplice pensare che d’ora in poi la strada da percorrere sarebbe<br />

stata tutta in discesa. In realtà, di fronte ad un simile tema, la dottrina<br />

procede ‘per strappi’, per concessioni e ripensamenti, per arretramenti<br />

e progressioni( 78 ). Nemmeno i piú insigni esponenti dell’illuminismo<br />

penale riusciranno ad esprimere sino in fondo, sul punto, la propria carica<br />

dirompente.<br />

È innegabile che i riformatori settecenteschi determinarono una sferzata<br />

destinata a smuovere l’immobilismo stagnante. Tuttavia la loro autentica<br />

battaglia ‘vincente’ fu quella condotta contro la tortura: il ripudio dell’assurda<br />

pretesa che «il dolore divenga crogiuolo di verità, quasi che il criterio<br />

di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile»( 79 ),<br />

comportava di escludere che un uomo potesse essere al contempo accusatore<br />

ed accusato. Ma tale valore pacificamente condiviso dai philosophes<br />

rispondere (P. Verri, Osservazioni sulla tortura, ed. a cura di G. Barbarisi, Milano 1993, §<br />

15, p. 106). Non stupisce pertanto che di identico segno sia la soluzione prospettata da Beccaria,<br />

il quale sul brogliaccio delle Osservazioni dell’amico Verri stilò il suo phamplet. Cfr. L.<br />

Garlati Giugni, Molto rumore per nulla? L’abolizione della tortura tra cultura universitaria<br />

e illuminismo giuridico: le Note critiche di Antonio Giudici a Dei delitti e delle pene, in Formare<br />

il giurista. Esperienze nell’area lombarda tra Sette e Ottocento, Milano 2004, pp. 274-5 e<br />

relative ntt.<br />

( 76 ) F. Rusca, Osservazioni cit., p. 31.<br />

( 77 ) F. Cordero, Procedura penale (2003) cit., p. 25.<br />

( 78 ) Carmignani, in un noto passo, bollava come stravagante ed assurda la proposizione<br />

che vede nei mezzi usati per indurre l’imputato a rispondere il vero un attentato abusivo e<br />

tirannico alla sua libertà di rispondere, con la motivazione che concedere nel giudizio penale<br />

una libertà illimitata di rispondere a proprio talento finirebbe per «supplantare il diritto d’interrogare<br />

non che quello di avere risposte coerenti alla verità» (G. Carmignani, Teoria cit.,<br />

pp. 213-4).<br />

( 79 ) C.Beccaria, Dei delitti e delle pene, Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria,<br />

diretta da L. Firpo e G. Francioni, Milano 1984, § XVI, p. 62.


130<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

non significò necessariamente accettazione da parte di tutti di un diritto al<br />

silenzio, né la sua configurazione come tecnica difensiva.<br />

Anzi, il personaggio più rappresentativo del movimento, Cesare Beccaria,<br />

mostra a tal proposito qualche cedimento e non poche incoerenze.<br />

Dopo aver regalato pagine di esemplare lucidità e di intenso pathos nel §<br />

16 del suo celeberrimo libro, dedicato a dimostrare l’inutilità della tortura,<br />

spostando il discorso da accenti moraleggianti ad un’analisi di politica del<br />

diritto, nel § 38, intitolato Interrogazioni suggestive, deposizioni, il Marchese<br />

reclama per «colui che nell’esame si ostinasse a non rispondere alle<br />

interrogazioni fattegli» una pena fissata dalle leggi, per giunta «delle più<br />

gravi che siano da quelle intimate»( 80 ).<br />

Mal si concilia questa richiesta di sanzionare penalmente il silenzio con<br />

la premessa iniziale del suo ragionamento: vi è una commistione di elementi<br />

che inducono Beccaria ad esigere, da un lato, l’abolizione della tortura,<br />

ma al tempo stesso a sostenere la necessità della confessione( 81 ). Così<br />

lampante appare l’ambiguità di fondo di tale riflessione da indurre un anonimo<br />

professore pavese, Antonio Giudici, a vergare con mano sicura una<br />

replica che, se non appare degna del più acceso riformista, svela impietosamente<br />

e con toni vivaci tale incongruenza: «non dovea l’Autore, che si<br />

sforza in più luoghi di promover cotanto la dolcezza delle pene, e che affetta<br />

di favorir l’innocenza ragionar così. Egli vuole, che si castighi con una delle<br />

pene più gravi colui, che si ostinasse a non rispondere al giudice. Par<br />

dunque, che l’Autore approvi pure in tal caso qualche tormento, che lo costringa<br />

a parlare [...] poi omette di dire in favor dell’accusato, che potrebbe<br />

tal pena essere ingiusta, odiniqua»( 82 ).<br />

Il pensiero di Beccaria rimane una ‘bella incompiuta’, innaturalmente<br />

spezzato sul filo del traguardo: «Una volta ripudiati gli istituti della tortura<br />

e del giuramento dell’imputato, sarebbe stato logico escludere la configurabilità,<br />

nei confronti del medesimo, di un dovere di rispondere all’interrogatorio»(<br />

83 ), a dimostrazione che la via per giungere ad affermare la «spontaneità<br />

dei meccanismi di autodeterminazione dell’individuo in sede di interrogatorio<br />

penale [...] e del riconoscimento all’imputato della possibilità<br />

( 80 ) C. Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., § XXXVIII, p. 117.<br />

( 81 ) È una posizione definita ora deludente (L. Ferrajoli, Diritto e ragione cit., p.<br />

701, nt. 285) ora incongruente (V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14).<br />

( 82 ) A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana, o Note critiche al libro intitolato:<br />

Dei delitti, e delle pene, Milano 1784, nota CCXLII al § 38, p. 208. Mi permetto di rinviare<br />

a Molto rumore per nulla? cit., pp. 309-10.<br />

( 83 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14. Marchetti ritiene invece che la riflessione<br />

svolta sul punto da Beccaria sia perfettamente coerente con l’insieme dell’opera, tanto da<br />

rappresentarne la logica conseguenza (P. Marchetti, Testis contra se cit., pp. 270-1, nt.<br />

267).


SAGGI E OPINIONI<br />

131<br />

di astenersi dal rispondere all’interrogatorio» era lastricata, per ora, solo di<br />

buone intenzioni( 84 ).<br />

Per un Beccaria che perde l’occasione di proporsi, anche su tale questione,<br />

come profondo innovatore, c’è un Filangieri pronto ad osare di più.<br />

Riprendendo le posizioni di Rusca e maturando le acerbe intuizioni di<br />

Hobbes, Gaetano Filangieri ribadisce l’esistenza di un diritto naturale al<br />

silenzio. È la natura che chiude la bocca al reo; l’istinto di conservazione,<br />

di sopravvivenza è più forte di qualunque altro stimolo: «la confessione del<br />

delitto, portando sicuramente la perdita o dell’esistenza, o di una parte<br />

della sua felicità, richiede o uno sforzo superiore al contrario impulso della<br />

natura, o un’illusione, che gli faccia vedere nella perdita di una di queste<br />

due cose l’acquisto di un bene più grande»( 85 ), ponendolo nella stessa condizione<br />

del suicida, il quale si dà la morte con le proprie mani credendo di<br />

ravvisare nella fine dell’esistenza l’acquisto della felicità piuttosto che il termine<br />

delle sue sciagure. Se – continua il filosofo napoletano – la prima<br />

legge di natura esige che ognuno preservi la propria vita, qualsiasi patto sociale<br />

che intimi di confessare è da considerarsi nullo, in quanto costringe a<br />

violare un principio antecedente e superiore al diritto positivo( 86 ).<br />

Le argomentazioni di Filangieri conducono ad enucleare concettualmente<br />

un vero e proprio diritto-dovere al silenzio( 87 ), cui l’imputato non<br />

può contravvenire senza infrangere la legge di natura che gli ingiunge di<br />

tacere. Il magistrato che pretenda di punirlo per questo motivo lo istiga<br />

a commettere due delitti «quando egli potrebbe non essere reo che di<br />

un solo»( 88 ).<br />

( 84 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 12.<br />

( 85 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., pp. 238-9.<br />

( 86 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 283.<br />

( 87 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 290, nt.<br />

( 88 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 285. Echi di una simile impostazione<br />

si trovano anche nell’opera di Francesco Maria Pagano, che, pur non affrontando<br />

direttamente il problema del ius tacendi, sviluppa gli enunciati di Filangieri e, prima ancora,<br />

di Beccaria, spogliando di ogni aura la confessione (vista come violazione del diritto naturale<br />

dell’uomo a conservare se stesso e da considerare come mero indizio e non già quale dimostrazione<br />

di responsabilità) e il giuramento che pone l’individuo di fronte ad un bivio drammatico:<br />

salvare se stesso o non mentire alla presenza dell’eterno (F.M. Pagano, Principi del<br />

codice penale e logica de’ probabili per servire di teoria alle prove nei giudizi criminali, Napoli<br />

