Appunti di un programmatore
Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi
I R P E T
Istituto
Regionale
Programmazione
Economica
Toscana
Appunti di un programmatore
Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi
I R P E T
Istituto
Regionale
Programmazione
Economica
Toscana
Riconoscimenti
L’indice di questo volume è stato concordato all’interno di un comitato di redazione
formato da antichi collaboratori, ma più ancora da amici, di Giuliano Bianchi (Paolo
Baldi, stefano casini Benvenuti, Alessandro cavalieri, Alessandro compagnino,
mario De Pascale, mauro Grassi e Giovanni maltinti).
All’interno del gruppo, De Pascale ha svolto con molto impegno il prezioso compito di
tenere le fila dell’iniziativa e di sottoporre a tutti sia i problemi che le soluzioni inerenti
il volume. Gli altri componenti colgono quindi questa occasione per ringraziarlo per
il lavoro svolto.
L’allestimento editoriale è stato curato da elena Zangheri.
si ringraziano le case editrici einaudi, Franco Angeli, il Ponte e Le monnier per aver
concesso l’autorizzazione per la ristampa di alcuni contributi.
Indice
5 Presentazione di Nicola Bellini
9 Prefazione di Giacomo Becattini
15 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
Giuliano Bianchi, Marco Bellandi, Fabio Sforzi
55 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
Giuliano Bianchi
73 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Giuliano Bianchi
145 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e Gran Bretagna
Giuliano Bianchi, Stefano Casini Benvenuti, Giovanni Maltinti
167 Firenze e il suo sistema metropolitano. Riflessioni su un’opportunità
mancata
Giuliano Bianchi
189 Innovazione formale e sviluppo economico in Toscana
Giuliano Bianchi
199 Requiem per la Terza Italia? Sistemi territoriali di piccola impresa e
transizione postindustriale
Giuliano Bianchi
227 Alla ricerca della memoria perduta
Giuliano Bianchi
249 Quarant’anni e non li dimostra
Giuliano Bianchi
PRESENTAZIONE
Nicola Bellini
Ho provato a leggere questa collezione di scritti di Giuliano Bianchi,
studiati più volte in passato, come se non li conoscessi e non li avessi
mai letti. è pratica che va riservata ai classici e la riflessione di Giuliano
sulla Toscana e sui destini della programmazione regionale può ormai
ben essere iscritta a questa categoria. Come suggeriva un grande direttore
d’orchestra, Georg Solti, le copie delle grandi partiture, che negli anni si
son riempite fitte di appunti e notazioni interpretative, ogni tanto vanno
buttate via, ne va ricomprata un’altra copia intonsa e devono essere rilette
da capo, come se fossero acquisizione nuova. Fare tabula rasa delle chiavi
di lettura consolidate permette anche nel caso dei lavori di Giuliano di
rivivere in diretta la forza della scoperta, dell’intuizione e della passione
civile che le accompagna.
Per il sottoscritto c’è un motivo in più di confronto con la contemporaneità
dei suoi scritti: il fatto di essere stato da poco chiamato a occupare quella
scrivania di direttore dell’Irpet, da cui Giuliano operò per dodici anni,
lasciando un segno indelebile. Come ha recentemente ricordato Franco
Volpi, è stato infatti proprio lui, unico non accademico nella sequenza
dei direttori dell’istituto, ad aver operato con più coerenza e successo
per realizzare la difficile missione di questo istituto: rendere compatibile
l’esigenza di dare risposte pronte alle esigenze conoscitive dei processi
politici con quella di “dotarsi di capacità conoscenze e strumenti di analisi
adeguati che comportano investimenti di lungo periodo” * .
A me francamente non sembra paradossale che chi più conosceva e
praticava il rapporto con la politica e con i suoi processi decisionali sentisse
in modo così vivo l’urgenza di garantire all’istituto quell’autonomia non
formale, ma sostanziale, che deriva dal rigoroso presidio delle tecniche e
dei metodi di analisi. Il fatto è che nella visione di Giuliano l’autonomia
e solidità scientifica erano esse stesse un dato politico nel momento
in cui servivano a denunciare la distanza tra certi gruppi dirigenti ed
il “nuovo” e il “vero” che l’analisi portava ad evidenza. è l’analisi
scientificamente fondata che costringe la politica, altrimenti (spesso)
riluttante, all’esercizio intellettuale di “pensare in grande e di guardar
lontano”, superando il “divorzio fra il dominio delle conoscenze razionali
e quello dei processi decisionali”.
* Volpi F. (2009), “L’IRPET: 1968-2008”, in Becattini G., Bianchi G., Casini Benvenuti S., Meini
M.C., Volpi F. (2009), “I quarant’anni dell’IRPET”, Il Ponte, LXV, 1-2, gennaio-febbraio, p. 8.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 5
Il ruolo della programmazione è per eccellenza l’ambito in cui le scelte
pubbliche si organizzano in “sistema”. Non tutto l’intervento pubblico è
infatti programmazione: questa richiede finalità derivate da un’analisi,
obiettivi quantificati, priorità stabilite, coerenza dimostrata, meccanismi
di controllo. Né la complessità sistemica, decisionale, sociale, etc., né la
non linearità delle dinamiche economiche giustificano l’abbandono della
programmazione. Scrive Giuliano: “Proprio la complessità -se la ragione
non ha alzato bandiera bianca- sfida a organizzare il ragionamento e a
impiegare tutti i mezzi che possano aiutare a capire e ad agire”.
La programmazione esige l’immissione di “più tecnica” nei processi
decisionali. è questo il fondamento dell’impegno di Giuliano nella
predisposizione di un modello informativo del sistema regionale di
programmazione, centrato sullo sviluppo in Irpet delle matrici regionali,
ancora oggi uno degli asset più preziosi dell’istituto. La razionalistica
passione per le tecniche non perse mai in Giuliano la consapevolezza dei
fini per cui quelle tecniche dovevano essere utilizzate, ossia della loro
strumentalità. Circondati come siamo da tanto “manierismo econometrico”,
suona come un monito l’ironica confessione che Giuliano ha fatto nel suo
ultimo intervento qui riportato, in occasione del quarantennale dell’istituto:
“il mio intento non era molto raffinato: usare il modello, i modelli, come
clava, per fare del terrorismo econometrico”.
La tecnica dunque non diventa feticcio. Nelle pagine di questo volume
ritroviamo analisi appassionate quanto penetranti non solo dell’articolarsi
dell’economia regionale, ma anche delle evoluzioni sociali e soprattutto
degli attriti nella difficile e non banale dialettica tra cultura politica e
dinamiche socio-economiche, al centro degli sforzi dell’autore di “capire
perché” e del suo domandarsi: “nulla da fare?”
La tecnica va per altro messa costantemente sotto pressione. Per essere
effettivamente capace di incidere sui processi decisionali, non ci si può
accontentare degli aggregati ma bisogna perseguire una lettura che può
essere realistica (e quindi pertinente) solo in quanto “fine”, cogliendo i
caratteri non solo delle diverse manifatture, ma anche delle diverse
agricolture, dei diversi turismi, dei diversi terziari. E soprattutto bisogna
essere onesti e aperti al riconoscimento della realtà nuova, anche quando
essa ci scompiglia le chiavi interpretative consolidate. Così: “Sarebbe
davvero ironico se un’analisi spregiudicata e innovativa come quella che
condusse all’identificazione, prima, e alla concettualizzazione, poi, dei
distretti industriali e della Terza Italia, si anchilosasse, oggi, nella proposta
di un nuovo stereotipo, frapposto alla percezione della realtà”.
In questo turbinio di idee tra passione civile e amore per le tecniche
merita infine sottolineare le testimonianze ricorrenti della sua straordinaria
cultura. In un ricordo di Giuliano, Giacomo Becattini ha citato come tratto
6 Presentazione
distintivo della sua direzione proprio le “squisitezze di carattere culturale
che erano parte della sua natura”. Qui le ritroviamo nei richiami eruditi
e illuminanti, nella provocazione spiazzante che è creata da un’inattesa
citazione. Ma forte resta la sensazione che, oltre a regalarci qualche
sorprendente fuoco d’artificio, la sua cultura -anche in questi scritti- sia poi
il vero collante che tiene assieme tutto, dando spessore e senso profondo a
questa singolarissima figura di intellettuale ed al suo lavoro, da quello che
ci resta nelle parole dei suoi scritti a quello che è tramandato dai risultati
del suo agire.
Ed è questa sua cultura che forse oggi ci manca più di tutto.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 7
PREFAZIONE*
Giacomo Becattini
In ricordo di Giuliano Bianchi
Credo di aver conosciuto Giuliano nel 1963, in occasione del convegno
su «La Toscana nella programmazione economica organizzato dall’Urpt.
Giuliano curava, insieme ad altri, gli Atti del convegno. Il nostro primo
incontro -se ricordo bene- fu simpatico, ma non privo di spine, nel senso che
lui mi incalzò -com’era d’altronde suo compito- e io resistei, come d’uso, a
consegnare, il prima possibile, la versione definitiva della mia relazione. Da
questa prima collaborazione Giuliano e i suoi colleghi trassero il volumone
-940 pagine!- degli atti (La Toscana nella programmazione economica,
Firenze, 1963) che molti della mia generazione ricordano.
Rimanemmo in contatto, ma non ricordo niente di particolare fino
al 1968, data fatidica, nel nostro piccolo mondo, più che per i riflessi
parigini, per la fondazione dell’Irpet. Giuliano, funzionario della Provincia
di Firenze, fu, fin dall’inizio, all’interno delle Amministrazioni pubbliche
fiorentine e toscane, uno fra i non molti amici di quel nuovo arrivato. Dei
pochi altri amici, vicini al potere, ricordo solo Vanni Parenti. Può apparire
strano, oggi, ma questa creatura, l’Irpet, anche per lo spazio d’indipendenza
che subito tentò di acquistarsi, non riscuoteva molte simpatie nel mondo
delle autonomie locali. In particolare non andava a genio alle Camere
di commercio toscane, presenti in massa nel suo primo Consiglio di
amministrazione.
Ebbene l’avere amici come Giuliano alla Provincia di Firenze e Vanni al
Comitato regionale per la programmazione economica per la Toscana, e poi
alla Regione Toscana, per non parlare, naturalmente, di Elio Gabbuggiani,
presidente dell’Urpt e primo presidente dell’Irpet, fu decisivo per dare
all’istituto la chance di un’indipendenza dal mondo politico allora -e
ancor’oggi- quasi impensabile.
Giuliano, debbo dirlo, aderì subito alla tematica dello sviluppo locale,
che avrebbe poi caratterizzato una stagione dell’Irpet. Ricordo, come
momento significativo di successivi sviluppi -che non saprei collocare
esattamente nel tempo- la sua utilissima illustrazione a funzionari
provinciali e comunali delle statistiche locali toscane, appoggiata, credo,
a un testo ciclostilato s.d. di Paolo Quirino e Oreste Cherubini: Il sistema
informativo statistico locale: problemi e caratteristiche.
* Testo contenuto in Becattini G., Bianchi G., Casini Benvenuti S., Meini M.C., Volpi F. (2009),
“I quarant’anni dell’IRPET”, Il Ponte, LXV, 1-2, gennaio-febbraio, pp. 20-24.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 9
Ma il periodo in cui -per quel che ne so io- il genio bizzarro di Giuliano
si scatenò, fu il periodo in cui, succedendo al triunvirato Giovanni Ariano,
Paolo Baglioni, Alfiero Falorni, diresse l’Irpet. Il colpo di barra che
Giuliano diede all’Irpet, rispetto al periodo precedente, si può riassumere
in una maggiore vicinanza agli interessi del governo regionale e in una
maggiore attenzione agli standard della ricerca universitaria. Non e
un caso che molte conclusioni dell’Irpet di Bianchi trovassero echi nei
programmi regionali e che l’Irpet si affermasse, per rigore e ricchezza
di strumentazione analitica, fra gli Istituti regionali del periodo, fino a
guadagnarsi il prestigioso premio Einaudi.
Ma il periodo della direzione di Giuliano si distinse anche per
squisitezze di carattere culturale che erano parte della sua natura. Per
esempio, nel dicembre 1976 pubblicò un blocco di lettere di David Ricardo
dal suo «Journal of a Tour on the Continent, dove si rivela la meraviglia
del grande economista inglese per la fioritura, a Firenze, di una miriade
di micro-artigiani che, in pelle, stoffa, paglia, ecc.. facevano deliziose
«piccolezze» per turisti; nel dicembre 1978, a celebrazione del decennale
dalla fondazione dell’Irpet, pubblico una pressoché sconosciuta Storia del
libero scambio in Toscana (1878), di Giacomo Montgomery Stuart; infine,
nel marzo 1980 ripubblico il celebre Tableau de l’agriculture toscane di
Sismonde de Sismondi.
D’altronde i suoi interessi per la cultura in senso lato, dalla musica alla
gastronomia, erano noti a tutti. Ricordo bene che mi ha trascinato più volte,
spesso con mia moglie, al Teatro comunale, o, in occasione di convegni
qua e là, in ristoranti e trattorie famosi, dove si gustavano le specialità
del luogo. Che m’illustrava, con gli occhi lustri, dettagliandone i pregi e
illustrandone le radici.
Ricordo anche le sue visite, spesso con sua moglie Carla, con Elio
Gabbuggiani o Reginaldo Cianferoni, a Malmantile, e le discussioni,
perlopiù di politica -ovviamente!- che, innaffiate dal vino di Caparsa,
riempivano quei nostri pomeriggi di festa. In particolare, ricordo un
pomeriggio del 1979, in cui, lui e Gabbuggiani, allora sindaco di Firenze,
mi convinsero a presentarmi come indipendente nella lista del Pci -da cui
ero uscito da una ventina di anni- alle elezioni amministrative del 1980.
L’esperienza non fu fortunata, per tante ragioni personali, ma anche per
l’ascesa di Craxi, che dissolse anche a Firenze uno dei presupposti taciti
del mio ritorno in politica, un’azione unitaria delle sinistre, per rifare di
Firenze la versione contemporanea del «libero comune».
Un’esperienza interessante fu anche quella dell’Isia. Nella scuola
superiore del design, il regno dell’immaginazione finalizzata, ricordo che
Giuliano si sentiva particolarmente a suo agio. Quell’esperienza, credo,
rafforzò la sua predilezione per ciò che lui -a quel che ne so io- battezzo
10 Prefazione
«innovazione formale», così importante per le “piccolezze” toscane. Trovo
molto appropriato che la sua commemorazione funebre abbia avuto luogo
nei locali di quell’Istituto. Potrei continuare a lungo con i ricordi di due
vite che s’intrecciano ripetutamente, ma ne ho accennato altrove (Scritti
sulla Toscana, Firenze, Le Monnier, 2007, specialmente nel IV volume) e
non voglio ripetermi.
Preferisco invece concentrarmi sul tema dei suoi apporti all’interpretazione
economica della Toscana, presentandoli, “candidamente”, come io li vedo.
Credo che anche lui, se potesse, li gradirebbe così. Gli episodi che rapidamente
richiamerò sono solo tre, ma, volendo, si potrebbero moltiplicare.
Al momento della mia uscita dall’Irpet io mi lasciai dietro
un’interpretazione dello sviluppo toscano piena di luci e di ombre. Ebbene,
le mie luci -per esempio l’impetuosa industrializzazione leggera dei nostri
distretti industriali, ch’io leggevo nei dati- non andavano a genio alle forze
politiche egemoni in Toscana (Pci e Dc). È inutile dire che a differenza di
chi scrive, che dal fortino dell’Università poteva dire quello che voleva,
Giuliano che di quel mondo politico faceva parte istituzionalmente, non
poteva ignorare quella violenta ostilità.
La prima soluzione che tentò di dare al problema era, rebus sic stantibus,
la sola possibile: vista la riluttanza a prender per buono uno sviluppo fondato
sulle “piccolezze” del made in Tuscany, Giuliano tentò, con l’aiuto di alcuni
membri della vecchia guardia dell’Irpet, in particolare di Alfiero Falorni,
di valorizzare i «collegamenti all’indietro», nel linguaggio di Hirschman,
del made in Tuscany, patrocinando, di fatto, una politica di appoggio ai
settori a monte delle deliziose “piccolezze” toscane (es. meccanotessile,
macchine per il legno, ecc.), che l’Irpet battezzò «industria intermedia».
Noto oggi, en passant, che quei collegamenti all’indietro sono all’origine
dei successi di parte dell’attuale meccanica toscana.
Ma neppure in questa forma mascherata e contratta, 1’interpretazione
Irpet 1975 dello sviluppo toscano passò il vaglio della politica regionale.
Cosa fare? Giuliano scelse una via di uscita “alta”: gettarsi in pieno
nell’avventura, allora appena agli inizi, delle Scienze regionali.
Fu così che L’Irpet divenne il regno dei modelli economici ed
econometrici, in cui trovava sfogo un’altra delle passioni di Giuliano l’amore
per le tecniche. Fu un grande successo: a) i ricercatori Irpet -specialmente
la “nuova leva”, reclutata e “allenata” da Giuliano- si appropriarono delle
strumentazioni più a la page; b) l’Irpet entro validamente nel dibattito
scientifico delle nascenti scienze regionali (della cui associazione Giuliano
fu anche presidente); c) i politici toscani furono liberati -finalmente!- da
una challenge che invadeva il loro terreno di caccia.
Ma non è tutto. L’interpretazione Irpet aveva aperto un problema: se lo
sviluppo dei distretti industriali dipende dalle economie esterne -esorcizzate
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 11
dai fedeli del culto neoricardiano e ignorate dal mainstream- come
distinguere 1’area investita da questa specie di manna che cade dal cielo
sulle piccole imprese? Le analisi Irpet del 1969 e del 1975 argomentavano
e illustravano con esempi concreti l’interpretazione dei fatti post-bellici,
ma l’effettiva esistenza di un vantaggio competitivo delle piccole imprese,
impiantate nelle nostre storiche comunità organizzate in sistemi produttivi
locali, non poteva essere “dimostrata” con procedure logiche valide entro
l’ambito della scienza economica allora riconosciuta.
E qui sta un merito importante di Giuliano che mi piace ricordare.
Consapevole del fatto che le economie esterne locali non possono essere
dimostrate, cioè misurate, senza individuare il loro ambito territoriale,
Giuliano dedico una parte delle sue energie, intellettuali e organizzative, a
individuare, insieme a Fabio Sforzi, tale ambito territoriale. Ne sortirono,
con l’aiuto di alcuni colleghi dell’Università di Newcastle upon Tyne, i
«sistemi locali del lavoro» che, adottati dall’Istat, costituiscono oggi la
griglia territoriale di molti fenomeni produttivi. Quel che più rileva,
dal punto di vista che qui m’interessa, è che essi hanno portato a una
perimetrazione accettabile dei distretti industriali. Da ciò è scaturita
l’econometria distrettualistica, che, con la misurazione dell’«effetto
distretto» ha sancito -in forme riconosciute dall’Accademia- la validità
delle “luci” delle interpretazioni Irpet 1969 e 1975.
Molti anni della sua direzione dell’Irpet sono contrassegnati, nella mia
memoria, anche dalla sua collaborazione ai miei corsi universitari, nella
forma del professore a contratto. L’aiuto che Giuliano mi diede in quegli
anni, più efficiente che puntuale, mi servì molto per esplorare, con congedi
ripetuti, i meandri del pensiero economico vittoriano. Di ciò gli sono ancora
molto riconoscente.
C’è poi stato un periodo di lontananza, interrotto peraltro da contatti
significativi, che si è esaurito solo in anni recenti, con ritorni autocritici ed
espressioni affettuose da ambo le parti, che dimostrano che la fiamma della
stima reciproca e dell’amicizia non si era mai spenta.
L’ultima volta che ho visto Giuliano e stato l’11 febbraio di quest’anno,
alla presentazione del mio Calabrone. Giuliano, accompagnato, quasi
sorretto, dalla sua seconda moglie, Giovanna Pajetta, era piuttosto mal
messo, ma affettuoso e -se si può dire così- brillante. Ci lasciammo con la
promessa di un incontro a casa mia, nella mia terrazza -a parlare, perché
no? del sesso degli angeli- che sapevamo ambedue pressoché impossibile.
Come fu, purtroppo.
Il libro che Marco Dardi e Stefano Casini Benvenuti presentavano
(Il calabrone Italia, Bologna, il Mulino, 2007) si apriva con un saggio
dal titolo La multiregionalità dello sviluppo economico italiano, a firma
Giacomo Becattini e Giuliano Bianchi. Ora, il 1982, data di quel saggio,
12 Prefazione
segna un trapasso importante nei miei studi -e anche nei suoi, per quel che
ne so- nel senso di costituire il momento in cui alzo la testa dalle vicende
toscane per dedicarmi alla decifrazione dello sviluppo complessivo del
nostro paese. La prova dell’importanza ch’io diedi a quel confronto sta nel
fatto che ho conservato, in apposita cartella, il carteggio relativo a quello
studio. Sono andato a riaprirla, quella cartella, e sono riaffiorate alla mia
memoria, con commozione facile a immaginare, tutte le fasi di quel ping
pong intellettuale.
Ma c’è ancora un aspetto del Giuliano di quegli anni ottanta che voglio
ricordare: la sua premonizione dei problemi e delle prospettive dell’area
metropolitana che si andava formando attorno a Firenze. Questo è un
punto su cui non abbiamo mai trovato il tempo e l’opportunità di chiarire
le nostre posizioni.
E ora io son qui -ingiustamente, se vogliamo, a rigor di calendario- a
ricordare lui, che, furbescamente, si è sottratto al compito di ricordarmi.
Non suoni irriverente questa chiusa, perché, col suo spiritaccio fiorentino,
son certo che Giuliano l’avrebbe gradita.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 13
ANALISI DELLE INTERDIPENDENZE LOCALI: ALCUNE PREMESSE TEORICHE*
Giuliano Bianchi, Marco Bellandi, Fabio Sforzi
Introduzione
La spiegazione dell’efficienza economica e delle suscettività di sviluppo
di sistema di piccole imprese, territorialmente concentrate e, di norma,
specializzate per prodotti, parti di prodotto, fasi di processo e un tema che
ha conosciuto una notevole fortuna nella letteratura economica (e non solo
economica) in questi ultimi anni. A parte un primo lavoro pionieristico
(IRPET, 1969), la ricerca e la discussione si son venute sviluppando con
crescente, e per ora non declinante intensità soprattutto dalla metà degli
anni Settanta (fra gli innumerevoli contributi ci limitiamo a ricordare,
esemplificando: Becattini, 1975; Brusco, 1975; Bagnasco e Messori,
1975; Bagnasco, 1977; Tousijn, 1978; Varaldo, 1979; Lorenzoni, 1979;
Cori, 1979; Mariti, 1980; Paci, 1980; Antonelli e Momigliano, 1980;
Garofoli, 1981), coniando locuzioni di varia consistenza interpretativa
ma di indubbio successo pubblicistico quali: “area sistema”, “economia
periferica”, “industrializzazione diffusa” variamente intrecciate a categorie
come quella di “decentramento produttivo” o a etichette assai più sprezzanti
come quella di “economia sommersa”.
In realtà ci si può accostare a questi temi muniti di uno schema teorico
unitario sol che si ricordi come dalle proposizioni di Adam Smith sulla
divisione del lavoro parte una linea di pensiero che passa poi per A. Marshall,
A. Young, J. Stigler, fino ad arrivare ad un recente modello proposto da
N. Georgescu Roegen e adattato alle problematiche qui in esame da P.
Tani, secondo la quale si dimostra la possibilità di mettere in relazione
certe economie di scala e di sviluppo non alla dimensione di singole
organizzazioni aziendali, ma alla dimensione produttiva complessiva
di sistemi di imprese diverse, ove sia possibile e si attui un’opportuna
divisione del lavoro fra le medesime (Bellandi, 1982).
Del resto, e alla luce di questa linea di pensiero, integrata dai contributi
di A.O. Hirschman e di A. Lewis, che è stato possibile spiegare lo sviluppo
economico della Toscana di questo dopoguerra. Uno sviluppo “non
accentrato”, secondo un processo di proliferazione e diffusione di piccole
imprese operanti in settori “tipici” dell’industria leggera, che ha specificato
ambienti, come la “campagna urbanizzata”, identificati dalla peculiarità
delle relazioni fra le imprese e fra queste le famiglie, il mercato del lavoro,
* Memoria presentata alla III Conferenza Italiana di Scienze Regionali, organizzata dall’Associazione
Italiana di Scienze Regionali (AISRe), Venezia, 10-12 novembre 1982.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 15
le istituzioni locali. Queste relazioni hanno attivato un efficace meccanismo
di generazione e trasmissione di economie esterne all’impresa ma interne
all’industria, che di quello sviluppo sono state il combustibile specifico
(IRPET, 1975a). Sulla stessa linea, e con la medesima strumentazione
concettuale, si è cercato di spiegare anche uno dei principali esiti del
nuovo ciclo del processo di industrializzazione toscano avviato nel corso
degli anni Settanta: la genesi, i cicli, di un’industria intermedia (Bianchi e
Falorni, 1980).
1. Economie esterne e interdipendenze locali
1.1 Economie esterne: rilevanza teorico-pratica e riscontri empirici
Assunta questa prospettiva, i differenziali di prestazione dei diversi sistemi
territoriali di imprese (ossia: di diversi sistemi economici locali) possono
essere ricondotti a differenziali dei flussi di economie esterne-interne
generate nei vari sistemi in dipendenza della loro diversa struttura e della
diversa configurazione delle relazioni fra le loro componenti.
È di immediata evidenza (e, del resto, ampiamente provato in
letteratura) quanto queste diversità ambientali siano significative per
interpretare il comportamento dei sistemi economici locali e rilevanti ai
fini di misurare (promuovere) l’efficienza degli apparati produttivi e di
prospettare (verificare) l’efficacia delle politiche. In particolare, tutte le
ricerche empiriche condotte dall’IRPET su settori (agricoltura, artigianato,
industria intermedia, turismo) o su aspetti (spesa comunale, occupazione,
trasformazione territoriale) della realtà toscana hanno mostrato come
la composizione dei fenomeni indagati, e soprattutto la loro notevole
variabilità. spaziale, dipendono in ultima istanza dai caratteri ambientali,
cioè dalle relazioni che localmente connettono i fattori economici e questi
agli aspetti extra-economici.
Ora, gli studi su questa materia sono grossolanamente classificabili in
tre classi:
a) studi sulla localizzazione industriale, che normalmente trattano di
“fattori localizzativi” secondo approcci descrittivi e non quantificabili;
b) studi sull’aggregazione spaziale dell’industria (o, più in generale e più
recentemente: delle attività produttive), che normalmente conducono
all’identificazione di clusters o complessi di industrie generati da una
“mutua attrazione localizzativa” o individuati sulla base di “similarità
qualitàtive”;
c) studi sull’efficienza dell’industria, la cui variabilità e normalmente
spiegata in termini di “economie di agglomerazione” che si assume
influenzino i costi e/o i ricavi.
16 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
Da Weber (e dalla rilettura che ne propone Hoover) in poi e stata
largamente accettata in letteratura una classificazione delle economie di
agglomerazione che le distingue in:
- economie interne di scala, come risultato dell’aumento della scala di
produzione all’interno di un singolo stabilimento;
-
-
economie di localizzazione, per le imprese di un’industria in una
determinata agglomerazione, dipendenti dall’aumento del prodotto
totale di quell’industria;
economie di urbanizzazione, per tutte le imprese e le industrie di
una determinata agglomerazione, dipendenti dall’ampliamento della
dimensione economica complessiva della medesima.
Sul contenuto definitorio di queste categorie, cosi come sul loro
successo nell’analisi economica, non e certo il caso di soffermarsi.
Sembra, però, opportuno rimarcare la rilevanza dell’approccio in termini
di economie esterne di agglomerazione da un punto di vista operativo:
per la generazione di politiche spazialmente differenziate, per esempio.
Naturalmente l’oggetto di possibili politiche non sono le economie in se,
ma le loro fonti concrete.
Da qui 1’evidente interesse di un’analisi circostanziata (e, per quanto
possibile, quantificata, o almeno tendenzialmente quantificabile) delle
varie classi di economie esterne di agglomerazione e delle loro fonti
specificamente individuate.
Se si guarda al complesso della letteratura sull’argomento, ricca di
elaborazioni anche di grande finezza interpretativa e non priva di riscontri
empirici, è agevole osservare che:
-
-
-
i dati occorrenti per la misurazione delle economie esterne di
agglomerazione (e quindi per 1’apprezzamento della “capacità” delle
loro fonti) sono raramente disponibili, si che, normalmente, si ricorre a
proxies parziali e inadeguati;
la spazializzazione dell’analisi e, frequentemente, eseguita in termini di
break-down della struttura produttiva nazionale, dato che molte ricerche
sono, per natura, intersettoriali e non inter-territoriali;
anche quando sono fornite misure, queste si riferiscono, di norma, a
correlazioni fra pochi fattori, separatamente considerati, piuttosto che
alle simultanee interrelazioni fra le componenti (non tutte di natura
economica) del sistema locale considerate.
Per queste ragioni si e ritenuto valesse la pena di esperire un tentativo
lungo un’altra direzione: partendo dalla definizione preliminare, ammessa
come ipotesi di lavoro, si assume che la fonte (e il canale di trasmissione)
dei flussi di economie esterne, che spiegano i differenziali di performance
dei sistemi produttivi spazialmente concentrati di piccole imprese
specializzate, sia costituita dal reticolo di interdipendenze fra le componenti
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 17
(non solo economiche) del sistema demografico-territoriale che “ospita”
quel sistema produttivo (con l’avvertenza che qui -e per ora- la nozione di
sistema è usata in termini intuitivi).
In effetti gli studi sullo sviluppo toscano fin qui prodotti (non solo
dall’IRPET) hanno dimostrato che:
- le interdipendenze settoriali (in termini input-output) del sistema
produttivo regionale sono piuttosto deboli, essendo l’origine della
domanda e dell’offerta che si rivolgono alle industrie regionali
tipicamente fuori della regione (Bianchi, 1982);
- le interdipendenze infra-settoriali (ancora in termini input-output) del
sistema produttivo regionale sono piuttosto forti, come ci si poteva
aspettare date le peculiarità di quel sistema (basato su piccole unità
produttive altamente specializzate, non solo per prodotti ma anche per
parti di prodotto e fasi di processo, sì che le celle sulla diagonale della
matrice sono tipicamente “piene”);
- le interdipendenze socio-economiche (diciamo: fra imprese, famiglie
e governi locali) appaiono essere notevolmente spesse, come prova
la persistente identità e la vitalità delle entità storico-geografiche
sub-regionali, potenzialmente rintracciate anche da un procedimento
analitico mirato all’identificazione di sistemi sub-regionali (in termini
di “sistemi urbani giornalieri”: Sforzi, 1982).
1.2 Presupposti e obiettivi di un programma di analisi delle interdipendenze
locali
Un programma di ricerca che abbia come oggetto l’analisi delle reti di
interdipendenze locali come sopra definite presuppone (oltre, evidentemente,
a una esplicitazione del paradigma teorico di riferimento) due scelte
preliminari relative all’ambito (spaziale ed economico) nel quale ricercare
quelle reti ed alle modalità (definitorie e operative) che ne permettano
(eventualmente) l’identificazione e (se possibile) la quantificazione.
Ora, segue dalla nostra definizione che l’ambito di ricerca è rappresentato
dai sistemi sub-regionali, da tempo identificati in Toscana. Sulla stessa
linea sono, del resto, Townroe & Roberts (1980) che, in un tentativo di
misurazione delle economie di agglomerazione usano la maglia territoriale
delle 61 planning sub-regions della Gran Bretagna, pur riconoscendo che “la
base spaziale più appropriata dovrebbe essere basata su qualcosa di simile
a un insieme di sistemi urbani funzionali, ciascuna area urbana essendo
definita sulla base delle sue caratteristiche interne (densità, pendolarità,
ecc.) e sulla base delle sue interrelazioni con le aree urbane contigue”. Per
quanto riguarda le modalità definitorie e operative dell’identificazione si
può ricordare, anzitutto, che le interdipendenze settoriali, diciamo classiche,
sono misurate ovviamente da una matrice input-output. Per la Toscana
18 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
ne sono disponibili due, 1975 e 1977, stimate con metodo “diretto”. E,
dati i comportamenti localizzativi dell’industria toscana, diverse “righe”
e “colonne” non suscettibili di qualche connotazione spaziale (Bianchi,
1982). Un accostamento al problema dell’identificazione e della misura
delle interdipendenze economico-sociali e extraeconomiche è rappresentato
dall’analisi dell’area sociale che permette la classificazione spaziale della
struttura sociale di un’area determinata, considerando simultaneamente
(e accoppiando un’elevata capacità di risoluzione analitica a un’elevata
flessibilità delle classificazioni) insiemi di variabili grandi a piacere
(il procedimento è stato applicato a tutta la Toscana, utilizzando come
base areale le sezioni di censimento, con i dati del 1971 si è in attesa di
replicarlo con i dati del 1981 (Bianchi et al., 1981; Openshaw, Sforzi e
Wymer, 1982c). Ma -più in generale e conclusivamente per questa nostra
impostazione- serve tener presente che sulla linea di pensiero aperta
dalla riflessione di A. Marshall sulle interazioni interne ad un sistema di
imprese (di non grandi dimensioni) spazialmente concentrate, e fra questo
e una certa popolazione (operai e non), su un territorio di insediamento
(industriale e residenziale) comune e relativamente ristretto (Bellandi,
1982), è stato recentemente riproposto (Becattini, 1979) il concetto di
distretto industriale, che si manifesterebbe appunto, come un “ispessimento
localizzato” dei sistemi di interdipendenze.
Ciò che qui preme sottolineare è che tramite il concetto di distretto
industriale si può ricondurre a un ragionamento economico, anche se non
di analisi economica angustamente intesa, una parte almeno della fitta
trama di interrelazioni economico-social-territoriali in cui si muovono
in certe realtà le imprese. L’importanza di questo tentativo sta appunto
nella sua unitarietà; cioè nella sua capacità di proporre non solo una
serie di strumenti concettuali ma anche una “unità d’indagine” adeguata
allo studio della “dimensione ambientale” dell’efficienza industriale
(Bellandi, 1981).
L’interesse di poter costruttivamente delineare un plausibile itinerario
di ricerca sul tema delle interdipendenze locali sarebbe almeno duplice, se
e nella misura in cui questo potesse rappresentare:
a) la confluenza di tre filoni di ricerca come quelli che -applicati sin qui
allo studio della Toscana- hanno prodotto: il riconoscimento delle
“aree tipologiche” (campagna urbanizzata, aree turistico-industriali,
aree urbane, campagna) generate dallo sviluppo di questo dopoguerra;
1’identificazione dei sistemi sub-regionali come componenti organiche
del sistema regionale; l’analisi della differenziazione spaziale della
struttura sociale dei singoli sistemi sub-regionali (o di loro parti);
b) il possibile basamento concettuale per la definizione di politiche
economiche a scala locale.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 19
Occorre commentare brevemente questo secondo punto. Nel dibattito,
per la verità non sempre affascinante, circa 1’efficacia comparativa di
politiche economiche (o industriali o di programmazione tout court di tipo,
rispettivamente, “globale”, “settoriale” o “fattoriale” (per fattori cosiddetti
“orizzontali”: R&D, promozione, formazione, ecc.) si è venuta più
recentemente facendo strada 1’idea che, almeno in parte, l’insuccesso delle
politiche economiche regionali potesse essere ricondotto alla mancanza
di una loro “dimensione spaziale” e si è quindi ventilata l’alternativa
di politiche intersettoriali a base territorialmente definita (Antonelli e
Momigliano, 1980). Ma siamo, in genere, nell’ambito della specificazione
locale di politiche nazionali, o al massimo, del concerto fra politiche
nazionali e politiche locali.
Così se si considera la possibilità di progettare e implementare politiche
economiche locali (anche nel senso di regionali) in senso stretto si scopre
subito la mancanza di strumenti diretti (soprattutto di politica industriale) e
la scarsa efficacia degli strumenti indiretti sinora praticamente sperimentati:
o perché inefficaci in sé (esempio: contributi in conto interessi alle imprese,
che rappresentano sovente una distribuzione secca di risorse), o perché
di ridotta efficacia nella loro applicazione separata e non interdipendente
(formazione professionale, aree produttive attrezzate, ecc.).
Proviamo invece a immaginare intuitivamente qualche specificazione
concreta di interdipendenze locali. Sappiamo che, volendo, si possono
identificare e misurare con tecniche matriciali le interdipendenze fra unità
produttive che si esprimono in transazioni di mercato; ma sappiamo anche
che queste interdipendenze possono essere influenzate poco o punto dalle
politiche locali. Ora se nel legame di interdipendenza inseriamo anche il
governo locale e pensiamo ad altri tipi di interdipendenze fra unità produttive,
allora reperiamo punti elettivi di applicazione specifica di politiche locali.
Per esempio: se 1’interdipendenza si esprime nella cooperazione fra
imprese specializzate per parti di prodotto o fasi di processo, c’è spazio per
la promozione di forme consortili. Quando 1’interdipendenza si manifesta
mediante trasmissione di informazioni (l’impresa produttiva di beni
finali che pone un problema di innovazione all’impresa fornitrice di beni
strumentali o gli sperimenta un prototipo), resta definita una potenzialità
per attivare iniziative di trasmissione di know what o di know how.
E ancora: se guardiamo all’interdipendenza fra il sistema delle famiglie
e quello delle imprese in termini di rapporto fra offerta e domanda di
lavoro siamo fuori dalle possibilità di azione delle politiche locali. Ma se
guardiamo ad altre configurazioni del rapporto e, di nuovo, includiamo
nell’interdipendenza il governo locale troviamo che le politiche di
localizzazione degli insediamenti produttivi o residenziali e quella
dei trasporti e delle comunicazioni influenzano in modo determinante
20 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
l’accessibilità reciproca tra luoghi di residenza e luoghi di lavoro; che i servizi
sociali, agevolando l’attività lavorativa delle donne, possono condizionare
l’offerta di lavoro; che i programmi di formazione professionale sono uno
strumento appropriato per ridurre le eventuali sfasature qualitative tra
domanda e offerta di lavoro.
Questi esempi forniscono un’idea dei possibili contenuti di una politica
a scala locale articolata per progetti specifici (rispetto agli obbiettivi),
integrati (rispetto ai settori d’intervento) e localizzati (rispetto allo spazio
di applicazione).
Deve essere chiaro che questi esempi hanno un grado di consistenza
che non pretende di andare oltre 1’applicazione del buon senso: ma qui
forniscono una motivazione pratica a una concezione delle politiche
locali di sviluppo come mobilitazione organica dei poteri e delle risorse
disponibili allo scopo di imprimere opportune sollecitazioni al reticolo delle
interdipendenze locali (nella misura in cui queste siano efficaci generatori e
propagatori di flussi di economie esterne). In questa ipotesi -ma lo diciamo
con tutta l’incertezza che è di rigore all’inizio di un’operazione di ricerca-
parrebbe allora avere un senso il tentativo di identificare le componenti
di un reticolo di interdipendenze locali, di qualificare tipologicamente le
interdipendenze, di quantificare i flussi di economie esterne, di esplorare le
possibilità di adattarvi politiche. Ma prima, naturalmente, occorre stabilire
il paradigma teorico che deve guidare 1’intera operazione. Si può presumere
-ma empiricamente già lo si sa- che i reticoli di interdipendenze locali
assumano configurazioni diverse al variare delle componenti dei sistemi
locali che le originano, dei loro attributi e dei modi nei quali concretamente
le interdipendenze si stabiliscono (anche per effetto delle componenti
extra-economiche). Ma per intanto ci è parso doveroso, non meno che
conveniente, avviare la ricognizione teorica a partire dalla configurazione
di cui era già stata saggiata la consistenza teorica, oltre che la peculiare
pertinenza per un sistema come quello toscano: il distretto industriale.
2. Interdipendenze locali e sistemi di produzione
L’individuazione del concetto di distretto industriale richiede un processo
di avvicinamento teorico all’oggetto, precedente la sua definizione. Con il
presente capitolo si vuole appunto esprimere questo “avvicinamento”.
In particolare, nei prossimi tre paragrafi, ci poniamo 1’obiettivo di
studiare quali sono le forze, in termini di differenziali di produttività (e
quindi, a parità di prezzi delle risorse definite come primarie, in termini
di differenziali nei costi medi unitari), che sono coerenti con un assetto
spazialmente accentrato e una accentuata divisione del lavoro fra imprese
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 21
di un “sistema di produzione” (Tôrnqvit, 1977), o di una parte connessa
dello stesso, o di parti connesse di sistemi diversi. Dove si precisi che: i)
tali forze rientrano all’interno della definizione di “interdipendenze locali”,
e in genere si identificano (non esaurendolo) col concetto di “economie
esterne di agglomerazione”; ii) la definizione di “assetto spazialmente
accentrato”, e quindi di agglomerazione, è soggetta a notevoli ambiguità,
che saranno in seguito affrontate (si spera coerentemente) di volta in volta.
Nel quarto paragrafo discuteremo brevemente di un tipo di forze di ordine
diverso, ma degli effetti convergenti con quelli del primo tipo.
2.1 Il trasporto dei beni all’interno dei sistemi di produzione
I limiti quantitativi della presente relazione impongono di affrontare
il tema con poche battute. La prima non può non far riferimento al
processo secolare di progresso nei mezzi e sistemi di trasporto e nella
trasportabilità dei materiali (per una puntualizzazione Tôrnqvist, 1977).
Questo depone a favore dell’ipotesi della diminuzione dell’importanza
della transport orientation nella determinazione della distribuzione
spaziale delle attività industriali (osservazione troppo comune per essere
oggetto di riferimenti bibliografici); e quindi anche dell’importanza di una
considerazione dei problemi di trasporto dei beni per la spiegazione delle
tendenze agglomerative che tuttora permangono nei sistemi economici
industrializzati. L’ipotesi sembra tanto più significativa quando si tratti
di spiegare le eventuali ragioni di efficienza di agglomerazioni di piccoli
stabilimenti (e quindi anche di piccole imprese) (Bellandi, 1982).
Come si dirà nei prossimi paragrafi, e poi nel prossimo capitolo, si possono
individuare importanti “economie esterne di agglomerazione” in un quadro
diverso dalla transport orientation.
Si noti comunque che:
-
-
il prevalere di forze localizzative non dipendenti da problemi di
trasporto, in connessione alla diminuzione del costo di trasporto per
unità di servizio, può portare ad un aumento del peso del costo di
trasporto totale sul costo totale per un certo prodotto (Isard, 1962; per
un’esemplificazione, Tôrnqvist, 1978);
al di sotto delle grandi tendenze e generalizzazioni esiste una serie di
problemi, connessi al trasporto dei beni, che non può evidentemente
essere ignorata. negli studi di caso sulle tendenze agglomerative anche
negli odierni sistemi industrializzati. Questi problemi si riferiscono agli
effetti del permanere di un’elevata differenziazione nelle prestazioni di
mezzi di trasporto di tipo diverso (S. Florence, 1948; Alonso, 1972);
della non uniformità dell’azione e dell’adozione del progresso tecnico
nel campo in esame (Lloyd e Dicken, 1979); della diversa percorribilità
dell’ambiente bio-fisico (Alonso, 1972); della differenziazione (connessa
22 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
alle condizioni precedenti) nelle caratteristiche di trasportabilità
e disponibilità dei beni e nelle condizioni di accessibilità dei luoghi
alle reti di trasporto. Per approfondimenti rimandiamo alla letteratura
appena citata ;
- un problema di trasporto particolare è posto dalla necessità di rapida
disponibilità di beni secondo specificazioni quali-quantitative non
prevedibili (completamente) ex-ante. L ’ esame di questo problema è
inserito nel quadro di considerazioni discusse nel prossimo paragrafo.
2.2 Circolazione di informazioni all’interno dei sistemi di produzione e
agglomerazione
Il funzionamento dei sistemi di produzione richiede non solo trasporto
di beni ma anche movimento di persone, flussi di informazioni, flussi
finanziari, decisioni.
• Agglomerazione e movimento di persone
Il progresso dei sistemi di trasporto ha agito anche nel senso di rendere più
facili, meno costosi e più veloci i viaggi delle persone.
Tuttavia, nel 1965, P. Aydalot affermava che “i costi di trasporto di
una persona sono ancora relativamente elevati, e, soprattutto, i tempi di
immobilizzazione di un ingegnere o di un esperto qualsiasi sono molto
costosi. Ogni distanza implica una perdita di tempo suscettibile di
maggiorare considerevolmente il costo del servizio”.
Se questo è vero, l’organizzazione dei sistemi di produzione dovrebbe
tendere a regolare il flusso dei materiali in modo da restringere le necessità
di spostamento degli addetti i cui servizi hanno per oggetto e strumento tali
materiali (si veda per esempio il secondo principio di Adam Smith sulla
divisione del lavoro). Non sempre però è possibile o conveniente spostare le
cose. è questo il caso per esempio degli stabilimenti industriali, dei magazzini,
dei negozi. Una disposizione agglomerata di queste cose (che può per esempio
essere rappresentata da un grande stabilimento o da un’agglomerazione di
piccoli stabilimenti) può allora ridurre i costi di spostamento di certe categorie
di specialisti. Tipici sono gli esempi delle squadre di manutenzione, delle
squadre di riparazione, o anche degli agenti di vendita o degli agenti di acquisto.
Questi esempi (a parte forse il primo), e altri importanti che si potrebbero fare,
riguardano però anche 1’azione di un’altra serie di circostanze, che qui di
seguito cercheremo di mettere a fuoco.
In effetti le maggiori difficoltà di riduzione delle necessità di spostamento
degli addetti all’interno dei sistemi di produzione si presentano quando
oggetto e strumento di produzione e non solo o non tanto uno o più
beni materiali, quanto il reperimento, 1’elaborazione e la diffusione di
informazioni.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 23
• Circolazione delle informazioni
La circolazione delle informazioni può effettuarsi in modi differenti:
contatti diretti mediati (poste, telefono, telex, telecomunicazioni); contatti
diretti personali (face-to-face o sopralluoghi); mass-media. Soffermiamoci
sui primi due tipi.
I contatti diretti mediati permettono un restringimento delle necessità
di movimento di addetti all’interno dei sistemi di produzione. Non sempre
per posta, telefono, telex (o nel futuro anche telecomunicazioni personali)
risultano mezzi di comunicazione soddisfacenti rispetto alla qualità del
servizio richiesto Goddard, 1978; Goddard e Pye, 1978). Una distinzione
fondamentale per l’analisi di questa problematica è quella fra determinazioni
(spesso decisioni) di routine e determinazioni di non routine.
Lo scambio di informazioni necessario alle prime può in genere essere
effettuato in modo soddisfacente tramite comunicazioni personali mediate.
Più articolato è il discorso per le determinazioni di non routine.
Queste possono essere determinazioni originali (alla base eventualmente
di una successione di determinazioni di routine), o anche repliche non
soggette ad alta standardizzazione: in quanto tali, richiedono un processo
di ricerca di soluzioni alternative. Le condizioni della ricerca variano a
seconda che 1’oggetto sia o non sia standardizzato. Nel primo caso non
è escluso che il processo di ricerca, e quindi le determinazioni, possano
compiersi attraverso comunicazioni mediate (per esempio un ordine di
acquisto per telefono effettuato sulla base di un catalogo). Nel secondo
caso le comunicazioni mediate difficilmente risultano soddisfacenti. Siamo
nel campo di quelle che A. Simon chiama “decisioni non programmate”
(Tôrnqvist, 1974 p. 355). In tali condizioni il mezzo più efficace per il
passaggio di informazioni specializzate è il contatto personale diretto, è
anzi il contatto faccia a faccia (per esemplificazioni e approfondimenti
Vernon, 1972; Tôrnqvist, 1974; Goddard, 1978; Polanyi, 1978).
Le necessità di contatti personali, e in particolare di contatti faccia
a faccia, possono spiegare tendenze agglomerative di livelli diversi di
estensione e complessità. In particolare possiamo distinguere due livelli:
- 1’agglomerazione di attività simili, ma soggette a differenziazione di
prezzo e qualità: la concentrazione spaziale di fornitori (o clienti) riduce
i tempi della ricerca diretta (Bellandi, 1982). L’economia di scala di
agglomerazione in questo caso può essere sia interna a una singola unità
locale (e impresa) sia interna a un sistema spazialmente concentrato
di unità locali (imprese) (Marshall, 1972; Chamberlin, 1951). Si
noti che un’ubicazione a distanza, rispetto all’agglomerazione, degli
acquirenti (o, nel caso opposto, dei fornitori) presuppone la possibilità
di fruire, con relativa facilità, di mezzi e sistemi per viaggi veloci (per
approfondimenti: Hirschman, 1968; Jacobs, 1970; Pred, 1974);
24 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
- quando le necessità di contatti faccia a faccia fra il personale di funzioni
connesse (all’interno dei sistemi di produzione) è molto alta, e cioè
quando tali contatti debbano essere molto frequenti e tempestivi,
una localizzazione a distanza può diventare sia troppo costosa sia
insoddisfacente dal punto di vista della rapidità di esecuzione.
In tal caso risulterà vantaggiosa un’agglomerazione di tali funzioniagglomerazione
di tipo verticale che quindi si sovrappone a quella di tipo
orizzontale già presupposta per quanto detto nel punto precedente.
