Ambiente e Sicurezza..

GAZZETTA UFFICIALE REPUBBLICA ITALIANA 

ARGOMENTO PROVVEDIMENTO TITOLO PUBBLICATO IN 

Antincendio Decreto del Presidente 

della Repubblica 1˚ giugno 

2004 

Igiene di alimenti 

e bevande 

Sicurezza 

dei prodotti 

NOVITÀ 

GAZZETTA UFFICIALE: GLI ULTIMI 15 GIORNI 

Decreto legislativo 

21 maggio 2004, n.169 

Decreto del Ministero delle 

Politiche agricole e forestali 

15 giugno 2004 

Decreto del Ministero 

della Salute 9 aprile 2004 

Decreto legislativo 

21 maggio 2004, n.172 

Acqua Decreto del Ministero 

della Salute 6 aprile 2004, 

n.174 

SICUREZZA 

«Autorizzazione al Ministero dell’Interno 

- Dipartimento dei vigili 

del fuoco, del soccorso e della difesa 

civile, ed al Ministero degli 

affari esteri, ad avviare procedure 

concorsuali per il reclutamento di 

personale» 

«Attuazione della direttiva 

2002/ 46/CE relativa agli integratori 

alimentari» 

«Aggiornamento del manuale 

operativo delle procedure dei controlli 

di conformità alle norme comuni 

di qualità sui prodotti ortofrutticoli, 

di cui all’art. 9, comma 

1, del decreto ministeriale 28 dicembre 

2001, adottato con decreto 

ministeriale 3 dicembre 2003, 

in attuazione del regolamento 

(CE) n. 1148/2001 della Commissione 

CE, in materia di controlli di 

conformità alle norme di commercializzazione, 

applicabili nel setto- 

re degli ortofrutticoli freschi» 

«Recepimento delle direttive n. 

2003/113/CE, 2003/118/CE e 2004/2/ 

CE ed aggiornamento del decreto 

del Ministro della sanità 19 maggio 

2000, concernente i limiti massimi 

di residui di sostanze attive contenute 

nei prodotti fitosanitari tollerati 

nei prodotti destinati all’alimentazione» 

«Attuazione della direttiva n. 

2001/95/CE relativa alla sicurezza 

generale dei prodotti» 

AMBIENTE 

«Regolamento concernente i materiali 

e gli oggetti che possono essere 

utilizzati negli impianti fissi di 

captazione, trattamento, adduzione 

e distribuzione delle acque destinate 

al consumo umano» 

in Gazzetta Ufficiale 

del 14 luglio 2004, n. 163 


del 15 luglio 2004, n. 164 

Sintesi a pag. 99 


del 15 luglio 2004, n. 164 



del 14 luglio 2004, n. 163 


del 16 luglio 2004, n. 165 



del 17 luglio 2004, n. 166 


Ulteriori approfondimenti 

sui prossimi numeri di 

Ambiente&Sicurezza. 

4 www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com 10 agosto 2004 - N. 15

Aria Decreto legislativo 

21 maggio 2004, n. 171 

IPPC Circolare del Ministero 

dell’Ambiente e della Tutela 

del territorio 13 luglio 

2004 

Rifiuti Decreto del Ministero 


del territorio 3 giugno 

2004, n.167 

Sviluppo 

sostenibile 

Decreto del Ministero 

delle attività produttive 

7 luglio 2004 

«Attuazione della direttiva 

2001/ 81/CE relativa ai limiti nazionali 

di emissione di alcuni inquinanti 

atmosferici» 

«Circolare interpretativa in materia 

di prevenzione e riduzione 

integrate dell’inquinamento, di 

cui al decreto legislativo 4 agosto 

1999, n. 372, con particolare 

riferimento all’allegato I» 

«Regolamento concernente modifiche 

al decreto ministeriale 28 aprile 

1998, n. 406, recante: «Norme di attuazione 

di direttive dell’Unione europea, 

avente ad oggetto la disciplina 

dell’Albo nazionale delle imprese, 

che effettuano la gestione dei 

rifiuti”» 

«Graduatorie delle iniziative ammissibili 

alle agevolazioni previste 

dal bando speciale di cui alla 

legge 19 dicembre 1992, n. 488, 

per il perseguimento di specifiche 

finalità di miglioramento 

della sostenibilità ambientale» 

Il contenuto è disponibile on-line all’indirizzo 

wwww.ambientesicurezza.ilsole24ore.com 

NOVITÀ 


del 16 luglio 2004, n. 165 






del 19 luglio 2004, n. 167 





In Gazzetta Ufficiale 

del 9 luglio 2004, n. 159 






del 22 luglio 2004, n. 170 

10 agosto 2004 - N. 15 www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com 5

Articoli 

SOMMARIO 

Approfondimenti 

● Con il D.M. 21 giugno 2004 sulle porte recepite le disposizioni europee 

di Stefano Marsella........................................................................................................................... p. 14 

● La risposta del MinInterno sul rifornimento dei serbatoi fissi interrati e non 


● Incidenti rilevanti: il Ministero ribadisce le procedure 

per il certificato di prevenzione incendi 


● Incidenti rilevanti: con due note chiariti i rapporti d’ispezione e il loro coordinamento 


● Ancora problemi applicativi specifici per la bonifica di acque e suoli agricoli 

di Luciano Butti.................................................................................................................................. p. 32 

● Scarichi di acque meteoriche: suggerimenti per le autorizzazioni 

di Fabio Muriano ............................................................................................................................... p. 37 

● Nell’Allegato B al D.M. n. 367/2003 alcune prescrizioni di dubbia legittimità 

di Mara Chilosi e Andrea Martelli ................................................................................................... p. 43 

● Autorità di controllo più autonome sui limiti per le sostanze pericolose 

di Vincenzo Riganti........................................................................................................................... p. 47 

● Legge n. 326/2003 e Finanziaria 2004: come cambiano i servizi pubblici locali? 

di Mara Chilosi................................................................................................................................... p. 51 

● Sugli impianti di depurazione idrica l’ISTAT fotografa lo stato dell’arte 

di Maria Luisa Felici.......................................................................................................................... p. 60 

● Rapporto INAIL 2003: 

occhio alla prevenzione anche con meno infortuni 

di Marco Stancati .............................................................................................................................. p. 72 

● Dall’Accordo Interconfederale le nuove tutele del lavoratore a domicilio 

di Mario Gallo..................................................................................................................................... p. 79 

● Il primo soccorso: 

alcuni chiarimenti prima dell’entrata in vigore del D.M. n. 388 

di Enzandrea Prandi......................................................................................................................... p. 88 

● Dalla circolare MinLavoro n. 24/2004 nuovi chiarimenti 

sulla riforma dei servizi ispettivi 

di Mario Gallo..................................................................................................................................... p. 90 

● Dopo il D.P.R. 30 marzo 2004, n. 142 al via gli studi di impatto acustico 

di Francesco Borchi, Fabio Miniati, Andrea Sanchini, Andrea Tombolato .............................. p. 108 

Legislazione 

In sintesi 

SPECIALE ..................................................................................................................................................... p. 10 

L’APPROFONDIMENTO ................................................................................................................................ p. 10 

IGIENE E SICUREZZA ................................................................................................................................... p. 10 

AMBIENTE ..................................................................................................................................................... p. 12 

DALLE REGIONI ........................................................................................................................................... p. 12 

● Con il D.M. 21 giugno 2004 sulle porte 

recepite le disposizioni europee 

Decreto del Ministero dell’Interno 21 giugno 2004 ...................................................................... p. 17 

● Acqua: materiali per impianti fissi di captazione 

Decreto del Ministero della Salute 6 aprile 2004, n. 174............................................................ p. 115 


● Emissioni nazionali annue 

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 171 ...................................................................................................... p. 116 

● Gestione dei rifiuti 

Decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela 

del territorio 3 giugno 2004, n. 167 ................................................................................................ p. 117 

● Integratori alimentari 

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 169 ...................................................................................................... p. 99 

● Qualità prodotti agroalimentari 

Decreto del Ministero delle Politiche agricole e forestali 15 giugno 2004 ............................... p. 99 

● Sicurezza generale dei prodotti 

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 172 ...................................................................................................... p. 100 

● Dalle Regioni 

Rassegna di delibere e leggi regionali giugno-luglio 2004......................................................... p. 120 

Prassi 

● La risposta del MinInterno sul rifornimento dei serbatoi fissi interrati e non 

Circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, 

24 giugno 2004, Prot. n. P1122/4106/1 sott. 38 .......................................................................... p. 25 

● Incidenti rilevanti: il Ministero ribadisce le procedure 


Circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, 31 maggio 2004, 

Prot. n. DCPST/A4/RS/1054........................................................................................................... p. 28 

● Incidenti rilevanti: con due note chiariti i rapporti d’ispezione e il loro coordinamento 

Circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco 27 maggio 2004, 

Prot. n. DCPST/A4/RS/1040........................................................................................................... p. 30 

Circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, 

1˚ giugno 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1067 .............................................................................. p. 30 

● Autorità di controllo più autonome sui limiti per le sostanze pericolose 

Direttiva del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio 27 maggio 2004 ................ p. 49 

● Dall’Accordo Interconfederale le nuove tutele del lavoratore a domicilio 

Accordo Interconfederale per il recepimento dell’Accordo 

- Quadro Europeo sul Telelavoro concluso il 16 luglio 2002 

tra UNICE/UEAPME, CEEP E CES............................................................................................... p. 83 

● Infortuni: dall’INAIL un nuovo criterio per individuare la sede competente 

Delibera Commissario Straordinario INAIL 17 giugno 2004, PRES-C.S. n. 446.................... p. 87 

● Il primo soccorso: alcuni chiarimenti prima dell’entrata in vigore del D.M. n. 388 

Circolare del Ministero della Salute 3 giugno 2004, Prot. DGPREV - 13008/P/..................... p. 89 

Circolare Confindustria - Area strategica Welfare e Risorse umane, 

Lavoro e Relazioni Industriali, 6 luglio 2004, n. 18057 ............................................................... p. 89 

● Dalla circolare MinLavoro n. 24/2004 nuovi chiarimenti 

sulla riforma dei servizi ispettivi 

Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 24 giugno 2004, n. 24 ................ p. 95 

● IPPC 

Circolare del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio 13 luglio 2004................... p. 116 

Giurisprudenza 

SOMMARIO 

● Macchina senza portata massima 

Cassazione penale, sez. IV, 17 ottobre 2003, n. 39182............................................................. p. 101 

● Infortunio sul lavoro: calcolo della pena pecuniaria 

Cassazione penale, sez. IV, 26 settembre 2003, n. 36991 ....................................................... p. 101 

● Condanna a pena pecuniaria e sospensione condizionale 

Cassazione penale, sez. III, 24 settembre 2003, n. 36621........................................................ p. 102 

● Obbligo di vigilanza. Responsabilità del datore di lavoro 


● Consenso ad una prassi scorretta di lavoro 


● Se la contestazione è generica, l’infortunio è procedibile d’ufficio 

Cassazione penale, sez. IV, 2 ottobre 2003, n. 37463............................................................... p. 106 

● Scarti animali e disciplina sui rifiuti 

Cassazione penale, sez. III, 15 giugno 2004, n. 26851.............................................................. p. 118 


SOMMARIO 

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3 

AGOSTO 

31 

AGOSTO 

4 

SETTEMBRE 

12 

SETTEMBRE 

15 

SETTEMBRE 

ERRATA CORRIGE - DOMANDA DI AUTORIZZAZIONE PER GLI SCARICHI ESISTENTI ALL’ENTRATA IN VIGORE 

DEL D.LGS. N. 152/1999 

I titolari degli scarichi esistenti al momento dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152/1999, «ancorché non 

autorizzati», hanno tempo fino al 17 agosto 2004 per inoltrare una nuova domanda di autorizzazione 

agli scarichi ai sensi e per gli effetti dell’art. 62, comma 11, D.Lgs. n. 152/1999. (Art. 62, comma 11, D.Lgs. 

n. 152/1999; art. 10-bis, D.L. n. 147/2003, convertito, con modifiche, in legge n. 200/2003) 

SOGGETTO PERIODICITÀ PROSSIMA SCADENZA 

Titolari degli scarichi esistenti al momento 

dell’entrata in vigore del D.Lgs. 

n. 152/1999, «...ancorché non autorizzati...». 

CAMPIONAMENTO ACQUE DA BALNEAZIONE 

- - 

Entro il 31 agosto 2004 le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (ARPA) ovvero, se non istituite, i Presidi 

e servizi di prevenzione multizonali, devono trasmettere al Ministero della Salute i risultati dei campionamenti 

mensili relativi alla qualità delle acque da balneazione. (Art. 2, lett. c) e d), e art. 4, comma 3, D.P.R. 8 giugno 1982, n. 

470; art. 18, comma 1, lett. b), legge 29 dicembre 2000, n. 422) 


Regioni Mensile (stagione balneare) 30 settembre 2004 

ADEGUAMENTO TECNICO PER IMPIANTI DI DISTRIBUZIONE STRADALE DI GAS NATURALE PER AUTOTRAZIONE 

Scade il termine entro il quale tutti gli impianti di distribuzione stradale di gas naturale per autotrazione, esistenti 

alla data di entrata in vigore del D.M. 24 maggio 2002, dovranno essere adeguati alle disposizioni di cui al titolo V 

dell’allegato al medesimo D.M. 24 maggio 2002 recante «Norme di prevenzione incendi per la progettazione, 

costruzione ed esercizio degli impianti di distribuzione stradale di gas naturale per autotrazione». (Art. 1, comma 

3, D.M. 24 maggio 2002) 


Titolari di impianti di distribuzione stradale 

di gas naturale per autotrazione 

- - 

RILASCIO AUTORIZZAZIONI PER IMPIANTI A CICLO CHIUSO DI PULIZIA A SECCO E PULITINTOLAVANDERIE 

Scade il termine entro il quale le autorità competenti al rilascio delle autorizzazioni per le emissioni in atmosfera ex 

D.P.R. n. 203/1988 (regioni o province, a seconda della previsione in tal senso delle discipline regionali) devono 

provvedere a rilasciare le autorizzazioni di carattere generale per gli impianti a ciclo chiuso di pulizia a secco di 

tessuti e di pellami, escluse le pellicce, e per le pulitintolavanderie a ciclo chiuso. Queste autorizzazioni dovranno 

prevedere l’esenzione, per i gestori delle citate attività, dagli obblighi di misurazione in continuo o periodiche 

altrimenti previsti dall’art. 4, comma 2, D.M. n. 44/2004. (Art. 9, comma 2, D.M. 16 gennaio 2004, n. 44) 


Autorità competenti al rilascio delle autorizzazioni 

per le emissioni in atmosfera 

ex D.P.R. n. 203/1988 (regioni o province, 

a seconda della previsione in tal 

senso delle discipline regionali) 

- - 

ASSICURAZIONE INFORTUNI SUL LAVORO: ACCENTRAMENTO INAIL 

Termine entro il quale il datore di lavoro interessato ad ottenere l’autorizzazione di cui all’art. 11, D.M. 18 giugno 

1988 e successive modifiche, per l’accentramento presso un’unica sede dell’INAIL delle posizioni assicurative 

concernenti lavori diversi da quelli a carattere temporaneo, deve presentare motivata istanza, corredata della 

copia del provvedimento di autorizzazione all’accentramento della tenuta dei documenti di lavoro rilasciata dalla 

direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione è ubicata la sede dell’INAIL presso la quale si chiede 

l’accentramento. (Art. 12, D.M. 18 giugno 1988; D.M. 24 febbraio 1988) 


Datori di lavoro interessati ad ottenere 

all’accentramento presso un’unica sede 

dell’INAIL delle posizioni assicurative 

concernenti lavori diversi da quelli a 

carattere temporaneo 

RUBRICA 

OBBLIGHI, ADEMPIMENTI, SCADENZE 

a cura di Marco Fabrizio, avvocato in Roma 

SCADENZARIO 

Annuale 15 settembre 2005 


IN SINTESI 

SINTESI RUBRICA 

Speciale 

ANTINCENDIO 

ARTICOLI...................................................................................................................................................................................................... da pag. 14 

Prevenzione incendi: ultimi provvedimenti e chiarimenti - In questo Speciale raccogliamo alcuni commenti agli ultimi provvedimenti 

e circolari pubblicati dal Ministero dell’Interno e dal Dipartimento dei Vigili del Fuoco. In particolare: il decreto del Ministero 

dell’Interno 21 giugno 2004, «Norme tecniche e procedurali per la classificazione di resistenza al fuoco ed omologazione di porte ed altri 

elementi di chiusura», emanato per adottare anche in Italia le disposizioni comunitarie più recenti; la circolare del Dipartimento dei 

Vigili del Fuoco - Area prevenzione incendi - 24 giugno 2004, Prot. n. P1122/4106/1 sott. 38, «D.P.R. 24 ottobre 2003, n. 340 - Chiarimenti 

su norme di esercizio e modalità di installazione dei serbatoi fissi», che risponde ai quesiti riguardanti la possibilità di riempimento dei 

serbatoi fissi utilizzando il sistema di scarico in dotazione ad autocisterne conformi alle norme ADR, presso impianti esistenti non ancora 

adeguati con il sistema di emergenza finalizzato alla sicurezza antincendio e la necessità di disporre di indirizzi tecnici uniformi per la 

concessione di deroghe qualora non sia possibile l’interramento dei serbatoi fissi; la circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, Area 

Rischi Industriali 31 maggio 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1054, «Certificato di Prevenzione Incendi per attività a rischio di incidente 

rilevante soggette a presentazione del rapporto di sicurezza ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 334/1999. Chiarimenti», affronta il tema del 

rilascio del certificato di prevenzione incendi alle attività soggette al rischio di incidente rilevante. Nel nuovo chiarimento si esamina lo 

snellimento delle procedure, ribadendo la necessità di rispettare i tempi previsti dalle disposizioni procedurali vigenti nel rispetto del 

criterio di economicità dell’azione amministrativa; le circolari del Dipartimento dei Vigili del Fuoco - Area Rischi Industriali 27 maggio 

2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1040, «D.Lgs. 334/99 - Individuazione dell’autorità preposta al controllo e adempimenti connessi ai rapporti 

finali d’ispezione» e 1˚ giugno 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1067, «Controlli ed ispezioni nella attività a rischio di incidente rilevante» che 

forniscono precisazioni di grande importanza sull’attività di controllo dei Comitati tecnici regionali (CTR). Questi comitati sono stati 

istituiti presso le Direzioni regionali dei Vigili del Fuoco con il D.P.R. n. 577/1982 ed hanno competenze, riconosciute anche dal D.Lgs. n. 

334/1999 sugli stabilimenti e le attività a rischio di incidente rilevante. 

L’Approfondimento 

ACQUA 

ARTICOLI ...................................................................................................................................................................................................... da pag. 32 

COMMENTO .................................................................................................................................................................................................. a pag. 47 

TESTO ............................................................................................................................................................................................................. a pag. 49 

Acque: il punto della situazione tra novità legislative e chiarimenti interpretativi - Essendo molto articolato, il settore delle 

acque è costantemente al centro di un duplice processo evolutivo che abbraccia, da un lato, la legislazione e, dall’altro, le conseguenti 

ricadute tecnologiche, di mercato, ecc. Tipico è il caso dei servizi pubblici locali, le cui ultime modifiche si sono rese necessarie a seguito di 

una procedura d’infrazione comunitaria; non meno importanti sono i temi legati al trattamento delle acque emunte (con relativi 

problemi applicativi specifici legati alla realizzazione delle bonifiche) e alle domande di autorizzazione allo scarico di acque meteoriche, 

la cui disciplina è resa ancora più confusa dall’assenza di una legislazione nazionale di riferimento. Particolarmente interessante è poi la 

“fotografia” dell’ISTAT sulla distribuzione nazionale delle diverse tipologie di impianti di depurazione delle acque reflue urbane e sulle 

reti fognarie. Sul fronte legislativo, la direttiva dal Ministero dell’Ambiente 27 maggio 2004 (in Gazzetta Ufficiale del 14 giugno 2004, n. 

137) ha ridimensionato le interpretazioni estensive che erano state date al D.M. n. 367/2003, mentre il più recentemente è stato 

pubblicato il decreto del Ministero della Salute 6 aprile 2004, n.174 «Regolamento concernente i materiali e gli oggetti che possono 

essere utilizzati negli impianti fissi di captazione, trattamento, adduzione e distribuzione delle acque destinate al consumo umano», 

commentato sinteticamente a pag. 115 e sul quale seguiranno ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri di Ambiente&Sicurezza). 

Igiene e sicurezza 

IGIENE DI ALIMENTI E BEVANDE 

SINTESI............................................................................................................................................................................................................. a pag. 99 

Integratori alimentari - Il D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 169, attua la disciplina comunitaria in materia di «integratori alimentari», 

intendendo come tali «i prodotti alimentari destinati ad integrare la comune dieta e che sostituiscono una fonte concentrata di sostanze 

nutritive, quali le vitamine e i minerali, o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico, in particolare ma non in via esclusiva 

aminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre ed estratti di orgine vegetale, sia monocomposti che pluricomposti, in forme predosate» (art. 2, 

comma 1). In particolare risulta disciplinata la commercializzazione di dette sostanze come prodotti alimentari (e presentate come tali), 

le quali dovranno necessariamente essere commercializzate in forma preconfezionata (in Gazzetta Ufficiale del 15 luglio 2004, n. 164 e 

all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com) 

SINTESI............................................................................................................................................................................................................. a pag. 99 

Qualità prodotti agroalimentari - Il decreto del Ministero delle Politiche agricole 15 giugno 2004 sostituisce gli allegati D, G, M e O del 

manuale operativo delle procedure dei controlli di conformità alle norme comuni di qualità sui prodotti ortofrutticoli, ex D.M. 3 

dicembre 2003 indicato al titolo, sostanzialmente introducendo le nuove check-list relative alla domanda di iscrizione nella banca dati, 

alla richiesta di controllo all’import-export e alla notifica di spedizione. Risulta, altresì, abrogata la precedente disciplina di cui al D.M. 3 

luglio 2002 in materia di controlli di conformità alle norme di commercializzazione applicabili nel settore degli ortofrutticoli freschi. (in 

Gazzetta Ufficiale del 15 luglio 2004, n. 164 e all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com) 

SICUREZZA DEI PRODOTTI 

SINTESI........................................................................................................................................................................................................... a pag. 100 

Sicurezza generale dei prodotti - Il decreto legislativo 21 maggio 2004, n. 172, di derivazione comunitaria, garantisce, in linea 

generale, la sicurezza dei prodotti immessi sul mercato ovvero in libera pratica. Risultano sottratti al campo applicativo i prodotti usati, 

forniti come pezzi d’antiquariato, o come prodotti da riparare o da rimettere a nuovo prima dell’utilizzazione, purché il fornitore ne 

informi per iscritto la persona cui fornisce il prodotto (art. 2, comma 1, lett. a). Secondo un principio di specialità delle leggi, inoltre, 

qualora un prodotto sia soggetto a requisiti di sicurezza prescritti a livello di normativa comunitaria, la nuova disciplina prevista dal 


RUBRICA 

SINTESI 

decreto sarà applicabile soltanto in riferimento agli aspetti ed ai rischi/categorie di rischi non soggetti alla normativa settoriale. Restano, 

inoltre, sottratti al campo applicativo del D.Lgs. n. 172/2004 anche i prodotti alimentari ex Regolamento (CE) n. 178/2002. (in Gazzetta 

Ufficiale del 16 luglio 2004, n. 165 e all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com) 

SICUREZZA DEL LAVORO 

ARTICOLO....................................................................................................................................................................................................... a pag. 72 

Rapporto INAIL 2003: attenzione alla prevenzione anche con meno infortuni - Come ogni anno l’INAIL ha presentato il rapporto 

annuale sugli infortuni. Si nota immediatamente, che, in quasi tutti i settori produttivi, ci si trova davanti ad una diminuzione, rispetto 

all’anno 2002, dei casi di infortunio, nonché di quelli mortali. Il dato appare ancora più significativo se si tiene conto del fatto che, nel 

corso dell’ultimo anno, l’occupazione è aumentata dell’1%. Se si raffronta, inoltre, il dato italiano con quello elaborato da Eurostat in 

Europa, si nota che è decisamente inferiore a quello di altri grandi Paesi europei come la Spagna, la Francia e la Germania. L’intera 

documentazione del Rapporto Annuale 2003 dell’INAIL (Rapporto, Appendice Statistica, Relazione del Presidente) è consultabile e 

scaricabile all’indirizzo http://www.inail.it/pubblicazionieriviste/tuttititoli/rapporti/rapportoannuale/2003) 

COMMENTO................................................................................................................................................................................................... a pag. 79 

TESTO.............................................................................................................................................................................................................. a pag. 83 

Dall’Accordo Interconfederale le nuove tutele del lavoratore a domicilio - Negli ultimi anni, grazie alle numerose trattative 

svoltesi tra Confindustria e associazioni sindacali conclusesi con l’Accordo Interconfederale 9 giugno 2004, per il recepimento delle 

disposizioni pervenute dall’Accordo-Quadro Europeo, il telelavoro trova finalmente una disciplina che getta le basi per un futuro 

riassetto della legislazione in materia. È questo un passo molto importante, visto la crescita costante di questo tipo di impiego e 

considerata, soprattutto, la normativa vigente in materia ormai obsoleta e opaca. Molto importante è l’accento che pone l’Accordo sulle 

problematiche connesse all’organizzazione della sicurezza in questo ambito lavorativo. Il testo dell’accordo interconfederale 9 giugno 

2004 completo dell’Accordo quadro europeo sul telelavoro - stipulato a Bruxelles il 16 luglio 2002 tra CES, UNICE/UEAPME e CEEP - è 

disponibile on-line all’indirizzo httb://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com/ 

NOTA E TESTO................................................................................................................................................................................................ a pag. 87 

Infortuni: dall’INAIL un nuovo criterio per individuare la sede competente - Con la delibera 17 giugno 2004, n. 446, l’INAIL ha 

modificato i criteri per individuare la Sede competente a trattare i casi di infortunio. Secondo il nuovo criterio, per tutti gli infortuni 

accaduti dopo il 12 luglio 2004, la sede competente è quella nel cui ambito territoriale rientra il domicilio dell’assicurato, luogo in cui vive 

abitualmente. L’Istituto ha già assicurato che le denunce presentate o pervenute dopo il 12 luglio a sedi non competenti possano essere 

restituite o non accettate dagli uffici che le ricevono. Le denunce che perverranno alla sede non competente saranno gestite sia per 

l’aspetto operativo che per quello procedurale dalla sede ricevente per conto della sede competente. 

COMMENTO................................................................................................................................................................................................... a pag. 88 

TESTI.............................................................................................................................................................................................................. da pag. 89 

Il primo soccorso in azienda e nei cantieri edili: alcuni chiarimenti prima dell’entrata in vigore del D.M. n. 388/2003 - Il 

decreto ministeriale 15 luglio 2003, n. 388 introdurrà, a partire dal 3 agosto prossimo, importanti novità in merito agli obblighi inerenti 

la gestione e l’organizzazione del servizio di pronto soccorso aziendale. I suoi contenuti supereranno le indicazioni normative fornite da 

previgenti disposizioni in materia (in particolare le indicazioni fornite al riguardo dal D.P.R. n. 303/1956). Come spesso avviene per norme 

che rielaborano e rivisitano criticamente materie precedentemente trattate, introducendo nuovi parametri di riferimento e attuazioni 

concettuali, il D.M. n. 388/2003 ha suscitato numerosi quesiti e diverse esigenze interpretative su aspetti che non risultavano sufficientemente 

esplicati. Si pubblicano le risposte del Ministero della Salute diffuse mediante circolare dello stesso Ministero 3 giugno 2004, Prot. 

DGPREV - 130008/P/ e dalla circolare di Confindustria 6 luglio 2004, n. 18057. 

COMMENTO................................................................................................................................................................................................... a pag. 90 

TESTI.............................................................................................................................................................................................................. da pag. 95 

Dalla circolare MinLavoro n. 24/2004 nuovi chiarimenti sulla riforma dei servizi ispettivi - Con l’emanazione della circolare 24 

giugno 2004, n. 24, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è intervenuto tempestivamente sulla delicata materia dell’attività 

ispettiva fornendo importanti chiarimenti e indicazioni operative in ordine alla corretta applicazione D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124, il quale, 

com’è noto, ha riformato l’intero sistema di vigilanza sul mercato del lavoro, in attuazione della delega contenuta all’art. 8 della legge n. 

30/2003 (cosiddetta legge “Biagi”). La disamina ministeriale proposta con la circolare n. 24/2004 è a trecentosessanta gradi poiché tocca 

tutti i nodi cruciali del citato D.Lgs. n. 124/2004, confermando anche alcuni orientamenti interpretativi offerti dalla dottrina in prima 

battuta. Tuttavia, non tutti i dubbi sono stati dissolti, almeno su tre delicate questioni; comunque, bisogna riconoscere che con questo 

provvedimento il Ministero ha offerto un apprezzabile contributo ad un primo riassetto dell’attività di controllo e in questa sede 

approfondiremo in particolare quegli aspetti della circolare rilevanti anche ai fini della vigilanza in materia di sicurezza e igiene del lavoro. 

MASSIMA E NOTA........................................................................................................................................................................................ a pag. 101 

Infortunio sul lavoro: calcolo della pena pecuniaria - Incorre in errore di diritto nella quantificazione della pena il Giudice che, a 

seguito di giudizio di equivalenza tra le circostanze, la determini in misura superiore al massimo edittale (fattispecie di applicazione di 

pena pecuniaria in tema di infortunio sul lavoro). (Cassazione penale, sez. IV, 26 settembre 2003, n. 36991) 


Condanna a pena pecuniaria e sospensione condizionale della pena - È nulla per totale carenza di motivazione la sentenza di 

condanna che abbia implicitamente rigettato la richiesta dell’imputato di concessione della sospensione condizionale della pena 

(fattispecie in tema di condanna del datore di lavoro, con irrogazione della sola pena pecuniaria, per alcuni reati in tema di sicurezza e di 

prevenzione degli infortuni sul lavoro). (Cassazione penale, sez. III, 24 settembre 2003, n. 36621) 


Obbligo di vigilanza. Responsabilità del datore di lavoro - In assenza di delega prevenzionistica, la presenza di un preposto non 

esenta da responsabilità il datore di lavoro, il quale è tenuto ad effettuare la necessaria vigilanza sia sulla concreta organizzazione del 

lavoro che sulla funzionalità dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori. (Cassazione penale, sez. IV, 26 settembre 2003, n. 36993) 


Consenso ad una prassi scorretta di lavoro - Il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio occorso al dipendente, qualora 

acconsenta all’esecuzione di una prassi scorretta di lavoro da lui conosciuta (fattispecie di infortunio ad una pressa punzonatrice). 

(Cassazione penale, sez. IV, 26 settembre 2003, n. 370019) 


SINTESI RUBRICA 


Se la contestazione è generica, l’infortunio è procedibile d’ufficio - È procedibile d’ufficio l’infortunio sul lavoro, produttivo di 

lesioni gravi, rispetto al quale sia stata contestata la sola colpa generica, purché dal capo di imputazione si evinca chiaramente la 

condotta oggetto di addebito. e questa si risolva nella violazione di una specifica norma di legge (fattispecie in tema di violazione 

dell’art. 115 del D.P.R. n. 547/1955). (Cassazione penale, sez. IV, 2 ottobre 2003, n. 37463) 

SICUREZZA DELLE MACCHINE 


Macchina senza portata massima - Il costruttore e il datore di lavoro sono entrambi responsabili, a titolo autonomo, della mancata 

rispondenza di un’attrezzatura di lavoro alla normativa antinfortunistica (fattispecie in tema di omicidio colposo da errato uso di una 

gru di sollevamento). (Cassazione penale, sez. IV, 17 ottobre 2003, n. 39182) 

Ambiente 

ACQUA 

SINTESI .......................................................................................................................................................................................................... a pag. 115 

Materiali per impianti fissi di captazione - Il decreto del Ministero della Salute 6 aprile 2004, n. 174, rappresenta la disciplina tecnica 

concernente le condizioni alle quali devono rispondere i materiali e gli oggetti utilizzati negli impianti fissi di captazione, di trattamento, 

di adduzione e di distribuzione delle acque destinate al consumo umano ex D.Lgs. n. 31/2001, da utilizzare tanto negli impianti nuovi 

quanto per sostituzioni nelle riparazioni, a partire da dodici mesi dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del regolamento in 

questione (salvo indicazioni particolari). Ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri di Ambiente&Sicurezza (in Gazzetta Ufficiale del 

17 luglio 2004, n. 166 e all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com) 

ARIA 

SINTESI ......................................................................................................................................................................................................... a pag. 116 

Emissioni nazionali annue - Il D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 171 rappresenta la nuova normativa tecnica emanata, in attuazione della 

corrispondente direttiva 2001/81/CE, «al fine di tutelare l’ambiente e la salute umana dagli effetti nocivi causati dalla acidificazione, 

dalla eutrofizzazione del suolo e dalla presenza di ozono al livello del suolo». Ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri di 

Ambiente&Sicurezza (in Gazzetta Ufficiale del 16 luglio 2004, n. 165 e all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com) 

IPPC 

SINTESI .......................................................................................................................................................................................................... a pag. 116 

IPPC - La circolare del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio 13 luglio 2004 è un interessante provvedimento interpretativo 

della normativa indicata al titolo, tra l’altro in riferimento alla definizione del concetto di capacità produttiva e alla definizione del 

concetto di «attività connessa». Ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri di Ambiente&Sicurezza (in Gazzetta Ufficiale del 19 luglio 

2004, n. 167 e all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com) 

RIFIUTI 

SINTESI ......................................................................................................................................................................................................... a pag. 117 

Albo nazionale rifiuti. Biologi - Il decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio 3 giugno 2004, n. 167 recepisce la 

sentenza n. 3097/2001 resa dal TAR Lazio, sez. II-bis, concernente l’annullamento, in parte, del D.M. n. 406/1998, limitatamente alla non 

menzione dei biologi tra i professionisti abilitati a rilasciare l’attestazione, a mezzo di perizia giurata, circa l’idoneità dei mezzi di 

trasporto relativamente ai rifiuti da trasportare. Ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri di Ambiente&Sicurezza (in Gazzetta 

Ufficiale del 9 luglio 2004, n. 159 e all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com) 

MASSIMA E NOTA ...................................................................................................................................................................................... a pag. 118 

Scarti animali e disciplina sui rifiuti - Lo svolgimento dell’attività di raccolta, trasporto e stoccaggio di scarti animali non trattati in 

assenza della iscrizione all’albo nazionale delle imprese esercenti la gestione dei rifiuti comporta l’applicabilità dei reati previsti dall’art. 

51 del D.Lgs. n. 22/1997, poiché la esclusione del regime generale dei rifiuti prevista dall’articolo 8, comma 1, del citato decreto n. 

22/1997 per le carogne ed altri rifiuti agricoli specificamente indicati deve essere interpretata restrittivamente, e non può, perciò, 

estendersi agli scarti animali. Ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri di Ambiente&Sicurezza. (Cassazione penale, sez. III, 15 

giugno 2004, n. 26851) 

RUMORE 

ARTICOLO .................................................................................................................................................................................................... a pag. 108 

Dopo il D.P.R. 30 marzo 2004, n. 142 al via gli studi di impatto acustico - Visto che la pubblicazione del D.P.R. 30 marzo 2004, n. 

142, recante le «Disposizioni per il contenimento e la prevenzione dell’inquinamento acustico derivante dal traffico veicolare», ha 

sostanzialmente completato il quadro legislativo nazionale in tema di rumore, è possibile ora, passare a un livello più operativo, 

definendo le caratteristiche che dovrebbe possedere uno studio di impatto ambientale acustico relativo alla realizzazione di una nuova 

infrastruttura stradale, attraverso la perimetrazione della fascia territoriale, l’individuazione di tutti i ricettori presenti, la modellazione 

della geometria dei luoghi oggetto d’indagine, l’effettuazione dei calcoli acustici nello stato di progetto senza opere di mitigazione, 

l’individuazione dei punti di criticità ecc. Ciò dovrebbe portare, in ultima analisi, a risultati in grado di conciliare rigore scientifico e 

facilità di lettura, in modo da rendere possibile la partecipazione del pubblico alla predisposizione dei piani d’azione destinati a ridurre 

nel territorio i problemi dell’inquinamento acustico. 