1819, p. 149, ma in generale cfr. pp. 146-52). Lo stesso autore rafforzerà ulteriormente le<br />

proprie osservazioni definendo il giuramento e l’ammonimento a confessare il vero una «spirituale<br />

tortura»: se quella fisica costringe a riconoscersi colpevole, «il timore dello spergiuro<br />

fa violenza allo spirito» (F.M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, Milano 1801,<br />

p. 110). La battaglia contro il giuramento non è originale né esclusiva prerogativa dell’illuminismo,<br />

che anzi raccoglie l’esperienza maturata dalla criminalistica passata, come attesta<br />

con onestà intellettuale il medesimo Pagano. Se non vi è una presa di posizione esplicita e<br />

diretta sul silenzio, la dissertazione sul giuramento, sulla tortura, sul valore della confessione<br />

creano le premesse per ravvisare in esso un diritto e non una colpa. Più articolato il pensiero


132<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Si tratta di soluzioni giudicate audaci e temerarie per quell’epoca, eppure<br />

destinate, alla lunga, a prevalere. Non ora però, non subito. Lo conferma<br />

la legislazione europea continentale settecentesca, e italiana in particolare,<br />

che, già poco incline per sua natura ad innovare, mostra, nei rari<br />

guizzi di ‘originalità’, di preferire e di recepire i cauti suggerimenti beccariani<br />

alla carica ideale insita nei postulati della dottrina progressista e minoritaria.<br />

La normativa d’ancien régime rivela l’esistenza d’uno stretto legame tra<br />

deferimento del giuramento di verità, tortura e spazi ‘protetti’ riservati al<br />

silenzio, in una prospettiva inversamente proporzionale: ove si insiste sui<br />

primi due aspetti, inevitabile è l’assenza del terzo.<br />

Se l’Ordonnance criminelle, nella versione definitiva, si ‘limitava’ nell’art.<br />

VII a pretendere il giuramento di verità dell’imputato, anche se ciò<br />

significava costringerlo a fare dichiarazioni contro se stesso( 89 ), nel dibattito<br />

precedente si era profilata una certa avversione verso questa scelta, sul<br />

presupposto che il giuramento fosse un istituto contrario al diritto di natura:<br />

nul n’est tenu de se condamner soi-méme par sa bouche, che equivale<br />

a dire, in conformità ai principi romanistici, che esse inhumanum videtur,<br />

per leges quae periuria puniunt, viam periuriis aperiri (C.6.40.2.2). Lamoignon,<br />

tra gli altri, rimarcava che il giuramento imposto all’interrogato era<br />

stato introdotto non solo in Francia, ma nell’Europa intera dalla consuetudine,<br />

non dal diritto; era un’usanza, non un precetto normativo, come attestava<br />

per l’appunto anche Giulio Claro, sostenendo che questo era sì<br />

l’uso in Francia, ma anche lo stylus communis Italiae, sebbene riprovato<br />

dalla prevalente opinio: «mihi certe haec practica nunquam placuit, quia<br />

est manifesta occasio periurii»( 90 ).<br />

Le tesi sposate da quanti adombravano almeno la possibilità di salvaguardarsi<br />

da se stessi in virtù di un principio naturale, e di ricevere perciò<br />

l’interrogatorio senza giuramento, erano definite «tres-grande, soutenue de<br />

fortes raison [...] mais qu’aiant dépuis communiqué certe ouverture à Messieurs<br />

les Commissaires du Roi, qui travaillent à la reformation de la justice,<br />

di Brugnoli, il quale considera la difesa un diritto naturale ed in ragione di ciò «dev’essere<br />

facoltativo a ciascuno di proporla qual ei la creda opportuna», quindi anche attraverso il silenzio.<br />

Ma se concediamo al giudice la possibilità di punire colui che opta per il silenzio è<br />

come se si attribuisse «il diritto di punire un inquisito perché cerca di difendersi» (G. Brugnoli,<br />

Della certezza e prova morale cit., § 569, p. 460).<br />

( 89 ) Ordonnance criminelle, (1670), rist. anast. Code Louis t. II, in Testi e documenti per<br />

la storia del processo, a cura di N. Picardi eA.Giuliani, Milano 1996, art. VII, p. 153. Per<br />

gli ultimi sviluppi nel processo francese si veda A. Astaing-G. Clemént, Les ‘‘muets volontaires’’<br />

dans la procedure penale française de l’epoque moderne et contemporaine, inTijdschrift<br />

voor Rechtsgeschiedenis (Revue d’Histoire du droit – The Legal History Review), 70 (2002),<br />

pp. 291-316.<br />

( 90 ) I. Clarus, Volumen cit., § Finalis, quaestio XLV, vers. Sed pone, ff. 130-1.


SAGGI E OPINIONI<br />

133<br />

elle leur avoit paru de dangéreuse conséquence [...] nonobstant les raisons<br />

alleguées par Mr. Le P. Président, l’article VII a été inséré dans l’Ordonnance»(<br />

91 ).<br />

La legislazione settecentesca pare invece accogliere tutte le variegate<br />

opinioni espresse da una dottrina ‘garantista a metà’. Immediata e diretta,<br />

ad esempio, è l’influenza di Beccaria sulle normative europee del tempo.<br />

«Singolare e interessante è la circostanza che l’idea della punizione dell’imputato<br />

reticente non sia rimasta senza seguito sul piano politico legislativo»(<br />

92 ): e se ciò vale nell’immediato per l’Istruzione di Caterina II di<br />

Russia, che tradusse letteralmente la proposta del giovane aristocratico<br />

lombardo( 93 ), lo stesso può dirsi, come si vedrà più diffusamente nelle pagine<br />

seguenti, per il Codice universale dei delitti e delle pene austriaco.<br />

Sembra quasi che là dove ‘‘siedono sovrani illuminati’’ il pensiero di Beccaria<br />

riesca ad affermarsi in virtù di una sostanziale aderenza ai programmi<br />

dell’assolutismo: il ripudio della tortura, da una parte, l’adozione di sanzioni<br />

corporali per l’imputato silente dall’altra.<br />

Era apparsa più cauta Maria Teresa, che nella sua Constituto criminalis<br />

del 1768 aveva scelto la via dell’intimidazione (la norma usa letteralmente<br />

l’espressione «acre minaccia»), non l’immediata applicazione della pena, finendo<br />

però in quella sorta di vicolo cieco paventato da Rusca: la ratio della<br />

disposizione risiedeva nell’ottimistica fiducia che la minaccia di adottare un<br />

severo provvedimento (lasciato però nella assoluta vaghezza) partorisse<br />

buoni risultati, configurandosi quale sorta di costrizione legittima. Fin<br />

qui i propositi. Desolatamente inefficace risultava invece il rimedio di<br />

fronte al perseverare del silenzio( 94 ): «quand’anche ciò nulla giovasse», alla<br />