• Necessità di rapidi contatti faccia a faccia
Si possono individuare all’interno di sistemi di produzione connessi,
funzioni più soggette a variazioni non routine rispetto ad altre più prevedibili
ed eseguibili secondo schemi standardizzati. La distinzione fra funzioni
routine e funzioni non routine è spesso identificata con quella fra funzioni
operative (di trasformazione industriale) e funzioni di servizio alle prime.
Comunque, all’interno di quest’ultime si può alle volte distinguere attività
impiegatizie, facilmente meccanizzabili o automatizzabili, e attività volte
allo sviluppo, pianificazione e organizzazione, effettivamente inquadrabili
come funzioni non routine (Tôrnqvist, 1974). La distinzione che così si
realizza è coerente alla possibilità di mantenere processi industriali di
grande serie, cioè altamente standardizzati, in un ambiente economico
caratterizzato da alta variabilità e incertezza: le funzioni del secondo tipo
affrontano la variabilità, cercando di garantire 1’uniformità delle condizioni
richieste dalla produzione di massa (Wood, 1978). I due differenti tipi di
funzione seguono orientamenti localizzativi differenti: il secondo tipo è
sottoposto alle forze agglomerative di cui al sottoparagrafo precedente; il
primo tipo è sottoposto a forze localizzative di tipo differente (Tôrnqvist,
1974). La separazione spaziale delle due funzioni si potrà d’altra parte
verificare nella misura in cui le pur basse necessità di contatto fra queste,
possano essere tollerabilmente soddisfatte con l’ausilio dei sistemi di
trasporto e comunicazione disponibili.
Non sempre è possibile, o comunque vantaggioso, garantire tali
condizioni: le caratteristiche della domanda e/o dell’offerta possono
richiedere capacità di adattamento rapido alle funzioni operative: in queste
circostanze, produzione e organizzazione della produzione tendono a
divenire aspetti non separabili di un’unica funzione per la quale si richiedono
elevate “capacità professionali” (d’altra parte, le stesse circostanze non
sono necessariamente stabili: cosi che le tendenze localizzative all’interno
di un sistema di produzione possono variare nel tempo) (Vernon, 1972;
Pred, 1974).
Nella letteratura si trova spesso associata, a quest’ultimo tipo di
agglomerazione, la caratteristica di una fitta divisione del lavoro fra
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 25
imprese di non grandi dimensioni. Nel prossimo paragrafo ci soffermiamo
sulle ragioni di tale associazione.
2.3 Dimensione d’impresa e agglomerazione
Per approfondire le considerazioni svolte nel precedente paragrafo occorre a
questo punto introdurre esplicitamente il tema della dimensione d’impresa.
Un usuale punto di partenza per una discussione in questo campo è dato
dalle “economie di scala”.
• Economie di scala, mercato e flessibilità
Nel caso di processi produttivi ad alta variabilità e frammentazione
di domanda, sottoposti (più o meno in connessione) a frequenti
cambiamenti tecnologici, “scomponibili” (Stigler, 1951; Tani, 1976) e
ad alta intensità di lavoro anche professionalizzato, le economie di scala
esclusivamente interne al singolo stabilimento (o alla singola impresa) in
genere riguardano “scale di attività” non molto grandi (Rullani, 1978).
L’affermazione è volutamente bivalente. È vero che fra le produzioni a
domanda frammentata e variabile si trovano anche quelle condotte su
base tipicamente artigianale, come per esempio l’alta moda. Ma fra
1’artigianato da una parte e 1’economia della produzione di massa e della
catena industriale dall’altra, si può individuare anche un terzo “metodo di
manifattura” (la realtà è inevitabilmente ancora più sfumata) che sembra
adatto rispondere sia alle esigenze della differenziazione della domanda
sia a quelle di un elevato contenuto tecnologico (distinguendosi in ciò
dall’artigianato). Si tratta di quella che Jacobs (1970) chiama “produzione
differenziata”, che è in Becattini (1978) una “seconda strategia” per lo
sviluppo industriale capitalistico, o che Sabel e Zeitlin in un recentissimo
saggio (1982) chiamano “specializzazione flessibile”. Caratteristiche di
questo terzo metodo sono 1’applicazione ai processi produttivi di “capacità
professionali” altamente qualificate e un’organizzazione flessibile ma dalle
potenzialità, in termini di unità di prodotto per lavoratore, non esigue. Per
ulteriori specificazioni di carattere tecnologico e “settoriale” si rimanda ai
saggi appena citati; mentre qui ci soffermiamo sul tema della flessibilità
organizzativa, discutendo congiuntamente delle economie e diseconomie
di scala di organizzazione di impresa, e dei costi d’uso del mercato. In
seguito sarà richiamato il ruolo di altri tipi di economie di scala.
Si noti, dunque, che uno dei principi che stanno alla base dell’esistenza
di costi d’uso del mercato (cfr. Coase, 1967) è quello dell’“incompletezza
contrattuale” (Williamson, 1971); nel caso di frequenti variazioni del
proprio prodotto un’impresa trova grosse difficoltà “a prevedere e risolvere
sul piano contrattuale tutti i possibili casi di variazione degli inputs che essa
dovrebbe comunque acquistare” (Mariti, 1979, p. 115). D’altra parte cosa
26 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
assicura le imprese fornitrici sulla possibilità di ottenere, in un’industria
sottoposta a domanda variabile e rapido rinnovo dei modelli, un flusso
di ordinazioni abbastanza continuo e costante su livelli che permettano
un’utilizzazione soddisfacente (Georgescu Roegen, 1971) delle proprie
risorse specializzate?
Una soluzione a questi problemi è spesso individuata nella
internalizzazione delle transazioni, cioè, nei casi in esame, nell’integrazione
verticale. La formulazione di tale soluzione è basata sulla natura delle
transazioni interne alle imprese, e cioè dei rapporti di lavoro che si
svolgerebbero per mezzo di imperfectly specified contracts (Loasby, 1976,
p. 66): con un contratto di questo tipo, una serie di accordi particolari viene
sostituito da un accordo generico che dà all’imprenditore la possibilità di
intervenire sull’organizzazione dei servizi lavorativi per via amministrativa;
ma, come subito sottolinea Coase, un’analisi complessiva non può ignorare
i “costi dell’internalizzazione” (Loasby, 1976).
Una considerazione unilaterale di quest’ultimo aspetto porterebbe
alla conclusione che, dove sono richieste decisioni “organizzative” molto
frequenti, le piccole imprese sono avvantaggiate dalla possibilità di
adattarsi più velocemente e a costi minori; ma in tali situazioni, come si è
detto, i costi d’uso del mercato sembrano essere molto alti.
• Divisione del lavoro fra imprese a agglomerazione in condizioni di
elevata variabilità ambientale
Il risultato ottenuto nel sottoparagrafo precedente può essere modificato a
favore di dimensioni “inferiori” d’impresa, dall’agglomerazione.
L’agglomerazione, come già si è detto, permette una riduzione dei
tempi di ricerca e, al netto delle difficoltà contrattuali, rifornimenti rapidi.
In questo quadro una funzione specializzata soggetta ad economie di scala
specifiche (accumulazione di scorte, Weber, 1957 e Lloyd e Dicken, 1979;
transazioni di massa, Marshall, 1975 e Lloyd e Dicken, 1979; economie di
accesso al capitale, Webber, 1972) può essere svolta da grossisti, ditte di
trasporto, banche, che provvedono al mantenimento a basso costo di scorte
diversificate e rapidamente disponibili. Si tratta di economie in genere
attribuite alla grande impresa; che però possono anche essere internalizzate
da un sistema agglomerato di imprese di non grandi dimensioni, dove i
mercati di sbocco del sistema siano sufficientemente grandi da permettere
il rendimento di funzioni e imprese specializzate (Smith, 1972; Marshall,
1972; Young, 1973; Stigler, 1951).
Anche le difficoltà contrattuali possono essere ridotte. Più numerose e
differenziate sono le attività all’interno dell’agglomerazione, più alta è la
probabilità per un “fornitore” di trovare sempre qualche impresa all’interno
che, in tempi successivi, abbia bisogno delle sue capacità specializzate. E
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 27
d’altra parte più grandi sono le riserve di capacità professionali e di risorse
specializzate disponibili, meno è probabile che un’impresa che ha bisogno
di certi inputs sia sottoposta all’offerta quasi monopolistica di un fornitore
specializzato.
Dove poi sia necessaria una collaborazione di non breve periodo per lo
sfruttamento di occasioni che richiedono modificazioni ad hoc dei “piani
di produzione ed investimento”, le imprese interessate possono ricorrere a
forme contrattuali intermedie fra 1’integrazione (fusione o annessione) e il
ricorso alla pura e semplice transazione di mercato (Richardson, 1972, Mariti,
1980): si tratta di accordi di lungo periodo, impliciti o espliciti, che prevedono
una “cooperazione ex ante” appunto nei piani di investimento e produzione.
Ebbene, all’interno dell’agglomerazione industriale (e in particolare, come si
vedrà, dei “distretti industriali”), in connessione alla vicinanza e allo “spirito
di comunità” può venire a crearsi “un clima di collaborazione e lealtà” (Estall-
Buchanan, 1978 p. 140) che agisce positivamente sulle possibilità di sviluppo
di co-operative arrangements. Questi possono anche prendere forma di accordi
di “sub-fornitura”. La letteratura sul decentramento produttivo ha messo in
luce gli aspetti deteriori che spesso si accompagnano alla sub-fornitura; la
quale però, occorre sottolineare, realizza una divisione del lavoro, che ha
per oggetto 1’esplicazione della stessa funzione organizzativa inter-impresa,
fra imprese industriali orientate alla trasformazione e imprese industriali
orientate alla commercializzazione (o semplicemente imprese commerciali)
poste sulle fasi terminali dei processi di produzione quest’ultime svolgono
quindi un ruolo specializzato, potenzialmente importante (soprattutto
quando le caratteristiche della domanda richiedono un continuo adattamento
della rete organizzativa interimpresa), nell’organizzazione della produzione
decentralizzata e nel mantenimento di adeguati sbocchi di mercato. In tali
condizioni, 1’agglomerazione delle imprese dei due tipi riduce le difficoltà
di “cooperazione” per ragioni del tipo di quelle ricordate in 2.2.
è vero che nel quadro di rapporti fra imprese definiti dalla sub-fornitura,
le esigenze di flessibilità imposte da un ambiente altamente variabile si
possono tradurre in un alto tasso di mortalità delle imprese manifatturiere
più deboli e marginali; ma è anche vero che in ambienti ad alta variabilità
si registra per definizione la crisi delle imprese meno pronte al rinnovo;
inoltre dove si possano applicare considerazioni simili a quelle riportate
all’inizio del sottoparagrafo, vi è “facilità di ottenere impieghi alternativi
per proprietari, lavoratori e impianti dell’impresa fallita” (Townroe, 1970
p. 19). Questo vuol fra l’altro dire che in condizioni non depresse, all’alto
tasso di mortalità si accompagna un alto tasso di natalità delle piccole
imprese manifatturiere.
Per quanto riguarda il non univoco rapporto fra sub-fornitura e potere
di mercato all’interno di agglomerazioni di piccole imprese si rimanda
28 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
a IRPET, 1975; Lorenzoni, 1979; Becattini-Bellandi-Falorni. Due
considerazioni sono ancora utili per completezza:
- in un interessante articolo, Wood (1978) svolge alcune considerazioni
da cui si ricava che anche la grande impresa può affrontare condizioni
ambientali che richiedono frequenti decisioni organizzative; ma per
farlo efficacemente questa deve assumere una struttura di “gruppo
disintegrato” (Lorenzoni, 1979), cioè deve ricreare al suo interno
rapporti “quasi di mercato”. Il che, a ben vedere, riafferma da una parte
l’appropriatezza, alle condizioni ambientali in esame, di organizzazioni
di ridotta complessità amministrativa e per ciò stesso di non grandi
dimensioni; e dall’altra, però, l’importanza di rapporti che integrino i
limiti contrattuali degli scambi di mercato;
- i costi d’uso del mercato non sono riducibili ai soli casi di “incompletezza
contrattuale”. Ricordiamo i casi di team-production (Alchian e Demsetz,
1972), esternalità forme monopolistiche nei mercati in cui opera
1’impresa.
A tal proposito ci pare utile richiamare 1’attenzione sulla peculiare
contraddittorietà dei rapporti fra economie esterne, esternalità, forme di
mercato. Per brevità non ci soffermeremo sull’argomento, rimandando al
prossimo capitolo la discussione di casi di interesse diretto per 1’analisi
qui svolta.
2.4 Lo spazio decisionale d’impresa
Nei due precedenti paragrafi abbiamo visto come il reperimento e lo
scambio di informazioni ponga in certi casi difficoltà, significative e dai
precisi connotati spaziali, all’effettuazione dei processi decisionali. Finora
tuttavia non abbiamo discusso di un tipo particolare di limitazione (ai
processi decisionali) pure connessa al rapporto spazio-informazione: il
riferimento è ai concetti di “ambiente percepito”, di “sistema di codifica
dell’informazione”, di “razionalità delimitata”, oggetto come si sa di
crescente interesse nella letteratura economica, sociologica, geografica.
Il modo di espressione delle interdipendenze locali che si vuole studiare
con questi concetti è diverso da quello presupposto finora: qui le forze non
sono in termini di condizioni oggettive (differenziali di produttività), bensì
in termini di percezioni “soggettive”. A un certo livello di approfondimento
possono comunque essere recuperate linee di coerenza e convergenza.
La letteratura, su questo argomento, fornisce un’indicazione abbastanza
precisa: l’agglomerazione può anche essere vista, almeno tendenzialmente,
come un “punto” di riduzione dell’incertezza che deriva dallo squilibrio fra
“ambiente” e “ambiente percepito” (Pred, 1974; Tôrnqvist, 1979). Questa
riduzione risulta in primo luogo in un incentivo ai processi imitativi: sia
in termini di diffusione di innovazioni; sia in termini di nascita di nuove
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 29
imprese, che può appunto trovare un incentivo importante nell’esistenza di
un’agglomerazione di imprese simili (tanto più quando le nuove imprese
risultino da iniziative di piccole dimensioni) (Alchian, 1950; Hagerstrand,
1967). In effetti, secondo una ipotesi formulata da Pascall e McCall 1980,
1’agglomerazione (con certe caratteristiche) come prima localizzazione
è comunque una scelta vantaggiosa per la nuova impresa: infatti o il
luogo scelto rappresenta già un’ubicazione soddisfacente o, se non lo è,
l’agglomerazione, in quanto anche luogo di addensamento di flussi di
informazioni specializzate, permette di scoprire rapidamente e a basso
costo alternative localizzative migliori. Qui vanno sottolineate tre cose:
-
-
-
la presenza, anche se potenzialmente provvisoria, di imprese nuove
tende ad aumentare (al netto di diseconomie di congestionamento)
la ricchezza del tessuto produttivo dell’agglomerazione e quindi
l’efficienza complessiva del sistema di imprese agglomerato; questo
aumenta le probabilità di una conferma dell ’ ubicazione all’interno
dell’agglomerazione e con ciò di una definitiva acquisizione di nuove
economie esterne di agglomerazione all’interno del sistema;
quando all’interno del sistema agglomerato esiste una divisione del
lavoro fra piccole imprese orientate alla trasformazione e imprese
orientate alla commercializzazione, il processo di scoperta di migliori
alternative localizzative assume caratteri più complessi. Le imprese
orientate alla commercializzazione hanno uno “spazio decisionale”
molto ampio e questo permette all’intero sistema di operare su ampi
mercati; ma la stessa divisione del lavoro qui presupposta rende conto
del fatto che le possibilità di rilocalizzazione ad “ampio raggio” sono
limitate a tali imprese. Quando una tale rilocalizzazione avvenga,
interi gruppi di piccole imprese “manifatturiere” del sistema possono
trovarsi senza contatti con i mercati esterni e senza possibilità per la
ristrettezza dello spazio decisionale autonomo, di rilocalizzazione “ad
ampio raggio”;
la percezione da parte di soggetti e imprese residenti, delle attività svolte
in un’agglomerazione aumenta meno che proporzionalmente rispetto
alle dimensioni dell’agglomerazione, e ancora meno rispetto al tasso di
crescita della stessa.
3. Il distretto industriale come unità di indagine delle interdipendenze locali
Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di accumulare riflessioni sulle
possibili ragioni di efficienza e competitività di sistemi di piccole (e
medie) imprese industriali (e di servizio all’industria) territorialmente
concentrate. Questa accumulazione si è andata strutturando intorno ad una
30 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
linea di analisi che è, riteniamo, piuttosto consistente e significativa, quindi
degna di attenzione e approfondimento. Secondo questa interpretazione,
le ragioni in questione vanno ritrovate nella possibilità, per questi sistemi,
di “internalizzare” economie esterne di agglomerazione legate alla
specializzazione in processi produttivi dove sono richiesti decisioni e
cambiamenti organizzativi molto frequenti, dove le necessità di flessibilità
sono poste in primo luogo da un prodotto che cambia rapidamente e/o da
una domanda altamente variabile e frammentata e dove, in connessione
a tali caratteri, risulta necessaria una elevata intensità di lavoro
professionalizzato.
Quanto detto non chiarisce però come un sistema di questo tipo possa
formarsi, ne le ragioni di una sua eventuale persistenza (nel tempo).
Se l’esistenza (e quindi le caratteristiche di efficienza e competitività)
di questi sistemi si basasse su condizioni completamente accidentali
e fondamentalmente effimere, 1’analisi proposta non avrebbe alcuna
autonomia (Becattini, 1979); la spiegazione delle caratteristiche di
agglomerazione di piccole imprese andrebbe diversamente fondata e forse
questa stessa non avrebbe un interesse proprio. Nell’affrontare il problema
così posto, risultano fondamentali due temi non pienamente o non affatto
specificati in precedenza:
- i cambiamenti della “base” tecnologica o di mercato;
-
i rapporti con la popolazione e in particolare la formazione e riproduzione
di capacità professionali e imprenditorialità.
Tutto ciò porta a individuare come unità della nostra indagine non più un
sistema industrial-territoriale, ma un “ispessimento localizzato” (Becattini,
1979) di un certo tipo di interdipendenze fra imprese, famiglie, operatori
pubblici, che chiamiamo “distretto industriale”; per sinteticità espositiva
usiamo questo termine di qui in avanti quando 1’argomentazione si riferisca
all’oggetto che così vogliamo definire.
I problemi che ci apprestiamo ad affrontare richiederebbero, e
permetterebbero, un ampio riferimento alle teorie della formazione e dello
sviluppo urbano, alla sociologia urbana e del lavoro, all’economia del
lavoro e della famiglia, alla storia economica. Di fatto qui non è possibile
assumere un’ottica interdisciplinare così vasta e complessa; la questione
è risolta conservando la linea di riflessione di ordine economico tracciata
nei paragrafi precedenti e partendo da questa linea per articolare il discorso
verso ambiti disciplinari diversi.
3.1 Fattori originari nella formazione del distretto industriale
In genere si evita di ricorrere alle economie esterne di agglomerazione
per spiegare la formazione originaria di un’agglomerazione industriale in
condizioni di decentralizzazione amministrativa dei processi decisionali;
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 31
il riferimento, più o meno esplicito, è invece all’esistenza di forze
agglomerative indipendenti dallo sviluppo del sistema di imprese. In tal
caso anche una serie di scelte localizzative autonomamente formulate
può portare alla formazione di un’agglomerazione (per esemplificazioni
Chardonnet, 1962; P.S. Florence, 1962; Estall e Buchanan, 1971). In questo
ambito, una spiegazione tipica della formazione di agglomerazioni di piccole
imprese è quella che si riferisce allo schema concettuale del “decentramento
produttivo”. Ci pare particolarmente utile partire da questa spiegazione, in
quanto la stessa è usata per etichettare senza appello come “pre-industriale”
o “periferico”, se non “marginale”, e quindi carente di autonomi valori
decisionali e organizzativi, fenomeni di sviluppo basati su piccole (e medie)
imprese. Coerentemente a questa visione, la formazione e la competitività
di distretti industriali della piccola impresa è spiegata dall’esistenza di
processi di divisione intraregionale, interregionale internazionale del
lavoro tendenti a sfruttare la presenza di “bacini” di manodopera a buon
mercato ed assoggettabile ad un uso molto flessibile (ritornano alla mente le
considerazioni di A. Weber sull’agglomerazione di Industrie labour oriented
presso vasti bacini di manodopera “a buon mercato”). Il decentramento si
effettuerebbe su processi a bassa intensità di capitale; basso e bassissimo
ritmo di innovazione tecnologica; facile imitazione.
Il punto di riferimento sociale tipico di queste realtà locali è individuato
in “comunità” in cui esista e si sviluppi “un sistema di valori fortemente
attaccato al lavoro come la sola meta legittimata per risolvere tutti i problemi
personali e familiari” (P. Donati, in Ardigo, 1976, p. 125); sistema non
intaccato dall’insediamento industriale in quanto la piccola, anzi la microimpresa,
garantirebbe dei rapporti di produzione che permettono alla forza
lavoro di mantenere (parzialmente) forme tradizionali di integrazione
sociale (Bagnasco, 1977).
La preesistenza, all’insediamento industriale, di un nucleo di artigiani
e commercianti specializzati è la base su cui si innestano le caratteristiche
“settoriali” e anzi “monoculturali” dell’insediamento. Intorno a questo
nucleo, un insieme di famiglie contadine pronte a cogliere 1’opportunity
industriale come “mezzo di fuga della vita dura e stentata dei campi”,
fornisce la base della manodopera a buon mercato e una riserva per lo
sviluppo di piccola imprenditorialità autosfruttata; dove esistano però
opportune tradizioni rurali preindustriali (IRPET, 1975a; Bagnasco e Hni,
1981) e dove sopravvivano alcune delle strutture proprie di tali tradizioni
fornendo, come si è detto, la base per vantaggiose integrazioni di carattere
sociale ed economico.
Questa descrizione, sia pure nei limiti della sua sinteticità, corrisponde
probabilmente ai caratteri dello “stadio” di formazione di molte realtà
industriali della piccola impresa, vive nell’Italia centro-nord-orientale
32 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
attualmente e soprattutto nei primi decenni del secondo dopoguerra. La
stessa descrizione mette però in luce le carenze interpretative dello schema
concettuale del decentramento produttivo. Lo schema assume (come
del resto spesso si ritrova nelle teorie della localizzazione industriale)
che l’applicazione del capitale, delle competenze amministrative e di
innovazione, dei contatti col mercato possa spostarsi con successo al variare
della distribuzione spaziale dei livelli salariali e di sindacalizzazione;
l’applicazione della teoria del “ciclo di vita del prodotto” rendendo poi
conto del rinnovo degli investimenti nelle “aree centrali”.
Ma questa assunzione si regge su un ’ ipotesi implicita di “omogeneità”
(Becattini,1982) dello spazio in termini di “cultura industriale”; omogeneità
che non può essere presupposta, visto che il ruolo dei pre-requisiti sociali
di tipo locale sopra richiamati non sembra sintetizzabile in un semplice
parametro salariale o di sindacalizzazione. La formazione di offerta di
lavoro e di piccola imprenditorialità qualitativamente “adeguata” suppone
una “comunità” in cui siano presenti da tempo attività che richiedono
competenze e ruoli simili, anche se meno complessi, di quelli necessari ai
nuovi processi industriali; o in cui, comunque, l’iniziativa personale già
rappresenti, per qualche altro motivo, un valore accettato (Kilby, 1971).
Così, anche se capitale, competenze amministrative e contatti col mercato
sono completamente esogeni alla “comunità di prima industrializzazione”,
non per questo l’intervento di tali fattori basta a definire i caratteri e le
possibilità del processo di industrializzazione. C’è di più. Il “basso costo
del lavoro e l’uso flessibile della forza lavoro sono condizioni che tendono
a venir meno con lo sviluppo” (Bagnasco, 1977, P.174), -e con ciò possono
venir meno i vantaggi di un nucleo rispetto ad altri sistemi industriali. Se
le forze (in termini di capitali, contatti di mercato, ecc.) che hanno guidato
la formazione industriale della “comunità” sono di carattere esogeno alla
stessa, è probabile un processo dell’inserimento con la possibilità di una
crisi verticale delle capacità e prospettive di sviluppo industriale. Se invece
queste forze hanno anche un carattere endogeno, sviluppato magari con
lo stesso processo di prima industrializzazione, e in connessione ad un
intervento adeguato di istituzioni pubbliche, politiche e sociali, è possibile
che la soluzione della crisi possa seguire le vie di un vero e proprio processo
di “mutamento strategico” (Ansoff, 1974), cioè di una riconversione
degli orientamenti produttivi e commerciali su linee che valorizzino le
competenze e le capacità latenti del “capitale umano” e “organizzativo”
già presente nella comunità.
I risultati possono essere di tipo diverso, a seconda delle opportunità
storiche e della prevalenza di certi caratteri endogeni piuttosto che di altri.
Ad un estremo troviamo la formazione della company town (Jacobs, 1970).
All’altro estremo si individua una soluzione, omogenea al mantenimento
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 33
di un sistema di piccole imprese, che può risultare dalla ricerca di fasce
particolari del “mercato” su cui già il nucleo è specializzato; fasce che
richiedono sia un’alta professionalità che un’alta flessibilità delle strutture
produttive. Si ha, in caso di successo, la formazione di un distretto industriale.
Le teorie del decentramento produttivo sembrano così piuttosto inadeguate
a spiegare lo sviluppo e la persistenza di tali distretti. La negazione non
basta però a risolvere complessi problemi interpretativi; questi saranno
affrontati, a livelli diversi di approfondimento, nei prossimi paragrafi. È
comunque utile richiamare subito alcune puntualizzazioni:
-
-
-
la storia della formazione di un nucleo di piccole imprese industriali
può anche seguire un corso diverso da quello più sopra descritto. In
particolare non è detto che capitali, competenze amministrative, di
commercializzazione e di innovazione siano del tutto, o soprattutto,
fattori esogeni (p.es. città commerciali: Jacobs, 1970; IRPET, 1975a);
le attività di un nucleo in formazione di piccola impresa riguardano,
verosimilmente, una o poche funzioni produttive specializzate di uno
o pochi sistemi di produzioni specializzati. Questa specializzazione
territoriale richiede, tra l’altro, certe soglie minime di efficienza nei
sistemi di trasporto di cui possono usufruire imprese e addetti del nucleo
industriale. L’incrociarsi di tali condizioni con quelle date dai caratteri
delle strutture urbane fornisce esiti territoriali complessi: configurabili
per esempio anche in termini di industrializzazione “diffusa ma non
troppo” (IRPET, 1975 a; Becattini, Bellandi e Falorni);
lo sviluppo del nucleo industriale richiede un mercato di sbocco in
espansione. L’espansione potrà essere relativa solo alle vendite delle
imprese del nucleo; o assoluta, cioè riguardare la dimensione del mercato
e non solo la quota occupata dal nucleo. Nell’ambito delle teorie del
decentramento produttivo, il primo caso corrisponde, in genere, alle
ipotesi del ciclo interregionale del prodotto (Vernon, 1966); il secondo alle
ipotesi dello sviluppo interstiziale (Penrose, 1973). Quando si passa dalla
formazione e sviluppo alla crescita e persistenza del distretto industriale,
nessuna delle due interpretazioni sembra pienamente soddisfacente.
3.2 Atmosfera industriale e mercato del lavoro
La crescita industriale del distretto è positivamente correlata, secondo un
rapporto dialettico in cui è difficile scorgere la dominante, alla riproduzione
della “congruità” dell’ambiente sociale del distretto alla formula produttiva
adottata (Becattini, 1978). Il mantenimento di questo “circolo virtuoso”
dipende da condizioni che possono non realizzarsi, o che col tempo possono
erodersi e sparire. Un punto di partenza proficuo per affrontare il tema che così
si pone, sono le riflessioni di Marshall sui fenomeni di “atmosfera industriale”.
Secondo un recente saggio interpretativo (Bellandi, 1982) la presenza di una
34 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
certa concentrazione di fabbriche nel distretto industriale crea nel tempo, per
Marshall, un abitudine, un attitudine al lavoro industriale che non si riduce ai
processi di apprendimento interni alle stesse fabbriche, ma che è “comune a
tutti”, cioè comune, si può azzardare, alle persone che abitano nel distretto
stesso. Viene evocato un processo di trasmissione culturale che trova il suo
punto di aggregazione intorno alla presenza e alle esigenze dell’industria,
e a questo processo si attribuisce maggior rilevanza quando la collettività
umana coinvolta viva in un territorio limitato, dove vi è una notevole e
duratura concentrazione industriale. In questo senso il distretto industriale
marshalliano può anche essere visto sotto l’aspetto di una “comunità locale”
in cui i processi di socializzazione, i valori, i comportamenti sono orientati
dalla presenza di un’industria che incide profondamente sul territorio e che
rappresenta il centro su cui convergono una parte rilevante degli interessi
della collettività. Queste considerazioni rendono possibili e richiedono tre
commenti. Si noti preliminarmente, comunque, che l’oggetto specifico di
questi commenti è “l’offerta di lavoro”, a “l’imprenditorialità nel distretto
industriale” non è dedicato nessun sottoparagrafo specifico, né qui né nel
prossimo paragrafo; questo tema però attraversa le singole parti in cui
abbiamo diviso le nostre argomentazioni nel presente capitolo.
• Capacità professionale e stratificazione sociale
Per “capacità professionale” non si intende solo la capacità di eseguire
velocemente e con accuratezza una gamma limitata di operazioni che
continuamente si ripetono; ma anche e soprattutto capacità di iniziativa,
di discernimento, di organizzazione sul lavoro. Queste capacità sono
richieste per esempio quando il lavoratore possa e debba effettuare
scelte e decisioni su qualità e tempi degli esperimenti da fare in ordine
all’avanzamento di una ricerca o sugli adattamenti da compiere per
effettuare un lavoro non preventivato con una macchina; o sul finissaggio
di una certa parte della produzione in ordine alle esigenze di clienti
particolari; ecc. (Jacques, 1962). In un sistema produttivo come quello
del distretto industriale, queste capacità discrezionali rivestono, quasi per
definizione, un’importanza decisiva.
L’applicazione dell’iniziativa personale al contenuto discrezionale
di un certo lavoro richiede non solo capacità professionale ma anche un
certo grado di consenso verso il lavoro stesso. Questo consenso può venire
estorto quando sia possibile mettere in concorrenza reciproca una certa
massa di lavoratori in possesso delle capacità in esame. Ma non sempre
questo è possibile o conveniente per le imprese.
Il consenso potrà invece essere in una certa misura spontaneo nelle
condizioni proprie delle piccole imprese; dove non solo più diretto e
pressante è il controllo del “padrone” (e qui evidentemente non siamo nel
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 35
campo del consenso, ma in quello della verifica diretta dell’applicazione
e dei risultati della discrezionalità), ma, dove si può venire a creare più
facilmente un certo senso di identificazione, da parte dell’operaio, del proprio
interesse con quello dell’impresa stessa: il rapporto fra un lavoro ben fatto
e le possibilità di sopravvivenza e prosperità della piccola azienda, può in
queste condizioni avere un’evidenza diretta. Questo processo di parziale
identificazione si accentua poi quando la distanza sociale fra imprenditore
e lavoratore dipendente tende a restringersi; quando, per esempio, non solo
1’imprenditore-proprietario è un ex-operaio che si è messo in proprio e ha
avuto successo, ma la possibilità di una simile “avventura imprenditoriale”
(IRPET, 1975a), è ancora aperta e posta anzi fra le mete proprie del
sistema di valori della collettività operaia o comunque di alcuni strati a
questa interni (la capacità d’iniziativa sul processo produttivo tende così a
confondersi con la capacità di iniziativa imprenditoriale).
Viene qui all’attenzione uno dei punti chiave del rapporto fra comunità
locale e crescita del distretto industriale: il problema della stratificazione
sociale (già sottinteso a proposito delle contraddizioni nello sviluppo della
“comunità di prima industrializzazione”). La “percezione”, all’interno del
distretto, di una mobilità sociale elevata dipende anche dalla riproduzione
del sistema di piccole imprese; questa però dipende anche dalla prestazione
e riproduzione di capacità professionali e di iniziativa, a loro volta connesse
alla percezione di un’elevata mobilità sociale. Il circolo non è chiuso. I
fattori esogeni possono funzionare sia come elementi stabilizzatori che
come elementi disgreganti. Un elemento stabilizzatore, come già si è
detto, è la “tradizione”: cioè, il fatto che queste interdipendenze circolari
abbiano funzionato, anche in condizioni diverse, per un lungo periodo di
tempo, costituisce delle strutture locali di valori sociali certamente dotate
di resistenza di fronte ad interruzioni momentanee del circolo stesso.
Un altro elemento stabilizzatore è un certo tipo di struttura familiare.
Elementi regolatori necessari sono poi le condizioni tecnologiche e di
mercato che definiscono gli spazi di competitività del sistema di piccole
imprese rispetto ad altri sistemi (vedi ultimo paragrafo). E infine non si può
ignorare la particolare complessità che viene da affermare l’importanza di
realtà e valori locali all’interno di società industriali, altamente integrate
(Bagnasco, 1980) (vedi ultimo paragrafo).
• La famiglia come unità di bilancio e di offerta di lavoro differenziata
Le funzioni della famiglia nell’ambito economico non si limitano a quelle
connesse alla socializzazione di forza lavoro (e imprenditorialità), su cui
non ci soffermiamo. Si può individuare anche una funzione di gestione
unitaria del bilancio e delle differenziate capacità e occasioni di lavoro dei
membri della famiglia.
36 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
Sistemi ad alto tasso di natalità e mortalità di piccole iniziative
economiche, come sono quelle dei distretti industriali, generano una
domanda piuttosto costante di lavori “informali” (Bagnasco, 1981):
lavori a domicilio, part-time, precari, irregolari; domanda che, pur
caratterizzando più propriamente i momenti di formazione del distretto
industriale, continua a manifestarsi nei momenti successivi affiancandosi
alla ormai preponderante domanda regolare di lavoro. L’offerta di lavoro,
se regolata dall’economia familiare, può adeguarsi a questa variabilità
e differenziazione della domanda, senza “eccessivi” traumi economici
e anzi traendone vantaggi (IRPET, 1975a; Becattini, 1978). Il risparmio
familiare costituisce un ammortizzatore di difficoltà temporanee (che
possono riguardare anche il lavoro regolare, specie in situazioni di crisi
di riconversione, vedi par. 3), e nelle situazioni più favorevoli una fonte di
accumulazione sufficiente per la nascita di nuove iniziative produttive.
Nello sviluppo di “comunità di prima industrializzazione”, ma
in certa misura anche in realtà industriali più mature, è attraverso la
struttura della famiglia “estesa” che si può realizzare il mantenimento
di forme di integrazione con assetti pre-industriali sopravvissuti
all’industrializzazione (IRPET, 1975a, 1975b; Bagnasco, 1977; Bagnasco
e Pini, 1981; Paci, 1980).
Le stesse forme che 1’articolazione settoriale del distretto assume,
sono positivamente correlate al funzionamento dell’economia familiare
(Marshall, 1972).
Il funzionamento dell’economia familiare dipende, d’altra parte, dal
mantenimento di legami familiari piuttosto estesi e stretti. Questo sembra
in contraddizione col modello che collega la famiglia mononucleare al
fenomeno dell’urbanesimo. Si può tuttavia argomentare che: i) questo
modello non sembra valido in ogni configurazione dei rapporti sociali
urbani; ii) la formazione di nuclei familiari ridotti non è in contraddizione col
mantenimento di collegamenti parentali estesi, che surrogano parzialmente
l’economia della famiglia.
• Residenza e luogo di lavoro nel distretto industriale
Occorre infine considerare il rapporto fra la distribuzione spaziale
delle residenze delle famiglie e quelle delle unità locali nel distretto
industriale.
Una prima osservazione a tal proposito riguarda un carattere fondamentale
della formazione della “comunità di prima industrializzazione”.
Lo sviluppo fondato sulle piccole imprese, per le ragioni ricordate nel
primo paragrafo, tende a utilizzare la forza lavoro nei (o presso) luoghi
di origine della stessa (Bagnasco e Pini, 1981; IRPET, 1975, 3). Questo
non significa una completa rigidità delle localizzazioni residenziali
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 37
almeno nella misura in cui uno spostamento “a breve raggio” consenta
sia il mantenimento di vantaggiosi legami socio-economici con strutture
preesistenti all’industrializzazione, sia una più immediata accessibilità ai
luoghi di lavoro nel distretto. Si tratta di un punto particolarmente delicato
che giustifica complesse configurazioni di movimenti pendolari (si vedano
per esempio gli studi sulla formazione della campagna urbanizzata toscana,
(IRPET, 1975a e 1975b).
La considerazione delle caratteristiche del distretto industriale aggiunge
altri elementi a questa discussione.
Il distretto industriale costituisce, nel tempo, un mercato del lavoro non
solo “stabile” (del resto la stabilità è un requisito fondamentale perché si
possa parlare di mercato), ma probabilmente anche di vaste dimensioni per
l’offerta e la domanda di capacità professionali specializzate, e di tutta una
serie di attività lavorative, non specializzate ma molto varie (come già si è
detto). Ciò rappresenta un vantaggio agglomerativo per famiglie e imprese.
Qui si aprono però tre problemi:
-
-
-
il primo riguarda 1’immigrazione nel distretto; che se supera certi livelli
di crescita può stravolgerne i caratteri sociali. Si noti comunque che,
per quanto detto prima, sarà favorita l’immigrazione di famiglie e non
tanto di singoli (qui il riferimento è soprattutto alla forza lavoro); ciò
tende a contenere fenomeni di emarginazione e sradicamento connessi
all’immigrazione di masse di persone isolate;
il secondo problema riguarda i movimenti pendolari. Le residenze degli
addetti possono trovarsi, e in genere si troveranno, ad una certa distanza
dalle unità locali del distretto (qualche volta coincidono: casa-officina;
casa-bottega; lavoro a domicilio). Per quanto detto in precedenza è
però difficile pensare ai rapporti spaziali fra popolazione e imprese in
un distretto industriale in termini di sistema giornaliero di spostamenti
pendolari per motivi di lavoro. L’“atmosfera industriale” sembra
richiedere una contiguità fra popolazione e imprese non riducibile
alla permanenza nell’orario di lavoro. Il problema è molto difficile da
risolvere a questo livello di approfondimento. Probabilmente si dovrebbe
distinguere un’area ristretta in cui tradizionalmente si concentrano
popolazione e imprese costituendo un “ispessimento localizzato” di
interdipendenze socio-economiche che presenta congiuntamente i
connotati discussi in questo capitolo;
il terzo problema riguarda la dimensione del distretto in termini di attività
produttive e di composizione infrasettoriale e settoriale delle stesse. Su
questo punto rimandiamo, per ulteriori specificazioni, alle osservazioni
riportate in Bellandi (1982) sulle forme di specializzazione all’interno
del distretto, e sui rapporti fra “atmosfera tecnica” e “atmosfera
industriale”.
38 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
3.3 Innovazione ed economie esterne di agglomerazione
La discussione nel capitolo precedente si è svolta all’interno dell’ipotesi
semplificativa che la variabilità qualitativa dei prodotti e della domanda
non implicasse cambiamenti nelle “aree di specializzazione”, tecnologiche
e di mercato (Penrose, 1973; Ansoff, 1974), complessivamente presenti
all’interno del distretto in un certo momento. L’interesse si è potuto
concentrare in questo modo sui problemi di organizzazione delle conoscenze
e delle risorse materiali già presenti in zona. Il progresso tecnico e
l’evoluzione dei mercati propongono però, alle organizzazioni produttive,
un problema di sviluppo di conoscenze e potenzialità nuove, pena la caduta
della competitività rispetto ad organizzazioni più pronte al rinnovo.
Il problema si pone in maniera particolare all’interno di sistemi la cui
struttura produttiva si basa largamente su rapporti fra imprese di dimensioni
ridotte.
La discussione è condotta assumendo come asse centrale il problema
dell’innovazione tecnologica; in connessione sarà affrontato quello
dell’innovazione di mercato.
• Diffusione dell’innovazione
La prima condizione per 1’adozione di un’innovazione è la conoscenza
della sua esistenza (know what).
Nella misura in cui 1’innovazione si traduca in beni strumentali
che rappresentano l’output dell’impresa innovatrice, questa stessa avrà
interesse a presentare il proprio nuovo prodotto su un mercato, come
quello del distretto, presumibilmente ben conosciuto e di dimensioni
non trascurabili. Si tratta qui di un evidente caso di economie esterne
di agglomerazione; particolarmente importante quando 1’innovazione
avviene in un luogo distante (o comunque diverso) dal distretto. In realtà ciò
che costituisce 1’oggetto di questo tipo di economie di agglomerazione non
è solo la trasmissione dello know what, il quale anzi è spesso comunicabile
con mezzi che risentono meno della distanza spaziale (comunicazioni
personali mediate, se non addirittura mass-media); ma anche, e a volte
soprattutto, la trasmissione di know how cioè di informazioni su modalità,
difficoltà e risultati specifici dell’applicazione dell’innovazione.
D’altra parte la trasmissione del know how può avvenire anche fra
imprese adottanti e imprese potenzialmente adottanti. Il discorso va qui
distinto in due livelli:
- la trasmissione di know how da parte di imprese adottanti ad altre
potenzialmente adottanti può essere di tipo solo implicito e indiretto:
il successo nell’adozione da parte di una o più imprese indica per
analogia una possibilità di successo ad imprese dalle caratteristiche
simili. Qui evidentemente siamo nel campo più proprio dell’imitazione
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 39
(Alchian, 1950). Si può arguire da quanto detto in precedenza che
le caratteristiche di agglomerazione e di “atmosfera” del distretto
favoriscano grandemente questi processi di imitazione;
- vi può essere poi il passaggio diretto di know how. è vero che le
imprese sono in genere interessate a ricevere informazioni, ma non a
darle a imprese rivali. Questo fatto porrebbe seri dubbi sulla effettiva
possibilità di un passaggio, e di un passaggio rapido, delle informazioni
tecnologiche all’interno di queste organizzazioni decentralizzate. La
difficoltà può essere però superata grazie ai processi di mobilità di
tecnici e forza lavoro specializzata, innescati dalla stessa concorrenza
e agevolati dalla concentrazione spaziale (Prodi, 1971). A questi fattori
si possono aggiungere gli effetti dell’“atmosfera industriale”: quando in
un distretto industriale si sviluppa una tale “atmosfera”, allora “i misteri
dell’industria sono nell’aria” (Marshall, 1972); e quindi non sono più
tali. Fuori metafora, si può pensare che in un distretto in cui vi è una
forte “cultura del lavoro”, del lavoro si parli anche fuori delle mura degli
stabilimenti: al bar, sulla porta di casa (che in certi casi coincide con quella
dell’officina), in famiglia magari fra membri che lavorano presso imprese
diverse. Infine vanno ricordati i rapporti non market fra imprese.
• Potenzialità di innovazione autonoma
In base a una tradizionale interpretazione centrata sulle economie interne
di scala nelle funzioni R&D, le potenzialità di innovazione autonoma
di un sistema di piccole imprese sembrerebbero molto ridotte. Le cose
possono stare, almeno parzialmente, in modo diverso. Partiamo ancora
dall’imitazione e consideriamo esplicitamente la diversificazione delle
condizioni esistenti fra imprese potenzialmente adottanti: a causa di
questa diversificazione, 1’imitazione non è riducibile a un’esatta replica
dell’innovazione (Alchian, 1950; Thomas e Le Heron, 1975). L’adozione
passa per un adattamento; adattamento che potrà essere tanto più originale
quanto più elevate e differenziate sono le capacità professionali interne
alle imprese. E quanto più rilevanti sono questi processi, tanto più labili
diventano i confini fra imitazione e innovazione.
Il discorso si articola se ci soffermiamo sul livello di analisi che abbiamo
definito più proprio del sistema di imprese del distretto industriale (i processi
imitativi caratterizzando specificamente l’introduzione dell’innovazione
nei “nuclei industriali”, i quali altresì presentano scarsa differenziazione
di funzioni produttive tra imprese). Si pensi alle possibilità offerte da
figure specializzate nell’assorbimento e diffusione di informazione tecnica
ed economica (oltre che finanziaria e giuridico-amministrativa) e da
imprese ausiliarie per la costruzione, messa a punto e manutenzione di
beni strumentali per i processi “principali” del distretto. La possibilità di
40 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
frequenti e rapidi contatti personali fra i tecnici delle imprese “ausiliarie”
o consulenti tecnici di vario tipo da una parte e il personale delle imprese
“principali” dall’altra costituisce forse la più rilevante manifestazione di
economie esterne di agglomerazione per quanto concerne i problemi che
stiamo affrontando.
Si tratta di un tipo particolare di progresso tecnico, che è innegabilmente
omogeneo alle esigenze di flessibilità e diversificazione del distretto e che
spesso si confonde, interagendo, con gli stessi processi di organizzazione
della produzione nel sistema delle imprese. C’è di più. La pluralità di
imprese all’interno del distretto industriale trova una causa potente di
riproduzione proprio in questo tipo di progresso tecnico: “Forse il più
comune processo di frammentazione (di imprese) è legato all’aumento di
conoscenze e professionalità degli individui. Un nuovo processo è inventato,
e quello che era un dipendente diventa imprenditore per sfruttarlo. Una
professionalità si sviluppa all’interno di un certo impianto e un dipendente
o più dipendenti realizzano di poter ottenere redditi più alti mettendosi
in proprio con un minimo di equipaggiamento tecnico e impiegando più
largamente la professionalità acquisita” (Townroe, 1970, p. 19) ecc.. In
una company town il processo di disintegrazione sarebbe evidentemente
più difficile, se non impossibile, mancando quel differenziato tessuto di
imprese specializzate che sorregge, come si è detto, la nascita di iniziative
innovative e di piccole dimensioni. D’altra parte lo sviluppo di questo tipo di
progresso è strutturalmente frenato all’interno di una grande impresa, specie
se organizzata gerarchicamente (per una vivace puntualizzazione: Jacobs,
1970, pp. 71-72). Queste considerazioni tendono comunque a trascurare
l’importanza di innovazioni che incorporano i risultati delle ricerche di
laboratorio e che spesso richiedono investimenti ad alto rischio all’uopo
destinati. Questi investimenti possono avere una dimensione tale da essere
del tutto al di fuori delle capacità economico-finanziarie e dell’esperienza
di imprese di non grandi dimensioni. Ma anche questa difficoltà può essere
almeno in parte ridimensionata all’interno di un distretto.
Come si è detto fra le produzioni ausiliarie presenti nel distretto vi sono
anche quelle di costruzione e messa a punto di attrezzature e macchinari per
i processi “principali” del distretto. Si potrebbe ora ipotizzare che queste
imprese “ausiliarie” riescano a sviluppare una propria capacità innovativa
research-intensive, nel contesto di un’estensione e diversificazione della
propria clientela all’esterno dell’agglomerazione. Ebbene questa capacità
innovativa può avvalersi delle imprese clienti all’interno del distretto
come di un “laboratorio esterno” (Bianchi-Falorni, 1981), si tratta di
un altro esempio, in certi casi molto importante, di economie esterne
di agglomerazione legate alla facilità di contatti faccia a faccia. Vi può
essere poi, in un processo di reazione agli squilibri secondo il modello
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 41
“attività direttamente produttive-capitale fisso sociale” di Hirschman
(1968), la spinta per una istituzionalizzazione “locale” delle funzioni di
ricerca e sviluppo, necessarie al sistema di imprese del distretto, ma fuori
della portata (anche per ragioni di esternalità; Kamien-Schwartz, 1977)
delle singole imprese; istituzionalizzazione che può passare sia attraverso
l’intervento di enti pubblici, sia attraverso la costituzione di cooperative e
consorzi fra imprese per 1’esplicazione di queste attività. Occorrerebbe,
per completezza, considerare anche i fenomeni di distacco di personale
scientifico di grandi laboratori pubblici o privati; ma su questo punto non
ci soffermeremo. Si può dire per concludere che la generazione cumulativa
di innovazioni e la differenziazione di attività rende conto di un altro
potente elemento di persistenza di un distretto industriale al variare delle
condizioni che giustificano il set di aree di specializzazione tecnologica e
di mercato dello stesso in un certo periodo (Vernon, 1972; Jacobs, 1970);
e ciò soprattutto quando tali condizioni convergano con la presenza,
all’interno della divisione del lavoro fra imprese del distretto, di operatori
specializzati nella commercializzazione dei prodotti, che tenendo contatti
personali sia all’interno del distretto che con mercati esterni, creano reti di
contatti indispensabili in processi di “mutamento strategico”.