Dalle Regioni 

SINTESI.......................................................................................................................................................................................................... a pag. 120 

Rassegna di delibere e leggi regionali giugno-luglio 2004 - Tra le delibere e le leggi regionali pubblicate nei mesi di mesi di giugno 

e luglio 2004 rilevano la delibera della Giunta regionale piemontese 24 maggio 2004, n. 31-12557, che approva le linee di indirizzo per la 

definizione di un progetto di promozione delle attività di prevenzione delle patologie da lavoro, la delibera della Giunta regionale 17 

maggio 2004, n. 938 che reca le disposizioni in materia di pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, La 

determinazione del Dirigente della regione Piemonte per la programmazione e gestione dei rifiuti 7 giugno 2004, n. 137 sugli interventi 

per il miglioramento qualitativo dei fanghi da recuperare a fini agricoli. I testi dei provvedimenti regionali sono disponibili on-line 

all’indirizzo http://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com/ 


PREVENZIONE INCENDI: 

ULTIMI PROVVEDIMENTI E CHIARIMENTI 

DAL MINISTERO DELL’INTERNO 

E DAL DIPARTIMENTO VVF 

In questo Speciale raccogliamo alcuni commenti agli ultimi provvedimenti 

e circolari pubblicati dal Ministero dell’Interno e dal Dipartimento 

dei Vigili del Fuoco. 

In particolare: 

● decreto del Ministero dell’Interno 21 giugno 2004, «Norme tecniche e 

procedurali per la classificazione di resistenza al fuoco ed omologazione 

di porte ed altri elementi di chiusura», in Gazzetta Ufficiale del 5 luglio 

2004, n. 155, emanato per adottare anche in Italia le disposizioni comunitarie 

più recenti; 

● circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco - Area prevenzione 

incendi - 24 giugno 2004, Prot. n. P1122/4106/1 sott. 38, «D.P.R. 24 

ottobre 2003, n. 340 - Chiarimenti su norme di esercizio e modalità di 

installazione dei serbatoi fissi», che risponde ai quesiti riguardanti la 

possibilità di riempimento dei serbatoi fissi utilizzando il sistema di 

scarico in dotazione ad autocisterne conformi alle norme ADR, presso 

impianti esistenti non ancora adeguati con il sistema di emergenza 

finalizzato alla sicurezza antincendio e la necessità di disporre di indirizzi 

tecnici uniformi per la concessione di deroghe qualora non sia possibile 

l’interramento dei serbatoi fissi.; 

● circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, Area Rischi Industriali 31 

maggio 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1054, «Certificato di Prevenzione Incendi 

per attività a rischio di incidente rilevante soggette a presentazione del 

rapporto di sicurezza ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 334/1999. Chiarimenti», 

affronta il tema del rilascio del certificato di prevenzione incendi alle attività 

soggette al rischio di incidente rilevante. Nel nuovo chiarimento si esamina 

lo snellimento delle procedure, ribadendo la necessità di rispettare i 

tempi previsti dalle disposizioni procedurali vigenti nel rispetto del criterio 

di economicità dell’azione amministrativa; 

● circolari del Dipartimento dei Vigili del Fuoco - Area Rischi Industriali 

27 maggio 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1040, «D.Lgs. n. 334/1999 - Individuazione 

dell’autorità preposta al controllo e adempimenti connessi ai 

rapporti finali d’ispezione» e 1˚ giugno 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1067, 

«Controlli ed ispezioni nella attività a rischio di incidente rilevante» che 

forniscono precisazioni di grande importanza sull’attività di controllo 

dei Comitati tecnici regionali (CTR). Questi comitati sono stati istituiti 

presso le Direzioni regionali dei Vigili del Fuoco con il D.P.R. n. 577/1982 

ed hanno anche competenze, riconosciute anche dal D.Lgs. n. 334/1999 

sugli stabilimenti e le attività a rischio di incidente rilevante. 

Contributi di: 

● Stefano Marsella

ANTINCENDIO 

Commento 

Nuovi obblighi e documentazione per l’immissione in commercio di elementi di chiusura resistenti al fuoco 

Con il D.M. 21 giugno 2004 sulle porte 

recepite le disposizioni europee 

Il Ministero dell’Interno ha 

emanato il decreto 21 giugno 

2004 recante «Norme tecniche 

e procedurali per la classificazione 

di resistenza al fuoco ed 

omologazione di porte ed altri 

elementi di chiusura». Il provvedimento 

apporta alla normativa 

vigente, il decreto dello stesso 

Ministero 14 dicembre 1993, 

alcune novità sulle procedure 

di omologazione delle porte resistenti 

al fuoco, riguardante 

sia gli aspetti procedurali sia 

quelli di natura tecnica legati 

alla produzione ed alla caratterizzazione 

di questi prodotti, 

recependo anche in Italia le 

più recenti disposizioni comunitarie. 

SPECIALE 

Nella Gazzetta Ufficiale del 5 

luglio 2004, n. 155, è stato 

pubblicato il decreto del Ministero 

dell’Interno 21 giugno 2004 

«Norme tecniche e procedurali per 

la classificazione di resistenza al fuoco 

ed omologazione di porte ed altri 

elementi di chiusura». Questo provvedimento 

innova le procedure di omologazione 

delle porte [1] resistenti al 

fuoco, procedure che erano state approvate 

con il decreto 14 dicembre 

1993 «Norme tecniche e procedurali 

per la classificazione di resistenza al 

fuoco ed omologazione di porte ed 

altri elementi di chiusura» [2] . Il principale 

motivo della sua emanazione è 

legato alla necessità di adottare anche 

in Italia le disposizioni comunitarie 

più recenti in materia di resistenza al 

fuoco degli elementi di chiusura. Tra 

le diverse norme che hanno motivato 

il nuovo atto, in particolare, nella premessa 

vengono citate le norme: 

● UNI EN 1363-1:2001 e UNI EN 

1363-2:2001 «Prove di resistenza 

al fuoco: requisiti generali» e «Prove 

di resistenza al fuoco: procedure 

alternative ed aggiuntive»; 

● UNI EN 1634-1:2001 «Prove di 

resistenza al fuoco per porte ed elementi 

di chiusura»; 

● EN 1191:2000 ed EN 12605: 

2000 «Windows and doors - Resistance 

to repeated opening and closing 

- Test method» e «Industrial, 

commercial and garage doors and 

gates - Mechanical aspects - Test 

method». 

Tra queste norme, la UNI EN 

1634-1:200, che specifica il metodo 

di determinazione della resistenza al 

fuoco delle porte e di altri elementi di 

chiusura da installare nelle aperture 

degli elementi di separazione verticali, 

costituisce il riferimento più importante. 

Per illustrare in estrema sintesi il 

decreto, conviene partire dalla sua articolazione, 

che riguarda sia gli aspetti 

procedurali che quelli di natura tecnica 

legati alla produzione ed alla caratterizzazione 

di questi prodotti. Il 

contenuto della nuova disposizione, 

quindi, non interessa solo il settore 

dei produttori di elementi di chiusura 

ed il relativo interfaccia dei laboratori, 

ma comprende norme che dovranno 

essere conosciute da tutti coloro 

che partecipano al processo della prevenzione 

incendi. Questi aspetti riguardano 

i doveri connessi all’installazione 

delle porte resistenti al fuoco, 

una nuova terminologia sulla classificazione, 

gli obblighi stabiliti in capo 

a chi immette in commercio il prodotto 

ed anche a chi lo utilizza. 

Si illustrano, nel seguito, i diversi 

articoli nei loro aspetti più significativi. 

Art. 1 - Classificazione 

Questo articolo introduce subito il 

cuore del provvedimento, che riguarda 

la nuova modalità di caratterizzazione 

degli elementi di chiusura. Con 

il decreto del 2004 le prove si effettuano 

secondo quanto specificato nel- 

[1] Si veda sull’argomento di Stefano Marsella, Le porte resistenti al fuoco, inAmbiente&Sicurezza, n. 11/1999, pag. 16, e, dello 

stesso autore, Resistenza al fuoco: le porte di grandi dimensioni, inAmbiente&Sicurezza, n. 19/2001, pag. 19. 

[2] In Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 1993, n. 303. 


la norma UNI EN 1634-1 e, di conseguenza, 

secondo alcune parti delle 

norme UNI EN 1363-1 e UNI EN 

1363-2. La curva di riscaldamento alla 

quale deve essere sottoposto il prodotto 

è quella prevista dalla UNI EN 

1363-1, secondo la precisazione contenuta 

nel comma 2. 

Nel comma 3 del primo articolo è 

presente una delle novità più significative 

del decreto, e cioè l’introduzione 

di una nuova terminologia che si 

affianca a quella nota ai professionisti 

da anni. Infatti, il decreto specifica 

che la terminologia RE e REI riferita 

alle porte è da intendersi, con la nuova 

classificazione, rispettivamente 

equivalente a E ed EI2. Inoltre, il 

decreto ricorda che, se nei decreti di 

prevenzione incendi di successiva 

emanazione sarà prescritto l’impiego 

di porte ed altri elementi di chiusura 

classificati E ed EI2, potranno essere 

utilizzate porte omologate con la classificazione 

RE e REI nel rispetto di 

tutte le condizioni previste dal decreto. 

Il comma 5 del primo articolo indica 

nella Direzione centrale per la prevenzione 

e sicurezza tecnica del Ministero 

dell’Interno (Dipartimento dei 

Vigili del Fuoco, del soccorso pubblico 

e della difesa civile) l’ufficio competente 

per gli adempimenti previsti 

dal decreto del Ministero dell’Interno 

26 marzo 1985. Per l’effettuazione di 

prove valide ai fini delle omologazioni 

secondo le norme di cui al comma 

1 del presente articolo, la citata Direzione 

centrale predisporrà la modulistica 

occorrente per il rilascio del rapporto 

e del certificato di prova. 

Art. 2 - Definizioni 

Questo articolo approva le definizioni 

che riguardano il processo tecnico 

dell’omologazione delle porte (riportate 

nel riquadro), che non sembrano 

apportare particolari elementi di 

novità rispetto al quadro già noto. 

Art. 3 - Utilizzazione 

Il contenuto di questo articolo è 

particolarmente importante, almeno 

sotto il profilo teorico. Infatti, il comma 

1 chiarisce l’ambito di applicazio- 

SPECIALE 

ne del decreto, stabilendo l’obbligo 

di impiego di elementi di chiusura 

omologati con una formulazione molto 

ampia: «Le porte ed altri elementi 

di chiusura resistenti al fuoco da impiegarsi 

nelle attività soggette all’applicazione 

delle norme e criteri di 

prevenzione incendi devono essere 

omologate». 

Nei successivi commi 2, 3 e 4 

sono stabiliti obblighi nei riguardi di 

chi immette in commercio i prodotti 

(specificando quale è la documentazione 

da disporre per la immissione 

in commercio di porte resistenti al 

fuoco), degli installatori (il decreto 

specifica che l’installatore è tenuto a 

redigere a propria firma la dichiarazione 

di corretta posa in opera ai sensi 

del decreto 4 maggio 1998, allegato 

II, comma 2.1) e di chi utilizza il 

prodotto (in questo caso l’innovazione 

del decreto è rilevante, in quanto 

si stabilisce che l’utilizzatore è tenuto 

a mantenere in efficienza ogni porta 

resistente al fuoco, mediante controlli 

periodici da parte di personale qualificato 

e secondo le indicazioni d’uso e 

manutenzione di cui all’art. 2, lettera 

j, presenti nel libretto di uso e manutenzione). 

Si può rilevare che il termine 

“utilizzatore” non è usuale nel settore 

della prevenzione incendi e che 

potrebbe trovare una successiva specificazione. 

Artt. 4, 5 e 6 - Omologazione 

e certificazione 

In questi articoli si affrontano 

aspetti di natura specialistica, legati 

essenzialmente alla documentazione 

delle prove da svolgere sui prodotti, 

alla presentazione delle istanze ed ai 

relativi riflessi in campo comunitario 

delle omologazioni. 

Art. 7 - Obblighi e responsabilità 

per il produttore 

Con questo articolo si stabiliscono 

in modo esplicito gli obblighi di chi 

produce questi elementi di chiusura. 

In particolare, il produttore, sotto la 

sua personale responsabilità civile e 

penale, è tenuto a: 

a) emettere, per ogni porta resistente 

al fuoco, la dichiarazione di 

conformità; 

ANTINCENDIO 

Commento 

b) rilasciare, per ogni porta resistente 

al fuoco, copia dell’atto di 

omologazione cui fa riferimento la 

dichiarazione; 

c) fornire, a corredo di ogni esemplare, 

il libretto d’uso e manutenzione; 

d) applicare, sulla porta resistente 

al fuoco, il marchio di conformità; 

e) consentire l’accesso ai locali di 

deposito, fornire tutte le informazioni 

necessarie alla verifica della conformità 

dei prodotti stessi e consentire il 

prelievo di quanto necessario alle 

operazioni di controllo. 

Art. 8 - Controlli e vigilanza 

Con questo articolo si ribadiscono 

le competenze del Ministero dell’Interno 

sui controlli e le verifiche da 

compiere sulle porte resistenti al fuoco 

omologate. In particolare, il decreto 

stabilisce che gli accertamenti svolti 

dai Vigili del Fuoco sul mercato 

possono essere effettuati presso il magazzino 

del produttore, i depositi sussidiari 

del produttore, i grossisti, gli 

importatori, i commercianti e gli utilizzatori, 

mentre le modalità dei controlli 

stessi (individuazione, prelievo 

ed esecuzione delle verifiche delle 

porte da sottoporre a controllo) saranno 

stabilite con un successivo provvedimento 

del Ministero stesso. 

Art. 9 - Validità, rinnovo, 

decadenza dell’omologazione 

Questo articolo stabilisce che 

l’omologazione ha validità cinque anni 

ed è rinnovabile su istanza del produttore, 

ad ogni scadenza, per un ulteriore 

periodo di cinque anni. Si specifica, 

a questo proposito, che il rinnovo 

non comporta la ripetizione delle 

prove tecniche, qualora la porta resistente 

al fuoco non abbia subito modifiche. 

Il decreto specifica, altresì, che 

il rinnovo dell’atto di omologazione 

rientra tra i servizi a pagamento previsti 

dalla legge 26 luglio 1965, n. 966. 

Il comma 3 di questo articolo prevede, 

inoltre, che l’omologazione decade 

automaticamente se la porta resistente 

al fuoco subisce una qualsiasi 

modifica non prevista nell’atto di 

omologazione. Altri motivi di revoca 


ANTINCENDIO 

Commento 

dell’omologazione indicati esplicitamente 

nel testo sono: 

a) non conformità rilevata della 

porta resistente al fuoco alla porta 

omologata; 

b) non ottemperanza da parte del 

produttore in tutto o in parte agli obblighi 

fissati all’art. 7. 

Come ovvio, la revoca o la decadenza 

dell’omologazione comportano 

il divieto dell’immissione sul mercato 

e di questa circostanza l’articolo 

9 fa esplicito riferimento. 

Art. 10 - Norme transitorie 

L’ultimo articolo del decreto prevede 

che, a decorrere da sei mesi 

dalla data di pubblicazione nella Gaz- 

SPECIALE 

zetta Ufficiale (5 luglio 2004), le prove 

di resistenza al fuoco si eseguono 

secondo le norme di cui all’art. 1, 

comma 1, del decreto. 

Lo stesso articolo chiarisce anche 

che è consentito eseguire le prove di 

resistenza al fuoco secondo la norma 

UNI-CNVVF 9723/FA1 fino all’entrata 

in vigore dell’obbligo della marcatura 

CE. 

Il comma 3 di questo articolo prevede 

che le omologazioni di porte 

resistenti al fuoco rilasciate ai sensi 

del decreto 14 dicembre 1993 non 

decadono, mentre il comma 4 prende 

in considerazione la produzione e la 

immissione in commercio di porte resistenti 

al fuoco di grandi dimensio- 

ni, di cui all’art. 3 del decreto ministeriale 

27 gennaio 1999, chiarendo che 

è consentito continuare a procedere 

con l’applicazione delle procedure 

ivi stabilite. 

In sostanza, il decreto 21 giugno 

2004 adegua per le porte e gli altri 

elementi verticali di chiusura resistenti 

al fuoco, alle nuove disposizioni 

comunitarie l’iter procedurale relativo 

alla omologazione. 

Questo atto, che farà parte delle 

procedure di prevenzione incendi fino 

a che non sia istituita anche per 

questi prodotti la marcatura CE, è 

ormai soggetto ad una disciplina che 

si avvicina al quadro comunitario, anche 

per quanto riguarda la nuova terminologia 

(si veda la tabella 1). 

TABELLA 1 

La nuova terminologia proposta dal D.M. 21 giugno 2004 

a) per «Omologazione» si intende l’atto conclusivo attestante il corretto espletamento della procedura tecnico-amministrativa, 

illustrata nel presente decreto, finalizzata al riconoscimento dei requisiti certificati delle porte resistenti al fuoco. 

Con tale riconoscimento è autorizzata la riproduzione del prototipo e la connessa immissione in commercio di porte 

resistenti al fuoco omologate, con le variazioni consentite dalla norma UNI EN 1634-1 nel campo di applicazione diretta 

del risultato di prova integrate dalle variazioni riportate nell’allegato C; 

b) per «Prototipo» si intende il campione, parte del campione medesimo e/o la documentazione idonea alla completa 

identificazione e caratterizzazione della porta omologata, conservato dal laboratorio che rilascia il certificato di prova; 

c) per «Porta omologata» si intende la porta o altro elemento di chiusura per la quale il produttore ha espletato la 

procedura di omologazione; 

d) per «Produttore» della porta resistente al fuoco, si intende il fabbricante residente in uno dei paesi dell’Unione 

europea, ovvero in uno dei paesi costituenti l’accordo SEE, nonché ogni persona che, apponendo il proprio nome, 

marchio o segno distintivo sulla porta resistente al fuoco, si presenti come rappresentante autorizzato dallo stesso purché 

residente in uno dei Paesi dell’Unione europea, ovvero in uno dei Paesi costituenti l’accordo SEE; 

e) per «Laboratorio» si intende l’area di protezione passiva della Direzione centrale per la prevenzione e la sicurezza 

tecnica del Ministero dell’interno o altro laboratorio italiano autorizzato ai sensi del decreto del Ministero dell’Interno 26 

marzo 1985, ovvero altro laboratorio, riconosciuto in uno dei Paesi dell’Unione europea o dei Paesi contraenti l’accordo 

SEE, che provvede alla esecuzione delle prove e all’emissione del certificato di prova ai fini dell’omologazione della porta 

resistente al fuoco; 

f) per «Certificato di prova» si intende il documento, rilasciato dal laboratorio o da un organismo di certificazione, con il 

quale, sulla base dei risultati contenuti nel rapporto di prova, si certifica la classe di resistenza al fuoco del campione 

sottoposto a prova; 

g) per «Rapporto di prova» si intende il documento, rilasciato dal laboratorio a seguito della prova, riportante quanto 

indicato al punto 12 della norma EN 1634-1 e al punto 12.1 della norma EN 1363-1; 

h) per «Dichiarazione di conformità» si intende la dichiarazione, rilasciata dal produttore, attestante la conformità della 

porta resistente al fuoco alla porta omologata e contenente, tra l’altro, i seguenti dati: 

h.1) nome del produttore; 

h.2) anno di costruzione; 

h.3) numero progressivo di matricola; 

h.4) nominativo del laboratorio e dell’organismo di certificazione se diversi; 

h.5) codice di omologazione; 

h.6) classe di resistenza al fuoco. 

Con la dichiarazione di conformità il produttore si impegna a garantire comunque la prestazione certificata, quali che 

siano le modifiche apportate alla porta resistente al fuoco tra quelle consentite nell’atto di omologazione; 

i) per «Marchio di conformità» si intende l’indicazione permanente ed indelebile apposta dal produttore sulla porta 

resistente al fuoco contenente almeno il numero progressivo di matricola ed il codice di omologazione; 

j) per «Libretto di installazione, uso e manutenzione» si intende il documento, allegato ad ogni singola fornitura di porte 

resistenti al fuoco, che riporta, come minimo, i seguenti contenuti: 

j.1) modalità ed avvertenze d’uso; 

j.2) periodicità dei controlli e delle revisioni con frequenza almeno semestrale; 

j.3) disegni applicativi esplicativi per la corretta installazione, uso e manutenzione della porta; 

j.4) le avvertenze importanti a giudizio del produttore. 


Decreto del Ministero dell’Interno 21 giugno 2004 

Norme tecniche e procedurali per la classificazione di resistenza al fuoco 

ed omologazione di parte ed altri elementi di chiusura 

in Gazzetta Ufficiale del 5 luglio 2004, n. 155 

IL MINISTRO DELL’INTERNO 

Vista la legge 26 luglio 1965, n. 966, recante 

«Disciplina delle tariffe, delle modalità di pagamento 

e dei compensi al personale del Corpo nazionale dei 

vigili del fuoco per i servizi a pagamento», e successive 

modifiche; 

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 29 

luglio 1982, n. 577, recante «Approvazione del regolamento 

concernente l’espletamento dei servizi di 

prevenzione e vigilanza antincendi»; 

Visto il proprio decreto 26 marzo 1985, pubblicato 

nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 22 aprile 1985, 

recante «Procedure e requisiti per l’autorizzazione e 

l’iscrizione di enti e laboratori negli elenchi del Ministero 

dell’interno di cui alla legge 7 dicembre 1984, 

n. 818»; 

Visto il proprio decreto 14 dicembre 1993, pubblicato 

nella Gazzetta Ufficiale n. 303 del 28 dicembre 

1993, recante «Norme tecniche e procedurali per la 

classificazione di resistenza al fuoco ed omologazione 

di porte ed altri elementi di chiusura»; 

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 12 

gennaio 1998, n. 37, recante «Regolamento recante 

disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione 

incendi, a norma dell’art. 20, comma 8, della legge 

15 marzo 1997, n. 59»; 

Visto il proprio decreto 27 gennaio 1999, pubblicato 

nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio 

1999, recante «Resistenza al fuoco di porte ed altri 

elementi di chiusura»; 

Visto il proprio decreto 20 aprile 2001, pubblicato 

nella Gazzetta Ufficiale n. 102 del 4 maggio 2001, 

recante «Utilizzazione di porte resistenti al fuoco di 

grandi dimensioni»; 

Viste la norme UNI EN 1363-1:2001 e UNI EN 

1363-2:2001 recanti rispettivamente «Prove di resistenza 

al fuoco: requisiti generali» e «Prove di resistenza 

al fuoco: procedure alternative ed aggiuntive»; 

Vista la norma UNI EN 1634-1:2001 recante «Prove 

di resistenza al fuoco per porte ed elementi di 

chiusura»; 

Viste le norme EN 1191:2000 ed EN 12605:2000 

recanti rispettivamente «Windows and doors - Resistance 

to repeated opening and closing - Test 

method» e «Industrial, commercial and garage doors 

and gates - Mechanical aspects - Test method»; 

SPECIALE 

Vista la decisione della Commissione della Comunità 

europea 2000/367/EC del 3 maggio 2000, pubblicato 

nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee 

del 6 giugno 2000, «che attua la direttiva 

89/106/CEE del Consiglio per quanto riguarda la 

classificazione della resistenza all’azione del fuoco 

dei prodotti da costruzione, delle opere di costruzione 

e dei loro elementi»; 

Considerato lo sviluppo delle norme EN in materia 

di prove di resistenza al fuoco e la futura attivazione 

della procedura di marcatura CE dei prodotti da 

costruzione; 

Ritenuto quindi opportuno provvedere al recepimento 

della norma europea UNI EN 1634-1:2001 che 

specifica il metodo di determinazione della resistenza 

al fuoco delle porte e di altri elementi di chiusura 

da installare nelle aperture degli elementi di separazione 

verticali; 

Visto il parere favorevole espresso nella riunione 

n. 260 dell’11 marzo 2003 dal Comitato centrale 

tecnicoscientifico per la prevenzione incendi di cui 

all’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 

29 luglio 1982, n. 577; 

Esperita, con notifica 2003/0160/I, la procedura 

d’informazione di cui alla direttiva 98/34/CE, che 

codifica la prassi istituita dalla direttiva 83/189/CEE 

e successive modifiche; 

Visto il parere favorevole espresso, con comunicazione 

SG (2004) D/50563, dalla Commissione europea; 

Decreta: 

ANTINCENDIO 

Legislazione 

Art. 1 

Classificazione 

1. La valutazione delle caratteristiche, delle prestazioni, 

nonché le modalità di redazione del rapporto di 

prova in forma completa di porte ed elementi di 

chiusura resistenti al fuoco, si effettua secondo quanto 

specificato nella norma UNI EN 1634-1 e, per 

quanto da essa richiamato, nelle norme UNI EN 

1363-1 e UNI EN 1363-2. 

2. La valutazione delle prestazioni, da effettuare 

tramite la prova a fuoco secondo la curva di riscaldamento 

prevista dalla UNI EN 1363-1, va condotta 

previo il condizionamento meccanico previsto al punto 

10.1.1, comma a) della norma UNI EN 1634-1. Il 

condizionamento meccanico va eseguito secondo 

quanto descritto nell’allegato A. 


ANTINCENDIO 

Legislazione 

3. Ai fini della successiva omologazione, la classificazione 

delle porte resistenti al fuoco si effettua 

secondo quanto indicato nello specifico punto della 

tabella 4 della decisione della Commissione del 3 

maggio 2000, riportato nell’allegato B al presente 

decreto. 

4. Salvo diversa indicazione dei decreti di prevenzione 

incendi la classe di resistenza al fuoco richiesta 

per porte ed altri elementi di chiusura con la terminologia 

RE e REI è da intendersi, con la nuova classificazione, 

equivalente a E ed EI2 rispettivamente. Laddove 

nei decreti di prevenzione incendi di successiva 

emanazione sia prescritto l’impiego di porte ed altri 

elementi di chiusura classificati E ed EI2 potranno 

essere utilizzate porte omologate con la classificazione 

RE e REI nel rispetto di tutte le condizioni previste 

dal presente decreto. 

5. La Direzione centrale per la prevenzione e sicurezza 

tecnica del Ministero dell’interno cura gli adempimenti 

previsti dal decreto del Ministero dell’interno 

26 marzo 1985. Per l’effettuazione di prove valide 

ai fini delle omologazioni secondo le norme di cui al 

comma 1 del presente articolo, la suddetta Direzione 

centrale predisporrà la modulistica occorrente per il 

rilascio del rapporto e del certificato di prova. 

Art. 2 

Definizioni 

Ai fini del presente decreto valgono le seguenti 

definizioni: 

a) per «Omologazione» si intende l’atto conclusivo 

attestante il corretto espletamento della procedura 

tecnico-amministrativa, illustrata nel presente decreto, 

finalizzata al riconoscimento dei requisiti certificati 

delle porte resistenti al fuoco. Con tale riconoscimento 

è autorizzata la riproduzione del prototipo e la 

connessa immissione in commercio di porte resistenti 

al fuoco omologate, con le variazioni consentite dalla 

norma UNI EN 1634-1 nel campo di applicazione 

diretta del risultato di prova integrate dalle variazioni 

riportate nell’allegato C; 

b) per «Prototipo» si intende il campione, parte 

del campione medesimo e/o la documentazione idonea 

alla completa identificazione e caratterizzazione 

della porta omologata, conservato dal laboratorio che 

rilascia il certificato di prova; 

c) per «Porta omologata» si intende la porta o altro 

elemento di chiusura per la quale il produttore ha 

espletato la procedura di omologazione; 

d) per «Produttore» della porta resistente al fuoco, 

si intende il fabbricante residente in uno dei paesi 

dell’Unione europea, ovvero in uno dei paesi costi- 

SPECIALE 

tuenti l’accordo SEE, nonché ogni persona che, apponendo 

il proprio nome, marchio o segno distintivo 

sulla porta resistente al fuoco, si presenti come rappresentante 

autorizzato dallo stesso purché residente 

in uno dei Paesi dell’Unione europea, ovvero in uno 

dei Paesi costituenti l’accordo SEE; 

e) per «Laboratorio» si intende l’area di protezione 

passiva della Direzione centrale per la prevenzione e la 

sicurezza tecnica del Ministero dell’interno o altro laboratorio 

italiano autorizzato ai sensi del decreto del Ministero 

dell’interno 26 marzo 1985, ovvero altro laboratorio, 

riconosciuto in uno dei Paesi dell’Unione europea o dei 

Paesi contraenti l’accordo SEE, che provvede alla esecuzione 

delle prove e all’emissione del certificato di prova 

ai fini dell’omologazione della porta resistente al fuoco; 

f) per «Certificato di prova» si intende il documento, 

rilasciato dal laboratorio o da un organismo di 

certificazione, con il quale, sulla base dei risultati 

contenuti nel rapporto di prova, si certifica la classe 

di resistenza al fuoco del campione sottoposto a 

prova; 

g) per «Rapporto di prova» si intende il documento, 

rilasciato dal laboratorio a seguito della prova, 

riportante quanto indicato al punto 12 della norma 

EN 1634-1 e al punto 12.1 della norma EN 1363-1; 

h) per «Dichiarazione di conformità» si intende la 

dichiarazione, rilasciata dal produttore, attestante la 

conformità della porta resistente al fuoco alla porta 

omologata e contenente, tra l’altro, i seguenti dati: 

h.1) nome del produttore; 

h.2) anno di costruzione; 

h.3) numero progressivo di matricola; 

h.4) nominativo del laboratorio e dell’organismo 

di certificazione se diversi; 

h.5) codice di omologazione; 

h.6) classe di resistenza al fuoco. 

Con la dichiarazione di conformità il produttore si 

impegna a garantire comunque la prestazione certificata, 

quali che siano le modifiche apportate alla 

porta resistente al fuoco tra quelle consentite nell’atto 

di omologazione; 

i) per «Marchio di conformità» si intende l’indicazione 

permanente ed indelebile apposta dal produttore 

sulla porta resistente al fuoco contenente almeno 

il numero progressivo di matricola ed il codice di 

omologazione; 

j) per «Libretto di installazione, uso e manutenzione» 

si intende il documento, allegato ad ogni singola 

fornitura di porte resistenti al fuoco, che riporta, 

come minimo, i seguenti contenuti: 

j.1) modalità ed avvertenze d’uso; 

j.2) periodicità dei controlli e delle revisioni con 

frequenza almeno semestrale; 


j.3) disegni applicativi esplicativi per la corretta 

installazione, uso e manutenzione della porta; 

j.4) le avvertenze importanti a giudizio del produttore. 

Art. 3 

Utilizzazione 

1. Le porte ed altri elementi di chiusura resistenti 

al fuoco da impiegarsi nelle attività soggette all’applicazione 

delle norme e criteri di prevenzione incendi 

devono essere omologate. 

2. La documentazione da disporre per la immissione 

in commercio di porte resistenti al fuoco è composta 

da: 

a) copia dell’atto di omologazione della porta; 

b) dichiarazione di conformità alla porta omologata; 

c) libretto di installazione, uso e manutenzione. 

3. L’installatore è tenuto a redigere a propria firma 

la dichiarazione di corretta posa in opera ai sensi del 

decreto 4 maggio 1998 allegato II comma 2.1. 

4. L’utilizzatore è tenuto a mantenere in efficienza 

ogni porta resistente al fuoco, mediante controlli 

periodici da parte di personale qualificato e secondo 

le indicazioni d’uso e manutenzione di cui all’art. 2, 

lettera j), presenti nel libretto di uso e manutenzione. 

Art. 4 

Procedure per il rilascio dei certificati di prova 

1. Le procedure di cui al presente articolo si applicano 

ai laboratori autorizzati ai sensi del decreto 26 

marzo 1985. 

2. Per l’ottenimento del certificato di prova ai fini 

del rilascio dell’omologazione si adotta la seguente 

procedura: 

a) il produttore trasmette l’istanza e la documentazione 

tecnica relativa al campione da sottoporre a 

prova; 

b) il laboratorio, verificata la correttezza della 

documentazione di cui alla lettera a), richiede, entro 

trenta giorni, l’invio della campionatura di prova e 

comunica l’importo della somma occorrente per l’esecuzione 

delle prove; 

c) il produttore invia la campionatura di prova 

richiesta comprensiva del campione testimone previsto 

all’art. 14 del decreto 26 marzo 1985 e l’attestato 

di versamento relativo alla somma di cui alla precedente 

lettera b) entro sessanta giorni dalla data della 

comunicazione del laboratorio; in caso di mancato 

invio, la pratica viene archiviata per decorrenza dei 

termini; 

d) il laboratorio iscrive la pratica nello specifico 

SPECIALE 

ANTINCENDIO 

Legislazione 

elenco cronologico, dandone comunicazione al richiedente 

entro quindici giorni dalla data di ricevimento 

della campionatura e del pagamento di cui alla lettera 

c); 

e) il laboratorio provvede al rilascio del certificato 

di prova entro novanta giorni dalla data di iscrizione 

nel suddetto elenco cronologico e si impegna a conservare, 

in locale idoneo, il campione testimone per 

un periodo di cinque anni dalla data di rilascio del 

certificato di prova. 

Art. 5 

Procedure per il rilascio dell’atto di omologazione 

1. Il rilascio dell’atto di omologazione rientra tra i 

servizi a pagamento previsti dalla legge 26 luglio 

1965, n. 966, e successive modifiche. 

2. Per l’ottenimento dell’atto di omologazione della 

porta resistente al fuoco si adotta la seguente 

procedura: 

a) il produttore inoltra apposita istanza all’area di 

protezione passiva della Direzione centrale per la prevenzione 

e la sicurezza tecnica del Ministero dell’interno, 

corredata dal certificato di prova a lui intestato, 

rilasciato dal laboratorio, in originale; 

b) l’area di protezione passiva avvia il procedimento 

amministrativo e comunica all’interessato, entro 

trenta giorni dalla data di ricevimento dell’istanza, 

l’importo della somma occorrente per il rilascio; 

c) il produttore invia l’attestato di versamento 

relativo alla somma di cui alla precedente lettera 

entro trenta giorni dalla data della comunicazione 

dell’area di protezione passiva; in caso di mancato 

invio, la pratica viene archiviata per decorrenza dei 

termini; 

d) l’area di protezione passiva, valutata la documentazione 

presentata, provvede, entro sessanta giorni 

dalla data di ricevimento dell’istanza dell’attestato 

di versamento, a rilasciare al produttore l’atto di 

omologazione della porta resistente al fuoco contenente 

tutte le modifiche consentite sul prototipo, motivando 

l’eventuale diniego. 

3. L’area di protezione passiva renderà noto, periodicamente, 

l’elenco aggiornato delle porte resistenti 

al fuoco omologate. 

Art. 6 

Omologazione di porte certificate 

in ambito comunitario 

1. Le porte resistenti al fuoco legalmente certificate 

in uno dei Paesi dell’Unione europea ovvero in 

uno dei Paesi contraenti l’accordo SEE, sulla base 

delle norme di cui all’art. 1 secondo metodi di controllo 

riconosciuti in uno degli stessi Paesi, possono 


ANTINCENDIO 

Legislazione 

essere omologate in Italia per essere impiegate nel 

campo di applicazione disciplinato dal presente decreto. 

2. A tale fine, il produttore deve seguire le procedure 

previste all’art. 5, garantendo l’identificazione 

delle modalità di controllo riconosciute dal Paese 

dell’Unione europea ovvero contraente l’accordo 

SEE. 

3. Tutta la documentazione deve essere accompagnata 

da traduzione in lingua italiana. 

Art. 7 

Obblighi e responsabilità per il produttore 

1. Il produttore è tenuto, ai sensi delle vigenti 

disposizioni di legge, alla osservanza dei seguenti 

adempimenti sotto la sua personale responsabilità 

civile e penale: 

a) emettere, per ogni porta resistente al fuoco, la 

dichiarazione di conformità di cui all’art. 2, lettera h); 

b) rilasciare, per ogni porta resistente al fuoco, 

copia dell’atto di omologazione cui fa riferimento la 

dichiarazione di cui al comma precedente; 

c) fornire, a corredo di ogni esemplare, il libretto 

d’uso e manutenzione di cui all’art. 2, lettera j); 

d) applicare, sulla porta resistente al fuoco, il 

marchio di conformità di cui all’art. 2, lettera i); 

e) consentire l’accesso ai locali di deposito, fornire 

tutte le informazioni necessarie alla verifica della 

conformità dei prodotti stessi e consentire il prelievo 

di quanto necessario alle operazioni di controllo di 

cui al successivo art. 8. 