sovrana non restava che adottare una linea ‘interlocutoria’, ossia disporre la<br />

consultazione sul da farsi con il tribunale superiore( 95 ). A parte la discutibilità<br />

di una tecnica normativa che impedisce all’individuo di conoscere a<br />

priori il suo destino, con buona pace della certezza del diritto, siamo di<br />

( 91 ) Gli interventi più significativi sul tema sono riprodotti nella rist. anast. dell’Ordonnance<br />

cit. supra, pp. 153-61.<br />

( 92 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14.<br />

( 93 ) Istruzione emanata da Caterina seconda, imperatrice e legislatrice di tutta la Russia...per<br />

la redazione di un nuovo codice delle leggi ...tradotta nuovamente dal francese in lingua<br />

toscana, Firenze 1769, cap. X, § 181.<br />

( 94 ) Rusca enumera una serie di ragioni che possono spingere l’imputato a proseguire<br />

nella linea di condotta intrapresa a dispetto delle intimidazioni. Oltre alla nutrita speranza di<br />

non vedere tramutata la minaccia in realtà, l’accusato può decidere di persistere nel diniego<br />

per disprezzo della morte, per desiderio di distinguersi, per volontà di mostrare una fermezza<br />

superiore a quella dei suoi persecutori, per avversione verso la vita. Saranno «stravaganze,<br />

ma la stravaganza è sempre possibile» e tanto basta ad escludere ogni condanna nei confronti<br />

di chiunque si ostini a tacere (F. Rusca, Osservazioni cit., p. 30).<br />

( 95 ) Constitutio criminalis Theresiana, Vienna 1769, art. XXXI, § 33, p. 34.


134<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

fronte alla riprova di quanto fosse fondato lo scetticismo di Rusca verso la<br />

concreta realizzabilità e, quindi l’utilità, di tale opzione.<br />

L’impasse non è meno evidente se si guarda ai progetti di riforma in<br />

atto in quegli stessi anni in Lombardia, sotto il dominio asburgico. Il<br />

Nuovo piano della prattica civile e criminale e per lo Stato di Milano del<br />

1768, compilato dai senatori Giuseppe Santucci e Gabriele Verri, e destinato,<br />

nelle intenzioni dei redattori, a creare una struttura processuale semplice,<br />

breve, chiara e finalmente libera da ogni tipo di abuso, escludeva la<br />

tortura per gli imputati negativi, ma la manteneva «se i rei non vogliano<br />

rispondere o se non rispondano congruamente»( 96 ), a dimostrazione che<br />

conservatori e illuministi, separati da abissi concettuali, viaggiavano di concerto<br />

almeno su di un punto: l’ostilità verso il silenzio. Gli uni e gli altri in<br />

virtù delle differenti premesse ideologiche maturavano poi risposte diverse<br />

(la tortura i primi, una pena i secondi), ma innegabilmente affine era lo spirito<br />

che animava entrambi.<br />

Le ragioni che determinavano alla tortura sono condensate, con pregevole<br />

sintesi, nella consulta di Gabriele Verri del 19 aprile 1776, ossia nella<br />

replica stilata dai senatori milanesi alla richiesta del governo di pronunciarsi<br />

sull’abolizione della tortura, nella speranza che Milano si allineasse<br />

con quanto già disposto il 2 gennaio per l’Austria. Nella tenace difesa della<br />

necessità di mantenerla in vigore per fronteggiare una criminalità dilagante,<br />

Verri affrontava anche la vexata quaestio della taciturnitas. Sottolineato che<br />

la tortura mirava ad eruendam veritatem, il primo caso in cui la si considerava<br />

esperibile era proprio quello del «reus qui iudici interroganti aut non<br />

respondet, aut congruum negat responsum: iste, si terque quaterque interrogatus,<br />

impulsus, territus obmutescit vel incongrue respondet, per hoc silentium<br />

se prodit sontem. Cur enim tacet, si insons?». In questo interrogativo<br />

riposa un intero mondo.<br />

Perché tacere se si è innocenti? La cultura del sospetto abita qui. La<br />

presunzione di colpevolezza non potrebbe trovare paladino più efficace:<br />

si matura la convinzione che chi tace ha qualcosa da nascondere, qualcosa<br />

che appartiene non a lui ma alla collettività, la quale deve conoscere i fatti<br />

per poter scoprire i perturbatori della pace sociale. Il ‘contumaciale silenzio’,<br />

come lo si definisce nel documento, lede la legitima interrogandi potestas<br />

et publica res bono exemplo fraudatur. In nome di ciò, si consentiva<br />

un turbinio di vessazioni: «excutitur pluries, vehementer urgetur metu infligendi<br />

tormenti, si diutius se praebet contumacem. Isto plane casu torturae<br />

subiicitur, ut tam iniuriosum iustitiae et legitimae potestati silentium,<br />

( 96 ) Si vedano le correzioni alle Regole per la Pratica criminale del Nuovo Piano, §Per<br />

regola generale, in ASMi, Miscellanea storica, cart. 56, p. 258, edito in G. Volpi Rosselli,<br />

Tentativi di riforma del processo nella Lombardia teresiana. Il Nuovo Piano di Gabriele Verri,<br />

Milano 1986, Appendice, p. 311, nt. 229).


SAGGI E OPINIONI<br />

135<br />

quo veritas premitur, frangatur»( 97 ). Insiste più volte su questo punto il<br />

vecchio Verri nella sua risposta alla Corona, dimostrando che l’autodifesa<br />

del reo mediante il silenzio era inteso nell’ancien régime come un indizio di<br />

colpevolezza. E si può dire – caso forse più unico che raro nel confronto a<br />

distanza sui temi processuali – che anche alcuni humaniores philosophi<br />

erano nel caso di specie concordi con lui( 98 ).<br />

Le cose non andavano meglio fuori dai confini lombardi. Si può, anzi,<br />

affermare che le posizione più retrive, e al tempo stesso maggiormente rappresentative<br />

della tradizione, si ritrovano nelle consolidazioni settecentesche,<br />

dove l’inveterata prassi criminale si fa norma: le Costituzioni piemontesi,<br />

nell’ultima edizione del 1770, quella, per intenderci, che tornerà ad<br />

avere piena vigenza nell’interregno fra l’abolizione della codificazione napoleonica<br />

e la formazione dei codici sabaudi, riassumono tutte le potenziali<br />

chiusure di fronte al silenzio. La legislazione del Regno di Sardegna è sul<br />

punto estremamente articolata: dopo aver esperito un perentorio quanto<br />

vano invito a rispondere, dispone la tortura nei confronti del sospetto<br />

reo di delitto punito con la morte o con la galera, ma non pienamente provato,<br />

sempre che sussistano indizi di colpevolezza, seppur non indubitati(<br />

99 ). Un ultimo tentativo di condurre a ragionevolezza l’imputato è<br />

esperito prima di eseguire materialmente i tormenti: di nuovo minacce,<br />

di nuovo si prospettano bui scenari in risposta al perdurare del silenzio. Ribadito<br />

che la tortura si propone come fine non la confessione, ma «d’avere<br />

le di lui risposte», si stabilisce che se essa non apporta alcuna novità, persistendo<br />

l’atteggiamento silente, si avrà «il delitto per confessato», non senza<br />

però aver primo informato i magistrati superiori dei passi compiuti( 100 ).<br />

Discorso diverso nel caso di reato non sanzionato con la morte o la galera,<br />

ma di cui esistano piene prove o indizi sufficienti per affermare la colpevolezza<br />

dell’indagato: l’imputato è in questo caso ammonito a parlare<br />

sotto pena di considerare il silenzio equivalente alla confessione( 101 ).<br />

Si noti come il testo faccia ‘tesoro’ dell’ampia gamma di soluzioni dottrinali<br />

fino a quel momento messe a punto, senza disperdere nulla di un<br />

( 97 ) La Consulta del senatore Verri è riprodotta in Appendice aS.Di Noto, Documenti<br />

del dibattito su tortura e pena capitale nella Lombardia austriaca, inStudi Parmensi, 19<br />

(1977), pp. 267-406, doc. n. 6, p. 393.<br />

( 98 ) Marchetti fornisce una possibile interpretazione della posizione sorprendentemente<br />

riottosa di alcuni riformatori del XVIII secolo. A suo avviso, la scelta di punire il silenzio<br />

consentiva agli abolizionisti di convincere l’opinione pubblica che la scomparsa della tortura<br />

non avrebbe comportato una dilagante impunità dei criminali più incalliti (P. Marchetti,<br />

Testis contra se cit., p. 207, ma in generale pp. 202-8).<br />

( 99 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 20, pp.<br />

72-3.<br />

( 100 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 21, p. 73.<br />

( 101 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 22, p. 74.