3.4 Alcune considerazioni sulle prospettive
Decadenza di un distretto industriale non significa necessariamente
trasformazione in area depressa di vecchia industrializzazione; lo sviluppo
e la crescita possono continuare sullo stesso territorio in forme diverse
e non più riconducibili a quelle che abbiamo attribuito al concetto di
distretto industriale: la company town, e la grande città terziario-industriale
indicano possibili linee di trasformazione. Non ci soffermeremo comunque
su questi processi di “metamorfosi”. Dalla discussione svolta si possono
sintetizzare alcuni punti chiave per una riflessione sui fattori di decadenza
dei distretti industriali; riflessione che è evidentemente connessa a quella
sugli elementi di prospettiva:
-
-
-
le esternalità: particolarmente importanti nel deterioramento ambientale
strisciante (IRPET, 1975) e nei problemi posti da innovazioni ad alta
soglia di investimento non frazionabile;
la mancanza di risposta delle autorità pubbliche alle necessità poste
dall’evolversi del rapporto “attività direttamente produttive-capitale
fisso sociale”; questo va spesso visto congiuntamente alle difficoltà
appena sopra ricordate;
le forme di mercato interne al distretto: 1’incapacità a realizzare
“rapporti non market” fra imprese rappresenta un ostacolo allo sviluppo
del distretto industriale; ma un eccesso di accordi non concorrenziali può
portare a sfruttare una crisi di “mutamento strategico” nel senso della
42 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
-
-
trasformazione in un sistema di grande impresa e produzione di massa o
in un sistema corporativo dalle scarse potenzialità di sopravvivenza;
gli equilibri sociali del distretto: i complessi legami fra comunità
locale e società industrializzata possono rendere conto di cambiamenti,
nelle strutture sociali locali, non facilmente integrabili nella “cultura
industriale” del distretto (IRPET, 1975 e 1976);
la produzione di massa: se la produzione di massa e l’omogeneizzazione
del mercato e quindi dei gusti delle persone rappresentassero una
tendenza storica in inesorabile approfondimento e diffusione, è
evidente che gli “spazi strategici” per sistemi assimilabili al distretto
industriale sarebbero destinati a sparire, anche se magari poco per volta;
sarebbero giustificate interpretazioni “residuali” o “interstiziali” del
distretto industriale. Ma forse le cose non stanno così. Secondo alcuni
economisti, la differenziazione, la mutevolezza, l’imprendibilità del
contesto in cui le imprese operano sono caratteristiche che nei sistemi
capitalistici contemporanei tendono a superare i confini dei settori ad
alto contenuto di moda (Ansoff, 1974; Tôrnguist, 1974; Vernon, 1972;
Sabel e Zeitlin, 1982). Per dirla con J. Jacobs (1970): “il punto è che
per alcuni beni la produzione di massa è un ripiego: rappresenta solo
un primo stadio di sviluppo ed è valida solo come espediente fino a che
non sia stata sviluppata la più avanzata produzione differenziata”.
Non necessariamente gli spazi aperti della differenziazione sono propri
dei distretti industriali; ma sembra abbastanza probabile, almeno per quanto
si è fin qui argomentato, che all’interno di questi spazi i distretti industriali
possono trovare proprie aree di specializzazione.
Nella linea di sviluppo della differenziazione può essere inserita anche
la crescita dell’economia dei servizi; qui il concetto di distretto industriale
non risulta in quanto tale adeguato, ma ancora appropriate può risultare un
ragionamento in termini di interdipendenze locali.
4. Il problema della delimitazione del distretto industriale
4.1 Distretto industriale: un “oggetto” o un “aggregato areale”?
Una volta che sono state descritte le caratteristiche costitutive del distretto
industriale, in relazione ai fenomeni di interdipendenza che ne delineano
le possibili ragioni di esistenza, il compito che ora si prospetta è quello
della sua individuazione. Piuttosto diffusa è la disattenzione al modo in
cui gli oggetti sono delimitati, concentrandosi normalmente l’interesse
dell’analista sugli aspetti sostantivi o modellistici dello studio geografico.
Ma non mancano esempi di altro segno. Bauman, Fisher e Schubert
(1982) hanno dimostrato gli effetti che differenti delimitazioni spaziali di
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 43
entità areali hanno sui risultati dell’analisi; si sono prodotte rassegne di
metodologie analitiche alternative per mostrare gli inevitabili margini di
arbitrarietà insiti nell’identificazione di entità areali (Openshaw, Sforzi e
Wymer, 1982a); si è cercato di rilevare la presenza di “inganni ecologici”
(Bianchi et al., 1982; Openshaw, Sforzi e Wymer, 1982b).
In ogni caso quando l’indagine è diretta al comportamento dell’oggetto
spaziale è cruciale sapere se l’oggetto sia in grado di esprimere un
comportamento. Si tratta del problema, ben noto ai geografi, della relazione
fra “entificazione” e “quantificazione”, per cui l’atto di misurazione di un
oggetto deve essere preceduto dal suo riconoscimento, e “solo quando
sono state trovate le cose giuste che devono essere misurate, le misurazioni
sono degne di essere effettuate” (Gerard, 1972). Chapman (1977) distingue
tre tipi di oggetti: l’oggetto di studio “di primo ordine”, l’aggregato areale
e 1’aggregato non areale (quest’ultimo noto anche col nome di classe).
Egli propone un test allo scopo di verificare se un oggetto è o no “di primo
ordine”. Tali “oggetti” dovrebbero avere la proprietà dei sistemi: l’intero
dovrebbe essere più grande della somma delle parti; i confini dovrebbero
separare l’oggetto dal mondo esterno; l’oggetto dovrebbe possedere
un meccanismo interno di controllo in grado di rispondere agli stimoli,
determinando un “comportamento” dell’oggetto. Una possibile gerarchia
di oggetti, infatti, parte dagli atomi e dalle molecole (oggetti di interesse
per le scienze fisiche) e arriva agli oggetti di più alto livello come le piante,
gli animali, gli individui e le famiglie (gli “oggetti di interesse” per le
scienze biologiche e sociali). Lo Stato moderno può rispondere ancora
ai criteri definitori di “oggetto di interesse”; in senso stretto, non è reso
possibile rintracciare alcuna entità, con caratteri di oggetto naturale, fra la
famiglia e lo Stato. Nel nostro caso potremmo assumere (con una ipotesi
molto forte, per l’autore cui ci riferiamo) che la Regione abbia più o meno
i caratteri di uno Stato (confini costituzionali, potere legislativo, ecc.). Ma
al di sotto -ed è il problema che ci occupa- ricadremmo inevitabilmente
nell’arbitrarietà.
La questione dell’entificazione è influenzata dal modo in cui vengono
utilizzate proprietà e definizioni che in larga misura -anche se non in modo
del tutto esplicito- vengono attinte dalla Teoria Generale dei Sistemi.
Verificato, dunque, che l’oggetto di studio “di primo ordine” dovrebbe
esibire le proprietà dei sistemi -concreti, aggiungeremo noi- sembra più
opportuno ricorrere esplicitamente alla definizione di sistema, per esempio,
utilizzando quella fornita da Miller (1971), per cui un sistema concreto è
una concentrazione non casuale di materia-energia, in una regione dello
spazio-tempo fisico, che è organizzata in sottosistemi o componenti
interagenti e interdipendenti” (p. 52) e le unità che lo costituiscono
(sottosistemi, componenti, parti o membri) sono anch’esse sistemi concreti
44 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
(Hall e Fagan, 1956). Naturalmente, alla definizione ora data si dovrebbero
accompagnare, per completezza, le altre relative alle relazioni e alle
variabili del sistema, alla sua apertura e chiusura, e al suo stato, che però
possono essere attinte alle fonti citate.
Questa procedura di riconoscimento pare adattarsi anche al caso di entità
areali. Per la sua implementazione ci si può avvalere del suggerimento
di identificare i confini del sistema concreto “con operazioni empiriche
disponibili all’universale riscontro scientifico piuttosto che stabilite
concettualmente da un singolo osservatore” (Miller, 1971, p. 53). Che,
alla fine, la valutazione dei risultati ottenuti applicando un tale criterio di
identificazione non rappresenti un compito agevole è un fatto ampiamente
noto e dibattuto, cosi come lo è quella relativa ai possibili metodi di analisi
quantitativa che possono essere adottati (Bianchi et al., 1982; Openshaw,
Sforzi e Wymer, 1982b).
4.2 Il problema dell’unità areale modificabile
Noti il carattere dell’entità areale -che deve costituire un sistema- e i
criteri generali per effettuare il riconoscimento, resta il fatto che un
adeguato approccio geografico all’identificazione di entità areali prospetta
il problema della loro modificabilità e arbitrarietà, dato che i loro confini
sono ottenuti raggruppando dati riferiti ad unità spaziali elementari
delimitate in modo arbitrario.
Una conseguenza di ciò è che il riconoscimento dell’entità areale in questo
sistema concreto presenta la probabilità di non essere effettuato in modo
tale da poter includere dentro un confine tutti i suoi elementi costitutivi.
Questa incertezza relativa all’identificazione degli oggetti in uno
studio geografico è nota con 1’appellativo di “problema dell’unità areale
modificabile” (Openshaw, 1981) e per quanto sia possibile esprimere
una valutazione sulla configurazione che le entità areali presenteranno a
conclusione del processo di identificazione, resta il fatto ineliminabile che
si tratta sempre di individuare frontiere in un processo vivente, e ciò che
al meglio può essere fatto è un’identificazione “ragionevole” dei confini
(Becattini, 1979; Georgescu Roegen, 1971).
L’incertezza del non disporre di argomenti conclusivi in favore di
una configurazione di entità piuttosto che di un’altra, ottenute entrambe
dal processo di identificazione, costituisce l’inevitabile conseguenza del
processo stesso, perché misure effettuate su unità individuali non-spaziali e
indivisibili (le famiglie di censimento e le unità locali produttive) divengono
misure relative ad unità spaziali elementari, delimitate in modo arbitrario.
Per quanto questo fenomeno sia stato riconosciuto ormai da molto
tempo (Kendall e Yule, 1950) non sono stati ancora effettuati tentativi
per risolverlo attraverso soluzioni pratiche. Di recente il problema è
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 45
stato posto nuovamente all’attenzione dei geografi (Openshaw, 1977a, b,
1978a, b), attraverso lavori empirici fondati su un insieme di dati aggregati
spazialmente una o più volte in forme diverse per mostrare la gravità degli
effetti prodotti.
Nonostante possano esistere difficoltà ad esprimere compiutamente
valutazioni sul grado d’influenza delle unità spaziali elementari sulla
configurazione delle entità areali identificate, un compito della ricerca
dovrebbe consistere nell’includere fra i suoi obiettivi anche quello di
verificare i confini dell’oggetto di studio. Prima di giungere a conclusioni
definitive sul comportamento esibito del sistema, a partire dello studio del
reticolo delle interdipendenze che lo identifica, questo dovrebbe essere
verificato con le conoscenze altrimenti già possedute sulla realtà indagata.
Comunque, una conseguenza pratica del problema dell’unità areale
modificabile consisterà nell’utilizzare come unità spaziale elementare per
1’identificazione delle entità areali le sezioni di censimento piuttosto che
le unità comunali. Ciò non eliminerà del tutto il pro blema, ma contribuirà
certamente a ridurre gli effetti negativi, data la minore disomogeneità di
caratteri all’interno delle sezioni di censimento, per quanto delimitate in
modo arbitrario, rispetto a quella delle unità comunali.
Per rimuovere il problema dell’unità areale modificabile si possono
utilizzare unità di osservazioni non spaziali. In questo caso si disporrebbe
di unità naturalmente (e non presuntivamente) indivisibili che riflettono
fedelmente il modo in cui sono rilevati e registrati i dati. Anche dal punto
di vista dell’omogeneità è evidente che per questo tipo di unità di dati
il rischio dell’inganno ecologico (Robinson, 1950) (di attribuire cioè
agli elementi contenuti nell’unità spaziale un’omogeneità maggiore di
quanto non possiedono nella realtà) è interamente rimosso. Si tratterebbe,
in definitiva, per il problema dell’identificazione di entità areali che si
accordano alla definizione di distretto industriale, di elaborare dati relativi
a singole unità locali del censimento industriale e a singole famiglie di
quello demografico.
In ogni modo si deve ricordare che l’incidenza, nel nostro caso, delle
considerazioni relative alla natura sistemica dell’entità areale da identificare
e al problema dell’unità areale modificabile, è drasticamente ridotta dalla
duplice circostanza:
- che non è, stricto sensu, necessario provare la natura di “sistema
-
concreto” o di “oggetto di interesse” del distretto industriale, essendo
sufficiente considerarlo un carattere del sistema locale che lo ospita;
che il sistema locale che lo ospita è, certamente, un sistema (sub-regionale),
in quanto regione funzionale in termini di “sistema urbano giornaliero”:
la sola entità che “approssimi i criteri di un oggetto alla scala intermedia
fra la famiglia e lo Stato posti da Chapman (Coombes et al., 1982)
46 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
4.3 Le interdipendenze locali nel distretto industriale: l’ipotesi di lavoro
Ciò premesso si può avviare il tentativo di organizzare il procedimento
empirico per 1’identificazione delle componenti delle interdipendenze
di queste ultime e le quantificazioni possibili. Si può dire intanto che le
tecniche statistiche della interdipendence analysis (Boyce et al., 1974) e
della correlazione canonica (Bartlett, 1941), di cui pure si dovrà eseguire
l’applicazione, saranno probabilmente di scarso aiuto.
La prima, infatti, sostituendo un insieme originale di variabili con
un sotto-insieme ottimale più piccolo, tende a semplificare il compito
della identificazione delle componenti. La seconda individua e misura i
legami fra due insiemi di variabili, mentre noi dovremmo considerare,
simultaneamente, tutte le relazioni fra le variabili giudicate rilevanti.
Un ausilio meno indiretto potrebbe venire da tecniche input-output, sia
pure limitatamente all’analisi delle interdipendenze economico-produttive,
anche se sono note le difficoltà -peraltro non insuperabili- della stima di
matrici intersettoriali a scala sub-regionale (Bianchi, 1982).
Un ulteriore accostamento al nostro problema si può conseguire
ricorrendo alle rappresentazioni di tipo econometrico dei sistemi economici
locali. Gli aspetti socio-culturali restano, evidentemente, inattingibili da
queste tecniche, ma una parte di quelli economico-sociali possono essere
compresi in un’analisi che deve servire a rappresentare le connessioni di
interdipendenza e stimare i singoli modelli. Ricorrendo ad una delle strutture
modellistiche più diffuse (si veda, per esempio, Fullerton e Prescott, 1975),
con un sistema di sei modelli (Popolazione, Lavoro, Capitale, Risorse
naturali, Matrice interindustriale, Reddito) si identificano, con una certa
precisione, i collegamenti “in avanti” e “all’indietro”. Ci spieghiamo con
una sola esemplificazione. Il Lavoro è collegato:
-
-
all’indietro: alla Popolazione (tramite i tassi di partecipazione e i livelli
di urbanizzazione); alla Matrice interindustriale (tramite la produttività
del lavoro); a se stesso (tramite la specializzazione del mix produttivo
locale);
in avanti: al Reddito (tramite 1’occupazione per posizione professionale);
alla Popolazione (tramite i tassi netti di occupazione); a se stesso
(tramite 1’occupazione per settore).
Più direttamente connesso al nostro campo di interesse è, poi, un
approccio recentemente proposto (Townroe e Roberts, 1980) per misurare
le economie di agglomerazione (local external economies) e le potenzialità
relative delle loro possibili fonti (sources). L’indagine è stata condotta su 53
gruppi di prodotti (Product Groups) per le 61 Planning Sub-regions della
Gran Bretagna. Le variabili (dipendenti) scelte per misurare i differenziali
inter-area dell’impatto delle economie esterne locali sono: prodotto netto
pro capite, prodotto netto meno salari e stipendi pro capite, un “indice di
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 47
efficienza”. La misura delle fonti di economie esterne locali è costituita
dall’insieme delle variabili esplicative selezionate per rappresentare i tre
tipi di economie di agglomerazione: economie interne di scala (variabili:
occupati, unità locali e prodotto netto per gruppo di prodotti, ecc.);
economie di localizzazione (variabili: occupati, unità locali e prodotto
netto per gruppo di prodotti, ecc.), economie di urbanizzazione (una lunga
lista di variabili costituenti misure dirette, indirette o proxies relative a:
forza lavoro, accessibilità ai servizi, dimensione delle agglomerazioni, altri
caratteri delle sub-regioni).
I risultati ottenuti sono del più vivo interesse per il nostro oggetto di
indagine e, nei limiti della disponibilità dei dati occorrenti, l’esercizio
andrà replicato, pur considerando che qui l’obiettivo è la spiegazione della
variabilità interterritoriale e intersettoriale delle economie esterne, non
l’identificazione delle interdipendenze o la misura della loro intensità.
Una metodologia che, invece, approssima molto il centro dei nostri
interessi è, infine, quella Activity-Commodity Analysis (Barras e Broadbent,
1975). Si assuma, esemplificando (e semplificando molto) che un sistema
locale possa essere compiutamente descritto da quattro attività: Famiglie,
Commercio, Produzione, Governo locale che, nello svolgimento delle
loro attività, consumano-producono beni come: spazio, edifici, lavoro,
flussi finanziari (imposte), beni di consumo, beni capitali, materie prime,
merci all’ingrosso, servizi pubblici locali. Allora 1’attività delle Famiglie
“produce” lavoro per 1’occupazione nel Commercio, nella Produzione e
nel Governo locale, mentre consuma beni finali e servizi pubblici locali. Il
Governo locale “consuma” flussi finanziari (dal governo centrale e dalle
imposte locali sulle Famiglie e la Produzione) e lavoro, mentre produce
servizi per le Famiglie e la Produzione. Tutte le attività “consumano”
risorse di base come lo spazio e gli edifici. La rappresentazione, a fini
operativi, viene naturalmente complicata dall’aggiunta di nuove attività
e di nuovi beni e dalla disaggregazione spaziale e settoriale.
L’analisi assume, tipicamente, la forma matriciale (per riga i beni, per
colonna le attività; le cifre delle celle -quantità e valori- sono precedute
dal segno + o - a seconda che i beni siano prodotti o consumati) che
permette -al di là della quantificazione- una rappresentazione assai utile
delle componenti (e delle loro interrelazioni) del sistema esaminato.
Residua, evidentemente, il limite della imperfetta considerazione degli
aspetti socio-culturali.
Ciascun approccio prima sinteticamente illustrato è reso suscettibile
-lo si è visto- di recare contributi di varia rilevanza al nostro problema
dell’analisi delle interdipendenze locali. Per quanto lo consentiranno la
disponibilità di dati e di risorse, cercheremo di trarne profitto. Ma prima
di condurre simili esperimenti, riteniamo di dover compiere i primi
48 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
tre steps di un procedimento di ricerca, analiticamente più naîve ma
concettualmente più aderenti allo schema teorico di riferimento assunto.
Si tratta, primo step, di costruire a tavolino una matrice delle
interdipendenze locali, che colleghi le componenti del sistema (una
disaggregazione opportunamente spinta delle classi: famiglie, imprese,
governo locale, altre attività) secondo relazioni (presumibilmente
multiple) identificative delle varie categorie di economie esterne e delle
possibili aree di applicazione delle politiche (si vedano, per una idea
approssimativa, gli esempi al paragrafo 1.2).
Si tratta, secondo step, di identificare all’interno dei sistemi subregionali,
le aree a più elevata probabilità di ospitare “ispessimenti
localizzati” dei reticoli di interdipendenze. A tale scopo si replicherà -non
appena disponibili i dati elementari dei censimenti 1981- un esperimento
di “zonizzazione” utilizzando la metodologia di analisi dell’area sociale
più volte descritta e applicata.
La novità dell’esperimento (un tentativo preliminare e parziale,
utilizzando i dati del censimento 1971, è già stato condotto con risultati
che incoraggiano a proseguire su questa strada) consiste nell’utilizzare
variabili a tre livelli (comunali; sezioni di censimento; individuali:
famiglie e unità locali) derivate sia dal censimento della popolazione che
da quello dell’industria e integrate con dati di fonte diversa (consumi
energetici, investimenti, reddito comunale e per classi di famiglie, ecc.).
In particolare sono stati costruiti due insiemi di variabili, uno riferito
alle attività produttive, l’altro -diciamo- alle caratteristiche ambientali.
La distinzione, comunque, è meramente descrittiva poiché non si tratta
di spiegare le variabili di un insieme sulla base di quelle dell’altro,
per esempio con una regressione, ma di lavorare simultaneamente
con tutte le variabili per generare entità areali caratterizzate dalla
massimizzazione all’interno dell’associazione di caratteri e all’esterno
della differenziazione fra le varie entità. Si tratta, infine, terzo ed ultimo
step, del procedimento preliminare di selezionare, sulla scorta dei risultati
precedenti, il sistema sub-regionale più appropriato (dimensione ridotta,
alto grado di interdipendenze probabili) per condurvi un’esplorazione sul
campo in modo da disegnare la mappa (qualitativa) del reticolo delle
interdipendenze empiricamente rilevabili.
Contiamo di poter produrre alla prossima Conferenza Italiana di
Scienze Regionali i risultati di questo esperimento. Del resto, qui,
c’eravamo riproposti solo di proporre alcune premesse teoriche all’analisi
delle interdipendenze locali.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 49
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54 Analisi delle interdipendenze locali: alcune premesse teoriche
SCHEMI NUMERICI, MODELLI INTERPRETATIvI, METODI DI PROGRAMMAZIONE*
Giuliano Bianchi
1. Schemi semplici e realtà complessa
L’analista o il programmatore, che guardi al panorama di acute ten sioni, di
mutamenti vistosi, di equilibri instabili, di prospettive economi che incerte,
peculiare di questo passaggio della nostra vita nazionale, e lo confronti con
le ipotesi di ordine e di relativa stabilità su cui poggia il quadro contabile di
una matrice delle interdipendenze settoriali, può an cora una volta misurare
la difficoltà di racchiudere in uno schema nume rico la complessità dei
processi economici e di quelli sociali e territoriali che vi sono connessi.
Non intendo solo evocare i problemi classici, e da tempo identificati, della
costruzione di tavole input-output nazionali o regionali. Voglio dire, invece,
che quei problemi si presentano in forma aggravata oggi e nel nostro Paese.
È, forse, troppo severo il giudizio di Mariano D’Antonio, secondo
il quale «l’impiego delle tavole interindustriali è in Italia ancora ad
uno stadio rozzo e primitivo» (D’Antonio, 1978), ma si può convenire
con Paolo Costa, quando dimostra che, da noi, l’analisi input-output, e
soprattutto quella regionale, ha ancora un lungo cammino da percorrere
se è vero, come a me sembra, quanto egli scrive, e cioè che «i problemi di
costruzione delle tavole appaiono, al momento, più studiati dei problemi di
impiego dei modelli derivabili dalle stesse; tra i problemi di costru zione, le
costruzioni con ‘metodi indiretti’ continuano a prevalere sulle costruzioni
con ‘metodi diretti’; i modelli costruiti sono tutti a base uni-regionale, la
possibilità di passare alla costruzione di modelli multiregionali sembra al
presente piuttosto remota» (Costa, 1978).
Se, poi, la regione di cui ci si occupa è la Toscana, allora bisogna mettere
nel conto anche alcune difficoltà aggiuntive che sorgono dai caratteri
strutturali e funzionali del sistema economico (e non solo econo mico) di
questa regione (Becattini, 1975; IRPET, 1980e; Bianchi, 1981a).
C’è, anzitutto, il carattere non unitario del sistema, per la presenza di
una netta differenziazione, territoriale e sociale oltreché produttiva, fra le
aree della piccola e media impresa dei settori tipici dell’industria leggera;
le aree costiere della grande industria e del turismo intensivo; le aree di
campagna, distinte peraltro da una varietà di «agricolture» che vanno
dalla floricoltura e dal vivaismo all’abbandono; le aree urbane a marcata
* Testo contenuto in Bianchi G. (a cura di) (1982), Matrici intersettoriali dell’economia regionale
e programmazione. Problemi teorici e applicazioni pratiche: esperienze a confronto, IRPET-Le
Monnier, Firenze.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 55
connotazione terziaria (alcune a forte specializzazione turistico-culturale e
con sintomi visibili di un’incipiente evoluzione «metropoli tana»): una serie
di ambienti, insomma, fra loro scarsamente interrelati, che reagiscono in
modo differenziato alle sollecitazioni congiunturali, ai processi strutturali
e agli impulsi delle politiche, rispondendo, in ultima istanza, a «logiche»
economiche distinte.
I processi produttivi dell’industria, inoltre, presentano configurazioni
spesso assai diverse anche all’interno dello stesso settore, grazie all’elevata
flessibilità nella combinazione dei fattori, propria di un apparato di piccole
e piccolissime imprese, specializzate per prodotti, parti di prodotto,
fasi di processo, sì che non di rado risultano più fitte le interdi pendenze
infrasettoriali di quelle intersettoriali. Né si deve dimenticare la sostanziale
impermeabilità alle procedure conoscitive (un fenomeno, certo, non solo
toscano) dei livelli produttivi (che, peraltro, lasciano traccia nei consumi
di energia elettrica e nei flussi d’export) e della quota, probabilmente
cospicua, d’occupazione non registrata dalle stati stiche ufficiali.
Il sistema regionale, infine, concluso il ciclo dell’industrializzazione
post-bellica, sembra attraversare una fase, tutt’altro che lineare, di
trasformazione e mutamento.
Come si vede non mancavano davvero le ragioni che avrebbero
sconsigliato di avviare un’impresa come quella della costruzione di una
ta vola input-output (d’ora in poi: matrice) per la Toscana.
Se abbiamo deciso di promuovere il progetto non è stato, quindi, né
perché ne ignoravamo le intrinseche difficoltà, né perché fossimo ammaliati
dalla prospettiva dei suggestivi orizzonti che, secondo una nota pa gina di
Isard e Langford, si aprono allorché si possieda una matrice regionale:
la possibilità di indagare e governare problemi quali la localizzazione
industriale, il controllo degli usi del territorio, le politiche della casa,
la programmazione dei trasporti, l’interdipendenza finanziaria fra gli
enti locali, la disoccupazione, la scuola, l’assistenza sociale, il controllo
dell’inquinamento idrico e atmosferico, ecc.. è noto che, trascinati
dall’entusiasmo, i due famosi autori annettono al territorio di compe tenza
dell’ input-output regionale anche i problemi della delinquenza giovanile
e del disarmo (Isard e Langford, 1969: in effetti, gli autori utiliz zano la
tavola input-output uniregionale di Philadelphia per studiare gli effetti
della guerra del Vietnam sull’economia locale, accertando che una spesa
aggiuntiva dovuta alla guerra di 284 milioni di dollari generava un extraoutput
di 996 milioni di dollari: è inquietante sapere che se la stessa spesa
aggiuntiva fosse stata destinata alla scuola e all’edilizia po polare l’impatto
totale sarebbe stato inferiore di 40 milioni di dollari). In verità, nel 1977,
la nostra decisione di varare il progetto per la costruzione di una matrice
intersettoriale toscana (MIT) si fondò su più tranquille considerazioni: il
56 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
sostanziale affinamento delle tecniche input-output di questi ultimi tempi,
una certa accumulazione di esperienze po sitive, la promozione di progetti
analoghi in altre regioni italiane, una maggiore apertura dell’ISTAT alle
esigenze regionali. Anche la felice con clusione del progetto scozzese e i
primi concreti risultati delle sue appli cazioni pratiche ci confortarono non
poco nel prendere una decisione che, ridotta al suo nocciolo essenziale,
significava vincere una radicata (e tutt’altro che immotivata) riluttanza
a «modellizzare» una realtà come quella toscana, complicata e ambigua
anche nel suo scheletro economico ma addirittura sfuggente nelle sue
connotazioni socio-culturali, la cui in terpretazione unitaria rappresentava
il risultato centrale della tradizione di ricerca dell’IRPET.
2. Gli obbiettivi del progetto per la matrice intersettoriale to scana
(progetto MIT)
Comunque, accertata l’esistenza di quelle pre-condizioni, stimolati da
altri esempi, convinti della necessità di una rappresentazione semplice ma
completa delle componenti del sistema regionale e della rete delle loro
interazioni, almeno limitatamente alla struttura economica, si ri tenne di poter
promuovere, con qualche speranza di successo, il progetto per la matrice
toscana, assegnandogli alcuni obbiettivi fondamentali (cfr. oltre ai contributi
pubblicati in questo volume: IRPET, 1980d; Ba gliori 1980a e 1980b).
2.1 Il primo, quello di contribuire ad organizzare in un quadro unitario
e coerente le conoscenze sulla struttura produttiva della Toscana, così
come si era conformata per opera del processo di sviluppo post-bellico, ma
ora probabilmente in una nuova delicata fase di transizione. In proposito
debbo forse ricordare, sia pur rapidamente, come la lunga discussione sullo
sviluppo economico della Toscana (una discus sione che ha abbracciato
tutta la seconda metà degli anni Settanta, pro vocata e alimentata
prevalentemente -ma non certo esclusivamente- dai contributi dell’IRPET)
abbia originato alcune «controversie» come quelle circa: il ruolo giocato
dalla piccola o dalla grande impresa; i comportamenti passati, o auspicabili
in un quadro di politica economica, del settore privato o di quello a capitale
pubblico; il dinamismo e l’affi dabilità in prospettiva dei settori cosiddetti
«tipici» (tessile, abbiglia mento, cuoio, calzature, legno e mobilio, ecc.) e
comparativamente degli «altri» (di base o «nuovi»); i vantaggi e i rischi
relativi di un sistema export-oriented rispetto ad uno più indirizzato a
sbocchi mercantili in terni; la pericolosità comparata della competizione
sui mercati interna zionali dei prodotti toscani da parte dei paesi avanzati
e da quelli in via di sviluppo; l’esistenza o meno di caratteri differenziali
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 57
tra le manifesta zioni della crisi in Toscana e nel complesso del Paese; la
valutazione, positiva, negativa o problematica, degli andamenti dell’ultimo
periodo e delle prospettive a medio termine (per una succosa e intelligente
rico struzione del dibattito, cfr. Floridia, 1981).
Successivamente la discussione si è posta il problema di come
interpretare alcuni innegabili, ma tutt’altro che univoci, segni di novità
nell’economia regionale; se come avvio di una nuova fase dello sviluppo
re gionale o come crisi irreversibile di quella che fin qui si era chiamata la
«formula toscana».
Il punto è evidentemente di una certa delicatezza, in specie dal punto di
vista dell’ipotesi -niente affatto garantita ma nemmeno del tutto ne gata- di
un possibile decollo operativo della programmazione regio nale.
Da qui -nel dibattito toscano- il quasi unanime riconoscimento della
necessità di spingere l’analisi oltre la misura delle oscillazioni di breve
periodo per identificare i trends strutturali attivati dall’interazione tra
meccanismi endogeni (che, nella persistente diversità -già ricordata- tra
i meccanismi degli «ambienti» economico-territoriali della To scana,
esprimono una significativa vivacità di certe produzioni «interme die»
del manifatturiero) e fattori esogeni (la posizione dei prodotti to scani sui
mercati mondiali nella contrastata e per ora non conclusa vi cenda della
redistribuzione dei ruoli).
Non si è, invece, ancora prodotta una significativa convergenza di
giudizi -e nemmeno un apprezzabile confronto di opinioni- circa la qualità
e gli esiti delle trasformazioni avvenute nel corso degli anni Set tanta, le
cui dinamiche (e soprattutto la possibilità di una nitida decifrazione) sono
peraltro non poco perturbate dall’impatto della crisi mon diale e nazionale.
Chi scrive ha proposto un’ipotesi interpretativa (cfr. Bianchi, 1982b)
che, drasticamente semplificata, può essere così riassunta nelle sue linee
essenziali:
a) nel decennio passato l’interazione tra fattori endogeni e meccani smi
endogeni ha attivato alcuni processi:
- un’ulteriore specializzazione manifatturiera dell’apparato pro duttivo
regionale, con un lento declino dei settori tipici e una meno lenta ma
non impetuosa crescita dei settori «nuovi» (per la Toscana);
- un sensibile incremento della produttività nel complesso delle produzioni
manifatturiere;
- un’ancora più marcata specializzazione esportatrice dell’indu stria
regionale;
-
un comportamento demografico che si allinea a quello delle economie
mature (le nascite non bilanciano più le morti e un saldo mi gratorio
positivo non pareggia più il deficit naturale; alla fine del decen nio, per
la prima volta, la popolazione toscana decresce in valore asso luto);
58 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
- la distribuzione dell’occupazione nei tre grandi settori (agricol tura,
industria, servizi) evidenzia una novità di rilievo: l’occupazione dei
servizi, nel 1977, supera quella industriale (così come, nel 1955, quella
industriale aveva superato l’occupazione agricola);
b) quei processi stanno inducendo delle vere e proprie «mutazioni» nella
struttura economica, sociale e territoriale della Toscana, che modi ficano
profondamente i «modelli» caratteristici dello sviluppo regionale postbellico:
- l’aumento del capitale fisso produttivo (investimenti in macchi nari
e tecnologie) rende meno labour intensive il «modello produttivo»:
aumenta il prodotto ma ristagna e talvolta declina l’occupazione;
- diventano apprezzabili le prime manifestazioni corpose di terziario
-
superiore: informatica, attività promozionali, ecc.; mentre si per cepisce
l’emergere, sulla base di una prestigiosa tradizione metalmecca nica,
di quote di industria intermedia (intermedia per le tecnologie e per la
collocazione intersettoriale, fra i settori di base e i settori finali), che
si affiancano all’industria tipica tradizionale. Terziario superiore e
indu stria intermedia arricchiscono e «ammodernano» il «modello di
industrializzazione» ereditato dal processo di sviluppo post-bellico;
il «modello territoriale» delle «quattro Toscane» (campagna urbanizzata,
aree turistico-industriali, aree urbane, campagna) subisce una robusta
sollecitazione per l’effetto congiunto di una industrializza zione che si
diffonde dalla campagna urbanizzata investendo quasi tutta la campagna
valliva e costiera e di un’incipiente evoluzione metropolitana del sistema
urbano della Toscana centrale.
Ecco: la matrice dovrà aiutarci a organizzare, approfondire, controllare
le conoscenze su questa fase dello sviluppo regionale. Certo, dinami smo e
specificazione spaziale dei processi (per non dire delle loro quali ficazioni
socio-culturali) si adattano malissimo a uno schema per defini zione statico,
macroeconomico e quantitativo come quello della matrice. Ma alla Matrice
Intersettoriale Toscana 1978 (MIT 78) noi chiediamo di far luce sulla
struttura produttiva regionale fotografata nel corso del se condo ciclo del
processo di industrializzazione. E dall’analisi dei flussi del suo commercio
esterno vogliamo sapere qualcosa di affidabile sulla sua collocazione
nella specializzazione internazionale e interregionale delle produzioni. Le
stesse «cornici» della tavola, pur nella loro irrime diabile povertà numerica,
possono essere rese eloquenti da una lettura sensibile e competente: le
«righe» degli inputs primari e le «colonne» della domanda finale potranno
essere interrogate circa i rapporti fra la voro e processi produttivi e fra
famiglie, imprese, governo locale. La ma trice resterà «geometrica»: ma
perché non si può chiedere «finezza» al l’analista?
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 59
2.2 In attesa che le ipotesi interpretative sul nuovo ciclo dello sviluppo
toscano possano essere confermate, modificate o smentite dalla ricerca
(anche grazie al contributo della matrice), si deve riconoscere che i
responsabili della programmazione regionale mostrano di aver percepito
i segni di novità, di cui si rintracciano ampie testimonianze nella parte
di analisi dei documenti programmatici che precede la formulazione delle
politiche (Regione Toscana, 1981).
Descrivere la strategia di politica economica che i documenti della
programmazione regionale propongono per farvi fronte esula dai limiti di
queste considerazioni. In estrema sintesi si può dire che si è immagi nato
un insieme di programmi e di progetti, per settori e per aree terri toriali,
orientati in queste direzioni:
-
-
-
la valorizzazione delle risorse naturali (agricoltura, miniere, fonti
energetiche, acqua), mediante il rilancio di attività in declino e la
promozione di attività nuove;
la riqualificazione dei settori tipici, sia dal lato produttivo (nel l’ipotesi
di dover cedere le produzioni meno qualificate e meno competi tive) che
da quello mercantile, puntando a rendere endogene al sistema funzioni
di intermediazione come quelle dei buyers, che secondo nostre stime
controllano gli sbocchi di mercato di un quarto delle produzioni tipiche,
mentre forniscono sofisticate prestazioni da terziario superiore all’intero
paese, se è vero che il 60% di certi flussi d’export, le maglierie per
esempio, sono alimentati da produzioni extra-toscane;
spinta dall’industria tipica e trainata dal rilancio dei settori di base, ne
dovrebbe derivare l’attivazione di quei nuclei di «industria in termedia»
che hanno, recentemente, mostrato una discreta vivacità, come provano
gli ampliamenti del potenziale produttivo e delle dimen sioni medie,
l’intensificazione dell’utilizzo della capacità produttiva e -in alcuni
periodi- le straordinarie prestazioni all’export delle industrie della
plastica, della gomma, dell’acciaio, dell’elettromeccanica (Bianchi e
Falorni, 1980).
Ora -se si prescinde per un momento dalle condizioni di «implementabilità»
pratica di un siffatto disegno per limitarsi all’esercizio lo gico della
valutazione di coerenza fra analisi e politiche- è del tutto evidente che una
strategia del genere richiede una progettazione «fine» degli interventi e
una valutazione attenta delle alternative. Da qui il se condo obbiettivo del
progetto MIT: rendere disponibile uno strumento applicabile, entro certi
limiti, al miglioramento dei processi decisionali della politica economica a
scala regionale.
Gli stessi documenti della programmazione toscana, del resto, sembrano
alludere a un approccio in termini di matrici quando parlano della
necessità di un «ispessimento del sistema delle relazioni interindustriali»,
60 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
nel quadro di un rafforzamento «delle interdipendenze fra i settori e, più in
generale, fra grande e piccola impresa, fra impresa pubblica e pri vata».
Le più utili applicazioni a cui si può fin d’ora pensare sono, oltre a quelle
classiche della stima degli effetti sulle grandezze economiche rilevanti
(produzione lorda, occupazione, ecc.) di variazioni della spesa finale, quelle
della valutazione ex-ante, della fattibilità prima e delle con seguenze poi, di
strategie alternative in materia di investimenti e di spesa pubblica e quelle
del calcolo delle possibili conseguenze di modificazioni nella bilancia
commerciale o nella struttura dell’occupazione o del si stema produttivo.
In effetti, se la matrice si rivelerà affidabile, le sue applicazioni non
dovrebbero costituire un problema: non mancano tecniche abbastanza
sperimentate (del resto, per i nostri scopi, la tecnica input-output si può
ritenere relativamente «matura»). La nostra ambizione, tuttavia, è quella
di giungere ad applicazioni che non siano meri esercizi scolastici per
attingere effettivamente il livello dell’ausilio ai processi decisionali. Prima
che l’eventuale lettore di queste note maturi il sospetto di vedervi sin tomi
di un ingenuo entusiasmo, voglio dichiarare subito che so bene come una
matrice consenta solo simulazioni assai semplificate degli eventi e delle
loro ripercussioni: ma si tratta di esercizi che hanno i grandi vantaggi
della quantificazione e del vincolo a considerare, simul taneamente, tutte le
grandezze in gioco e a controllarne la compatibilità.
2.3 Lo stesso controllo di compatibilità la matrice lo impone,
inevitabilmente, ai dati che vi si immettono, quale che sia la loro fonte:
statisti che ufficiali, rilevazioni dirette, stime ad hoc.
è per questo che nel nostro progetto la realizzazione della matrice
viene vista come «un momento dell’impostazione e della costruzione di un
organico e coerente sistema di conti economici regionali e, più in ge nerale,
di un completo e coerente sistema informativo regionale» (IRPET, 1980d).
Si tratta del terzo obbiettivo del progetto MIX dell’IRPET.
La questione è complessa e per quanto molte volte discussa si dovrà
tornar presto ad occuparsene (Bianchi, 1978). Il lento processo di riforma
dell’ISTAT, lo stato di collasso di molti canali informativi affidati alle
Regioni, la necessità di un utilizzo appropriato dei risultati dei re centi
censimenti economici e demografici, richiedono alla Toscana come a tutte
le altre Regioni di dare un’elevata priorità ai problemi dell’infor mazione
economico-sociale e di aprire, nei fatti, un nuovo rapporto, an zitutto con
l’ISTAT e le Camere di Commercio, poi con le categorie eco nomiche e gli
enti locali, gli organismi bancari, previdenziali, le imprese pubbliche, ecc.
Un rapporto nel corso del quale cominciare a discutere, se si vuole, di quello
che, un po’ enfaticamente, ho definito «sistema in formativo regionale», ma
avendo chiaro che sarebbe già un esito di straordinaria importanza se si
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 61
iuscisse a gestire razionalmente le stati stiche economiche e sociali definendo
-nel concerto dei vari produttori-utilizzatori- gli standard della produzione e
dell’accumulazione dei dati e le regole dello scambio informativo.
Restando all’interno dell’ordinamento regionale si può dire di
possedere un paradigma che consente -almeno così spero- di inquadrare
appropriatamente la matrice in quello che ho creduto di poter chiamare
il «modello informativo del sistema regionale di programmazione»
(Bianchi, 1981b), In questo «modello» i flussi informativi generati dalle
varie rilevazioni statistico-amministrative (nazionali, regionali e locali)
assicurano il ritmo informativo di base, cioè gli inputs informativi che
alimentano i fondi informativi (cioè gli archivi: «multiscopo», quelli
generali prodotti dalla cooperazione fra i soggetti informativi alle varie
scale territoriali; «di lavoro», quelli derivati dai precedenti per selezione
secondo le esigenze degli organi della programmazione).
Fondi e flussi informativi rappresentano la materia prima destinata ad
essere elaborata mediante gli strumenti di analisi:
- di analisi permanente (e sono gli «osservatore di settore»: in teoria,
tanti quanti sono i settori di intervento: mercato del lavoro, turi smo,
agricoltura, ecc.);
- di analisi periodale (e corrispondono alla pratica di reporting: rapporti
periodici, normalmente annuali, sul sistema complessivo o su sue parti:
popolazione, occupazione, esportazione, ecc.);
- di analisi strutturale (e saranno, normalmente, modelli forma lizzati del
sistema regionale o di sue componenti; se il «modello» è una tavola
input-output la sua centralità è ovvia come area di intersezione e luogo
di controllo di una molteplicità di informazioni originate dalle più
diverse fonti).
3. Le matrici regionali e l’articolazione multiregionale e infraregionale
dell’analisi a fini di programmazione
3.1 Va da sé che le esigenze di rendere più organica la conoscenza
sulle economie regionali, di migliorare i processi decisionali della
programmazione, di disporre d’un adeguato sistema informativo non son
certo esclusive della Toscana, se non per le particolari configurazioni che
evidentemente assumono in questa specifica realtà regionale. E infatti a
me sembra che l’attuale risorgente interesse per la realizzazione di matrici
regionali possa essere interpretato, oltre che come il sintomo di un bisogno,
per ora indistinto magari ma in via di affioramento, di immettere «più tecnica»
nei processi decisionali delle politiche regionali e lo cali, anche come uno
dei significativi riflessi della più generale necessità di passare, nelle analisi
62 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
e nelle decisioni di politica economica nazionale, da un «approccio per
macro-aggregati» ad un «approccio per flussi multi-regionali». Insomma
sembra che cominci a farsi strada l’ipotesi di un ribaltamento della logica
che presiede alla costruzione dei quadri macro-economici, e precisamente:
anziché disaggregare -come si fa oggi- gli aggregati nazionali per ottenere
quelli territoriali/regionali, aggregare questi ultimi per arrivare ai primi (o,
per lo meno, per verificarli).
Dietro questa ipotesi c’è, evidentemente, il rifiuto di un atteggiamento
culturale secondo cui le prospettive regionali sono il risultato della
regionalizzazione di prospettive nazionali che non vengono messe
in discussione. Accettarlo, d’altra parte, equivarrebbe ad assumere
implicitamente la neutralità della politica regionale e dei fattori spaziali
sullo sviluppo nazionale. Si ricordi, per inciso, che questa assunzione sta
sostanzialmente alla base di tutti i più importanti documenti economici
governativi di questi ultimi tempi.
Si vorrebbe, invece, sperimentare e generalizzare, per quanto possi bile,
un approccio in grado di restituire l’effettiva complessità, oltre che delle
interdipendenze fra i settori, anche delle interdipendenze spaziali fra i vari
sistemi territoriali, che costituiscono la concreta articolazione locale del
sistema economico nazionale. (È questa l’ispirazione che sta alla base del
progetto da lungo tempo perseguito da un gruppo di Istituti regionali di
ricerca per l’elaborazione di un «Rapporto interregionale sullo sviluppo
economico nazionale»: è il così detto «RISE»).
Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che un contributo forse decisivo
alla soluzione del problema sarebbe quello di un sistema di matrici
interregionali che coprisse l’intero Paese. Ma resto dell’opinione che giu sta
sia stata la scelta di avviare, intanto, la costruzione dal basso di una serie di
matrici regionali, non derivate meccanicamente dalle tavole nazionali.
3.2 È chiaro che il problema della identificazione delle unità di base
di un sistema economico si ripropone anche a scala regionale, se si vuol
ridurre l’area delle politiche indifferenziate, indiscriminatamente estese a
tutto il territorio. Gli interlocutori reali della Regione, i soggetti con i quali
attivare meccanismi di contrattazione e di concertazione, non sono, in
astratto, gli «enti locali», le «categorie», i «settori produttivi», ma una serie
specifica di combinazioni determinate di categorie operanti in certi mix
di settori spazialmente localizzati (non il «settore tessile» o i «lavoratori
tessili» in astratto, ma quel determinato comprensorio tessile con tutte le
sue interrelazioni extratessili).
Ma come procedere alla identificazione di queste unità elementari (del
sistema economico o della programmazione regionale, se si preferisce)?
Nell’ambito del dibattito -da diversi anni in corso in Italia- circa «i fattori
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 63
che possono spiegare le elevate capacità competitive e di sviluppo mostrate
da certi insiemi di imprese di non grandi dimensioni e territorialmente
concentrate» e sulla linea di pensiero aperta dalla rifles sione di A. Marshall
«sulle interazioni interne ad un sistema di imprese (di non grandi dimensioni)
spazialmente concentrate, e fra questo e una certa popolazione (operaia
e non), su un territorio ristretto» (Bellandi, 1981) è stato recentemente
suggerito (Becattini, 1979) che, se si ricerca un’efficace «unità di indagine
dell’economia industriale», conviene pas sare dal «settore industriale»
al «distretto industriale», che si manifeste rebbe come «un ispessimento
localizzato delle relazioni interindustriali».
La proposta è suggestiva. Avendo l’occhio, per esempio, ai comprensori
toscani del tessile e del cuoio, mi domando se non potrebbe essere
circostanziata ponendo l’accento sull’intensità delle relazioni intra-settoriali
(fra le unità di uno stesso settore) e delle più generali interdipendenze
economico-sociali (con le famiglie, con i servizi all’industria, con
la pubblica amministrazione, con una particolare organizzazione del
territorio), in un quadro di piuttosto relativa debolezza delle relazioni
intersettoriali all’interno della regione.
Non voglio davvero sostenere che la matrice regionale sia uno
strumento specifico per la soluzione di questi problemi. È noto a tutti che
esistono altri strumenti che, mediante l’osservazione dei comportamenti
dei soggetti di una comunità (per esempio: analizzando la rete di relazioni
determinata dagli spostamenti quotidiani casa-lavoro), consentono di
identificare sistemi sub-regionali. Tra l’altro, una particolare applica zione
di tali metodi ha consentito all’IRPET di elaborare una zonizzazione della
Toscana, su cui si è fondata la legge regionale che ha istituito in Toscana
le Associazioni intercomunali (Sforzi, 1982). Tuttavia entità sub-regionali
e matrici regionali non sono universi di discorso privi di intersezioni:
soprattutto se si ammette che le prime possano essere rin tracciate laddove
si accertino «ispessimenti localizzati delle relazioni in terindustriali » che è,
per l’appunto, ufficio delle seconde rilevare e misu rare.
Del resto, andando oltre i sillogismi terminologici:
-
-
sono disponibili tecniche abbastanza affidabili per derivare,
economicamente e utilmente, matrici -diciamo così- «comprensoriali»
da matrici regionali (non molto tempo fa lo hanno fatto proprio i nostri
amici scozzesi, con esiti a quanto pare soddisfacenti, per l’area di
Strathclyde; cfr. SCRI, 1978);
data la peculiarità dei comportamenti localizzativi di una parte
significativa dell’industria toscana (la Val di Bisenzio per l’industria
tessile, il Medio-Basso Valdarno per l’industria delle pelli e del cuoio,
ecc.) non sarebbe temerario connotare territorialmente diverse righe e
colonne delle matrici toscane.
64 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
4. Alcune specificità del progetto MIT
4.1 Non so se da quanto son venuto fin qui scrivendo si capisca davvero
perché l’IRPET abbia deciso di correre l’avventura di costruire una serie di
matrici regionali. Potrei limitarmi a ripetere con J. Mc Gilvray che vale la
pena di farlo quando si sia in presenza di «un sistema eco nomico regionale
di media dimensione, diversificato ed aperto verso l’e sterno». E ribadire,
con V. Bulmer-Thomas, che -in tal caso- la ma trice va stimata con metodo
diretto dovendosi determinare i flussi lordi delle transazioni col resto del
Paese e col resto del mondo, dato che, se condo lui, «le tavole input-output
‘buone’ si distinguono da quelle ‘cat tive’ sulla base della loro capacità di
stimare accuratamente i flussi di scambio».
Mi pare però che un supplemento di motivazioni si possa ricavare da
una breve esposizione delle specificità del progetto m i t (che presentano,
probabilmente, anche qualche profilo di utilità per quanti potessero es sere
interessati a progetti consimili).