Art. 8 

Controlli e vigilanza 

1. Il Ministero dell’interno ha facoltà di effettuare 

controlli e verifiche, sulle porte resistenti al fuoco 

omologate. 

2. Gli accertamenti di cui al comma precedente 

possono essere effettuati presso il magazzino del 

produttore, i depositi sussidiari del produttore, i grossisti, 

gli importatori, i commercianti e gli utilizzatori. 

3. Con successivo provvedimento relativo ai controlli 

sui prodotti antincendio omologati dal Ministero 

dell’interno, saranno stabiliti i criteri e le modalità 

di individuazione, di prelievo e di esecuzione delle 

verifiche delle porte da sottoporre a controllo, nonché 

gli importi dei corrispettivi dovuti dai produttori 

per le operazioni descritte. 

Art. 9 

Validità, rinnovo, decadenza 

e annullamento dell’omologazione 

1. L’omologazione ha validità cinque anni ed è rinnova- 

SPECIALE 

bile su istanza del produttore, ad ogni scadenza, per un 

ulteriore periodo di cinque anni. Tale rinnovo non comporta 

la ripetizione delle prove tecniche, qualora il produttore 

dichiari che la porta resistente al fuoco non abbia subito 

modifiche. Il rinnovo dell’atto di omologazione rientra tra 

i servizi a pagamento previsti dalla legge 26 luglio 1965, 

n. 966, e successive modifiche. 

2. L’omologazione non è rinnovabile in caso di 

revoca. 

3. L’omologazione decade automaticamente se la 

porta resistente al fuoco subisce una qualsiasi modifica 

non prevista nell’atto di omologazione. La nuova 

normativa stabilirà i tempi necessari per l’adeguamento 

dei sistemi di produzione e per lo smaltimento 

delle scorte. 

4. Il Ministero dell’interno ha facoltà di revocare 

l’omologazione se: 

a) viene rilevata la non conformità della porta 

resistente al fuoco alla porta omologata; 

b) il produttore non ottempera in tutto o in parte 

agli obblighi fissati all’art. 7. 

5. La revoca o la decadenza dell’omologazione 

comportano il divieto dell’immissione sul mercato 

e il divieto di emissione della dichiarazione di 

conformità per la porta resistente al fuoco omologata. 

Art. 10 

Norme transitorie 

1. Ai fini del rilascio dell’atto di omologazione di cui 

all’art. 3, comma 1, del presente decreto, a decorrere da 

sei mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, 

le prove di resistenza al fuoco si eseguono secondo 

le norme di cui all’art. 1, comma 1, del presente 

decreto. È inoltre consentito eseguire le prove di resistenza 

al fuoco anche secondo la norma UNI-CNVVF 

9723/FA1 fino all’entrata in vigore dell’obbligo della 

marcatura CE. 

2. È consentito il rilascio di atti di omologazione 

del prototipo o per estensione dei risultati di porte 

certificate con la norma UNI-CNVVF 9723/FA1 nel 

rispetto delle procedure previste dal decreto 14 dicembre 

1993 e, con decorrenza immediata, anche nel 

rispetto di quanto previsto agli articoli 5 e 6 del 

presente decreto. 

3. Le omologazioni di porte resistenti al fuoco 

rilasciate ai sensi del decreto 14 dicembre 1993 non 

decadono. 

4. La produzione e la immissione in commercio di 

porte resistenti al fuoco di grandi dimensioni, di cui 

all’art. 3 del decreto ministeriale 27 gennaio 1999, 

potra’ avvenire nel rispetto delle condizioni previste 

all’art. 2 del decreto ministeriale 20 aprile 2001 e dal 

comma punto 2 dell’allegato C al presente decreto. l 


SPECIALE 

Modalità di condizionamento meccanico 

Allegato A 

1. Prima di sottoporre il campione alla prova di resistenza al fuoco, va verificata la funzionalità del 

campione mediante un minimo di 500 cicli di apertura e chiusura, da eseguirsi secondo le procedure 

previste nella norma EN 1191 o EN 12605 a seconda della tipologia di porta. 

2. Prima di sottoporre alla prova di resistenza al fuoco il campione va sottoposto ad un minimo di 5000 

cicli di apertura e chiusura (sbattimento), da eseguirsi secondo le procedure previste nella norma EN 

1191 o EN 12605 a seconda della tipologia di porta avendo cura di aumentare la velocità di apertura del 

50% per porte ad apertura manuale e alla massima velocità operativa per porte automatizzate. 

3. In alternativa alle procedure previste nelle norme EN 1191 e EN 12605 è consentita l’esecuzione dei 

500 cicli per la verifica della funzionalità e dei 5000 cicli di sbattimento secondo le procedure di seguito 

indicate: 

Verifica di funzionalità 

a) Posizionare il campione sul supporto previsto per la prova a fuoco dalla norma UNI EN 1634-1. 

b) Misurare ed annotare, prima dell’inizio dei cicli, le seguenti grandezze: 

b.1) la forza massima espressa in N con precisione al 2% necessaria per aprire la porta con dispositivo di 

chiusura sbloccato; 

b.2) la corsa dell’anta (o delle ante) espressa in gradi o in millimetri; 

b.3) le distanze tra i punti di riferimento individuati per testimoniare l’usura. 

c) Sbloccare il dispositivo di chiusura applicando una forza che aumenti del 50/pm 10% la forza operativa 

necessaria per lo sblocco per dispositivi a sblocco manuale ovvero alla massima forza imposta dal 

meccanismo di sblocco per dispositivi a sblocco motorizzato. 

d) Portare l’anta (o le ante) in posizione di apertura fino a 90˚/pm 10˚ (misurati dalla posizione di 

chiusura) ovvero fino alla posizione di arresto del limitatore o del dispositivo di chiusura se ciò accade 

prima dei 90˚; in ogni caso la posizione di arresto non deve intervenire prima del 60% della posizione di 

fine corsa. Nel caso di porte ad apertura manuale, la velocità massima di apertura dell’anta (o delle ante) 

deve essere pari a 0,5/pm 0,05 m/s se la parte mobile ha una massa non superiore a 400 kg e pari a 0,2 

/pm 0,02 m/s se la parte mobile ha una massa superiore a 400 kg. Nel caso di porte ad apertura 

motorizzata va settata la velocità come sopra descritto. Nel caso di motori a velocità non settabile la 

velocità di apertura sarà quella effettivamente permessa dal sistema. Detta velocità massima di apertura 

va raggiunta fra i 20˚ e i 60˚ di apertura o fra il 20% e il 60% della corsa dell’anta e mantenuta costante 

fino a fine corsa. 

e) Lasciare in posizione di apertura l’anta per un tempo non superiore a 4 s se la porta è ad apertura 

manuale. Per porte ad apertura motorizzata il tempo di apertura è quello previsto dal dispositivo di 

apertura nel funzionamento effettivo. 

f) Portare l’anta in chiusura con il dispositivo di autochiusura sincerandosi che l’arresto della fase di 

chiusura avvenga per battuta dell’anta (o delle ante) sul telaio. 

g) Bloccare il dispositivo di chiusura. 

h) Osservare un periodo di riposo nella posizione di chiusura così come previsto alla lettera d). 

i) Ripetere ed annotare, alla fine del numero di cicli previsto, le misure di cui alla lettera e), unitamente 

ad ogni anomalia riscontrata. 

Sbattimento 

ANTINCENDIO 

Legislazione 

a) Posizionare il campione sul supporto previsto per la prova a fuoco dalla norma UNI EN 1634-1 con i 

dispositivi di chiusura rimossi o interdetti. 

b) Ripetere l’operazione di apertura descritta per la verifica di funzionalità alla lettera d) avendo cura di 

aumentare la velocità operativa del 50% per porte ad apertura manuale e per porte ad apertura 

motorizzata con velocità settabile ovvero alla velocità realmente consentita per porte ad apertura 

motorizzata con velocità non settabile. 

c) Ripetere l’operazione descritta per la verifica di funzionalità alla lettera e). 

d) Effettuare l’operazione di chiusura come descritto alla lettera b) per la fase di apertura. 

e) Ripetere l’operazione descritta per la verifica di funzionalità alla lettera h). 


ANTINCENDIO 

Legislazione 

SPECIALE 

Classificazione delle porte resistenti al fuoco 

Il sistema di classificazione adottato per le porte resistenti al fuoco è di seguito illustrato: 

E 15 20 30 45 60 90 120 180 240 

EI1 15 20 30 45 60 90 120 180 240 

EI2 15 20 30 45 60 90 120 180 240 

EW 20 30 60 

Allegato B 

Il requisito di tenuta E è l’attitudine di una porta o altro elemento di chiusura a non lasciar passare né 

produrre, se sottoposto all’azione dell’incendio su un lato, fiamme, vapori o gas caldi sul lato non 

esposto. La perdita del requisito E si ha al verificarsi di uno dei seguenti fenomeni: 

- aperture di fessure passanti superiori a fissate dimensioni (punto 10.4.5.3 della UNI EN 1363-1); 

- accensione di un batuffolo di cotone posto ad una distanza di 30 mm per un massimo di 30 s (punto 

10.4.5.2 della UNI EN 1363-1) su tutta la superficie; 

- presenza di fiamma persistente sulla faccia non esposta. 

Il requisito di isolamento I è l’attitudine di una porta od altro elemento di chiusura a ridurre entro un 

dato limite la trasmissione del calore dal lato esposto all’incendio al lato non esposto. 

La perdita del requisito di tenuta significa anche perdita del requisito di isolamento, sia che il limite 

specifico di temperatura sia stato superato o meno. 

Sono previsti due criteri di isolamento. 

Isolamento I1. 

Si considera che l’elemento in prova perde l’isolamento termico al verificarsi del primo dei seguenti 

fenomeni: 

- l’aumento della temperatura media sulla faccia non esposta supera i 140˚C (punto 9.1.2.2 della UNI EN 

1634-1); 

- l’aumento della temperatura su ogni punto dell’anta, con esclusione della zona entro 25 mm dal bordo 

visibile o foro di passaggio, supera i 180˚C (punto 9.1.2.4, lettera b) della UNI EN 1634-1); 

- l’aumento della temperatura sul telaio supera i 180˚C a una distanza di 100 mm dal foro di passaggio se 

il telaio è più largo di 100 mm o alla massima distanza possibile se il telaio è inferiore o uguale a 100 mm 

(punto 9.1.2.3 lettera b) della UNI EN 1634-1). 

Isolamento I2. 

Si considera che l’elemento in prova perde l’isolamento termico al verificarsi del primo dei seguenti 

fenomeni: 

- l’aumento della temperatura media sulla faccia non esposta supera i 140˚C (punto 9.1.2.2 della UNI EN 

1634-1); 

- l’aumento della temperatura su ogni punto dell’anta, con esclusione della zona entro 100 mm dal 

bordo visibile o foro di passaggio, supera i 180˚C (punto 9.1.2.3, lettera c) della UNI EN 1634-1); 

- l’aumento della temperatura sul telaio supera i 360˚C a una distanza di 100 mm dal foro di passaggio se 

il telaio è più largo di 100 mm o alla massima distanza possibile se il telaio è inferiore o uguale a 100 mm 

(punto 9.1.2.3, lettera b) della UNI EN 1634-1). 

Il requisito di irraggiamento W è l’attitudine di una porta o altro elemento di chiusura a resistere 

all’incendio agente su una sola faccia, riducendo la trasmissione di calore radiante sia ai materiali 

costituenti la superficie non esposta sia ad altri materiali o a persone ad essa adiacenti. 

Una porta od altro elemento di chiusura che soddisfa i criteri di isolamento I1 o I2 si ritiene che soddisfi 

anche il requisito di irraggiamento W per lo stesso tempo. La perdita del requisito di tenuta E significa 

automaticamente perdita del requisito di irraggiamento W. 


SPECIALE 

Variazioni consentite aggiuntive 

ANTINCENDIO 

Legislazione 

Allegato C 

1) Fatti salvi i limiti di estendibilità indicati nel campo di applicazione diretta dei risultati di prova, sono 

consentiti i seguenti trasferimenti dei risultati: 

a) è consentito il trasferimento dei risultati di prova da porte scorrevoli a più ante a porte scorrevoli con 

un minore numero di ante costruttivamente identiche in ogni dettaglio; 

b) è consentito il trasferimento dei risultati di prova da porta a due ante a battente, a porta realizzata 

con la sola anta primaria a condizione che il telaio fisso e la sezione dell’anta rimangano invariati 

mentre la nuova battuta dell’anta corrisponda alla battuta sul telaio perimetrale dell’anta del prototipo 

provato; 

c) è consentito il trasferimento dei risultati di prova da porta senza battuta a pavimento, a porta con 

battuta a pavimento; 

d) è consentito il trasferimento dei risultati di prova da porta a due ante uguali di cui una cieca e l’altra 

munita di specchiatura di diversa natura da quella di base di superficie non maggiore di 0,25 m 2 e del 

15% dell’intera superficie dell’anta stessa quale dei due inferiori, a porta con entrambe le ante o cieche 

o con specchiatura come l’anta del prototipo provato. In caso di prototipo con ante disuguali, le 

variazioni ammesse o da apportarsi sulla seconda specchiatura, corrispondono a quelle dei casi di 

variazione dimensionale di cui alla successiva lettera e); 

e) è consentito il trasferimento dei risultati di prova, nel caso di porte con ante con specchiatura, di 

diversa natura da quella di base, a porte con ante di dimensioni maggiori, minori o invariate nel rispetto 

delle seguenti condizioni: 

- la specchiatura può essere ridotta o eliminata, per prototipi provati con specchiatura di superficie non 

maggiore di 0,25 m 2 o del 15% dell’intera superficie dell’anta stessa, quale dei due inferiore; 

- la specchiatura può essere ridotta fino al 0,25 m 2 o al 15% dell’intera superficie dell’anta stessa, quale 

dei due superiore, per prototipi provato con specchiatura di superficie maggiore di suddette dimensioni; 

- le distanze dal bordo superiore e dai bordi laterali della nuova anta alla relativa specchiatura, devono 

essere non inferiori alle corrispondenti distanze del prototipo provato. Inoltre la distanza dal bordo 

inferiore della nuova anta alla relativa specchiatura non deve essere inferiore alla distanza del bordo 

superiore del prototipo provato alla relativa specchiatura; 

- non è ammesso alcun aumento dell’altezza e/o della larghezza della specchiatura che, inoltre, deve 

mantenere la stessa figura geometrica senza alcuna possibilità di rotazione. Nel caso di specie, rettangoli 

e quadrati possono essere considerati come una stessa figura geometrica. 

2) È ammesso il trasferimento dei risultati di prova a porte di dimensioni estese oltre il campo di 

applicazione diretta dei risultati di prova a condizione che: 

a) il campione in prova abbia dimensioni pari alle massime compatibili con la bocca del forno (2600 mm 

in larghezza e 2700 mm in altezza o superiori); 

b) il campione in prova abbia conseguito l’ulteriore margine di resistenza al fuoco previsto; 

c) il sistema costruttivo sia rigorosamente rispettato; 

d) siano presi tutti gli accorgimenti atti ad evitare un degrado della resistenza al fuoco (punti di chiusura, 

punti di ancoraggio fra i componenti, punti di fissaggio all’elemento di supporto proporzionali alle 

dimensioni lineari dell’elemento stesso e quant’altro il produttore ritenga necessario e adeguatamente 

sperimentato). 


ANTINCENDIO 

Commento 

Alcuni chiarimenti sulla corretta applicazione del D.P.R. 24 ottobre 2003, n. 340 

La risposta del MinInterno sul rifornimento 

dei serbatoi fissi interrati e non 

Il Dipartimento dei Vigili del 

Fuoco - Area Prevenzione Incendi 

- ha fornito, con la circolare 

24 giugno 2004, prot. n. 

P1122/4106/1 sott. 38, alcuni 

chiarimenti a quesiti posti sulla 

corretta applicazione del 

D.P.R. 24 ottobre 2004, n. 340, 

riguardanti la possibilità di 

riempimento dei serbatoi fissi 

utilizzando il sistema di scarico 

delle autocisterne conformi alle 

norme ADR, per impianti 

già esistenti non ancora adeguati 

alle disposizioni di sicurezza 

antincendio. La nota fornisce, 

inoltre, informazioni su 

indirizzi tecnici uniformi da 

adottare per l’ottenimento di 

una deroga necessaria in caso 

di installazione di serbatoi parzialmente 

o completamente 

fuori terra. 

SPECIALE 

Con la lettera circolare del 24 

giugno 2004, Prot. n. P1122/ 

4106/1 sott. 38, avente per 

oggetto «D.P.R. 24 ottobre 2003, 

n. 340 - Chiarimenti su norme di 

esercizio e modalità di installazione 

dei serbatoi fissi» il Ministero 

dell’Interno - Area Prevenzione incendi 

- ha fornito alcuni chiarimenti 

a domande pervenute in merito 

alla corretta applicazione del 

D.P.R. 24 ottobre 2003, n. 340, 

«Regolamento recante disciplina 

per la sicurezza degli impianti di 

distribuzione stradale di GPL per 

autotrazione» [1] . In particolare, i 

quesiti posti riguardavano la possibilità 

di riempimento dei serbatoi 

fissi utilizzando il sistema di scarico 

in dotazione ad autocisterne 

conformi alle norme ADR, presso 

impianti esistenti non ancora adeguati 

con il sistema di emergenza 

finalizzato alla sicurezza antincendio 

e la necessità di disporre di 

indirizzi tecnici uniformi per la 

concessione di deroghe qualora 

non fosse possibile l’interramento 

dei serbatoi fissi. A tali questioni, 

la nota ha fornito i seguenti chiarimenti. 

Riempimento 

da serbatoi fissi 

Il punto 15.2 dell’allegato A al 

D.P.R. n. 340/2003, stabilisce che 

le operazioni di riempimento dei 

serbatoi fissi possano essere effettuate 

con il motore dell’autocisterna 

in moto. L’autocisterna, in tale 

caso, deve essere provvista di sistema 

di sicurezza conforme alle 

vigenti norme ADR. Il decreto prevede 

anche che le norme di esercizio 

(punto 15 dell’allegato A) devono 

essere applicate dalla sua data 

di entrata in vigore, mentre è 

previsto un periodo di 5 anni per 

l’adeguamento degli impianti esistenti. 

In questa situazione, è ammesso 

effettuare il rifornimento dei 

serbatoi fissi utilizzando il sistema 

di scarico in dotazione all’autocisterna 

- e quindi con il motore 

accesso - nel caso in cui gli impianti 

esistenti non siano ancora 

stati adeguati con il sistema di 

emergenza, ma con l’autocisterna 

conforme alle norme ADR? 

La risposta della nota ministeriale 

è favorevole a questa possibilità, 

dato che le operazioni di rifornimento 

effettuate con il sistema 

di scarico in dotazione ad autocisterne 

conformi alle norme ADR, 

garantiscono la sicurezza anche in 

assenza del collegamento con il 

sistema di emergenza. Un altro 

motivo che induce a tale risposta 

può essere rintracciato nella ridu- 

[1] Si veda, sull’argomento, Stefano Marsella, Tecnica e procedure: le novità del D.P.R. n. 340/2003 sugli impianti stradali di 

distribuzione GPL, e I primi chiarimenti dei VVF sul D.P.R. n. 340/2003 per gli impianti di distribuzione GPL, in 

Ambiente&Sicurezza n. 1/2004, pag. 41 e pag. 56. 


zione delle percorrenze nel trasporto 

su strada del GPL che ha portato 

a consentire tale possibilità 

esclusivamente presso impianti esistenti 

e limitatamente al periodo 

transitorio. 

Per quanto riguarda la posa in 

opera dei serbatoi fissi, il chiarimento 

a cui risponde la nota riguarda 

le deroghe, e cioè la possibilità 

(istituita con il D.P.R. n. 

577/1982 e ribadita con il D.P.R. 

n. 37/1998) di chiedere l’adozione 

di misure di sicurezza alternative 

a quelle previste da una norma, 

purché non diminuisca il livello di 

sicurezza richiesto dalla normativa. 

A questo riguardo, per rispondere 

al quesito, la nota ha fatto 

riferimento al contenuto della lettera-circolare 

11 dicembre 2003, n. 

P154574106/1, sott. 38, «Pubblicazione 

del D.P.R. 24 ottobre 

2003, n. 340 - Chiarimenti ed indirizzi 

applicativi», ed ha quindi 

confermato la possibilità di chiedere 

deroghe per l’installazione dei 

serbatoi parzialmente o completamente 

fuori terra. La possibilità, si 

ricorda nella lettera circolare, è limitata 

ai casi in cui i serbatoi siano 

totalmente protetti in corrispondenza 

di ogni punto con idoneo 

spessore di materiale di ricoprimento. 

In tale caso, però, la nota 

specifica che devono essere seguiti 

i criteri di installazione previsti 

dalla bozza di regolamento allegata 

alla lettera-circolare n. 

P716/4106/1 sott. 38 del 24 giugno 

1999 «D.P.R. 24 ottobre 

2003, n. 340 - Chiarimenti su nor- 

me di esercizio e modalità di installazione 

dei serbatoi fissi.», 

(serbatoi totalmente o parzialmente 

fuori terra ubicati in cassa di 

contenimento di cemento armato o 

ricoperti con protezione catodica). 

Tale bozza, si ricorderà, recava in 

allegato uno schema di regolamento 

sui distributori stradali di GPL 

del quale molte parti (in particolare, 

quelle relative ai prodotti, e 

cioè anche ai serbatoi ed alle relative 

caratteristiche di messa in opera) 

non sono poi state adottate con 

il D.P.R. 24 ottobre 2003, n. 340, 

«Regolamento recante disciplina 

per la sicurezza degli impianti di 

distribuzione stradale di G.P.L. 

per autotrazione», rimandando 

per la posa in opera alle norme 

precedenti emanate sull’argomento. 

Circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile 

Direzione Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza Tecnica - Area prevenzione incendi 

24 giugno 2004, Prot. n. P1122/4106/1 sott. 38 

Oggetto: D.P.R. 24 ottobre 2003, n. 340 - Chiarimenti 

su norme di esercizio e modalità di installazione 

dei serbatoi fissi. 

Pervengono da alcuni Comandi provinciali dei Vigili 

del Fuoco e dalle Associazioni di categoria quesiti 

in merito alla corretta applicazione del D.P.R. 24 

ottobre 2003, n. 340, concernente: “Regolamento 

recante disciplina per la sicurezza degli impianti di 

distribuzione stradale di GPL per autotrazione”, per 

quanto attiene i seguenti aspetti: 

a) possibilità di riempimento dei serbatoi fissi 

utilizzando il sistema di scarico in dotazione ad 

autocisterne, conformi alle norme ADR, presso impianti 

esistenti non ancora adeguati con il sistema di 

emergenza finalizzato alla sicurezza antincendio; 

b) indirizzi tecnici uniformi per la concessione di 

deroghe qualora, per motivate esigenze, non sia possibile 

l’interramento dei serbatoi fissi. 

In merito alle questioni esposte si forniscono i 

seguenti chiarimenti. 

SPECIALE 

ANTINCENDIO 

Documento 

a) Il punto 15.2 dell’allegato A al D.P.R. n. 

340/2003, stabilisce che le operazioni di riempimento 

dei serbatoi fissi possono essere effettuate con 

motore dell’autocisterna in moto se quest’ultima è 

provvista di sistema di sicurezza conforme alle vigenti 

norme ADR, in grado di chiudere le valvole e 

spegnere il motore, e se tale sistema di sicurezza è 

collegato al sistema di emergenza dell’impianto di 

distribuzione finalizzato alla sicurezza antincendio. 

Il predetto regolamento stabilisce che le norme di 

esercizio di cui al punto 15 dell’allegato A - comprese 

le modalità di effettuazione delle operazioni di 

riempimento dei serbatoi - devono essere applicate 

dalla data di entrata in vigore dello stesso, mentre è 

previsto un periodo di 5 anni per l’adeguamento 

degli impianti esistenti, ivi incluso la realizzazione 

del sistema di emergenza. Ciò posto viene chiesto se 

sia ammesso effettuare il rifornimento dei serbatoi 

fissi utilizzando il sistema di scarico in dotazione 

all’autocisterna - e quindi con il motore acceso - nel 

caso in cui gli impianti esistenti non siano ancora 


ANTINCENDIO 

Documento 

stati adeguati con il sistema di emergenza, sempre 

che l’autocisterna sia conforme alle norme ADR. Al 

riguardo, considerato che le operazioni di rifornimento 

effettuate con il sistema di scarico in dotazione ad 

autocisterne conformi alle norme ADR, garantiscono, 

pur in assenza del collegamento con il sistema di 

emergenza, un livello di sicurezza non inferiore a 

quello ottenibile utilizzando le usuali attrezzature in 

dotazione agli impianti, e tenendo altresì presente 

che tale prassi permette di ridurre le percorrenze nel 

trasporto su strada del GPL, eliminando le fasi di 

pesatura presso i depositi a seguito di ogni singolo 

scarico di prodotto, si ritiene che la suddetta procedura 

possa essere adottata esclusivamente presso impianti 

esistenti e limitatamente al periodo transitorio 

stabilito per l’adeguamento alle misure previste dal 

titolo III dell’allegato A. Resta inteso che al di fuori 

dei casi sopra menzionati, il riempimento dei serbatoi 

fissi mediante il sistema di scarico delle autocisterne 

è subordinato, tassativamente, all’osservanza 

integrale delle disposizioni di esercizio di cui al 

punto 15 dell’allegato A citato D.P.R. n. 340/2003. 

SPECIALE 

b) In merito alle modalità di sistemazione dei 

serbatoi fissi, si ribadisce quanto già comunicato con 

lettera-circolare n. P154574106/1 sott. 38 dell’11 

dicembre 2003, confermando la possibilità di avanzare 

richiesta di approvazione in deroga, in presenza di 

motivate esigenze costruttive, per progetti di impianti 

che prevedano l’installazione dei serbatoi parzialmente 

o completamente fuori terra purché totalmente 

protetti in corrispondenza di ogni punto con idoneo 

spessore di materiale di ricoprimento. Al riguardo si 

ritiene che i criteri di installazione originariamente 

previsti ai punti 4.1, 4.2 e 4.3 della bozza di regolamento 

allegata alla lettera-circolare n. P716/4106/1 

sott. 38 del 24 giugno 1999, (ossia serbatoi totalmente 

o parzialmente fuori terra ubicati in cassa di contenimento 

di cemento armato o ricoperti con protezione 

catodica), possano costituire, fatte salve specifiche 

situazioni al contorno, un valido riferimento 

tecnico da seguire nell’esame delle istanze di deroga 

anche al fine di perseguire la necessaria uniformità 

applicativa. l 

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Le novità sugli appalti pubblici di lavori: dalla normativa europea a quella nazionale e regionale 

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Le attività soggette alle direttive “Seveso” sono tra quelle più esposte al rischio di incendio 

Incidenti rilevanti: il Ministero ribadisce le procedure 


Nonostante i numerosi provvedimenti 

nati per definire il tema 

del rilascio del certificato 

di prevenzione incendi nelle attività 

soggette a rischio di incidente 

rilevante, il Ministero 

dell’Interno ha ritenuto necessario 

emanare una ulteriore 

nota, del 31 maggio 2004, 

prot. n. DCPST/A4/RS/1054, che 

snellisse le procedure evidenziando 

la necessità di uniformarsi 

ai tempi previsti dalle disposizioni 

procedurali vigenti, 

nel rispetto del criterio di economicità 

dell’azione amministrativa. 

La nota, infatti, dispone 

che il certificato venga rilasciato 

entro i quindici giorni 

successivi alla comunicazione 

del positivo accertamento sopralluogo 

da parte del Comitato 

al Comando Provinciale dei 

VVF competente per territorio. 

SPECIALE 

La nota del Ministero dell’Interno 

31 maggio 2004, prot. n. 

DCPST/A4/RS/1054, a distanza 

di pochi mesi da un precedente chiarimento 

che verteva sul medesimo argomento, 

ha affrontato di nuovo il tema 

del rilascio del certificato di prevenzione 

incendi alle attività soggette al 

rischio di incidente rilevante. Nel nuovo 

chiarimento si esamina lo snellimento 

delle procedure, ribadendo la 

necessità di rispettare i tempi previsti 

dalle disposizioni procedurali vigenti 

nel rispetto del criterio di economicità 

dell’azione amministrativa. 

Le attività soggette alle “direttive 

Seveso” [1] sono, in molti casi, anche 

classificate tra quelle pericolose per il 

rischio di incendio o di esplosione, e 

quindi soggette all’obbligo di rilascio 

del certificato di prevenzione incendi. 

Questa doppia dipendenza è stata fonte 

di numerosi problemi interpretativi, 

dato che i due settori sono regolati 

da provvedimenti di legge e regolamentari 

differenti. 

Già nello scorso mese di gennaio, 

il Ministero dell’Interno, con la nota 

del 23 gennaio 2004, prot. n. DCPST/ 

A4/RS/209, «Semplificazione delle 

procedure di prevenzione incendi nelle 

attività a rischio di incidente rilevante 

soggette al D.Lgs. n. 334/1999. 

Chiarimenti», ha fornito alcuni chiarimenti 

a dei problemi legati all’interpretazione 

delle disposizioni regolamentari. 

In tale nota, venivano esaminati 

i due casi di attività soggette o 

non soggette all’obbligo di presenta- 

ANTINCENDIO 

Commento 

zione del rapporto di sicurezza. Nel 

primo caso si ribadiva la non assoggettabilità 

di tali impianti alle procedure 

disciplinate dal D.P.R. n. 

37/1998 (e cioè, la domanda di parere 

di conformità e quella di sopralluogo 

per il rilascio del certificato di prevenzione 

incendi) [2] ed il conseguente 

snellimento delle procedure realizzato 

con la partecipazione del Comando 

dei Vigili del Fuoco all’attività collegiale 

prevista dal D.Lgs. n. 334/1999, 

«Attuazione della direttiva 96/82/CE 

relativa al controllo dei pericoli di 

incidenti rilevanti connessi con determinate 

sostanze pericolose» e dal decreto 

ministeriale 19 marzo 2001 [3] , 

«Procedure di prevenzione incendi relative 

ad attività a rischio di incidenti 

rilevanti». Sempre a proposito delle 

attività soggette alla presentazione 

del rapporto, invece, la nota ricordava 

che i lavori non comportanti un aggravio 

del rischio non vincolano gli interessati 

alla richiesta di rilascio del certificato 

di prevenzione incendi. 

Nelle attività che non sono soggette 

all’obbligo di presentazione del rapporto 

di sicurezza, invece, i gestori 

sono comunque tenuti all’ottemperanza 

di quanto previsto nell’art. 5, «Obblighi 

generali del gestore», nell’art. 

6, “Notifica” e nell’art. 7, «Politica di 

prevenzione degli incidenti rilevanti». 

Per quanto riguarda lo snellimento 

delle procedure, il procedimento mediante 

autocertificazione (D.P.R. n. 

447/1998) non è applicabile nemmeno 

per le attività esenti dall’obbligo 

di presentazione del rapporto di sicurezza. 

[1] Si veda sull'argomento lo Speciale Rischio di incidenti rilevanti tra “Seveso III” e procedure nazionali, in Ambiente&Sicurezza 

n. 7/2004, pag. 17. 

[2] Il secondo comma dell'art. 1 del D.P.R. n. 37/1998, esclude esplicitamente dal campo di applicazione gli impianti a rischio di 

incidente rilevante: «Sono esclusi dall'ambito di applicazione del regolamento gli adempimenti previsti per il settore delle 

attività industriali a rischio di incidente rilevante soggette alla disciplina della notifica ai sensi del decreto del Presidente della 

Repubblica del 17 maggio 1988, n. 175 e successive modificazioni ed integrazioni». 

[3] Si veda sul tema, Stefano Marsella, Novità sulle competenze in materia di prevenzione incendi, inAmbiente&Sicurezza n. 

9/2001, pag. 44. 


ANTINCENDIO 

Documento 

Al chiarimento appena ricordato si 

aggiunge la nota del Ministero dell’Interno 

- Area rischi industriali - del 31 

maggio 2004, DCPST/A4/RS/1054, 

avente per oggetto «Certificato di Prevenzione 

Incendi per attività a rischio 

di incidente rilevante soggette a presentazione 

del rapporto di sicurezza 

ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 334/ 

1999. Chiarimenti». 

La nota del maggio 2004 prende 

nuovamente in considerazione il tema 

delle procedure di prevenzione incendi 

applicabili alle attività soggette a 

rischio di incidente rilevante ed alla 

presentazione del rapporto di sicurezza 

(art. 8 del D.Lgs. n. 334/1999). Ricordando 

che a questi impianti non si 

applicano le procedure del D.P.R. n. 

37/1998, «Regolamento recante disciplina 

dei procedimenti relativi alla 

prevenzione incendi a norma dell’articolo 

20, comma 8, della legge 15 marzo 

1997, n. 59», ma quelle semplificate 

di prevenzione incendi stabilite dal 

D.M. 19 marzo 2001 (in quanto esplicitamente 

disposto dall’art. 26, com- 

ma 2, del D.Lgs. n. 334/1999), la nota 

sottolinea che tali procedure sono finalizzate 

al rilascio del certificato. Questo, 

infatti, attesta il rispetto delle prescrizioni 

previste dalla normativa di 

prevenzione incendi, nonché la sussistenza 

dei relativi requisiti di sicurezza. 

Nel caso di specie, però, i tempi 

della procedura sono fissati dagli artt. 

4 e 5 del D.M. 19 marzo 2001 e quindi 

il certificato viene rilasciato o rinnovato 

entro quindici giorni dalla comunicazione 

del positivo accertamento sopralluogo 

da parte del Comitato di cui 

all’art.19 del D.Lgs. n. 334/1999 al 

Comando Provinciale dei Vigili del 

Fuoco competente per territorio (nelle 

attività ordinarie il termine previsto è 

di novanta giorni, termine che però 

comprende anche l’espletamento della 

visita sopralluogo). 

Anche la validità del certificato è stabilita 

all’art. 4, comma 2, del decreto ed 

è quinquennale (nelle attività ordinarie 

più complesse tale durata è triennale, 

mentre per quelle semplici il rinnovo 

avviene ogni sei anni). In questo modo, 

in sostanza, si armonizzano le procedu- 

re sui rischi di incidente rilevante con 

quelle di prevenzione incendi. 

Infine, un ulteriore problema emerso 

con l’applicazione dei provvedimenti 

regolamentari citati, ai quali la 

nota ha risposto esplicitamente, è 

quella della decorrenza del certificato 

di prevenzione incendi. A questo riguardo 

la circolare spiega che l’atto 

decorre dalla data del sopralluogo 

(svolto dall’organo collegiale). Per 

quanto riguarda i casi di “non aggravio” 

la nota ricorda (citando la precedente 

nota ministeriale del 23 gennaio 

2004, prot. n. DCPST/A4/RS/209) 

che, nel caso in cui siano effettuate 

modifiche non comportanti aggravio 

del preesistente livello di rischio, ai 

sensi del decreto del Ministero dell’Ambiente 

9 agosto 2000 [4] , «Linee 

guida per l’attuazione del sistema di 

gestione della sicurezza», il titolare 

dell’attività non deve chiedere un nuovo 

certificato. Tale atto, quindi potrà 

essere rinnovato alla sua scadenza naturale, 

fatte salve eventuali modifiche 

che aumentino il livello complessivo 

di rischio dell’impianto. 

Circolare del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico 

e della Difesa civile - Direzione Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza tecnica 

- Area Rischi Industriali 31 maggio 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1054 

Oggetto: Certificato di Prevenzione Incendi per 

attività a rischio di incidente rilevante soggette a 

presentazione del rapporto di sicurezza ai sensi 

dell’art. 8 del D.Lgs. 334/99. Chiarimenti 

Pervengono a questo Dipartimento quesiti in merito alle 

procedure di prevenzione incendi da applicare alle attività di 

rischio di incidente rilevante soggette a presentazione di 

rapporto di sicurezza ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. 334/99. 

Come è noto, nei casi in esame, non si applica il D.P.R. 

37/98 ma vanno espletate le procedure semplificate di prevenzione 

incendi stabilite dal D.M. 19 marzo 2001, in ottemperanza 

di quanto disposto dall’art. 26, comma 2, del D.Lgs. 

334/99. 

Tali procedure sono finalizzate al rilascio del certificato 

di prevenzione incendi quale attestato del rispetto delle prescrizioni 

previste dalla normativa di prevenzione incendi, 

nonché della sussistenza dei relativi requisiti di sicurezza. 