136<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

tale ‘patrimonio di saggezza’: sembra una sorta di patchwork della carrellata<br />

fin qui presentata, sino a recuperare persino la soluzione piú paventata,<br />

ossia l’assimilazione del silenzio alla ficta confessio. Se Maria Teresa non<br />

aveva osato andare al di là del mero avvertimento, rifiutando di dare esecuzione<br />

ad intimidazioni che costringevano a scelte difficilmente sostenibili<br />

sul piano logico-giuridico, le Costituzioni sabaude intraprendono una<br />

strada senza ritorno: «si comminerà a rispondere, sotto pena d’aversi il delitto<br />

per confessato; e dovrà aversi effettivamente per tale, quando replicata<br />

in altro diverso giorno tal comminazione, sarà ostinato in non rispondere»(<br />

102 ).<br />

Pervengono a conclusioni meno radicali, ma di analoga impronta le<br />

Costituzioni modenesi, che senza apportare alcun elemento di originalità<br />

a quanto fin qui detto ricalcano vie già battute( 103 ).<br />

A fronte di simili normative ve ne sono altre in cui il garantismo si<br />

gioca su tre tavoli: finalità dell’interrogatorio (o concezione del ruolo dell’imputato),<br />

giuramento, tortura. La sorte degli ultimi due istituti dipende<br />

dalla modulazione assunta dal primo; l’ambito di operatività del silenzio è il<br />

risultato di queste tre componenti.<br />

È il caso della Riforma toscana del 1786. Al categorico divieto in essa<br />

contenuto di deferire il giuramento all’imputato, e non solo per ciò che<br />

concerne il fatto proprio, ma anche relativamente al fatto di complici del<br />

delitto per cui si procede( 104 ), corrisponde, quasi in logica ed inevitabile<br />

( 102 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 22, p. 74.<br />

( 103 ) Dedicando al problema un solo articolo, il Codice estense si limita a ribadire<br />

quanto si è esposto fino ad ora: il ricorso alla tortura al fine di estorcere informazioni, preceduta<br />

dall’approvazione del Consiglio di Giustizia. Recita infatti la norma: «allorché l’inquisito<br />

ricusasse di rispondere categoricamente agl’interrogatori previe le opportune ammonizioni,<br />

si dovrà venire alla tortura per obbligarlo a rispondere, con avvertirlo di torturarlo<br />

al solo fine d’avere le risposte, ben inteso però che a tale tortura debba precedere l’approvazione<br />

del Nostro Consiglio di Giustizia, o de’ Feudatari rispettivamente» (Codice di leggi,<br />

costituzioni per gli Stati di Sua Altezza Serenissima, t. II, Modena 1771, lib. IV, tit. IX, art.<br />

VII, pp. 133-4). La norma sembra riprodurre quel conflitto di competenze e di giurisdizione<br />

tra Supremo Consiglio di Giustizia e giudicature locali ben espresso da C. E. Tavilla, Riforme<br />

e giustizia nel Settecento estense. Il Supremo Consiglio di Giustizia (1761-1796), Milano<br />

2000, in partic. pp. 281-91; 405-22; 458-60 per ciò che concerne il profilo penale. Dello stesso<br />

autore si veda, relativamente al codice estense, Il codice estense del 1771: il processo civile<br />

tra istanze consolidatrici e tensioni riformatrici, introduzione a Codice estense 1771, Testi e<br />

documenti per la storia del processo, a cura di N. Picardi eA.Giuliani, II sezione: Codici<br />

di procedura civile degli Stati italiani preunitari, Milano 2001, in partic. pp. IX-XVI.<br />

( 104 ) La Riforma toscana recepisce appieno, dunque, il pensiero di Beccaria, che nel §<br />

XI del suo celeberrimo pamphlet esprimeva in modo chiaro l’assurdità d’imporre il giuramento<br />

a chi aveva il massimo interesse ad essere falso «quasi che l’uomo potesse giurar<br />

da dovero di contribuire alla propria distruzione; quasi che la religione non tacesse nella<br />

maggior parte degli uomini quando parla l’interesse [..] Perché mettere l’uomo nella terribile<br />

contradizione, o di mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché la legge, che


SAGGI E OPINIONI<br />

137<br />

consequenzialità, l’abolizione della tortura, «non eccettuatane alcuna<br />

specie, siccome non eccettuato verun caso, né veruno degli effetti per i<br />

quali era stata nei processi criminali per l’addietro praticata»( 105 ).<br />

E lo stesso può dirsi per la Norma interinale di Giuseppe II, risalente<br />

al medesimo ‘glorioso’ anno per il penale (il 1786) ed ispirata dalla identica<br />

matrice ideologica della Leopoldina, entrambe creature di un’unica filosofia<br />

politica( 106 ). Anche tale ‘codice di procedura penale’( 107 ), destinato nelle<br />

intenzioni a traghettare la Lombardia dal particolarismo, soggettivo e oggettivo,<br />

all’entrata in vigore in via definitiva del Regolamento di procedura<br />

penale che si andava nel frattempo predisponendo, e rivelatosi invece nei<br />

fatti una regolamentazione di lunga durata, imponeva al giudice di astenersi<br />

dall’esigere dall’inquisito il giuramento, «essendosi rilevato coll’esperienza,<br />

che il giuramento anzi che influire alla verità èsoventi volte una<br />

nuova occasione di delinquere collo spergiuro»( 108 ).<br />

Al tempo stesso, l’art. XXI era interamente dedicato ai mezzi sostituiti<br />

alla tortura, la quale era evidentemente considerata strumento incerto e pe-<br />

obbliga a un tal giuramento, comanda o di essere cattivo cristiano o martire» (C. Beccaria,<br />

Dei delitti e delle pene cit., § XVIII, p. 70). «E perciò il gran Pietro Leopoldo, nel dare il suo<br />

codice alla Toscana, nell’art. 6 statuì il primo in Europa» l’abolizione dell’obbligo di giurare<br />

(N. Nicolini, Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie esposta [...] colle formole<br />

corrispondenti dedicata alla Maestà del Re N.S., parte III, vol. II, Napoli 1831, § 984. pp.<br />

373-4). Ancora: «il giuramento dell’imputato, che il codice leopoldino in Toscana ebbe la<br />

gloria di ripudiare prima di ogni altro codice in Italia, non venne mai più riprodotto nella<br />

