La Spada che canta

Bruciai una foresta di carbone di legna in quei mesi, scaldando e
riscaldando il metallo e cambiando la sua forma di rozzo lingotto in
quella prima di una sbarra allungata e poi di un lungo ferro nero con
le fattezze di una lama. E poi un giorno, quasi impercettibilmente, fu
praticamente finita: le mancava solo la tempra definitiva.
«Equo,» gli dissi un giorno, «esci di qui e trovami una vergine.»
«Una vergine? Qui?» Scosse la testa con ironica costernazione.
«Ci sono le tue figlie, e basta. E quando Veronica si sposa ce ne sarà
una di meno. Le vergini sono scarse negli accampamenti militari.
Andrò a cercarne una, ma non rimanere sveglio ad aspettarmi. Ma
comunque, che cosa se ne fa di una vergine un vecchio caprone
come te?»
Io guardavo il filo della nuova lama a occhi socchiusi,
ammirandola. «Sangue, non ricordi? Gli antichi fabbri usavano
temprare le lame nuove con sangue di vergine, per la purezza.»
«Non lo sapevo! Dici sul serio?»
Lo guardai. «Questo è quello che dice la leggenda. Pensavano
che la tempra nel sangue, sangue di vergine ovviamente, avrebbe
conferito l'essenza segreta del ferro bianco.»
«Balle!» La sua voce era piena di scherno. «Chiunque con un po'
di cervello sa che è il carbone di legna a fare la differenza.»
Misi giù la lama. «Tu lo sai, Equo, e io lo so, ma gli antichi non lo
sapevano. Non l'hanno saputo per secoli.»
Venne al mio fianco e sollevò la lama, scrutandola con occhio
critico, cercando difetti che non c'erano. «Sembra buona, Publio.
Come hai intenzione di montare l'impugnatura?»
Non gli avevo ancora parlato della mia idea di un'elsa a croce.
«Oh, ho qualche idea. Ma prima devo temprarla. Chissà se brillerà.»
«Brilla già, guarda! La vedi?» Tenne in alto la lama inclinandola
nella luce.