Ai sensi degli artt. 4 e 5 del D.M. 19 marzo 2001, il 

certificato viene rilasciato o rinnovato entro quindici giorni 

dalla comunicazione del positivo accertamento sopralluogo 

da parte del Comitato di cui all’art. 18 del D.Lgs. 334/99 al 

SPECIALE 

Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco competente per 

territorio. 

Si chiarisce che la validità quinquennale del certificato - 

stabilita all’art. 4, comma 2, proprio al fine di semplificare 

ed armonizzare le procedure sui rischi di incidente rilevante 

con quelle di prevenzione incendi - decorre dalla data del 

sopralluogo. 

Si ricorda che, come più volte precisato da questo Dipartimento 

(cfr. nota prot. n. DCPST/A4/RS/209 del 23 gennaio 

2004), nel caso in cui vengano effettuate modifiche non 

comportanti aggravio del preesistente livello di rischio, ai 

sensi del Decreto del Ministero dell’Ambiente 9 agosto 

2000, il titolare dell’attività non deve procedere a richiedere 

un nuovo Certificato di Prevenzione Incendi che, pertanto, 

va aggiornato e rinnovato alla sua scadenza. 

Al fine di evitare ritardi ed ingiustificati indugi procedurali, 

si raccomanda di adottare ed applicare tutte le misure 

ritenute necessarie ad espletare gli accertamenti sopralluogo 

e le conseguenti relative comunicazioni con la massima 

tempestività. 

Confidando nel consueto impegno, si evidenzia la particolare 

rilevanza della materia, raccomandando la puntuale ed 

attenta osservanza delle norme sopra richiamate. l 

[4] Si veda sull'argomento, di Annalisa Casoni, Le linee guida per aziende a rischio, inAmbiente&Sicurezza n. 18/2000, pag. 27. 


Per il Consiglio di Stato spetta ai Comitati Tecnici Regionali il controllo del rispetto delle prescrizioni 

Incidenti rilevanti: con due note chiariti 

i rapporti di ispezione e il loro coordinamento 

Secondo un parere fornito dal 

Consiglio di Stato, i Comitati 

Tecnici Regionali erano stati individuati 

come l’autorità preposta 

al controllo del rispetto 

delle prescrizioni risultanti dall’esame 

dei rapporti di sicurezza 

e dalle verifiche ispettive. 

Questo incarico, però, non risultava 

ben definito in tutte le 

sue peculiarità, ed è per questo 

motivo che si è resa necessaria 

la pubblicazione di due 

note esplicative del Ministero 

dell’Interno, qui di seguito 

pubblicate, che forniscono alcune 

precisazioni di grande importanza 

sull’attività di controllo 

dei CTR. individuando, inoltre, 

le modalità di coordinamento 

tra l’attività di controllo 

dei comitati e le attività di 

istruttoria. 

SPECIALE 

Con due note datate, rispettivamente, 

27 maggio 2004 e 1˚ 

giugno 2004, il Ministero dell’Interno 

- Area Rischi industriali - 

ha fornito delle precisazioni di grande 

importanza sull’attività di controllo 

dei Comitati tecnici regionali 

(CTR). Questi comitati sono stati 

istituiti presso le Direzioni regionali 

dei Vigili del Fuoco con il D.P.R. n. 

577/1982 ed hanno anche competenze, 

riconosciute anche dal D.Lgs. n. 

334/1999 sugli stabilimenti e le attività 

a rischio di incidente rilevante. 

Il motivo che ha portato all’emanazione 

delle due note deve essere 

rintracciato nel parere fornito dal 

Consiglio di Stato in merito all’individuazione 

dell’autorità preposta ai 

controlli degli stabilimenti ricadenti 

nelle “direttive Seveso”. In particolare, 

sollecitato da uno specifico 

quesito, il Consiglio di Stato ha attribuito 

ai CTR la veste di autorità 

preposta al controllo del rispetto delle 

prescrizioni che emergono dall’esame 

dei rapporti di sicurezza e 

dalle verifiche ispettive. Le precisazioni 

a cui si accenna si sono rese 

necessarie a causa di questa nuova 

incombenza, che viene a colmare 

un parziale vuoto legislativo, anche 

se era già stata prefigurata dal Ministero 


del Territorio. 

Con la nota 27 maggio 2004, 

DCPST/A4/RS/1040 «D.Lgs. n. 

334/1999 - individuazione dell’autorità 

preposta al controllo e adempimenti 

connessi ai rapporti finali 

d’ispezione» il Ministero ha dispo- 

ANTINCENDIO 

Commento 

sto che i Funzionari dei Vigili del 

Fuoco che fanno parte delle Commissioni 

ispettive curino la trasmissione 

del rapporto finale agli Organi 

dei Vigili del Fuoco (Comando provinciale, 

Direzione regionale ed uffici 

centrali). 

Con la successiva del 1˚ giugno 

2004, DCPST/A4/RS/1067 «Controlli 

ed ispezioni nelle attività a 

rischio di incidente rilevante» è stato 

ripreso l’argomento per ricordare 

ai Direttori Regionali VVF, in qualità 

di Presidenti dei CTR, che devono 

essere adottate tutte le misure di 

coordinamento tra l’attività di controllo 

e quella istruttoria. Tale operazione 

è essenziale in quanto le visite 

ispettive continuano ad essere coordinate 

dal Ministero dell’Ambiente 

e della Tutela del Territorio, che 

non ha rappresentanti nel CTR. Poiché, 

invece, nell’ambito delle commissioni 

ispettive coordinate da questo 

dicastero è prevista la presenza 

di un Funzionario VVF, con la nota 

del giugno 2004 si chiede che i rapporti 

finali di ispezione siano sottoposti 

direttamente al CTR. A loro 

volta, i CTR dovranno interessare 

tutte le istituzioni coinvolte (Prefetture, 

Comuni, Regioni e Comandi 

VVF) per favorire l’adozione dei 

provvedimenti di rispettiva competenza. 

Infine, si richiede ai CTR di 

inviare copia dei rapporti al Ministero 

dell’Ambiente e della tutela del 

territorio ed all’Area rischi industriali 

del Ministero dell’Interno per consentire 

l’opera di monitoraggio dell’attività 

di controllo su questi stabilimenti. 


ANTINCENDIO 

Documento 

Oggetto: D.Lgs. n. 334/1999 - Individuazione 

dell’autorità preposta al controllo e adempimenti 

connessi ai rapporti finali d’ispezione 

Si fa seguito alle note prot. n. 47426/25209/61.2 

del 5 maggio 2003 e prot. n. DPCST/A4/RS/909 del 

30 aprile 2004, concernenti l’oggetto, per trasmettere 

copia della nota DSA/2004/0008577 dell’8 aprile 

2004 con la quale il Ministero dell’Ambiente e della 

Tutela del Territorio ha reso noto il parere del Consiglio 

di Stato in merito all’individuazione dell’autorità 

preposta al controllo delle attività industriali a 

rischio di incidente rilevante. 

Tale parere accoglie sostanzialmente le conclusioni 

formulate a suo tempo dallo stesso Ministero dell’Ambiente, 

che affidavano ai CTR il potere di adotta- 


e della Difesa civile - Direzione Centrale per la Prevenzione 

e la Sicurezza tecnica - Area Rischi Industriali 

1˚ giugno 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1067 

Oggetto: Controlli ed ispezioni nell’attività a rischio 

di incidente rilevante 

In relazione al parere del Consiglio di Stato concernente 

l’oggetto, trasmesso dal Ministero dell’Ambiente 

e della Tutela del Territorio con nota 

DSA/2004/ 0008577 dell’8 aprile 2004, si invitano le 

SS.LL., in qualità di Presidenti dei CTR a voler 

adottare tutte le misure ritenute necessarie al coordinamento 

tra attività di controllo ed attività istruttoria 

sugli stabilimenti a rischio di incidente rilevante. 

In particolare, per quanto riguarda le ispezioni in 

corso da parte delle Commissioni nominate dal citato 

Ministero, si invita a voler disporre affinché i rapporti 

finali di ispezione - pervenuti da parte della commissione 

ispettiva, o da parte del componente del 

SPECIALE 


e della Difesa civile - Direzione Centrale per la Prevenzione 

e la Sicurezza tecnica - Area Rischi Industriali 

27 maggio 2004, Prot. n. DCPST/A4/RS/1040 

re tutti i provvedimenti connessi agli esiti delle procedure 

di controllo previste dal D.Lgs. 334/99, ivi 

comprese le misure di cui all’art. 27, comma 4. 

Ciò premesso, si invitano le SS.LL. a disporre 

affinché, nel momento in cui verrà redatto il rapporto 

finale delle ispezioni in corso di svolgimento, il 

componente del CNVVF facente parte della commissione 

ispettiva, ne curi l’immediata trasmissione, ai 

fini dell’attivazione delle necessarie conseguenti 

azioni, alla Direzione Regionale e al Comando Provinciale 

dei Vigili del Fuoco competenti per territorio 

nonché, per l’aggiornamento dell’attività di monitoraggio, 

all’Area Rischi Industriali di questo Dipartimento. 

Confidando nel consueto impegno, si rimane in 

attesa di assicurazione e riscontro. 

CNVVF facente parte della commissione stessa (cfr. 

nota prot. n. DCPST/A4/RS/1040 del 27 maggio 

2004) - vengano sottoposti all’attenzione del CTR 

A cura dei CTR verrà successivamente effettuata 

la trasmissione di copia dei rapporti ispettivi al Prefetto, 

al Sindaco, alla Regione ed al Comando Provinciale 

dei Vigili del Fuoco per l’eventuale adozione 

dei provvedimenti di rispettiva competenza, nonché 

al gestore ai fini della decorrenza dei termini di cui 

all’art. 25, comma 4, lettera a) del D.Lgs. 334/99 e, 

per opportuna conoscenza, alla Direzione Salvaguardia 

Ambientale del Ministero dell’Ambiente e della 

Tutela del Territorio ed all’Area Rischi Industriali di 

questa Direzione Centrale. 

Confidando nel consueto impegno, si rimane in 

attesa di assicurazione e riscontro. l 


ACQUE: 

NOVITÀ E APPROFONDIMENTI 

Il settore delle acque è costantemente al centro di un processo evolutivo sia per 

quanto riguarda la legislazione sia per le conseguenti ricadute tecnologiche, di 

mercato, ecc. 

Così, il recente D.M. n. 367/2003, che ha fissato «standard di qualità nell’ambiente 

acquatico per le sostanze pericolose» continua a sollevare perplessità interpretative 

e applicative; un primo segnale di risposta è arrivato dal Ministero dell’Ambiente 

con la direttiva 27 maggio 2004, che, nel dettare le disposizioni interpretative 

delle norme relative agli standard di qualità nell’ambiente acquatico per le sostanze 

pericolose, tende a ricondurre le stesse nell’ambito del decreto legislativo 11 maggio 

1999, n. 152, ridimensionando le interpretazioni estensive che erano state date 

al D.M. 367/2003, non soltanto dalla dottrina, ma, anche e soprattutto, dalle autorità 

alle quali competeva la sua attuazione. 

Un altro tema sempre molto “vivo” è quello dei servizi pubblici locali, le cui 

modifiche, per effetto della conversione del D.L. n. 269/2003 e della legge Finanziaria 

2004, si sono rese necessarie a seguito di una procedura d’infrazione comunitaria 

avviata dopo l’introduzione dell’art. 35, legge n. 448/2001. 

A dimostrazione della trasversalità della materia, non possono essere ignorati i 

problemi applicativi specifici legati alla realizzazione delle bonifiche, visto che 

riguardano, in primis, il trattamento delle acque emunte, oltre ai limiti per i 

suoli agricoli e ai valori previsti per alcuni inquinanti (PCB, idrocarburi e piombo 

tetraetile). 

Aperto resta anche il tema delle domande di autorizzazione allo scarico di 

acque meteoriche, la cui disciplina è resa ancora più confusa dall’assenza di una 

legislazione nazionale di riferimento; sull’argomento può essere utile una riepilogo 

dei principali passaggi operativi, anche prendendo spunto dalle realtà regionali già 

attive come quella lombarda. 

Interessante è anche lo studio realizzato dall’ISTAT che “fotografa” la distribuzione 

nazionale delle diverse tipologie di impianti di depurazione delle acque reflue 

urbane e sulle reti fognarie. 

Di recentissima pubblicazione è, infine, il decreto del Ministero della salute 6 

aprile 2004, n. 174 «Regolamento concernente i materiali e gli oggetti che possono 

essere utilizzati negli impianti fissi di captazione, trattamento, adduzione e 

distribuzione delle acque destinate al consumo umano» commentato sinteticamente 

a pag. 115 e sul quale seguiranno ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri 

di Ambiente&Sicurezza. 

Contributi di: 

● Luciano Butti 

● Fabio Muriano 

● Mara Chilosi e Andrea Martelli 

● Vincenzo Riganti 

● Maria Luisa Felici

ACQUA 

Articolo 

di Luciano Butti, Butti, Peres & Partner avvocati e professore di diritto dell’ambiente presso 

l’Università di Padova 

La disciplina italiana in materia 

di bonifica risulta difettosa 

e palesemente esagerata. Basti 

fare un paragone con i limiti 

di PCB per i suoli agricoli previsti 

in altri paesi europei. Si nota 

immediatamente che sono 

di molto superiori a quelli italiani, 

ponendo il dubbio che, 

in effetti, si dovrebbe prevedere 

un’opera di bonifica sulla 

base di un’analisi del rischio e 

non sul mero superamento dei 

valori tabellari. In merito, poi, 

all’autorizzazione per la realizzazione 

di interventi di bonifica 

delle acque emunte, il 

D.Lgs. n. 22/1997 prevede una 

preventiva autorizzazione comunale, 

che però, secondo il 

decreto, dovrebbe richiedersi 

anche per gli interventi di 

emergenza, con conseguente 

allungamento dei tempi, in 

contrasto con il significato del 

termine “urgenza”. Si riscontra, 

inoltre, una totale assenza 

di disposizioni che stabiliscano 

i valori limite accettabili degli 

inquinanti residui nelle acque 

emunte che, dopo il trattamento, 

devono essere scaricate in 

un corpo idrico ricettore. 

L'APPROFONDIMENTO 

Atteso il Testo Unico di settore per risolvere, almeno, una parte delle criticità 

Ancora problemi applicativi specifici 

per la bonifica di acque e suoli agricoli 

Èdavvero problematico, in Italia, 

impostare con serenità 

una complessa attività di bonifica 

di un sito contaminato. Infatti, 

la disciplina che l’Italia ha introdotto 

da pochi anni (arrivando perciò 

dopo la maggior parte degli 

altri Paesi europei) pecca, in alcuni 

aspetti, di astrattezza e contiene 

palesi esagerazioni. 

Ad esempio: 

● diversamente da quanto accade 

nella maggior parte degli altri Paesi, 

i valori di accettabilità per le contaminazioni 

(contenuti nelle tabelle 

del D.M. n. 471/1999) [1] non funzionano 

come valori di screening (oltrepassati 

i quali vi è l’obbligo di procedere 

ad analisi di rischio sito-specifica), 

ma, salvo eccezioni, costituiscono 

gli obiettivi dell’intervento di 

bonifica; 

● nonostante questo, i valori di 

accettabilità, in concreto, sono: 

- in taluni casi assai più severi 

rispetto a quelli vigenti all’estero 

(tipico esempio è il valore dei 

PCB nei suoli, come evidenziato 

di seguito); 

- in altri casi, addirittura più rigidi 

di quelli previsti per le acque potabili 

(è il caso di alcuni solventi); 

● la stessa analisi di rischio, che a 

determinate condizioni consente di 

realizzare una bonifica meno 

“spinta” di quella che comporterebbe 

il ritorno al di sotto dei limiti 

tabellari, non è chiaramente definita 

nel suo metodo e nei suoi contorni. 

Il risultato è molto semplice da 

descrivere: 

● le bonifiche stanno effettivamente 

“partendo” solo in situazioni molto 

specifiche; 

● la diversità di atteggiamento da 

parte delle diverse amministrazioni 

locali è impressionante, con conseguenti 

ingiustificabili disparità di 

trattamento fra gli operatori; 

● il contenzioso giudiziario è elevatissimo. 

È auspicabile che il futuro e 

atteso Testo Unico in materia di 

bonifiche possa risolvere almeno 

una parte dei problemi esistenti e 

consentire così che, grazie a una 

disciplina più equilibrata e realistica, 

le bonifiche possano davvero 

essere realizzate in tutto il territorio 

nazionale, con evidenti 

vantaggi per la salvaguardia ambientale. 

Nell’attesa, peraltro, è opportuno 

esaminare alcuni specifici problemi 

applicativi e interpretativi 

di notevole importanza pratica. 

Autorizzazione per la 

razione delle acque emunte 

Si esamina, in primo luogo, una 

problematica di tipo formale, relativa 

a ipotesi di messa in sicurezza o bonifica 

con emungimento e successivo 

trattamento delle acque sotterranee. 

[1] «Regolamento recante criteri e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi 

dell’articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni e integrazioni», in S.O. n. 218 alla 

Gazzetta Ufficiale del 15 dicembre 1999, n. 293. Si vedano anche i nn. 2/2000, 5/2000 e il Supplemento n. 6/2002. 


In alcuni casi, le autorità hanno 

richiesto che il trattamento delle acque 

emunte venga preventivamente 

autorizzato ai sensi degli artt. 27 e 28 

della normativa sui rifiuti (D.Lgs. n. 

22/1997 [2] ). 

Si tratta di una richiesta priva 

di fondamento giuridico e concretamente 

non attuabile. 

In primo luogo, infatti, nelle 

ipotesi di vera e propria bonifica, 

l’art. 17, comma 7, D.Lgs. n. 

22/1997, prevede che l’autorizzazione 

comunale alla realizzazione 

degli interventi «sostituisce a tutti 

gli effetti le autorizzazioni, (...) 

e gli assensi previsti dalla legislazione 

vigente per la realizzazione 

e l’esercizio degli impianti e delle 

attrezzature necessarie all’attuazione 

del progetto di bonifica». 

Ma anche nel caso di messa in 

sicurezza di emergenza, la strada 

della preventiva autorizzazione ai 

sensi del decreto “Ronchi” non appare 

concretamente praticabile, né 

legislativamente prevista, per le seguenti 

ragioni: 

● sul piano pratico, la particolare 

urgenza di queste attività (che, ai 

sensi dall’art. 7, D.M. n. 471/1999, 

devono addirittura essere attivate entro 

48 ore dall’evento che ha prodotto 

l’inquinamento) rende impossibile 

la preventiva acquisizione di una 

qualsiasi autorizzazione (tanto più 

nel settore dei rifiuti, dove è spesso 

necessaria anche la procedura di 

VIA); 

● anche dal punto di vista strettamente 

giuridico, la normativa prevede 

un meccanismo diverso dalla preventiva 

autorizzazione per la verifica, 

da parte delle autorità, dell’attività 

posta in essere e per l’eventuale 

imposizione di prescrizioni (vale a 

dire per gli obiettivi essenziali di 


qualsiasi regime autorizzatorio). E 

infatti: 

- nel caso di «notifica di pericolo 

di inquinamento e interventi di 

messa in sicurezza d’emergenza» 

(art. 7, D.M. n. 471/1999), le prescrizioni 

integrative del comune o 

della regione vengono adottate 

con provvedimento da emettersi 

nei trenta giorni successivi al ricevimento 

della comunicazione che 

attesta l’avvenuto inizio della messa 

in sicurezza (art. 7, comma 3, 

D.M. citato); 

- nel caso di «ordinanze» (art. 

8, D.M. n. 471/1999), il medesimo 

meccanismo trova applicazione 

per effetto del rinvio operato dal 

quarto comma dell’art. 8; 

- nel caso, infine, di «interventi 

ad iniziativa degli interessati» 

(art. 9, D.M. n. 471/1999), un meccanismo 

identico è previsto dal secondo 

comma dell’art. 9. 

Limiti di accettabilità per le 

acque emunte e trattate 

Dopo il trattamento, spesso effettuato 

con sistemi di depurazione 

a carboni attivi, le acque emunte 

vengono scaricate in un corpo 

ricettore, diverso a seconda dei 

casi. 

Si è posto il problema della individuazione 

dei limiti di accettabilità 

degli inquinanti compresi in 

questo scarico. 

Secondo una parte delle autorità 

amministrative coinvolte nei 

procedimenti di bonifica, lo scarico 

delle acque emunte dovrebbe, 

obbligatoriamente, rispettare i «valori 

di concentrazione limite accettabili 

nelle acque sotterranee» previsti 

dalla apposita tabella contenuta 

nel D.M. n. 471/1999. La stessa 

tesi è stata recentemente sostenuta, 

in linea di principio, pur senza 

ACQUA 

Articolo 

escludere, come si vedrà, la possibilità 

di eccezioni anche da un Giudice 

amministrativo (TAR Campania, 

sez. I. 3 maggio 2004, n. 

7756/04). 

Questa tesi appare priva di 

una giustificazione completamente 

convincente, per le seguenti 

ragioni: 

● nessuna norma impone espressamente 

l’obbligo di rispettare i 

valori del D.M. n. 471/1999 per lo 

scarico delle acque emunte e trattate; 

● se, comunque, si vuole individuare 

un riferimento di carattere 

generale, esso è offerto, per tutte 

le situazioni nelle quali le acque 

emunte e trattate vengono convogliate 

nel sistema di collettamento 

e depurazione di un impianto produttivo, 

dalla tabella 3 dell’Allegato 

5 al D.Lgs. n. 152/1999 [3] , che 

contiene proprio i limiti di accettabilità 

applicabili agli scarichi produttivi. 

● al contrario, tutta la disciplina 

sulle bonifiche è basata sull’approvazione 

comunale, cui compete individuare 

le caratteristiche dell’intervento 

di bonifica, con l’espressa 

possibilità di derogare al generale 

obbligo di ridurre i valori di 

inquinamento al di sotto dei limiti 

del D.M. n. 471/1999, ove essi 

non siano concretamente raggiungibili 

con l’applicazione delle migliori 

tecniche disponibili a costi 

accettabili. Questo aspetto è, peraltro, 

specificamente riconosciuto 

anche nella citata sentenza del 

TAR Campania 3 maggio 2004, n. 

7756/2004, che ammette (come eccezione 

alla regola generale) 

l’eventualità di dimostrare l’impossibilità 

di raggiungere allo scarico 

i limiti del D.M. 471/1999, 

purché sia documentato che questi 

[2] «Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di 

imballaggio», in S.O. n. 33 alla Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1997, n. 38. 

[3] «Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento 

delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezine delle acque dall’inquinamento provocato da nitrati 

provenienti da fonti agricole», in S.O. n. 101/L alla Gazzetta Ufficiale del 29 maggio 1999, n. 124. Si veda anche l’Inserto 

pubblicato nel n. 11/1999 di Ambiente&Sicurezza. 


ACQUA 

Articolo 

non sono raggiungibili utilizzando 

le migliori tecniche disponibili a 

costi accettabili. 

Pertanto, i valori da rispettare 

per lo scarico delle acque emunte 

e trattate non sono individuabili a 

priori in modo eguale per tutte le 

situazioni, ma devono essere definiti 

in sede di progettazione della 

bonifica o della messa in sicurezza, 

con la possibilità, ovviamente, 

per l’autorità competente all’approvazione 

del progetto, di richiedere 

un intervento più spinto, anche 

se sulla base di un’analisi specifica 

del sito. 

Valori di accettabilità 

per i suoli agricoli 

La normativa sulle bonifiche 

contiene (nel D.M. n. 471/1999) la 

tabella contenente l’elenco dei limiti 

di accettabilità per la contaminazione 

dei siti, con valori differenziati 

a seconda che si tratti di 

siti: 

● a uso «verde pubblico, privato e 

residenziale» (colonna A); 

● a uso «commerciale e industriale» 

(colonna B). 

Manca, invece, ogni espressa indicazione 

in merito ai limiti di riferimento 

per quanto riguarda le zone 

a finalità agricole. 

L’art. 17, comma 15, D.Lgs. n. 

22/1997 stabiliva, infatti, che «i 

limiti (...) relativi ad aree destinate 

alla produzione agricola e all’allevamento» 

dovessero essere 

«definiti ed approvati di concerto 

con il Ministero delle risorse agricole, 

alimentari e forestali»; tuttavia, 

a oggi, questa determinazione 

interministeriale non è ancora avvenuta. 

Secondo l’orientamento che alcuni 

enti locali ufficiosamente dichiarano 

di voler seguire, alle zone 

agricole si applicherebbero 

“per analogia” i limiti previsti per 

le zone residenziali. 


È presumibile si tratti di una 

tesi giuridicamente e tecnicamente 

infondata. E infatti: 

● l’interpretazione strettamente 

letterale del dato normativo porta, 

al contrario, a concludere che attualmente, 

in ragione della citata 

vistosa lacuna legislativa - e, anzi, 

in attesa che la stessa venga colmata 

dai competenti ministeri così 

come previsto dall’art. 17, comma 

15, D.Lgs. n. 22/1997 - non esiste 

alcun valore-limite statale di accettabilità 

che possa essere utilizzato 

come riferimento generale per le 

zone a uso agricolo; 

● un’ulteriore argomentazione 

nella stessa direzione è basata sul 

generale principio di riserva di legge 

statale in materia penale. Poiché 

l’omessa bonifica prevede la 

sanzione penale, l’eventuale applicazione 

di questo tipo di punizione 

a seguito del mancato rispetto 

dei limiti di accettabilità desunti 

solo in via analogica da quelli previsti 

per suoli diversi, porterebbe 

a una palese violazione del suddetto 

principio. 

Naturalmente, è ragionevole 

che gli organi di controllo e gli 

enti locali intendano introdurre alcune 

cautele, che, peraltro, devono 

trovare fondamento nella normativa 

vigente. 

La Regione Lombardia si è dotata 

di uno strumento giuridico pienamente 

utilizzabile a questo scopo; 

si tratta della delibera della 

Giunta Regionale 1˚ agosto 1996, 

n. 6/17252 [4] (provvedimenti analoghi 

esistevano in altre regioni; si 

vedano, ad esempio, per la Toscana, 

le deliberazioni del Consiglio 

regionale nn. 167/1993 e 

169/1995). 

I valori che questa delibera prevede 

per la maggior parte delle 

sostanze inquinanti sono, per lo 

più intermedi fra quelli che il 

D.M. n. 471/1999, prevede, rispet- 

tivamente, per le zone destinate a 

verde pubblico privato e residenziale 

e per quelle a uso commerciale 

e industriale. 

Gli argomenti giuridici favorevoli 

all’applicabilità di questa delibera 

sono in sintesi i seguenti: 

● l’art. 57, comma 1, D.Lgs. n. 

22/1997 fa salve, «sino all’adozione 

delle specifiche norme adottate 

in attuazione del presente decreto», 

le «norme regolamentari e tecniche» 

(eventualmente, anche regionali) 

precedenti al decreto Ronchi; 

● l’art. 18, comma 2, del D.M. n. 

471/1999 dispone che «restano validi 

ed efficaci» i progetti di bonifica 

già approvati prima della entrata in 

vigore dello decreto stesso; in tal 

modo, in particolare per i suoli 

(quelli agricoli) per i quali non sono 

stati introdotti nuovi limiti statali, 

viene, implicitamente, ma chiaramente, 

riconosciuta la validità sanitaria 

e ambientale dei limiti regionali 

preesistenti; 

● in mancanza del “concerto” fra i 

Ministeri competenti in esito al quale 

lo Stato avrebbe dovuto emanare 

i limiti per i suoli agricoli (art. 17, 

comma 15, D.Lgs. n. 22/1997), non 

si può ritenere vigente per questi 

suoli alcun altro limite di derivazione 

statale, mentre le regioni conservano 

un generale potere di integrare 

i limiti statali. 

Le considerazioni che precedono 

trovano oggi espressa e autorevole 

conferma nella decisione 

del TAR Milano, sez. I, 11 novembre 

2003, n. 4982, che così 

testualmente afferma: «In difetto 

di normativa specifica, ai terreni 

agricoli non possono applicarsi 

automaticamente - cioè senza 

una specifica motivazione che 

dia conto della necessità di bonifica 

in rapporto a particolari livelli 

di contaminazione - i valori 

dettati per terreni a destinazione 

diversa». 

[4] «Standard di qualità dei suoli per la bonifica dei terreni contaminati sul territorio lombardo» (in 2˚ S.S. al B.U.R. del 10 

ottobre1996, n. 41) 


La tesi opposta è stata invece 

sostenuta dal TAR Umbria (sentenza 

8 aprile 2004, n. 168). Secondo 

questa decisione, alle zone agricole 

si applicherebbero “per analogia” 

i limiti previsti per le zone 

residenziali. Il Tribunale umbro 

valorizza, al fine di pervenire a 

questa conclusione, per certi aspetti 

sorprendente, i seguenti argomenti: 

● esiste un parere espresso dall’Istituto 

Superiore di Sanità (nota 6 novembre 

2003, n. prot. 051899), secondo il 

quale anche per i suoli agricoli «i valori 

di concentrazione» previsti dal 

D.M. 471/1999 per le aree residenziali 

«possono essere considerati sufficientemente 

cautelativi anche in relazione 

a scenari multipli di esposizione 

umana (ingestione, inalazione e 

contatto dermico) sia di tipo diretto 

che indiretto»; 

● una diversa interpretazione renderebbe 

inapplicabile, nelle aree agricole, 

la normativa sulle bonifiche; 

● la coltivazione connessa alla destinazione 

agricola, permettendo alle 

sostanze inquinanti di essere assimilate 

nei prodotti destinati all’alimentazione, 

richiede limiti di concentrazione 

non meno cautelativi di 

quelli ritenuti adeguati per il verde 

(urbano). 

La tesi dei giudici umbri appare 

giuridicamente insostenibile, per le 

ragioni sopra specificate. Non si 

può del resto sostenere (come fa 

espressamente il TAR Umbria) che 

la bipartizione su cui è incentrata la 

tabella 1, Allegato 1 al D.M. n. 

471/1999, possa intendersi come 

una semplificazione comprensiva 

dell’intera gamma delle possibili destinazioni 

urbanistiche (compresa 

quella agricola) dei siti contaminati. 

Infatti, il D.Lgs. n. 22/1997, prevedeva 

uno specifico provvedimento 


interministeriale per la definizione 

dei limiti agricoli che, peraltro, non 

è stato emanato. 

In conclusione, non si reputa 

legittima un’ordinanza comunale 

che - ritenuti senz’altro applicabili 

per i suoli agricoli i limiti stabiliti 

dal D.M. n. 471/1999 per le zone 

residenziali - diffidi il privato a 

bonificare terreni agricoli aventi 

concentrazioni superiori a quelle 

fissate per i suoli residenziali dal 

D.M. n. 471/1999; in particolare: 

● nelle regioni dove esiste una normativa 

regionale previgente, essa deve 

essere applicata; 

● nelle regioni invece dove questa 

normativa manca, la questione andrà 

necessariamente risolta, caso 

per caso, sulla base di una analisi di 

rischio. 

I valori limite per i PCB 

per il D.M. n. 471/1999 

È assai diffusa l’affermazione 

secondo la quale i valori di accettabilità 

previsti dal D.M. n. 

471/1999 sono molto rigidi. 

Si verifica, quindi, la correttezza 

di questa affermazione, con riferimento 

specifico al caso dei PCB 

(policlorobifenili), attraverso il 

confronto dei valori italiani con 

quelli di altri Paesi europei. 

La normativa italiana in materia di 

bonifiche (D.M. n. 471/ 1999) prevede 

- per i PCB - i seguenti «valori di 

concentrazione limite accettabili nel 

suolo e nel sottosuolo riferiti alla specifica 

destinazione d’uso dei siti da 

bonificare»: 

● siti a uso verde pubblico, privato 

e residenziale: 0,001 mg/kg; 

● siti a uso commerciale e industriale: 

5 mg/kg. 

In Germania la normativa sulle 

bonifiche identifica: 

● tre tipi di valori: “valori di scree- 

ACQUA 

Articolo 

ning ”[5] , “valori di azione ”[6] (fissati 

solo per un ristretto gruppo di contaminanti) 

e “valori di cautela”; 

● quattro differenti utilizzazioni 

del suolo (“giochi per bambini”, 

“aree residenziali”, “parchi e aree 

ricreative” e “siti industriali e commerciali”); 

● tre tipi di possibile percorso dei 

contaminanti (“suolo-esseri umani 

attraverso contatto diretto”; “suoloraccolti 

agricoli”; “suolo-falda”). 

Per quanto concerne i PCB, la 

legislazione tedesca vigente individua: 

● “valori di screening” esclusivamente 

con riferimento ai percorsi 

“suolo-esseri umani attraverso contatto 

diretto” e “suolo-falda”; 

● “valori di azione” esclusivamente 

con riferimento al percorso 

“suolo-raccolti agricoli”; 

● “valori di cautela”. 

I valori fissati per i PCB sono 

significativamente superiori a 

quelli previsti dalla legislazione 

italiana (così, ad esempio, per i 

siti industriali e commerciali, il 

valore di screening fissato per i 

PCB con riferimento al percorso 

“suolo - esseri umani attraverso 

contatto diretto” è di 40 mg/kg). 

In Svezia non esiste alcuna fissazione 

legislativa di un valore 

massimo tollerato di PCB nei suoli 

(la necessità o meno della bonifica 

viene definita sulla base dell’analisi 

di rischio). Vi sono, tuttavia, 

linee guida per i valori di 

PCB nei suoli, definite sulla base 

dei potenziali effetti sulla salute 

umana (rischio di ingestione e di 

contatto). 

Questi limiti, definiti in relazione 

alla somma totale di sette congeneri, 

sono superiori rispetto a 

quelli fissati dal D.M. n. 

471/1999. Ad esempio, per le aree 

[5] Al di sotto dei quali nessuna ulteriore indagine è richiesta e il suolo si considera non contaminato. Al di sopra del valore, si 

pretende un’analisi di rischio per valutare se sussista o meno un rischio significativo. 

[6] Al di sopra dei quali il suolo si considera contaminato; tuttavia, anche in questo caso, la necessità e gli obiettivi dell’intervento 

di bonifica vengono definiti sulla base di una valutazione del rischio. In altre parole, i “valori di azione” (così come i “valori di 

screening”) non costituiscono l’obiettivo dell’intervento di bonifica che - lo si ripete - viene definito caso per caso sulla base 

dell’analisi di rischio. 


ACQUA 

Articolo 

sensibili si parla di 0,02 mg/kg, 

mentre per quelle non sensibili di 

7 mg/kg. 

Con riferimento, poi, ai potenziali 

effetti ecotossicologici, vi sono 

valori ancora 

più elevati. 

In Francia, i limiti 

di contaminazione 

dei suoli 

da PCB sono fissati 

in tre modi 

differenti e per 

due differenti 

combinazioni di 

congeneri. I valori 

riguardanti i 

suoli non sensibili 

variano tra 17 

e 60 mg/kg, e sono 

perciò assai 

superiori a quelli 

previsti dalla normativa 

italiana per le aree industriali. 

In Danimarca, Austria, Norvegia, 

Regno Unito e Finlandia non 

esiste alcuna fissazione legislativa 

di un valore massimo tollerato di 

PCB nei suoli (la necessità o meno 

della bonifica viene definita 

sulla base dell’analisi di rischio). 

Del resto, l’incongruità dei limiti 

fissati per i PCB dalla normativa 

italiana sulla contaminazione 

dei suoli (D.M. n. 471/1999) è già 

stata sostanzialmente riconosciuta 

anche in alcuni documenti ufficiali 

delle Autorità. Ad esempio: 

● il rapporto 2002 di ARPAV sullo 

L’incongruità dei limiti 

fissati per i PCB dalla 

normativa italiana sulla 

contaminazione dei 

suoli (D.M. n. 471/1999) 

è già stata 

sostanzialmente 

riconosciuta anche in 

alcuni documenti 

ufficiali delle Autorità 


stato dell’ambiente nella provincia 

di Verona mostra - in tutte le aree a 

uso verde pubblico della Provincia 

di Verona - concentrazioni di PCB 

comprese tra 1 e 14 microgrammi/ 

kg, tutte, perciò, 

assai superiori al 

limite di concentrazioni 

fissato 

dalla normativa 

per le aree residenziali 

[7] ; 

● lo stesso sito 

ufficiale dell’APAT 

afferma 

che le concentrazioni 

fissate, 

quanto ai PCB, 

dal D.M. n. 