Penisola né in altri stati di Europa» (F. Saluto, Commenti al codice di procedura penale<br />

per il Regno d’Italia, vol. II, Roma-Torino-Firenze 1877, p. 546). L’autore ritiene che tale<br />

disposizione ispirò l’art. 232 del codice di procedura penale del 1865 e che entrambi presentassero<br />

la stessa base logica: quella di impedire che un individuo risultasse all’interno della<br />

medesima causa accusato e testimone, poiché rivelazioni rese sul fatto altrui potevano contenere<br />

accuse indirette verso se stessi. Se – osserva il Saluto – le dichiarazioni sono vincolate<br />

dal giuramento, l’individuo è posto in quella atroce alternativa (mentire per salvarsi e quindi<br />

spergiurare o divenire ‘omicida’ di se stesso) che le moderne legislazioni, cresciute all’ombra<br />

degli insegnamenti di Beccaria, devono evitare. Realizza una particolare ricostruzione delle<br />

fasi che portarono all’abbandono del giuramento nel processo penale E. Allorio, Il giuramento<br />

della parte, Milano 1937.<br />

( 105 ) Cfr. artt. VI e XXXIII delle Legge toscana del 30 novembre 1786, consultata nell’ed.<br />

critica di D. Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo, inLa ‘‘Leopoldina’’. Criminalità<br />

e giustizia criminale nelle riforme del ‘700 europeo, 2, Milano 1995, p. 47. Sul punto T.<br />

Nani, Nuova legislazione criminale da osservarsi nella Toscana, Milano 1803, pp. 11-3 e 37.<br />

( 106 ) In questo senso si esprime E. Dezza, Il codice di procedura penale del Regno italico<br />

(1807). Storia di un decennio di elaborazione legislativa, Padova 1983, p. 6.<br />

( 107 ) Provin ritiene che con l’entrata in vigore della Norma interinale si possa dire iniziata<br />

l’età dei codici, segnando un punto di non ritorno nell’evoluzione del moderno ordinamento<br />

processuale penale (G. Provin, Una riforma per la Lombardia dei lumi. Tradizione e<br />

novità nella ‘‘Norma Interinale del processo criminale’’, Milano 1990, p. 58).<br />

( 108 ) Norma Interinale del processo criminale per la Lombardia austriaca, Milano 1786,<br />

art. XIV, § 162, p. 90.


138<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

ricoloso per il conseguimento della verità. Ciò non significava rinunciare a<br />

perseguire l’accertamento dei fatti: «Non potendo però una norma generale<br />

servire a tutti i casi, viene commesso al R. tribunale d’Appello di prescrivere<br />

all’uopo li mezzi opportuni per superare l’ostinazione de’ rei, onde<br />

la giustizia non ne risenta pregiudizio da quella»( 109 ).<br />

Le norme di Giuseppe II si collocano a metà tra quanto disposto da<br />

Maria Teresa, prima di lui, e il superamento della visione cristallizzata<br />

del processo penale. Ne sortisce un risultato in bilico tra rifiuto dell’antico<br />

ed esitazione verso il nuovo che avanza. Da un lato il sovrano sembra invitare<br />

il giudice a fare a meno dell’imputato come strumento di prova: la sua<br />

parola, secondo l’Imperatore austriaco, può essere la conferma delle informative<br />

acquisite, può rafforzare il quadro probatorio, ma non deve più essere<br />

considerata indispensabile. L’invito è di ‘costruire’ solidi processi, non<br />

di fabbricare castelli accusatori così fragili da essere spazzati via dal silenzio.<br />

Si vuole, insomma, assicurare il corso della giustizia indipendentemente<br />

dal comportamento che l’imputato riterrà di tenere.<br />

Una vittoria? Non completamente. Si tratta quasi più di un’enunciazione<br />

di intenti che di una vera informativa di principio dell’intero processo.<br />

Perché, a dispetto delle ottime premesse, con lo stile enfatico che a volte contraddistingue<br />

il frasario giuridico dei codici austriaci, si afferma altresì che<br />

qualora l’interrogato ricusi di spiegare, e non appaghi il bisogno di conoscenza<br />

della giustizia con congrue e sincere risposte, lo si deve ammonire affinché<br />

parli. E se l’ostinazione permane, i giudici, in linea con la soluzione già<br />

adottata dalla Constitutio Theresiana, sono invitati a fare relazione al tribunale<br />

d’appello ed attendere istruzioni sulla condotta da assumere nei diversi<br />

casi, a discapito di una celere spedizione della causa( 110 ). Manca l’espressa<br />

previsione di sanzioni, è vero, e questo segna un progresso rispetto alle stesse<br />

Istruzioni divulgate dall’Imperatore( 111 ), ma permane la preoccupazione per<br />

( 109 ) Norma Interinale cit., art. XXI, § 238, p. 131.<br />

( 110 ) Norma Interinale cit., art. XXI, § 239, pp. 131-2.<br />

( 111 ) Le Istruzioni per i Tribunali, Giudici, e Podestà sìRegi che Feudali di tutte le Curie<br />

della Lombardia austriaca di quanto dovranno osservare nella costruzione de’ Processi Criminali<br />

(ASMi, Giustizia punitiva, p.a., cart. 6, fasc. 10), disciplina transitoria destinata a fornire<br />

un metodo giudiziario negli anni 1784-1786, fino all’entrata in vigore della Norma Interinale,<br />

lamentavano il massiccio impiego della tortura quale diretta conseguenza e riprovevole necessità<br />

discendente dalla «poca esattezza e negligenza» con cui si formavano i processi criminali.<br />

Si invitavano pertanto i giusdicenti della Lombardia austriaca ad assumere con la<br />

massima cura e diligenza tutte le informazioni possibili per disporre dei mezzi legittimi onde<br />

giungere alla scoperta e alla punizione dei colpevoli. Tuttavia, qualora l’indiziato negava di<br />

rispondere al giudice, dopo tre diffide a desistere da tale comportamento, lo si riteneva colpevole<br />

del delitto ascrittogli e non veniva più ascoltato. Il giudice aveva tuttavia la facoltà di<br />

concedere all’imputato un termine massimo di 24 ore entro le quali gli era ancora consentito<br />

chiedere un’audizione: se anche queste trascorrevano vanamente «dovrà essere considerato<br />

quale reo contumace pienamente convinto, e come tale punito secondo la disposizione di


SAGGI E OPINIONI<br />

139<br />

la totale assenza di certezza circa la sorte dell’imputato. Il compromesso<br />

regna sovrano: siamo ancora allo stadio d’un tentativo, confuso e timoroso,<br />

di pensare ad un processo penale con forma e regole diverse rispetto al passato,<br />

senza perdere però in efficacia repressiva.<br />

Da ultimo, vale la pena di segnalare che la legislazione costituzionale<br />

delle repubbliche giacobine italiane non affronta mai questo tema nello specifico.<br />

Del dibattito illuministico e delle articolate istanze garantististiche fin<br />

qui esaminate le Costituzioni del triennio ‘rivoluzionario’ recepiscono quasi<br />

esclusivamente le regole attinenti alla tutela della libertà personale.<br />

Una rapida scorsa alle leggi fondamentali di quella stagione attesta che<br />

le norme dedicate al processo penale s’incentrano per lo più sulle condizioni<br />

per procedere all’arresto, sulle modalità e i tempi del controllo giurisdizionale,<br />

sulla competenza e sui limiti che devono presiedere alla misura<br />

di privazione della libertà. In una imitazione quasi pedissequa, le norme genericamente<br />

ricomprese sotto il titolo di Giustizia criminale sembrano preoccupate<br />

soprattutto di fissare disposizioni chiare in tema di legittimità e<br />

regolarità degli arresti, ricalcando formule che da una legislazione all’altra<br />

assumono carattere tralatizio( 112 ), tentando di conciliare il valore rivoluzionario<br />

per antonomasia (la libertà) con la limitazione dello stesso per ragioni<br />

superiori. Tali guarentigie, che rivelano un chiaro ascendente nel costituzionalismo<br />

britannico ed, in particolare, nel principio dell’Habeas<br />

corpus( 113 ), troveranno poi una definitiva consacrazione nelle carte fondamentali<br />

del XX secolo, che quasi sempre le ospitano nel catalogo dei diritti<br />

inviolabili della persona( 114 ).<br />

Con questo carico di posizioni, fluttuanti e divergenti, ci si presenta<br />

legge». Si noti come la tanto vituperata assimilazione tra silenzio e tacita confessione venga<br />

qui accolta, e da mero indizio di colpevolezza il silenzio si trasformi in prova piena, capace di<br />

rendere convinto il taciturnus.<br />

( 112 ) A conferma di tale specularità, per non dire di una vera e propria riproduzione<br />

meccanica, cfr. Piano di Costituzione per la Repubblica Cispadana, Bologna 1797, artt. 242-<br />

