La Spada che canta

nella sua purezza. Avevo evitato per tutto quel tempo di stringere
l'impugnatura, e non avevo usato la lima sulla sua superficie
granulosa. Mentre le davo un'ultima lucidata con il panno, Plauto
giocava con il quadrato di pelle di pescecane.
«Sai,» disse, «non voglio sembrare critico, ma questa roba è
argentea come la lama, e il pomolo è d'oro. La guardia sembrerà
opaca in confronto. È semplice bronzo. Ci hai pensato?»
«Ci ho pensato.» Mi alzai e distesi un groppo nella schiena.
«Coprirò la guardia con foglie d'argento.»
«Con cosa?»
Indicai una scatola vicino alla sua mano. «Lamine d'argento,
assottigliate a martello in modo da renderle quasi senza peso e
trasparenti. Ce ne sono alcune in quella scatola.»
Mentre Plauto guardava le foglie d'argento, io liberai la spada
dai morsetti che la tenevano ferma e strinsi forte l'elsa per la prima
volta. «Adesso ci siamo!» La roteai nell'aria e il mio cuore si spezzò
quasi per la gioia di sentire in mano tanta bellezza. Tutte le paure,
tutte le preoccupazioni erano svanite. I nostri angosciosi calcoli del
peso e del bilanciamento erano stati precisi. Adesso avevo in mano la
perfezione!
«Excalibur» mormorai.
«Cosa?»
«Excalibur. È il suo nome. È così che ho chiamato la spada.»
Plauto strabuzzò gli occhi. «Excalibur? Devo essere stupido.
Non ho mai sentito prima questa parola.»
«No, Plauto» dissi. «Non sei stupido. È una parola che non è mai
stata detta prima. Calibur - qalibr - è la parola con cui il popolo del
deserto nell'Africa settentrionale indica una forma. Questa spada è
uscita da una forma... ex qalibr, Excalibur.» Gliela porsi. «Non toccare il
taglio se vuoi conservare le dita.»