La prima specificità è quella dell’itinerario seguito: una matrice indiretta
per l’anno 1975 (in due versioni: MIT 75 e MIT 75A), una nuova indiretta
per l’anno 1977 (MIT 77), una matrice diretta per l’anno 1978 (MIT 78).
Il presupposto di quest’itinerario risiede nella circostanza che i due metodi
«classici» (la matrice regionale derivata, più o meno meccanicamente, da
quella nazionale; la matrice stimata, anche se non comple tamente, sulla
base di un campione di imprese o enti) non si sono consi derati alternativi,
ma piuttosto complementari e come tali da percorrere in sequenza. Si è
ritenuto, infatti, che fosse necessario padroneggiare fonti e tecniche
(metodi scientifici ed espedienti artigianali) mediante l’e sperienza delle
«indirette» prima di lanciare la complessa e costosa in dagine per la
«diretta», e che -al tempo stesso- fosse utile mettere a punto uno stile di
lavoro coerente con una filosofia operativa, secondo la quale la matrice non
è mai un’operazione compiuta una volta per tutte, ma una sorta di work-inprogress
permanente.
4.2 La seconda specificità dipende dal fatto che, fin dall’inizio, la matrice
è stata pensata come il «cuore» di un più generale sistema di modelli. Mi
preme sottolineare che non si tratta di una razionalizzazione ex-post. In una
dichiarazione alla stampa all’atto della presentazione pubblica del progetto
m i t si diceva infatti: «per dare una base consi stente, da un punto di vista
tecnico-analitico, al modello di programma zione in atto bisogna dotarci di
un ‘modello rappresentativo’ del sistema regionale, valido a fini descrittivi,
predittivi e di esplorazione delle alter native. Quel complesso di conoscenze
che va sotto il nome di regional science ha reso disponibile da tempo una
discreta strumentazione tecnica e applicativa. Il suo impiego in un contesto
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 65
complesso come quello to scano, credo però che induca piuttosto a pensare
non tanto ad un ‘modellone’ omnicomprensivo quanto a una ‘famiglia di
modelli’, di agevole manovra per esercizi di simulazione effettivamente
utili per i policy-makers. In questa prospettiva siamo partiti, come si sa,
dalla costruzione di una matrice input-output dell’economia regionale».
Il sistema di modelli di cui la MIT è il «cuore» è quello ora in corso di
ultimazione nel quadro del Tuscany Case Study previsto dall’accordo di
cooperazione scientifica IRPET-IIASA-IASI/CNR.
Il sistema di modelli è finalizzato a scopi di previsione a medio
termine, valutazione di politiche e programmazione. Ciò vuol dire
che i singoli moduli (oltre che il sistema integrato) possono produrre
previsioni consistenti (se si condivide l’idea che previsioni fondate su
relazioni causali siano più affidabili delle semplici proiezioni dei trends).
Gli stessi modelli possono servire anche per le analisi di impatto delle
politi che, considerando queste come esercizi di previsione condizionata
(secondo lo schema di ragionamento: se ... allora ...). Se è dato un criterio
delle politiche desiderate (in altri termini una funzione obbiettivo da
ottimizzare) il sistema può trovare poi utile impiego anche a fini normativi
(di programmazione). In ogni caso il sistema di modelli non è indirizzato a
problemi di stabilizzazione a breve termine né a problemi di cambia mento
tecnologico nel lungo periodo.
Un’accurata descrizione delle specifiche del sistema e dei modelli che
lo compongono si trova in: Cavalieri, Martellato e Snickars (1982). Qui
credo basti ricordarne i tratti essenziali. Si tratta, anzitutto, di un sistema
biregionale (Toscana e Resto d’Ita lia), ove ognuna delle due «regioni»
è analizzata con specifici modelli, più dettagliati per la Toscana, e che
presenta, rispetto ai modelli multi-regionali similari:
- una maggiore enfasi sul commercio internazionale (Cavalieri, 1981);
-
una maggiore accuratezza nel trattamento del settore pubblico (considerato
sia come produttore di beni e servizi pubblici -inclusi i trasferimenti- che
come offerta di infrastrutture: Maltinti e Petretto, 1981).
Il sistema comprende sette moduli:
- il modello input-output biregionale Toscana-Resto d’Italia (in pratica
-
-
-
la MIT, complementata dalla matrice per il Resto d’Italia), che -come
ho già detto- costituisce analiticamente il core model del sistema
(Martellato, 1982);
il modello del commercio internazionale della Toscana (un mo dello
di domanda, specificato per merce e paese importatore, ammette certi
gradi di sostituzione tra flussi internazionali e interregionali);
il modello degli investimenti privati nella regione: endogenizza gli
investimenti produttivi, determinando i limiti di capacità produttiva;
il modello del mercato del lavoro (collegato alla produzione mediante
66 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
-
-
-
l’input di lavoro, interagisce col modello della popolazione tramite
movimenti migratori, tassi di attività e di disoccupazione);
il modello della popolazione (sviluppato secondo lo schema dei flussi
migratori multiregionali elaborato allo IIASA: Willekens e Rogers,
1978);
il modello del consumo privato (che applica l’approccio Inforum
derivato per l’Italia dal progetto Intimo realizzato nel quadro della
cooperazione IRPET-Sogesta: Grassini, 1982);
il modello del settore pubblico (una delle parti più originali
dell’intero sistema), che consente di analizzare l’impatto di differenti
configurazioni di spesa pubblica per servizi sociali (il collegamento
fra i redditi disponibili e gli output settoriali poggia su una matrice
del red dito disponibile, costruita per la Toscana e il Resto d’Italia,
prendendo in considerazione il prelievo fiscale e i trasferimenti
disaggregati per settori).
Naturalmente questa telegrafica presentazione del sistema di modelli
del Tuscany Case Study non basta davvero nemmeno a darne un’idea (e,
infatti, si sono forniti gli opportuni riferimenti bibliografici): ma qui si
voleva semplicemente dire che questo progetto sarebbe stato inimmaginabile
se non si fosse posseduta una matrice regionale (diretta), mentre
l’utilità applicativa della m i t risulta straordinariamente esaltata dagli
strumenti analitici costruiti al suo intorno.
4.3 La terza specificità consiste nel fatto che consideriamo il Progetto
MIT non un semplice tema di ricerca che si esaurisce con la produzione
della MIX 78, ma come un impegno di lavoro permanente per l’IRPET.
Le prospettive di ricerca già inscritte intrinsecamente nel progetto sono
state a suo tempo definite (Biggeri e Tani, 1979). Qui mi riferisco, in vece,
alle direttrici di ricerca che richiederanno un lavoro continuativo:
-
-
per il perfezionamento delle stime; i valori dei principali aggre gati
divergono a seconda che si assumano o meno i vincoli dei dati uffi ciali
della contabilità regionale: si tratta di affinare stime dei coefficienti e
riporti all’universo (anche mediante rilevazioni integrative e verifiche
con l’ISTAT) per determinare valori affidabili su cui costruire una
«nuova» contabilità regionale, secondo gli obbiettivi iniziali del
progetto;
per la specificazione della matrice; gli aspetti più interessanti, dal nostro
punto di vista riguardano: una maggiore articolazione delle branche
(risultati positivi si sono già ottenuti, ad esempio, per la Branca Tessile,
«splittata» in cinque sottobranche: Filatura, Tessitura, Maglieria,
Rifinizione, Altre Produzioni; cfr. Grassi, 1982b); un più accurato trattamento
di aspetti specificamente «toscani» come le lavorazioni per
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 67
conto terzi o il turismo; lo sviluppo del promettente approccio seguito
per l’inserimento del settore pubblico in uno schema input-output (v.
Maltinti e Petretto, 1982); qualche tentativo di articolazione settorialeterritoriale;
- per l’aggiornamento: il know-how acquisito con l’esperienza delle
matrici indirette ci ha reso convinti della fecondità di questo me todo,
controllato ma fortemente pragmatico, che, integrando dati uffi ciali,
rilevazioni parziali, stime di esperti, consente la sistematica produ zione
di matrici, almeno a cadenza biennale.
4.4 La quarta specificità non è poi così peculiare come le altre: si
tratta, infatti, dell’elevato grado di priorità che assegnamo al profilo delle
applicazioni. Un profilo certamente comune anche agli altri esperimenti
di matrici regionali oggi in corso in Italia. Noi vorremmo procedere su
questa direzione di lavoro percorrendo, se ci riusciremo, due strade
parallele: un sistematico rapporto di collaborazione con gli utilizzatori (in
prima istanza: gli organi della programmazione regionale) e l’attivazione
di uno specifico filone di studi, aperto a forme definite di cooperazione
scientifica con istituti universitari e altri centri di ricerca. Questo se condo
aspetto non dovrebbe presentare particolari difficoltà: il primo mantiene
qualche punto di problematicità. Isard ci ricordava, poco più di due anni
fa, che la neonata scienza regionale colse i suoi primi suc cessi presso i
platinerà e i policy-makers proprio sul terreno dell’analisi input-output
(Isard, 1982).
Ma Glickman (1980) ci ammonisce che i modelli input-output sem brano
avere uno scarso appeal per i responsabili del decision making, stando
agli esiti della sua rassegna sull’uso dei modelli empirici nelle analisi
a fini di politica regionale. Per ora non posso andar oltre una pla tonica
dichiarazione di intenti: cercheremo di darci da fare, facendo te soro delle
altrui esperienze (probabilmente si può imparare qualcosa da gli scozzesi)
e valorizzando l’investimento fatto con l’inserimento della matrice in un
sistema di modelli, che dovrebbe moltiplicarne le opportu nità di utilizzo,
diretto e indiretto.
5. Profili della cooperazione interregionale
Tenuto conto che il progetto toscano si muove in sincronia con altri progetti
similari (segnatamente con quello veneto e con quello emiliano) vale la pena
di riconsiderare alcuni aspetti di impostazione generale, che mi sembrano
cruciali per la credibilità del « movimento per le matrici regionali».
68 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
C’è anzitutto, mi pare, la necessità di un severo vaglio critico delle
ipotesi, dei dati e dei metodi assunti, se le matrici regionali debbono
evolversi da esercizi, nemmeno sempre eleganti, a strumenti di lavoro
effettivamente utilizzabili.
è la sola strada che può permetterci di abbandonare lo scivoloso sentiero
dei controlli di plausibilità e di verosimiglianza, che portano ad ac cettare
i dati di una tavola quando confermano ciò che sappiamo o cre diamo di
sapere. Il problema evidentemente è invece quello di usare la tavola come
strumento capace di farci vedere ciò che è invisibile ad oc chio nudo. E
suoi risultati saranno tanto più utili (se affidabili) quanto più parranno
«controintuitivi».
Indicherei poi l’esigenza di giungere a formulare un «codice
metodologico» tendenzialmente unitario cui ricondurre i vari progetti di
ma trice regionale, se resta valido l’obbiettivo non tanto di una costruzione
dal basso dei conti nazionali, quanto quello di una costruzione sul posto
dei conti regionali e se si può assumere l’ipotesi di una disponibilità, per
altro già ampiamente sperimentata, a forme di collaborazione e a rap porti
di reciproca informazione fra i vari gruppi di ricerca.
Su queste premesse si possono formulare alcune sintetiche proposi zioni
«auspicatorie»:
-
-
-
-
definire la lista dei criteri metodologici necessari per assicurare un
livello minimo di comparabilità fra le matrici regionali e fra queste e le
tavole nazionali;
concretizzare una serie limitata e realistica di richieste da avan zare
all’ISTAT, per esempio per l’ampliamento (forse anche a spese delle
regioni) di alcune indagini campionarie (produzioni, valore aggiunto,
consumi, occupazione) per ottenere una migliore rappresentatività dei
dati di base a livello regionale e la rilevazione dei flussi interregionali
oltre che di quelli internazionali;
tentare una programmazione concertata degli studi metodolo gici e delle
analisi di settore, per ampliare e approfondire le indagini ri ducendo il
carico per i singoli progetti;
tendere ad una specializzazione delle rilevazioni dirette, miran dole sui
settori più rilevanti o specifici nelle diverse situazioni.
Come si vede, si tratta solo di una applicazione del principio della
divisione del lavoro, mentre la speranza in una più attiva collaborazione
interregionale fa da antidoto al timore che la faticosità di operazioni come
quelle di cui si parla possano indurre, dopo l’acme della pubblica zione
delle tavole ad un rilassamento prima e a uno spegnimento poi dell’attività
di ricerca su questo tema.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 69
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72 Schemi numerici, modelli interpretativi, metodi di programmazione
«MATURITà PRECOCE»: UNA MODERNIZZAZIONE A RISCHIO*
Giuliano Bianchi
1. Foschi presagi
I presagi che all’inizio degli anni ‘70 si formulavano sul futuro prossimo e
meno prossimo del «modello toscano di sviluppo» (locuzione debitamente
-quanto infondatamente- virgolettata come d’una cosa che forse c’era e
forse no) erano invariabilmente foschi.
Come può durare -si argomentava- quel modello stretto com’è nella
duplice morsa della competizione sul fronte delle tecnologie e del controllo
dei mercati e della concorrenza, da parte dei paesi più avanzati, e, da parte
dei paesi in via di sviluppo, sui prezzi delle produzioni «mature», grazie ai
minori costi del lavoro? Tanto più -si aggiungeva- che la specializzazione
nei prodotti «maturi» (un aggettivo, questo, che viene profferito come
un’ingiuria: poi si discuterà se fosse più maturo un gingillo elettronico
montato dalle lavoranti a domicilio di Taiwan o un nuovo modello di
scarpe di Ferragamo) stava cacciando l’economia toscana in un cul di
sacco. L’allarme sulla finitezza delle risorse lanciato dal Club di Roma
col suo manifesto sui «limiti dello sviluppo», la fine dell’energia a buon
mercato annunciata dal settembre 1973 (oggi sappiamo che non si trattava
tanto di scarsità fisica del petrolio quanto di scarsità economica e politica;
e c’è chi -Marchetti, 1976- profetizza quel che puntualmente è avvenuto:
«la caduta a candela dei prezzi del greggio alla metà degli anni ‘80»), il
brusco rincaro dei prezzi delle materie prime: tutto induceva a prevedere
se non la fine immediata, certo almeno un repentino ridimensionamento,
del modello consumistico, che in un certo senso aveva fatto le fortune di
un’economia come quella toscana.
Un’economia -si sentenziava, infine- basata su piccole e piccolissime
imprese, con una grande industria pubblica e privata in declino, e quindi
intrinsecamente debole e per soprammercato perigliosamente esposta ai
capricci della domanda internazionale.
E c’era perfino chi, come la Federazione regionale toscana della Cgil
(giugno 1973), accusando il modello toscano di uno sviluppo «per zone
o bacini», come se i «distretti industriali», anziché un punto di forza,
ne fossero una malattia congenita, non si peritava a dichiarare che «uno
sviluppo di tal sorta non può rivelarsi duraturo», poco importando che
comunque ormai durasse da oltre vent’anni.
∗ Testo contenuto in Mori G. (a cura di) (1986), Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La
Toscana, Einaudi, Torino, pp. 927-1002.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 73
Certo, la bufera della prima metà degli anni ‘70, che sconquassa la
rete dei commerci internazionali, mette a dura prova le più consolidate
economie industriali, porta ai limiti della rottura la cooperazione
internazionale, non può non lasciar segni visibili anche sull’economia
toscana. E un osservatore indipendente (Ricci, 1974), analizzando la
congiuntura regionale nel dicembre 1974, li registra puntualmente: caduta
della domanda, dell’occupazione, della produzione e degli investimenti
pur senza riscontrare andamenti peggiori in Toscana che nel resto del
paese. Che è proprio quello che segnala, invece, l’Unione regionale delle
Camere di commercio nel luglio del 1975, quando «azzarda l’ipotesi che
la Toscana subisca maggiormente gli influssi negativi della congiuntura
nazionale e internazionale» e, da questa constatazione, si spinge fino a
reclamare «coraggiose riconversioni dell’apparato industriale». Richiesta,
vale la pena di osservare di sfuggita, inusitata da parte di una fonte che si
era distinta per le lodi, anche sperticate, del modello toscano di sviluppo.
Modello del quale, invece e coerentemente con un atteggiamento mantenuto
ininterrottamente da un decennio, il sindacato proclama la crisi definitiva.
Più o meno negli stessi giorni, lo stesso osservatore indipendente prima
ricordato (Ricci, 1975), pur segnalando la «gravità della situazione in atto»,
richiama l’attenzione su «i soddisfacenti andamenti del commercio con
l’estero»: e qui, in un manifesto eccesso di entusiasmo (sapendo -col senno
di poi!- quel che è successo) si lascia scappare una frase come «l’inflazione
pare ormai definitivamente imbrigliata».
Ma il fatto che qualche indicatore torni a misure più rassicuranti non
convince la Federazione regionale Cgil, Cisl e Uil che nel novembre del
1975 conferma la sua convinzione «che la crisi si avvia in Toscana verso
una fase di maggior acutezza dovuta alla mancanza di prospettive delle
produzioni tradizionali».
Mentre imperversa, si fa per dire, questa polemica sulla capacità di
tenuta del «modello toscano» rispetto alla crisi e sulle sue prospettive a
medio termine, l’Istituto regionale di ricerca, che aveva prodotto nel 1969
il primo tentativo di interpretazione organica dello sviluppo toscano del
dopoguerra (Irpet, 1969), promuove (febbraio 1976) un seminario con lo
scopo di presentare la nuova, e più articolata e documentata, interpretazione
dello sviluppo economico toscano elaborata dall’Istituto (Becattini, 1997).
Ma non si vuol perdere l’occasione per un intervento nella polemica sulla
tenuta e le sorti del modello toscano. Cosi, nella relazione introduttiva al
seminario, ci si preoccupa di dimostrare la «vitalità della formula toscana,
in termini di resistenza del sistema alle violente sollecitazioni cui era
stato sottoposto» e si ribadisce la «validità del modello interpretativo in
termini di capacità a spiegare ragioni e modi delle risposte del sistema
a quelle sollecitazioni». Anzi -ponendosi in frontale contrapposizione al
74 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
coro pressoché unanime dei giudizi catastrofisti- l’Istituto fa presente come
sembrasse «più corretto parlare non tanto di resistenza quanto di reattività
del sistema, visto il dinamismo col quale, in un complesso ma non confuso
intreccio di spinte e controspinte» la Toscana aveva saputo «catturare ogni
opportunità proposta dalla domanda esterna e penetrare in ogni pertugio
offerto dai mercati di sbocco, sicché gli indicatori di recessione (il ricorso
alla cassa integrazione, per esempio) registrano i minimi storici, mentre
si attestano ai livelli più alti finora raggiunti gli indicatori di produzione
(i consumi di energia elettrica, per esempio)» (Irpet, 1976). I numeri
dell’Irpet, quindi, versus i pregiudizi del resto degli osservatori?
Certo si è che da quel momento in poi si apri e divampò in Toscana una
querelle, che lì per lì a quanti vi parteciparono apparve perfino appassionante
e di cui sarà detto qualcosa più avanti.
In questa discussione è sintomatico (e rappresentativo di comportamenti
tenuti anche da soggetti di ben diversa natura e caratterizzazione)
l’atteggiamento del sindacato. Per esempio, nel gennaio 1976 la Federazione
regionale aveva sostenuto che la «Toscana potrebbe presto trovarsi a
registrare crisi di struttura molto più gravi che altrove», anche perché non
si attribuiva nessuna fiducia a «una ripresa produttiva» basata sui beni di
consumo e sulle esportazioni. La Federazione provinciale di Firenze due
mesi dopo si lascia invece sfuggire la timida ammissione che l’economia
toscana «sembra tenere», anche se la condisce con i «tuttavia» e i «ma»
di prammatica. Il sindacato regionale si affretta allora a ribattere che i dati
«solo all’apparenza sono meno drammatici» e che la situazione toscana
resta caratterizzata (è una specie di fissazione, questa, come si vedrà)
«dall’assenza di prospettive». Il meccanismo della discussione è chiaro
(e, osservato alla distanza d’una decina d’anni, perfino inquietante): se ai
giudizi infondati o ai pregiudizi si oppongono fatti e dati questi vengono
dichiarati apparenti e illusori. Tipica in questo senso la nuova dichiarazione
della Federazione regionale Cgil, Cisl e Uil, che nel settembre dello stesso
anno, non potendo più negare l’evidenza delle statistiche, riconosce che
«alcuni settori dimostrano una crescita produttiva», ma ammonisce subito
che «è necessario evitare illusioni sul carattere della ripresa». La pertinace
cocciutaggine dei fatti sembra infine aver ragione anche dei pregiudizi più
ostinati se, di li a pochi mesi (gennaio 1977), dalla stessa fonte si rilascia un
comunicato col quale si concede che «la Toscana ha retto meglio agli effetti
della recessione grazie al comportamento delle aziende tipiche». Negli stessi
giorni arriva, per bocca del suo presidente, anche la pronuncia della Regione
Toscana. Le diagnosi sono dichiaratamente fondate sui dati dell’Irpet, per
cui gli aumenti di produzione, occupazione, investimenti ed esportazioni
sono segnalati senza imbarazzo, come altrettanto senza imbarazzo si segnala
l’esistenza, e forse la ripresa, del lavoro non ufficiale, l’aumento dei giovani
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 75
senza lavoro, le difficoltà delle zone meno favorite della Toscana. Ma il
punto sul quale Lagorio vuol richiamare l’attenzione dei suoi interlocutori
è un altro: i lavoratori hanno fatto sacrifici durante la crisi, gli enti locali si
sono mossi con rigore nella gestione dei loro bilanci, gli imprenditori non
hanno manifestato disaffezione verso le loro responsabilità: «la Toscana ha
dunque le carte in regola per presentarsi con autorità morale alle sedi dove si
stabiliscono le linee di politica economica nazionale».
La stranezza di una «crisi» che si esprime con andamenti all’insù di
tutti gli indicatori positivi induce anche un quotidiano come «Paese
Sera», che aveva apertamente parteggiato per i catastrofisti, a riconoscere
(13 febbraio 1977) che «la crisi non è poi cosi nera». Ma la data non è
periodizzante, nemmeno all’interno della ministoria del dibattito sullo
sviluppo economico della Toscana perché, malgrado l’evidenza dei fatti, la
disputa continua (Ranfagni, 1981).
2. La strana crisi degli anni ‘70
Cos’era accaduto dunque durante questi anni ‘70 per dar luogo a valutazioni
e interpretazioni così dissonanti? Ciò che accadde nell’economia toscana
in quegli anni era davvero così enigmatico e indecifrabile? E perché, poi,
gli stessi fatti, ovvero le loro rappresentazioni più o meno imperfette negli
indicatori economici, erano oggetto di letture così confliggenti?
Ora c’è da dire, anzitutto, che, almeno stando ai dati ufficiali, durante
gli anni più duri della crisi (1973-75), in Toscana si hanno 53.000 occupati
in più, mentre i disoccupati diminuiscono di 3.000 unità (e la diminuzione
complessiva sarà pari a 8.000 unità nel decennio).
Certo, la caduta della domanda mondiale si ripercuote, almeno
immediatamente, anche sui flussi dell’export regionale che, in effetti,
sembrano più incisivi dei corrispondenti flussi nazionali. Ma, se si
considerano le cose lungo tutto l’arco del decennio e si guarda alle singole
voci dell’esportazione, si vede che l’export toscano di pelli e cuoio, per
esempio, passa dall’1,6 al 3,1 per cento dell’intero commercio mondiale di
questi prodotti e, lo si deve rilevare, con la sola eccezione dell’India, gli altri
paesi che competono con la Toscana sui mercati di esportazione di questi
prodotti sono Germania, Francia, Giappone e Usa, tutti con quote superiori
al 5 per cento. Anche nel campo delle pelletterie la Toscana incrementa la
sua quota mondiale dal 6 al 7,5 per cento (vale a dire un quarto in più) ed
è il terzo «paese» esportatore dopo l’Italia e la Germania, ma prima del
Regno Unito e degli Stati Uniti (si segnala negli stessi anni che la quota
italiana passa dal 15 al 26 per cento del mercato mondiale).
è vero, nei settori di massima specializzazione regionale c’è una
76 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
flessione delle quote detenute dalla Toscana: ad esempio, per quanto
riguarda le calzature, la quota si riduce dal 13 al 10 per cento, pur restando
la Toscana al secondo posto nelle esportazioni mondiali di questi prodotti,
ma al primo c’è l’Italia che incrementa la propria partecipazione dal 40
al 44 per cento. Nel tessile si registra un incremento dal 4 al 5 per cento
e vengono prima della Toscana, nella graduatoria di importanza dei paesi
esportatori, il Giappone, la Germania, l’Italia, il Benelux, il Regno Unito,
la Francia e gli Stati Uniti. Anche nel campo della gioielleria, la Toscana
esprime brillanti prestazioni all’export che passa dal 3 al 7 per cento del
commercio mondiale, ponendo la regione al quarto posto dopo l’Italia (che
ha il 39 per cento del mercato), la Germania e la Svizzera (Irpet, 1982).
In conclusione (Fig. 1) durante gli anni ‘70 la Toscana passa da circa
il 7 a più dell’8 per cento dell’export nazionale, come valore delle vendite
all’estero dei suoi prodotti. Ne deriva che la Toscana, già marcatamente
caratterizzata dalla sua apertura verso i mercati mondiali, risulta al termine
del decennio ancora più esportatrice di prima e più esportatrice dell’Italia,
se è vero che il valore delle esportazioni è pari a un quinto del prodotto
interno lordo per l’Italia e pari a un quarto per la Toscana; come dire che si
esporta una lira ogni quattro che se ne produce.
Figura 1
LE ESPORTAZIONI (1970-81)
a) Quota percentuale delle esportazioni toscane sul totale delle esportazioni nazionali
b) Peso percentuale del valore delle esportazioni sul prodotto interno lordo, in Toscana e in Italia
a)
b)
9,5
8
7,5
7
6,5
6
1970 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981
24
20
16
12
Toscana
Italia
8
1970 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 77
Dunque, l’emarginazione non s’è vista, come non s’è visto l’effetto della
mancanza di prospettive di mercato per i prodotti cosiddetti tradizionali.
Anzi, quel che è accaduto sull’arroventato fronte del commercio
internazionale negli anni ‘70 fornisce alcuni interessanti ammaestramenti
in materia di contrapposizioni scolastiche fra produzioni «mature» e
«avanzate» e fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.
La Toscana, intanto, diversifica il suo export: all’inizio il 47 per cento delle
sue vendite all’estero era rappresentato dai prodotti tessili, dall’abbigliamento
e dalle calzature diretti verso i mercati degli Stati Uniti, della Germania e della
Francia; alla fine del periodo queste merci e questi mercati rappresentano
poco più di un terzo dell’export toscano complessivo. Da notare, poi, che fra
i principali paesi concorrenti non si vede affatto il temuto spettro dei paesi
in via di sviluppo: i più pericolosi competitori della Toscana sono gli stessi
paesi, industrialmente avanzati, che ne costituiscono i principali mercati di
sbocco. Il che vuol dire, tra l’altro, che non è il costo del lavoro (più alto in
questi paesi che non in Toscana) a minacciare la competitività e che i paesi
evoluti non sembrano poi cosi vogliosi di abbandonare le tanto disprezzate
produzioni mature. Piuttosto c’è da rilevare come i concorrenti più temibili
siano in casa: sono infatti le altre regioni italiane che si avvantaggiano degli
spazi mercantili perduti dalla Toscana, se, come s’è visto nei casi delle
calzature e delle produzioni tessili, la quota italiana aumenta di più di quella
toscana o addirittura aumenta quando questa diminuisce. In effetti, regioni
come l’Emilia Romagna, il Veneto e le Marche nel reagire agli shock della
crisi si comportano come se avessero una marcia in più della Toscana. Tirando
le somme si può quindi dire che gli anni ‘70 non furono poi così brutti come
si temeva, come si erano dipinti e come si era continuato a dichiararli anche
quando i fatti mostravano ormai il contrario. Ad ogni buon conto il suggello
definitivo a questa discussione è posto dall’andamento dei flussi migratori
tra tutte le regioni italiane, data la cospicua differenza positiva tra chi viene
in Toscana e chi dalla Toscana se ne va. Durante gli anni della «crisi dura» il
saldo migratorio netto positivo è pari a 27 immigrati ogni 1.000 residenti, e
non si tratta certo di un dato sporadico, visto che in tutti gli anni ‘70 il saldo
oscilla su valori compresi tra il 26 e il 32 per mille. Il che vuol dire 18.000
residenti in più all’anno fino al 1974, che diventano 12-13.000 all’anno nel
periodo successivo: e il 52 per cento di questi proviene sistematicamente
dalle regioni del Centro-Nord (Fig. 8). Allora: la crisi in Toscana è davvero
più grave che altrove? Si capisce che la svalutazione della lira ha aiutato le
esportazioni (ma ha aiutato tutte le esportazioni, quelle della Toscana e quelle
delle altre regioni, quelle dei prodotti tipici e quelle degli altri prodotti): ma
la resistenza, anzi, il di più di reattività del sistema toscano all’impatto della
crisi trova una più pertinente spiegazione nelle caratteristiche strutturali e
comportamentali del suo apparato produttivo. Un apparato produttivo, come
78 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
si sa, organizzato per sistemi territoriali di piccole imprese, specializzate per
prodotti, parti di prodotto e fasi di processo, che garantiscono elevati livelli
di flessibilità nell’organizzazione dei fattori produttivi, si da render possibili
adattamenti tempestivi alle mutevoli caratteristiche qualitative e quantitative
di una domanda internazionale sempre più nervosa ed erratica. Mentre la
rilevante presenza di lavoro esterno, anche irregolare, consente di recuperare
al processo produttivo forze di lavoro magari ufficialmente disoccupate. Un
siffatto sistema si può poi avvantaggiare delle economie che gli derivano
dal suo insediamento in un ambiente progressivamente conformatosi alle
sue esigenze, per la presenza di operatori specializzati come i buyers e di
funzioni specializzate come quelle delle banche e degli spedizionieri. C’è da
aggiungere, inoltre, che in questo sistema opera una selezione darwiniana:
le aziende decotte vengono espulse dal mercato senza pietà. Né mancano
sintomi, magari minori ma diffusi, di razionalizzazione dei processi, come
quelli del lavoro esterno che si organizza in una sorta di «fabbrica occulta»
ricostituendo, in qualche modo, le condizioni del lavoro interno.
Anche il turismo dà una mano alle brillanti performances dell’economia
toscana durante gli anni ‘70: le giornate di presenza balzano da 23 a 27
milioni, mantenendo alla Toscana il suo 8-9 per cento dei flussi turistici
nazionali, anche se la sua posizione nella graduatoria delle regioni turistiche
scende dal terzo posto (dopo Veneto ed Emilia Romagna) al quarto, essendo
stata nel frattempo scavalcata dal Trentino Alto Adige.
Ma il turismo toscano presenta una preziosa caratterizzazione, che, se
ne stabilizza i flussi, alimenta non di meno anche la possibilità di posizioni
di rendita. Si allude alla circostanza che il 35 per cento delle giornate di
presenza consumate dai turisti in Toscana sono spese in centri d’arte (e
soprattutto, come s’intende, a Firenze), la cui offerta turistica ha marcati
caratteri monopolistici, a differenza del turismo balneare, più esposto ai
colpi della concorrenza.
Gli andamenti tutt’altro che catastrofici del decennio lasciano tracce
vistose anche nel risparmio bancario, che sale nei dieci anni da 887.000
lire pro capite a 1.511.000 (in valori costanti): il risparmio per abitante in
Toscana, che era all’inizio superiore del 18 per cento a quello medio del paese,
lo sopravanza ora di un quarto. La crescita nel periodo è pari al 70 per cento,
superiore a quella della Lombardia (+58%), ma inferiore all’incremento del
risparmio pro capite in Emilia Romagna (+74%), nelle Marche (+90%), nel
Veneto (+94%). E anche questo sembra rappresentare un sintomo di quella
«marcia in più» delle altre regioni centro-nordorientali rispetto alla Toscana.
E si tratta di un risparmio che alimenta importanti flussi di investimento, se
la quota dell’accumulazione toscana su quella totale del paese, che era del
5,9 per cento all’inizio del decennio, è diventata ora del 6,6; ma ancora più
vistosa è la quota dei nuovi impieghi, che la Toscana si attribuisce: da un
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 79
quarto a un terzo dei flussi annuali. E se ne vedono i non equivoci riflessi
sulla produttività che, misurata in termini di valore aggiunto pro capite,
cresce in Toscana del 21 per cento (come nel Veneto e nelle Marche, ma
meno che in Emilia Romagna, ove cresce del 24 per cento), mentre per
l’Italia il corrispondente incremento è del 16 per cento.
Nel frattempo -e siamo agli inizi degli anni ‘80- arrivano i dati del
censimento 1981 e, con questi, due scoperte stupefacenti: primo, non solo
non c’è stata la temuta flessione industriale, ma i settori tipici, o, come
un po’ spregiativamente si dice, «tradizionali», si sono manifestamente
irrobustiti nel decennio della strana crisi; secondo, tra Firenze, Prato e
Pistoia è localizzato il terzo polo industriale del paese con 278.000 addetti
all’industria, un valore che segue quelli della provincia di Milano (834.000
addetti) e di Torino (485.000). Se poi si limita il confronto all’industria
in senso stretto, basta la sola provincia di Firenze, con 203.000 addetti, a
superare il corrispondente valore, 168.000, della provincia di Roma.
Vale dunque la pena di andare a spigolare qua e là fra i dati del
censimento: almeno per una visione impressionistica dei tratti essenziali
del mutamento strutturale, che ha accompagnato e agevolato le brillanti
performances congiunturali prima brevemente descritte, ma delle quali
è anche, entro certi limiti, il risultato, come risposta della struttura alle
sollecitazioni degli shock esogeni. Ci sono 4 italiani in più ogni 100
rispetto a dieci anni prima; ma i lavoratori delle attività extra-agricole sono
un quinto in più: vale a dire nel decennio si sono creati 2 milioni di posti
di lavoro. È vero che gli occupati del commercio sono aumentati del 21
per cento e nell’altro terziario del 35, tuttavia gli addetti all’industria in
senso stretto rappresentano ancora il 48 per cento dell’occupazione extraagricola,
solo 3 punti in meno rispetto a dieci anni prima. E si potrebbe
discutere se le cifre appena ricordate segnalino davvero un processo di
deindustrializzazione magari tenue, visto che il tasso di industrializzazione,
misurato in termini di addetti all’industria per 1.000 residenti cresce da 98
a 106 per effetto della maggior velocità relativa dell’occupazione extraagricola
rispetto all’incremento della popolazione. Questo valore di 106
lavoratori dell’industria ogni 1.000 abitanti è, bisogna dirlo, la media di
valori estremamente eterogenei, che vanno dal 183 della Lombardia al 22
della Calabria: come si vede, il censimento testimonia di un’Italia ancora
clamorosamente spaccata in due, con livelli di industrializzazione che
sono, in tutte le regioni del Centro-Sud e delle isole, al di sotto della media
nazionale e che in Campania, Sicilia e Calabria sono addirittura meno della
metà del valore medio italiano.
Il senso di ciò che è avvenuto nel decennio è manifesto (e, del resto,
già da tempo segnalato da numerosi studi): Piemonte e Lombardia hanno
imboccato un esplicito sentiero postindustriale e si stanno terziarizzando a
80 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
itmo accelerato; l’industrializzazione cresce in tutte le regioni centro-nordorientali,
arrivando a lambire, lungo la direttrice adriatica, anche gli Abruzzi
e il Molise. C’è chi parlerà, troppo semplicisticamente, di «rilocalizzazione»,
ma in effetti non di questo si tratta. Non v’è un trasferimento fisico di attività
produttive dalle regioni nord-occidentali verso le altre: v’è una crescita
in queste ultime della preesistente e già relativamente robusta struttura
industriale. In un certo senso è come se si generalizzasse il modello toscano,
visti i settori e viste, soprattutto, le dimensioni di impresa, che caratterizzano
la nuova ondata di industrializzazione delle regioni centro-nord-orientali.
Basti un solo indicatore: le imprese con meno di 20 addetti che coprivano
il 32 per cento dell’occupazione al ‘71, se ne attribuiscono oggi il 36 per
cento; mentre l’incidenza sull’occupazione industriale complessiva delle
imprese oltre i 500 addetti scende dal 23 al 10 per cento.
In Toscana l’occupazione extra-agricola si espande meno velocemente
che nel complesso del paese, essendo cresciuta nei dieci anni del 18 per
cento: i corrispondenti saggi di incremento sono per l’Emilia Romagna
del 25 per cento, per il Veneto del 26, per l’Umbria del 37, per le Marche
del 52: e si ritrova anche qui, come s’era già visto per l’esportazione e per
il risparmio, il segno di quella «marcia in più» delle altre regioni centronord-orientali
rispetto alla Toscana.
Una rapida occhiata all’articolazione settoriale dei movimenti
dell’occupazione basta a dar ragione della natura dei cambiamenti
intervenuti. In Italia l’industria estrattiva e la chimica di base cedono il
4 per cento dell’occupazione; gli occupati nella metalmeccanica sono
un quarto in più, nei settori cosiddetti tradizionali il tasso di crescita è
marcatamente più basso: +8 per cento; ma nelle lavorazioni del cuoio
e delle pelli gli addetti crescono del 45 per cento, mentre nell’industria
tessile, investita da intensi processi di ristrutturazione, diminuiscono di
un decimo. La distribuzione regionale di questi mutamenti consente di
qualificare le variazioni complessive prima segnalate: il Piemonte e la
Lombardia perdono occupazione in tutti i settori industriali e, soprattutto,
in quelli in cui sono più specializzati. In altre regioni compaiono nuove
specializzazioni, che irrobustiscono alcuni segmenti della precedente
struttura industriale: è il caso della metalmeccanica per l’Emilia Romagna
e della plastica e della gomma per il Veneto. Marche ed Umbria, invece,
accrescono la loro specializzazione nei settori che già più erano presenti e
caratterizzanti il loro apparato industriale.
In Toscana persiste un’altissima specializzazione nei suoi settori
tipici, che rappresentano il 62 per cento dell’occupazione manifatturiera;
la Toscana è, dopo le Marche, la regione più specializzata in queste
attività produttive. La meccanica strumentale, invece, col 9 per cento
dell’occupazione manifatturiera, fa della Toscana la regione meno
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 81
specializzata in queste produzioni di tutte le regioni più industrializzate
del paese. In effetti tra il 1971 e il 1981 l’industria tipica si è accresciuta
del 16 per cento, e al suo interno svetta l’incremento di addetti nel
settore del cuoio e delle pelli che si espande di un rotondo 70 per cento;
l’industria tessile è addirittura in controtendenza rispetto agli andamenti
nazionali: l’occupazione vi cresce, in Toscana, del 15 per cento, pari a
10.000 nuovi posti di lavoro creati nel decennio. Gli andamenti in queste
attività produttive inducono a dare un’occhiata al complesso dei settori
che costituiscono quello che si chiama il «sistema della moda» (tessile,
abbigliamento, cuoio e pelli, pelletterie, calzature, ecc.): la metà dei nuovi
posti di lavoro creati nel manifatturiero tra il 1971 e l’81 si localizzano
qui. Parente prossima dell’industria tipica, l’industria orafa accresce del 46
per cento la sua presenza nel sistema produttivo toscano, a testimonianza
di uno sviluppo strutturale che accompagna e sorregge quello delle sue
quote del commercio internazionale.
Nel multiforme aggregato della metalmeccanica gli andamenti sono
assai differenziati: per esempio, alla bassa incidenza della meccanica
strumentale che prima si è ricordata, si contrappone la dinamica vivacissima
dell’industria della costruzione dei mezzi di trasporto leggeri (leggasi:
Piaggio), che cresce la sua occupazione del 106 per cento, in sintonia
con un vistoso incremento dei volumi produttivi -ma questo non lo dice
il censimento- che vedono il settore passare da 440.000 a 750.000 unità di
produzione (motocicli, scooters, furgoncini leggeri) all’anno. Né ci dicono
i risultati del censimento, ma è doveroso annotarlo, che negli stessi anni
la siderurgia toscana di Piombino ha raggiunto il traguardo produttivo di
1.560.000 tonnellate di acciai.
Pochi cenni ancora basteranno per completare il quadro, magari
sommario, ma utile per un riferimento alla configurazione dell’apparato
produttivo toscano all’inizio degli anni ‘80.
Gli addetti alle costruzioni crescono solo dell’11 per cento, mentre in
Italia aumentano del 18: si deve, tuttavia, tener presente come un dato
particolarmente significativo della nuova realtà toscana che in questi anni
il patrimonio edilizio registra una vera e propria crescita esplosiva (+22%):
come dire che una ogni quattro o cinque case oggi esistenti in Toscana
è stata costruita negli anni ‘70. E anche questo, si converrà, sembra un
sintomo piuttosto insolito di crisi.
L’attività estrattiva, cessata la coltivazione delle miniere di ferro e di
mercurio, è ormai ridotta alla lignite, alla pirite, al salgemma, al vapor
d’acqua e all’anidride carbonica: produzioni che rappresentano un terzo
delle corrispondenti produzioni nazionali ma che danno tuttavia un
irrilevante apporto al prodotto interno lordo regionale. Una serie di sintomi,
a tutta prima ambigui, segnalano invece una vera e propria innovazione
82 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
epocale nell’industria marmifera. L’occupazione è in lieve calo, la
produzione locale aumenta del 50 per cento, il movimento del porto cresce
di due volte e mezzo, considerando il complesso dei prodotti imbarcati e
sbarcati. Nel bacino marmifero all’escavazione si è aggiunta, prendendo il
sopravvento, l’attività delle prime e delle seconde lavorazioni del marmo
non solo locale: la zona è divenuta un polo mondiale delle lavorazioni,
segnatamente, dei graniti di importazione.
Non è solo per adempiere a un obbligo esteriore di completezza che si
rende necessaria una breve panoramica dei mutamenti e della situazione a
fine periodo nell’agricoltura toscana, tali e tante sono le interdipendenze,
magari quantitativamente di non grande rilievo ma qualitativamente
significative, che la connettono all’economia e alla società toscana. Nel
decennio si conclude il processo dell’esodo rurale: l’occupazione, che in
un certo senso ha raggiunto l’asintoto inferiore, si stabilizza, oscillando
attorno ai 130-140.000 occupati. I lavoratori indipendenti dopo aver
toccato il minimo risalgono; il contrario fanno i lavoratori dipendenti, che
diminuiscono dopo aver toccato una punta massima alla metà del decennio.
La conduzione diretta e a salariati interessa ormai quasi il 90 per cento
della superficie, il resto è ancora a mezzadria. Non cambia invece (dagli
anni ‘40!) la distribuzione dei tipi di possesso: i fondi sono per il 95 per
cento in proprietà, l’affitto copre solo il residuo 5 per cento.
Il part-time è più diffuso in Toscana che in Italia e riguarda un quinto
dei titolari. Un indizio questo della caratterizzazione non proprio da settore
produttivo di una parte almeno dell’agricoltura regionale. Gli elementi di
richiamo turistico della campagna, le opportunità che l’agricoltura offre
per il tempo libero di professionisti e piccoli imprenditori, se si uniscono
alla circostanza che al tasso piuttosto elevato di meccanizzazione (e non si
dimentichi che congrui contributi pubblici agevolano l’acquisto dei mezzi)
corrisponde una bassa utilizzazione operativa dell’investimento, concorrono
a far ritenere che l’ipotesi sia più fondata di un semplice sospetto. Anche
perché l’investimento fondiario ha acquistato ormai il carattere di un benerifugio,
nella misura in cui il valore dei suoli è cresciuto più rapidamente del
saggio di inflazione, dando vita ad un mercato fondiario estremamente attivo
che interessa prevalentemente transazioni relative a piccoli appezzamenti
(ma anche di grandi aziende), che tuttavia noi, meno fortunati dei paesi che
hanno un catasto vero, non siamo in grado di conoscere e di misurare.
Si son venute nel frattempo specificando le varie «agricolture» della
Toscana come esito di un processo che affonda le radici negli anni dell’esodo
tumultuoso: l’agricoltura interstiziale della campagna urbanizzata che
offre, si era detto più sopra, opportunità per il tempo libero e si avvantaggia
di sbocchi, singolarmente anche modesti, sui mercati locali; l’agricoltura
vera della Toscana di sud-ovest, ove la riforma e l’introduzione di nuove
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 83
coltivazioni hanno posto molto più che delle semplici premesse per lo
sviluppo di un ambiente rurale moderno; l’agricoltura della fascia costiera,
discretamente integrata sia per il verso del lavoro che delle forniture con
le attività turistiche ivi concentrate; l’agricoltura industriale del vivaismo
e della floricoltura, che si batte bene sui mercati nazionali e internazionali
ma non ha, forse, compiuto ancora il salto decisivo che la qualificherebbe
come un vero e proprio settore produttivo industriale.
Si tratta, nel complesso, di un’agricoltura fortemente penalizzata dalle
politiche comunitarie, che non avvantaggiano certo i produttori di vino e di
olio; di un’agricoltura non ancora efficacemente aiutata da strutture pubbliche,
consortili o cooperative, di raccolta e lavorazione; di un’agricoltura ove
la cooperazione è diffusa ben al di sotto dei valori potenziali che potrebbe
attingere; di un’agricoltura la cui zootecnia è ormai ridotta alla pastorizia,
gestita da lavoratori immigrati, che in alcune zone pongono problemi, anche
acuti, di integrazione socio-culturale. In queste condizioni ben si comprende
che le produzioni agro-alimentari locali non coprano che una quota bassissima
del fabbisogno alimentare della regione: il 20 per cento dei consumi alimentari
delle famiglie, un terzo del quale, peraltro, da prodotti originari importati. Anche
le interrelazioni con i settori produttivi più importanti nella regione mostrano
livelli di integrazione assai al di qua di quelli possibili sotto il profilo tecnico ed
economico: l’agricoltura toscana si limita a fornire meno del 3 per cento degli
inputs all’industria tessile, fra il 3 e il 4 per cento all’industria del cuoio e delle
pelli e un, più alto ma ancora modesto, 6 per cento degli approvvigionamenti
di materie prime ai settori del legno e del mobilio. Più interessanti e, forse,
suscettibili di promettenti sviluppi le interdipendenze fra settore primario e
settore turistico: gli approvvigionamenti agro-alimentari rappresentano un
quarto degli inputs del turismo e il 60 per cento di queste forniture si alimenta di
prodotti regionali. Segni, non più che segni, magari indicativi di una tendenza
ma fin qui insufficienti a testimoniare di un mutamento strutturale, son quelli
che si possono percepire nelle modificazioni intercorse nel sistema distributivo
regionale. Che resta connotato da una struttura marcatamente polverizzata,
se ogni esercizio alimentare può contare mediamente su 150 abitanti. Certo,
una tendenza moderata alla razionalizzazione si può rilevare nella circostanza
che in Toscana gli esercizi al dettaglio diminuiscono complessivamente del
7 per cento, mentre in Italia aumentano di quasi il 4 nello stesso decennio;
è nel fatto che il dettaglio alimentare riduce di un quarto i suoi esercizi, a
testimonianza dell’espandersi della grande distribuzione. E tuttavia gli
esercizi all’ingrosso passano dal 12 al 17 per cento, come proporzione sugli
esercizi al dettaglio, a documentare, probabilmente, una inerente difficoltà di
collegamento fra la nebulosa dei piccoli produttori e i mercati locali, ma non
senza indurre anche il sospetto di qualche irrazionalità da un’altra parte. Il
sospetto, per esempio, di un non perfetto funzionamento dei mercati pubblici
84 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
se, come risulterebbe da fonti ovviamente extra-censuarie, quote non si sa se
crescenti ma certamente molto importanti dei prodotti vengono scambiate fra
produttori e rivenditori al di fuori di quei mercati. Due connotazioni finali che,
pur nella loro modestia, servono a convalidare l’ipotesi di un lento processo
di modernizzazione. L’ambulantato è ancora una forma di commercio al
dettaglio molto presente, ma si è completamente trasformato dal rifornimento
delle famiglie disperse sui poderi alla concentrazione nei mercati settimanali o
rionali, che rappresentano una componente non solo folkloristica dello stile di
vita urbano in Toscana. La grande distribuzione, soprattutto quella alimentare,
è cresciuta di più negli anni ‘70 che nel decennio precedente e nello stesso
senso hanno proceduto le forme associative fra i piccoli esercenti. A giudicare
dai differenziali fra i livelli dei prezzi della Toscana, e segnatamente di alcune
sue parti, e quelli di altre regioni, non si saprebbe, tuttavia, dire con quanto
vantaggio per il consumatore.