252; Costituzione della Repubblica Cisalpina dell’anno VI Repubblicano, tit. VIII, artt. 219-<br />

229; Costituzione della Repubblica ligure, Genova 1797, cap. IX, artt. 235-248; Costituzione<br />

della Repubblica romana, Genova 1798, tit. VIII, artt. CCXIX-CCXXVIII; Progetto di costituzione<br />

della Repubblica napoletana, Napoli 1799, tit. VIII, artt. 221-230. Soltanto il Piano di<br />

Costituzione presentato al Senato di Bologna dalla Giunta Costituzionale, Bologna 1796 indica<br />

all’art. 172 che «la tortura, ed altre barbare forme per trarre di bocca a’ rei la confessione,<br />

sono abolite». Le disposizioni qui richiamate sono state consultate nella raccolta Legislazione<br />

processuale delle Repubbliche giacobine in Italia 1796-1799, inTesti e documenti per la storia<br />

del processo, a cura di N. Picardi –A.Giuliani, V, Milano 2004.<br />

( 113 ) Cfr. F. Benevolo, Il decreto del 9 ottobre 1789 dell’Assemblea Nazionale francese<br />

e le moderne legislazioni di procedura penale, inRiv. pen., 23 (1886), pp. 528-41, dove l’autore<br />

sostiene l’esigenza di modellare il processo penale sull’esempio inglese anziché su quello<br />

francese.<br />

( 114 ) Cfr. M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali,<br />

Torino 1995.


140<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

all’appuntamento con la codificazione, cui si chiede il coraggio di compiere<br />

una precisa scelta di campo. Il Settecento conteneva già inséun ventaglio<br />

di possibili risposte: all’Ottocento il compito di decidere se solcare il mare<br />

della tradizione, seguire la scia delle proposte più innovative o tracciare<br />

nuove e più ardimentose rotte.<br />

3. La ‘terza via’: la soluzione italiana del codice del 1807. – Nella legislazione<br />

di fine secolo appare difficile scorgere, come invece è stato sostenuto,<br />

«un affievolimento del potere coercitivo posto a presidio dell’obbligo<br />

di collaborazione»( 115 ): se talune normative vietano il deferimento del giuramento,<br />

mostrano però di non saper rinunciare ad interventi ‘esortativi’ o<br />

punitivi nei confronti di chi sfugge il confronto diretto e si sottrae alle domande<br />

dell’autorità giudiziaria.<br />

La legge positiva, com’è forse inevitabile, si mostra più arretrata rispetto<br />

alla dottrina. Mentre quest’ultima è pronta ad alcune ‘concessioni<br />

garantistiche’ e a dissodare il terreno per l’enunciazione del principio del<br />

nemo tenetur, nella prima si intuiscono cenni di titubanza: quanto più sembrano<br />

aprirsi delle falle nel rigore del sistema inquisitorio, tanto più, paradossalmente,<br />

si reagisce serrando le fila laddove è possibile. C’è il timore di<br />

compiere salti nel vuoto, di abbandonare metodi che appaiono sì sempre<br />

più discutibili e irrazionali ma efficaci.<br />

Lo scoccare dell’era codicistica indica che qualcosa sta cambiando. Un<br />

vento nuovo soffia all’aprirsi del XIX secolo e spira proprio dall’Italia.<br />

Il primo codice moderno di redazione italiana entrato effettivamente<br />

in vigore( 116 ), ossia il codice di procedura penale del 1807, segna una significativa<br />

svolta. Frutto di una gestazione circa decennale, tra progetti giacobini<br />

e opere di revisione, il Codice Romagnosi, come sarà celebrativamente<br />

denominato per ricordare il determinante apporto del giurista parmense, è<br />

un punto di partenza per comprendere gli sviluppi della futura codificazione<br />

processual penalistica e non solo nazionale.<br />

Opera di mediazione tra la tradizione inquisitoria, reinterpretata alla<br />

luce dei principi dell’assolutismo illuminato, quelli espressi, per intenderci,<br />

nella Norma Interinale, e gli afflati riformisti della legislazione rivoluzionaria,<br />

il testo accoglie dalle disposizioni giuseppine il divieto di deferire,<br />

sotto pena di nullità, il giuramento dell’imputato, così come qualunque<br />

falsa supposizione, sedizione o minaccia volta ad ottenere una risposta diversa<br />

da quella che l’interrogato è disposto a rendere spontaneamente( 117 ).<br />

( 115 ) C. Conti, L’imputato cit., p. 12.<br />

( 116 ) E. Dezza, Introduzione a Le fonti del codice di procedura penale del Regno italico,<br />

Milano 1985, p. 7. Del medesimo autore si veda Il codice di procedura penale cit., passim.<br />

( 117 ) Codice di procedura penale pel Regno d’Italia, Milano 1807, art. 204. La norma<br />

richiama il principio espresso, come già sièvisto, dall’art. XIV, § 162 della Norma Interinale.


SAGGI E OPINIONI<br />

141<br />

Si presenta invece del tutto originale la regola dettata in tema di silenzio.<br />

È possibile sostenere che di fronte a questo specifico tema il Codice<br />

di procedura penale pel Regno d’Italia tracci una terza via rispetto ai tradizionali<br />

‘modelli’ di legislazione continentale considerati tra loro alternativi(<br />

118 ), quello francese e austriaco. E sarà, per la nostra esperienza giuridica,<br />

una linea destinata a prevalere. Ciò denota come l’Italia abbia costituito<br />

nell’ambito penale, sostanziale e processuale, una fucina creativa e<br />

tutt’altro che appiattita nei confronti delle leggi provenienti da Oltr’Alpe(<br />

119 ).<br />

Se per quanto riguarda il diritto sostanziale nei codici Zanardelli e<br />

Rocco si possono trovare tracce cromosomiche del progetto milanese del<br />

1806( 120 ), pubblicato, per volontà del ministro Luosi, nella Collezione<br />

dei Travagli sul Codice Penale pel Regno d’Italia con fini meramente propagandistici(<br />

121 ), nell’ambito processuale, almeno limitatamente all’oggetto<br />

della mia analisi, riveste un equivalente ruolo di testo di riferimento il codice<br />

Romagnosi( 122 ).<br />

( 118 ) Cfr. A. Cadoppi, Il ‘‘modello’’ rivale del code pénal. Le ‘‘forme piuttosto didattiche’’<br />

del codice penale universale austriaco del 1803, inCodice penale universale austriaco<br />

(1803), rist. anast., Padova 2001, pp. XCV-CXLI e Id., Il ‘‘modello italiano’’ di codice penale.<br />

Dalle ‘‘origini lombarde’’ al codice Rocco e ad altri codici europei odierni, inAmicitiae pignus.<br />

Studi in ricordo di Adriano Cavanna, t. I, Milano 2003, pp. 125-9. È un ‘dualismo’ che credo<br />

possa estendersi anche agli altri settori di intervento codificatorio, civile e processuale.<br />

( 119 ) La felice intuizione di Cavanna che scorse le origini della codificazione penale in<br />