471/1999 per le 

aree residenziali 

sono «così basse» 

da risultare 

«difficilmente determinabili». 

Alla luce di questi dati si può 

concludere che: 

● in gran parte dei Paesi considerati 

(e anche in parte di quelli nei 

quali la legislazione individua limiti 

per i PCB) la necessità o meno 

della bonifica viene definita 

sulla base dell’analisi di rischio e 

non per il mero superamento di un 

determinato valore tabellare; 

● nei Paesi dove la legislazione 

individua limiti di contaminazione 

dei suoli riferiti ai PCB, questi 

limiti sono significativamente più 

elevati di quelli italiani [8] ; 

● l’irrazionalità dei limiti italiani 

è già stata sostanzialmente riconosciuta 

in alcuni documenti ufficiali 

delle Autorità; 

● conseguentemente, è ragionevole 

supporre che dal mero superamento 

dei valori previsti per i 

PCB dal D.M. n. 471/1999 non 

derivi necessariamente un rischio 

sanitario e/o ambientale. 

IC e Pb: la bagarre TAR - 

Istituto Superiore di Sanità 

Due ulteriori parametri sui quali 

- dopo l’approvazione del D.M. 

n. 471/1999 - la discussione tecnica 

è stata assai accesa sono gli 

idrocarburi e il piombo tetraetile. 

In particolare, l’Istituto Superiore 

di Sanità ha sostenuto - fornendo 

criteri più rigorosi di quelli risultanti 

dal testo letterale del 

D.M. 471/1999 - che dovrebbero 

essere sempre osservati il limite di 

10 microgrammi/litro per gli idrocarburi 

totali nelle acque sotterranee 

e di 0,5 microgrammi/litro per 

il piombo tetraetile. 

La recentissima sentenza del 

TAR Campania, sez. I, 3 maggio 

2004, n. 7756/04 ha però dato 

torto all’Istituto Superiore di Sanità, 

sostenendo che valori più 

restrittivi di quelli previsti dal 

D.M. n. 471/1999 non possono 

essere imposti sulla base di un 

ragionamento tecnico di carattere 

generale (anche se fondato), ma 

soltanto alla luce di considerazioni 

specifiche riguardanti il sito da 

bonificare. l 

[7] Un dato appare estremamente significativo. Il paragrafo 7.4.2 del Rapporto ARPAV citato nel testo analizza la concentrazione 

di numerosi inquinanti nei suoli a uso residenziale o a verde pubblico. Per tutti gli inquinanti diversi dai PCB considerati 

(piombo, rame, zinco, cadmio, mercurio, nichel e cromo) vengono rinvenute - ovunque o quasi - concentrazioni inferiori ai 

limiti fissati dal D.M. n. 471/1999 per la contaminazione delle aree dotate di tale destinazione; questa circostanza viene 

debitamente evidenziata da ARPAV (si vedano, infatti, le osservazioni contenute nelle pagine da 7.10 a 7.16) come 

dimostrazione che la “situazione attuale” è positiva (si veda la tabella riassuntiva degli indicatori a p. 7.9). Al contrario, per i 

PCB, i valori rinvenuti (si veda p. 7.17) sono - come si è detto nel testo - tutti superiori al valore di 1 microgrammo/Kg (0,001 

mg/Kg) indicato dal D.M. n. 471/1999 come limite di accettabilità per la contaminazione dei suoli residenziali. Nonostante 

questo, la “situazione attuale” viene giudicata da ARPAV positiva (si veda la tabella riassuntiva degli indicatori a p. 7.9), sul 

presupposto che si tratta di valori «dello stesso ordine di grandezza di analoghi studi condotti in altri paesi europei» (cfr. p. 

7.17). Vi è un’unica possibile conclusione, ovvero che sono i valori fissati per i PCB dal D.M. n. 471/1999 a essere del tutto 

eccentrici e incongrui. 

[8] Per i PCB, l’estrema rigidità dei valori previsti dalla normativa italiana sulle bonifiche appare paradossale se si considera che, 

con esagerazione opposta, la disciplina degli scarichi (D.Lgs. n. 152/1999) non contiene per questi composti organici alcun 

valore di emissione. 


di Fabio Muriano, responsabile unità organizzativa acque - difesa del suolo 

- Amministrazione provinciale di Lecco 

In mancanza di un chiarimento 

definitivo del quadro normativo 

nazionale, reso ancora più confuso 

dalla facoltà attribuita alle 

amministrazioni regionali di introdurre 

autonomi elementi interpretativi, 

la disciplina delle acque 

meteoriche presenta, allo 

stato attuale, accanto a qualche 

“luce”, parecchie “ombre”, soprattutto 

con riferimento alle 

procedure previste per le istruttorie 

delle domande di autorizzazione 

allo scarico. Possono essere 

utili, quindi, alcuni suggerimenti 

tecnici, sulla base anche 

di esperienze condotte su casi 

differenti, prevedendo, come 

prima chiave di lettura, una tripartizione 

delle acque meteoriche 

a seconda che provengano 

da agglomerati, venendo convogliate 

in reti fognarie separate, 

piuttosto che da stabilimenti industriali 

(nel cui caso andranno 

distinte quelle contaminate da 

quelle non) o da insediamenti 

di tipo residenziale o da servizi. 

Interessante, a questo scopo, 

può essere il paragone con la legislazione 

di una regione “di peso” 

quale la Lombardia. 


La disciplina delle acque meteoriche 

risulta solo vagamente individuata 

dalla normativa statale 

vigente sulla tutela delle acque 

(articolo 39 D.Lgs. n. 152/1999); 

peraltro, l’articolo citato assegna alle 

regioni il compito di specificare 

meglio la materia. Nell’attesa che il 

quadro normativo di riferimento 

venga meglio precisato, può essere 

utile proporre alcuni suggerimenti 

tecnici da tenere in considerazione 

in occasione delle istruttorie per le 

domande di autorizzazione allo scarico 

[1] , con particolare riferimento 

agli scarichi di acque meteoriche 

provenienti: 

● da agglomerato e convogliate in 

reti fognarie separate; 

● da stabilimenti industriali; 

● da insediamenti di tipo residenziale 

o da servizi. 

Acque meteoriche 

provenienti da agglomerato 

Si ritiene che l’obbligo di acquisire 

specifica autorizzazione 

ex D.Lgs. n. 152/1999, valga anche 

nel caso degli scarichi di acque 

meteoriche provenienti da reti 

fognarie separate [2] . Nell’autorizzazione 

dovranno essere individuati 

come scarichi di reti per sole 

acque meteoriche e non potranno 

cambiare uso e destinazione, 

se non dopo che il titolare abbia 

ACQUA 

Articolo 

Resta auspicabile una migliore definizione del quadro normativo nazionale 

Scarichi di acque meteoriche: 

suggerimenti per le autorizzazioni 

presentato nuova domanda e ottenuto 

la relativa autorizzazione. 

L’opportunità di far presentare la 

domanda e autorizzare esplicitamente 

questa tipologia di scarichi 

deriva dalla constatazione che 

spesso tali reti non raccolgono solo 

acque meteoriche, ma anche 

acque reflue, per via di immissioni 

ignorate o, nella peggiore delle 

ipotesi, addirittura autorizzate dal 

titolare della rete. È, pertanto, opportuno 

disciplinare il funzionamento 

di queste reti con un’autorizzazione, 

prevedendo la disattivazione 

delle eventuali immissioni 

anomale esistenti o vietando le 

nuove, qualora, al momento, non 

ce ne siano. Infatti, si ritiene che 

le reti provenienti da agglomerato 

destinate alla raccolta delle sole 

acque meteoriche non debbano ricevere 

scarichi di reflui domestici 

o industriali e nemmeno di acque 

meteoriche contaminate. Potrà essere 

ammesso, invece, il convogliamento 

in queste reti delle acque 

di pioggia scolmate dagli scaricatori 

di piena ubicati sulle reti 

miste per acque reflue urbane [3] . 

Qualora sorgano dubbi circa la 

presenza di acque reflue o meteoriche 

contaminate nella rete in relazione 

alla quale è stata presentata 

domanda di autorizzazione allo 

scarico come tombinatura, è oppor- 

[1] Alcune disposizioni illustrate discendono dall’applicazione della vigente normativa di settore della Regione Lombardia. Esse 

sono state ugualmente inserite perché possono costituire un valido confronto per chi opera in altre regioni d’Italia e possono 

(segue) 


ACQUA 

Articolo 

tuno che, durante il sopralluogo 

istruttorio, venga prelevato dall’ARPA 

un campione dallo scarico 

per la ricerca analitica dei parametri 

che possono confermare la 

tipologia di acque scaricate. 

Nel caso in cui si sospetti: 

● la presenza di acque reflue domestiche 

nella rete, è opportuno 

che venga cercata in sito, nel campione 

prelevato, la presenza di ammoniaca 

e venga letto il valore di 

pH; 

● la presenza di acque reflue industriali 

o meteoriche contaminate, 

dovranno essere cercate le sostanze, 

scelte dall’ARPA, che possono 

contaminare le acque scaricate, in 

relazione alla tipologia di insediamenti 

industriali presenti nella zona 

attraversata dalla rete oggetto 

dell’istruttoria; 

Qualora vengano rilevate (anche 

indirettamente attraverso le analisi 

di cui ai punti precedenti) acque reflue 

o meteoriche contaminate in reti 

per le quali è stata presentata domanda 

come scarico di rete per acque 

bianche, si ritiene che gli scarichi 

di questi condotti non debbano 

essere autorizzati come scarichi di 

reti per sole acque meteoriche. 

Nel corso dell’istruttoria (se 

possibile durante lo stesso sopralluogo) 

si dovrà accertare la volontà 

del titolare dello scarico, ovvero 

se intenda utilizzare la condot- 


ta come rete di raccolta di sole 

acque meteoriche o mischiandole 

alle reflue urbane (si veda lo schema 

1). L’istruttoria potrà concludersi 

con il rilascio di un’autorizzazione 

allo scarico (dando atto 

che attualmente la rete funziona 

come rete mista) solo nel caso in 

cui l’entità (stimata sulla base degli 

elementi raccolti in istruttoria) 

di acque reflue o meteoriche contaminate 

presenti in tombinatura 

sia modesta e il titolare dello scarico 

manifesti la volontà di utilizzare 

la rete per la raccolta delle 

sole acque meteoriche. In autorizzazione 

dovrà essere prescritto al 

titolare di individuare, entro una 

precisa tempistica, gli scarichi esistenti 

di acque reflue domestiche, 

industriali o meteoriche contaminate, 

procedendo poi alla loro disattivazione. 

Nel caso, invece, in cui l’entità 

di queste acque presenti in tombinatura 

sia significativa e, quindi, 

la risoluzione del problema sia 

più complessa, l’istruttoria si dovrà 

concludere con un rigetto. Il 

titolare dello scarico dovrà presentare 

nuova domanda classificando 

il complesso di condotte come rete 

mista, indicando nell’istanza 

gli interventi e la relativa tempistica 

previsti per farla funzionare: 

● per la raccolta di sole acque 

meteoriche, con disattivazione degli 

allacciamenti di scarichi di ori- 

gine domestica e/o industriale attualmente 

esistenti, 

● come rete mista di raccolta di 

acque reflue urbane, con conseguente 

collegamento a un impianto 

di trattamento. 

Si ritiene che non debbano essere 

oggetto di autorizzazione le bocche 

di scarico di condotte realizzate 

esclusivamente per intubare rogge, 

acque sorgive e di drenaggio 

(anche queste tubazioni talvolta sono 

denominate tombinature). 

Infine, si ricorda, che è sempre 

consentito «recapitare sul suolo» 

o negli strati superficiali del sottosuolo 

scarichi di rete fognaria convoglianti 

esclusivamente acque 

bianche (articolo 29, comma 1, lettera 

e), D.Lgs. n. 152/1999). 

Scarichi provenienti 

da stabilimenti industriali 

Per la disciplina delle acque meteoriche 

provenienti da stabilimenti 

industriali, si deve premettere 

che, per dare chiarezza alla materia, 

sarebbe opportuno che le regioni 

emanassero una specifica disciplina 

in base ai principi fissati 

dall’articolo 39, D.Lgs. n. 152/ 

1999 [4] . 

Per quanto riguarda la Regione 

Lombardia, ad esempio, le disposizioni 

contenute nella L.R. n. 

62/1985 [5] , rispetto alle acque meteoriche 

(articoli 19 e 20), risulta- 

fornire qualche idea utile per quegli argomenti rispetto ai quali la regione di riferimento non ha ancora emanato alcuna 

disciplina specifica. 

[2] Sono le cosiddette “reti per acque bianche” o “tombinature”. 

[3] Riguardo alla distinzione tra “acque meteoriche contaminate” e “non contaminate”, si rimanda a quanto indicato nel 

paragrafo successivo. 

[4] L’articolo 39, D.Lgs. n. 152/1999, per quanto riguarda gli scarichi di acque meteoriche provenienti da stabilimenti industriali, 

fornisce due indicazioni. In primo luogo, in base al comma 1, lettera b), le regioni devono individuare i casi particolari in cui 

gli scarichi delle acque meteoriche di dilavamento provenienti da altre reti separate devono essere autorizzati e sottoposti a 

specifiche prescrizioni (il termine altre sembra riferirsi al fatto che tali reti sono diverse da quelle fognarie separate pubbliche 

di cui alla lettera a) del medesimo comma e di cui all’articolo 2, D.Lgs. n. 152/1999; il riferimento, pertanto, dovrebbe essere 

alle reti private di raccolta delle acque meteoriche). In secondo luogo (si veda l’articolo 39, comma 3), le regioni devono 

individuare i casi in cui le acque di prima pioggia devono essere trattate in impianti di depurazione (c’è da chiedersi se 

quest’altro tipo di situazioni sia una sotto categoria di quelle di cui alla lettera b) sopra citata, o viceversa; in altre parole, non 

è chiaro come si possano raccordare i due commi). 

[5] «Disciplina degli scarichi degli insediamenti civili e delle pubbliche fognature - Tutela delle acque sotterranee dall’inquinamento» 

(in S.O. n. 3 del 31 maggio 1985 al B.U.R. del 29 maggio 1985, n. 22). 


no solo in parte conciliabili con i 

criteri fissati dal D.Lgs. n. 

152/1999. 

In attesa di una nuova disciplina 

può essere utile proporre i seguenti 

criteri che derivano dai 

principi indicati nell’articolo 39, 

D.Lgs. n. 152/ 1999, e da alcune 

disposizioni contenute nella legge 

della Regione Lombardia. n. 

62/1985. 

Innanzitutto, si deve chiarire 

che, considerata la nuova classificazione 

introdotta dall’articolo 2, 

D.Lgs. n. 152/1999, rispetto agli 

scarichi si ritiene che tutte le acque 

derivanti dal dilavamento meteorico 

delle superfici e delle coperture 

degli stabilimenti industriali 

debbano essere individuate, da 

un punto di vista formale, semplicemente 

come “acque meteoriche” 

(e non, ad esempio, come acque 

reflue industriali). 

In merito a questa tipologia di 

acque e alla relativa disciplina degli 

scarichi, si ritiene che debba 

essere operata una sostanziale distinzione 

in [6] : 

● acque meteoriche contaminate; 

● acque meteoriche non contaminate. 


contaminate 

Le acque meteoriche contaminate 

si dividono in: 

● le acque di dilavamento meteorico 

derivanti dalle sole aree (non co- 


perte) dove avviene lo stoccaggio di 

particolari categorie di rifiuti [7] odi 

sostanze o materiali solidi [8] ; 

● acque provenienti dalle aree dove 

avvengono operazioni di carico e 

scarico di sopra citati rifiuti o materiali; 

in questi casi, infatti, si può 

avere la contaminazione delle acque 

meteoriche che dilavano queste 

aree, ben oltre la sola quota relativa 

alla prima pioggia (sono escluse le 

zone dove avviene il solo trasporto 

su automezzo delle sostanze e/o dei 

rifiuti). 

È opportuno gestire queste acque 

meteoriche contaminate alla 

stessa stregua delle reflue industriali 

(pur non essendo classificate 

tali). Ciò, in concreto, comporta, 

innanzitutto, l’obbligo di 

ottenere esplicita autorizzazione 

allo scarico (si veda anche il principio 

indicato dall’articolo 39, 

comma 1 lettera b), D.Lgs. n. 

152/1999). Queste situazioni dovranno 

essere attentamente valutate 

durante l’istruttoria tecnica, 

anche al fine di individuare eventuali 

soluzioni da suggerire alla 

ditta per evitare o ridurre la contaminazione 

delle acque meteoriche, 

lasciando, comunque, alla 

stessa il compito di formulare 

delle proposte al riguardo. Se 

possibile, l’ARPA, durante l’istruttoria, 

dovrà anche procedere 

al prelievo di campioni delle acque 

meteoriche scaricate e prove- 

ACQUA 

Articolo 

nienti da queste aree durante le 

precipitazioni atmosferiche, al fine 

di valutare il grado di contaminazione 

delle stesse e la relativa 

aliquota che necessita di trattamento 

prima dello scarico in corpo 

d’acqua superficiale, tenuto 

conto dei limiti allo scarico. 

Le acque meteoriche contaminate 

derivanti dalle aree sopra indicate 

(qualora queste aree non 

siano coperte) dovranno essere 

raccolte separatamente rispetto a 

quelle miste; in altri termini, attraverso 

la delimitazione delle aree 

di stoccaggio e di carico e scarico 

o mediante la realizzazione di pavimentazioni 

in pendenza, cordoli 

e di apposite griglie, dovrà essere 

evitata la commistione tra le acque 

meteoriche che dilavano queste 

aree e quelle non contaminate 

derivanti da superfici dove non si 

svolgono le attività sopra descritte 

o derivanti dai pluviali delle 

coperture. In ogni caso, non dovrà 

essere ammesso l’invio delle acque 

meteoriche non contaminate 

agli impianti di trattamento destinati 

a ricevere le acque meteoriche 

contaminate, le reflue industriali, 

le reflue domestiche o le 

assimilate. 

Per quanto riguarda il ricettore 

dove possono essere recapitate le 

acque meteoriche contaminate, appare 

opportuno applicare gli stessi 

principi e divieti previsti dall’arti- 

[6] In sostanza, si tratta di distinguere le situazioni in cui le acque meteoriche dilavano solo una superficie pavimentata 

eventualmente contaminata da quelle in cui i materiali depositati su questa superficie possono rilasciare uno o più agenti 

inquinanti. Nel primo caso, il dilavamento meteorico realizzato dalla “prima pioggia”, in genere, è sufficiente a pulire la 

superficie, rimuovendo dalla stessa le sostanze che eventualmente la ricoprono. Nel secondo caso, invece, si può avere un 

rilascio dell’agente inquinante per tutto il tempo in cui avviene il dilavamento meteorico del materiale stoccato e, quindi, anche 

per molto tempo dall’inizio della precipitazione atmosferica. In questa evenienza, anche le acque successive alla prima pioggia 

necessitano di trattamento. 

[7] Si ritiene che rientrino in questi casi i rottami e gli altri rifiuti ferrosi ossidabili in genere. 

[8] Nel caso di stoccaggio di sostanze o materiali solidi, le acque meteoriche di dilavamento delle relative aree di stoccaggio 

saranno da considerare contaminate solo in presenza di particolari materiali che possano determinare un rilascio di 

contaminanti nelle acque meteoriche, se esposte al dilavamento atmosferico. Ad esempio, nel caso aree di stoccaggio di 

legname o di lastre prefabbricate di cemento, le relative acque meteoriche di dilavamento dovranno essere, in genere, 

considerate non contaminate; al contrario, nel caso di aree di stoccaggio di materiali ferrosi ossidabili o di materiali solidi con 

granulometria particolarmente fine (ad es. composti minerali), le relative acque meteoriche di dilavamento dovranno essere, in 

genere, considerate contaminate. 


ACQUA 

Articolo 



colo 29, D.Lgs. n. 152/1999, per 

gli scarichi di acque reflue industriali, 

ammettendo, quindi, lo scarico 

sul suolo solo nei casi particolari 

ivi specificati. 

Per quanto riguarda l’immissione 

delle acque in corpo d’acqua 

superficiale o in rete fognaria, invece, 

si propone l’applicazione 

degli stessi limiti generalmente 

validi per gli scarichi di acque 

reflue industriali (in autorizzazione 

ciò dovrà essere imposto come 

specifica prescrizione [9] del permesso 

stesso) e cioè quelli di cui 

alla tabella 3 dell’Allegato 5 al 

D.Lgs. n. 152/1999, a meno che 

non sussistano gli estremi per utilizzare, 

nel caso di recapito in 

acque superficiali, limiti più restrittivi 

ai sensi dell’articolo 45, 

comma 8, D.Lgs. n. 152/1999. 

Ciò potrà comportare che anche 

una parte significativa (e non solo 

quella di prima pioggia [10] ) delle 

acque scaricate sia trattata in 

impianti di depurazione in grado 

di rimuovere le sostanze contenute 

nelle acque meteoriche e di 

garantire il rispetto dei limiti allo 

scarico. È, in genere, opportuno 

che le acque meteoriche contaminate, 

prima di essere addotte all’impianto 

centralizzato siano sottoposte 

a un trattamento di dissabbiatura 

[11] , preferibilmente con ingresso 

tangenziale. 

Qualora il trattamento del volume 

d’acqua in questione (spesso 

significativo) costituisca un pro- 


blema, potrà essere prevista come 

alternativa la copertura, almeno in 

parte, dell’area di stoccaggio e di 

carico e scarico, evitando il dilavamento 

meteorico dei rifiuti o dei 

materiali stoccati e diminuendo o 

eliminando completamente (in caso 

di copertura totale dell’area) le 

acque meteoriche per cui è richiesto 

il trattamento. Nel caso in cui 

vengano individuati in istruttoria 

stabilimenti industriali nei quali 

una parte delle acque meteoriche 

sia ritenuta contaminata e la gestione 

di queste acque non avvenga 

secondo i principi sopra esposti, 

si suggerisce di condizionare 

la validità dell’autorizzazione alla 

trasmissione, entro un certo termine 

(ad esempio 6 mesi), di un 

progetto a firma di tecnico abilitato 

che chiarisca come la ditta 

intenda risolvere la situazione (potranno 

essere suggerite dalla Provincia 

e dall’ARPA eventuali alternative 

specifiche emerse in 

istruttoria). È opportuno prevedere 

che i contenuti di questo progetto 

debbano essere formalmente approvati 

da provincia e ARPA. Entro 

un termine successivo, da stabilirsi 

in relazione allo specifico 

caso, dovrà essere imposta, sempre 

come condizione di validità, 

la realizzazione delle opere previste 

nel progetto. 

Infine, se le acque meteoriche 

contaminate sono convogliate allo 

scarico finale o all’eventuale 

impianto di trattamento a presidio 

ACQUA 

Articolo 

dello scarico, da sole e non insieme 

ad acque di processo o raffreddamento 

diretto, per il controllo 

della qualità si ritiene che debba 

essere installato, sul relativo pozzetto 

di campionamento, un autocampionatore 

collegato a un pluviometro 

(sistema automatico di 

prelievo) [12] . 


non contaminate 

Possono essere considerate tali 

tutte le acque meteoriche di dilavamento 

di aree non comprese nella 

casistica sopra descritta (anche se, 

in senso assoluto, tutte le acque 

meteoriche presentano un certo 

grado di contaminazione), ovvero, 

le acque di dilavamento delle coperture 

(pluviali delle coperture) e 

delle aree non interessate dagli 

stoccaggi e da operazioni di carico 

e scarico dei rifiuti o materiali sopra 

precisati. 

Per le acque meteoriche non 

contaminate si ritiene che non valga 

l’obbligo di acquisire specifica 

autorizzazione allo scarico, né si 

ritiene che vi siano dei particolari 

limiti allo scarico in corpo d’acqua 

superficiale da rispettare. 

Eventualmente, potranno essere 

previsti trattamenti solo per le acque 

di prima pioggia. 

Nel caso della Regione Lombardia, 

ad esempio, si ricorda che 

l’obbligo di separare la prima pioggia 

vige solo nel caso in cui le 

acque meteoriche siano recapitate 

[9] Ciò in quanto il D.Lgs. n. 152/1999 non stabilisce quali limiti devono essere rispettati dagli scarichi di acque meteoriche. 

[10] In alcuni casi (ad esempio centri di stoccaggio di rottami ferrosi), anche dopo alcuni giorni di pioggia si ha una significativa 

contaminazione delle acque meteoriche di dilavamento delle aree in questione. 

[11] Sono preferibili i dissabbiatori aerati, nei quali il moto tangenziale dei reflui in ingresso si compone con quello circolare 

indotto dalle bolle d’aria insufflate, dando origine a un moto a spirale; l’immissione di aria favorisce anche la flottazione delle 

sostanze più leggere. 

[12] Infatti, se allo scarico sono convogliate anche acque di processo o raffreddamento diretto, il campionamento dello scarico è 

possibile anche in tempo asciutto, durante lo svolgimento dell’attività produttiva. Al contrario qualora allo scarico siano 

convogliate solo acque meteoriche contaminate, il controllo della qualità delle acque meteoriche contaminate sarà possibile 

solo in occasione degli eventi atmosferici; per consentire il prelievo di campioni in tempo reale si renderà allora necessario 

l’utilizzo di sistemi automatici di prelievo. 


ACQUA 

Articolo 

sul suolo [13] ; al riguardo, si richiamano 

le disposizioni di cui agli 

articoli 19 e 20, L.R. n. 62/1985 

(per le acque di prima pioggia recapitate 

sul suolo, in zone non servite 

da pubblica fognatura e non 

ubicate vicino a un corpo idrico 

superficiale, devono essere rispettati 

specifici limiti allo scarico nel 

caso di alcune categorie di stabilimenti 

industriali con superficie superiore 

a 2000 mq, individuati con 

D.C.R. 21 marzo 1990, n. 1946, 

come, ad esempio industria petrolchimica). 

Se le superfici dilavate sono caratterizzate 

dalla presenza di idrocarburi 

(ad es. stazioni di distribuzione 

di carburante), risulta necessaria 

l’installazione (e la costante 

manutenzione), a presidio dello 

scarico, di un disoleatore dimensionato 

almeno sull’aliquota delle 

acque di prima pioggia [14] . Non 

sarà, in genere, ammesso l’invio 

ai sistemi di trattamento delle acque 

di prima pioggia delle acque 


meteoriche provenienti dal dilavamento 

delle coperture (pluviali). 

Scarichi da insediamenti 

residenziali o da servizi 

In attesa di disposizioni regionali 

ai sensi dell’articolo 39, D.Lgs. 

n. 152/1999, per le acque meteoriche 

di dilavamento di superfici e 

coperture di insediamenti di tipo 

residenziale o dove si svolgono 

attività di servizio [15] , si consiglia 

di non rilasciare autorizzazioni 

specifiche per disciplinare lo scarico 

esclusivo di tali acque, tenuto 

conto della loro scarsa pericolosità 

e del loro elevato numero. Nel 

caso di insediamenti che presentino 

anche altre tipologie di acque 

reflue (ad es. domestiche), nell’autorizzazione 

allo scarico per queste 

acque si consiglia di segnalare 

l’eventuale esistenza di condotte 

indipendenti di scarico di acque 

meteoriche in corpo d’acqua superficiale, 

al fine di vincolare il titolare 

dell’insediamento a non variare 

la natura dei reflui convogliati da 

tali scarichi senza preventiva autorizzazione. 

Dal punto di vista tecnico, invece, 

va precisato che le acque meteoriche 

provenienti dagli insediamenti 

in esame possono determinare 

dei problemi idraulici nei sistemi 

di trattamento delle acque reflue 

domestiche (in genere dimensionati 

per trattare carichi idraulici 

modesti). Inoltre, il trattamento 

di queste acque, nel caso degli insediamenti 

di tipo residenziale o 

configurabili quali “servizi”, appare 

ingiustificato, tenuto conto che 

le stesse non risultano contaminate. 

Infine, negli insediamenti di tipo 

residenziale o dove si svolge 

attività di servizio, in genere di 

limitate dimensioni, la separazione 

di tali acque è normalmente 

agevole. Per questi motivi, si consiglia 

di vietare, di norma, che le 

acque meteoriche siano trattate 

nei sistemi di depurazione delle 

acque reflue domestiche e/o assimilate. 

l 

[13] Inoltre, la prima pioggia non può essere recapitata sul suolo qualora la zona sia servita da pubblica fognatura o ubicata in 

prossimità di un corpo d’acqua superficiale. In questi casi solo la seconda pioggia potrà trovare recapito sul suolo. 

[14] L’articolo 20, comma 2, L.R. n. 62/1985 definisce come acque di prima pioggia quelle corrispondenti, per ogni evento 

meteorico, a una precipitazione di 5 mm uniformemente distribuita sull’intera superficie scolante servita dalla rete di 

drenaggio. Ai fini del calcolo delle portate, si deve assumere che questo valore si verifichi in quindici minuti; i coefficienti di 

afflusso alla rete si assumono pari a 1 per le superfici coperte, lastricate o impermeabilizzate e a 0,3 per quelle permeabili di 

qualsiasi tipo, escludendo dal computo le superfici coltivate. L’intercettazione di questa aliquota presuppone l’esistenza al 

termine della rete di raccolta delle acque meteoriche di un manufatto che svolga la funzione di “separatore delle acque di 

prima pioggia”. Si ritiene che questo sistema si possa basare su due criteri di funzionamento: 

- in base al primo criterio, il manufatto separatore potrà essere costituito da una vasca di volume pari alla cosiddetta “prima 

pioggia”, calcolato in base agli elementi forniti dalla legge regionale (5 mm per la superficie scolante, tenuto conto dei coefficienti di 

afflusso). A vasca piena, un sensore di livello (anche un semplice galleggiante) dovrà comandare la chiusura della tubazione di 

afflusso (ad esempio, dovrà determinare la chiusura di una valvola), escludendo completamente la vasca. Le acque invasate 

dovranno, quindi, essere convogliate al trattamento. Le ulteriori meteoriche raccolte dalla rete (definibili «acque di seconda pioggia») 

dovranno non transitare dalla vasca, ma essere scaricate direttamente nel recapito (suolo, corpo idrico, o rete fognaria, fatte salve, 

nel secondo caso, eventuali vasche volano richieste da motivi di difesa idraulica del recettore); 

- in base al secondo criterio, il manufatto sarà costituito da uno sfioratore delle portate eccedenti la prima pioggia. La portata 

da assumere come soglia di sfioro potrà essere calcolata, tenendo conto degli elementi forniti dalla normativa regionale, 

mediante le leggi dell’idraulica. Questo secondo criterio risulta, in sostanza, contemplato dalla L.R. n. 62/1985, dal momento 

che fornisce un’indicazione di tempo (15 minuti) «ai fini del calcolo delle portate», pur risultando meno affidabile, perché il 

sistema di separazione basato sulla soglia di portata risente della reale intensità di pioggia (i 5 mm si possono verificare con 

tempi e quindi con portate diversi rispetto a quelli indicati dalla legge). 

Non vengono ritenuti ammissibili, invece, i sistemi che utilizzano esclusivamente il fattore tempo per discriminare tra prima e 

seconda pioggia. Impostando, ad esempio, l’eventuale timer sui 15 minuti indicati dalla legge e inviando al trattamento la 

totalità delle acque di pioggia comprese in questo intervallo, si può verificare l’afflusso di enormi volumi e portate d’acqua al 

sistema di trattamento, pregiudicandone l’efficienza. 

[15] Nella categoria “servizi” sono inclusi gli insediamenti dove si svolgono attività turistiche, sportive, ricreative scolastiche, 

sanitarie e commerciali (negozi, centri di vendita all’ingrosso, ecc.). 


di Mara Chilosi e Andrea Martelli, Butti Peres & Partner, avvocati 

L’obiettivo dichiarato dal D.M. 

n. 367/2003 è quello di fissare 

«standard di qualità nell’ambiente 

acquatico per le sostanze 

pericolose». In particolare, l’art. 

1, comma 10, D.M. n. 367/2003 

dispone che il punto 1.2. dell’Allegato 

5 al D.Lgs. n. 152/1999 

(relativo alle acque reflue industriali) 

sia modificato dall’Allegato 

B al nuovo decreto. Ciò pone 

due problemi; innanzitutto, non 

è chiaro se l’Allegato B al D.M. 

n. 367/2003 sostituisca integralmente 

il punto 1.2. dell’Allegato 

5, al D.Lgs. n. 152/1999 o se, 

invece, si limiti a integrarlo modificandolo; 

in secondo luogo, 

occorre chiedersi quali limiti incontri 

la potestà regolamentare 

del Governo nel modificare gli 

allegati del D.Lgs. n. 152/1999 e, 

conseguentemente, se questi limiti 

nel caso di specie siano 

eventualmente stati superati. La 

data di pubblicazione in Gazzetta 

Ufficiale limita, di fatto, i rimedi 

giurisdizionali offerti dall’ordinamento 

per sindacare i 

profili di dubbia legittimità dell’Allegato 

B al D.M. n. 367/2003. 


Aquattro mesi dalla sua pubblicazione 

sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 

gennaio 2004, n. 5, è necessario 

soffermarsi sull’Allegato B al decreto 

del Ministero dell’Ambiente e della 

Tutela del Territorio 6 novembre 2003, 

n. 367 [1] (adottato ai sensi dell’art. 3, 

comma 4 D.Lgs. n. 152/1999 [2] ), concernente 

la «fissazione di standard di qualità 

nell’ambiente acquatico per le sostanze 

pericolose», che contiene alcune rilevanti 

innovazioni (o, addirittura, deviazioni) 

rispetto alla disciplina-base contenuta 

nel D.Lgs. n. 152/1999, la cui portata 

non è forse stata, sino a oggi, effettivamente 

percepita o, in ogni caso, sufficientemente 

evidenziata. 

Fra le premesse, il D.M. n. 367/2003 

richiama la direttiva 2000/60/CE relativa 

alla istituzione di un quadro per 

l’azione comunitaria in materia di acque 

[3] , il cui recepimento, in scadenza 

alla fine di dicembre dello scorso anno, 

è stato previsto dalla legge Comunitaria 

2003 (legge n. 306/2003 [4] ) ed è dichiaratamente 

fondato sulla «necessità di modificare 

gli standard di qualità sulla base 

di progressi scientifici e tecnologici e 

tenuto conto dell’evoluzione normativa 

a livello comunitario». 

In quest’ottica, il decreto ministeriale 

definisce standard di qualità riferiti alle 

sostanze pericolose individuate a livello 

comunitario (Allegato A), stabilendo la 

tempistica di adeguamento (che dovrà 

avvenire per fasi, la prima in scadenza al 

31 dicembre 2008, la seconda al 31 dicembre 

2015). 

Ai fini del raggiungimento degli standard 

di qualità fissati nell’Allegato A, 

ACQUA 

Articolo 

Limitati i poteri delle regioni e le competenze degli enti locali sulle acque reflue industriali 

Nell’Allegato B al D.M. n. 367/2003 

alcune prescrizioni di dubbia legittimità 

l’art. 1, comma 10, D.M. n. 367/2003 

dispone che il punto 1.2. dell’Allegato 5 

al D.Lgs. n. 152/1999 (relativo alle acque 

reflue industriali) sia modificato dall’Allegato 

B al nuovo decreto. 

Che gli Allegati al D.Lgs. n. 

152/1999 possano essere variati da una 

fonte di rango secondario è del resto 

previsto dallo stesso decreto legislativo, 

all’art. 3, comma 4, che stabilisce come 

attraverso regolamenti adottati ai sensi 

dell’art. 17, comma 3, legge n. 

400/1988 [5] - quale è il decreto in commento 

- possano essere modificati gli 

allegati «per adeguarli a sopravvenute 

esigenze o a nuove acquisizioni 

scientifiche o tecnologiche». 

La laconica espressione contenuta 

nel citato art. 1, comma 10, suscita però 

due ordini di problemi interpretativi: 

● innanzitutto, non è chiaro se l’Allegato 

B al D.M. n. 367/2003 sostituisca 

integralmente il punto 1.2. dell’Allegato 

5, al D.Lgs. n. 152/ 1999 o se, invece, 

si limiti a integrarlo modificandolo; 

● in secondo luogo, occorre chiedersi 

quali limiti incontri la potestà regolamentare 

del Governo nel modificare gli 

allegati del D.Lgs. n. 152/1999 e, conseguentemente, 

se questi limiti, nel caso 

di specie, siano eventualmente stati superati. 