Quel che è accaduto nell’apparato produttivo toscano durante gli anni
‘70 lascia segni visibili sul territorio. Se il senso della vicenda è quello
di una diffusione dell’industrializzazione, le forme che questa assume
conducono a rafforzare, allargandola geograficamente, l’area di più intenso
sviluppo ricompresa fra Firenze, Prato, Pistoia, Lucca, Pontedera ed
Empoli. A questo vasto plesso si riconnettono le due più importanti direttrici
secondarie: quella che, attraverso Poggibonsi, collega Empoli a Siena e
quella che, attraverso il Valdarno superiore, collega Firenze all’Aretino. In
altri termini, si intensifica e si dilata il reticolo della campagna urbanizzata
prodotta dallo sviluppo toscano di questo dopoguerra. Ma con due
interessanti qualificazioni possibili: durante gli anni ‘70 non si generano
nuove aree, nemmeno minori, di localizzazione industriale; nel « cuore del
cuore» dell’area di più intenso sviluppo, tra Firenze, Prato e Pistoia, processi
demografici e di urbanizzazione, rilocalizzazione di attività produttive e
sviluppo di nuove funzioni (e non bastano certamente i dati del censimento
a darne ragione) consentono di ipotizzare (e se ne parlerà fra un po’) la
genesi di una formazione inedita per la Toscana, avente caratteristiche di
sistema metropolitano (Bianchi, 1982). Un sospetto dello stesso tipo, ma
i segni sono meno intensi e nitidi e gli studi più arretrati, potrebbe aversi
anche per il sistema Pisa-Livorno-Pontedera.
L’area di Massa e Carrara, la Bassa Val di Cecina, Piombino, il
Grossetano danno luogo a mini-sistemi locali, abbastanza strutturati, ma
comunque separati dal resto dello sviluppo regionale e dalle sue logiche.
Lunigiana, Garfagnana, montagna pistoiese, Colline Metallifere, Amiatino,
restano -per meri motivi geofisici oltre che per cause economiche e sociali-
fuori dai meccanismi dello sviluppo regionale, anche se i residenti non
sembrano denunciare livelli di reddito e tenori di vita drammaticamente
distanti da quelli medi regionali.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 85
3. I sentieri regionali di sviluppo
Quanto s’è visto circa le differenze di comportamento fra la Toscana e le
altre regioni assimilabili (quelle, come si sa, dell’Italia centro-nordorientale)
induce ad approfondire -per quanto possibile qui- l’analisi, almeno per
condurre un tentativo, non più d’un tentativo, di spiegazione della minore
velocità relativa della Toscana. Certamente ci si precluderebbe la possibilità
di capire il senso dei processi strutturali se ci si ostinasse ad inseguire
l’ultimo dato congiunturale: e la querelle sulla «tenuta del modello toscano»
ne fa fede. D’altra parte, anche il confronto delle situazioni a intervalli
decennali, come quello reso possibile dai censimenti, non consente di
procedere più che tanto, valendo soprattutto a misurare le fenomenologie.
è forse più utile allo scopo uno sguardo retrospettivo sul medio periodo. Si
ripropone qui un sommario esame comparato sullo sviluppo (industriale)
della Toscana rispetto alle altre regioni del paese (Fig. 2).
Figura 2
I «SENTIERI REGIONALI» DI SVILUPPO (1951-81)
Sull’asse orizzontale, popolazione residente (1951=100); sull’asse verticale, addetti all’industria per
100 residenti. I punti sulle curve corrispondono ai valori dei fenomeni alle date dei censimenti (1951,
1961, 1971, 1981)
25
20
15
10
5
0
Molise
Abruzzo
Umbria
Basilicata
Calabria
Marche
Veneto
Sicilia
Emilia Romagna
Friuli Toscana
Liguria
Trentino
Puglia
Piemonte
Sardegna
Campania
Lombardia
80 90 100 110 120 130 140
Si prendono in considerazione, congiuntamente, due indicatori: gli
andamenti della popolazione (in termini di residenti nelle singole regioni
86 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Lazio
150
alle date dei censimenti dal 1951 al 1981, fatto 100 il valore del 1951) e
i livelli di industrializzazione (misurati in termini di addetti all’industria
ogni 100 residenti, sempre alle date dei quattro censimenti). Sono segnati
sull’asse verticale, tracciato in corrispondenza del valore 100 della
popolazione, i livelli di industrializzazione delle singole regioni al 1951.
Sono facilmente identificabili quattro gruppi di regioni:
-
-
-
-
-
-
-
-
il gruppo delle regioni più industrializzate, con oltre il 10 per cento di
addetti all’industria, che comprende la Lombardia e il Piemonte e, a
qualche distanza, la Liguria;
il gruppo delle regioni, che si possono definire mediamente industrializzate,
con valori del livello di industrializzazione attorno al 10 per cento,
costituito da Toscana, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige;
Veneto, Emilia Romagna, Marche, Umbria, Sardegna e Lazio compongono
il terzo raggruppamento, quello delle regioni scarsamente industrializzate,
con valori fra il 5 e il 7 per cento dello stesso indicatore;
tutte le altre regioni, che ben si possono qualificare come non
industrializzate, hanno meno, e talvolta molto meno, di 5 addetti
all’industria ogni 100 abitanti.
Quel che accade fra il 1951 e il 1961 è riconducibile a queste osservazioni:
le tre regioni più industrializzate registrano un vistoso incremento
demografico, mentre l’industrializzazione cresce significativamente
solo in Lombardia e Piemonte, ma ristagna sostanzialmente in Liguria;
i movimenti nelle altre regioni rappresentano gli effetti della prima
«ondata» del processo di industrializzazione delle regioni della cosiddetta
«Terza Italia»; la Toscana «decolla» aumentando in industrializzazione e
in popolazione, seguita a breve distanza dal Trentino Alto Adige, solo in
termini di popolazione, e, ma a livelli un po’ più bassi, dal Friuli Venezia
Giulia solo per l’industrializzazione, risultando in leggera flessione
demografica; l’Emilia Romagna e il Veneto si appaiano alla Toscana,
anche se per il Veneto l’incremento del livello dell’industrializzazione
dipende non solo dall’aumento degli addetti all’industria ma anche dalla
perdita di popolazione;
è fondamentalmente per effetto dell’emigrazione che i livelli di
industrializzazione si muovono un po’ verso l’alto anche per l’Umbria e
per le Marche; in Sardegna e, ancor più, nel Lazio cresce marcatamente
la popolazione residente (per quanto riguarda il Lazio la crescita, come si
sa, è ascrivibile pressoché interamente all’«effetto Roma»);
il livello di industrializzazione resta quello che era dieci anni prima
praticamente in tutte le altre regioni, sebbene Puglia, Campania, Sicilia
e Basilicata esprimano crescite demografiche differenziate, mentre
Calabria, Abruzzi e Molise denunciano chiaramente la loro natura di aree
d’origine di massicci flussi di emigrazione.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 87
Nei due periodi successivi (1961-71, 1971-81) si osservano questi
movimenti:
- la Liguria appare già in crisi per quanto riguarda l’industrializzazione
e, dopo il 1971, perde anche popolazione; la crescita demografica fra
‘71 e ‘81 si azzera per il Piemonte, mentre prosegue in Lombardia; in
tutte e due le regioni i livelli di industrializzazione restano quelli che
erano al ‘61; le regioni per così dire «inseguitrici» delle regioni che
costituirono il «triangolo» sono ora Toscana, Emilia Romagna e Veneto,
ove continuano a crescere sia la popolazione che l’industrializzazione;
a breve distanza segue il Friuli Venezia Giulia, con crescita demografica
che ristagna, mentre il Trentino Alto Adige imbocca un suo sentiero
di sviluppo (e che sviluppo vi sia lo prova la crescita di popolazione)
e manifestamente il motore non ne è l’industria ma, come sappiamo,
l’agricoltura e il turismo;
- fra il 1971 e il 1981 parte anche la seconda «ondata» dell’industrializzazione
nelle regioni centro-nord-orientali: Marche e Umbria, in un primo
momento, si accostano ai livelli cui erano le precedenti regioni
all’inizio del primo periodo, successivamente le Marche raggiungono, e
superano, le posizioni di Toscana, Emilia Romagna e Veneto, in termini
di industrializzazione, anche se l’incremento demografico appare
abbastanza contenuto;
- in Abruzzi e Basilicata, ove prosegue l’esodo migratorio, si innalzano
di un po’ i livelli di industrializzazione, come pure in Puglia e Sardegna,
ove si accompagnano, peraltro, ad un incremento demografico; Calabria,
Sicilia e Campania, in costante crescita demografica per l’effetto
pressoché esclusivo del saldo naturale, restano più o meno sugli stessi
livelli di industrializzazione, che non salgono nemmeno nel Lazio, data
la spettacolare crescita del denominatore del nostro indice, causata dalla
vera e propria esplosione demografica di Roma.
Le posizioni al 1981 sono le seguenti:
- le regioni della prima (Toscana, Emilia Romagna, Veneto) e della
seconda (Marche, Umbria) «ondata» dell’industrializzazione postbellica
sono ormai a livelli paragonabili a quelli delle due regioni di
più antica industrializzazione; ma sono da segnalare alcune evidenti
differenziazioni: il declino dell’industrializzazione in Piemonte
e Lombardia, ormai manifestamente in fase «postindustriale»; il
marcato rallentamento del processo di industrializzazione in Toscana;
il più accentuato dinamismo di Emilia Romagna, Veneto e, soprattutto,
Marche;
- Abruzzi, Molise, Basilicata e Puglia (la sola regione che si mantiene
costantemente in crescita di popolazione), cioè le regioni della terza
«ondata», hanno raggiunto e talvolta persino superato quelli che erano
88 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
-
-
stati i livelli di industrializzazione delle precedenti regioni al termine
del primo periodo;
Sardegna e Lazio, per quanto accomunate da una costante espansione
demografica, sebbene a ritmi notevolmente disuguali, seguono, come
tutti sanno, percorsi diversi: l’abnorme crescita della megalopoli
romana e la formazione di una discreta struttura industriale nel Lazio;
un andamento economico titubante e incerto, nel difficile rapporto fra
agricoltura, turismo e grande industria, così tipico dell’isola sarda;
dopo trent’anni, Campania, Calabria e Sicilia non presentano alcun
significativo mutamento nei livelli di industrializzazione: i dati dei
censimenti, insomma, non annunciano una quarta «ondata» nei processi
regionali di industrializzazione.
Il senso dei processi che hanno operato fra il 1951 e il 1981, pur nella
rappresentazione stilizzata che qui se n’è fatta (Becattini e Bianchi, 1982),
sottolinea inequivocabilmente un fenomeno: la Toscana ha rallentato il
passo della sua industrializzazione, quando questa continua a procedere
non solo in Emilia Romagna e Veneto, le regioni che più le si possono
assimilare, ma anche e soprattutto nelle Marche, in Umbria e nel Friuli
Venezia Giulia che ormai hanno raggiunto i suoi livelli e, per di più, quando
i livelli toscani restano ancora notevolmente distanti da quelli che furono i
massimi storici raggiunti da Piemonte e Lombardia e, se pur non di molto,
inferiori anche agli odierni valori di queste regioni.
Ora, da quanto si sa dai più recenti studi in materia di analisi multiregionale
dello sviluppo, sembra altamente improbabile, per non dire del
tutto impossibile, che la Toscana possa recuperare le posizioni perdute,
rispetto alle regioni con cui si può confrontare.
In particolare è stata recentemente avanzata l’ipotesi (Iiasa-Irpet, 1986)
che esista un «tetto» alla crescita dei livelli di industrializzazione di una
determinata regione, secondo la regola implicita «più precoce il decollo,
più alto il livello».
In effetti, studiando il comportamento delle regioni italiane e delle
regioni britanniche tra 1841 e 1981, è stato dimostrato che soltanto le
regioni di più antico sviluppo raggiungono il livello di oltre 200 occupati
nell’industria per 1000 abitanti. La spiegazione del fenomeno è stata
ricercata nella possibile influenza di processi di saturazione, dai quali
derivano flussi crescenti di diseconomie esterne, cui si aggiunge l’effetto
di una sempre più vivace competizione interregionale a mano a mano che
«decollano» le altre regioni. Ma alle regioni second o third comers sarebbe
preclusa la possibilità di raggiungere i tetti massimi attinti dalle regioni di
precedente industrializzazione. Infatti -si sostiene- si è ormai esaurita la
spinta propulsiva del ciclo mondiale dell’industrializzazione aperto dalla
Rivoluzione industriale.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 89
Di ciò si danno diverse spiegazioni, non tutte mutuamente incompatibili,
le due principali essendo: le economie più industrializzate dell’Occidente
sono ormai entrate nella fase postindustriale, né, quindi, possono attendersi
ulteriori incrementi dell’industrializzazione, almeno in termini di addetti;
l’altra, più o meno direttamente raccordata al recente revival di interessi
intorno alla kondratieviana teoria delle «onde lunghe», ritiene che la
prolungata recessione che sta ormai, probabilmente, alle nostre spalle, abbia
rappresentato la fase discendente del quarto dei cicli Kondratiev finora
osservati, che chiuderebbe l’intero «iperciclo» dell’industrializzazione
(Bruckmann, 1983).
Ora, a parte le considerazioni possibili su questo tipo di argomentazioni,
che svariano in modo non sempre criticamente controllato tra la
modellizzazione di ingenti quantità di dati empirici e la speculazione
esoterica sui destini del mondo, resta la circostanza che dopo il 1981 in
Toscana è cessata la crescita dei suoi livelli relativi di industrializzazione.
Eureka! si rallegrerà qualcuno, la Toscana è già postindustriale. In
effetti, se la caratterizzazione agricola, industriale o terziaria di un sistema
economico, di qualsivoglia scala territoriale, dipende dalle proporzioni in
cui si ripartisce la sua occupazione, si dovrebbe precisare che la Toscana
sarebbe entrata nel «postindustriale» ormai da qualche anno: secondo chi
scrive nel 1977, secondo altri e sempre incerti dati nel 1975 o anche un
po’ prima. Quando, cioè, l’occupazione terziaria ha superato e raggiunto
l’occupazione industriale come questa fece nel 1955 (e qui tutti i dati
concordano) rispetto all’occupazione agricola (Fig. 3).
Figura 3
LA STRUTTURA DELL’OCCUPAZIONE IN TOSCANA (1951-81)
Peso percentuale dell’occupazione nell’agricoltura, nell’industria e nei servizi sull’occupazione totale
50
40
30
20
10
0
Industria
Servizi
Agricoltura
1955 1960 1965 1970 1975 1980
90 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
4. Postindustriale «alla toscana»
Si assuma che la Toscana sia già (o sia già nel) «postindustriale». Secondo
gli schemi di più corrente smercio sul mercato dell’analisi economica, ciò
starebbe a significare non solo che, banalmente, l’occupazione nel settore
dei servizi è maggiore di quella in ciascuno degli altri due settori, ma che
son le attività terziarie a rappresentare la molla del sistema economico e
a imprimergli il verso delle dinamiche fondamentali. Cuore e nerbo del
terziario, centro motore dei suoi impulsi sarebbe, in questa versione,
quel complesso di attività che si chiamano, con denominazioni svariate
quanto, al fondo, generiche, «terziario avanzato», «terziario qualificato»,
«quaternario» e così via. Pur non ignorando recenti e autorevoli ammonimenti
(Gershuny, 1985) ad andarci piano con sbrigative etichette quando si tratti
delle attività produttrici di servizi, dato che la trasformazione industrialeterziaria
è, in buona parte, una riclassificazione della nomenclatura delle
professioni, che si accompagna a una crescente acquisizione di servizi da
parte delle famiglie (che peraltro si esprime prevalentemente nell’acquisto
di beni: ad esempio, elettrodomestici), mentre il «postindustriale» deve
considerarsi più un processo che uno stato, si potrà tentare una prima
sommaria ricognizione circa la qualità del terziario esistente in Toscana
all’inizio degli anni ‘80.
Il punto di partenza più opportuno sembra quello dei servizi
qualificati alle imprese, sia che rappresentino la specializzazione e quindi
l’esternalizzazione di attività prima svolte all’interno, per esempio, delle
industrie (ricerca, progettazione), sia che si tratti di attività nuove, o almeno
parzialmente nuove, come quelle, sempre ad esempio, più direttamente
connesse all’immagine e alle funzioni promozionali (marketing, pubblicità,
ecc.). Ora, al 1981 queste attività in Toscana non raggiungevano il 3
per cento del complesso degli addetti all’industria, mentre nel paese la
corrispondente incidenza era abbastanza superiore al 3 per cento. Una
differenza minima, si dirà. Certo: però gli addetti della Toscana a questo
tipo di attività rappresentavano un 6 per cento scarso del complesso degli
stessi addetti in Italia, una quota, cioè, inferiore a quella che normalmente
la Toscana si attribuisce in molti campi. Ma quel che più -si ipotizza-
raffredderà i possibili entusiasmi di quanti si eccitano all’idea di una
Toscana già postindustriale è il fatto che, se si rapportano gli addetti alle
attività di cui si parla al totale dell’occupazione extra-agricola, si ottiene
per la Toscana un valore pari al 5,7 per cento, che non solo è più basso di
quello di tutte le regioni più industrializzate, ma segnatamente più basso
anche del corrispondente indice nazionale che è pari al 7 per cento, come
dire un quarto in più che nella regione. Si potrà ancora obiettare che la
Toscana è assai difforme e variegata e che le medie, quindi, potrebbero
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 91
celare l’esistenza di situazioni locali nelle quali il postindustriale avrebbe
potuto essere attecchito e rigogliosamente germinare. Da qui il proposito di
andare a ricercare il terziario qualificato nel nocciolo metropolitano della
regione (Firenze e la sua area).
Se ci si ferma a livello provinciale, si accerta agevolmente come, all’inizio
del decennio in corso, nella provincia di Firenze risiedesse solo la metà degli
ingegneri, rapportati alla popolazione, esistenti a Milano e a Bologna e,
sempre con riferimento agli stessi termini di confronto, un terzo in meno di
periti industriali; i dirigenti industriali delle province di Bologna e di Milano
sono tre volte di più che in Toscana, ove i periti industriali sono un terzo in
meno. La quota dei dirigenti industriali della provincia di Firenze, in termini
relativi calcolati sul totale dell’occupazione extra-agricola, è inferiore di due
terzi alla dotazione esistente a Milano e a Bologna. Anche il modo con cui si
prepara il futuro differisce abbastanza: i laureati, sulla popolazione residente,
sono a Milano di più che a Firenze di un buon 6 per cento e a Bologna di
un, a tutta prima incredibile, 26 per cento. Se si scende di scala per andare
a vedere come stanno le cose nell’area fiorentina si apprende da un recente
studio sulle prospettive di sviluppo del settore terziario (Irpet, 1986) che
mancherebbe qui un 45 per cento di occupati nelle attività produttrici di servizi
per le imprese, se si volessero raggiungere le dotazioni relative, poniamo,
di Bologna e di Milano. Contemporaneamente si registra un eccesso pari
all’11per cento negli addetti al commercio al minuto, che non rappresentano
propriamente la più significativa manifestazione di terziario avanzato. Un
altro studio di poco tempo fa (Censis, 1984) permette di fare uno zoom su
Firenze, confrontandola col capoluogo emiliano. I risultati del confronto non
consentono eccessivi orgogli fiorentinistici, dato che qui mancano, rispetto
alle dotazioni bolognesi, un 13 per cento di addetti ai servizi specialistici
per le industrie, un 6 per cento nel campo dei servizi finanziari, un 30 per
cento nell’area dei servizi vari, ma sempre estremamente qualificati. Firenze
tuttavia si segnala per la rispettabile dotazione di addetti ai servizi dei rapporti
con l’estero (attività di import-export), che sono qui 5 volte di più che a
Bologna: e ancora superiori di oltre il 15 per cento sono gli addetti ai servizi,
come si dice, per la produzione dell’immagine (marketing, pubblicità, ecc.).
Tornando alla Toscana e tenendo sempre a mente le indicazioni di
Gershuny, si può fare un rapido scandaglio sulla struttura professionale
della popolazione residente attiva (Fig. 4). Ai primi posti della graduatoria,
con più di 20 occupati ogni 1.000 abitanti in queste professioni, troviamo
gli impiegati amministrativi, i commercianti, gli impiegati di concetto:
vale a dire le tipiche espressioni del terziario banale; tra 10 e 15 occupati
ogni 1.000 abitanti vediamo coltivatori diretti (il residuo aggiornato del
passato rurale della Toscana), operai calzaturieri e metalmeccanici, autisti
e muratori. Di futuribile ancora non s’è visto nulla. E meno ancora se
92 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
ne trova a mano a mano che si scorre la graduatoria, dove compaiono
nell’ordine uscieri, bidelli, contabili, commessi, falegnami, ecc. Per reperire
qualcosa che assomigli a una professione moderna bisogna scendere fino
ad un’incidenza del 2,5 per mille che corrisponde a quella dei tecnici
esecutivi. Ma si ammetta pure che la struttura consolidata delle professioni
viene da lontano ed è quindi quella che è: se il postindustriale è transizione,
se ne potrebbe trovar traccia nei modi e nei ritmi con ì quali recentemente la
struttura professionale toscana si è venuta modificando (Fig. 5). In effetti i
nostri tecnici esecutivi tra il ‘71 e l’81 sono raddoppiati, ma con incrementi
assai più vistosi, tra il 250 e il 200 per cento, troviamo contabili, cassieri
e commercialisti a riprova non dubbia dell’impatto sulla struttura delle
professioni delle più recenti novità fiscali (Iva, obbligo della tenuta dei
registri contabili, ecc.). Perlustrando ancora la graduatoria delle professioni
in aumento, continuiamo a imbatterci in tintori, mediatori del credito e
delle assicurazioni, lavoratori agricoli specializzati, operai metallurgici,
ecc.: insomma, nessun segnale di novità particolarmente visibile. Anche
sul fronte delle professioni in regresso si colgono indicazioni del tutto
attese: i segni della razionalizzazione nell’industria tessile, l’esaurimento
dell’agricoltura e delle attività minerarie e così via (Kutscher, 1985).
Figura 4
LA STRUTTURA DELLE PROFESSIONI IN TOSCANA AL 1981
Valori per 1.000 residenti
25
20
15
10
5
0
Impiegati amministrativi
Commercianti
Impiegati di concetto
Coltivatori diretti
Operai calzaturieri
Operai metalmeccanici
Autisti
Muratori
Uscieri, bidelli
Contabili
Meccanici
Commessi
Maestri
Falegnami
Tessitori
Infermieri
Sarti
Manovali
Rappr. di commercio
Lavoratori agricoli
Lavoratori maglierie
Elettricisti
Barbieri
Borsettai
Imprenditori
Domestici
Prof. scuola media
Forze dell’ordine
Prof. scuola superiore
Tecnici esecutivi
Idraulici
Cernitori
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 93
Figura 5
MUTAMENTO NELLA STRUTTURA DELLE PROFESSIONI IN TOSCANA
Variazioni percentuali 1971-81
200
150
100
50
0
Contabili, cassieri
“Altri” insegnanti
Commercialisti
Tintori
Mediat. cred. ass. serv.
Lav. agricoli specializ.
“Altri” operai metall.
Tecnici esecutivi
Prof. scuola superiore
“Altri” lav. pelli e cuoio
Rappr. di commercio
Cuochi
“Altri” lav. abbigl. e arred.
Medici chir. generici
Tecnici dir. e di concetto
Ricamatrici, ornatori
Uscieri, bidelli
Esercenti, baristi
Professori universitari
Geometri
Infermieri
5. Maturità precoce
Finitori di filati e tessuti
Vetrai
Lav. agricoli generici
Manovali edili
Coltiv. diretti di azienda agr. mista
Minatori e cavatori
Coltiv. diretti di azienda agr. spec.
Venendo ora a guardare un po’ più dall’alto il sistema produttivo toscano,
e rapportandolo ai processi che operano nel mondo, in Italia e nella stessa
regione, è di intuitiva evidenza come stiano perdendo di efficacia o si stiano
esaurendo oppure vengano sempre più attivamente contrastati i tradizionali
fattori dello sviluppo regionale:
-
-
-
l’elasticità, in termini di occupazione, delle piccole e medie
imprese rispetto alle variazioni quantitative della domanda interna
e internazionale, non solo e non tanto per effetto di un accresciuto
controllo sindacale quanto per la sostituzione dell’elasticità permessa
da una manodopera «disponibile» con quella resa possibile dalle
tecnologie decentralizzatrici dell’automazione che, rimpiazzando la
rigidità dei sistemi meccanici tradizionali con i sistemi a controllo
elettronico, consentono una notevole versatilità dei processi produttivi
anche alle scale più piccole (Blair, 1972);
la flessibilità, in termini di adeguamento delle produzioni ai mutamenti
qualitativi della domanda, dato che non basta più sapersi adeguare
prontamente alle mutevoli leggi della moda, ma occorre partecipare
attivamente alla loro formazione;
94 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
0
-50
-100
-
-
-
-
-
la tolleranza sindacale, istituzionale e sociale rispetto alle condizioni
di lavoro (lavoro irregolare, evasione contributiva, igienicità degli
ambienti) e alle diseconomie ambientali (per esempio quelle del rilascio
di sostanze inquinanti nell’aria e nell’acqua);
i più bassi costi del lavoro, che hanno già raggiunto i livelli salariali
medi del paese (Fig. 6).
Sono ormai diventati cruciali altri fattori:
fattori di efficienza interni all’azienda (innovazioni nel campo dei
prodotti e dei cicli di produzione);
fattori di efficienza ambientale, esterni alla singola industria ma interni
a ciascun raggruppamento spaziale di attività produttive (ricerca e
sviluppo, marketing, formazione professionale, infrastrutture, servizi
pubblici).
Figura 6
IL DIFFERENZIALE SALARIALE TRA TOSCANA E ITALIA (1950-80)
Retribuzioni medie giornaliere nell’industria (sulla scala di sinistra, i valori della Toscana in lire; sulla
scala di destra, il rapporto percentuale tra le retribuzioni medie giornaliere in Toscana e in Italia)
24.000
Toscana
117
16.000
Toscana/Italia
115
12.000
113
111
8.000
109
6.000
107
4.000
105
103
101
2.000
99
97
0
95
1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980
Ora, rispetto a questo sistema di vincoli, la Toscana esibisce diversi
rischiosi punti di debolezza. Il rapporto tra ricerca e sviluppo, per esempio,
sempre precario e tutto sommato nemmeno troppo essenziale, almeno
per l’industria tipica che ha fondato i suoi successi più sull’innovazione
formale che su quella tecnologica, non ha manifestato sintomi apprezzabili
di consolidamento. È stato dimostrato (Gotti e Frattali, 1984) che, con
riferimento all’area fiorentina, esiste una domanda latente di ricerca a fini di
sviluppo tecnologico e, sempre nella stessa area, son presenti potenzialità,
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 95
anche rimarchevoli, d’offerta. Ma si tratta d’una domanda e d’una offerta
che solo raramente riescono ad esprimersi e ad incontrarsi. Certo, in linea di
principio, esiste una maggiore difficoltà per le piccole imprese di accedere
ai servizi di ricerca per l’innovazione: ma il punto è che questa difficoltà è
solo assai parzialmente ovviata da iniziative pubbliche o private capaci di
imprimere impulsi sufficienti al vero e proprio salto di qualità che occorre.
Non mancano iniziative a Firenze (Cesvit) e a Prato (Progetto Sprint), per
esempio: ma si tratta pur sempre di iniziative pressoché isolate e con una
capacità di impatto che resta largamente al di qua della soglia critica.
Che le attività rivolte alla promozione dei prodotti locali sui mercati
nazionali e internazionali siano essenziali per un sistema produttivo cosi
tipicamente orientato all’esportazione è del tutto ovvio. Un po’ meno
comprensibile è che si stia disputando da anni sulle possibili localizzazioni
di nuove strutture espositive e, magari, sulla forma giuridica da assegnare
alla loro gestione, senza che proceda sostanzialmente d’un passo
l’approfondimento della natura dei servizi promozionali da produrre e
della identificazione dei capitali e delle risorse imprenditoriali occorrenti
per produrli.
La povertà della dotazione infrastrutturale della Toscana, rispetto alle
esigenze del suo sviluppo, è resa evidente a tutti dai bassissimi livelli di
accessibilità dall’esterno e di percorribilità interna del sistema regionale e in
particolare del suo maggior polo produttivo localizzato tra Firenze e Prato.
L’aeroporto pisano è clamorosamente inadeguato ai livelli dell’export e al
volume dei flussi turistici della regione e, assieme al porto di Livorno, che
è pur sempre il primo porto containers del Mediterraneo, è praticamente
isolato dal suo hinterland per il pessimo stato dei collegamenti tra Firenze
e la costa, che dovrebbero essere resi finalmente agevoli da una superstrada
in corso di costruzione da tempo immemorabile. La Toscana è una delle
regioni più motorizzate del paese, un’automobile ogni 2,7 abitanti, ma il
tratto regionale dell’Autostrada del Sole è perennemente intasato; la strada
statale da Firenze a Pisa e l’Aurelia, lungo la costa, rappresentano, non
meno della Firenze-Grosseto, delle strozzature anziché delle infrastrutture
di collegamento. Un riflesso di questa pessima condizione delle strutture
viarie si può forse rintracciare nel fatto che la rete ferroviaria toscana, pari
al 7 per cento dell’intera rete nazionale, assorbe l’11 per cento dell’intero
trasporto merci del paese.
«Postindustriale», dunque, la Toscana? Si e no. Si, se si getta
l’occhio sulle proporzioni in cui si distribuiscono gli occupati nei tre
grandi settori produttivi; no, se si guarda alla qualità del terziario e della
struttura professionale, tenendo conto dello stato dei rapporti fra ricerca
e sviluppo, delle iniziative di promozione mercantile, delle condizioni
della rete infrastrutturale. Se sta per partire -e presumibilmente è già
96 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
partito- un nuovo ciclo espansivo dell’economia mondiale (che qualcuno
-Bruckmann, 1983- considera la prima «onda lunga» del nuovo «iperciclo
postindustriale»), la possibilità di catturarne gli impulsi positivi dipenderà
dalla attitudine dei vari ambienti economico-territoriali ad accoglierne
le innovazioni. È stato calcolato (Iiasa-Irpet, 1986) un rozzo indice che
misura approssimativamente la propensione all’innovazione delle varie
regioni italiane (tenendo conto della loro attuale struttura industriale,
degli investimenti per la ricerca scientifica, delle attività di formazione
professionale, del capitale fisso sociale e di altri indicatori socio-culturali).
Il risultato, per quel po’ che può valere, è inquietante per la Toscana:
fatto uguale a 1 il valore di questo indice per il complesso del paese, la
Toscana si aggiudicherebbe un modesto 1,4, più basso di poco dell’1,6 del
Veneto, ma tragicamente distante dal 4,1 dell’Emilia Romagna e dal 7,8
del Piemonte.
Pur consentendo con quanti facessero osservare (e non senza giustificato
motivo) l’intrinseca opinabilità di misure siffatte e spostando l’attenzione
su parametri meno controversi si giunge alla stessa conclusione: la Toscana
trentacinque anni fa, nell’imminenza del processo di industrializzazione
postbellico che vide il suo take-off a regione pienamente industriale,
si trovava messa assai meglio di quanto non si trovi piazzata oggi, alla
possibile vigilia d’un nuovo ciclo espansivo, di cui siano forze motrici le
attività terziarie. Allora la Toscana, con 10 addetti all’industria ogni 100
abitanti, era la quarta regione industriale del paese e la prima del plotoncino
di quelle aspiranti all’industrializzazione. Oggi, con meno di 2 addetti al
terziario qualificato ogni 100 abitanti, è la sesta regione italiana in questa
graduatoria che la vede a pari merito con le Marche, ma è l’ultima del
plotoncino delle regioni che inseguono l’Emilia Romagna e la Lombardia,
dopo Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Veneto e Liguria.
Se il declino dell’industrializzazione e lo sviluppo della terziarizzazione
rappresentano il segno della raggiunta maturità di un sistema economico,
per quanto riguarda la Toscana, viste le condizioni in cui la trasformazione
si realizza, si deve a malincuore riconoscere che si tratta di una maturità
raggiunta troppo presto, una «maturità precoce», probabilmente.
6. Lo sviluppo disconosciuto
Fino al 1955, lo si è visto, la Toscana era, dal punto di vista economico, una
regione ancora prevalentemente agricola; dal 1977 non è più una regione
prevalentemente industriale: come dire che è transitata direttamente dal
pre al postindustriale. La prevalenza dell’industria come fonte principale
dell’occupazione è durata quindi poco più di vent’anni: un batter d’occhio
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 97
nella storia plurisecolare della Toscana. Un periodo troppo breve per
aver potuto radicare e generalizzare una cultura industriale come
atteggiamento diffuso e come cultura sociale di massa? Su questo sfondo
fanno evidentemente eccezione i poli storici della grande impresa e i pochi
veri «distretti industriali» dei sistemi territoriali di piccole imprese: ma
sono pennellate, pur visibili, che non cambiano la coloritura di fondo del
quadro. In effetti la cultura sociale dei toscani, che si era rivelata così
conforme alle esigenze dell’industrializzazione leggera e cosi consentanea
ad assecondarne lo sviluppo, si trova come imbarazzata e perplessa di
fronte alle sfide della nuova fase.
I vincoli entro i quali si svolge la competizione internazionale (non
diversamente da quella interregionale) esigono una duplice capacità:
-
-
la capacità di adeguare i propri comportamenti alle nuove regole,
secondo le quali non basta più saper profittare intelligentemente delle
economie esterne, diciamo così «naturali», ma occorre essere in grado di
costruire i generatori delle economie esterne «artificiali» (infrastrutture,
ricerca e sviluppo, ecc.);
la capacità di adattamento al più alto livello di competizione, nel
quale non è più pagante la sola tempestività dell’adeguamento alle
mutevoli esigenze della domanda, dato che ormai si tratta di suscitare e
conformare quella domanda: si tratta, per usare una metafora sportiva,
di cambiar gioco passando dal gioco di rimessa a quello di battuta o, se
si vuole, dal gioco di contropiede a quello d’attacco.
Pensare in grande e guardar lontano sembra un esercizio intellettuale
verso cui, salvo rare eccezioni, appaiono riluttanti i gruppi dirigenti toscani
(delle istituzioni e delle imprese non meno che dei sindacati e dei partiti).
Una riluttanza che può forse trovare almeno un’ipotesi di spiegazione nella
brevità della stagione dell’industria ma che appare sostanzialmente non
dissimile dalla difficoltà a intendere la natura e i meccanismi dello sviluppo
regionale. Non si è inteso o non si è voluto intendere (e, comunque, non
si è inteso tempestivamente) il carattere non transitorio del modello
regionale di sviluppo, e quindi la domanda di regolazione e di sostegno
che veniva esprimendo. Non s’intende, o almeno cosi sembra, oggi la
natura del «nuovo» che nasce in un ambiente che non gli è particolarmente
simpatetico. Questo ragionamento si muove su un terreno pericolosamente
infido e viscido, dovendosi basare su notazioni impressionistiche e
sensazioni, indimostrabili qui ma -si presume- assai ostiche, di per sé, alle
procedure della verifica scientifica.
Con tutti i rischi del caso si proverà a formulare un’idea. La vicenda
dello sviluppo toscano, il dibattito che ne è sorto, le politiche che ne sono
o non ne sono derivate, parrebbero suggerire una sorta di separatezza e
di estraneità reciproca fra i gruppi dirigenti regionali e i processi dello
98 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
sviluppo. Una estraneità che invece non si ritrova (perché non ammetterlo?)
nei comportamenti pratici dei sindaci e degli assessori locali, dei singoli
operatori economici, dei sindacalisti di base, dei lavoratori e delle loro
famiglie. Tutti alienati inconsapevoli o complici coscienti delle nequizie
del modello? O non piuttosto accorti operatori che, un occhio all’ideologia
un altro all’interesse personale, ma attenti a non sacrificare né alla prima
né al secondo il benessere collettivo, hanno comunque operato come agenti
della trasformazione? Trasformazione che ha assunto i caratteri di una
grande opera di modernizzazione, quale indubbiamente è stato il processo
di «industrializzazione dal basso» di questo dopoguerra.
Conseguenza diretta o indiretta della rapidità della transizione dal pre
al postindustriale e del rapporto di estraneità reciproca fra gruppi dirigenti
regionali e meccanismi dello sviluppo, è un atteggiamento, in taluni casi un
vero e proprio pregiudizio, che viene da lontano, anche da molto lontano
nel tempo. Non si sono rintracciati, a una prima sommaria perlustrazione,
documenti e testimonianze di epoche anteriori: ma già nel documento per
la prima Conferenza regionale dei comunisti toscani (10-12 luglio 1959) si
trovano reperti inequivocabili di questo atteggiamento. E non tanto perché
l’insistenza sul ruolo dell’agricoltura o la rituale segnalazione del «peso dei
grandi monopoli» aduggino il testo di motivi datati, quanto per l’esplicita
manifestazione di quella che resterà a lungo una costante nelle valutazioni
politico-sindacali circa l’economia regionale. Ci si riferisce a quella sorta
di rimozione della realtà che si manifesta allorché, rilevato «l’andamento
positivo di alcune produzioni industriali in momenti di favorevole
congiuntura», se ne inferisce che «sarebbe un errore negare che la Toscana
stia subendo un grave processo di degradazione economica». E debbono
passare alcuni anni perché gli organi regionali della Cgil (gennaio 1962)
riconoscano «una accresciuta intraprendenza dei piccoli e medi operatori».
Sono in effetti gli anni in cui si registra uno spettacolare sviluppo
dell’economia regionale, provato, al di là di ogni possibile dubbio, dalla
costanza o dall’aumento della popolazione e dalla repentina caduta della
disoccupazione, che accompagnano la rovinosa crisi agricola e la fuga
dalle campagne (Fig. 7). Ma hanno già cominciato a circolare anche i primi
studi sul fenomeno. Gli studiosi non mancano di dar conto degli inusitati
fermenti in cui si esprimono i primordi dell’industrializzazione leggera,
ma l’interpretazione dei processi è singolarmente rattrappita, anche nelle
analisi più fini e sensibili, entro schemi tradizionali e riduttivi. Ne fa fede
il caso della relazione (una magistrale lezione di regionalità economica)
che Alberto Bettolino tiene al primo importante convegno sull’economia
toscana, promosso dall’Unione regionale delle Camere di commercio nel
1961. Una trattazione di vasto respiro, ricca di sottili distinzioni, ma nella
quale si insinua il rammarico per una «industria tessile che non riesce
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 99
ad assumere una posizione di parità con le altre grandi imprese italiane»
(Bertolino, 1961). Nel frattempo son resi disponibili i primi risultati dei
censimenti 1961, che vengono immediatamente sottoposti a uno scrupoloso
scrutinio da parte dell’Itres (l’Istituto progenitore dell’Irpet), per incarico
dell’Unione regionale delle province toscane, che indice un convegno
su un tema assai impegnativo, quale «l’inserimento della Toscana nella
programmazione economica nazionale» (Urpt, 1963).
Figura 7
L’OCCUPAZIONE E LA PRODUZIONE AGRICOLA; LA DISOCCUPAZIONE; LA POPOLAZIONE
TOTALE (1950-70)
Valori percentuali sulle corrispondenti grandezze nazionali
7,5
7,0
6,5
6,0
5,5
5,0
4,5
4,0
3,5
Occupazione agricola
Produzione agricola
Disoccupazione
Popolazione
1950 1955 1960 1965 1970
L’immissione nel circuito politico-culturale delle conoscenze prodotte
dalla ricerca sembra più efficace del dato dell’esperienza diretta nell’indurre
a percepire che le cose si stanno muovendo nell’economia toscana: ne è
riprova l’analisi meno irrigidita con la quale i comunisti toscani vanno, nel
1963, alla loro seconda conferenza regionale. Nel documento preparatorio
si parla ora di «dinamica presenza della piccola e media impresa industriale
e artigiana, che ha manifestato notevole duttilità e prontezza di iniziativa»,
tanto che si giudica necessario «sottolinearne maggiormente la funzione
sociale per il suo contributo all’espansione dell’occupazione e del reddito».
Sullo sfondo agisce, indubbiamente, la lezione togliattiana sulla politica
di alleanze fra classe operaia e ceti medi. Il documento merita tuttavia
qualche attenzione, sia per un curioso giudizio «etico» sull’industria leggera
toscana («legata a produzioni voluttuarie o comunque non essenziali») sia
perché individua il principale fattore del suo sviluppo in un «decennio di
congiuntura eccezionalmente favorevole». Un giudizio che riecheggia la
valutazione data in altra sede da alcuni studiosi dello stesso fenomeno.
100 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Il relatore al convegno dell’Urpt prima citato aveva infatti ritenuto che
lo sviluppo dell’industria leggera toscana fosse «un fatto eminentemente
congiunturale» contrassegnato da una «grande precarietà». E così
qualificava il giudizio: «una felice congiunzione di eventi esogeni ed
endogeni ha prodotto un accrescimento dei redditi distribuiti da alcune
industrie leggere e di servizi e dalle industrie loro fornitrici. La diffusione
di questi redditi ha tonificato di riflesso altre attività locali. Lo sviluppo
economico toscano, il nostro “miracolo” è tutto qui» (Becattini, 1963).
Sarà lo stesso studioso a dimostrare, sei anni dopo che lo sviluppo toscano
non era affatto una precaria emergenza congiunturale (Irpet, 1969). E dopo
altri sei anni spiegherà, con dovizia di prove e serrato argomentare, che
non solo lo sviluppo toscano non era «tutto li», ma conteneva addirittura
un «di più» rispetto allo sviluppo di altre regioni (Becattini, 1975).
La pubblicazione integrale dei dati dei censimenti consente di
approfondire l’analisi delle trasformazioni intercorse tra 1951 e 1961. Uno
studio specifico sulla Toscana (Bruni, 1964) qualifica lo sviluppo toscano
come trainato dall’industria leggera specializzata nella produzione di beni
di consumo durevole e identifica la similarità dei processi toscani con quelli
occorsi nello stesso periodo nelle altre regioni centro-nordorientali.
Intanto si comincia a parlare di programmazione regionale, ed è in
questo torno di anni che vengono costituiti dal ministero del Bilancio
e della programmazione i comitati regionali per la programmazione
economica (Urpt, 1968). Forse paventando politiche programmatorie, di
cui a dire il vero si scorgono più le velleità che le premesse operative,
l’Unione regionale delle Camere di commercio si affretta (giugno 1965) a
render nota la sua opinione: «le linee di sviluppo industriale seguite negli
ultimi anni non vanno corrette ma piuttosto secondate ed incoraggiate»
(Urc-ciaat, 1963). Anche la Cgil regionale, in un documento del gennaio
1966, converge ora verso valutazioni meno cupe che nel passato e, pur
giudicando che «la situazione rimane preoccupante», invoca una politica
che non si limiti soltanto ad «assicurare la sopravvivenza della piccola e
media azienda ma ne favorisca lo sviluppo produttivo».
Tutti d’accordo dunque? Nemmeno a parlarne: quando ci si sposta
dalla semplice valutazione degli andamenti congiunturali a un tentativo
di comprensione della natura dei meccanismi che guidano il processo di
industrializzazione si torna a prender fischi per fiaschi. La Cgil regionale,
per esempio, parla nel giugno 1967 dei mutamenti avvenuti nella
struttura industriale toscana fra ‘61 e ‘71 ancora come di un fenomeno «
specificamente congiunturale». E sottolinea che si tratta di una «debole
struttura economica dove non si sono avuti né intensi investimenti né
incentivi sostanziosi provenienti dall’esterno» sì che «la Toscana rischia,
assieme alle altre regioni dell’Italia centrale, di rimanere... ai margini dello
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 101
sviluppo economico» (sic!) (Cgil, 1967): si può scorgere qui la sorprendente
anticipazione di un atteggiamento che precorre l’ideologia della «Terza
Italia». La «Terza Italia», si badi bene, degli anni ‘60, non la Tre Italie o
l’Italia del Nec (Nord-Est-Centro) che Bagnasco e Fuà teorizzeranno tra la
metà degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 (Bagnasco, 1977; Fuà e Zacchia,
1983). Qui si tratta dell’Italia centrale, la cosiddetta «Italia compressa» fra
un Nord autopropulsivo e un Sud incentivato, per la quale si immaginano
provvidenze e strumenti straordinari di intervento, parenti prossimi della
Cassa per il Mezzogiorno e auspicati terreni di pascolo per il notabilato
locale. Davvero non si è capito, se perfino in un volumetto prodotto per
il Comitato regionale per la programmazione economica della Toscana
(Parravicini, 1969) si continua con la stessa solfa: «la proliferazione di
nuove piccole aziende» rappresenta «un punto di debolezza dell’economia
toscana», sì da render necessarie «iniziative a carattere pubblico o privato
volte alla creazione di grandi industrie».
Nell’ottobre dello stesso anno l’Irpet pubblica Lo sviluppo economico
della Toscana: un’ipotesi di lavoro, che rappresenta il primo tentativo
compiuto di spiegare con un ragionamento unitario lo sviluppo economico
toscano del dopoguerra (Irpet, 1969). Pur presentandosi soltanto come
«una possibile interpretazione» di quello sviluppo, il documento sottolinea
«l’unitarietà del discorso, che lo rende diverso rispetto alle altre interpretazioni
alternative» fino allora formulate. Secondo il testo dell’Irpet i fattori dello
sviluppo economico toscano sono riconducibili ai seguenti: «espansione
della domanda esterna dei beni e servizi toscani; presenza di abbondanti
riserve di manodopera intelligente e versatile, disposta al lavoro di fabbrica
a salari modesti; concomitanza di circostanze tali da incanalare la diffusa
ingegnosità verso l’attività economica; produzione di un flusso continuo
di economie esterne alle singole imprese ma interne al settore produttivo».
Su queste premesse il dibattito potrebbe davvero prendere quota, come in
effetti avverrà da li a qualche anno: per il momento coloro che avevano più
frequentemente interloquito nella disputa sullo sviluppo toscano differenziano
solo di pochissimo i loro atteggiamenti. L’Unione regionale delle Camere di
commercio crede di poter già registrare «mutamenti strutturali» nell’economia
toscana (dicembre 1971) e non s’accorge che il processo di proliferazione
delle piccole imprese, la selezione operatava dalla congiuntura del ‘64,
l’intensificazione del decentramento produttivo stabilizzano il modello
in Toscana e, molto spesso come risposta alle lotte operaie della fine degli
anni ‘60, lo estendono a buona parte del paese. All’inizio dell’anno nuovo,
ricalcando più o meno pedissequamente ma, si direbbe, in modo sempre meno
convinto, le proprie precedenti posizioni, la Federazione regionale Cgil, Cisl
e Uil sembra consentire con quelle valutazioni: «la ristrutturazione in corso si
risolve soltanto in un ulteriore frastagliamento dell’apparato produttivo».
102 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
È incredibile come nemmeno l’arrivo dei dati dei censimenti 1971,
che pure vengono da tutti conosciuti almeno nelle loro cifre essenziali e
da qualcuno letti e soppesati, valga a incrinare l’ingessatura degli schemi
stereotipi in cui ci si ostina a voler forzare la multiforme realtà dello
sviluppo toscano. Bastino due soli esempi: la Federazione regionale Cgil,
Cisl e Uil, nel febbraio 1973, torna a ribadire il chiodo fisso dell’estrema
«permanente precarietà dell’occupazione derivante dalla debolezza
dell’apparato industriale». Gli organismi regionali della Cisl rincarano la
dose più o meno negli stessi giorni allorché rilasciano un documento nel
quale si parla «in termini drammatici» (sono parole dello stesso documento)
dei «difetti e degli squilibri del tipo di sviluppo prodottosi in Toscana dal
dopoguerra».
La rapida scorribanda fra dati, giudizi e pregiudizi fin qui condotta
non autorizza indebite conclusioni. Ma è legittima almeno, si crede,
una domanda: come, e perché, ha potuto operare una cosi compatta
rimozione della realtà di un processo che, in vent’anni, contrassegnati
dalla irreversibile crisi economica dell’agricoltura e dalla dissoluzione
culturale del suo ordinamento mezzadrile, ha evitato che l’esodo dalle
campagne si tramutasse in emigrazione, ha generato un incremento del
70 per cento nell’occupazione extra-agricola, ha prodotto uno sviluppo
pari al 115 per cento negli addetti dell’industria tipica? Tanto più che il
modello dell’industrializzazione leggera, sorretto da sistemi territoriali
di piccole imprese specializzate, non è più peculiare della sola Toscana,
ma si è venuto generalizzando, già in questi primi anni ‘70, all’Italia o,
almeno, alle sue regioni centro-nord-orientali (Malfi, 1986). Perfino autori
di chiara fama (Graziani, 1981) guardando al processo un po’ dall’alto e da
una certa distanza, anche geografica, rispetto ai luoghi del suo epicentro, vi
vedono solo la reazione del padronato che fa del decentramento produttivo
un lucido disegno per contrastare gli esiti delle lotte operaie del 1969-70
e indebolire la forza del sindacato. La comparsa sulle pagine di «Critica
Marxista» di un saggio assai impegnato, Strutture sociali e politica delle
riforme in Toscana (Cantelli e Paggi, 1973) concorre a innalzare il livello
e l’ampiezza del confronto. Il saggio è una indiretta, ma non tanto, replica
all’interpretazione proposta dall’Irpet nel 1969. Gli autori partono dal lato
più macroscopico dello sviluppo toscano, quello cioè del ruolo particolare
che vi ha svolto la piccola e media impresa. Ma la possibilità di svolgere
questo ruolo viene ricondotta alle scelte di politica economica formulate nel
primo dopoguerra e negli anni immediatamente successivi. L’interazione
fra crisi dell’agricoltura e abbandono dei settori industriali di base genera
lo spazio per il decollo dell’industria leggera e segnatamente di quella
esportatrice. Si revoca in dubbio il carattere autopropulsivo dello sviluppo
toscano, sostenuto dal dinamismo dell’industria tipica, per approdare ad
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 103
una conclusione, che rappresenta la chiave di lettura dell’intero saggio:
«lo sviluppo della piccola manifattura, lungi dal costituire l’unica forma
possibile di industrializzazione, costituisce un esito che si è reso possibile
solo per l’elisione di altre alternative reali».