Italia nel progetto leopoldino del 1791-92 (A. Cavanna, La codificazione penale in Italia. Le<br />

origini lombarde, Milano 1975) ha trovato nel tempo altre conferme. Lo stesso Cavanna ribadì<br />

il debito di riconoscenza contratto con questo testo sia dal progetto Luosi del 1801-02<br />

che da quello del 1806 (A. Cavanna, Codificazione del diritto italiano e imperialismo giuridico<br />

francese nella Milano napoleonica. Giuseppe Luosi e il diritto penale, inIus Mediolani.<br />

Studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano 1996, pp.<br />

659-760, ora anche in A. Cavanna –G.Vanzelli, Il primo progetto di codice penale per<br />

la Lombardia napoleonica [1801-1802], Padova 2000, pp. 143-238, in particolare pp. 222-<br />

3 e 226; A. Cavanna, Ragioni del diritto cit., pp. CCLXIII-CCLXIV). Di un modello italiano<br />

di codice penale, individuato proprio nel progetto del 1806, parla Cadoppi, il quale<br />

si spinge a sostenere che esso coincida oggi col modello europeo (A. Cadoppi, Il ‘‘modello<br />

italiano’’ cit., pp. 121-74). Per una lettura particolare di questa capacità di imposizione non<br />

solo dei codici ma della scienza criminalistica italiana fuori dai confini nazionali mi si consenta<br />

un rinvio al mio ‘‘Nessun uomo è un’isola’’. L’omicidio nel codice penale di Malta tra<br />

tradizione di diritto comune e suggestioni codicistiche, inLeggi criminali per l’isola di Malta<br />

e sue dipendenze (1854), rist. anast., Padova 2003 [ed. fuori commercio], in partic. pp.<br />

CCXXXIX-CCXLII.<br />

( 120 ) Per la storia di questo progetto cfr. in particolare E. Dezza, Appunti sulla codificazione<br />

penale nel primo Regno d’Italia: il progetto del 1809,inDiritto penale dell’Ottocento.<br />

I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova 1999, pp. 127-40, ma in generale si veda l’intero<br />

saggio, pp. 101-82.<br />

( 121 ) E. Dezza, Appunti cit., p. 140.<br />

( 122 ) Fra i numerosi attestati di stima espressi verso questo codice e già noti in parte<br />

alla storiografia (si pensi all’elogio di Cambacérès, ricordato da Dezza, che lo celebrò dicen-


142<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

Siamo all’affermazione di autonomia da parte della ‘scuola penale italiana’(<br />

123 ). Quando la Restaurazione prima e il codice unitario poi saranno<br />

costretti a compiere opzioni legislative in tema di silenzio, stretti tra la<br />

morsa dei due giganti, il francese e l’austriaco, decideranno consapevolmente<br />

di non seguirli, preferendo ispirarsi all’esempio italiano del<br />

1807( 124 ).<br />

Da un lato, dunque, vi era il codice austriaco, che nell’edizione del<br />

1803 mostrava di credere nell’efficacia di sanzioni corporali; dall’altro il<br />

Code d’instruction criminelle e la sua indifferenza, forse più apparente<br />

che reale, verso la questione( 125 ), a cui faceva da contrappeso un regime<br />

particolarmente rigido relativo alla carcerazione preventiva: «si trattava<br />

do: «Gli italiani la prima volta che hanno potuto fare un codice, lo hanno fatto perfetto»; cfr.<br />

E. Dezza, Il codice di procedura penale cit., p. 311), merita forse di essere ricordato il tributo<br />

rivoltogli da Frühwald, che nella ricostruzione della legislazione austriaca sul processo penale<br />

riservava parole di elogio a questo «eccellente codice [...] che s’avea già acquistato il favore<br />

della pubblica opinione, e lasciò non poco desiderio di sé quando venne abolito» (W.T.<br />

Frühwald, Manuale sul processo penale generale austriaco, trad. it. di F. Zangiacomi, Venezia<br />

1855, p. 9).<br />

( 123 ) Potremmo fare nostre le parole di Enrico Ferri, pronunciate in Parlamento nella<br />

seduta del 22 maggio 1912, il quale, esaltando la sapienza, più o meno teorica, e il ‘genio<br />

giuridico’ italico, dichiarava: «In Italia l’ingegno e la dottrina corrono per i rigagnoli» [Commento<br />

al codice di procedura penale, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari<br />

(relazioni, discussioni), Discussioni, Tornata del 22 maggio 1912, Torino 1915, p. 348].<br />

( 124 ) In questo senso si esprime anche E. Dezza, Il modello nascosto. Tradizione inquisitoria<br />

e riferimenti napoleonici nel Regolamento organico e di procedura criminale del 5 novembre<br />

1831, inRegolamenti penali di papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist.<br />

anast., Padova 2000, pp. XCIV-XCVI.<br />

( 125 ) Il codice di istruzione criminale napoleonico si limita a stabilire nei giudizi di polizia<br />

all’art. 93 l’obbligo posto a carico del giudice di procedere immediatamente all’interrogatorio<br />

nell’ipotesi di mandato di comparsa, e al più tardi nelle 24 ore successive nel caso di<br />

mandato di accompagnamento. Nessuna disposizione risulta dettata sul modo di procedere<br />

all’interrogatorio. Per il giudizio vero e proprio interviene l’art. 190, che stabilisce il solo<br />

principio dell’obbligo di interrogare il prevenuto. L’art. 293, in ordine ai giudizi criminali,<br />

sancisce che l’accusato deve essere interrogato dal presidente della corte di assise entro le<br />

24 ore dal suo arrivo nella casa di giustizia e per quanto concerne il dibattimento l’art.<br />

310 effettua un generico riferimento a domande circa le generalità. Vi è una indubbia sproporzione<br />

tra la disciplina di dettaglio in tema di interrogatorio riscontrata nella Ordonnance<br />

criminelle, che vi dedicava un titolo intero, il XIV, composto da 23 articoli, e l’estrema laconicità<br />

del codice napoleonico. Pierluigi Cipolla ipotizza che tale disinteresse scaturisca dell’assorbimento<br />

della lezione dei philosophes in tema di tortura e di diritti della persona e dall’accettazione<br />

del principio per cui le parti non possono essere fonti primarie di informazioni<br />

utili per l’accertamento della verità: una sorta di nemo tenetur realizzato mediante una blanda,<br />

quasi inesistente normativa (P. Cipolla, Dal Code Louis al Code Napoleon: un caso di<br />

ricorso storico?, inI codici napoleonici, t.IICodice di istruzione criminale, 1808, in Testi e<br />

documenti per la storia del processo a cura di N. Picardi –A.Giuliani, V, Milano<br />

2002, p. LVIII).


SAGGI E OPINIONI<br />

143<br />

forse dell’opzione inconscia verso uno strumento meno eclatante, ma più<br />

sottile, di induzione alla confessione?»( 126 ).<br />

In mezzo c’è il Codice del 1807. Il legislatore pre e post unitario<br />

guardò ad esso come al testimone di una identità culturale e da lì decise<br />

dovesse avviarsi un itinerario di sviluppo.<br />

La novità di fondo del Codice del 1807 era rappresentata dall’art. 208:<br />

l’imputato che rifiutava di rispondere o che per non rispondere si fingeva<br />

muto veniva sì sollecitato a parlare, ma, contestualmente, lo si avvertiva che<br />

si sarebbe proceduto oltre nell’istruzione malgrado il suo silenzio. Nel caso<br />

poi che egli «persista nel suo proposito, il giudice fa menzione del silenzio e<br />

dell’avvertimento, e procede agli atti ulteriori. Lo stesso avrà luogo nel restante<br />

della procedura, e nel dibattimento, se l’accusato ricusi di rispondere»(<br />

127 ).<br />

Una norma così formulata determinava un taglio netto con il passato,<br />

lasciando intravedere altri tipi di scenari: nessuna traccia dell’obbligo a rispondere,<br />

nessuna sanzione minacciata o disposta di fronte al persistere del<br />

silenzio, nessuna equiparazione fra l’imputato reticente e quello convinto.<br />