Quanto al primo problema, dalla lettura 

dell’Allegato B sembrerebbe evincersi 

che - nonostante l’art. 10 parli testualmente 

di “modifica” - esso intenda 

sostituirsi integralmente il punto 1.2. dell’Allegato 

5 al D.Lgs. n. 152/1999; lo si 

deduce, ad esempio, dalla riproduzione 

testuale, nel punto 3, delle regole relative 

alle metodiche di campionamento, 

[1] Si vedano anche V. Riganti, Con il D.M. 6 novembre 2003, n. 367 nuovi standard di qualità per le acque e Tra nuovi limiti e 

costi per le tecnologie parte male il nuovo decreto sulle acque, rispettivamente in Ambiente&Sicurezza n. 3/2004, pag. 72 e n. 

6/2004, pag. 70. 

(segue) 


ACQUA 

Articolo 

già contenute nell’originaria versione 

del citato alleato del D.Lgs. n. 152/1999, 

che, altrimenti, non avrebbe avuto senso 

riportare nuovamente. 

Se, invece, si preferisse rimanere aderenti 

alla formulazione letterale della 

norma, nascerebbe, per l’interprete, il delicato 

problema di individuare le parti 

dell’originario punto 1.2, dell’Allegato 

5 al D.Lgs. n. 152/1999 “sopravissute” 

alle modifiche apportate dal D.M. n. 

367/2003 e quelle sostituite (ossia, implicitamente 

abrogate) da quest’ultimo decreto, 

con tutte le difficoltà che ne conseguono 

in termini di coordinamento. 

In merito al secondo problema interpretativo 

sopra richiamato, va osservato, 

anzitutto, che l’ampiezza della previsione 

contenuta nell’art. 3, comma 4, 

D.Lgs. n. 152/1999 non permette di circoscrivere 

con chiarezza i limiti entro i 

quali il Governo può muoversi nel modificare 

il testo del decreto legislativo. 

Ciò premesso, anche leggendo il periodo 

dell’art. 3, comma 4, in coordinamento 

con la prima parte della disposizione 

(secondo cui «gli allegati al 

D.Lgs. n. 152/1999 e i regolamenti 

stabiliscono le “prescrizioni tecniche”» 

necessarie all’attuazione del 


D.Lgs. n. 152/1999), sembrerebbe ragionevole 

ritenere che le modifiche agli Allegati 

debbano avere a oggetto soltanto 

aspetti di carattere eminentemente tecnico, 

fra cui limiti di emissione e le matrici 

ambientali indicate nelle tabelle, le 

metodiche di campionamento e analisi, 

ecc. [6] . 

L’allegato B al D.M. n. 367/2003, 

come si vedrà oltre, contiene, invece, 

alcune disposizioni di portata normativa 

ben più ampia, destinate a innovare (surrettiziamente?) 

anche alcuni aspetti originariamente 

disciplinati in modo diverso, 

non dagli Allegati, ma, direttamente, da 

alcuni articoli del D.Lgs. n. 152/1999, 

con ciò travalicando i confini del potere 

regolamentare attribuito al Governo dal 

citato art. 3, comma 4, D.Lgs. n. 

152/1999. 

Ci si riferisce, in particolare, alle nuove 

regole dettate dal D.M. n. 367/2003 

in materia di: 

● separazione degli scarichi di processo 

dalle acque di raffreddamento e di 

gestione delle acque di prima pioggia 

(punto 4); 

● prescrizioni minime che devono essere 

inserite nelle autorizzazioni al trattamento 

rifiuti negli impianti di depura- 

zione rilasciate ai sensi dell’art. 36, 

comma 2, D.Lgs. n. 152/1999 (punto 

5) [7] . 

Acque di raffreddamento e 

di prima pioggia (punto 4) 

Il punto 4 dell’Allegato B al D.M. n. 

367/2003 stabilisce che «gli scarichi di 

processo devono essere separati dagli 

scarichi di acque di raffreddamento e 

deve essere previsto l’avvio separato allo 

scarico delle acque di prima pioggia». 

Esso, nel rendere obbligatoria e generalizzata 

la separazione degli scarichi di 

processo dagli scarichi dalle acque di 

raffreddamento, si pone in chiaro contrasto 

con l’art. 28, comma 5, D.Lgs. n. 

152/1999, che demanda, invece, all’autorità 

competente il compito di prescrivere, 

in sede di autorizzazione e in via 

soltanto eventuale, la separazione dello 

scarico delle acque di raffreddamento, di 

lavaggio, ovvero impiegate per la produzione 

di energia, rispetto allo scarico terminale 

di ciascun stabilimento. 

Inoltre, nella parte in cui il citato punto 

4 impone - ancora una volta, in via 

obbligatoria e generalizzata - l’avvio separato 

allo scarico delle acque di prima 

[2] «Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento 

delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai 

nitrati provenienti da fonti agricole» (in S.O. n. 101 alla Gazzetta Ufficiale del 29 maggio 1999, n. 124) 

[3] In G.U.C.E. L del 22 dicembre 2000, n. 327). Si veda M. Chilosi, La nuova direttiva-quadro per l’azione comunitaria in materia 

di acque: verso un “152-ter”? in Ambiente&Sicurezza n. 7/2001, pag. 69. Della stessa Autrice, si veda l’approfondimento sugli 

obblighi di attuazione della direttiva da parte dell’Italia, come disposto dalla Comunitaria 2003, a pag. 27 del n. 23/2003 di 


In particolare, la direttiva 2000/60/CE si propone di istituire un quadro per la protezione delle acque superficiali interne, delle 

acque di transizione, delle acque costiere e sotterranee che: 

- impedisca un ulteriore deterioramento, protegga e migliori lo stato degli ecosistemi acquatici e degli ecosistemi terrestri e 

delle zone umide direttamente dipendenti dagli ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico; 

- agevoli un utilizzo idrico sostenibile fondato sulla protezione a lungo termine delle risorse idriche disponibili; 

- miri alla protezione rafforzata e al miglioramento dell’ambiente acquatico, anche attraverso misure specifiche per la graduale 

riduzione degli scarichi, delle emissioni e delle perdite di sostanze prioritarie e l’arresto o la graduale eliminazione degli 

scarichi, delle emissioni e delle perdite di sostanze pericolose prioritarie; 

- assicuri la graduale riduzione dell’inquinamento delle acque sotterranee e ne impedisca l’aumento; 

- contribuisca a mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità. 

[4] Legge 31 ottobre 2003, n.306 «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità 

europee. Legge comunitaria 2003» (in S.O. n. 173 alla Gazzetta Ufficiale del 15 novembre 2003, n. 266). Si vedano il n. 23/2003 

e il n. 1/2004 di Ambiente&Sicurezza. 

[5] «Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, recante conferimento alle regioni ed agli enti locali 

di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale» (in Gazzetta Ufficiale del 4 novembre 1999, n. 259). È il cosiddetto 

“decreto Burlando-bis”. 

[6] Anche nel parere espresso il 29 settembre 2003 sullo schema di regolamento dalla sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio 

di Stato si legge, a conferma di ciò, che «si tratta di una normativa che appare segnata da un elevatissimo grado di tecnicismo». 

[7] Resta impregiudicata dalla nuova disciplina la possibilità, prevista dall’art. 36, comma 3, D.Lgs. n. 152/1999, di svolgere 

attività di trattamento dei rifiuti liquidi in regime autorizzativo semplificato (ossia mediante comunicazione) nel rispetto delle 

seguenti condizioni: 

(segue) 


pioggia, esso contrasta, altresì, con un’altra 

disposizione contenuta nell’art. 39, 

comma 3, D.Lgs. n. 152/1999, che demanda 

alle regioni il potere di discipline 

«i casi in cui può essere richiesto che le 

acque di prima pioggia e di lavaggio 

delle aree esterne siano convogliate e 

opportunamente trattate in impianti di 

depurazione per particolari ipotesi nelle 

quali, in relazione alle attività svolte, vi 

sia il rischio di dilavamento dalle superfici 

impermeabili scoperte di sostanze 

pericolose o di sostanze che creano pregiudizio 

per il raggiungimento degli 

obiettivi di qualità dei corpi idrici». In 

altre parole, nel silenzio della normativa 

regionale, in merito alle acque di prima 

pioggia non potevano essere, sino a oggi, 

stabilite particolari prescrizioni quale 

è l’obbligo dell’avvio separato allo scarico. 

Nel caso in cui le regioni avessero, 

invece, dettato disposizioni in questa materia 

[8] , si pone ora il problema del coordinamento 

con le nuove regole prescritte 

direttamente dal D.M. n. 367/2003. 

Rifiuti in impianti per 

reflui urbani (punto 5) 

L’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 

152/1999 attribuisce all’autorità competente 

(regione o provincia, a seconda del 

riparto stabilito in sede regionale) la facoltà 

di autorizzare - in deroga al divieto 

generale - i gestori del servizio idrico 

integrato, «in relazione a particolari esigenze 

e nei limiti della capacità residua 

di trattamento», a smaltire rifiuti liquidi 

nell’impianto di trattamento delle acque 

reflue urbane, «limitatamente alle tipologie 

compatibili con il processo di depurazione». 

Al di là quanto espressamente previsto 

dall’art. 36 - fra cui il fatto che l’autorizzazione 

in deroga sia consentita purché 

non si comprometta il riutilizzo delle 

acque reflue e dei fanghi e che il 

produttore dei rifiuti e il trasportatore 


dei rifiuti siano tenuti al rispetto della 

normativa in materia di rifiuti (D.Lgs. n. 

22/1997) - spettava, dunque, all’autorità 

competente il potere di imporre, in sede 

di rilascio dell’autorizzazione, ogni eventuale 

prescrizione necessaria, tenuto conto 

delle peculiarità del caso specifico. 

La nuova disciplina introdotta dal 

punto 5 dell’Allegato B al D.M. n. 

367/2003 detta, invece, a priori le condizioni 

cui l’autorità competente deve subordinare 

il rilascio della autorizzazione 

in deroga ex art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 

152/1999, prevedendo, in particolare: 

● che l’impianto sia dotato di un idoneo 

sistema di pretrattamento, dedicato 

e adeguato alle tipologie di rifiuti liquidi 

da smaltire; di conseguenza, in assenza 

di una specifica sezione dell’impianto 

dedicata al pretrattamento rifiuti, non 

sembra più possibile autorizzare l’attività 

di smaltimento); 

● che questo impianto sia individuato 

alla luce delle migliori tecniche disponibili, 

tali da garantire, all’uscita del pretrattamento 

e all’ingresso nel depuratore 

urbano, «concentrazioni di sostanze 

pericolose non superiori di un fattore 

20 rispetto agli standard di qualità di 

cui alla tabella 1 dell’allegato A al 

D.M. 367/2003». 

Essa impone, quindi, limiti in concentrazione 

che dovranno essere rispettati 

prima dell’ingresso del rifiuto pretrattato 

nella sezione di depurazione delle acque 

reflue urbane, impedendo, di fatto (o 

comprimendo significativamente), quella 

valutazione caso per caso in merito al 

processo di depurazione e alle residue 

capacità di trattamento che l’art. 36, 

D.Lgs. n. 152/1999 affida, invece, all’autorità 

competente. 

È presumibile che questa disposizione 

intendesse eliminare la possibilità, 

per i gestori degli impianti di trattamento 

delle acque reflue urbane, di “diluire” 

la concentrazione delle sostanze perico- 

ACQUA 

Articolo 

lose eventualmente contenute nei rifiuti 

liquidi smaltiti nel medesimo impianto 

mediante la miscelazione di questi ultimi 

con le acque reflue provenienti dalla 

rete fognaria. 

La (comprensibile) esigenza di evitare 

lo “smaltimento per diluizione” avrebbe, 

però, potuto giustificare l’imposizione, 

all’uscita dell’impianto di pretrattamento, 

del rispetto dei limiti previsti per 

lo scarico in rete fognaria. Il Ministero 

dell’Ambiente ha, invece, individuato, 

per alcuni parametri, valori talmente restrittivi 

da rendere ingiustificato ogni ulteriore 

trattamento del rifiuto, posto che 

i limiti che devono essere rispettati in 

ingresso all’impianto di depurazione sono 

spesso inferiori a quelli imposti per 

lo scarico finale [9] . 

A ciò si aggiunga che la fissazione di 

tetti massimi così restrittivi sembrerebbe, 

peraltro, creare una ingiustificata disparità 

fra i gestori degli impianti per le 

acque reflue urbane rispetto a chi gestisce 

i rifiuti liquidi, a tutto vantaggio di 

questi ultimi, i quali, in uscita dal proprio 

ciclo produttivo, dovranno, infatti, 

rispettare i limiti di cui alla tabella 3, 

Allegato 5 al D.Lgs. n. 152/1999, che, 

come visto precedentemente, sono nettamente 

inferiori. 

Inoltre, non è chiaro cosa succeda nel 

caso in cui non vengano individuate tecnologie 

- avendo sempre come riferimento, 

nel fare ciò, il concetto di migliori 

tecniche disponibili (MTD o BAT) - in 

grado di assicurare il rispetto del limite 

di qualità delle acque moltiplicato per il 

fattore 20. Ci si chiede, in altri termini, 

se l’autorizzazione al trattamento di rifiuti 

liquidi nell’impianto di depurazione 

possa essere rilasciata, sia pure con l’imposizione 

di un limite meno restrittivo. 

La soluzione positiva (riconoscere la 

possibilità di rilasciare l’autorizzazione), 

benché non fedele al tenore letterale della 

norma, sembra, tuttavia, preferibile, 

- provenienza dei rifiuti dal medesimo Ambito Territoriale Ottimale in cui il gestore del servizio idrico integrato esercita; 

- qualità dei rifiuti conforme ai limiti di tabella 3, Allegato 5 al D.Lgs. n. 152/1999 per lo scarico nella rete fognaria urbana, 

ovvero provenienza dei rifiuti dalla manutenzione ordinaria della rete, di altri impianti di trattamento delle acque reflue 

urbane, sistemi di trattamento dei reflui domestici a servizio di edifici isolati. 

[8] Si possono ricordare la deliberazione del Consiglio regionale della Lombardia 15 gennaio 2002, n. 402 e la deliberazione 

della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna 9 giugno 2003, n. 1053. 

[9] A titolo di esempio, il limite stabilito dalla tabella 3 dell’Allegato 5 al D.Lgs. n. 152/1999 per lo scarico in corpo idrico 

superficiale del parametro arsenico è di 500 µg/L, a fronte del limite di 100 µg/L fissato dal D.M. n. 367/2003 (5 µg/L 

moltiplicato per il fattore 20). La situazione non muta per i parametri cromo (80 µg/L contro i 2000 µg/L dello scarico finale), 

nichel (60 µg/L contro i 2000 µg/L dello scarico finale) e piombo (40 µg/L contro i 200 µg/L dello scarico finale). 


ACQUA 

Articolo 

pena, altrimenti, l’ingiustificato (se non 

addirittura illegittimo) svuotamento di significato 

del ruolo attribuito all’autorità 

competente dall’art. 36, D.Lgs. n. 

152/1999. 

Prima di soffermarsi sui possibili rimedi 

giurisdizionali, occorre segnalare 

che, in merito ad alcune delle problematiche 

analizzate nel presente contributo, 

è intervento di recente lo stesso Ministero 

dell’Ambiente, che, con propria direttiva 

27 maggio 2004 (in Gazzetta Ufficiale 

del 14 giugno 2004, n. 137), ha 

dettato «Disposizioni interpretative delle 

norme relative agli standard di qualità 

nell’ambiente acquatico per le sostanze 

pericolose» (si veda l’articolo a firma 

di V. Riganti, pubblicato a pag. 47). Questo 

provvedimento, occorre ricordarlo, 

non costituisce una fonte del diritto; pertanto, 

esso non è vincolante, ma ha soltanto 

il valore di un “suggerimento interpretativo” 

(peraltro, “autentico”, in quanto 

proveniente dalla medesima autorità, 

il dicastero dell’Ambiente, che ha emanato 

la norma interpretata) rivolto alle 

amministrazioni chiamate ad applicare il 

D.M. n. 367/2003. 

Ciò premesso, è, comunque, interessare 

notare come la citata direttiva sembri 

implicitamente confermare le sopra 

evidenziate perplessità suscitate dalle numerose 

disposizioni del D.M. n. 

367/2003 che si pongono in conflitto 

con il D.Lgs. n. 152/1999. 

Ci si riferisce, in particolare, ai passaggi 

della direttiva secondo cui: 

● il DM 367/2003 va «interpretato ed 

applicato nel rispetto del quadro normativo 

costituito dal sovraordinato decreto 

legislativo n. 152/1999 che al suo 

titolo IV individua quali strumenti di 

tutela i piani di tutela delle acque (capo 

I, articoli 42-44) e la disciplina degli 

scarichi (capo II, articoli 45-53)» e«in 

questo contesto va considerata anche la 

gestione dei fanghi derivanti dagli impianti 

di depurazione»; 

● «restano fermi, altresì, il disposto 

dell’art. 28, comma 5» D.Lgs. n. 

152/1999, «che lascia all’autorità competente 

la decisione in materia di separazione 

degli scarichi di processo da 

quelli delle acque di raffreddamento, 

l’art. 39, D.Lgs. n. 152/1999 in materia 


di acque di prima pioggia, nonché la 

normativa sui fanghi di depurazione di 

cui al decreto legislativo n. 99/1992»; 

● «la scelta se attenersi o meno alle 

indicazioni riportate nel predetto allegato 

B» al D.M. n. 367/2003 «rientra 

nelle facoltà delle autorità competenti». 

I possibili rimedi 

giurisdizionali 

Come si è visto, il D.M. n. 367/2003 

sembra porsi in contrasto con numerose 

disposizioni del D.Lgs. n. 152/1999 (in 

primo luogo, con gli articoli 39 e 36, ma 

anche con gli articoli 3, comma 4, 28, 

commi 4 e 5, 45, commi 8 e 9 e 52), 

comprimendo, in particolare, la potestà 

normativa delle regioni e le competenze 

amministrative degli enti locali. Per queste 

ragioni, occorre chiedersi quali siano 

i rimedi di carattere giurisdizionale offerti 

dall’ordinamento per sindacare i profili 

di dubbia legittimità dell’Allegato B al 

D.M. n. 367/2003. 

In primo luogo, sarebbe stato possibile 

ipotizzare l’impugnazione del D.M. 

n. 367/2003 da parte delle regioni innanzi 

alla Corte Costituzionale, mediante 

lo strumento del conflitto di attribuzione 

fra Stato e regioni, disciplinato dalla legge 

costituzionale n. 87/1953 [10] , in riferimento, 

in particolare, al punto 4 dell’Allegato 

B al D.M. n. 367/2003, che, nel 

prevedere direttamente particolari prescrizioni 

in materia di gestione delle acque 

di prima pioggia, invade le competenze 

attribuite in questa materia alle 

regioni dall’art. 39, D.Lgs. n. 152/1999. 

Allo stato attuale, questo rimedio non è, 

tuttavia, più utilizzabile, poiché è scaduto 

il termine di decadenza per la presentazione 

del ricorso fissato dalla legge in 

sessanta giorni dalla pubblicazione dell’atto 

(in questo caso, la pubblicazione 

sulla Gazzetta Ufficiale, che è avvenuta 

l’8 gennaio 2004). 

Esaurito è anche il termine - sessanta 

giorni decorrenti, trattandosi di atto normativo, 

sempre dalla pubblicazione in 

Gazzetta Ufficiale - per il secondo possibile 

rimedio giurisdizionale, consistente 

nell’impugnazione immediata del 

D.M. n. 367/2003 innanzi al TAR per 

il Lazio a opera di soggetti che fossero 

stati in grado di dimostrarne la capacità 

di ledere direttamente propri interessi (si 

pensi, fra quelle sopra evidenziate, alla 

disposizione che impone la separazione 

degli scarichi di processo dagli scarichi 

delle acque di raffreddamento e l’avvio 

separato allo scarico delle acque di prima 

pioggia). Peraltro, l’impugnazione diretta 

è stata presumibilmente lo strumento 

utilizzato dagli 11 ricorrenti che, il 2 

aprile 2004, hanno depositato presso il 

TAR Lazio un ricorso collettivo (reg. 

gen. n. 3209/2004) contro il D.M. n. 

367/2003. 

Non più esperibile è, inoltre, lo strumento 

del ricorso straordinario al Presidente 

della Repubblica di cui al D.P.R. 

n. 1199/1971 [11] - trattasi di rimedio di 

natura amministrativa (e non giurisdizionale) 

ammesso in via generale contro 

gli atti amministrativi definitivi per 

censurare i soli vizi di legittimità - a 

causa dell’avvenuto decorso del termine 

di centoventi giorni per la proposizione 

del ricorso. 

Una quarta opportunità è costituita, 

essendo il nuovo decreto, a tutti gli effetti, 

un atto formalmente amministrativo 

(benché sostanzialmente normativo), 

dalla possibilità di impugnare il D.M. 

n. 367/2003 innanzi al TAR per il 

Lazio congiuntamente a un eventuale 

provvedimento amministrativo applicativo 

(ad esempio, di diniego dell’autorizzazione 

allo smaltimento di rifiuti 

negli impianti di trattamento di acque 

reflue urbane o, viceversa, di autorizzazione 

con prescrizioni conformi a quelle 

stabilite dall’Allegato B al D.M. n. 

367/2003), quale atto presupposto non 

immediatamente lesivo degli interessi 

del ricorrente, dalla cui illegittimità deriva, 

però, l’illegittimità dell’atto applicativo, 

secondo il consolidato meccanismo 

della “doppia impugnazione”. Infine, 

resta naturalmente ferma la possibilità 

per il giudice ordinario (civile o penale) 

- nonché, secondo un recente orientamento 

del Consiglio di Stato, anche per 

il giudice amministrativo in sede di ricorso 

presentato contro l’atto applicativo 

- di disapplicare il D.M. n. 

367/2003, ove lo ritenga illegittimo per 

le ragioni sopra esposte, ossia di decidere 

come se esso non vi fosse. l 

[10] «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» (in Gazzetta Ufficiale del 14 marzo 1953, n. 62). 

[11] «Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi» (in Gazzetta Ufficiale del 17 gennaio 1972, n. 13). 


di Vincenzo Riganti, professore di Normazione e Certificazione - Università di Pavia 

Dopo la pubblicazione del D.M. 

n. 367/2003, recante «Regolamento 

concernente la fissazione 

di standard di qualità nell’ambiente 

acquatico per le sostanze 

pericolose, ai sensi dell’articolo 

3, comma 4, del decreto legislativo 

11 maggio 1999, n. 152», permanevano 

non pochi dubbi interpretativi. 

A questo proposito, 

la direttiva del Ministero dell’Ambiente 

e del Territorio 27 

maggio 2004, tende a ricondurre 

le disposizioni interpretative 

delle norme relative agli standard 

di qualità nell’ambiente acquatico 

per le sostanze pericolose 

nell’ambito del decreto legislativo 

11 maggio 1999, n. 152, 

ridimensionando le interpretazioni 

estensive che erano state 

date al D.M. n. 367/2003, non 

soltanto dalla dottrina, ma, anche 

e soprattutto, dalle autorità 

alle quali competeva la sua attuazione. 

Per effetto di questo 

nuovo documento, infatti, viene 

chiarito come resti facoltativa, 

per le autorità competenti, la 

scelta se attenersi o meno alle 

indicazioni riportate nell’Allegato 

B al D.M. n. 367/2003. 


Tra i non pochi rilievi critici che 

sono stati mossi al decreto ministeriale 

6 novembre 2003, n. 

367 [1] (si veda anche l’articolo a firma 

M. Chilosi e A. Martelli, pubblicato 

a pag. 43), merita attenzione anche 

quello che, attraverso un decreto ministeriale, 

erano state modificate norme 

dettate da un decreto legislativo, cioè 

da una norma giuridica gerarchicamente 

superiore; tanto che anche in 

questa direzione si era mosso il ricorso 

presentato al Tribunale Amministrativo 

Regionale del Lazio. 

La direttiva del Ministero dell’Ambiente 

e del Territorio 27 maggio 

2004, nel dettare le disposizioni interpretative 

delle norme relative agli 

standard di qualità nell’ambiente acquatico 

per le sostanze pericolose, tende 

a ricondurre le stesse nell’ambito 

del decreto legislativo 11 maggio 

1999, n. 152, ridimensionando le interpretazioni 

estensive che erano state 

date al D.M. 367/2003, non soltanto 

dalla dottrina, ma, anche e soprattutto, 

dalle autorità alle quali competeva 

la sua attuazione. 

Va premesso che il Governo, con 

l’atto di recepimento della direttiva 

europea 2000/60/CE [2] , che prevede 

la riduzione e la graduale diminuzione 

dell’inquinamento provocato dallo 

scarico, emissione e rilascio di sostanze 

pericolose prioritarie, e con l’adozione 

del testo unico sulle acque [3] 

previsto dal disegno di legge sulla delega 

ambientale di cui si attende l’ap- 

ACQUA 

Commento 

Le precisazioni nella direttiva del Ministero dell’Ambiente e del Territorio 27 maggio 2004 

Autorità di controllo più autonome 

sui limiti per le sostanze pericolose 

provazione da parte del Parlamento, 

intende riordinare la normativa vigente. 

Si assisterà, quindi, a un’ulteriore 

modifica della normativa, che in parte 

- per quanto riguarda gli standard di 

qualità nell’ambiente acquatico nella 

matrice acquosa - sembra essere anticipata 

dalla direttiva ministeriale, almeno 

nelle sue linee direttrici. 

Gli scarichi 

di sostanze pericolose 

Un primo punto di rilevo è l’inquadramento 

degli “scarichi di sostanze 

pericolose” nell’ambito di quanto dettato 

dall’art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 

152/1999. La direttiva ministeriale,difatti, 

precisa che le disposizioni del 

D.M. n. 367/2003 in materia di scarichi 

si applicano solo in presenza di due 

condizioni concorrenti e concomitanti: 

● che gli stabilimenti dai quali prende 

origine lo scarico siano quelli nei 

quali si svolgono attività che comportano 

la produzione, la trasformazione 

o l’utilizzazione delle sostanze pericolose 

considerate nel decreto stesso e 

● che, negli scarichi, queste sostanze 

siano presenti in quantità o concentrazione 

superiori ai limiti di rilevabilità 

delle metodiche analitiche disponibili. 

Si noti che non si parla di limiti di 

accettabilità (quelli indicati nella tabella 

3 dell’Allegato 5 al D.Lgs. n. 

152/1999), bensì di limiti di rilevabilità 

analitica, che sono molto più bassi. 

Questo farebbe pensare che l’articolo 

riguardi soltanto i cicli produttivi 

[1] «Regolamento concernente la fissazione di standard di qualità nell’ambiente acquatico per le sostanze pericolose, ai sensi dell’articolo 

3, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152» (in Gazzetta Ufficiale dell’8 gennaio 2004, n. 5). Si vedano, dello stesso 

autore, Con il D.M. 6 novembre 2003, n. 367 nuovi standard di qualità per le acque e Tra nuovi limiti e costi per le tecnologie parte 

male il nuovo decreto sulle acque, rispettivamente, inAmbiente&Sicurezza n. 3/2004, pag. 72 e n. 6/2004, pag. 70. 

(segue) 


ACQUA 

Commento 

elencati nella tabella 3/A. Tuttavia, 

l’articolo 34 recita: «Le disposizioni 

relative agli scarichi di sostanze pericolose 

si applicano agli stabilimenti 

nei quali si svolgono attività che comportano 

la produzione, la trasformazione 

o l’utilizzazione delle sostanze di 

cui alle tabelle 3/A e 5 dell’allegato 

5». Il dettato letterale si presta all’interpretazione 

restrittiva secondo la quale 

i cicli produttivi indicati nella tabella 

3/A sono soggetti a vincoli sia per la 

concentrazione degli inquinanti sia per 

la quantità massima scaricabile per unità 

di elemento caratteristico dell’attività 

inquinante; tuttavia, la possibilità di 

interventi volti a rendere più severi i 

limiti di concentrazione e le modalità 

di scarico viene estesa da alcuni organi 

di controllo a tutti gli effluenti che 

contengono le sostanze indicate nella 

tabella 5, indipendentemente dal ciclo 

lavorativo di provenienza e dal fatto 

che la loro concentrazione rientri nei 

limiti tabulari. Nel prosieguo dell’articolo, 

in effetti, si dettano norme differenziate 

per i due casi presi in esame: 

● più severe per gli specifici cicli 

produttivi nominativamente indicati 

nella tabella 3/A [4] ; 

● meno severe per gli altri cicli produttivi. 

Difatti, vincoli quali la separazione 

degli scarichi parziali da quello generale 

e la loro qualificazione come rifiuti 

nel D.Lgs. n. 152/1999 (alla cui 

disciplina sono, quindi, soggetti), non 

sono generalizzati, bensì (secondo 

l’art. 34), discendono da una valutazione 

dell’autorità competente, che ha 

luogo caso per caso. 


È da osservare che vi è una sostanziale 

diversità tra le sostanze elencate 

nell’Allegato 3/A e quelle elencate nell’Allegato 

5. Mentre le prime sono 

sicuramente considerate, nella letteratura 

scientifica, come dotate di particolare 

ed elevata pericolosità nei confronti 

dell’ambiente, tra le seconde figurano 

sostanze come lo zinco, che 

non è neppure previsto tra i parametri 

di potabilità delle acque destinate al 

consumo umano, e come il rame, che 

è consentito, in queste ultime, a livello 

di 1 milligrammo/litro, ben al di sopra 

del limite di rilevabilità analitica [5] .In 

concreto, alcune autorità di controllo 

danno un’interpretazione restrittiva 

del dettato della norma, imponendo a 

scarichi quali quelli delle acque piovane 

collettate (nelle quali lo zinco, che 

è un inquinante ubiquitario, quasi sempre 

è presente in concentrazione rilevabile, 

anche se inferiore al limite della 

tabella 3 dell’Allegato 5) la separazione 

dallo scarico generale e il trattamento 

a parte, classificandoli come contenente 

una sostanza pericolosa. Il che 

può essere formalmente vero, ma non 

lo è in senso sostanziale. 

Le nuove disposizioni 

interpretative 

La mitigazione apportata dalle disposizioni 

interpretative non tocca 

questi aspetti, bensì rende facoltativa, 

per le autorità competenti, la scelta se 

attenersi o meno alle indicazioni riportate 

nell’Allegato B al D.M. n. 

367/2003, che, in una lettura letterale, 

faceva ritenere che, per tutte le attività 

industriali in cui fossero presenti 

sostanze individuate all’allegato A, 

fosse obbligatorio: 

● porre in opera misuratori di portata; 

● porre in opera campionatori automatici; 

● assicurare autocontrolli; 

● separare gli scarichi di processo da 

quelli delle acque di raffreddamento; 

● avviare separatamente allo scarico 

le acque di prima pioggia; ecc. 

Ora, le disposizioni interpretative 

affermano che «la scelta se attenersi 

o meno alle indicazioni riportate nel 

predetto allegato B rientra nelle facoltà 

delle autorità competenti». 

Parimenti, viene precisato che rimane 

in capo all’autorità competente la 

decisione in materia di separazione degli 

scarichi di processo da quelli delle 

acque di raffreddamento (art. 28, comma 

5, D.Lgs. n. 152/1999), in materia 

di separazione delle acque di prima 

pioggia (art. 39) nonché di utilizzo 

agricolo dei fanghi di depurazione (D. 

Lgs. n. 99/1992) [6] . Si tratta, quindi, di 

valutazioni da assumere caso per caso. 

Inoltre, sulla base della trasparenza 

degli atti amministrativi ai sensi della 

legge 7 agosto 1990, n. 241 [7] , ogni 

prescrizione dell’autorità dovrà essere 

adeguatamente giustificata, con esclusione 

di riferimenti di tipo generico o 

generale. La motivazione non potrà 

che far riferimento al piano di tutela 

delle acque, che dovrà essere approvato 

dalle regioni entro il 31 dicembre 

2004, sulla base dei dati raccolti attraverso 

l’indagine conoscitiva sulle pressioni 

antropiche e sullo stato di qualità 

dei corpi idrici, quest’ultimo, beninteso, 

con preciso ed esplicito riferimen- 

[2] «Direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un quadro per l’azione 

comunitaria in materia di acque» (in G.U.C.E. L del 22 dicembre 2000, n. 327). Si veda M. Chilosi, La nuova direttiva-quadro 

per l’azione comunitaria in materia di acque: verso un “152-ter”? in Ambiente&Sicurezza n. 7/2001, pag. 69. Della stessa 

Autrice, si veda l’approfondimento sugli obblighi di attuazione della direttiva da parte dell’Italia, come disposto dalla 

Comunitaria 2003, a pag. 27 del n. 23/2003 di Ambiente&Sicurezza. 

[3] Si ricordi che il D.Lgs. n. 152/1999 e successive modificazioni e integrazioni è impropriamente chiamato “testo unico”. 

[4] Ad esempio più severi vincoli autorizzativi. 

[5] D.Lgs. n. 31/2001 «Attuazione della Direttiva 98/83/CE relativa alla qualità delle acque destinate al consumo umano» (in S.O. n. 

41 alla Gazzetta Ufficiale del 3 marzo 2001, n. 52). Si veda anche lo Speciale sul n. 9/2001 di Ambiente&Sicurezza. 

[6] «Attuazione della direttiva 86/278/CEE concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei 

fanghi di depurazione in agricoltura» (in Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1992, n. 38). 

[7] «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi» (in Gazzetta 

Ufficiale del 18 agosto 1990, n. 192) 


to agli inquinanti di cui all’allegato A 

al D.M. n. 367/2003. Non pochi dubbi 

permangono sulla possibilità, per tutte 

le regioni, di completare l’indagine in 

tempo per travasarne i risultati nei piani 

regionali di tutela, che dovrebbero 

essere adottati entro il 2004 (anche se 

il termine è ordinatorio). 

Va sottolineato che le disposizioni 

interpretative affermano che «la disciplina 

degli scarichi, ex art. 28 del 

decreto legislativo n. 152/1999, consegue 

alle decisioni pianificatorie di cui 

sopra», cioè all’adozione del piano di 

tutela delle acque, nel cui contesto va 

considerata anche la gestione dei fanghi 

di depurazione [8] . 

Viene precisato anche che le autori- 

tà competenti dovranno scaglionare 

nel tempo le prescrizioni autorizzative, 

dando ai titolari delle attività dalle quali 

prendono origine gli scarichi, i tempi 

di adeguamento necessari. 

Resta salva, secondo le disposizioni 

interpretative, la possibilità che le autorità 

competenti possano fissare (fin 

d’ora), in sede autorizzativa, valori limite 

di emissione più restrittivi di quelli 

stabiliti ai sensi della normativa generale, 

anche se solo «in particolari situazioni 

di accertato pericolo per l’ambiente», 

che devono essere adeguatamente 

descritte, con motivazione specifica 

e non generica. 

Da ultimo, è importante che nel 

citato riordino della normativa vigen- 

te siano distinte con chiarezza, con lo 

scopo di eliminare le diverse interpretazioni 

tuttora possibili e non specificate 

dalla nuova disposizione interpretativa, 

le sostanziali differenze tra 

le sostanze elencate nell’allegato A 

al D.M. n. 367/2003, e le sostanze 

pericolose che decadono dai processi 

produttivi indicati nella tabella 3/A 

al D.Lgs. n. 152/1999, da un lato, e 

le altre sostanze elencate in tabella 5 

del D.Lgs. n. 152/1999 [9] , dall’altro. 

Tra queste categorie di sostanze, pur 

tutte definite (non sempre a ragione) 

pericolose, vi è, tuttavia, una diversa 

graduazione di pericolosità nei confronti 

dell’ambiente, della quale la 

legge dovrebbe tener conto. 

Direttiva del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio 27 maggio 2004 

Disposizioni interpretative delle norme relative agli standard di qualità 

nell’ambiente acquatico per le sostanze pericolose 

in Gazzetta Ufficiale del 14 giugno 2004, n. 137 

IL MINISTRO DELL’AMBIENTE 

E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO 

(omissis) 

Emana 

la seguente direttiva: 

1. Obiettivo del decreto ministeriale n. 367/2003 è 

di fissare in modo uniforme su tutto il territorio 

nazionale gli standard di qualità nell’ambiente acquatico 

nella matrice acquosa, per i corpi idrici significativi 

e per quelli a specifica destinazione, al fine di 

assicurare un’elevata tutela ambientale alle scadenze 

temporali fissate dal decreto legislativo n. 152/1999 

al 2008 (art. 5, comma 3) e al 2015 (art. 4, comma 

4), per le sostanze pericolose individuate a livello 

comunitario, immesse nell’ambiente idrico da fonti 

puntuali e diffuse. 