Nel 1975 l’Irpet pubblica -come s’è detto- Lo sviluppo economico della
Toscana (Becattini, 1975), risultato di un lungo lavoro di ricerca di tutto
l’Istituto. Non è qui possibile, né, del resto, sembra necessario (potendo
rinviare al saggio che precede questo scritto in questo stesso volume)
fornire nemmeno un’estrema sintesi dei contenuti analitici del volume e
del modello interpretativo su cui si fonda. Per quel che serve in questa sede
sarà sufficiente ricordare che da allora si apre un vero dibattito sui caratteri
e le prospettive dello sviluppo toscano. Studiosi, esperti, amministratori,
dirigenti politici e sindacali, operatori vi partecipano in varie sedi e
circostanze (Floridia, 1981). Non si contano i convegni, le tavole rotonde e i
seminari sull’argomento. Si tratta di una specie di processo di acculturazione
che rende familiari al dibattito politico-culturale le locuzioni coniate dal
documento: industria tipica, campagna urbanizzata, domanda frammentata
e variabile, ecc. L’interpretazione dell’Irpet, o suoi frammenti, fanno ogni
tanto qualche comparsa perfino nei testi ufficiali della Regione Toscana (si
veda ad esempio la Proposta di documento programmatico pluriennale del
1977: Regione Toscana, 1977). Il dibattito affronta, di volta in volta, temi
come quelli della specificità dello sviluppo toscano, del suo grado possibile
di autonomia rispetto ai condizionamenti internazionali e nazionali, delle
sue possibilità di tenuta nel medio termine (e se ne son visti alcuni esempi
nelle pagine che precedono).
Ma ci sono alcuni luoghi topici della discussione riconducibili ad alcune,
diciamo così, «opposizioni dialettiche»: il grado di efficienza relativa della
piccola e della grande impresa, le potenzialità di sviluppo prospettivo
dei settori tipici e di quelli a più elevata caratterizzazione tecnologica, il
ruolo dell’impresa pubblica nei confronti dell’imprenditoria privata e dello
sviluppo regionale, le possibili alternative di orientamento degli sbocchi
mercantili (mercato interno, mercato internazionale) e così via. Del rilievo
del dibattito e della sua caratterizzazione di un’intera stagione del confronto
politico-culturale in Toscana, fa fede una dichiarazione dell’allora
vicepresidente della Regione Gianfranco Bartolini, che ritiene «sia stato
un fatto positivo l’esistenza di un dibattito in Toscana, che risale agli inizi
degli anni ‘70 e che si sviluppa per un certo periodo nel decennio [...] Studi
quali quelli prodotti a suo tempo dall’Irpet sono abbastanza esemplari
rispetto al quadro di altre regioni» (Bartolini, 1981). Nella dichiarazione
si coglie un aspetto importante (importante, si intende, nella dimensione
di importanza dell’argomento di cui si discute): c’è stato in effetti, con
la Proposta del 1977, un tentativo di raccordare la definizione, magari
104 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
platonica, di linee strategiche all’analisi dello sviluppo regionale. Un’analisi
che accoglie sostanzialmente l’interpretazione dell’Irpet, pur integrandovi
temi d’obbligo quali quelli dell’ambiente, dell’energia, delle tecnologie.
Si identifica una linea di politica economica che comporta il sostegno al
consolidamento e alla qualificazione dell’industria tipica, soprattutto per
quanto riguarda la sua proiezione sui mercati internazionali, è l’attenzione a
una novità nell’apparato regionale che l’Irpet ha da poco segnalato, quella,
cioè, dell’attivazione di industrie intermedie operanti nella produzione di
macchine utensili ed accessori utilizzati nei settori leggeri. Ma è il punto di
massimo contatto, per cosi dire, fra «ricerca» e «politica».
Negli anni successivi l’analisi dello sviluppo regionale, che precede di
norma i documenti della programmazione, si stempera nell’osservazione
congiunturale o nella ricostruzione di andamenti di medio periodo,
disimpegnandosi progressivamente dal terreno dell’interpretazione. D’altra
parte, a mano a mano che procedono l’articolazione e la specificazione
dell’intervento regionale in termini sempre più concreti e ravvicinati, si
perdono i labili collegamenti con l’analisi condotta per linee generali e
grandi aggregati, che conservava un suo sapore, magari prevalentemente
culturalistico, quando la programmazione regionale viveva più di enunciati
generali che di politiche operanti (Regione Toscana, 1978 e 1979). La lunga
querelle sul «modello toscano di sviluppo» si viene spegnendo, salvo rari
ritorni di fiamma, per lo più in termini di discussione sulle vicende passate
(Ranfagni, 1981).
Si può ora tentare una spiegazione, più intuitiva che dimostrata,
dell’interrogativo iniziale: come si è potuto non vedere ciò che stava
accadendo sotto gli occhi? Uno sviluppo eterodosso come quello
toscano sfuggiva agli schemi consolidati della teoria non meno che al
controllo sindacale, che vagheggiava naturalmente ordinate masse di
operai in tuta blu ben accentrati in giganteschi complessi industriali.
L’anomalia del meccanismo di sviluppo, una miriade di piccolissime
imprese poco strutturate, viste come una sorta di «armata Brancaleone»
dell’industrializzazione, si ostinava, contro ogni contraria profezia, a
produrre occupazione, investimenti, esportazioni, reddito. Tutti attributi
ritenuti, invece, di normale appannaggio della grande impresa. Per di
più, fra gli stracci di Prato, gli impermeabili di Empoli e le scarpe di
Fucecchio, non si vedevano segni della scintillante tecnologia assunta e
mitizzata ad emblema del progresso e della modernità. I gruppi dirigenti
toscani non riescono ad entrare in sintonia con questo tipo di sviluppo
che non è mai sentito come cosa propria. E rispetto al quale matura, anzi,
una sorta di atteggiamento di alterità. L’atteggiamento critico verso le
attività tradizionali sembra ogni tanto trascinare con sé anche i più radicati
comandamenti della sinistra circa le alleanze sociali.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 105
Non si intende mai a pieno la vera natura dell’industria tipica e non si
vede quindi nemmeno il nuovo (l’industria intermedia) che questa genera.
Né potrebbe essere diversamente, se l’atteggiamento di sindacalisti, dirigenti
politici e amministratori di sinistra verso le peculiarità dello sviluppo
regionale cambia dalla diffidenza all’ostilità, certo secondo i soggetti e le
circostanze (e non senza qualche, e tutt’altro che irrilevante, eccezione), ma
sempre attento a prenderne le distanze. Nessun uomo politico toscano di
primo piano farà mai una appassionata professione di adesione al modello
di sviluppo della sua regione del tipo di quella che si coglie nelle parole
dell’assessore alla Programmazione dell’Emilia Romagna: «Se dovessimo
connotare quello che è stato chiamato modello emiliano dovremmo far
riferimento proprio al rapporto impresa-ambiente: alla capacità di passare,
in maniera meno traumatica che in altre parti del paese, dalla fase rurale
alla fase industriale; alla struttura urbana policentrica, che ha supportato i
processi di urbanizzazione in termini di minore conflitto città-campagna;
alla capacità degli enti locali di coniugare positivamente i bisogni civili e
sociali con le esigenze dell’apparato produttivo; allo sviluppo di potenzialità
lavorative e imprenditoriali in ambienti socialmente ricettivi e propulsivi:
sono questi alcuni caratteri della nostra storia socio-economica recente».
Una storia, si deve aggiungere, alla quale si rivendica orgogliosamente
d’aver contribuito grazie «alla capacità di governare questi processi da
parte degli enti locali emiliani» (Bulgarelli, 1984).
Data quindi l’intrinseca difficoltà dei gruppi dirigenti toscani a intendere
il «tradizionale» e a percepire il «nuovo», ben si capisce come nei documenti
della programmazione regionale (e pur scontando la nota divaricazione
tra dire e fare, presente anche in ambiti di ampiezza e importanza ben
diverse) non si ritrovi una definizione penetrante di politiche, possibili con
i propri poteri e le proprie risorse per i settori tipici, mentre si rintracciano
dichiarazioni, destinate evidentemente a restar prive d’effetto, per quanto
riguarda gli aspetti generalissimi delle politiche industriali, dell’innovazione,
della ricerca. Ma quando si operi in una fase di mutamento, nella quale
non basta più -lo si è detto poco sopra- l’abilità di catturare le economie
esterne «naturali» ma occorre la capacità di costruire i generatori di
economie esterne «artificiali», diventa cruciale proprio il ruolo del governo
consapevole della transizione, cioè delle politiche pubbliche e private a
grande scala e di medio periodo. Il sistema non ce la fa spontaneamente
a misurarsi con le sfide del nostro tempo, non ce la può fare, date le sue
caratterizzazioni socio-culturali ma tenute presenti anche le dimensioni di
queste sfide. Del resto malgrado le ottime prestazioni fornite anche nelle
congiunture più avverse il sistema toscano non ha mai espresso una spiccata
propensione innovativa. Valgano due esempi: la Toscana è uno dei poli
mondiali dell’abbigliamento e delle calzature, ma le due innovazioni più
106 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
sensazionali di questi ultimi anni (l’abbigliamento casual e le calzature da
tempo libero) non sono nate qui. L’altro esempio si muove invece all’interno
di quelle che possono senza esagerazione essere definite attività avanzate. E
non sembri peregrino l’esempio. La localizzazione a Firenze della massima
istituzione geografica nazionale (l’Istituto geografico militare), l’esistenza,
in loco, di una prestigiosa e lunga tradizione nel campo della costruzione
di apparecchiature geodetiche e aerofotogrammetriche (Galileo), avevano
dato vita a un’azienda dinamica e moderna, che vantava una robusta e
attrezzata specializzazione nel campo dell’aerofotogrammetria (Eira). Il
fatto che in Toscana, a Firenze e a Pisa, fossero poi insediate due delle
massime concentrazioni di ricerca informatica del paese avrebbe potuto
aprire insperate prospettive di progresso scientifico, di sviluppo tecnologico
e di espansione industriale e mercantile, grazie all’interazione fra le quattro
entità prima ricordate. Eppure, quando difficoltà gestionali mettono in
crisi (e condurranno, nel 1977, al fallimento) l’Eira e poco lungimiranti
scelte di convenienza aziendale di breve periodo conducono al drastico
ridimensionamento delle produzioni Galileo nel campo della rilevazione del
suolo, malgrado alcuni generosi tentativi, non si va oltre le testimonianze di
solidarietà. Oggi l’Eira è scomparsa, la Galileo ha praticamente abbandonato
questo filone produttivo, l’Istituto geografico militare celebra, in orgogliosa
solitudine, i suoi fasti (Igm, 1986): gli istituti di ricerca informatica estranei
erano ed estranei restano a questa vicenda. Come dire che la difficoltà a
generare iniziative di innovazione si manifesta anche nell’incapacità di
far interagire le sinergie spontaneamente prodotte dalla storia industriale e
scientifica della regione.
E tuttavia il problema sta da un’altra parte. Perché questo sistema
produttivo la sua innovazione l’ha generata, una innovazione a suo modo
rivoluzionaria, quella delle forme organizzative del processo produttivo per
sistemi territoriali di piccolissime imprese specializzate per prodotto, parti
di prodotto e fasi di processo, saldamente interrelate alle altre componenti
di un ambiente conforme. Ma a questo fenomeno mai si è guardato come
ad una innovazione rivoluzionaria (e va reso qui omaggio all’eccezione
cui si faceva prima cenno: Cantelli, 1980): per lo più si è guardato ad essa,
un po’ altezzosamente, come a un prolungamento nei nostri tempi del
Verlagsystem di ascendenza medievale.
E sì che il modello toscano ha formato oggetto di lunghe e appassionate
investigazioni, soprattutto nella sua variante pratese, da parte di studiosi,
specialisti e operatori di tutte le parti del mondo. In un certo senso si può
persin dire che il modello si è «mondializzato» se studiosi d’una dozzina
di paesi si sono ritrovati in Italia (Bagnasco, 1986) per studiare questo
tipo di sviluppo e le caratterizzazioni che assume nelle varie realtà. Travail
fantôme, économie souterraine, travail au noir, informal economy, shadow
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 107
work, black economy, Schattenwirtschaft, Schwarzarbeit, Dualewirtschaft,
informe económico, economìa sumergida, trabajo negro: locuzioni che
rappresentano solo un piccolo florilegio della fantasiosa terminologia che
si impiega da parte di economisti, sociologi e studiosi di altra estrazione
un po’ in tutti i paesi, a economia di mercato o a economia pianificata,
per studiare quella che ormai appare, più che come un processo di
disgregazione di ordinati rapporti produttivi che si comportino secondo le
regolette dei manuali, una sorta di insopprimibile pulsione che contrasta
le tendenze massificatrici e omogeneizzataci dello sviluppo economico
recente e del suo codazzo di mass-media, in cui si manifesta non solo il
bisogno di guadagni integrativi, ma quello di affermare in qualche modo
la propria soggettività: anche col lavoro parziale, col lavoro provvisorio o
col lavoro irregolare (che poi è irregolare o sommerso solo in dipendenza
delle anchilosate qualificazioni giuridiche o delle invecchiate etichette
della nomenclatura statistica).
è proprio un’ipotesi del tutto infondata e paradossale che stia qui,
nella difficoltà (o nella ritrosia), poco importa, di cogliere le multiformi
sfaccettature dello sviluppo e del lavoro e di aderirvi simpateticamente
(certo riequilibrandone i dislivelli di forza contrattuale e reprimendone le
manifestazioni effettivamente illegali), la radice, o almeno una delle principali
radici, della «maturità precoce» dell’economia toscana? La domanda si
lascia volutamente aperta, propendendo per una risposta affermativa: che
ci si sente invece di dare alla domanda se non possa star qui una delle cause
della perdita di velocità dello sviluppo toscano, cioè della sua «marcia in
meno» rispetto alla dinamica delle altre regioni consimili.
Frattanto non c’è bisogno di ricerche penetranti e rigorose per accorgersi
di quel che è macroscopicamente evidente: il rinnovato peso politico e
l’accresciuta capacità di condizionamento del ceto che, per dirla con Dante,
«cambia e merca».
7. Il mutamento sotto gli occhi
Oggi, mentre il sistema toscano attraversa una delicatissima fase di
transizione aperta a molteplici e non tutti desiderabili sbocchi, se si
dovesse indicare il rischio più insidioso che grava sulle prospettive dello
sviluppo toscano si additerebbe, senza la minima esitazione, il pericolo
che non si percepisca il mutamento in corso. Un mutamento -è doveroso
aggiungere- che assume molteplici forme e si svolge in sedi diverse e a
ritmi differenziati. Si illustreranno qui molto sommariamente, in una
sorta di repertorio ragionato, quei tratti di novità nello sviluppo regionale
che corrispondono ad altrettante mutazioni della formula toscana. Si
108 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
identificheranno, in particolare, tre fenomenologie innovative che sono
all’origine delle mutazioni operanti nell’assetto economico, sociale e
territoriale della Toscana di questo scorcio di secolo.
• L’industria intermedia
Nel versicolore aggregato dell’industria manifatturiera un composito
-ma nemmeno tanto- insieme di attività produttrici di beni strumentali e
intermedi (macchine tessili; macchine per la lavorazione del cuoio e delle
pelli, del legno, dei minerali non metalliferi; macchine per calzaturifici;
coloranti; prodotti chimici per l’industria) mette in luce durante gli anni
‘70 un’insospettata vitalità, tanto da far registrare al censimento 1981 una
crescita dei propri addetti pari al 32 per cento: il doppio dell’incremento
dell’industria tipica e di quello di tutto il manifatturiero. Due i tratti esteriori
comuni a queste attività: l’esser fornitrici, almeno potenziali (e lo dicono
le stesse denominazioni) dell’industria tipica e l’esser, elettivamente anche
se non esclusivamente, localizzate nelle aree d’insediamento dell’industria
tipica, con la quale concorrono alla formazione dei tipici «distretti». Pur
localizzata nei distretti dell’industria tipica, quest’industria (che si chiamerà
d’ora in poi «intermedia»: cfr. Bianchi, 1980) non vi intrattiene, tuttavia,
rapporti significativi dal punto di vista delle transazioni mercantili. Si
sa, per citare un caso rappresentativo, che il meccanotessile pratese non
soddisfa che parzialmente i fabbisogni di macchine della locale industria
tessile: e limitatamente alle apparecchiature più semplici o più specifiche (le
macchine per il cardato). I sofisticati telai a controllo numerico provengono
in genere dalla Svizzera e dalla Germania Federale. Perché allora l’industria
intermedia ricerca la simbiosi con l’omologa industria tipica?
La risposta non è difficile: le industrie dei beni finali funzionano come un
efficace laboratorio, mediante indiretti impulsi di domanda di innovazione,
di trasmissione di informazioni e di concrete opportunità di sperimentazione.
In effetti, malgrado l’irrilevanza delle relazioni dirette di mercato, le
imprese produttrici di beni «strumentali» in generale e, in particolare,
quelle di macchine utensili e operatrici, hanno complessivamente indicato
-in uno specifico sondaggio- proprio la presenza di utilizzatori dei propri
prodotti fra i fattori localizzativi fondamentali, mentre la clientela sarebbe
la principale fonte delle informazioni tecnico-produttive.
Ecco una manifestazione concreta di quei rapporti non competitivi fra
imprese, tanto specifici a determinati ambienti industriali (non solo) toscani
quanto ignorati per lungo tempo dalla letteratura specializzata che solo
recentemente ha cominciato a prenderli in considerazione (Varaldo, 1979).
Come è stato osservato, «la mano visibile dell’organizzazione ha spesso
sostituito quella invisibile del mercato nella regolazione delle relazioni fra
le imprese» (Bagnasco, 1986).
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 109
Ma si tratta anche di una manifestazione effettuale di quella
«innovazione diffusa», cioè di quella «componente dei processi innovativi,
legata alla diretta e ripetuta applicazione di pratiche produttive, e promossa
o comunque permessa dalle scoperte e dall’iniziativa dei soggetti che
sono protagonisti di tali pratiche» (Bellandi, 1986). Senza pretendere i
riconoscimenti che volentieri si tributano alle più appariscenti attività di
ricerca e sviluppo, l’innovazione diffusa assicura una costante tensione
innovativa agli ambienti industriali che la praticano, ponendoli, entro certi
limiti, al riparo da progressive o subitanee involuzioni tecnologiche.
Per spiegar la genesi dell’industria intermedia regionale basta ricordarne
i prerequisiti: la tradizione metalmeccanica di alcune aree (tra le quali
assume particolare rilievo quella fiorentina: Zagnoli, 1982), la preesistenza
di attività produttive di fase (come fonderia, carpenteria, lavorazioni
di officina per conto terzi, lavorazioni elettrogalvaniche) e ricercare il
fattore scatenante, l’agente che ha mobilitato le energie e le opportunità
potenziali.
Ciò che si sa dei rapporti intercorrenti fra industria tipica e industria
intermedia legittima la formulazione di un’ipotesi, seppure molto
stilizzata, del modello di interazione fra le due. L’industria tipica
esprime intrinsecamente una domanda frammentata (in dipendenza della
frammentazione del settore di domanda in piccole e piccolissime unità
produttive), specifica (data la peculiare specializzazione per fase di prodotto
o parti di prodotto) e urgente (data la velocità di crescita del settore e i vincoli
di scadenza posti dalle commesse). L’insieme dei caratteri della domanda
crea, evidentemente, obiettive condizioni di vantaggio per l’offerta dei
piccoli produttori locali. Ma la domanda del settore «tipico», se costituisce
un mercato facilmente accessibile (tecnicamente, economicamente e
spazialmente) e ricco di stimoli all’innovazione, rimane tuttavia uno sbocco
mercantile quantitativamente insufficiente per sorreggere l’espansione delle
produzioni «intermedie», soprattutto quando queste intendano cogliere le
opportunità di innovazione e quindi debbano investire. Da qui la spinta ad
ampliare gli sbocchi in direzione dell’export, cogliendo ancora una classe
di opportunità «ambientali»: quelle rese possibili dalle posizioni di mercato
dei beni finali «tipici». In altre parole, si tenta di vendere macchine per
produrre scarpe anche ai concorrenti con i quali, oggi, ci si confronta sui
mercati nei quali per decenni si sono vendute scarpe.
Sempre col sondaggio di cui s’è detto poco sopra si è accertato che
i titolari delle imprese intermedie indicano quali problemi cruciali per il
futuro delle loro aziende: la disponibilità di informazioni di mercato e di
manodopera già formata; la partecipazione alle fiere locali ed internazionali
come canale di vendita; il reperimento di terreni a basso costo come
fattore localizzativo. Si tratta, come si vede, di un vasto (e tutt’altro che
110 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
semplicistico) campo d’azione per possibili politiche regionali. Che
però non potranno mai essere calibrate sulle esigenze dell’industria
intermedia, se non si sa cosa, come e dove essa sia, se se ne ignorano le
vitali interdipendenze con l’industria tipica; se si continua a confonderla
nel coacervo della meccanica strumentale, di cui, peraltro, nemmeno tutta
l’industria intermedia fa parte.
• Il mutamento sociale: dalla molteplicità dei ruoli alla moltiplicazione
dei soggetti
Nel mutamento sociale della Toscana durante gli anni ‘70 occorre
innanzitutto distinguere gli aspetti rilevanti (quelli, cioè, quantitativamente
importanti ma non specifici della regione) dagli aspetti pertinenti (quelli,
cioè, che ne qualificano invece le particolarità). Gli aspetti rilevanti
possono essere ricondotti al comportamento demografico e ai fenomeni,
talvolta ambigui, in cui si esprime un processo, tutt’altro che lineare, di
modernizzazione.
Il comportamento demografico dei toscani ricalca il modello delle
«società mature» (Fig. 8). Il saldo naturale è in costante decremento dal
1964, quando aveva raggiunto il massimo storico degli ultimi trent’anni,
con una differenza fra nati e morti pari a un po’ più del 5 per mille della
popolazione residente; ma già nel 1976 la differenza positiva si azzera:
da allora il numero dei nati in Toscana resta costantemente al di sotto di
quello dei morti e la differenza si amplia fino al 3,5 per mille nel 1981. Il
saldo migratorio che aveva costantemente oscillato durante tutto il primo
ventennio postbellico dal 1966 è in costante aumento numerico, fino al
massimo del 1972, quando la differenza fra gli immigrati e gli emigrati
raggiunge il valore record di 28.000 unità: dopo un biennio di stabilizzazione
il saldo migratorio scende, prima tra il ‘74 e il ‘75, poi di nuovo dopo
l’81. Il decremento naturale non viene più, progressivamente, bilanciato
dall’immigrazione netta e si avvia quindi il tendenziale annullamento della
crescita della popolazione regionale che, al termine del decennio, decresce
per la prima volta in termini assoluti. Gli anni ‘70 registrano, dunque,
due mutazioni nei processi demografici: prima l’azzeramento del saldo
naturale, poi l’azzeramento anche del saldo totale. Aumento dei livelli di
scolarizzazione, femminilizzazione delle forze di lavoro, invecchiamento
della popolazione residente sono i principali tratti che contraddistinguono
il mutamento della società toscana, in linea con quanto avviene non
solo in altre regioni ma in molte altre parti del mondo. Nel decennio
raddoppiano i diplomati, mentre i laureati si accrescono di un terzo, e ne
sono evidenti i riflessi sulla qualificazione culturale dell’occupazione:
per esempio, nell’industria i laureati e i diplomati passano dal 6 al 12 per
cento dell’occupazione complessiva. Anche quanto avviene nel corso degli
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 111
studi segnala qualche novità: il 90 per cento dei frequentanti la scuola
dell’obbligo si iscrive alle scuole medie superiori, all’interno delle quali
la percentuale d’abbandono è ormai pari alla metà del totale degli iscritti.
La presenza delle donne nell’industria cresce di un terzo, ma aumenta di
oltre il 62 per cento nell’occupazione terziaria. Il lavoro dipendente cresce
dell’8 per cento, mentre diminuisce dell’8 per cento il lavoro autonomo,
ponendo in luce la progressiva erosione d’uno dei connotati caratteristici
delle forze di lavoro toscane.
Figura 8
LA POPOLAZIONE IN TOSCANA TRA IL 1950 E IL 1981
Saldo migratorio, salto naturale e salto totale. Valori per 1.000 residenti
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
Saldo migratorio
Saldo naturale
Saldo totale
-4
1950 1955 1960 1965 1970
1975 1980
Riduzione della mobilità interna, saldo naturale negativo, saggi
elevati d’immigrazione netta, che peraltro non garantiscono nemmeno
il mantenimento dei livelli di popolazione raggiunti, l’esaurimento
del serbatoio di manodopera dell’agricoltura, la generalizzazione
della scolarizzazione a quasi tutta la popolazione giovanile, il lento ma
progressivo espandersi dell’immigrazione straniera, spesso clandestina,
ove spicca la presenza dei nordafricani, il diffondersi di atteggiamenti
culturali che inducono a un maggior controllo sociale della pratica del
lavoro irregolare e, grazie al diffondersi della sensibilità ambientalista,
112 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
una sempre crescente insofferenza verso i fenomeni di inquinamento e le
manifestazioni del disagio urbano, l’estensione a tutta la regione, anche
nelle sue aree rurali, del modello di vita urbano, il declino dei mestieri
tradizionali e la progressiva impossibilità di realizzare nell’ambito della
famiglia la trasmissione dei saperi professionali: l’elenco disordinato di
processi e sintomi di mutamento vuol solo alludere all’esistenza, ormai
in forme dispiegate, di un atteggiamento sociale di massa che sembra
poter indurre un indebolimento della «mentalità conforme» appropriata ai
requisiti del modello toscano di sviluppo. Nessuno potrebbe, naturalmente,
dire di quanto sia diminuito, nelle propensioni collettive, il livello di
consenso ai caratteri dello sviluppo toscano tipico, ma la sintomatologia
basta per domandarsi se non sia già operante un processo di erosione
dall’interno, della stessa natura di quello che trenta-quarant’anni fa giunse
a minare prima e a dissolvere poi le basi socio-culturali del mondo rurale
e della mezzadria.
Per quanto il ragionamento sia condannato a librarsi a un livello
di generalità, perigliosamente simile alla genericità piuttosto che
all’astrazione, è impossibile sottrarsi all’obbligo di qualificare con una
breve premessa l’analisi standard del mutamento sociale. Quel che si
vuol dire è che rispetto alla «classica» (e rispettabilissima, peraltro)
tassonomia che interpone il gassoso aggregato dei ceti medi fra borghesia
e proletariato, e rispetto, anche, alle varianti più recenti, ma non poi tanto
(la proletarizzazione dei ceti medi, l’imborghesimento del proletariato, la
maggiore aderenza ad una società «moderna» dell’analisi per «ceti» che
non di quella per «classi», ecc.), la struttura sociale della Toscana presenta
alcune specificità. L’imprenditoria come fenomeno di massa e la massiccia
presenza del lavoro autonomo potrebbero, infatti, interpretarsi tanto
come una «convergenza al centro» di imprenditori e di lavoratori quanto
come una «polarizzazione agli estremi» dei ceti medi. In realtà il tratto
distintivo dell’impasto sociale che ha prodotto lo sviluppo economico
della Toscana è quello della mutevolezza dei ruoli degli stessi soggetti che
passano, spesso molto rapidamente e ripetutamente, attraverso le posizioni
di imprenditore, lavoratore autonomo, lavoratore dipendente e, talvolta,
anche lavoratore marginale. Questo, della molteplicità dei ruoli dei vari
soggetti, è, si crede, il carattere specifico della stratificazione sociale
della Toscana durante la fase dello sviluppo. E del tutto inadeguata al
dinamismo di questa mutevolezza un’analisi standard della stratificazione
sociale. Va da sé che anche un’analisi di questo tipo qualcosa aggiunge alla
comprensione del mutamento sociale. L’esame della stratificazione sociale
al 1971 (Fig. 9) e la sua comparazione con la struttura di dieci anni dopo
consentono, ad esempio, di identificare alcuni grossolani cambiamenti:
la marcata espansione della piccola borghesia impiegatizia (il 25 per
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 113
cento della popolazione al 1981) e la correlata contrazione della piccola
borghesia relativamente autonoma (artigiani, commercianti e coltivatori
diretti sono al termine del decennio poco più del 20 per cento). Si riduce,
invece, assai meno di quanto ci si potesse attendere (da poco più a poco
meno del 50 per cento) il peso della classe operaia, che resta di gran lunga
il raggruppamento sociale omogeneo più numeroso.
Figura 9
LA STRATIFICAZIONE SOCIALE IN TOSCANA (1971-81)
Valori percentuali sul complesso della popolazione residente attiva
Queste classificazioni, comunque, non solo non possono dar conto della
dinamica del processo di mutamento ma, per definizione, non danno ragione
nemmeno della complessità delle articolazioni sociali, quando, come nel
presente momento, la società sperimenti, non diversamente dall’assetto
economico, una tumultuosa fase di transizione.
La complessità dell’impasto sociale e, soprattutto, l’impossibilità di
contentarsi di letture semplici della «galassia» dei ceti medi derivano, oltre
che dai fenomeni di transizione cui si è fatto cenno, anche (non si saprebbe
se, perfino, soprattutto) dal meccanismo della complessificazione del
rapporto (dei singoli, dei gruppi e della società) col processo economico,
indotto dalla crescente articolazione e diffusione di quella che, con
espressione molto impropria, si chiama «economia informale» (e di cui si
è fornito poco sopra una specie di glossario in quattro lingue). Se, come
s’è detto e si ripete essendone fermamente (e per molteplici ragioni che
qui sarebbe fuori luogo enumerare) convinti, non si tratta d’un fenomeno
114 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
esiduale destinato a dissolversi né di una devianza da reprimere, questa
articolazione delle «economie» deve ormai esser considerata come un
fenomeno da capire con analisi spregiudicate (Mairs, 1982; Chiarello,
1983), evitando il ricorso a liquidatone etichette precostituite, né può
esser costretta nella gabbia di opposizioni elementari (lavoro manuale
e intellettuale, produzione di beni e di servizi, lavoro produttivo e
improduttivo e via contrapponendo).
Da qui il cambiamento dei parametri che consentono di identificare la
nuova nomenclatura sociale, che non possono più limitarsi semplicisticamente
al settore di attività lavorativa e alla posizione nella professione. Del resto
(e non si saprebbe dire se si tratti di cinica spregiudicatezza o di sano
realismo) s’è tenuto a Parigi non molto tempo fa un «Salone del secondo
lavoro e del lavoro a tempo parziale».
La «nube sociale» ci dice che si passa da una segmentazione ad
un continuum, nel quale il carattere tipico del mix sociale toscano è,
questa volta, quello della moltiplicazione delle figure sociali. La loro
classificazione diretta è molto difficile, per non dire impossibile, nella
misura in cui richiedesse la conoscenza di informazioni come quelle
relative al secondo (e magari terzo) lavoro, più o meno ufficiale; ai livelli
individuali e familiari di reddito; ai modelli di consumo, ecc. Esistono,
tuttavia, possibilità alternative di indagine che si fondano su un’ampia
batteria di reperti obiettivi d’osservazione come quelli dei censimenti:
luogo di nascita, struttura e dimensioni della famiglia, titolo di studio,
caratteristiche dell’attività lavorativa, condizioni dell’abitazione, caratteri
della zona di residenza (Openshaw e Sforzi, 1983).
Un complesso di sintomi, insomma, che permette una valutazione
più penetrante della struttura sociale, proprio nella misura in cui ne
rappresenta anche la distribuzione spaziale. Una distribuzione spaziale
che, come risulta dalle non poche analisi fin qui esperite in Toscana,
denuncia la progressiva sfaldatura di quello che era stato fino a non molto
tempo fa un contrassegno tipico dei sistemi urbani regionali toscani: la
compresenza nella stessa porzione di area urbana di strati sociali anche
marcatamente diversi, emblematicamente rappresentata dall’adiacenza
della catapecchia fatiscente al solenne palazzo patrizio. Nell’impossibilità
di riprodurre qui le grandi mappe a colori che sintetizzano i risultati
dell’analisi dell’area sociale ci si limita a segnalare l’esistenza di un
netto processo di specializzazione sociale delle residenze che frantuma in
areole di elevatissima omogeneità sociale il mix sociale delle aree urbane.
Il processo è praticamente concluso a Firenze, ove la ghettizzazione
sociale è a uno stadio assai più avanzato di quanto si potesse sospettare.
A Prato l’omogeneità (dominata dal mix operai - imprenditori - lavoratori
autonomi) è più il frutto della struttura produttiva che non di spinte alla
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 115
specializzazione delle residenze. A Pistoia resistono ancora i tradizionali
caratteri compositi (Openshaw e altri, 1982).
Tra le conseguenze del mutamento sociale più gravide di effetti (non tutti
prevedibili) vanno probabilmente ascritte proprio quelle del «sovraccarico
di domanda per i sistemi politici e della crescente difficoltà di tenere insieme
sostegno al processo di accumulazione capitalistica e mantenimento del
consenso sociale» (Bagnasco e Trigilia, 1985). Son percepibili anche in
Toscana i sintomi della progrediente precarietà di un rapporto di consenso
fondato sull’adesione ideologica o sulla delega fiduciaria, che si proietta
sulla crisi del «welfare state» alla toscana. Cioè su quella sorta di patto
triangolare implicito (e pubblicamente senza smentite) fra sindacato,
lavoratori e governo locale che -chiudendo un occhio, talvolta purtroppo
anche tutt’e due, sull’inquinamento e l’evasione contributiva- ha garantito
almeno qui non solo occupazione e reddito ma anche standard piuttosto
elevati di servizi civili.
In una logica «di scambio» si accentua inevitabilmente il ruolo degli
«apparati». E non si pensa certo alla weberiana «macchina inanimata»,
descritta in una pagina celeberrima come quella che Adam Smith dedicò alla
fabbricazione degli spilli. Qui si tratta degli apparati politico-funzionariali
dei partiti, dei sindacati, delle associazioni di categoria, delle istituzioni.
Tutte entità che sperimentano (e non necessariamente in Toscana più che
altrove: anzi) crisi di legittimazione di varia intensità e persistenza e, le
organizzazioni di settore, anche tassi decrescenti di rappresentatività dei
rispettivi corpi sociali.
Ora, specialmente in Toscana ove è prassi corrente, e sempre più anche
obbligo giuridico, la pratica delle consultazioni e delle concertazioni, gli
apparati concorrono in misura crescente non solo a creare il linguaggio
e le procedure del dibattito politico e del processo decisionale pubblico,
ma esercitano anche una crescente influenza sulla definizione degli scopi
e sulla selezione degli strumenti dell’intervento pubblico e, soprattutto,
dell’intervento pubblico nell’economia a scala locale. Se le cose stanno
così è ben comprensibile la cruciale importanza del problema di far sì che
gli apparati, da diaframma tra società e istituzioni, vengano per quanto
possibile «riconvertiti» in canali efficienti di questo rapporto.
Intanto sembra aver assunto natura di connotato strutturale del sistema
socio-politico regionale quella specializzazione di funzioni che fa sì
che -ma il riferimento prevalente è ai maggiori centri urbani- i ranghi
del pubblico impiego forniscano all’amministrazione locale la quota
maggiore del suo personale politico (non proveniente dagli apparati dei
partiti), mentre i commercianti costituiscono il raggruppamento sociale più
esperto di pratiche lobbystiche e, quindi, più ascoltato e influente. E con
una capacità di incidere sulle scelte operative dell’amministrazione che
116 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
-almeno stando alle apparenze- sembra del tutto inaccessibile ad operai
e artigiani. Ricordandosi che le proporzioni dei quattro raggruppamenti
nel complesso della società sono inferiori al 10 per cento per ciascuno dei
primi due raggruppamenti e pari al 60 per cento per l’insieme degli altri
due, si capisce subito dove stia il problema.
• Genesi di una formazione metropolitana nella Toscana centrale
Nelle aree caratterizzate da sistemi territoriali di piccole imprese
normalmente specializzate nelle produzioni industriali leggere, i processi
di urbanizzazione di questo secondo dopoguerra, sia quelli della fase
dello sviluppo industriale che quelli -più recenti- del consolidamento e
dell’incipiente terziarizzazione, hanno proceduto secondo ritmi e modalità
non coincidenti con i modelli classici di formazione dei plessi metropolitani,
dando vita a sistemi metropolitani medi e multicentrici, che rappresentano
una formazione economico-spaziale tipica delle aree di economia diffusa
(R. Innocenti, 1985).
In questi sistemi sono minori gli effetti di dominanza del centro
principale sui centri secondari e acquista, invece, un rilievo caratteristico il
reticolo delle interdipendenze, derivante dalla specializzazione funzionale
dei vari centri e dal mantenimento di una loro identità socio-culturale oltre
che demografico-territoriale.
Fra i sistemi metropolitani medi e multicentrici italiani si segnala in
particolare, per la complessità delle componenti e il vivace dinamismo,
quello in corso di formazione fra i sistemi urbani di Firenze, Prato e Pistoia
(Bianchi, 1982). La configurazione spaziale degli insediamenti (Fig. 10)
testimonia della forma e delle dinamiche che vi hanno assunto i processi di
urbanizzazione, permettendo due rapide ma significative constatazioni:
- la forma degli insediamenti esprime la dualità tra una direttrice inferiore,
caratterizzata da una minore intensità insediativa, che si sviluppa lungo
la strada statale n. 66, e una direttrice superiore cui appartengono le
principali località del sistema; tra il 1971 e il 1981;
- i processi di urbanizzazione, che un po’ dappertutto venivano giudicati
in fase di stanca, mantengono qui una dinamica particolarmente
accentuata; malgrado la vistosa, e per certi versi preoccupante,
espansione urbana, il sistema metropolitano Firenze-Prato-Pistoia non
presenta affatto le caratteristiche della «conurbazione compatta», nella
misura in cui l’ampiezza degli spazi ancora non edificati, la relativa
porosità delle aree edificate, gli sviluppi più nastriformi che a macchia
d’olio, evidenziano margini sin qui elevati di controllabilità urbanistica
del sistema ove, probabilmente, nessun processo ha già raggiunto le
soglie dell’irreversibilità.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 117
Figura 10
IL SISTEMA METROPOLITANO FIRENZE-PRATO-PISTOIA: L’URBANIZZAZIONE (1971-81)
Pistoia
Situazione al 1971
Espansione 1971/1981
Prato
Firenze
La denominazione di sistema metropolitano qui attribuita all’insieme
dei tre sistemi urbani di Firenze, Prato e Pistoia è intenzionalmente
anodina e priva di particolari vibrazioni emotive che hanno, invece,
spesso accompagnato, a Firenze come in Toscana, la discussione su
questo argomento. In altri termini, sistema metropolitano significa qui,
semplicemente: sistema di più sistemi urbani.
Si vedano alcune grandezze, tanto per fissare le dimensioni esteriori
del sistema. Nel sistema urbano della Toscana centrale vive il 30 per
cento della popolazione regionale, ma è qui che si produce il 33
per cento del valore aggiunto dell’intera regione e si genera il 46 per
cento delle esportazioni; la spesa pubblica raccoglie qui il 37 per cento
delle sue entrate, ma vi destina solo il 34 per cento delle uscite con un
effetto redistributivo al quale, peraltro, non concorre il comportamento
della spesa comunale o di quella provinciale, che qui si concentrano
rispettivamente per il 37 è per il 34 per cento, ma a cui concorre
certamente la spesa regionale, che vi si localizza solo per il 27 per cento.
Si è cercato, con qualche azzardo, di misurare anche la dimensione del
sistema economico dell’area, attraverso le sue grandezze principali. Le
stime condotte farebbero ascendere a circa 13.000 miliardi il valore del
118 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
prodotto interno lordo, cui si aggiungono i 9.300 delle importazioni,
per un complesso di circa 22.380 miliardi di risorse disponibili, che si
distribuiscono per 7.000 ai consumi interni e per io 600 all’export, il
resto va in misura pressoché uguale, a consumi pubblici e investimenti.
Alla formazione del prodotto interno lordo i servizi partecipano per il
51 per cento, il complesso delle attività industriali per il 44 per cento,
il modesto residuo è rappresentato dal concorso dell’agricoltura: siamo
quindi in presenza della struttura tipica di una fase matura dello sviluppo.
Rilevante l’apertura verso i mercati esterni, da cui deriva una bilancia
commerciale positiva pari al 10 per cento del prodotto interno lordo.
Di particolare interesse poi è la struttura territoriale delle transazioni
economiche del sistema metropolitano della Toscana centrale, il quale,
fatto uguale a 1.000 il totale delle risorse disponibili, esporta 84 nel resto
della Toscana e 202 nel resto d’Italia, valore superiore a quello dell’export
verso l’estero che è di 188. Il saldo complessivo dell’interscambio, lo
si è già visto, è positivo e qui misurato da un indice pari a 55. Ma va
segnalato che a un ancor più elevato saldo positivo verso l’estero, pari a
un valore di 89, si contrappone un saldo negativo dell’interscambio col
resto d’Italia di 51. Come dire che le produzioni toscane alimentano flussi
di export con saldi positivi netti, attivando flussi di esportazione anche
dalle altre regioni italiane. Per quanto possono dire indicatori stimati un
po’ avventurosamente, ma comunque rappresentativi di sicuro almeno
degli ordini di grandezza, il sistema metropolitano si caratterizza come
una «porta» dell’economia italiana, nella misura in cui, almeno in parte,
compra in Italia per vendere all’estero. Esce da qui quasi il 100 per cento
dell’export tessile regionale, oltre l’80 per cento dell’export di maglieria,
il 76 degli apparecchi elettrici, il 63 della meccanica, il 60 delle pelletterie.
L’agente principale dell’interscambio all’interno dell’area è nettamente
il settore tessile, che copre da solo oltre il 60 per cento delle transazioni.
Già questi parametri segnalano la forte specificità del sistema e, da soli,
ne autorizzerebbero la qualificazione metropolitana (Andersson, 1984).
La connotazione terziaria di Firenze non oscura la specificità industriale
dell’area, ove si localizza più di un terzo dell’industria tipica regionale
e quasi il 60 per cento di quella intermedia, sì che il sistema costituisce
il principale polo metalmeccanico della Toscana. Un artigianato vivo e
vitale, per quanto probabilmente in una fase di trasformazione e interrelato
magari parzialmente ma assai intensamente all’elevata specializzazione
turistica del sistema metropolitano (ma questa caratterizzazione si
riferisce evidentemente soprattutto al capoluogo regionale), definisce
-appunto assieme al turismo- un’area di transvariazione tra la produzione
di beni e quella di servizi. Quest’ultima trae ancora largamente alimento
dal cospicuo patrimonio di storia e d’arte della tradizione fiorentina, che
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 119
si incarna in istituzioni e manifestazioni, talvolta travagliate da difficoltà,
ma quasi sempre di rilievo mondiale e che rappresentano, senza dubbio,
il fattore principale della sua attrazione turistica: il 25 per cento dei
27-28 milioni di giornate di presenze turistiche in Toscana si consuma
qui; ma la quota dei turisti esteri è di ben lunga più alta, rappresentando
quasi il 50 per cento del volume turistico regionale. Queste poche battute
servono a giungere a una prima, provvisoria, conclusione. La multiforme
sfaccettatura di componenti e di relazioni in cui si esprime la produzione
di beni, di servizi e di conoscenze di quest’area, la rende non solo la
più complessa della regione, ma anche più ricca di articolazioni persino
rispetto a sistemi urbani assai più grandi: come, poniamo, quello di
Torino (per il maggior rilievo delle attività culturali e del turismo) o
quello di Roma (per la maggior caratterizzazione industriale del sistema
metropolitano della Toscana centrale). Il grado di partecipazione dei tre
sistemi urbani alla genesi della formazione metropolitana è senza dubbio
diverso, e decrescente per intensità d’apporto, procedendo da Firenze,
via Prato, per Pistoia.
Il reticolo delle interdipendenze fra i tre sistemi urbani è ben rappresentato
dai flussi degli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro (Fig. 11).
All’inizio del decennio, il reticolo descrive un insieme di sistemi urbani,
dove quello fiorentino prevale nettamente per l’intensità delle relazioni che
si dirigono verso Firenze, conferendogli perciò un elevato saldo attivo, ma
nel quale si segnala anche il ruolo di Calenzano, con un bilancio positivo
fra flussi in entrata e in uscita.
è Prato, ovviamente, il centro attorno al quale si organizza il sistema
urbano intermedio fra Firenze e Pistoia e di cui fanno parte anche
Montale, Agliana e Quarrata. Pistoia mostra un bilancio negativo dei flussi
residenza-lavoro, in quanto quel sistema urbano è fortemente tributario di
quelli pratese e fiorentino, a tal punto che i flussi che lo collegano alle
altre località del suo sistema non sono sufficienti a riequilibrare il rapporto
pendolari in uscita/pendolari in ingresso e a dargli segno positivo. La
situazione si presenta significativamente diversa dopo un decennio di
trasformazione del reticolo degli insediamenti produttivi e residenziali. A
questa data più recente le relazioni funzionali espresse dai flussi giornalieri
residenza-lavoro appaiono assai più complesse ed intense fra tutte le
località del sistema metropolitano. Sono ancora gli stessi centri del ‘71
ad avere un bilancio positivo tra flussi in entrata e flussi in uscita, ma a
questi centri, lo si deve notare, si aggiunge ora Pistoia. Il sistema urbano
di Firenze costituisce ormai un’unità spaziale consolidata, mentre si
esprimono importanti fenomeni di novità entro il sistema urbano di Prato,
dove la crescita di Montemurlo è tale che esso rappresenta ormai il centro
principale di afflusso, sopravanzando Prato.
120 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Figura 11
LE INTERAZIONI DEL SISTEMA METROPOLITANO FIRENZE-PRATO-PISTOIA
Flussi di pendolarità per motivi di lavoro nel 1971 e nel 1981
Spessore dei segni = saldo dei flussi (in entrata e
in uscita) relativi a ciascuna coppia di comuni
Dimensione dei cerchi = saldo dei flussi infrareali
relativi a ciascun comune
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 121
In definitiva le novità emergenti da segnalare in questa componente
del sistema metropolitano della Toscana centrale sono rappresentate dalla
drastica contrazione di Prato come destinazione di flussi di pendolarità e
dalla straordinaria crescita del comune di Montemurlo: e vi si deve leggere
l’effetto dei massicci fenomeni di rilocalizzazione di attività produttive che
hanno proceduto dal centro maggiore a quello minore. Allo stesso fattore
causale può essere ascritto anche il mutamento di segno nel saldo fra
pendolari in entrata e pendolari in uscita, riguardante il comune di Pistoia:
in realtà ciò che s’è venuto modificando nel decennio, non è tanto la
distribuzione territoriale delle residenze, quanto quella degli insediamenti
direttamente produttivi.
Sulla base degli studi di cui si dispone si potrebbe ulteriormente
qualificare il processo di sviluppo metropolitano, con particolare riferimento
a quello fiorentino. Com’è del tutto evidente, date le proporzioni relative
fra i tre plessi urbani che costituiscono il sistema metropolitano della
Toscana centrale (e c’è già chi, scherzosamente, azzarda un più breve e
leggermente canzonatorio Mitteltoskana), quel che avviene nell’area
fiorentina condiziona apprezzabilmente gli altri due sistemi urbani. Le
caratteristiche metropolitane dell’area ricevono ampie conferme da
quanto si sa circa, rispettivamente: il modello di crescita, i fenomeni della
localizzazione industriale, le interazioni del sistema con i sistemi urbani
contermini. Per quanto riguarda il primo aspetto, è sufficiente dire che
nell’area fiorentina non si è riprodotto un modello del tipo «espansione a
macchia d’olio nel vuoto residenziale della campagna circostante» (come,
per esempio, è accaduto a Roma); né un modello del tipo «espansione
con incorporazione e assorbimento dei centri periferici minori» (come,
per esempio, è accaduto a Torino e Milano). Il modello fiorentino sembra
piuttosto esser caratterizzato dalle crescite contemporanee e relativamente
autonome dell’area urbana centrale e dei centri periferici minori, con una
successiva saldatura delle direttrici di collegamento, dovuta all’ulteriore
crescita, appunto, dei centri minori che, peraltro, hanno conservato, e
comunque stanno energicamente difendendo, la propria identità, e con
questa, il carattere tutto sommato policentrico dell’area fiorentina. Si presta
meno ad esser ricondotto ad una meccanica semplice quel che avviene sul
territorio per effetto della rilocalizzazione spaziale delle attività produttive.
Infatti, in un’area policentrica come quella fiorentina, il sistema delle
interdipendenze ambientali seleziona le imprese per dimensione e per
settore di attività. Le piccole imprese, con minori esigenze di spazio e più
interdipendenti dal lato della domanda, tendono ad infittirsi e, comunque, a
restare nell’area centrale. Le imprese di media dimensione, in specie quelle
dell’industria intermedia, interrelate con l’ambiente soprattutto dal lato
dei servizi, tendono invece a rilocalizzarsi al di fuori dell’area centrale; le
122 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
grandi imprese -e non mancano, come si sa, eccezioni anche macroscopiche-
sembrano nel complesso stabilizzate: ma si tratta dell’effetto della relativa
lentezza del loro movimento centrifugo, causato dalla complessità tecnica
del trasferimento di grandi impianti.