Vi è unicamente l’avvertimento che con o senza l’apporto della parte il processo<br />

segue comunque il suo corso( 128 ). La giustizia accetta di fare a meno<br />

della parola dell’imputato; l’accusato accetta il rischio sotteso alla declinata<br />

possibilità di discolparsi parlando, raccontando, spiegando.<br />

In un sistema che abbandona la valutazione legale delle prove e degli<br />

indizi e rimette tutto alla coscienziosa convinzione del giudice, nessun’altra<br />

( 126 ) P. Cipolla, Dal Code Louis cit., p. LVIII.<br />

( 127 ) Codice di procedura penale (1807) cit., sez. V, art. 208. L’articolo prendeva le distanze<br />

dal progetto dell’ottobre 1802, redatto sotto la guida di Spannocchi: un progetto che<br />

si inseriva (per l’argomento qui in discussione) nel solco della tradizione. Si minacciava infatti<br />

l’imputato di considerare per provati gli indizi militanti nel processo: e, qualora neppure<br />

questo fosse risultato giovevole, il giudice faceva relazione al tribunale d’appello per avere<br />

«dal medesimo la norma con cui meglio obbligarlo a rispondere» (Progetto di Metodo di procedere<br />

nelle cause penali [autunno 1802], in Le fonti cit., § 150, p. 41). Il testo dedicava poi<br />

due paragrafi distinti all’imputato silenzioso e a quello che si fingeva pazzo o muto: costui<br />

veniva sottoposto ad un accertamento medico per verificarne l’effettiva condizione. Riscontrata<br />

un’ipotesi di simulazione, il giudice era chiamato a regolarsi secondo quanto dettato in<br />

tema di silenzio (ibidem, § 151). Le due situazioni vennero affiancate ed equiparate nella versione<br />

definitiva. Tale impostazione sarà poi seguita dagli altri codici. È una linea risalente al<br />

tit. XVIII dell’ Ordonnance criminelle che riservava all’imputato reticente lo stesso trattamento<br />

del muet volontaire (V. Grevi, Nemo tenetur cit., p. 23, nt. 36).<br />

( 128 ) Eppure, nel commentare tale norma, vi è chi non rinuncia a criteri interpretavi<br />

ancorati al passato. Ripudiata la tortura, si rimane però nella scia di quanto sostenuto a<br />

suo tempo da Beccaria: «sebbene sia detestabile l’antico uso [ossia quello dei tormenti],<br />

non cessa però di essere necessaria una pena. Anche gli umani filosofi, l’istesso Beccaria sono<br />

d’un tal parere». Dunque nell’intimazione della continuazione della procedura «senza più<br />

curarsi di ciò che potrebbe dire in sua discolpa» si ravvisa una forma sanzionatoria, anzi<br />

«la più spediente» (C. Alberici, Commentarj cit., p. 301).


144<br />

SAGGI E OPINIONI<br />

conseguenza poteva attribuirsi al diniego di rispondere. Chi tace non si<br />

confessa reo per questo, ma la sua ostinazione non può arrestare il corso<br />

degli atti( 129 ).<br />

Tale norma contiene in sé in forma embrionale l’enunciazione di principi<br />

di tutela: la mancata menzione dell’obbligo a rispondere crea indirettamente<br />

un varco per la futura esplicita previsione del diritto a non rispondere.<br />

Comincia un’inversione di tendenza, un sovvertimento dei significati<br />

di cui si era nel tempo caricato l’interrogatorio: siamo di fronte ad un’attenuazione<br />

del reus tenetur se detegere che, se ancora non sfocia nel riconoscimento<br />

pieno di un diritto al silenzio, impone comunque di guardare all’interrogatorio<br />

come strumento di difesa e al silenzio come ad uno dei possibili<br />

mezzi esperibili dall’imputato per presidiare i propri interessi( 130 ).<br />

La breve parentesi dell’introduzione nei nostri territori del codice di<br />

istruzione criminale francese significò solo sospensione temporanea della<br />

vigenza di tale articolo, non cancellazione della sua validità di principio.<br />

Non riuscì a scalfirlo neppure l’altro monolito normativo, il codice austriaco<br />

del 1803, entrato in vigore, sia pure in modi e tempi differenziati,<br />

nei territori lombardi e veneti all’indomani della Restaurazione e qui rimasto<br />

vivo fin quasi alle soglie dell’unità. Esso prevedeva una sorta di accanimento<br />

nei confronti del ‘muto volontario’, ricorrendo, come extrema<br />

ratio, ai colpi di bastone( 131 ). Si assiste ad una sorta di escalation per ciò<br />

( 129 ) Ammoniva tuttavia Giuriati, a commento dell’art. 215 del codice sardo del 1847,<br />

che tale tipo di disciplina faceva sì che le prove e gli indizi a carico conservassero nella mente<br />

dei giudici tutta la loro forza, poiché l’imputato non si prestava a combatterli, sebbene invitato<br />

a farlo. L’istruttore doveva avvertire il renitente delle conseguenze della sua condotta,<br />

ma non poteva uscire dai confini di una decorosa esortazione. Più severa la valutazione di<br />

simulata pazzia, sordomutismo, idiotismo o altra forma invalidante: le finzioni messe in atto<br />

nel corso del processo finivano per porre in sinistra luce la moralità del soggetto, contribuendo<br />

a qualificarlo idoneo a delinquere (D. Giuriati, Commento teorico-pratico al Codice di<br />

procedura criminale degli stati sardi con le leggi posteriori e le sentenze dei magistrati di cassazione,<br />

Torino 1853, p. 201).<br />

( 130 ) Esprime una posizione diversa Giarda, che insiste in particolare sul fatto che il<br />

sistema processuale delineato dal codice del 1807 fosse comunque proteso a cercare la collaborazione<br />

dell’imputato, ravvisando nell’ammonimento a rispondere non una clausola di<br />

stile, ma una formula carica di velati avvertimenti. Ritengo corretto tener conto di circostanze<br />

che denotano come certi legami fossero stati purtroppo mantenuti (sono parole dell’autore),<br />

ma penso sia altresì giusto guardare all’esperienza storica contestualizzandola, non<br />

già con il metro dell’oggi, ma del momento contingente in cui i fenomeni si manifestano.<br />

E certamente, rispetto alla normativa e alla prassi immediatamente antecedente (anzi, si potrebbe<br />

dire rispetto alla ‘attualità’ del momento), il codice lombardo rappresentava un tentativo<br />

di superamento, grazie ad un impianto processuale con larghe ‘aperture libertarie’, come<br />

l’autore stesso è disposto a riconoscere (A. Giarda, «Persistendo il reo» cit., p. 85).<br />

( 131 ) Si tratta di un ‘rimedio’ di cui si trovano tracce frequenti lungo l’intero codice.<br />

Volta per volta le bastonate vengono usate come strumento di esacerbazione, o pena da infliggere,<br />

in via commutativa, nei confronti di chi, condannato al carcere, non era in grado di<br />

scontarlo se non con grave e irreparabile pregiudizio economico per la famiglia, o ancora da


SAGGI E OPINIONI<br />

145<br />

che riguarda i provvedimenti da adottarsi nei confronti del taciturnus: seil<br />

principio che domina tanto il costituto( 132 ) sommario quanto l’ordinario(<br />

133 )èquello dell’ammonizione circa le severe misure che verranno<br />

adottate, sono queste ultime, poi, a diversificarsi nei due casi.<br />

Nella prima ipotesi «gli si dichiara seriamente che l’ostinato silenzio o<br />

applicare verso il detenuto sorpreso a tentare la fuga, e in genere all’imputato che teneva un<br />

contegno sprezzante ed insultante, o che ricorreva a piccoli escamotage per allungare i tempi<br />

processuali, o che infine si fingeva pazzo. L’intero codice è disseminato da situazioni che giustificano<br />

la bastonat