Il decreto va pertanto interpretato ed applicato nel 

rispetto del quadro normativo costituito dal sovraordi- 


ACQUA 

Commento 

nato decreto legislativo n. 152/1999 che al suo titolo 

IV individua quali strumenti di tutela i piani di tutela 

delle acque (capo I, articoli 42-44) e la disciplina 

degli scarichi (capo II, articoli 45-53). 

Infatti, lo strumento sostanziale per la tutela delle 

acque dall’inquinamento provocato dalle sostanze pericolose 

è definito negli articoli 42, 43 e 44 del 

decreto legislativo citato, i quali prescrivono che le 

regioni debbono svolgere un’attività conoscitiva finalizzata 

all’individuazione delle pressioni antropiche 

ed al rilevamento dello stato di qualità dei corpi 

idrici. Sulla base dei dati raccolti, le regioni devono 

approvare il piano di tutela delle acque non oltre il 

31 dicembre 2004. In questo contesto va considerata 

anche la gestione dei fanghi derivanti dagli impianti 

di depurazione. 

La disciplina degli scarichi, ex art. 28 del decreto 

legislativo n. 152/1999, consegue alle decisioni pianificatorie 

di cui sopra. 

2. Le disposizioni del decreto ministeriale n. 

[8] Viene segnalato che alcune autorità di controllo hanno già inibito l’utilizzo agricolo dei fanghi di biodepurazione prodotti da 

impianti che operano sulla base del comma 2 del D.Lgs. n. 152/1999. 

[9] Per le quali non possono essere adottati limiti meno restrittivi di quelli indicati in tabella 3 dello stesso decreto legislativo. 


ACQUA 

Documento 

367/2003 concernenti gli scarichi si applicano, ai 

sensi dell’art. 34, comma 1, del decreto legislativo n. 

152/1999, agli stabilimenti nei quali si svolgono attività 

che comportano la produzione, la trasformazione 

o l’utilizzazione delle sostanze pericolose considerate 

nel decreto stesso e nei cui scarichi sia accertata la 

presenza di tali sostanze in quantità o concentrazioni 

superiori ai limiti di rilevabilità delle metodiche analitiche 

disponibili. Si tratta pertanto di due condizioni 

concorrenti e soltanto in presenza di entrambe si 

deve ritenere che gli scarichi siano da qualificare 

“scarichi di sostanze pericolose”. 

3. In particolare, sulla base della normativa vigente, 

l’autorità competente in sede di rilascio dell’autorizzazione, 

tenendo conto della tossicità, della persistenza 

e della bioaccumulazione della sostanza considerata 

nell’ambiente in cui è effettuato lo scarico, 

può fissare, in particolari situazioni di accertato pericolo 

per l’ambiente anche per la copresenza di altri 

scarichi di sostanze pericolose, valori-limite di emissione 

più restrittivi di quelli fissati ai sensi della 

normativa generale. 

Per le sostanze di cui alla tabella 3/A dell’allegato 

5 del decreto legislativo n. 152/1999, derivanti dai 

cicli produttivi indicati nella medesima tabella, la 

quantità massima ammissibile della sostanza continuerà 

ad essere espressa in unità di peso per unità di 

elemento caratteristico dell’attività inquinante e cioè 

per materia prima o per unità di prodotto, in conformità 

con quanto indicato nella stessa tabella. 

Per le acque reflue industriali contenenti le sostanze 

pericolose il punto di misurazione dello 

scarico si intende fissato subito dopo l’uscita dallo 

stabilimento o dall’impianto di trattamento che serve 

lo stabilimento medesimo. Restano fermi, altresì, 

il disposto dell’art. 28, comma 5, che lascia 

all’autorità competente la decisione in materia di 

separazione degli scarichi di processo da quelli 

delle acque di raffreddamento, il disposto dell’art. 

39 in materia di acque di prima pioggia nonché la 

normativa sui fanghi di depurazione di cui al decreto 

legislativo n. 99/1992. 

Per tutte queste disposizioni le autorità competenti 

scaglioneranno nel tempo le prescrizioni autorizzative, 

dando ai titolari delle attività da cui originano gli 

scarichi i tempi di adeguamento necessari nel rispetto 

del disposto dell’art. 62, comma 3, del decreto 

legislativo n. 152/1999. 


4. L’allegato B del decreto ministeriale n. 

367/2003 essendo finalizzato - come espressamente 

previsto dall’art. 1, comma 10 - al raggiungimento 

degli standard di qualità per le sostanze pericolose, 

integra il punto 1.2 dell’allegato V del decreto legislativo 

n. 152/1999, e deve conseguentemente intendersi 

riferito agli scarichi contenenti sostanze pericolose, 

individuati all’art. 34, comma 1, dello stesso 

decreto. In attesa del recepimento della direttiva 

CE/2000/60 - che disciplinerà dettagliatamente la 

materia modificando, se del caso, la normativa sostanziale 

vigente, di cui, in particolare, al decreto 

legislativo n. 152/1999 (capo III), nonché al decreto 

legislativo n. 372/1999 e al decreto legislativo n. 

99/1992 - la scelta se attenersi o meno alle indicazioni 

riportate nel predetto allegato B rientra nelle facoltà 

delle autorità competenti, ai sensi di quanto precisato 

al precedente punto 3 e con le precisazioni di cui 

al successivo punto 5. 

5. Per assicurare la necessaria trasparenza degli 

atti amministrativi, ai sensi della legge 7 agosto 

1990, n. 241 «Nuove norme in materia di procedimento 

amministrativo e di diritto di accesso ai 

documenti amministrativi», ogni prescrizione eventualmente 

adottata nelle autorizzazioni dovrà essere 

adeguatamente motivata sulla base delle indicazioni 

contenute nel piano regionale di tutela, tenendo 

conto in particolare della portata del corpo 

d’acqua e del carico massimo ammissibile nello 

stesso. Si ricorda infatti che l’art. 3 comma 1, 

della predetta legge prescrive che ogni provvedimento 

amministrativo deve essere motivato e che 

la motivazione deve indicare i presupposti di fatto 

e le ragioni giuridiche che hanno determinato la 

decisione dell’amministrazione, in relazione alle 

risultanze dell’istruttoria. Se le ragioni della decisione 

risultano da altro atto dell’amministrazione 

richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione 

di quest’ultima deve essere indicato e 

reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama 

che, nel caso in specie, non può essere che il piano 

regionale di tutela delle acque. 

6. Considerata l’esigenza di assicurare il raggiungimento 

degli standard di qualità della acque dall’inquinamento 

delle sostanze pericolose con criteri 

di omogeneità sul territorio, le autorità competenti 

si atterranno a quanto sopra indicato al fine di 

garantire l’unitarietà dell’azione di tutela ambientale. 

l 


di Mara Chilosi, Butti, Peres & Partner, avvocati 

ll Governo italiano, dovendo 

porre rimedio a un’infrazione 

comunitaria avviata dopo l’introduzione 

dell’art. 35 legge 

n. 448/2001, ha modificato il 

Testo Unico sull’ordinamento 

degli enti locali (TUEL), definito 

dall’art. 113 

D.Lgs. n. 267/2000, in materia 

di servizi pubblici locali. Questa 

variazione è stata introdotta 

in un primo momento con 

l’art. 14, decreto-legge 

n. 269/2003, e, in seguito, con 

l’art. 4, legge di conversione n. 

326/2003. Tra le modifiche apportate, 

la variazione della definizione 

dei servizi pubblici locali, 

che da «rilevanza industriale» 

passa a «rilevanza economica 

(concetto dinamico e 

relativo, coerente con le indicazioni 

della Commissione europea), 

l’allargamento dell’esclusione 

dal “periodo transitorio” 

a ulteriori tipologie di società 

e la disciplina della fase successiva 

a tale periodo. 


Aseguito della procedura di infrazione 

comunitaria avviata 

dalla Commissione europea 

nei confronti dell’Italia dopo l’entrata 

in vigore dell’art. 35, legge n. 

448/2001 [1] (legge Finanziaria 

2002), il Governo ha ulteriormente 

modificato l’art. 113, D.Lgs. n. 

267/2000 («Testo unico sull’ordinamento 

degli enti locali», di seguito 

TUEL) in materia di servizi pubblici 

locali, dapprima con l’art. 14, decreto-legge 

n. 269/2003 [2] (convertito 

con modificazioni nella legge n. 

326/2003 [3] ), e, successivamente, 

con l’art. 4 della legge n. 350/2003 

(legge Finanziaria 2004) [4] . 

La nuova formulazione 

del TUEL 

Il D.L. n. 269/2003 aveva modificato 

la rubrica dell’art. 113 TUEL, 

riformulando l’originaria denominazione 

di «servizi pubblici locali di 

rilevanza industriale» in quella di 

«servizi di pubblici locali di rilevanza 

economica». 

Come ha avuto modo di chiarire 

la giurisprudenza amministrativa a 

seguito della riforma apportata dall’art. 

35 Finanziaria 2002 [5] , l’individuazione 

delle attività soggette alla 

nuova disciplina è rimessa - soprattutto 

in assenza di una normativa di 

attuazione - alla libera determinazio- 

ACQUA 

Articolo 

Le misure rese necessarie a seguito di una procedura di infrazione comunitaria 

Legge n. 326/2003 e Finanziaria 2004: 

come cambiano i servizi pubblici locali? 

ne dell’interprete, il quale deve definire 

la natura dell’attività in concreto 

effettuata, utilizzando criteri oggettivi 

di valutazione, quali la rilevante 

organizzazione di uomini e 

mezzi, l’impiego di capitale richiesto 

e la complessità delle operazioni 

svolte [6] . 

La stessa Commissione europea 

(nella relazione sul Consiglio Europeo 

di Laeken in materia di servizi 

di interesse generale [7] ) ha rilevato 

che non è possibile né opportuno 

creare un elenco “costitutivo” ed 

esaustivo di tutti i servizi da considerare 

di natura non economica e, 

quindi, sottratti alla disciplina comunitaria 

a tutela della concorrenza. 

La “rilevanza economica” di un 

servizio pubblico locale è, infatti, 

necessariamente, un concetto dinamico 

e relativo, posto che la medesima 

attività permette o meno di conseguire 

la copertura dei costi con i 

ricavi e la remunerazione dei capitali 

investiti a seconda di fattori locali, 

quali, ad esempio, la comunità e 

il territorio di riferimento. 

La scelta, recepita nel D.L. n. 

269/2003, di abrogare il regolamento 

governativo di cui al comma 16 

dell’art. 35 - il quale doveva elencare 

i «servizi pubblici locali di rilevanza 

industriale», al fine di delineare 

l’ambito di applicabilità della 

[1] «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato» (in S.O. n. 285, alla Gazzetta Ufficiale del 29 

dicembre 2001, n. 301). 

[2] Si veda sul tema, dello stesso autore, Novità per i servizi pubblici locali dal decreto-legge n. 269/2003, in Ambiente&Sicurezza, 

n. 22/2003, pag. 72. 

[3] «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo 

sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici» (in S.O. n. 181 alla Gazzetta Ufficiale del 25 novembre 2003, n. 274). 

10 agosto 2004 - N. 15 www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com 51 

(segue)

ACQUA 

Articolo 

riforma - risulta, quindi, corretta e 

coerente rispetto alle indicazioni fornite 

dalla Commissione europea e 

dalla recente giurisprudenza amministrativa. 

È, in definitiva, presumibile che 

il compito di valutare la “rilevanza 

economica” di un attività sarà demandato 

alle amministrazioni locali, 

per la parte non espressamente 

disciplinata dalle normative nazionali 

di settore e dalle leggi regionali di 

attuazione [8] . 

La legge n. 350/2003, nel convertire 

il D.L. n. 269/2003, ha peraltro 

sottratto all’ambito di applicabilità 

dell’art. 113 TUEL «i settori disciplinati 

dai decreti legislativi 16 marzo 

1999, n. 79 e 23 maggio 2000, n. 

164» (e, quindi, i servizi di distribuzione 

di gas ed energia elettrica a 

livello locale), con la conseguenza 

che essi sono oggi regolati esclusivamente 

dalle normative di settore, risultando, 

invece, assoggettati alla disciplina 

di cui all’art. 113, TUEL: 

Articolo 113 TUEL 

(D.L. n. 269/2003) 


● il servizio idrico integrato; 

● il servizio di gestione dei rifiuti 

solidi urbani; 

● sino alla definitiva esclusione, attualmente 

in discussione al Parlamento, 

il servizio di trasporto locale. 

Il decreto-legge n. 269/2003 aveva 

poi previsto che l’erogazione dei 

servizi pubblici locali a rilevanza 

economica da parte dei gestori individuati 

prima dell’introduzione della 

nuova disciplina proconcorrenziale 

potesse protrarsi, al massimo, sino 

al 31 dicembre 2006, fermi restando 

i diversi termini fissati dalle 

normative di settore. 

Il provvedimento aveva eliminato 

ogni possibilità di proroga del 

“periodo transitorio”, abrogando i 

commi 3 e 4, art. 35 legge Finanziaria 

2002, i quali consentivano la protrazione 

dell’affidamento in presenza 

di determinate condizioni, legate 

principalmente alla privatizzazione 

della compagine sociale e all’allar- 

«1. Le disposizioni del presente articolo che disciplinano 

le modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici 

locali concernono la tutela della concorrenza e sono 

inderogabili ed integrative delle discipline di settore. 

Restano ferme le altre disposizioni di settore e quelle di 

attuazione di specifiche normative comunitarie.» 

gamento del bacino d’utenza. 

L’abrogazione delle due disposizioni 

era stata espressamente richiesta 

dalla Commissione europea, in 

quanto le proroghe, che potevano 

arrivare sino a cinque anni, avrebbero 

comportato uno slittamento eccessivo 

del termine di apertura dei mercati. 

La legge n. 326/2003 ha reintrodotto 

la possibilità di allungare il 

termine di anticipata cessazione delle 

gestioni esistenti, introducendo, 

dopo il comma 15-bis art. 113 

TUEL, un comma 15-ter, a norma 

del quale: «Il termine del 31 dicembre 

2006, di cui al comma 15-bis, 

può essere differito ad una data successiva, 

previo accordo, raggiunto 

caso per caso, con la Commissione 

europea, alle condizioni sotto indicate: 

a) nel caso in cui, almeno dodici 

mesi prima dello scadere del suddetto 

termine si dia luogo, mediante 

una o più fusioni, alla costituzione 


(legge Finanziaria 2004) 

«1. Le disposizioni del presente articolo che disciplinano 

le modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici 

locali concernono la tutela della concorrenza e sono 

inderogabili ed integrative delle discipline di settore. 

Restano ferme le altre disposizioni di settore e 

quelle di attuazione di specifiche normative comunitarie. 

Restano escluse dal campo di applicazione 

del presente articolo i settori disciplinati dai decreti 

legislativi 16 marzo 1999, n. 79 e 23 maggio 2000, 

n. 164 e successive modificazioni». 

[4] «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge Finanziaria 2004)» (in S. O. n. 196 alla 

Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 2003, n. 299). 

[5] Il riferimento è, in particolare, alla sentenza del Consiglio di Stato n. 2380/2003; per un commento si veda, dello stesso Autore, 

Servizi pubblici locali a rilevanza industriale: l’art. 35 al vaglio del giudice amministrativo, inAmbiente&Sicurezza, n. 18/2003, 

pag. 71. Sul punto si vedano anche T.A.R. Marche, sentenza n. 246/2003 e T.A.R. Campania, sentenza n. 4203/2003. 

[6] La distinzione tra «servizi di rilevanza economica» e«servizi privi di rilevanza economica» non è scevra di conseguenze: solo i 

primi, infatti, rientrano nel campo di applicazione dell’art. 113, D.Lgs. n. 267/2000, mentre i secondi sono disciplinati dall’art. 

113-bis del medesimo decreto, il quale consente, sussistendone le condizioni, l’affidamento dell’attività al gestore senza 

ricorrere alle procedure a evidenza pubblica. 

[7] Documento COM (2001) 598.def. 

[8] Si veda, ad esempio, la L.R. Lombardia del 12 dicembre 2003, n. 26 (in B.U.R.L. del 16 dicembre 2003, n. 51), la quale ha 

stabilito che «i servizi locali di interesse economico generale (...) sono comunque individuabili nei seguenti: gestione dei rifiuti 

urbani; distribuzione dell’energia elettrica e termica e del gas naturale; gestione dei sistemi integrati di alloggiamento delle reti 

nel sottosuolo; gestione del servizio idrico integrato». La legge regionale fa chiaramente intendere, nell’utilizzare il «comunque», 

che l’elenco proposto all’art. 2 non è esaustivo, lasciando quindi aperta la possibilità che le amministrazioni competenti 

individuino - eventualmente supportate dalla giurisprudenza e con le necessarie differenziazioni locali - ulteriori attività che 

debbono essere svolte nel rispetto della disciplina dettata dall’art. 113, D.Lgs. n. 267/2000. 


di una nuova società capace di servire 

un bacino di utenza complessivamente 

non inferiore a due volte 

quello originariamente servito dalla 

società maggiore; in questa ipotesi 

il differimento non può comunque 

essere superiore ad un anno; 

b) nel caso in cui, entro il termine 

di cui alla lettera a), un’impresa affidataria, 

anche a seguito di una o più 

fusioni, si trovi ad operare in un ambito 

corrispondente almeno all’intero 

territorio provinciale ovvero a quello 

ottimale, laddove previsto dalle norme 

vigenti; in questa ipotesi il differimento 

non può comunque essere superiore 

a due anni» 

La legge di conversione ha dunque 

riproposto le ipotesi di proroga 

originariamente previste dall’art. 


Articolo 113 TUEL (D.L. n. 269/2003) Articolo 113 TUEL (legge Finanziaria 2004) 

15-ter:«Il termine del 31 dicembre 2006, di cui al comma 

15-bis, può essere differito ad una data successiva, previo 

accordo, raggiunto caso per caso, con la Commissione 

europea, alle condizioni sotto indicate: 

a) nel caso in cui, almeno dodici mesi prima dello scadere 

del suddetto termine si dia luogo, mediante una o 

più fusioni, alla costituzione di una nuova società capace 

di servire un bacino di utenza complessivamente non 

inferiore a due volte quello originariamente servito 

dalla società maggiore; in questa ipotesi il differimento 

non può comunque essere superiore ad un anno; 

b) nel caso in cui, entro il termine di cui alla lettera a), 

un’impresa affidataria, anche a seguito di una o più 

fusioni, si trovi ad operare in un ambito corrispondente 

almeno all’intero territorio provinciale ovvero a quello 

ottimale, laddove previsto dalle norme vigenti; in questa 

ipotesi il differimento non può comunque essere 

superiore a due anni». 

35, comma 3, lettere a) e b), legge 

Finanziaria 2002, subordinandone, 

però, la concreta operatività a un 

accordo stipulato di volta in volta 

tra la società di gestione e la Commissione 

europea, rispetto al quale 

la legge non fornisce alcuna indicazione 

procedurale, rimandando, presumibilmente, 

a un meccanismo di 

assenso preventivo simile a quello 

previsto per gli “aiuti di Stato”. 

L’obbligo di “anticipata cessazione” 

delle gestioni attribuite senza 

selezione concorsuale non riguarda 

peraltro tutte le società che 

risultino attualmente affidatarie dirette 

di un servizio pubblico locale; 

ne sono, infatti, esentate: 

● le società a capitale misto il cui 

socio privato sia stato selezionato 

ACQUA 

Articolo 

con procedure a evidenza pubblica 

(in questo caso, infatti, il Legislatore 

presume che la tutela della concorrenza 

sia, comunque, assicurata, 

anche se in un momento antecedente 

a quello della scelta del soggetto 

gestore); 

● le società che rispondono al modello 

dell’“affidamento in house”. 

Quest’ultima ipotesi riguarda, in 

particolare, le società di capitali partecipate 

totalmente dagli enti locali, 

anche con affidamento diretto, a patto 

che gli enti pubblici titolari «esercitino 

sulla società un controllo analogo 

a quello esercitato sui propri 

servizi e che la società realizzi la 

parte più importante della propria 

attività con l’ente o gli enti pubblici 

che la controllano» [9] . 

[9] Le due condizioni sono state introdotte dal D.L. n. 269/2003 sulla falsariga della sentenza della Corte di Giustizia europea 

pronunciata il 18 novembre 1999, in causa C-107/98, nota come sentenza Teckal, nella quale è stata affermata la legittimità 

dell’assegnazione senza gara di un servizio, nel caso in cui il soggetto affidatario sia controllato dagli enti locali e svolga la 

parte più significativa della propria attività a favore degli enti medesimi (cosidetto “affidamento in house”). Per quanto 

riguarda l’ordinamento italiano, questo principio era già stato accolto, prima dell’emanazione del D.L. n. 269/2003, nella 

circolare del Dipartimento per le politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 19 ottobre 2001, n. 12727 

(cosiddetta circolare “Bottiglione”), recante «Affidamento a società miste della gestione dei servizi pubblici locali», la quale 

ha richiamato l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia europea nella sentenza Teckal, sostenendo che il rapporto di 

controllo intercorrente tra enti locali e soggetto gestore deve essere analogo a una relazione di subordinazione gerarchica, la 

quale si verifica, in particolare, «quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente 

societario». In questi casi, la gestione del servizio può essere affidata direttamente, senza necessità di procedere con gara a 

evidenza pubblica, secondo le modalità indicate nelle leggi comunitarie. Ciò anche quando si configuri una concessione di 

servizi, ossia qualora l’affidamento riguardi «un servizio in cambio della gestione dello stesso come corrispettivo». La 

Commissione europea, nella procedura di infrazione avviata nei confronti dell’Italia il 26 giugno 2002, ha ulteriormente 

chiarito che affinché possa sussistere il «controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (...) non è sufficiente il semplice 

esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario. Il controllo 

contemplato dalla sentenza Teckal fa infatti riferimento ad un rapporto che determina, da parte dell’amministrazione 

(segue) 


ACQUA 

Articolo 

Si noti che sui (nebulosi) concetti 

di “affidamento in house” e 

di «controllo analogo a quello 

esercitato sui propri servizi» la V 

Sezione del Consiglio di Stato ha 

recentemente sospeso un giudizio 

riguardante l’attribuzione senza 

gara a una società interamente pubblica 

del servizio di gestione di 

parcheggi pubblici a pagamento, 

rimettendo gli atti alla Corte di 

Giustizia della Comunità Europa 

ai sensi dell’art. 234, Trattato, ai 

fini di ottenere una pronuncia pregiudiziale 

in ordine alla compatibilità 

della normativa regionale del 

Trentino Alto Adige - e, in particolare, 

della deroga ai sistemi di scelta 

del contraente di cui alla direttiva 

92/50/CEE (contenuta anche 

nella legislazione statale) - rispetto 

al diritto comunitario. 

Nella parte motivazionale dell’ordinanza 

(emessa in Camera di Consiglio 

in data 27 gennaio 2004), il Giudice 

Amministrativo rileva che 

l’espressione «controllo analogo a 

quello esercitato sui propri servizi», 

utilizzata dalla Corte di Giustizia nella 

nota sentenza Teckal e ripresa dal 


(D.L. n. 269/2003, L. n. 326/2003) 


Legislatore nazionale, «propone un 

nuovo problema interpretativo, dovendosi 

stabilire quando il controllo esercitato 

presenti le caratteristiche volute 

dalla sentenza. Più specificamente 

si tratta di capire se il possesso dell’intero 

capitale del soggetto affidatario, 

nella specie una società per azioni, 

possa garantire quella situazione 

di dipendenza organica che normalmente 

si realizza nell’organizzazione 

burocratica di una pubblica amministrazione». 

Secondo il Consiglio di Stato, il 

concetto di società “in house” dovrebbe 

essere riportato «ad un fenomeno 

giuridico assimilabile a quello delle 

aziende municipalizzate di cui al R.D. 

15 ottobre 1925, n. 2578, nel quale si 

istituiva un nuovo soggetto, con capacità 

giuridica propria e propri organi, 

sottoposto peraltro a penetranti poteri 

di vigilanza da parte dell’Amministrazione 

(art. 16 e segg. R.D. n. 2578/ 

1925) [10] . Tale esperienza, d’altra parte, 

era caratterizzata dall’obbligo dell’azienda 

di svolgere la propria attività 

mediante contratti, scegliendo il 

contraente con procedure ad evidenza 

pubblica (art. 57 e segg. del Regola- 

mento di cui al D.P.R. 4 ottobre 1986, 

n. 902). L’affidamento diretto a società 

per azioni, del tutto autonome, salvo 

l’esercizio dei poteri propri del possessore 

della maggioranza delle azioni, 

secondo le norme del diritto commerciale 

comune, sembra esporre la 

gestione delle pubbliche risorse a procedure 

diverse da quelle destinate a 

garantire una crescita del mercato interno, 

l’economia nelle spese e il vantaggio 

per l’utenza». 

Per questi motivi, il Consiglio ritiene 

che la possibilità di affidare in via 

diretta servizi pubblici locali a società 

di capitali a partecipazione interamente 

pubblica (e per ciò solo considerate 

“in house”) si ponga in contrasto con 

gli artt. 12, 45, 46, 49 e 86, Trattato 

dell’Unione Europea, che tutelano i 

principi di non discriminazione, di libertà 

nella prestazione dei servizi pubblici 

e di libera concorrenza. 

La pronuncia pregiudiziale della 

Corte di Giustizia fornirà decisivi 

spunti interpretativi per la soluzione 

del problema della applicabilità del 

“modello Teckal” alle società di capitali, 

utilizzabili su scala generale, 

posto che - come ha rilevato lo stes- 



5-bis: «Le normative di settore, al fine di superare assetti 

monopolistici, possono introdurre regole che assicurino 

concorrenzialità nella gestione dei servizi da esse 

disciplinate prevedendo, nel rispetto delle disposizioni 

di cui al comma 5, criteri di gradualità nella scelta della 

modalità di conferimento del servizio.» 

controllante, un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda 

l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo. In virtù di tale rapporto il soggetto partecipato, non possedendo alcuna 

autonomia decisionale in relazione ai più importanti atti di gestione, si configura soltanto come un’entità distinta solo formalmente 

dall’amministrazione, ma che in concreto continua a costituire parte della stessa. Solo a tali condizioni si può ritenere che tra 

amministrazione ed aggiudicatario non sussista, agli effetti pratici, un rapporto di terzietà rilevante ai fini dell’applicazione delle regole 

comunitarie in materia di appalti pubblici». Sul concetto di “affidamento in house” e di “controllo” si vedano anche le sentenze della 

Corte di Giustizia 27 febbraio 2003, C-373/00, Truley e 8 maggio 2003, C-349/97, Spagna vs. Commissione. 

[10] La costituzione e le modalità di funzionamento delle aziende speciali e dei consorzi - formule a tutt’oggi operative per lo 

svolgimento di attività diverse dai servizi di rilevanza economica - sono regolate dal D.P.R. n. 902/21986 e, in virtù di espresso 

richiamo, dal R.D. n. 2578/1925 (recante «Testo unico della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei 

comuni e delle province»). Questo ultimo provvedimento prevede: 

- la devoluzione degli «utili netti dell’azienda (...) al bilancio comunale. Alle perdite si fa fronte col fondo di riserva... e, in caso 

di insufficienza, con appositi stanziamenti nella parte straordinaria della spesa del bilancio comunale»; 

-la«vigilanza del consiglio comunale», che può sempre verificare l’andamento dell’azienda (art. 2). In particolare, «i bilanci 

(segue) 



(D.L. n. 269/2003, L. n. 326/2003) 

so Consiglio di Stato - «la soluzione 

del quesito in esame non esplica 

effetti solo sulla applicabilità della 

normativa della Regione Trentino 

Alto Adige, perché anche la legislazione 

dello Stato consente ora la 

deroga al metodo di scelta del contraente 

mediante procedura ad evidenza 

pubblica». 

Modifiche dalla legge 

Finanziaria 2004 

La legge n. 350/2003, ha inserito, 

nell’art. 113 TUEL, tre nuove disposi- 


zioni (in particolare, i commi 5-bis, 

5-ter e 15-quater) e ha modificato il 

comma 15-bis, introdotto con il D.L. 

n. 269/2003, individuando ulteriori 

ipotesi eccezionali rispetto alla generale 

previsione della “cessazione anticipata” 

delle gestioni esistenti a far data 

dal 31 dicembre 2006. 

Prima di analizzare il contenuto di 

queste disposizioni occorre ricordare 

che l’originaria riforma dell’art. 113 

TUEL, apportata dall’art. 35 legge Finanziaria 

2002, ha disposto che «le 

discipline di settore stabiliscono i casi 

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Articolo 



5-ter: «In ogni caso in cui la gestione della rete, separata 

o integrata con l’erogazione dei servizi, non sia stata 

affidata con gara ad evidenza pubblica, i soggetti gestori 

di cui ai precedenti commi provvedono all’esecuzione dei 

lavori comunque connessi alla gestione della rete esclusivamente 

mediante contratti di appalto o di concessione 

di lavori pubblici, aggiudicati a seguito di procedure di 

evidenza pubblica, ovvero in economia nei limiti di cui 

all’articolo 24 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e 

all’articolo 143 del regolamento di cui al decreto del 

Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554. 

Qualora la gestione della rete, separata o integrata con 

la gestione dei servizi, sia stata affidata con procedure di 

gara, il soggetto gestore può realizzare direttamente i 

lavori connessi alla gestione della rete, purché qualificato 

ai sensi della normativa vigente e purché la gara espletata 

abbia avuto ad oggetto sia la gestione del servizio 

relativo alla rete, sia l’esecuzione dei lavori connessi. 

Qualora, invece, la gara abbia avuto ad oggetto esclusivamente 

la gestione del servizio relativo alla rete, il gestore 

deve appaltare i lavori a terzi con le procedure ad evidenza 

pubblica previste dalla legislazione vigente». 

nei quali l’attività di gestione delle reti 

e degli impianti destinati alla produzione 

dei servizi pubblici locali... può 

essere separata da quella di erogazione 

degli stessi» (art. 113, comma 3). 

A mente del comma 4 dell’art. 

113, l’attività di gestione delle infrastrutture 

può essere affidata a 

“imprese idonee” selezionate con gara, 

ovvero a società a capitale pubblico 

totalitario che corrispondano al modello 

dell’“affidamento in house” 

(che si verifica, come visto, qualora 

gli enti pubblici proprietari esercitino 

delle aziende e le deliberazioni della commissione amministratrice per nuove spese che si rendano necessarie durante 

l’esercizio finanziario e per i contratti ed altri speciali provvedimenti che vincolino il bilancio oltre l’anno sono comunicati 

all’amministrazione del comune. Nel termine di 15 giorni il consiglio comunale può formulare le proprie osservazioni che 

saranno comunicate, a cura del sindaco, alla commissione amministratrice» (art. 16); 

- la vigilanza del prefetto sulla gestione del servizio pubblico e sul rispetto del regolamento, con potere di inchiesta e di revoca 

degli atti (artt. 17 e 19). 

- l’elezione (e lo scioglimento d’ufficio), da parte del Consiglio comunale, della Commissione amministratrice. La stretta 

correlazione tra azienda e comune è evidenziata dal fatto che i 2/5 della commissione possano essere formati da membri del 

Consiglio comunale e dalla condizione per cui «la commissione amministratrice decade dal mandato nel caso in cui, anche 

durante il quinquennio, sia insediato un nuovo consiglio comunale o un nuovo consiglio provinciale a seguito di elezioni» e che 

«il servizio di cassa delle aziende è fatto dal tesoriere comunale, ma con cassa e contabilità separate». Tra i compiti della 

commissione figura quello di provvedere «a tutte le opere e spese, agli appalti e a quanto occorra per il funzionamento 

dell’azienda» (artt. 5 e 6); 

- «Per l’accertamento delle responsabilità amministrative e contabili degli amministratori, del direttore e degli impiegati delle 

aziende speciali si applicano le norme della legge comunale e provinciale» (art. 7). 

La giurisprudenza ha costantemente configurato quello intercorrente tra comune e azienda speciale come «rapporto di 

immedesimazione organica», non ritenendo che ciò potesse compromettere la riconosciuta «autonomia contabile e finanziaria, 

nonché la capacità di compiere i negozi giuridici necessari per il raggiungimento del proprio fine e di stare in giudizio» 

dell’azienda speciale (tra tutte, si veda la sentenza della Corte dei Conti, sez. II, 15 luglio 1985, n. 142). 


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(D.L. n. 269/2003, L. n. 326/2003) 

15-bis: «Nel caso in cui le disposizioni previste per i 

singoli settori non stabiliscano un congruo periodo di 

transizione, ai fini dell’attuazione delle disposizioni previste 

nel presente articolo, le concessioni rilasciate con 

procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque 

entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006, 

senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante. 

Sono escluse dalla cessazione le concessioni affidate 

a società a capitale misto pubblico privato nelle 

quali il socio privato sia stato scelto mediante procedure 

ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto 

delle norme interne e comunitarie in materia di 

concorrenza, nonché quelle affidate a società a capitale 

interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici 

titolari del capitale sociale esercitino sulla società un 

controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e 

che la società realizzi la parte più importante della propria 

attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano». 


(D.L. n. 269/2003, L. n. 326/2003) 




15-bis: «Nel caso in cui le disposizioni previste per i singoli 

settori non stabiliscano un congruo periodo di transizione, 

ai fini dell’attuazione delle disposizioni previste nel 

presente articolo, le concessioni rilasciate con procedure 

diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro 

e non oltre la data del 31 dicembre 2006, senza necessità 

di apposita deliberazione dell’ente affidante. Sono escluse 

dalla cessazione le concessioni affidate a società a 

capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato 

sia stato scelto mediante procedure ad evidenza pubblica 

che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne 

e comunitarie in materia di concorrenza, nonché quelle 

affidate a società a capitale interamente pubblico a 

condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale 

esercitino sulla società un controllo analogo a quello 

esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la 

parte più importante della propria attività con l’ente o 

gli enti pubblici che la controllano. 

Sono altresì escluse dalla cessazione le concessioni 

affidate alla data del 1º ottobre 2003 a società già 

quotate in borsa e a quelle da esse direttamente 

partecipate a tale data a condizione che siano concessionarie 

esclusive del servizio, nonché a società 

originariamente a capitale interamente pubblico 

che entro la stessa data abbiano provveduto a 

collocare sul mercato quote di capitale attraverso 

procedure ad evidenza pubblica, ma, in entrambe 

le ipotesi indicate, le concessioni cessano comunque 

allo spirare del termine equivalente a quello 

della durata media delle concessioni aggiudicate 

nello stesso settore a seguito di procedure di evidenza 

pubblica, salva la possibilità di determinare 

caso per caso la cessazione in una data successiva 

qualora la stessa risulti proporzionata ai tempi di 

recupero di particolari investimenti effettuati da 

parte del gestore». 



15-quater: «A decorrere dal 1º gennaio 2007 si applica il 

divieto di cui al comma 6, salvo nei casi in cui si tratti 

dell’espletamento delle prime gare aventi ad oggetto i 

servizi forniti dalle società partecipanti alla gara stessa. 

Con regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, 

comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive 

modificazioni, sentite le Autorità indipendenti del 

settore e la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del 

decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, il Governo 

definisce le condizioni per l’ammissione alle gare di imprese 

estere, o di imprese italiane che abbiano avuto 

all’estero la gestione del servizio senza ricorrere a procedure 

di evidenza pubblica, a condizione che, nel primo 

caso, sia fatto salvo il principio di reciprocità e siano 

garantiti tempi certi per l’effettiva apertura dei relativi 

mercati». 


sulla società un controllo analogo a 

quello relativo ai propri servizi e la 

società realizzi la parte più importante 

della propria attività a favore degli 

enti soci). 

L’attività di erogazione del servizio, 

invece, deve essere attribuita, per 

previsioni generale, a soggetti scelti 

con gara o che abbiano acquisito una 

partecipazione privata con procedure 

a evidenza pubblica (anticipando, 

quindi, la selezione concorsuale al 

momento della costituzione, della trasformazione 

o, comunque, della 

“privatizzazione” della società), ovvero, 

eccezionalmente, a società interamente 

pubbliche, se rispondenti alle 

condizioni dell’“affidamento in house” 

sopra esaminate. 