Di natura ancor più tipicamente metropolitana sono i sintomi prodotti
dai meccanismi demografico-occupazionali. Basta a qualificarli in questo
senso la netta dominanza dei fenomeni migratori su quelli naturali, che sono
all’origine di un altissimo ricambio di popolazione, ove i rischi della minore
omogeneità socio-culturale si associano probabilmente ai possibili vantaggi
di un maggior dinamismo (l’effetto melting pot). In effetti l’immigrazione
è largamente risucchiata da occasioni di lavoro esistenti ma non coperte
localmente. Specifici sondaggi hanno condotto ad accertare che il sistema
dell’area fiorentina manifesta qualche difficoltà a produrre operatori
qualificati: ma ciò che ne caratterizza ormai l’offerta di lavoro è una
generalizzata indisponibilità a compiere lavori non qualificati, che vengono
lasciati, secondo un tipico modello metropolitano, agli immigrati, grazie
anche alla relativa «capacità di attesa» dei giovani in cerca di occupazione.
Da questi presupposti, e da numerosissimi altri dati, argomenti e
documenti che potrebbero essere addotti a rinforzo, risulta che le possibilità
di una seria evoluzione metropolitana della Mitteltoskana sono già iscritte
nel suo presente e nel suo passato recente e meno recente. Di questa
evoluzione avrebbe certamente bisogno la Toscana intera e, si sarebbe
tentati di dire, soprattutto la Toscana della campagna urbanizzata, il luogo
elettivo dell’insediamento dell’industria tipica e della cultura materialproduttivistica
del «saper fare» che ne è indispensabile premessa e alimento.
Se non è completamente infondato il ragionamento che attraversa le pagine
precedenti, circa la nuova dislocazione della sfida dai vecchi ai nuovi fattori
dello sviluppo, c’è poco da fare, questi (ricerca e sviluppo, promozione,
cura delle relazioni internazionali, politiche dell’immagine) hanno il loro
habitat naturale nell’atmosfera urbana. Cambiar gioco, dal giocar di rimessa
al giocar di battuta, significa un declino dell’importanza della cultura del
«saper fare» a vantaggio della cultura del «saperci fare». Già nel 1981 la
giunta comunale di Firenze, sindaco Elio Gabbuggiani, nei suoi Lineamenti
del programma pluriennale, ammoniva: «il processo di “metropolizzazione”
dell’area fiorentina si trova nello stadio delicato della transizione: sono
certamente presenti i requisiti del decollo, ma non sono affatto garantite le
prospettive dello sviluppo». E da qui si derivava la scelta politica: «il processo
di formazione dell’area metropolitana va sostenuto, promosso e orientato
come cuore di un disegno di sviluppo delle funzioni di produzione di beni,
di servizi, di conoscenze». Quanto si è proceduto da allora su questa strada?
Poco, bisogna pure ammetterlo. In un certo senso siamo alle solite: siamo
di nuovo, cioè, di fronte a una clamorosa manifestazione di novità e non la
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 123
si riconosce. C’è da non credere ai propri occhi, sfogliando, per esempio, le
pagine di due eleganti volumi, l’uno dedicato al processo di urbanizzazione
nell’area Firenze-Prato-Pistoia (AA.VV., 1984) e l’altro (Campos Venuti e
altri, 1985) agli studi e alle proposte per il progetto preliminare del nuovo
piano regolatore generale di Firenze: se si fa eccezione d’un breve contributo
dell’Irpet contenuto nel primo volume, neanche il più scrupoloso spulciatore di
libri è capace di reperirvi una sola volta la locuzione «sistema metropolitano»
o anche solo l’aggettivo. Certamente sulle rive dell’Arno non si vede nulla di
simile all’impegnativo «Progetto Milano», col quale la metropoli lombarda
e un folto schieramento di istituzioni, pubbliche e private, aziende e banche
hanno avviato un gigantesco piano di studi e di progettazione che analizza
ogni componente significativa del sistema metropolitano milanese per
ricavarne indicazioni di prospettiva utili agli investitori privati non meno che
ai decisori pubblici (Irer, 1985 e 1986).
Di questi tempi si fa un gran parlare a Firenze del progetto «Fondiaria-
Fiat», due colossali operazioni fondiario-edilizie che, se attuate col rigoroso
rispetto delle premesse da cui partono, potrebbero davvero cambiare il
volto della città: centro espositivo, uffici per i servizi del terziario pregiato,
maxicentro commerciale, ecc. ecc., da ubicare, per una parte, in una delle più
squallide ma vivaci periferie fiorentine (Novoli) e per la parte più cospicua,
quella finanziata dalla Fondiaria, nell’area di Castello nelle immediate
adiacenze del luogo ove son previsti i nuovi insediamenti universitari. Che
si tratti davvero di una grande opportunità per Firenze pochi potrebbero
disconoscerlo, vista l’entità dell’investimento in gioco (attorno, e forse
superiore, alla cifra di 1.000 miliardi). Ciò di cui non peregrinamente si discute
è se davvero i fatti potranno seguire il corso delle tante parole finora spese.
In effetti, l’attenzione degli investitori privati si rivolge, comprensibilmente,
più agli aspetti economico-edilizi del progetto che ad altri profili. Un po’
meno comprensibile è, invece, che i decisori pubblici non si preoccupino
prevalentemente, anche se magari non esclusivamente, di suscitare attorno
al progetto le energie imprenditoriali capaci di mobilitare i capitali di rischio
occorrenti per l’avvio delle attività produttive ivi previste, in modo che
corrispondano davvero all’attivazione di processi economicamente validi.
Certo, anche su queste operazioni, come del resto su quasi tutti i progetti di
grandi opere pubbliche e di infrastrutture, a Firenze (e in Toscana: ma qui
un po’ meno) grava la minaccia del ben noto «indecisionismo» fiorentino
che tante e assai poco brillanti prove ha dato di sé e non solo in questi ultimi
anni, se si ha in mente la lunghezza esasperante dei tempi di progettazione e
di decisione, per non dire di quelli di realizzazione, di una lista non breve di
progetti di arricchimento del capitale fisso sociale di Firenze e della sua area.
Un esempio basti per tutti: dopo una lunga disputa si sono avviati i lavori per
l’attraversamento di Firenze da parte della direttissima ferroviaria Milano-
124 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Roma; se l’attraversamento avverrà in superficie o sarà sotterraneo non è
ancora ben chiaro. Ecco, il primo progetto per l’attraversamento di Firenze
in galleria sotterranea risale al 1915; fu poi riproposto col piano regolatore
del 1962 e ripreso di nuovo in esame nel quadro dei lavori preparatori del
nuovo piano regolatore dei nostri giorni.
• La nuova geografia dello sviluppo
Sistema metropolitano della Toscana centrale e, più ipotetico ma non
impossibile, sistema metropolitano della costa (Pisa-Livorno-Pontedera) sono
le emergenze economico-territoriali più significative della fase successiva al
processo regionale di industrializzazione, del quale rappresentano, e non solo
temporalmente, uno degli esiti più originali, almeno per quel che riguarda
la Mitteltoskana. In effetti i fenomeni demografici e le modificazioni nella
struttura economico-produttiva del decennio (sommariamente passati in
rassegna nei paragrafi che precedono) hanno agito su ed hanno interagito
con le formazioni territoriali generate dal modello toscano di sviluppo:
la campagna urbanizzata, le aree turistico-industriali, le aree urbane, la
campagna. Il disegno delle «quattro Toscane» (Fig. 12) si è complicato
nell’immagine territoriale della «nuova geografia dello sviluppo» (Fig. 13).
Figura 12
LE «QUATTRO TOSCANE» DELLO SVILUPPO POSTBELLICO: LA CAMPAGNA URBANIZZATA,
LE AREE TURISTICO-INDUSTRIALI, LE AREE URBANE, LA CAMPAGNA. 1971
Pisa
Livorno
Siena
Firenze
Grosseto
Campagna urbanizzata
Aree turistico-industriali
Aree urbane
Campagna
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 125
Figura 13
LA NUOVA GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO: SISTEMI METROPOLITANI, SISTEMI URBANI,
SISTEMI URBANO-RURALI, ZONE DI FRANGIA. 1985
Le frecce indicano aree di gravitazione extra-regionale
Ulteriore crescita industriale in alcune parti, impetuoso sviluppo delle
attività produttrici di servizi in altre ancora, il rallentamento o l’accelerazione
(più rara) dei processi di urbanizzazione hanno specificato in Toscana un
sistema di figure territoriali nuove anche se non occultamente imparentate
alle precedenti:
- i sistemi metropolitani della Toscana centrale (Firenze-Prato-Pistoia) e
della costa (Pisa-Livorno-Pontedera);
- i sistemi urbani di Lucca, della Versilia, della Valdelsa, del Valdarno
superiore, della Val di Cornia;
-
Sistemi metropolitani
Sistemi urbani
Sistemi urbano-rurali
Zone di frangia
Gravitazione extra-regionale
i sistemi urbano-rurali di Arezzo, Siena e Grosseto, tipizzati dalla
mancanza del reticolo di spostamenti pendolari che caratterizzava le
aree della campagna urbanizzata, essendo la città il polo d’attrazione
centripeto di flussi radiali di pendolarità che hanno origine nelle
cittadine minori dell’area;
126 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
- le aree di frangia interregionale fra Toscana ed Emilia Romagna e fra
Toscana e Umbria.
Tuttavia il più saldo riferimento per l’articolazione subregionale
della Toscana resta pur sempre quello della maglia delle Associazioni
intercomunali che fu identificata in modo da farle corrispondere ai «sistemi
urbani giornalieri». Questi sistemi (Fig. 14) rappresentano il reticolo
tracciato sul territorio dagli spostamenti che si svolgono fra differenti
località urbane in una tipica giornata lavorativa, con riferimento specifico
ai movimenti pendolari luogo di residenza -luogo di lavoro.
Figura 14
I SISTEMI URBANI GIORNALIERI
La trama degli spostamenti pendolari, che unisce un centro maggiore ai
centri minori nel suo sistema (quando, e ve ne sono esempi in Toscana, il
sistema non sia tutto composto di centri più o meno equivalenti) traccia sul
territorio lo spazio entro il quale, appunto in una tipica giornata lavorativa,
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 127
si svolge la maggior parte delle attività ordinarie della vita quotidiana:
occupazione, ricreazione, acquisti, opportunità sociali. L’intricato reticolo
attorno al capoluogo regionale non impedisce di cogliere le differenze,
poniamo, tra la forma che i collegamenti pendolari assumono in Valdelsa,
in Valdarno o nella Val di Nievole e quanto differenti siano da quelli,
più lineari e di più lunga portata, che collegano Livorno agli altri centri
del suo territorio o da quelli tipicamente radiali, e convergenti sul centro
maggiore, che si originano da un centro minore scollegato dagli altri,
come nel caso delle aree urbano-rurali: Arezzo, Siena e Grosseto. I sistemi
urbani giornalieri rappresentano i veri sistemi organici che compongono
l’organismo regionale. E c’è da rammaricarsi della non fortunata esperienza
delle Associazioni intercomunali, il solo livello di governo che fosse
corrispondente ai sistemi reali della Toscana. Purtroppo la scelta non resse,
anche in mancanza di una forte carica ideale e di una ferma determinazione
politica, alla duplice trazione dei poteri regionali e delle gelosie comunali.
C’è stato chi, in Toscana, ha parlato recentemente di «diaspora territoriale»
per caratterizzare una situazione nella quale, chiusa in modo fallimentare
la prima fase di vita delle Associazioni intercomunali, si vengono
annebbiando gli stessi riferimenti tradizionali più consolidati, come quelli
delle vallate. Diviso, dal punto di vista delle unità amministrative, il
Valdarno fiorentino da quello aretino, separata la Valdelsa fiorentina da
quella senese, la pressione degli interessi e le piattaforme locali sembrano
tendere al massimo di disarticolazione, tanto che oggi risulta, anche per
quanto riguarda l’attuazione delle politiche regionali, più difficile di ieri
tenere insieme non solo Montevarchi e Figline, Santa Croce e Fucecchio,
luoghi di tradizionale rivalità, ancorché appartenenti alla stessa entità
economico-territoriale, ma persino Empoli e Castelfiorentino, Firenze e i
comuni della sua area.
8. Toscana chissà
La ricomposizione della diaspora territoriale, che frantuma in una miriade
di piattaforme localistiche la stessa possibilità di immaginare un organico
disegno regionale oltre che, comprensibilmente, di mandarlo ad effetto,
si prospetta come uno dei più severi cimenti del prossimo futuro per i
gruppi dirigenti regionali. Un cimento che si aggiunge a quelli altrettanto
severi che la lettura dell’ultima vicenda dello sviluppo regionale è venuta
prospettando: il recupero, se possibile, dei ritardi rispetto alle altre regioni,
l’incremento degli investimenti in capitale fisso sociale per ammodernare
la dotazione delle infrastrutture regionali, il sostegno all’evoluzione
metropolitana dei principali sistemi urbani toscani.
128 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Non è questa la sede nemmeno per tentare un bilancio dei primi
quindici anni dell’esperienza regionale. Ma sarebbe urgente farlo e con
le più rigorose procedure della ricerca scientifica, rifuggendo da facili ma
inconcludenti bilanci catastrofici quanto da auto consolatori esercizi che
occultassero le difficoltà, i limiti e gli insuccessi di quell’esperienza. Non
tira un vento favorevole alle regioni, di questi tempi in Italia. C’è chi ha
già perspicuamente analizzato il lavoro della nuova istituzione, anche se
sotto un profilo prevalentemente giuridico (Paladin, 1985). Parrebbe utile
farlo anche sotto il profilo dell’attrezzatura tecnica delle politiche regionali
oltre che dal punto di vista del bilancio materiale dei risultati ottenuti. Gli
aspetti positivi non sono sempre visibili a prima vista: l’irrobustimento
del governo locale, l’articolazione del potere, oggi certamente più
diffuso nella società di quanto non lo fosse nel periodo del centralismo
esasperato, la realizzazione qua e là di esperienze pilota che potrebbero
essere utilmente generalizzate. Le stesse tecniche di gestione dei bilanci si
sono venute affinando, a mano a mano che crescono la consapevolezza e
la capacità di introdurre criteri di gestione economica, ispirati al principio
della valutazione dei risultati. Segni di un rinnovato impegno sul terreno
dell’efficienza e della modernizzazione si colgono, del resto, su tutto il
fronte dell’amministrazione pubblica locale toscana, se è vero che nel
corso di un quinquennio i comuni toscani hanno accresciuto il peso dei
loro investimenti sul complesso degli investimenti effettuati da tutte
le amministrazioni comunali del paese dal 7,7 all’8,1 per cento, con un
tasso di incremento delle somme investite pari al 36 per cento, durante il
quinquennio, più del doppio del corrispondente valore nazionale. Anche
le municipalizzate esprimono qualche tendenza confortante; l’incidenza
delle spese di personale sul complesso delle uscite è oggi in Toscana del
39 per cento contro il 46 della media italiana, mentre gli introiti per tariffe
rappresentano qui il 65 per cento delle entrate e nel resto del paese solo
il 56. È onesto riconoscere poi, quale che possa essere il giudizio critico
sul complesso dell’azione regionale, la difficoltà grandissima di esprimere
politiche realmente incidenti sullo sviluppo del sistema regionale, quando
quasi l’80 per cento delle risorse a disposizione della Regione Toscana è
assorbito dalla spesa sanitaria (ma le destinazioni di risorse vincolate da
leggi statali arrivano all’87 per cento), si che agli interventi economici si
son potuti destinare negli ultimi anni volumi di spesa che hanno oscillato
tra i 200 e i 300 miliardi all’anno: somme irrisorie rispetto all’entità delle
grandezze macroeconomiche regionali con cui si debbono confrontare.
Pur rifuggendo da ogni rozza polemica politica, qualcosa vorrà pur dire la
circostanza che fra l’83 e l’84, mentre si incrementavano dell’11 per cento i
trasferimenti dallo Stato centrale al complesso delle Regioni, l’incremento
attribuito alla Toscana è stato solo dell’8 per cento (e lo si può rapportare
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 129
agli incrementi della Lombardia, della Campania e del Piemonte che son
stati rispettivamente del 10, del 12 e del 13 per cento).
C’è tuttavia un fronte sul quale si può agire senza spesa e al di fuori dei
vincoli e degli intralci della legislazione regionale. Ed è lo stesso fronte
sul quale probabilmente l’esperienza regionale toscana (ma il discorso
potrebbe essere fondatamente ripetuto anche per altre regioni) deve
registrare il ritardo più inquietante. A oltre quindici anni di distanza dalla
prima elezione dei consigli regionali, la Regione non è ancora sentita e
vissuta come la nuova dimensione del dibattito e dello scontro politico,
come il metro di riferimento delle scelte amministrative. Il processo di
regionalizzazione procede a rilento, non senza conoscere (è il caso della
«diaspora» territoriale) anche rischiosi passi indietro. I problemi locali, di
categoria, di settore, non sono ancora vissuti come problemi regionali. Danno
ampia testimonianza di ciò i livelli vistosamente insufficienti di autorità e
di potere decisionale delle istanze regionali di ogni natura; da quelle dei
partiti a quelle dei sindacati e delle organizzazioni di categoria. Il ritorno di
fiamma sul ruolo delle amministrazioni provinciali non segna tanto lo sforzo
di vitalizzazione di un ente a competenze limitate che mai ha realmente
partecipato del processo sociale. Vi si rintraccia piuttosto la rivincita della
provincia come maglia geometrica uniforme del decentramento statale
(prefetture, questure, intendenze di finanza, provveditorati agli studi, ecc.)
sulla quale si è venuta modellando da decenni, per non dire dalla fine del
secolo scorso, l’organizzazione della vita politica e sociale, dai partiti ai
sindacati, alle associazioni di categoria. La difficoltà a irrobustire, nelle
varie sedi e ai vari livelli, i centri direzionali di scala regionale rappresenta
un altro, e non minore, ostacolo rispetto alla possibilità di concorrere
all’ideazione (anche solo all’ideazione) di un organico progetto di sviluppo
regionale. S’è visto abbondantemente in queste note quanto grande sia la
sproporzione fra la dimensione dei fenomeni economico-sociali, e quella
dei possibili strumenti di intervento a disposizione del decisore pubblico.
Ma l’intervento pubblico può agire al margine, sulle differenze, sostenendo
tendenze positive e ostacolando tendenze negative, quel tanto che basta
per accelerarne o rallentarne i processi. Sempre che di questi processi si
siano intese la natura, la legge di movimento e la direzione di sviluppo. I
vent’anni alle nostre spalle rapsodicamente passati in rassegna in questo
scritto, hanno mostrato in più d’una circostanza, anzi in molte circostanze,
questa sorta di refrattarietà dei gruppi dirigenti locali a leggere correttamente
e tempestivamente quanto veniva sdipanandosi sotto i loro occhi. Cosa sta
maturando nel grembo della Toscana a quattordici anni dal Duemila?
Non s’intende, certo, ripercorrere pedantemente le tendenze delle
diverse fenomenologie economiche, sociali e territoriali su cui si è
cercato di ragionare. Le questioni fondamentali, le alternative principali
130 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
dovrebbero essere emerse. Ma può darsi che cosi non sia. A chiusura di
queste note si è quindi indotti a un’ultima, rapida carrellata su alcune
tendenze differenziali dello sviluppo toscano: talvolta cosi connaturate al
suo modo di essere che la dimestichezza con le loro manifestazioni quasi
impedisce di coglierne persino l’esistenza. Altre volte si tratta, invece, di
segni minori, probabilmente davvero eccentrici rispetto al grande corso
dello sviluppo, ma chissà.
Si prenda il caso del turismo; bastano due sole cifre a dire che è
quantitativamente rilevante in Toscana: 28 milioni di giornate di presenza
in un anno, più dell’8 per cento dei flussi turistici nazionali complessivi.
Guardando solo un poco oltre la superficie, si scopre che all’importanza
quantitativa si aggiunge una discreta significatività economica, se 1.000
lire spese dai turisti in Toscana attivano un incremento complessivo del
prodotto lordo di oltre 1.300 lire di cui 857 rimarrebbero nella regione.
Perché queste cifre, introdotte all’improvviso e -qualcuno potrebbe
giudicare- in modo un po’ bislacco, son significative? Perché se le stesse
1.000 lire di incremento si fossero invece espresse nella domanda di prodotti
tessili, l’incremento del prodotto interno lordo sarebbe stato solo di 1.236
lire e la quota internalizzata dall’economia regionale di 796. Dio ci guardi
dal dir male dell’industria tessile, motore e vanto dell’economia toscana:
tuttavia, almeno per quanto riguarda la positività degli effetti, i numeri
dicono che alla Toscana convien più esportar servizi turistici che pezze di
tessuto. Ma siamo ancora a un livello assai grossolano del ragionamento.
Gli occupati nel complesso delle attività turistiche e di quelle che a queste
più direttamente si riconnettono erano all’81 quasi 55.000, un sorprendente
34 per cento in più di quanto non fossero dieci anni prima, sicché gli
occupati nelle attività turistiche rappresentano oggi quasi il 4 per cento del
totale dei posti di lavoro in Toscana, con un aumento di un quinto rispetto
alla quota posseduta dieci anni prima. Gli andamenti occupazionali nel
settore, che sarebbe difficile, almeno secondo le definizioni scolastiche,
ascrivere al terziario qualificato, non hanno certo mostrato le incertezze
e i tentennamenti di diversi settori industriali. Se poi ci si ricorda che il
turismo verso i centri d’arte rappresenta il 34 per cento dei flussi turistici
che si rivolgono alla Toscana e che questi flussi si sono accresciuti del
28 per cento durante gli ultimi dieci anni, mentre il turismo balneare è
rimasto praticamente stazionario, si potrebbe persino non esitare a stabilire
un collegamento un po’ spericolato: sono le dotazioni artistiche e le attività
culturali il principale propulsore della domanda turistica che si rivolge
verso la Toscana (AA.VV., 1982). Non è la scoperta dell’acqua calda e non
è nemmeno la vieta riproposizione del patrimonio artistico, come oggetto
della mercificazione turistica. Secondo le più accreditate stime e sempre
che un cataclisma bellico non sconvolga il pianeta, i prossimi dieci anni
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 131
dovrebbero registrare consistenti e paralleli incrementi nella domanda
mondiale di turismo e di cultura (Bresso e Zeppetella, 1982). Una domanda
che, come si sa da accurate ricerche scientifiche, ma come, in ogni caso
si intuirebbe anche per semplice buon senso, si accresce in entrambe le
direzioni nella misura in cui si accrescono i livelli di reddito e i livelli di
istruzione dei potenziali consumatori. Anzi, un po’ di più.
Le attività culturali, d’altra parte -e l’affermazione non è certo una
scoperta- costituiscono una presenza importante nella vita sociale (ma, lo
si vedrà tra un momento, anche in quella economica) della regione (Irpet,
1984). Ogni toscano spendeva, nel 1971, 437 lire all’anno per assistere a
manifestazioni teatrali e musicali (ma si sa, a teatro e al concerto va solo una
quota minima della popolazione): lo stesso toscano medio spende oggi quasi
4.000 lire, mentre l’italiano medio non destina più di 2.700 lire a questi stessi
consumi. E non si tratta di un fenomeno esclusivamente fiorentino, se è vero
che la spesa pro capite per tutti gli spettacoli è aumentata durante gli anni
‘70 a Firenze del 192 per cento, negli altri capoluoghi di provincia del 201
per cento e nel resto della regione del 215: siamo quindi in presenza di un
consumo nobile che non solo aumenta, ma si decentra diffondendosi a tutta
la regione. è vero, peraltro, che Firenze svetta su tutte le città d’Italia quando
si tratta di consumi culturali. Pochi dati per confermarlo: se si fa uguale a 100
la spesa pro capite di Firenze per tutti i consumi culturali al 1971, due anni
dopo scopriamo che si è accresciuta fino a 179; i corrispondenti valori di altre
grandi città «consumatrici di cultura», sono, nell’ordine, 138 per Milano, 97
per Bologna, 85 per Venezia, 74 per Roma (meno della metà di Firenze). Che
è una città nella quale per tutti gli spettacoli si sono spese nel 1981, 83.000
lire a testa, mentre a Bologna ne spendevano 75.000, a Milano solo 65.000, e
ancor meno a Venezia e a Roma (rispettivamente, 65.000 e 40.000). Certo la
cultura non può esser ridotta alle manifestazioni musicali e teatrali: esistono,
per esempio, anche i musei, i libri e le riviste; i visitatori dei musei fiorentini
che erano 3.330.000 nel 1971 sono 4.500.000 circa dieci anni dopo; le opere
pubblicate dall’editoria locale passano, lungo lo stesso intervallo di tempo,
da 1.382 a 1.524 e, per quanto l’editoria fiorentina sia notoriamente in
condizioni non particolarmente brillanti da tempo, rappresenta pur sempre un
apprezzabile 8-10 per cento del complesso delle attività editoriali del paese.
Né, per la cultura, spendono solo i privati. Anzi. Il comune di Firenze, per
esempio, che destinava a queste attività 580 milioni nel 1975 ha accresciuto
i suoi stanziamenti di 13-14 volte (i dati sono riferiti al 1984: nel 1985
le ristrettezze della finanza locale hanno ridotto l’aumento al livello più
basso, ma pur sempre apprezzabile, di 10 volte). Una spesa culturale che
si ripartisce per il 31 per cento alle attività musicali, per il 23 in convegni
e contributi alle istituzioni culturali, per il 20 alle arti visive, per il 13 alle
attività teatrali, mentre agli altri settori vanno le rimanenti quote.
132 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
E fin qui s’è considerata la cultura dal punto di vista della distribuzione
e del consumo, ammesso che tutti concedano pacificamente l’uso di questi
termini quando si tratta di cultura. Chiedendo venia a eventuali obiettori,
si vorrebbe andare a vedere a quante persone diano lavoro le attività
culturali, per esempio in Toscana. Gli addetti al settore culturale «allargato»
(comprendente, cioè, anche la scuola) sono, nel 1981, quasi 140.000, ed
erano poco più di 76.000 solo dieci anni fa: come a dire che c’è stato un
cospicuo balzo di quasi l’80 per cento, tant’è che alla fine del decennio le
attività culturali coprono il io per cento del complesso dei posti di lavoro
in Toscana e ne assicuravano solo 6 dieci anni prima. Si tratta di livelli di
incidenza e di tassi di crescita che lasciano indietro diversi settori produttivi
dell’industria toscana. Che volume di spesa genera quest’occupazione nelle
attività culturali? Quanta attivazione di produzione nel complesso di tutte
le attività economiche la spesa di quei redditi da lavoro induce?
E poi, la produzione specifica dei beni e dei servizi culturali, quanto
concorre al prodotto interno lordo, qual è il grado di interdipendenza che la
collega ai settori che forniscono a questa attività gli inputs di materie prime, di
prodotti intermedi, di servizi? Si immagina senza sforzo alcuno come si possa
ritenere blasfemo parlare di attività culturali, e quindi presumibilmente di arti
visive, di musica, di letteratura, poesia, ecc., come se si trattasse di settori
industriali. Eppure il collegamento diretto fra cultura ed economia (che ora si
instaura regolarmente ed anzi rappresenta un nuovo e assai dinamico campo
di ricerca: Minon, 1986) non è cosa di questi ultimi anni iconoclasti. «I teatri,
signori, danno un notevole impulso all’industria cittadina la quale, a sua volta,
alimenta la vita delle industrie di provincia. Tutte le branche del commercio
ricevono qualcosa dal teatro. I teatri della città danno da vivere direttamente
a 10.000 famiglie, in trenta o quaranta mestieri diversi; occupano, ognuno
di loro, centinaia di operai e versano annualmente nella circolazione della
ricchezza una somma che, secondo cifre incontestabili, non può essere valutata
a meno di 20 o 30 milioni». La cifra, francamente, può sembrare modesta: ma
lo sembrerà assai meno se si tiene presente che la città cui ci si riferisce è
Parigi, l’oratore Victor Hugo in un suo intervento all’Assemblea costituente,
la data in cui fu pronunciato il discorso il 17 luglio 1848. Questo reperto,
ammesso che non sia possibile trovarne di precedenti, dimostra la possibilità
che l’approccio economico ai problemi della cultura sia suggerito non da un
economista ma da un artista. In realtà, per tornare a più serie considerazioni,
viene crescendo, nel mondo obiettivamente più che da noi in Italia (Leon,
1985), la consapevolezza che l’incidenza economica del consumo e della
produzione di cultura, in termini di occupati, di contributo al prodotto interno
lordo e di attivazione di altri settori ha raggiunto ormai livelli tali da meritare
non solo attenti studi ma anche opportune preoccupazioni per quanto riguarda
i profili dell’efficienza e dei rendimenti (Gouiedo, 1986).
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 133
Altri tipi di raccordo tra economia e cultura, ovviamente molto diversi
da quello di cui si è fin qui parlato, son quelli che passano, per esempio,
attraverso le attività connesse alla produzione dell’immagine e alla moda.
Quanti artisti e scrittori lavorano per la pubblicità? Nessuno ormai si
scandalizza se le sfilate di moda si tengono nei più prestigiosi sacrari della
prosa, della lirica o delle arti visive. Talvolta si esagera, magari, come
quando si intende assoldare una illustre e veneranda opera d’arte per farne
un agente pubblicitario di prodotti di largo consumo. L’esperienza non
molto tempo fa toccò, a Firenze, al povero David di Michelangelo messo a
vendere cravatte. Ma ci sono collegamenti anche di tipo diverso, quelli nei
quali la moda chiede alla scienza e alla cultura il loro apporto: un segno,
per ora modesto ma probabilmente destinato a svilupparsi, è quello che si
può riconoscere nella istituzione, sempre a Firenze, di un politecnico della
moda realizzato in collaborazione con uno dei più rinomati, se non il più
rinomato, centri di ricerca e formazione nel campo della moda, il Fashion
Institute of Technology di New York.
Già, la moda: un settore, o meglio un complesso di attività produttive che,
se n’è detto più sopra, si attribuisce la metà di tutta la nuova occupazione
manifatturiera generata durante gli anni ‘70. Queste attività produttive
rappresentano, e si è avuto modo di farvi cenno più volte nel corso di queste
pagine, un vero e proprio asse portante dell’economia regionale. Se ne
vedano alcuni indicatori sommari riferiti al 1981: 200.000 occupati, pari al
16 per cento dell’occupazione nazionale in questi settori, che corrisponde
al 41 per cento dei lavoratori del settore manifatturiero in Toscana. Le
produzioni della moda alimentano un volume di esportazione di oltre 3.000
miliardi, il 23 per cento dell’esportazione della moda nazionale, la metà
di tutta l’esportazione regionale, e che si incrementa, proprio nel corso di
questi ultimi quattro anni, di un cospicuo 63 per cento.
Ma le cifre sin qui riferite riguardano una definizione molto riduttiva
del sistema della moda: le industrie delle pelli e del cuoio, delle calzature,
dell’abbigliamento e l’industria tessile. In realtà, il sistema della moda,
in una corretta visione organica, deve comprendere il complesso delle
produzioni attivate e sostenute dalla produzione dei beni finali. Materie
prime, accessori, macchinari, attrezzi, materiali ausiliari, servizi alle
imprese, rete distributiva sono i raggruppamenti delle attività produttive
di beni e di servizi che compongono il «sistema della moda» come entità
economico-organica. Anche a prescindere dai profili culturali, psicologici e
sociali strettamente interrelati alle fenomenologie di un sistema produttivo
come quello della moda (Simmel, 1985), così connesso agli stili di vita,
alle aspirazioni personali, alle convinzioni ideologiche, allo status sociale,
si intende subito la povertà di un approccio economicistico e settorialistico
che faccia del «sistema della moda» un semplice aggregato di settori
134 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
produttivi. E tuttavia, rimanendo sempre all’interno di un approccio
angustamente economicistico, si deve sapere che il sistema della moda,
organicamente considerato, dà lavoro in Toscana ad oltre 240.000 addetti,
come dire il 17 per cento di tutta l’occupazione regionale, il doppio della
corrispondente incidenza a livello nazionale, a ulteriore testimonianza
della elevata specializzazione della Toscana in questo campo.
Turismo, cultura e moda: 360.000 posti di lavoro in Toscana, il 28 per
cento di tutti i posti di lavoro della regione. Che senso ha, si potrebbe
osservare, sommare insieme entità così eterogenee? Certo, non è difficile
stabilire i collegamenti che da tanti anni, e poi a Firenze!, si stabiliscono
nell’ideologia non meno che nella pratica quotidiana di bottega. Il David
attira turisti a Firenze e valorizza le più rinomate marche della moda
locale: una rapida occhiata al David e poi si vende l’abito, la borsetta, le
scarpe. Un collegamento di tale natura era ben presente, anche se in forme
meno rozze di quelle enunciate talvolta oggigiorno, al gruppo dirigente
fascista fiorentino degli anni ‘30, che all’insegna del trinomio turismoartigianato-cultura
(Palla, 1978) elaborò una nuova edizione del radicato
atteggiamento antindustrialista dei dirigenti toscani (Mori, 1960), declinato
questa volta in versione urbana, esplicitamente mirato al consenso dei
ceti medi del commercio, dell’artigianato e degli impieghi. Si può forse
ipotizzare un approccio più elaborato che non parte programmaticamente
dall’interazione fra i tre aggregati di attività. Il ragionamento che si è fatto
per il sistema della moda, di non considerarlo unicamente e riduttivamente
in termini di attività produttive finali, per valutare tutto il complicato
reticolo di interdipendenze che lo legano agli altri settori, potrebbe esser
replicato anche per la cultura ed il turismo. Si avrebbe allora la possibilità
di apprezzare, nella loro reale interezza, l’entità economica di questo
complesso di attività e il ruolo che svolge nell’economia regionale. Ma il
ragionamento si deve, anzi si vuole, fermare qui.
Non senza prima aver ricordato alcuni segnali, magari timidi e, non si
può escludere, destinati persino a spegnersi tra breve, che rivelerebbero
l’esistenza di fermenti di novità in ciascuno di questi settori. Si affastellano
qui, senza alcuna pretesa di ordine né di sistematicità, alcuni di questi
sintomi: il crescente interesse per il turismo di studio, strettamente collegato
alle localizzazioni fiorentine di prestigiose fondazioni culturali estere
o di sedi di università straniere, per non dire dell’Istituto Universitario
Europeo; le forme nuove e meno appariscenti che assume il turismo
giovanile veicolato da associazioni, scuole e università; il contributo non
marginale che i flussi turistici più specializzati danno all’incremento della
domanda locale di attività culturali, sì da consentire significative economie
di scala e, in molti casi, un numero maggiore di repliche; il turismo legato a
ispirazioni ambientaliste che non di rado trova in Toscana destinazioni che
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 135
soddisfano questa domanda particolare; l’espansione tumultuosa del turismo
congressuale, che è ormai diventata una delle forze traenti della crescita
della domanda turistica internazionale; il germinare nel campo della moda
di tendenze innovative, introdotte, come si dice, da «creativi» delle giovani
generazioni, che fanno moda più o meno con lo stesso approccio con cui
si fa ricerca artistica d’avanguardia (manifestazioni come Pitti Trend e
riviste come «Westuff» ne sono alcune delle più interessanti espressioni);
i collegamenti inusuali che la moda stabilisce con l’avanguardia musicale,
che ha in Firenze alcune delle sue manifestazioni più interessanti (si pensa al
gruppo dei Litfiba) e nell’area metropolitana alcuni dei suoi luoghi deputati
(si pensa a un locale come il Manila). Che cosa siano le attività culturali
per Firenze e cosa potrebbero -meglio: dovrebbero- diventare, al di là delle
mega rassegne medicee o etniche e degli avventurosi anni della cultura
europea, è cosa ben familiare agli operatori e agli amministratori locali. Si
vuol solo avanzare un interrogativo: nessuno può dire cosa potrebbe sorgere
(e forse sta già sorgendo) dalle interazioni spontanee che questi insiemi di
attività pongono in atto (Biennal, 1985). Se ci si ricorda, poi, del ruolo che
hanno a Firenze i servizi più direttamente collegati alla produzione e alla
valorizzazione dell’immagine (marketing, promotion, pubblicità, design,
ecc.) si può identificare una sorta di agente di collegamento. Passerà per un
nuovo trinomio, questa volta turismo-cultura-moda, una delle possibilità di
sviluppo per la Toscana o, meglio, della Mitteltoskana?
Attenzione! In questa ipotesi non c’è la minima indulgenza a sismondismi
di ritorno né la minima reviviscenza di nostalgie antindustrialiste. Se è
vero, come molti sintomi lasciano presagire, che non tornerà (per fortuna,
non tornerà) un nuovo boom consumistico all’insegna dell’usa-e-getta,
mentre dovrebbe ancora dilatarsi il tempo di non-lavoro (augurabilmente
non in termini di disoccupazione) cambieranno, ma stanno già cambiando,
i modelli di consumo. Il tempo libero sarà meno intenso di consumo di beni
e più intenso di consumo di servizi (viaggi, musica, teatro). Si consumerà
più tempo che cose, insomma. Uno «stile di vita più sobrio e raffinato»
come si preconizzò nel dibattito seguito alla pubblicazione dei Limiti dello
sviluppo. E il concetto di raffinatezza evoca quello di moda.
In questi ultimi abbozzi di ragionamento ci si rende conto di aver toccato
soglie perigliose. Chi non aveva mai mandato giù la deviazione dell’operaio
medio toscano rispetto allo stereotipo Cipputi in tuta blu, si straccerà le
vesti di fronte alla prospettiva di addetti al terziario qualificato privi del
camice bianco di prammatica e magari agghindati secondo le vistose fogge
di Pitti Trend. Ma il timore maggiore riguarda le reazioni di quanti hanno
continuato a vedere il fantasma di Bettino Ricasoli dietro l’industria tipica
e potrebbero ora essere indotti a scambiare un dark dell’Arci-Kids per un
redivivo Pavolini in orbace.
136 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
D’altra parte -e sia detto qui senz’ombra di celia- l’imprevedibile
Toscana ha riserbato, nella sua storia recente, molte sorprese agli analisti
dello sviluppo: si rifiutò di decollare, quando tutto induceva a pensare che
l’avrebbe fatto, negli anni attorno all’Unità; si industrializzò, prima alla
bell’e meglio, poi sempre più robustamente, a partire da anni nei quali
nessuno avrebbe scommesso un centesimo -e sono gli anni del secondo
dopoguerra- sulle possibilità industriali della Toscana.
«La storia non è magistra di nulla che ci riguardi» ammonisce il verso
montaliano. Ma la «storia» dello sviluppo toscano di questo dopoguerra
ci dovrebbe aver impartito almeno la lezione di non intestardirci a cercare
il futuro solo fra ingegneri, informatici e robot: si potrebbe manifestare
anche sotto le spoglie di stilisti e tour-operators, di giovani stagiaires e
specialisti di restauro, di portieri d’albergo e professori di musica.
O non ci son voluti vent’anni perché ci si accorgesse che lo sviluppo
che ci si attendeva dalla grande fabbrica, tetti a shed e ciminiere di rito,
veniva invece messo in moto da impannatori e buyers, tessitori per conto
terzi e lavoranti a domicilio? E lì per lì non se ne accorgeva nessuno, forse
nemmeno gli stessi protagonisti, a tutta prima. Certo non gli scrittori.
Nessuno scrittore ha cantato le lodi dell’industria tipica toscana. Ossia,
di un’industria tipica le lodi furon cantate da Lucio Mastronardi: ma si
trattava degli scarpai di Vigevano.
Turismo, moda e cultura sono attività ben provviste di appeal e chissà
che non riescano -prima che se ne avvedano politici e studiosi- a eccitare
l’immaginazione di un romanziere, come fece l’industria metalmeccanica
fiorentina sul Pratolini della Costanza della ragione e che perfino
l’industrializzazione del Mezzogiorno riuscì a suscitare, se si pensa al
Donnarumma all’assalto di Omero Ottieri.
Dunque: turismo, moda, cultura? Chissà...
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 137
Riferimenti bibliografici
Premessa
Questo scritto -che dedico alla memoria della mia compagna- non è, come si vede
agevolmente, un lavoro di storia: le mie competenze e la vicinanza del periodo di
cui tratto (1971-85, ma con qualche temerario spenzolamento sul futuro prossimo)
lo avrebbero, in ogni caso, impedito. Ma questo scritto non è nemmeno un
lavoro scientifico in senso stretto, dato che in esso vi si mescolano liberamente
(ma confido non inconsapevolmente) sintesi di precedenti ricerche, spezzoni di
ricerche ad hoc, commento di dati e semplici opinioni (talvolta molto) personali.
Mi sono comunque sforzato di rappresentare obbiettivamente i fatti e di tenerli
distinti per quanto mi è stato possibile dai miei convincimenti.
Data questa natura dello scritto ho ritenuto ridondante indicare nel testo le fonti
pubblicistiche, documentali e statistiche dei brani e dei dati, mentre ho limitato
alle sole opere citate i riferimenti bibliografici che seguono.
Avverto, tuttavia, il dovere di precisare che:
-
-
quando non diversamente indicato, le citazioni riferite alla Cgil e alla
Federazione sindacale unitaria son tratte da note distribuite in occasione di
conferenze stampa (in genere annuali), quelle riferite al Pci dai documenti dei
congressi regionali;
ho preso in considerazione solo le posizioni del sindacato e del Pci per
due ragioni: sono i soli organismi che si interessano con continuità dello
sviluppo regionale (altri partiti se ne sono occupati solo sporadicamente e con
dichiarazioni personali non si sa quanto corrispondenti a posizioni ufficiali del
partito, ammesso che vi fossero); mi premeva di più discutere gli atteggiamenti
del partito e del sindacato in cui milito.
I dati del testo sono di norma ricavati dalle serie dei censimenti Istat. Altri
dati (di base o elaborati), stime e valutazioni quantitative sono di fonte Irpet
(pubblicazioni, lavori in corso e note interne). I testi Irpet di cui più mi sono avvalso
(oltre alla serie dei Rapporti annuali dell’Istituto dal 1973 al 1985) sono compresi
nei riferimenti bibliografici. Colgo l’occasione per ringraziare collettivamente tutti
i miei collaboratori dell’Istituto per l’apporto di idee e di informazioni che (spesso
senza nemmeno saperlo, credo) il loro lavoro ha dato al mio.
E voglio poi ringraziare quanti, in vario modo, hanno qualche responsabilità
di questo scritto. Ringrazio, anzitutto, Giorgio Mori, per il grande onore che mi ha
fatto chiamandomi a collaborare al suo libro, ma anche per aver voluto discutere il
progetto del mio lavoro e per il costante incitamento durante la sua realizzazione. Con
Giacomo Becattini ho un debito di gratitudine, contratto nella ventennale discussione
sulle cose della Toscana, sì che mi resta difficile distinguere le sue dalle mie idee. Li
sollevo, come si deve, da ogni responsabilità per l’eventuale cattivo uso fatto dei loro
consigli: ma non posso ritenerli innocenti del mio modo di guardare allo sviluppo
della Toscana, che è largamente tributario del loro insegnamento. Un grazie fraterno
a Fabio Sforzi, rigoroso interlocutore nel comune scrutinio delle vicende regionali,
per rapporto critico a punti sostanziali di queste note. Sono grato a Giuseppe Pozzana
e Antonio Floridia per il prezioso aiuto nella raccolta della documentazione. Lascio
per ultimo il riconoscimento che più mi preme, quello a Cristina Caldonazzo: senza
138 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
il suo affettuoso pungolo e la sua intelligente collaborazione questo lavoro non
sarebbe mai stato cominciato né finito.
AA.VV., Turismo e centri d’arte, Milano 1982.
- Capitalisme et industries culturelles, Grenoble 1984. Va detto che
l’atteggiamento fortemente critico di questo testo verso l’industria culturale
è esemplificato dalla sua epigrafe: «La culture de modernité est produite
industriellement, sous garantie d’État».
- Processo di urbanizzazione dell’area Firenze-Prato-Pistoia,
Documentazione e atti della prima fase della Conferenza per il
coordinamento degli interventi di pianificazione territoriale nell’area
(Firenze, 22-24 marzo 1984), Firenze 1984.
Andersson A., Knowledge Intensity and Product Cycles in Metropolìtan Regions,
Iiasa, Working paper, 1984.
Api-Toscana, Piccole e medie industrie e comunità europea. Una sfida per gli anni
Ottanta, Firenze 1981.
Bagnasco A., Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano,
Bologna 1977.
- (a cura di), L’altra metà dell’economia, Napoli 1986.
Bagnasco A. e Trigilia, C. (a cura di), Società e politica nelle aree di piccola
impresa. Il caso della Valdelsa, Irpet, Milano 1985.
Bartolini G., Regioni rosse e intervento nell’economia, in «Politica e società», vi
(1981), n. 1-2.
Becattini G., Prospettive dell’inserimento della Toscana nella programmazione
economica nazionale, inUrpt, 1963.
- (a cura di), Lo sviluppo economico della Toscana, Irpet, Firenze 1975.
Un completamento di questo testo, per quanto riguarda soprattutto gli
aggiornamenti alle vicende successive al 1975, è Irpet, 1980.
Becattini G. e Bianchi G., Sulla multiregionalità dello sviluppo economico
italiano, in «Note economiche», 1982, n. 5-6. In questo scritto si
mette in guardia, appunto, da frettolose conclusioni sostenendo che
«l’industrializzazione diffusa di questo dopoguerra non dovrebbe essere
pensata semplicemente come un processo di espansione all’est e al sud di
un centro di industria preesistente, ma come un processo più composito
in cui le rilocalizzazioni di imprese dal nord-ovest e le altre forme di
induzione diretta, che certamente vi sono state, costituiscono solo una
parte -e non decisiva- di un movimento complessivamente caratterizzato
da esplosioni di imprenditorialità locale». L’argomentazione è ripresa e
sviluppata in Becattini e Bianchi, 1985.
- Analisi dello sviluppo regionale «versus» analisi multiregionale
dello sviluppo, in Bianchi G. e Magnani I-, L’analisi dello sviluppo
multiregionale: teorie, metodi, problemi, Milano 1985. Questo volume
collettivo presenta una rassegna, tutto sommato rappresentativa, degli
approcci e delle « scuole » che si confrontano nell’interpretazione della
multiregionalità.
Beli B., The Coming of Post-Industrial Society, London 1974 (Beli è ritenuto il
coniatore della locuzione «postindustriale»),
Bellandi M., L’innovazione diffusa (mimeo), Università di Firenze, Dipartimento
di Scienze Economiche (in corso di stampa).
Bertolino A., Caratteri e problemi dello sviluppo economico regionale con
particolare riguardo alla Toscana, in Urcciaat, 1963.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 139
Bianchi G., L’esperienza di programmazione regionale in Italia, in AA.VV.,
Programmare, amministrare, Roma 1979.
- L’analisi dello sviluppo industriale a scala regionale. Elementi da uno
studio di caso sull’industria intermedia in Toscana, Cespe/Crs, in «La
programmazione regionale», Quaderno n. 1, Roma 1980.
- L’area fiorentina; genesi di una formazione metropolitana, in «Politica e
società», VII (1982), n. 1.
Biennal, Catalog de la I Biénnal de Produccions Culturale Juvenils de l’Europa
Mediterrània (Barcellona, 15-24 novembre 1985). Il programma
della Biennale comprendeva esposizioni, performances e rassegne
di architettura, arti plastiche, design, grafica pubblicitaria, danza,
fotografia, fumetto, moda, musica, prosa e poesia, teatro, cinema, video.
La gamma delle forme espressive presenti testimonia della singolare
interazione, multidisciplinare si direbbe, che rende difficile collocare i
«giovani creativi» nell’una o nell’altra specializzazione. Alla Biennale
di Barcellona era presente una nutrita rappresentanza dei «creativi»
fiorentini. Particolarmente apprezzati gli stilisti più innovativi che hanno
nella rassegna fiorentina Pitti Trend uno dei loro punti di riferimento.
Blair J., Economie Concentration, New York 1972.
Bresso M. e Zeppetella A., Il turismo come risorsa e come mercato, Milano 1985.
Bruckmann G., The Long Wave Debate, in Bianchi G. e altri, Long Waves,
Depression and Innovation: Background Material, Siena-Firenze 1983.
Bruni L., Evoluzione e prospettive di sviluppo della popolazione e dell’occupazione
in Toscana, in «Arti e Mercature», 1964, n. 5-6.
Bulgarelli G., Sistema territoriale e imprese, in Atti della II Conferenza regionale
sulla politica industriale, Regione Emilia-Romagna, Bologna 1984. Si tratta
di un atteggiamento che è una costante dei dirigenti comunisti emiliani.
Il presidente della Regione non esita due anni dopo a parlare di «modello
emiliano» di stato sociale («welfare state all’italiana» titola «il manifesto»
del 13 giugno 1986, l’articolo con l’intervista a Lanfranco Turci) a proposito
della qualità dei servizi sociali emiliani. Ma l’intervistato, lo nota lo stesso
giornalista, si preoccupa «di esporre i problemi piuttosto che i successi».
Campos-Venuti G. e altri, Firenze: per una urbanistica della qualità. Progetto
preliminare di piano regolatore, Venezia 1985.
Cantelli P., L’economia sommersa, Roma 1980.
Cantelli,P. e Paggi L., Strutture sociali e politiche delle riforme in Toscana, in
«Critica Marxista», x i i (1973), n. 5.
Censis, Firenze tra tendenze evolutive e modificazioni strutturali interne,
Roma 1984. Cgil-Comitato regionale della Toscana, Indicazioni per un
programma sullo sviluppo economico della Toscana, Firenze 1967.
Chiarello F., Economia informale, famiglia e reticoli sociali, in «Rassegna italiana
di sociologia», XXIV (1983), n. 2.
Crpet-Comitato regionale per la programmazione economica della Toscana,
Suddivisione della Toscana in zone economiche di programma, a cura di
Maestro R., 1968.
Ferrelli N., La prospettiva istituzionale europea e i riflessi finanziari della
programmazione regionale, Firenze 1981.
Fiorelli F., Programmazione regionale in Italia. Metodi ed esperienze, Svimez,
Milano 1979.
Floridia A., Fisiologia e patologia dello sviluppo toscano, in «Politica e società»,
vi (1981), n. 1.
140 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Fuà G. e Zacchia C. (a cura di), Industrializzazione senza fratture, Bologna
1983.
Gershuny J.I., After Industriai Society? The Emerging Self-Service Economy,
London, 1978.
Goglio S. (a cura di), Italia: centri e periferia, Milano T982.
Gotti E. e Frattali L., Firenze innovazione - Progetto per la diffusione
dell’innovazione tecnologica alle piccole imprese nell’area fiorentina,
Irpet, Firenze T984.
Gouiedo L., Cultural Accounting Frameworks: Prospects and Problems, paper
presentato alla IV Conferenza internazionale sull’economia della cultura
(Avignone, 12-14 viaggio 1986).
Graziani A. (a cura di), Crisi e ristrutturazione nell’economia italiana, Torino
1975. Il volume raccoglie le relazioni di un convegno del febbraio 1974.
Igm-Istituto Geografico Militare, Dall’Italia immaginata all’immagine dell’Italia,
catalogo della mostra omonima (Firenze, 8-27 maggio 1986).
Iiasa-Irpet, Onde lunghe. Cicli economici di lungo periodo e transizione postindustriale,
selezione dei contributi presentati alle conferenze internazionali
di Firenze-Siena (ottobre 1983) e Weimar (giugno 1985), in corso di stampa.
Si veda in particolare: Bianchi G., Casini Benvenuti S., Maltinti G., Onde
lunghe. Take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna.
Innocenti P., L’industria nell’area fiorentina, Associazione degli Industriali della
provincia di Firenze, Firenze 1979. Un ponderoso volume ricco di dati,
rappresentazioni e riferimenti bibliografico-documentalistici, che ne fanno
un repertorio preziosissimo per lo studio dell’articolazione produttiva
dell’area dal 1861.
Innocenti R., Piccola città, piccola impresa, Milano 1985.
Irer-Istituto di ricerca della Lombardia, Progetto Milano. Tecnologie e sviluppo
urbano, Atti della I Conferenza intemazionale (Milano, 15-16 giugno
1984), Milano 1985.
- Progetto Milano. Tecnologia, professioni e città, Atti della II Conferenza
internazionale (Miland, 25 gennaio 1985), Milano 1986.
Irpet-Istituto di ricerche per la programmazione economica della Toscana, Lo
sviluppo economico della Toscana: un’ipotesi di lavoro, Firenze 1969. È,
in assoluto, il primo studio in Italia ad occuparsi dello «sviluppo diverso»,
sostenuto, cioè, dalle piccole imprese dei settori cosiddetti «maturi».
Non si trova nessuno scritto anteriore a questa data nelle pur attentissime
bibliografie di Fuà e Zacchia, 1985; e Bagnasco, 1986. Questo documento
rappresenta la prima uscita importante dell’Istituto, che era stato costituito
da un anno, su iniziativa del Comitato regionale per la Programmazione
economica della Toscana, col determinante concorso degli enti locali e la
partecipazione di camere di commercio, organizzazioni di categoria, ecc..
L’Irpet fu trasformato in Istituto regionale con la legge 10 agosto 1974, n.
48, che gli assegnava il compito «di provvedere agli studi e le ricerche per
gli atti della programmazione regionale». La continuità fra i due Istituti fu
sottolineata col mantenimento dell’identica sigla.
Irpet-Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana, Lo
sviluppo economico della Toscana: problemi e prospettive, Firenze 1976.
Sono qui contenuti gli atti integrali del seminario che mise abbastanza il
campo a rumore se, cinque anni dopo, si richiamano, i termini essenziali
di quella discussione con un articolo in «Politica e società», vi (1981), n.
1-2, «ricordando un dibattito del ‘76».
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 141
- Criteri di ripartizione territoriale della Toscana 1754-1973, documento
interno, Firenze 1977.
- Nuovi contributi allo studio dello sviluppo economico della Toscana,
Firenze 1980.
- La Toscana nel quadro del commercio mondiale. Un’analisi delle quote
di mercato delle esportazioni regionali, Firenze 1982.
- Rapporto sullo sviluppo dell’area fiorentina - Consumi e strutture
culturali, Firenze 1984.
- Struttura ed evoluzione del settore terziario nell’area fiorentina,
Firenze 1986.
- Rapporto sull’economia pubblica della Toscana 1985, Milano 1986.
Kutscher R.E, Tendenze e prospettive dei posti di lavoro e delle professioni negli
Stati Uniti, in Irer, 1986. Negli Stati Uniti le professioni che hanno registrato il
massimo incremento, fra 1972 e 1980, sono: segretarie, cassieri, infermieri,
cuochi, camionisti, ragionieri. E le revisioni sulla possibile evoluzione fino
al 1995, ci dicono che le professioni che dovrebbero garantire il maggior
numero assoluto di nuovi posti di lavoro sono custodi, cassieri, segretarie,
impiegati, venditori, infermieri, camerieri, camionisti, ragionieri. Mentre
tecnici informatici, consulenti legali, analisti, programmatori, operatori,
fisioterapisti e ingegneri son le professioni cui si preconizza il più rapido
tasso di accrescimento. Se queste strutture e queste dinamiche professionali
-in Toscana come nel mondo- approssimino o meno un «modello di
transizione postindustriale», ammesso che ci sia, è difficile dire.
Leon P., Valorizzazione del patrimonio storico-artistico e nuovo modello di
sviluppo, relazione al convegno nazionale del Pei, Le mura e gli archi,
Firenze, 6-7 dicembre 1985.
Malfi L., Introduzione a Irsev - Istituto regionale di studi e ricerche economicosociali
del Veneto, Il Veneto a metà degli anni 80, Milano 1986.
Marchetti C., Recessioni ten more years to go, in «Futures», vol. 13, 1976, n. 4.
Mars G., Cheats at Work. An Anthropology of Workplace Crime, London 1982.
Minon M., Comment estimer la valeur économique des activités artistiques?,
relazione presentata alla IV Conferenza internazionale sull’economia
della cultura (Avignone, 12-14 maggio 1986). Una densissima rassegna,
oltre cento memorie presentate, che, affrontando problemi metodologici,
analisi empiriche e studi di caso, ha posto in luce come, fortunatamente!,
si affrontino senza complessi temi osé mediante approcci talvolta anche
molto disinibiti. Alcuni titoli delle memorie presentate danno un’idea di
questa affermazione: «L’image statistique de l’artiste»; «De la scène à
l’image: questions d’étique, d’esthétique et d’economie»; «Productivity of
Performing Art Companies»; «Cultural Accounting Frame-works: How to
Estimate the Economie Value of Artistic Activitìes».
Mori G. (i960), Osservazioni sul liberoscambismo dei moderati nel Risorgimento,
ora in «Studi di storia dell’industria», Roma 1967.
Nacamull, R.C.D. e Rugiadini A. (a cura di), Organizzazione e mercato, Bologna
1985.
Openshaw S. e altri, The Metropolitan Social Structure of Firenze: an Investigation
Using Individual and Aggregate Censis Data, XXII Congresso europeo di
scienze regionale (Gròningen, 24-27 agosto 1982).
Openshaw S. e Sforzi F., Metodologia per l’analisi della struttura sociale urbana.
Classificazione di unità territoriali, Irpet, Firenze 1983.
Paladin L., Le regioni oggi, in «Le Regioni», XII (1985), n.r.
142 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
Palla M., Firenze nel regime fascista, Firenze 1978. Scrive Alessandro Pavolini
su «Il Bargello» dell’8 dicembre 1929: «Se noi fiorentini vogliamo
conservare il primato intellettuale, se vogliamo tendere alla rinascita
artigiana e ovviare alla crisi del movimento forestieri, bisogna che poniamo
i problemi vasti e delicati di questa triplice opera in primo piano». Una
sequenza impressionante di realizzazioni rappresenta l’attuazione pratica
di questo disegno: 1930, «invenzione» del calcio storico (o «calcio in
costume»); 1931, inaugurazione della mostra (allora fiera) dell’artigianato;
1932, istituzione dell’Azienda autonoma di turismo e inaugurazione del
nuovo stadio comunale di Pier Luigi Nervi; 1933, prima edizione del
Maggio musicale e apertura al traffico dell’autostrada Firenze-mare; 1935,
inaugurazione solenne, dopo anni di polemiche, della nuova stazione di
Santa Maria Novella, opera di Michelucci e del suo gruppo.
Paravicini G., L’economia della Toscana. Lineamenti conoscitivi e programmatici,
Crpet, Firenze 1969.
Ranfagni P., Il neo-pragmatismo nell’economia toscana, in «Politica e società», vi
(1981), n. 1-2. Il 3 giugno 1981 la Regione convoca una specie di consulta
sull’economia regionale (vi partecipano fra gli altri P. Leon, A. Bagnasco,
R. Ricci, R. Garavini, R. Cianferoni, oltre a chi scrive, e molti altri) e vi si
vede «una ripresa di quella querelle interpretativa che con tanta passione
culturale accompagnò, nella prima metà degli anni Settanta, i primi passi
dell’ente regione».
Regione Toscana, Proposta di documento programmatico pluriennale, Firenze 1977.
- Documenti del programma regionale, Firenze 1978. Si tratta di
cinque documenti. Il primo, «I problemi della programmazione
economica regionale», motiva «l’urgenza e la necessità del rilancio
della programmazione»; il secondo e il terzo trattano, rispettivamente, di
«Soggetti, condizioni, strumenti» e di «Azioni e politiche di intervento»; il
quinto è il Bilancio 1978-81. La base di analisi è ora fornita dalla Relazione
sulla situazione economica e sociale della Toscana (quarto documento): un
esame degli andamenti congiunturali dell’ultimo anno.
- Istituzione delle associazioni intercomunali, documenti di «Toscana -
Consiglio Regionale», n. 4, novembre 1978.
Regione Toscana, Programma regionale di sviluppo 1979-1981, documenti di
«Toscana-Consiglio Regionale», n. 5, febbraio 1979. È la prima volta che si
usa la dicitura formale «Programma regionale di sviluppo». Tornano elementi
di analisi strutturale, mirati prevalentemente a vedere se e di quanto la Toscana
proceda lungo le «scelte strategiche» (qualificazione delle attività produttive
tradizionali, sviluppo dei settori a più avanzata tecnologia, potenziamento
delle attività collegate all’utilizzazione delle risorse agricole, valorizzazione
delle risorse energetiche alternative, ecc.)- Obbiettivi, ovviamente, fuori
dalla portata consentita ai poteri e ai mezzi della Regione.
- Programma regionale di sviluppo 1986-88, documenti di «Toscana
- Consiglio Regionale», 1986. Forse è più di una semplice curiosità
l’espressione con la quale nel documento sembra intuita la possibile sinergia
turismo-moda-cultura di cui si parla in questo scritto. Nel Programma
regionale si segnala, infatti, la necessità di consolidare «il legame tra
attività di produzione, offerta di servizi e retroterra culturale-creativo» in
modo da «affermare inequivocabilmente l’unicità, il valore dell’offerta
toscana (creatività di design e sistema moda, qualità ambientale e offerta
turistica)».
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 143
Ricci R., Nota congiunturale, in «La congiuntura in Toscana», VII (dicembre
1974), n. 12.
- Nota congiunturale, ivi, VIII (ottobre 1975), n. 10.
Sabel C. e Zeitlin J., Alternative storiche alla produzione di massa, in «Stato e
Mercato», 1982, n. 5.
Sforzi F., Identificazione degli ambiti sub-regionali di programmazione, in Bielli M.
e La Bella A., Problematiche dei livelli sub-regionali di programmazione,
Milano 1982.
Simmel G., La moda, Roma 1985 (ma, prima edizione, 1895). Per quanto incredibile
possa sembrare, questo vetusto libriccino rappresenta ancora oggi un punto
di riferimento ineludibile e un esempio di rigore analitico, insuperato nelle
correnti analisi che solo raramente attingono accenti di originalità.
Urcciaat-Unione regionale delle camere di commercio, industria, agricoltura e
artigianato della Toscana, Convegno sui problemi di sviluppo economico
della Toscana, Atti ufficiali, Firenze, 21-23 giugno 1961, Firenze 1963.
- L’economia della Toscana ed i suoi problemi, Firenze 1965.
Urpt-Unione regionale delle province toscane, La Toscana nella programmazione
economica, Firenze 1963.
- La programmazione economica regionale in Toscana (1954-1967),
a cura di G. Mugnaini, G. Bianchi e P. Cantelli, Firenze 1968. Contiene
una cronologia, riccamente documentata e brevemente annotata, di tutte le
iniziative che in Toscana precedono, e sollecitano, l’istituzione dei comitati
regionali per la programmazione economica. Dalla documentazione raccolta
emerge quello che sarà il leitmotiv di quegli anni: la contrapposizione fra
enti locali (attorno all’Urpt) e Camere di commercio. Per un rapido schizzo
della fase platonica (ma culturalmente né inutile né vernacolare) della
programmazione regionale, confronta Bianchi, 1979 e Fiorelli, 1979.
Varaldo L. (a cura di), Ristrutturazioni industriali e rapporti fra imprese, Milano
1979. Si tratta, probabilmente, della prima ricerca in Italia che analizzi
sistematicamente le conseguenze della specializzazione per fasi di processo
e parti di prodotto, del decentramento produttivo, ecc. Sui rapporti fra
imprese non esclusivamente in termini di transazioni di mercato, vedi
anche Nacamulli e Rugiadini, 1985.
Williams R.H. (a cura di), Planning in Europe, London 1984.
Zagnoli P., Le ristrutturazioni delle imprese metalmeccaniche in Toscana, Roma
1982.
144 «Maturità precoce»: una modernizzazione a rischio
ONDE LUNGHE E TAKE-OFFS REGIONALI IN ITALIA E IN GRAN BRETAGNA*
Giuliano Bianchi, Stefano Casini Benvenuti, Giovanni Maltinti
1. Premessa: sviluppo multiregionale e cicli di lungo periodo
La differenziazione multi-regionale dello sviluppo italiano non può
essere ricondotta al semplice schema dualistico Nord-Sud. C’è voluta
tuttavia una disputa durata circa un quindicennio perché fosse accertata
(ed accettata) l’esistenza di una «Terza Italia» (le regioni Centro-Nordorientali)
che cresceva, malgrado l’assenza dei pre-requisiti standard, più
velocemente delle regioni di antica industrializzazione, mentre la crescita
stentava a manifestarsi nelle regioni meridionali, malgrado i considerevoli
investimenti pubblici (IRPET, 1975; Bagnasco, 1977; Goglio, 1982; Fuà-
Zacchia, 1983). In ogni caso nemmeno il modello a «Tre Italie» rappresenta
e interpreta esattamente la complessa multiregionalità italiana (Casini
Benvenuti, 1980; Becattini-Bianchi, 1982).
La molteplice differenziazione multiregionale dello sviluppo italiano,
in effetti, si manifesta in termini di:
-
forme, strutture e livelli di crescita che -vale la pena di rilevarlo- porta
a riconoscere la coesistenza, a un dato momento, di regioni a differenti
fasi di sviluppo;
- ritmi e direzioni del cambiamento strutturale in corso;
- comportamenti congiunturali, come reattività agli impulsi ciclici e
all’impatto delle politiche nazionali e dei processi internazionali.
Sulla base di queste differenziazioni (e delle corrispondenti similarità)
le regioni italiane possono essere raggruppate in «famiglie», che si
diversificano, tra l’altro, rispetto ai tempi del decollo industriale.
Si considerino ad esempio simultaneamente gli andamenti (Graf. 1) dei
livelli di industrializzazione e di popolazione, nelle regioni italiane fra il
1951 e il 1981, sulla scorta di due indicatori (apparentemente) assai semplici
come quelli degli addetti all’industria per 100 residenti e della popolazione
residente totale (fatto 100 il valore 1951) e con una periodizzazione non
più impegnativa di quella delle date dei censimenti. La rappresentazione
distingue chiaramente il comportamento «post-industriale» (Piemonte,
Lombardia) o «declinante» (Liguria) delle regioni del «Triangolo
industriale», il comportamento espansivo, sia pure con segni incipienti di
«maturità precoce» (Toscana, Veneto) delle regioni della «Terza Italia», il
mancato «decollo industriale» delle regioni del Sud.
* Testo contenuto in Note Economiche, 3, Monte dei Paschi di Siena, 1987, pp. 167-189.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 145
Grafico 1
I «ONDATE» REGIONALI DI SVILUPPO (1951-81)
25
20
15
10
5
0
Molise
Abruzzo
Umbria
Basilicata
Calabria
Marche
Veneto
Sicilia
Emilia Romagna
Friuli Toscana
Liguria
Trentino
Puglia
Piemonte
Sardegna
Campania
80 90 100 110 120 130 140
Asse orizzontale: popolazione residente (1951=100)
Asse verticale: addetti all’industria per 100 residenti
(valori alle date dei censimenti 1951, 1961, 1971, 1981)
Lombardia
Ricordando che le regioni del «Triangolo» hanno decollato prima della
I Guerra mondiale e che le regioni della «Terza Italia» hanno decollato
dopo la II Guerra mondiale, è sembrato valesse la pena di ricercare una
spiegazione delle differenze di struttura e di comportamento delle regioni,
guardando anche alle differenze temporali fra i decolli delle singole
regioni e fra questi e quello che convenzionalmente si considera il decollo
dell’Italia nel suo complesso.
Il recente -e crescente- nuovo fervore d’interesse attorno a un tema
dell’analisi storico-ecomomica come quello delle «Onde lunghe»,
emblematicamente riassumibile nel nome N.D. Kondratieff, ha riproposto
all’attenzione 1 degli studiosi le successioni di fasi espansive e recessive
dell’economia mondiale raccordate, da un lato, con ondate storicamente
scandite di invenzioni-innovazioni e influenti, dall’altro, sulle date e le
forme del take-off industriale dei vari paesi.
La periodizzazione più consolidata delle fasi ascendenti e delle successive
fasi discendenti colloca la prima Onda Kondratieff, fra il 1790 ed il 1840 e
la seconda fra questa data e la fine del secolo; la fase ascendente della terza
146 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna
Lazio
150
Onda si avvia, infatti, intorno al 1890-95 per esaurirsi con la prima guerra
mondiale e, comunque, col crollo del 1929 (J. Van Duijn, 1983), mentre la
successiva fase recessiva giunge fino alla seconda guerra mondiale; la fase
espansiva della quarta Onda parte, invece, nel dopoguerra per concludersi,
secondo la maggior parte degli analisti, intorno al 1973 quando comincia
l’attuale fase depressiva (Rostow, 1978).
Pareva quindi legittimo interrogarsi circa l’esistenza di un qualche nesso
fra le fasi ascendenti della terza e della quarta Onda e, rispettivamente, il
decollo delle regioni del «Triangolo» nel periodo giolittiano e il vigoroso
sviluppo delle regioni della «Terza Italia» nel secondo dopoguerra.
Una investigazione preliminare ha provato la plausibilità dell’esistenza
di un possibile rapporto fra impulsi delle Onde lunghe e date dei decolli
regionali e, quindi, differenziazioni temporali e spaziali dello sviluppo
considerato multi-regionalmente (Bianchi et al., 1983).
Ecco come, muovendo dallo studio della multiregionalità dello sviluppo
italiano, si è incontrato -diciamo bottom up- il più ampio tema delle Onde
lunghe, normalmente avvertito come assai distante dall’analisi regionale.
Si tratta, invece, di un approccio che sembra non solo rilevante e
fecondo per l’analisi regionale, ma anche specificamente indirizzabile al
cuore della scienza regionale: la spiegazione dei ventagli spaziali dello
sviluppo economico e sociale.
In particolare sembra pertinente un richiamo a due punti principali:
a)
b)
gli effetti spaziali degli impatti dei cicli sono rilevanti per l’analisi
multiregionale, specificamente allo scopo di spiegare la coesistenza,
all’interno di uno stesso paese, di regioni a differenti fasi di sviluppo:
la scarsa attenzione dedicata finora a questo aspetto dell’analisi
multiregionale non deve sorprendere se, come ammonisce Pollard,
«l’elemento regionale è stato trascurato nel passato» anche nel campo
della storia dell’industrializzazione, malgrado il fatto che «la crescita
industriale sia essenzialmente una questione locale piuttosto che una
questione nazionale» (Pollard, 1981);
la scala regionale appare particolarmente appropriata per analizzare
se e come gli impulsi delle Onde lunghe possano influenzare le
prestazioni e i comportamenti di un determinato sistema regionale:
in effetti, a questo livello, le fasi ascendenti e discendenti dei cicli
di lungo periodo possono essere assunte e -in generale- trattate come
shocks esogeni.
Con questo schema di riferimento si riassumono qui di seguito i
principali esiti della verifica empirica del possibile rapporto tra Onde
lunghe e sviluppo multiregionale italiano (con una prima esplorazione dei
probabili fattori del take-off) e i risultati di una nuova applicazione della
stessa metodologia al caso delle regioni britanniche, al duplice scopo di:
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 147
- identificare l’esistenza di possibili regolarità nei comportamenti a lungo
termine delle regioni (o di loro «famiglie»);
- accertare se e come le «leggi tendenziali» che interrelano Onde lunghe
e sviluppi nazionali siano operanti anche a scala regionale.
- L’analisi che segue è basata su due assunti:
- lo sviluppo regionale è espresso dai processi di industrializzazione;
- il processo di industrializzazione può essere significativamente misurato
mediante un solo, e semplice, indicatore: il rapporto fra occupazione
industriale e popolazione.
Il primo assunto è piuttosto consueto all’interno degli studi che trattano
dei movimenti a lungo termine dell’economia dopo la Rivoluzione
Industriale. Il secondo assunto richiede, forse, di essere brevemente
giustificato, almeno allo scopo di render chiaro che il semplice indicatore
qui adottato non è dovuto alla mancanza di dati (una difficoltà, del resto,
ben nota nelle analisi di lungo periodo).
Quando l’analisi è specificamente orientata al cambiamento della
base economica di un determinato sistema dall’agricoltura all’industria la
variabile di controllo è stata in genere proprio la composizione settoriale
della forza di lavoro. La transizione dall’agricoltura all’industria comporta
un notevole incremento nel prodotto agricolo pro capite accompagnato da un
vistoso decremento della forza lavoro rurale. Così la cosiddetta società postindustriale
è caratterizzata da livelli rapidamente decrescenti di occupazione
industriale, ma non necessariamente da decrescenti volumi del prodotto
industriale, il quale è in genere mantenuto e, molto spesso, accresciuto.
2. Fase ascendente della terza Onda lunga (1890-1929) e sviluppo
multiregionale dell’Italia
Si conviene generalmente di collocare il decollo economico dell’Italia
(1894-1913) all’interno della fase ascendente del terzo ciclo Kondratieff.
Se si assume un conveniente periodo (1881-1911) attorno al picco
della crescita italiana e si misura lo sviluppo del paese in termini di nuova
occupazione industriale creata in quel periodo e all’interno di ciascuna
regione, si accerta facilmente che il decollo italiano è generato e costituito
dal decollo delle Regioni del «Triangolo Industriale», cui si deve più
dell’85% della nuova occupazione creata nel periodo.
Allo scopo di spiegare perché e come le economie nazionali compiono il
loro iniziale «grande balzo», la teoria e la storia dello sviluppo economico
fanno largo uso di concetti come: pre-requisiti (Rostow), fattori sociali
e culturali endogeni (Hirschman), precondizioni economiche e non
economiche (Kuznets).
148 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna
Ad ogni buon conto qui non si tratta di spiegare il decollo nazionale (che
si assume come dato), ma di accertare perché certe regioni partecipano e
contribuiscono al decollo nazionale mentre altre regioni no. Perciò sembra
più appropriato per questi propositi adottare la nozione di «caratteri
originari», vale a dire le caratteristiche principali delle varie situazioni
regionali prima dell’avvio del processo di sviluppo (Gerschenkron, 1965).
In altre parole, si assume l’idea (anche se qui la si esprime piuttosto
sommariamente) che sia l’interazione fra i caratteri strutturali socioeconomici
(che sono, entro certi limiti, misurabili), le istituzioni regionali
(sia formali che informali) e la «cultura sociale» locale che seleziona
le regioni più adatte e/o pronte a catturare le opportunità del ciclo
internazionale e del decollo nazionale.
Sebbene consapevoli del ruolo cruciale giocato dai caratteri soft
(istituzioni e cultura sociale), nei limiti di questo semplice esercizio
numerico si considerano solo «caratteri originari misurabili», nella misura
in cui sono rappresentati dagli indicatori di cui alla tabella 1 (la maggior
parte dei quali sono anche più o meno proxies di ciò che è definito come
«pre-requisiti», «fattori endogeni», ecc.). Mediante analisi fattoriale queste
variabili sono state raggruppate in due componenti principali:
-
-
la prima espressiva di una specie di «modernità latente», nel senso di
reattività potenziale dei sistemi regionali agli impatti esogeni;
la seconda correlata alla dotazione di infrastrutture.
Tabella 1
ITALIA. IL TAKE-OFF DELL’ECONOMIA NAZIONALE. I «FATTORI» DELLO SVILUPPO (1897)
FATTORE 1 FATTORE 2
Industria leggera (occupati) - -0,70
Industria pesante (occupati) 0,76 0,82
Occupati maschi/Occupati femmine 0,60
Depositi bancari 0,78
Redditi da capitale 0,78
Redditi da impresa 0,94
Redditi da lavoro indipendente 0,95 0,80
Ferrovie -
Strade -0,51 0,60
Tasso di analfabetismo -0,43
Tasso di mortalità infantile -0,40 -0,61
Docenti universitari 0,75
Giornali e riviste 0,77
% di varianza spiegata 60,80 23,20
Dalla semplice osservazione dei valori assunti dai due fattori in ciascuna
regione (Tab. 2) si nota la grande disparità fra le regioni del Centro-Nord e
quelle meridionali in termini di «modernità latente», ma non in termini di
«dotazione infrastrutturale».
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 149
Tabella 2
ITALIA. SVILUPPO REGIONALE 1881-1911. I «FATTORI» DELLO SVILUPPO
Valori regionali
OCCUPAZIONE FATTORE 1 FATTORE 2
(Var. %)
Piemonte 66,5 38,1 0,2
Lombardia 80,8 55,1 -2,5
Veneto 59,1 -3,6 0,6
Liguria 114,6 119,9 -1,7
Emilia Romagna 34,9 20,0 -0,7
Toscana 41,0 88,4 -0,3
Umbria 33,2 -20,9 5,7
Marche 6,1 18,3 -2,4
Lazio 59,2 222,8 1,0
Abruzzi e Molise -40,5 -111,4 0,6
Campania -2,7 1,2 -3,4
Puglia -3,1 -88,0 -0,9
Basilicata -46,5 -128,6 1,1
Calabria -92,9 -139,4 -1,0
Sicilia 1,6 -52,8 -2,7
Sardegna 21,3 -17,9 7,3
ITALIA 50,9 -1,0 -1,0
L’analisi di regressione, condotta fra la crescita industriale (misurata in
termini di nuova occupazione per 1000 abitanti creata nel periodo 1881-
1911) e i due fattori sopra ricordati, mostra che soltanto il fattore 1 ha una
significativa correlazione positiva con la variabile dipendente (i valori tra
parentesi si riferiscono al valore del «t» di Student).
Y = 9.226 + 1.679F1 + 0.380F2
(2.03) (5.04) (0.76)
R2 = 0.663
La capacità delle regioni di cogliere le opportunità di una fase ascendente
mondiale parrebbe, pertanto, correlata più a caratteri socio-culturali che a
quelli strettamente economici. Si può avanzare il sospetto che il residuo
non spiegato della variabilità degli indicatori possa essere attribuito
all’influenza delle politiche.
In effetti la Toscana «mancò» l’opportunità del decollo italiano,
nonostante fosse robustamente dotata di pre-requisiti, principalmente
anche se non esclusivamente, a causa dell’atteggiamento antindustriale
della classe dirigente toscana (Becattini, 1979).
I dati dei censimenti 1921 e 1936 (Tab. 3), mostrano che nella successiva
fase discendente (1929-1945) della stessa Onda non si verifica alcun
nuovo decollo regionale, mentre le regioni che avevano decollato (quelle
del «Triangolo», cioè) rafforzano la loro posizione, incrementando così le
disparità interregionali.
150 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna
Tabella 3
ITALIA. LIVELLI REGIONALI DI INDUSTRIALIZZAZIONE 1921 E 1936.
Occupati per 1.000 abitanti
1921 1936
Piemonte 148,1 180,4
Lombardia 171,0 210,9
Veneto 106,3 107,4
Liguria 171,5 162,1
Emilia Romagna 101,5 97,8
Toscana 116,8 124,7
Umbria 75,1 85,8
Marche 83,7 82,7
Lazio 100,6 97,7
Abruzzi e Molise 52,5 51,9
Campania 101,3 92,4
Puglia 84,6 94,8
Basilicata 60,1 53,9
Calabria 71,5 60,2
Sicilia 86,8 75,7
Sardegna 67,9 71,2
ITALIA 103,6 111,4
Coefficiente variazione 34,0 41,4
3. Lo sviluppo multiregionale dell’Italia durante la fase ascendente della
quarta Onda (1945-1973)
Il copioso e intricato dibattito sullo sviluppo economico italiano del
secondo dopoguerra ha dato luogo, come si sa, a un ventaglio di differenziate
interpretazioni, anche se c’è fra la maggior parte degli autori un generale
accordo sul ruolo giocato, fra i fattori esterni, da una crescente domanda di
beni di consumo durevoli.
L’analisi si è poi cimentata nella ricerca dei fattori interni che hanno
consentito il decollo delle singole regioni. In modo molto sommario
basterà qui ricordare il ruolo che giocano in queste interpretazioni quei
fattori socioculturali che concorrono a identificare una sorta di «capacità
imprenditoriali» latente.
Perciò alle variabili utilizzate per spiegare il primo «decollo» si
aggiungono, fra i caratteri originari della situazione iniziale del periodo
1951-81, alcune variabili connesse alla stratificazione sociale e, almeno
latamente, rappresentative di una specie di «imprenditorialità latente».
L’analisi fattoriale conduce all’identificazione di due componenti
principali (Tabb. 4 e 5):
-
la prima correlata ai livelli di industrializzazione precedentemente
raggiunti (che presenta elevati valori positivi nelle regioni che erano
decollate in precedenza);
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 151
-
la seconda interpretabile in termini di condizioni sociali e infrastrutturali
per lo sviluppo industriale (la «capacità latente»: che figura con elevati
valori soprattutto nelle regioni Centro-Nord-orientali).
Tabella 4
ITALIA. LO SVILUPPO NEL SECONDO DOPOGUERRA. I «FATTORI» DELLO SVILUPPO (1951)
FATTORE 1 FATTORE 2
Industria leggera (occupati) 0,87 _
Industria meccanica (occupati) 0,91 -
Industria pesante (occupati) 0,67 -
Depositi bancari 0,81 -
Ferrovie - -
Strade - 0,85
Piccola borghesia agricola - 0,81
Piccola borghesia industriale 0,52 -0,58
Tasso di analfabetismo -0,64 -
Tasso di mortalità infantile - -
Docenti universitari - -
Giornali e riviste 0,88 —
Tabella 5
ITALIA. SVILUPPO REGIONALE 1951-1981. I «FATTORI» DELLO SVILUPPO
Valori regionali
OCCUPAZIONE FATTORE 1 FATTORE 2
(Var. %)
Piemonte 45,1 6,8 -10,4
Lombardia 48,2 7,0 0,8
Veneto 62,5 0,7 -4,8
Liguria -21,3 5,3 8,0
Emilia Romagna 81,8 1,1 -4,7
Toscana 56,7 2,5 -2,3
Umbria 56,4 -1,0 -9,6
Marche 86,5 -1,3 -9,3
Lazio 38,6 3,7 8,8
Abruzzi e Molise 34,1 -4,3 -5,3
Campania 11,0 -0,8 8,6
Puglia 25,7 -2,9 8,1
Basilicata 38,4 -6,5 -4,2
Calabria 9,7 -4,9 4,6
Sicilia 17,6 -2,1 9,4
Sardegna 41,4 -4,2 1,3
ITALIA 38,4 1,0 1,0
L’analisi di regressione mostra che soltanto questo secondo fattore ha
una significativa correlazione con la crescita industriale (misurata, come in
precedenza, in termini di nuova occupazione per 1.000 abitanti creata fra il
1951 e il 1981).
Y = 39,05 + 0.428F1 + 2.406F2
(0.12) (3.84)
R2 = 0.663
152 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna
Il ruolo che gioca il secondo fattore nello spiegare la variabilità
si adatta molto bene a ciò che si sa circa il modello di sviluppo delle
regioni della «Terza Italia». L’imprenditorialità latente nella massa dei
lavoratori indipendenti dell’agricoltura e dell’artigianato è stata una delle
forze più potenti dei peculiari processi di industrializzazione avvenuti in
queste aree, caratterizzati, come si sa, dalla proliferazione impetuosa di
piccole imprese, operanti nei settori dell’industria leggera marcatamente
orientati all’esportazione, con cicli produttivi assai specializzati e flessibili
e organizzate spazialmente in sistemi territoriali, ecc.. Poiché i dati qui
utilizzati includono il periodo successivo al 1973 (la crisi petrolifera,
normalmente assunta come il punto di partenza dell’attuale fase discendente
del ciclo), vale la pena di sottolineare le eccellenti prestazioni di queste
regioni durante la corrente fase recessiva, rispetto al comportamento delle
altre regioni. Insomma, le regioni decollate durante il presente ciclo sono
meno colpite dalla fase discendente in corso rispetto alle regioni decollate
nel ciclo precedente.
4. Lo sviluppo multiregionale in una prospettiva secolare: un tentativo di
generalizzazione: il caso italiano
Le diversità di comportamento delle regioni italiane durante le fasi
ascendenti e discendenti della terza e quarta Onda lunga confermano quanto
si sapeva circa l’esistenza di specifici sentieri regionali di sviluppo, sia
pure raggruppabili in grandi «famiglie» quanto a tempi del decollo e stadi
e livelli di industrializzazione raggiunti. Tuttavia, la semplice osservazione
dei dati disponibili relativi al periodo 1861-1981 sembra suggerire anche
l’esistenza di una forma comune dei modelli di crescita.
L’evoluzione dei processi di industrializzazione regionali passa, infatti,
attraverso cinque stadi differenti (più o meno corrispondenti agli «stadi»
rostowiani):
-
-
-
-
-
un decremento nell’occupazione industriale complessiva principalmente
per effetto della riduzione delle forze di lavoro femminili nei settori
tradizionali;
la stagnazione dell’occupazione industriale nella fase immediatamente
precedente l’effettivo decollo;
la rapida crescita a partire dal decollo;
un ridotto incremento di occupazione durante la fase di maturità
industriale;
il declino di tale occupazione nelle economie «post-industriali».
Queste evidenze hanno indotto a tentare una generalizzazione dell’ipotesi
di ricerca, in una duplice direzione;
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 153
- quella della Stima di un’idonea funzione, appropriata per i dati regionali
e nazionali osservati, che permettesse non solo l’apprezzamento dei
movimenti secolari dello sviluppo multiregionale ma anche alcune
interpretazioni preliminari basate sui parametri e i limiti della funzione;
- quella di una comparazione internazionale, allo scopo di accertare,
in via preliminare, se le osservazioni basate sul caso italiano fossero
solo la manifestazione di lungo periodo delle specificità dello sviluppo
nazionale.
A questo scopo si è preso in considerazione l’esempio delle regioni
britanniche, per disporre di due punti significativi di valutazione dello
sviluppo multiregionale in una prospettiva secolare: quello del Paese di più
recente industrializzazione fra i paesi sviluppati e quello della più antica
(anzi, della «prima») nazione industrializzata.
La funzione logistica, spesso impiegata per questo tipo di fenomeni,
non consente di tener conto del primo e dell’ultimo stadio del processo di
industrializzazione prima indicato, così da rendere necessario lo sviluppo
di una funzione logistico-simile, che consenta però il trattamento di tutti e
cinque gli stadi.
Si è così sviluppata la seguente funzione:
(1)
dove:
I =
t-a
e
I = livello di industrializzazione in termini di attivi nell’industria per 1.000
abitanti;
t = anno di riferimento;
a = anno nel quale, dopo il decollo, il tasso di crescita comincia a
diminuire;
b = tasso annuale di crescita;
e = livello di industrializzazione massimo di lungo periodo.
La funzione (1) si adatta molto bene ai dati osservati per le regioni
italiane e per l’Italia nel complesso, salvo poche eccezioni, come mostra
l’indice «U» di Theil (Tab. 6).
Valori dei parametri e comportamento delle curve regionali (Graf. 2)
identificano quattro «famiglie» principali di regioni:
- le tre regioni di più antica industrializzazione, di cui una (Liguria)
declinante e due (Piemonte e Lombardia) in una fase di maturità
post-industriale, che hanno già raggiunto il loro livello massimo di
industrializzazione a lungo termine a valori più alti di quelli di tutte le
altre regioni;
- le regioni «seconde venute» in una fase dì «maturità precoce», con una
crescita industriale che si arresta a livelli più bassi che nelle precedenti
regioni (Toscana, Veneto, Emilia Romagna, ...);
b (t-a) 2 + c
154 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna
-
-
le regioni dello «sviluppo ritardato» (Abruzzo, Basilicata, Sardegna),
il cui livello di industrializzazione a lungo termine sembra rimanere in
ogni caso molto basso;
le regioni dello «sviluppo mancato» (Campania, Calabria, Sicilia), che,
a lungo termine, non raggiungono nemmeno quelli che furono i livelli
iniziali delle prime due «famiglie» di regioni.
Tabella 6
PARAMETRI DELLA FUNZIONE (1). REGIONI ITALIANE E ITALIA 1861-1961
a b e U-Theil
Piemonte 48,9 1,20 164,4 922
Lombardia 53,3 0,47 182,4 965
Veneto 92,5 0,58 140,4 948
Liguria 28,4 2,10 122,8 947
Emilia Romagna 97,7 1,30 139,3 940
Toscana 97,4 0,95 156,3 961
Umbria 94,6 0,72 117,1 946
Marche 99,8 1,50 126,3 929
Lazio … … … …
Abruzzo 99,2 3,20 95,4 907
Campania 90,6 31,60 110,6 934
Puglia 68,7 85,20 104,9 921
Basilicata 100,7 3,60 91,7 929
Calabria … … … …
Sicilia 196,0 0,50 144,1 928
Sardegna 75,9 3,00 79,1 937
ITALIA 84,2 2,20 126,7 968
Grafico 2
INDUSTRIALIZZAZIONE: REGIONI ITALIANE 1861-1981
Addetti all’industria per 1.000 abitanti
240
200
160
120
80
40
Lombardia
Piemonte
Liguria
240
200
160
120
1861 1881 1901192119411961 1981
1861 1881 1901192119411961 1981
80
40
Toscana
Veneto
Emilia
Marche
Umbria
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 155
Grafico 2 segue
240
200
160
120
80
40
Sardegna
Abruzzo
Basilicata
1861 1881 1901192119411961 1981
5. Il caso britannico
240
200
160
120
80
40
1861 1881 1901192119411961 1981
Campania
Puglia
Sicilia
La stessa metodologia è stata tentativamente applicata alle regioni britanniche
sul periodo 1841-1971 per il quale si disponeva dei dati occorrenti.
Tuttavia la forma funzionale stimata per le regioni italiane non si adatta
ai dati britannici che fluttuano attorno al trend secolare di crescita (Graf. 3).
Grafico 3
INDUSTRIALIZZAZIONE: ITALIA 1861-1981 E GRAN BRETAGNA 1841-1981
Addetti all’industria per 1.000 abitanti
240
200
160
120
80
40
Italia
1861 1881 1901192119411961 1981
240
200
160
120
80
40
Gran Bretagna
1861 1881 1901192119411961 1981
156 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna
Così è stata stimata una nuova funzione capace di rappresentare sia il
trend secolare che le fluttuazioni periodiche di lungo periodo.
(2) I = a’ + bt + c’ x sen (dt)
dove:
I = livello di industrializzazione
t = anno di riferimento
a’ = livello iniziale di industrializzazione
b = tasso annuale di crescita
c’ = ampiezza della banda di fluttuazione
d = intervallo temporale fra due fluttuazioni.
La funzione (2) si adatta molto bene ai dati osservati (Tab. 7, che
contiene i valori dei parametri).
Tabella 7
PARAMETRI DELLA FUNZIONE (2). REGIONI BRITANNICHE E GRAN BRETAGNA
a’ b c’* d**
South East 85,67 4,24 8,94 51,37
East Anglia 67,36 2,90 10,30 115,64
South West 82,89 2,07 7,83 57,67
West Midlands 141,04 7,51 7,69 51,17
East Midlands 134,60 3,55 6,56 52,07
North West 222,13 -1,53 4,76 51,87
Yorkshire 207,73 -1,36 4,95 51,47
North 83,99 3,43 13,74 53,07
Wales 55,01 3,87 17,18 52,87
Scotland 139,16 0,76 2,16 46,18
Great Britain 123,94 2,82 6,06 51,57
* (c) qui espresso come percentuale di (a)
** (d) qui espresso in termini di anni
Occorrono poche parole di spiegazione circa le diverse forme funzionali
che i processi di industrializzazione assumono in Gran Bretagna (e nelle
regioni britanniche) e in Italia (e nelle regioni italiane). In entrambi i casi
le traiettorie della crescita muovono attraverso una sequenza a cinque
stadi dal declino iniziale alla fase post-industriale. In Gran Bretagna, data
la lunghezza temporale delle traiettorie, i processi di crescita nazionali e
regionali sono influenzati dagli shocks delle fasi ascendenti e discendenti
delle Onde lunghe, che inducono fluttuazioni attorno al trend di lungo
termine. Quest’ultimo, infatti, assomiglia a una sinusoide che oscilla attorno
ad una linea retta e non assume, come nel caso italiano, la forma logisticosimile,
a causa della mancanza di dati per il periodo che va dal take-off (più
o meno localizzabile attorno al 1780) al 1841, anno di partenza delle serie
statistiche qui impiegate.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 157
D’altro canto le curve italiane non sembrano influenzate dagli impulsi
delle Onde lunghe data la prossimità temporale dei decolli, cosicché si può
assumere che nel caso italiano il trend secolare e le fluttuazioni cicliche e
di lungo periodo si sovrappongano.
I valori dei parametri e l’andamento delle curve relative alla Gran
Bretagna alle singole regioni britanniche (Graf. 4) nel suo complesso
(Graf. 3) consentono anche qui di identificare alcune significative
«famiglie» di regioni:
Grafico 4
INDUSTRIALIZZAZIONE: REGIONI BRITANNICHE 1841-1971
Addetti all’industria per 1.000 abitanti
240
200
160
120
80
40
240
200
160
120
80
40
North West
Yorkshire & Humbershire
1841 1861 1881 1901192119411961 1981
South East
North
Wales
1841 1861 1881 1901192119411961 1981
240
200
160
120
80
40
240
200
160
120
80
40
West Midlands
East Midlands
1841 1861 1881 1901192119411961 1981
Scotland
South West
East Anglia
1841 1861 1881 1901192119411961 1981
158 Onde lunghe e take-offs regionali in Italia e in Gran Bretagna
- le regioni «sovrasviluppate» i cui livelli di industrializzazione fluttuano
attorno ad un trend decrescente sin dall’inizio del periodo qui considerato
(Yorkshire-Humbershire e North East);
- le regioni più «dinamiche» (East e West Midlands) i cui livelli fluttuano
attorno ad un trend di lungo periodo crescente ma che non raggiunge
necessariamente, comunque, i livelli di partenza delle regioni
precedenti;
- le regioni decollate più tardi (Wales, South East, North) che manifestano
una tendenza crescente, il cui livello massimo rimane, in generale, più
basso anche rispetto al punto di partenza del gruppo precedente;
- infine, un gruppo «misto», il cui principale carattere è quello di una
banda di fluttuazione più stretta (Scotland, South West, East Anglia).
I risultati provvisori di un semplice esercizio numerico non consentono,
ovviamente, di andare oltre un preliminare test delle ipotesi di ricerca.
Tuttavia, una volta che si siano ricordate le cautele con le quali vanno
analizzati i risultati di questo tipo e rinviando alle avvertenze conclusive,
sembra legittimo elencare sommariamente alcune ipotesi di ricerca, forse
non definitivamente provate, ma tuttavia non confutate dalle verifiche
che sono state consentite dalle analisi fin qui svolte sui casi delle regioni
britanniche e italiane.
6. Lineamenti delle ipotesi
Nella ricerca di nessi significativi fra gli impulsi delle Onde lunghe e i
decolli regionali si ritiene che -come si è già avvertito- operi un meccanismo
complesso di interazione fra caratteri strutturali socio-economici, fattori
socioculturali e istituzioni locali, nel determinare il perché, il come e il
tempo della partecipazione e del contributo dello sviluppo delle singole
regioni al decollo nazionale, nel senso di capacità a cogliere le opportunità
degli impulsi dei cicli di lungo periodo. Tuttavia questo aspetto non può
essere analizzato in sede comparativa, mancando finora, per le regioni
britanniche, anche la semplice analisi fattoriale condotta per le regioni
italiane nella ricerca dei possibili fattori locali del decollo.
Le ipotesi di ricerca che potranno quindi formare oggetto di valutazione
sulla base dei riscontri empirici fin qui visti riguardano esclusivamente,
per così dire, la «meccanica» dei rapporti tra Onde lunghe e sviluppo
multiregionale.
6.1 Con riferimento alla scala nazionale è stato sostenuto e, entro certi
limiti, dimostrato che i take-offs nazionali si registrano, in generale e
ammesso che si registrino, solo durante le fasi espansive di un’Onda lunga.
Appunti di un programmatore. Firenze, la Toscana e le regioni di Giuliano Bianchi 159
Questa tesi è stata integrata con l’ipotesi secondo la quale «dopo che un
sistema è decollato, sarà meno colpito dalla successiva fase discendente»
(Van Duijn, 1983).
Queste «regole di comportamento» delle Onde lunghe sembrano
confermate anche a scala regionale.
In effetti, l’osservazione dei dati e dei grafici consente di accertare che:
- North East, Yorkshire-Humbershire, Scotland e East Midlands decollano
durante la fase espansiva del primo Kondratieff;
- West Midlands durante la fase espansiva del secondo Kondratieff;
- South West, Liguria, Piemonte, Lombardia durante la fase espansiva
del terzo Kondratieff;
-
-
-
Toscana, Emilia Romagna, Veneto, ecc. durante la fase espansiva del
quarto Kondratieff.
In aggiunta si può constatare che:
nessuna regione, sia in Gran Bretagna che in Italia decolla durante le
fasi depressive dei diversi cicli di lungo periodo;
le regioni che sono decollate durante la fase espansiva di una
determinata Onda lunga sono state meno influenzate dagli effetti della
successiva fase recessiva, o non sono state influenzate affatto, come
provano i comportamenti di Liguria, Piemonte e Lombardia durante la
fase discendente del terzo Kondratieff e i comportamenti di Toscana,
Emilia Romagna, Veneto ecc. durante la fase discendente del quarto
Kondratieff.
6.2 Gli indicatori osservati per i due Paesi e la proiezione della funzione
italiana suggeriscono l’idea di un «tetto» alla crescita regionale in termini
di livelli di industrializzazione, secondo la regola implicita «più precoce il
decollo, più alto il livello».
In effetti soltanto le regioni di più antico sviluppo raggiungono il livello
di oltre 200 occupati nell’industria per 1000 abitanti (West e East Midlands,
Lombardia e Piemonte), che è il livello dal quale North e Yorkshire
muovono nel loro declino dal 1841.
Non è certamente questa la sede per tentare una spiegazione teorica di ciò,
né la ricerca ha ancora raggiunto lo stadio di poter provare empiricamente
l’affermazione. Tuttavia, in termini generali, si può assumere che operi
l’influenza di processi di saturazione, dai quali derivano flussi crescenti
di diseconomie esterne, cui si aggiunge l’effetto dei crescenti livelli di
competizione interregionale a mano a mano che aumenta il numero delle
regioni «decollate».
Sembra opportuna un’osservazione finale su questo punto: nella
misura in cui un limite superiore («tetto») fosse realmente operante esso
dipenderebbe dall’interazione di fattori locali.
160 Onde lunghe e take-offs regionali in Itali