Il comma 5-bis dell’art. 113, 

come riformato dalla legge Finanziaria 

2004, prevede che «le normative 

di settore, al fine di superare 

assetti monopolistici, possono 

introdurre regole che assicurino 

concorrenzialità nella gestione 

dei servizi da esse disciplinati prevedendo, 

nel rispetto delle disposizioni 

di cui al comma 5» (normative 

nazionali di settore e normative 

comunitarie in materia di concorrenza), 

«criteri di gradualità nella 

scelta della modalità di conferimento 

del servizio». 

La disposizione è stata introdotta 

all’evidente scopo di permettere al 

Legislatore di “graduare” gli interventi 

volti all’apertura dei mercati - 

accelerando o eventualmente rallentando, 

nel rispetto delle direttive stabilite 

dalla Commissione europea, il 

processo di liberalizzazione - a seconda 

delle peculiarità del settore 

interessato. È possibile, ad esempio, 

che venga stabilito un limite alla 

durata delle gestioni disposte a favore 

di società “in house”, stabilendo 

un termine per procedere alla privatizzazione 

delle stesse con procedure 

a evidenza pubblica. 

Il nuovo art. 113, comma 5-ter, 


TUEL, coerentemente con la disposizione 

precedente, appare finalizzato 

a garantire un “livello minimo” 

di concorrenza, prevedendo che, in 

tutti i casi in cui la gestione della 

rete, degli impianti e delle altre dotazioni 

patrimoniali (sia essa «separata 

o integrata con l’erogazione dei 

servizi») venga affidata senza gara 

(ad esempio, ricorrendo al modello 

dell’“affidamento in house”), i gestori 

debbano provvedere all’esecuzione 

dei lavori «comunque connessi 

alla gestione della rete», mediante 

«contratti di appalto o di concessione 

di lavori pubblici, aggiudicati 

a seguito di procedure di evidenza 

pubblica», con la possibilità di svolgere 

le opere in economia nei limiti 

stabiliti dall’art. 24 della legge n. 

109/1994 [11] . 

Nell’ipotesi in cui l’attività di gestione 

delle infrastrutture sia affidata 

con gara, i lavori a essa connessi 

possono essere svolti in economia 

dal soggetto affidatario soltanto se 

la gara espletata «abbia avuto ad 

oggetto sia la gestione del servizio 

relativo alla rete, sia l’esecuzione 

dei lavori connessi». 

Qualora, invece, la procedura concorsuale 

riguardi la sola attività di erogazione, 

«il gestore deve appaltare i 

lavori a terzi con le procedure ad 

evidenza pubblica previste dalla legislazione 

vigente», con una sostanziale 

equiparazione alla disciplina prevista 

per gli affidamenti diretti. 

Precedentemente si è visto come 

la legge di conversione n. 326/2003, 

abbia attenuato la previsione, contenuta 

nel D.L. n. 269/2003, della «anticipata 

cessazione», al 31 dicembre 

2006, delle gestioni in corso affidate 

senza procedure a evidenza 

pubblica, introducendo la possibilità 

di prorogare questo termine sino 

a due anni nel caso vengano raggiunte, 

mediante operazioni societarie, 

dimensioni gestionali rilevanti e 

meritevoli di salvaguardia. 

ACQUA 

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Già il D.L. n. 269/2003 aveva sottratto 

dalla “anticipata cessazione”: 

● le società che avessero ottenuto 

la gestione del servizio aggiudicandosi 

una gara; 

● le società miste che avessero selezionato 

il partner privato con procedura 

concorsuale; 

● le società interamente pubbliche 

che rispondano al modello dell’“affidamento 

in house”. 

La legge Finanziaria 2004 ha stabilito 

una ulteriore deroga alla previsione 

di cui al comma 15-bis art. 

113, TUEL, escludendo dall’applicazione 

del “periodo transitorio”: 

● le società già quotate in borsa (e 

quelle da esse direttamente partecipate), 

alle quali la gestione del servizio 

risulti affidata alla data del 1˚ ottobre 

2003, a condizione che siano concessionarie 

esclusive del servizio; 

● le società originariamente a capitale 

pubblico totalitario che, entro il 

1˚ ottobre 2003, abbiano provveduto 

a collocare sul mercato quote di 

capitale attraverso procedure ad evidenza 

pubblica. 

In entrambe le ipotesi, le concessioni 

cessano comunque «allo spirare 

del termine equivalente a quello della 

durata media delle concessioni aggiudicate 

nello stesso settore a seguito di 

procedure di evidenza pubblica, salva 

la possibilità di determinare caso 

per caso la cessazione in una data 

successiva qualora la stessa risulti 

proporzionata ai tempi di recupero di 

particolari investimenti effettuati da 

parte del gestore». 

L’indeterminatezza della disposizione 

ora riportata porta a ritenere che 

la scadenza effettiva di questo tipo di 

gestioni - come le modalità e le condizioni 

per disporre periodi di salvaguardia 

più lunghi - verrà stabilita da un 

provvedimento di attuazione, non potendo 

una scelta di questo genere essere 

rimessa alla pura discrezionalità 

delle amministrazioni locali. 

Su questo punto si segnala che il 

[11] Si vedano le sentenze della Corte Costituzionale n. 170/1984, n. 113/1985, n. 389/1989 e n. 168/1991; si veda, altresì, la 

sentenza della Cassazione penale, sez. III, 1˚ luglio 1999, n. 9983, Valentini. 


ACQUA 

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TAR Liguria, sez. II, con ordinanza 

22 aprile 2004 n. 822, ha sospeso un 

giudizio concernente l’attribuzione 

senza gara del servizio idrico integrato 

a una società mista quotata in borsa, 

rimettendo gli atti alla Corte di 

Giustizia della Comunità europea, al 

fine di ottenere una pronuncia pregiudiziale 

circa la compatibilità della vigente 

normativa in materia di servizi 

pubblici locali (in particolare, del 

comma 15-bis dell’art. 113 TUEL nella 

versione modificata dalla legge finanziaria 

2004) rispetto al diritto comunitario, 

come interpretato dalla 

Corte europea nella sentenza 7 dicembre 

2000 resa in causa C-324/98 (sentenza 

Teleaustria) e dalla Commissione 

europea con la comunicazione interpretativa 

29 aprile 2000. 

Secondo questo indirizzo interpretativo, 

l’obbligo di affidamento mediante 

gara previsto dal diritto comunitario 

sugli appalti si estende anche 

alle concessioni di pubblici servizi, 

nonostante queste non siano espressamente 

prese in considerazione dal 

Trattato o da norme derivate. L’obbligo 

di selezione concorsuale deriva, 

infatti, dell’applicazione estensiva, anche 

alle concessioni, delle norme del 

Trattato che instaurano e garantiscono 

il buon funzionamento del mercato 

unico (artt. 12, 28, 49 e 86). 

Il TAR Liguria ha sollevato al riguardo 

tre questioni pregiudiziali. 

Innanzitutto, si è chiesto se l’interpretazione 

suddetta debba essere adottata 

anche in situazioni riguardanti 

soggetti appartenenti a un unico Stato 


membro e, quindi, anche qualora sia 

totalmente assente il connotato di transnazionalità 

sui cui si fonda la tutela 

degli scambi comunitari assicurata 

dall’art. 12, Trattato (il quale vieta, 

appunto, qualsiasi discriminazione tra 

operatori fondata sulla nazionalità). 

In passato, il Giudice comunitario aveva 

già escluso che ciò fosse necessario 

(sentenza 9 settembre 1999, resa 

in causa C-108/98). 

Il TAR Liguria si è chiesto poi se 

sia possibile, per gli Stati membri, introdurre 

nel proprio ordinamento, nel 

momento in cui si conformano al Trattato, 

disposizioni transitorie che salvaguardano 

temporaneamente le concessioni 

di pubblici servizi affidate senza 

gara anche dopo l’emanazione della 

sentenza Teleaustria (ossia dopo il 7 

dicembre 2000) e, in caso affermativo, 

quale possa essere la durata del 

“periodo transitorio”. In altre parole, il 

Giudice amministrativo si è posto il 

dubbio della compatibilità del comma 

15-bis dell’art. 113 rispetto al diritto 

comunitario, nella parte in cui esclude 

la cessazione degli affidamenti diretti 

disposti a favore di società quotate in 

borsa dopo il 7 dicembre 2000 (data in 

cui la Corte di Giustizia ha affermato il 

principio per il quale anche le concessioni 

di pubblici servizi devono essere 

attribuite con gara) e prima del 2 ottobre 

2003. La Corte Costituzionale ha 

più volte affermato che il principio dell’immediata 

applicabilità della normativa 

comunitaria nel territorio dello Stato 

sussiste non solo con riferimento ai 

regolamenti e alle direttive self-execu- 

ting, ma anche alle sentenze interpretative 

della Corte di Giustizia [12] . Pertanto, 

la sentenza Teleaustria non produce 

verosimilmente alcun effetto soltanto 

sulle concessioni già affidate senza gara 

al momento della propria emanazione, 

avvenuta il 7 dicembre 2000, mentre 

non è chiara la sorte delle concessioni 

affidate senza gara successivamente 

a questa data, pur nella vigenza di una 

disciplina nazionale che consente tale 

possibilità (nel caso di specie, l’abrogato 

comma 5 dell’art. 35, legge finanziaria 

2002) o che, comunque, le fa espressamente 

salve (comma 15-bis dell’art. 

113 TUEL). 

Con la terza e ultima questione 

pregiudiziale, il TAR Liguria, rilevata 

la indubbia natura di «interesse 

economico generale» del servizio 

idrico integrato [13] , ha chiesto 

alla Corte di Giustizia se il titolare 

dello stesso possa godere delle 

esenzioni previste dall’art. 86 del 

Trattato CE, secondo il quale le 

regole comunitarie sulla concorrenza 

non trovano applicazione 

nel caso in cui ciò possa compromettere, 

in linea di diritto o di 

fatto, la specifica missione affidata 

al gestore [14] . 

La soluzione di queste questioni 

da parte del Giudice comunitario 

contribuirà, indubbiamente, a fare 

chiarezza sulla legittimità degli affidamenti 

diretti dei servizi pubblici 

locali (e, in particolare, del 

“ciclo dell’acqua”) disposti prima 

e dopo la riforma, avvenuta con la 

legge finanziaria del 2002. 

[12] Questa natura si evince dalle sentenze della Corte di Giustizia rese in C-320/91 e C-393/92, dalla Comunicazione della 

Commissione sui servizi di interesse generale in Europa pubblicata in G.U.C.E C del 26 settembre 1996, n. 281 e dalla 

direttiva 23 ottobre 2000 n. 2000/60/CE. 

[13] In particolare, individuata la ratio dell’abrogato comma 5 dell’art. 35, legge finanziaria 2002 (che permetteva l’affidamento 

diretto del servizio idrico integrato a favore di società totalmente pubbliche partecipate dagli enti locali dell’Ambito per un 

periodo di tempo comunque limitato) nella opportunità di compiere le attività necessarie alla indizione proficua della gara (ad 

esempio, la ricognizione delle opere e delle risorse, la definizione del piano degli interventi, la realizzazione delle opere, il 

superamento delle gestioni frammentarie), al contempo erogando il servizio, il TAR ligure ha chiesto al Giudice comunitario se 

l’art. 86 del Trattato possa essere interpretato nel senso di consentire la deroga ai principi della concorrenza per un periodo 

comunque determinato e contenuto in limiti ragionevoli, qualora l’espletamento della gara, ad avviso del giudice del caso 

concreto, possa pregiudicare la tempestiva realizzazione, attivazione e gestione del servizio pubblico. In caso di risposta 

affermativa al quesito posto dal TAR Liguria, l’affidamento diretto disposto dopo il 7 dicembre 2000 a favore di società 

quotate in borsa, nel rispetto delle condizioni stabilite dalla normativa nazionale, potrà essere considerato legittimo, ancorché 

disposto, relativamente al servizio idrico integrato, ai sensi dell’abrogato comma 5 dell’art. 35, legge finanziaria 2002. 

[14] «Legge quadro in materia di lavori pubblici» (in S.O. n.29, alla Gazzetta Ufficiale del 19 febbraio 1994, n. 41) 


Da ultimo, l’art. 113, comma 

15-ter, anch’esso introdotto dalla legge 

Finanziaria 2004, si preoccupa di 

disciplinare la fase successiva alla scadenza 

del “periodo transitorio” definito 

dal comma 15-bis (31 dicembre 

2006). 

La disposizione stabilisce, in particolare, 

che «a decorrere dal 1º gennaio 

2007 si applica il divieto di cui al 

comma 6, salvo nei casi in cui si tratti 

dell’espletamento delle prime gare 

aventi ad oggetto i servizi forniti dalle 

società partecipanti alla gara stessa». 

Il comma 6 dell’art. 113 stabilisce 

che la partecipazione alle gare per la 

scelta del soggetto a cui affidare l’erogazione 

del servizio sia inibita alle 

società che, in Italia o all’estero, gestiscano 

a qualunque titolo servizi pubblici 

locali in virtù di un affidamento 

diretto, di procedure non a evidenza 

pubblica o dei relativi rinnovi, alle 

società da esse controllate o a queste 


collegate, alle loro controllanti nonché 

alle società controllate o collegate 

con queste ultime. 

Inoltre, devono essere escluse dalle 

gare le società alle quali sia stata 

attribuita (se separata dall’erogazione 

del servizio) l’attività di gestione delle 

reti, degli impianti e delle altre dotazioni 

patrimoniali. 

Questo divieto non si applica peraltro, 

per espressa previsione normativa, 

alle prime gare indette, in caso di 

scadenza del periodo transitorio, per 

l’attribuzione del medesimo servizio 

erogato dalle società in questione (coerentemente, 

del resto, con quanto stabilito 

da alcune normative di settore, 

come, ad esempio, dal D.Lgs. n. 

164/2000 [15] in materia di distribuzione 

del gas naturale). 

Il comma 15-ter dispone, infine, 

che il Governo debba definire, con 

regolamento emanato ai sensi del 

D.P.R. n. 400/1988, le «condizioni 

per l’ammissione alle gare di imprese 

ACQUA 

Articolo 

estere, o di imprese italiane che abbiano 

avuto all’estero la gestione del 

servizio senza ricorrere a procedure 

di evidenza pubblica, a condizione 

che, nel primo caso, sia fatto salvo il 

principio di reciprocità e siano garantiti 

tempi certi per l’effettiva apertura 

dei relativi mercati». 

La norma opportunamente reintroduce 

- seppure con contenuto più limitato 

e senza la fissazione di un termine 

- il regolamento originariamente 

previsto dal comma 16, art. 35, legge 

Finanziaria 2002, disposizione abrogata 

dal D.L. n. 269/2003, anche in ragione 

del ritardo maturato dall’Esecutivo 

rispetto alla scadenza del giugno 

2003. La lacuna normativa circa le 

condizioni per l’ammissione alle gare 

di imprese che abbiano ottenuto l’affidamento 

di un servizio senza partecipare 

a procedure concorsuali rischiava, 

infatti, di vanificare la portata della 

riforma proconcorrenziale e di creare 

ingiustificate discriminazioni. l 

[15] «Attuazione della direttiva n. 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell’articolo 41 

della legge 17 maggio 1999, n. 144» (in Gazzetta Ufficiale del 20 giugno 2000, n. 142). È il cosiddetto “decreto Letta”. 


ACQUA 

Articolo 


Puglia, Valle d’Aosta e Sardegna capofila nella convogliazione negli stabilimenti di trattamento 

Sugli impianti di depurazione idrica 

l’ISTAT fotografa lo stato dell’arte 

di Maria Luisa Felici, geologo e giornalista scientifico 

Dopo un’indagine svoltasi su 

L’ 

ISTAT ha recentemente 

tutto il territorio nazionale, 

pubblicato i primi risultati 

l’ISTAT ha pubblicato una serie 

riguardanti le rilevazioni 

censuarie sugli impianti di depura- 

di tabelle contenenti dati agzione 

delle acque reflue urbane e 

giornati a tutto il 1999 sugli im- sulle reti fognarie, aggiornati a tutto 

pianti di depurazione delle ac- il 1999. 

que reflue urbane e sulle reti 

fognarie, nelle quali vengono La copertura della rete 

evidenziate le differenze esi- 

Complessivamente, i comuni italiani 

che dispongono di una rete fostenti 

tra le varie regioni in 

gnaria che copra in tutto o in parte il 

funzione del numero di im- territorio comunale, sono 7.988, papianti 

presenti sul territorio di ri al 99% del totale. Il rimanente 

ognuna e di quanti tra questi 1%, ovvero 112 comuni, è sprovvi- 

sono effettivamente in esercisto di rete fognaria, anche se in alcuni 

centri sono presenti piccoli imzio. 

Tra i dati emersi, la bassissipianti 

di trattamento dei reflui, gestima 

quantità di acque convoti però in forma autonoma dagli 

gliate in impianti che effettua- utenti. 

no un trattamento di tipo pri- Tra i comuni provvisti di rete fomario, 

in grado di rimuovere gnaria, il 48% depura completamen- 

la parte dei solidi sospesi sedite 

tutte le acque reflue convogliate 

nella fognatura pubblica (si vedano 

mentabili attraverso un proces- le tabelle 1 e 2), il 39% ne depura 

so di decantazione meccanica. solo una parte, mentre il 13% scari- 

Difforme, inoltre, la distribuca le acque reflue non trattate in un 

zione geografica delle tipolo- corpo idrico come lago, mare, corso 

gie di trattamento, per lo più d’acqua, ecc. 

Le regioni in cui si osserva la 

primario nel nord-est dell’Ita- 

maggiore convogliazione degli scalia, 

secondario nel sud e terziarichi negli impianti di depurazione 

rio nel nord-ovest. 

sono Puglia, Valle d’Aosta e Sardegna, 

mentre Marche, Toscana e Calabria 

sono agli ultimi posti. Inoltre, 

in molti comuni lo scarico fognario 

non subisce alcun tipo di trattamento 

di depurazione; è quanto accade, 

soprattutto, in Lombardia, Piemonte, 

Lazio, Calabria e Campania. Ad 

eccezione di Milano, in tutti i comuni 

con più di 80.000 abitanti le acque 

reflue sono trattate in maniera 

completa o parziale. 

Complessivamente, in Italia sono 

presenti 12.468 impianti, di cui 

12.065 già esistenti e 403 in corso 

di realizzazione. Tra gli impianti esistenti, 

11.509, pari al 95,39%, risulta 

essere in esercizio. Gli impianti 

esistenti sono per lo più presenti nel 

nord-est e nel nord-ovest, con, rispettivamente, 

il 99% e il 97% in 

esercizio; al contrario, le isole e il 

sud riportano i valori più bassi, rispettivamente, 

l’89% e l’88% (si veda 

la tabella 3). Il Trentino Alto- 

Adige ha tutti gli impianti esistenti 

in esercizio, seguito da Valle d’Aosta, 

Emilia-Romagna e Piemonte. 

Gli impianti di depurazione sono 

classificati in tre tipologie in base 

alla capacità di abbattimento del carico 

inquinante (si veda la tabella 4). 

Applicazione dei processi 

di depurazione 

Gli impianti di depurazione con 

trattamento primario rimuovono la 

maggior parte dei solidi sospesi sedimentabili 

per decantazione meccanica 

nei bacini di sedimentazione, facendo 

ricorso o meno all’uso di flocculanti. 

Le vasche settiche di 

Imhoff, che permettono la chiarificazione 

dei liquami domestici provenienti 

da insediamenti civili di ridotte 

dimensioni, sono incluse in questa 

tipologia. 


trattamento secondario impiegano 

un processo di ossidazione biologica 

della sostanza organica biodegradabile 

sospesa e disciolta nelle acque 

di scarico, utilizzando batteri 

aerobi. 



trattamento terziario rimuovono le 

sostanze non eliminate con i trattamenti 

precedenti, come microrganismi, 

sali nutritivi, sostanze organiche, 

ecc. 

Gli impianti in esercizio sono: 

● trattamento primario: 51%; 

● trattamento secondario: 42%; 

● trattamento terziario: 7%. 

In particolare, 9.210 sono di piccole 

dimensioni (fino a 2.000 AES); 

di questi 5.699 presentano una tipologia 

di trattamento primario (si veda 

la tabella 5). 

La capacità effettiva depurativa 

degli impianti (si veda la tabella 6), 

è pari a circa 64 milioni di abitanti 

equivalenti serviti (gli abitanti equivalenti 

serviti, AES in acronimo, 

rappresentano l’unità di misura con 

cui si esprime il carico equivalente 

organico biodegradabile in arrivo all’impianto 

di depurazione: 1 abitante 

equivalente = 60 grammi di 

BOD 5). Il carico degli AES effettivi 

è depurato: 

● per il 58% dagli impianti di tipo 

secondario; 

● per il 35% da impianti di tipo 

terziario; 

● solo per il 7% da impianti di tipo 

primario. 

Considerando la capacità effettiva 

e quella potenziale di progetto, 

Regioni e 

ripartizioni 

geografiche 

Depurazione 

completa 


dimensionata in base ai picchi stagionali 

di carico inquinante e calcolata 

in 79 milioni di AES, il nord 

Italia dispone di 22 milioni di AES 

effettivi, pari al 34% del totale, e 40 

milioni di AES potenziali, corrispondenti 

al 51% della capacità potenziale 

di depurazione. I maggiori 

carichi inquinanti in ingresso negli 

impianti di depurazione sono: 

● nel nord-est per quanto concerne 

il trattamento primario; 

● nel sud per il trattamento secondario; 

● nel nord-ovest per il terziario. 

La più elevata capacità potenziale 

di depurazione per il trattamento 

primario è presente nel nord-est; nel 

nord-ovest per il trattamento secondario 

e terziario. Sebbene, in genere, 

il numero di AES di progetto sia 

più alto rispetto a quelli effettivi, si 

rilevano alcuni casi di sottodimensionamento 

degli impianti rispetto 

ai carichi inquinanti in ingresso in 

Puglia per gli impianti primari e secondari 

e in Calabria per gli impianti 

terziari. 

Valutando globalmente gli AES 

effettivi e gli AES di progetto, si ha: 

● nel Centro Italia la maggior incidenza 

di trattamento terziario; 

● nelle isole e nel sud è prevalente 

il trattamento secondario; 

Comuni con depurazione delle acque reflue 

convogliate nella fognatura pubblica 

Depurazione 

parziale 

Depurazione 

assente 

● nel nord-ovest e nel nord-est il 

trattamento primario. 

Per quanto riguarda la capacità 

media degli impianti di depurazione 

(si veda la tabella 7), valutati in 

AES effettivi, il valore si attesta intorno 

ai 27.223 AES per gli impianti 

terziari contro i 778 per gli impianti 

primari. La Sicilia presenta il 

più elevato valore di AES per gli 

impianti di depurazione primaria, la 

Puglia per il trattamento secondario, 

la Valle d’Aosta, il Piemonte e 

la Campania per il trattamento terziario. 

I gestori degli impianti di depurazione 

assommano a 4.245, ma di 

questi solo l’8% gestisce esclusivamente 

il servizio di depurazione; il 

restante 92% svolge la propria attività 

anche in altri cicli d’uso delle 

acque urbane (acquedotti, reti di distribuzione 

di acqua potabile, reti 

fognarie). 

Gli impianti di depurazione sono 

gestiti nell’86% dei casi direttamente 

dai comuni, con punte del 90% al 

sud, [in particolare in Calabria 

(94%) e Campania (92%)] e in Valle 

d’Aosta (94%). 

Il centro registra la percentuale più 

bassa, 81%, in particolare in Toscana 

(64%), nella quale è però presente il 

maggior numero di società per azioni 

(si vedano le tabelle 8 e 9). l 

Totale 

ACQUA 

Articolo 

TABELLA 1 

Comuni secondo il grado di depurazione delle acque 

reflue, per regione e ripartizione geografica. Anno 1999 

Comuni 

privi del 

servizio di 

fognatura 

pubblica 

Totale 

comuni 

N. % N. % N. % N. % 

Piemonte 658 54,7 453 37,6 93 7,7 1.204 100,0 2 1.206 

Valle d’Aosta 57 77,0 14 18,9 3 4,1 74 100,0 - 74 

Lombardia 721 46,7 514 33,3 308 20,0 1.543 100,0 3 1.546 

Trentino 

Alto Adige 

181 53,9 138 41,1 17 5,1 336 100,0 3 339 

Bolzano-Bozen 62 53,9 51 44,3 2 1,7 115 100,0 1 116 


Trento 119 53,8 87 39,4 15 6,8 221 100,0 2 223 

Veneto 371 65,4 178 31,4 18 3,2 567 100,0 14 581 

Friuli 

Venezia Giulia 

111 51,6 93 43,3 11 5,1 215 100,0 4 219 

Liguria 127 54,3 91 38,9 16 6,8 234 100,0 1 235 

Emilia 

Romagna 

151 44,3 186 54,5 4 1,2 341 100,0 - 341 

Toscana 70 24,4 171 59,6 46 16,0 287 100,0 - 287 

Umbria 33 35,9 55 59,8 4 4,3 92 100,0 - 92 

Marche 58 23,8 157 64,3 29 11,9 244 100,0 2 246 

Lazio 145 38,6 136 36,2 95 25,3 376 100,0 1 377 

Abruzzo 105 34,4 166 54,4 34 11,1 305 100,0 - 305 

Molise 78 57,4 44 32,4 14 10,3 136 100,0 - 136 

Campania 206 37,5 238 43,4 105 19,1 549 100,0 2 551 

Puglia 188 94,5 7 3,5 4 2,0 199 100,0 59 258 

Basilicata 47 35,9 61 46,6 23 17,6 131 100,0 - 131 

Calabria 103 25,2 193 47,2 113 27,6 409 100,0 - 409 

Sicilia 123 33,3 150 40,7 96 26,0 369 100,0 21 390 

Sardegna 271 71,9 86 22,8 20 5,3 377 100,0 - 377 

ITALIA 3.804 47,6 3.131 39,2 1.053 13,2 7.988 100,0 112 8.100 

Italia Nord 

occidentale 

1.563 51,2 1.072 35,1 420 13,7 3.055 100,0 6 3.061 

Italia Nord 

orientale 

814 55,8 595 40,8 50 3,4 1.459 100,0 21 1.480 

Italia Centrale 306 30,6 519 52,0 174 17,4 999 100,0 3 1.002 

Italia 

Meridionale 

727 42,0 709 41,0 293 16,9 1.729 100,0 61 1.790 

Italia Insulare 394 52,8 236 31,6 116 15,5 746 100,0 21 767 

Fonte: Istat - Sistema delle Indagini sulle Acque, Anno 1999 

Classi 

di ampiezza 

demografica 

ACQUA 

Articolo 

Depurazione 

completa 


TABELLA 2 

Comuni secondo il grado di depurazione delle acque 

reflue urbane, per classe di ampiezza demografica. 

Anno 1999 

Comuni con depurazione delle acque reflue 

convogliate nella fognatura pubblica 

Depurazione 

parziale 

Depurazione 

assente 

Totale 

Comuni 

privi del 

servizio di 

fognatura 

pubblica 

Totale 

comuni 

Fino a 500 423 292 110 825 7 832 

501-1.000 501 439 190 1.130 5 1.135 

1.001-2.000 738 645 275 1.658 15 1.673 

2.001-3.000 454 396 143 993 15 1.008 

3.001-4.000 303 287 101 691 11 702 

4.001-5.000 243 192 49 484 6 490 



5.001-10.000 559 465 117 1.141 33 1.174 

10.001-15.000 214 176 29 419 12 431 

15.001-20.000 100 67 12 179 1 180 

20.001-30.000 104 67 8 179 6 185 

30.001-40.000 61 34 8 103 - 103 

40.001-50.000 25 15 7 47 - 47 

50.001-65.000 33 19 1 53 1 54 

65.001-80.000 11 6 2 19 - 19 

80.001-100.000 12 14 - 26 - 26 

100.001-250.000 19 9 - 28 - 28 

250.001-500.000 3 4 - 7 - 7 

Oltre 500.000 1 4 1 6 - 6 

Totale 3.804 3.131 1.053 7.988 112 8.100 


Impianti di depurazione delle acque reflue urbane 

esistenti e in corso di realizzazione, per regione 

e ripartizione geografica. Anno 1999 

ACQUA 

Articolo 

TABELLA 3 

Regioni e 

ripartizioni 

geografiche 

In 

servizio 

Impianti esistenti 

Non 

in servizio 

Totale 

Impianti in corso 

di realizzazione 

N. % N. % N. % 

Piemonte 2.459 98,2 45 1,8 2.504 100,0 30 

Valle d’Aosta 214 99,5 1 0,5 215 100,0 4 

Lombardia 1.113 95,8 49 4,2 1.162 100,0 27 

Trentino 

Alto Adige 

270 100,0 - - 270 100,0 14 

Bolzano-Bozen 74 100,0 - - 74 100,0 3 

Trento 196 100,0 - - 196 100,0 11 

Veneto 925 97,4 25 2,6 950 100,0 14 

Friuli 


531 97,8 12 2,2 543 100,0 10 

Liguria 543 96,3 21 3,7 564 100,0 17 

Emilia - Romagna 1.249 99,3 9 0,7 1.258 100,0 12 

Toscana 673 97,0 21 3,0 694 100,0 18 

Umbria 329 94,5 19 5,5 348 100,0 15 

Marche 350 95,6 16 4,4 366 100,0 9 

Lazio 489 93,0 37 7,0 526 100,0 40 

Abruzzo 809 96,9 26 3,1 835 100,0 24 

Molise 125 95,4 6 4,6 131 100,0 15 

Campania 334 81,9 74 18,1 408 100,0 69 

Puglia 189 95,0 10 5,0 199 100,0 - 


Regioni e 

ripartizionigeografiche 

ACQUA 

Articolo 

Primario Secondario Terziario Totale 

Numero AES 

Di cui 

vasche 

Imhoff 

Effettivi 

Di 

progetto 

N. 


Basilicata 85 85,0 15 15,0 100 100,0 3 

Calabria 242 70,1 103 29,9 345 100,0 41 

Sicilia 228 85,1 40 14,9 268 100,0 27 

Sardegna 352 92,9 27 7,1 379 100,0 14 

ITALIA 11.509 94,8 556 4,6 12.065 100,0 403 

Italia Nord 

occidentale 

4.329 97,4 116 2,6 4.445 100,0 78 

Italia Nord 

orientale 

2.975 98,5 46 1,5 3.021 100,0 50 

Italia Centrale 1.841 95,2 93 4,8 1.934 100,0 82 

Italia Meridionale 1.784 88,4 234 11,6 2.018 100,0 152 

Italia Insulare 580 89,6 67 10,4 647 100,0 41 


TABELLA 4 

Impianti di depurazione delle acque reflue urbane in esercizio 

per tipologia di trattamento, abitanti equivalenti serviti (AES) 

effettivi e di progetto, per regione e ripartizione geografica. 

Anno 1999 

Effettivi 

AES 

Di 

progetto 

N. 

Effettivi 

AES 

Di 

progetto 

N. 

Effettivi 

AES 

Di 

progetto 

Piemonte 1.665 1.276 434.887 524.409 760 2.587.774 2.971.310 34 2.546.366 4.230.885 2.459 5.569.027 7.726.604 

Valle 

d’Aosta 

191 161 49.941 60.489 22 99.939 139.073 1 148.300 148.300 214 298.180 347.862 

Lombardia 431 328 431.265 442.764 529 5.343.914 6.164.149 153 3.134.748 4.115.507 1.113 8.909.927 10.722.420 

Trentino 

Alto Adige 

130 70 101.711 121.763 92 363.598 600.678 48 1.174.242 1.685.281 270 1.639.551 2.407.722 

Bolzano 

Bozen 

19 18 17.197 18.506 39 158.314 190.499 16 745.180 968.919 74 920.691 1.177.924 

Trento 111 52 84.514 103.257 53 205.284 410.179 32 429.062 716.362 196 718.860 1.229.798 

Veneto 478 307 231.172 296.687 353 4.261.168 4.747.747 94 1.751.982 2.303.533 925 6.244.322 7.347.967 

Friuli - Venezia 

Giulia 

294 136 438.441 519.855 224 910.909 972.467 13 337.470 434.580 531 1.686.820 1.926.902 

Liguria 437 348 575.438 602.255 97 776.171 1.026.525 9 402.780 898.500 543 1.754.389 2.527.280 

Emilia 

Romagna 

751 664 774.643 857.621 409 2.924.496 3.727.723 89 2.160.464 2.738.298 1.249 5.859.603 7.323.642 

Toscana 184 105 51.203 58.191 409 1.776.051 2.221.702 80 3.717.215 4.434.052 673 5.544.469 6.713.945 

Umbria 197 184 26.894 30.224 115 177.611 185.006 17 332.692 417.491 329 537.197 632.721 

Marche 160 107 62.122 76.978 178 704.379 808.406 12 540.300 727.500 350 1.306.801 1.612.884 

Lazio 115 25 171.284 212.011 319 3.832.813 4.574.876 55 1.229.911 1.561.237 489 5.234.008 6.348.124 

Abruzzo 566 473 66.762 74.047 228 899.821 926.272 15 439.076 585.760 809 1.405.659 1.586.079 

Molise 4 - 16.093 16.293 109 52.369 636.059 12 118.965 149.282 125 687.427 801.634 

Campania 48 20 239.235 676.316 251 3.632.369 4.254.073 35 1.752.292 2.400.685 334 5.623.896 7.331.074 

Puglia 25 2 197.322 192.726 120 3.123.648 2.795.993 44 1.205.854 2.060.308 189 4.526.824 5.049.027 

Basilicata 12 7 19.286 19.778 48 150.947 179.477 25 269.776 303.278 85 440.009 502.533 

Calabria 67 38 84.859 90.288 158 1.174.905 1.246.709 17 118.632 115.251 242 1.378.396 1.452.248 

Sicilia 46 20 514.357 602.725 163 2.409.988 2.965.641 19 425.108 645.521 228 3.349.453 4.213.887 

Sardegna 38 6 53.847 55.763 271 1.605.178 1.855.506 43 380.523 561.311 352 2.039.548 2.472.580 


Regioni e 

ripartizionigeografiche 


Numero AES 

Di cui 

vasche 

Imhoff 

Effettivi 

Di 

progetto 

N. 


ITALIA 5.839 4.277 4.540.762 5.531.183 4.855 37.308.048 42.999.392 815 22.186.696 30.516.560 11.509 64.035.506 79.047.135 

Italia Nord 

occidentale 

2.724 2.113 1.491.531 1.629.917 1.408 8.807.798 10.301.057 197 6.232.194 9.393.192 4.329 16.531.523 21.324.166 

Italia Nord 

orientale 

1.653 1.177 1.545.967 1.795.926 1.078 8.460.171 10.048.615 244 5.424.158 7.161.692 2.975 15.430.296 19.006.233 

Italia Centrale 656 421 311.503 377.404 1.021 6.490.854 7.789.990 164 5.820.118 7.140.280 1.841 12.622.475 15.307.674 

Italia Meridionale 

722 540 623.557 1.069.448 914 9.534.059 10.038.583 148 3.904.595 5.614.564 1.784 14.062.211 16.722.595 

Italia Insulare 84 26 568.204 658.488 434 4.015.166 4.821.147 62 805.631 1.206.832 580 5.389.001 6.686.467 


Effettivi 

AES 

Di 

progetto 

N. 

Effettivi 

AES 

Di 

progetto 

ACQUA 

Articolo 

TABELLA 5 

Impianti di depurazione delle acque reflue urbane in 

esercizio per tipologia di trattamento, abitanti equivalenti 

serviti (AES) effettivi e di progetto, per regione 


(Composizione percentuale) 

N. 

Effettivi 

AES 

Di 

progetto 

Piemonte 67,7 51,9 7,8 6,8 30,9 46,5 38,5 1,4 45,7 54,8 100,0 100,0 100,0 

Valle 

d’Aosta 

89,3 75,2 16,7 17,4 10,3 33,5 40,0 0,5 49,7 42,6 100,0 100,0 100,0 

Lombardia 38,7 29,5 4,8 4,1 47,5 60,0 57,5 13,7 35,2 38,4 100,0 100,0 100,0 

Trentino Alto 

Adige 

48,1 25,9 6,2 5,1 34,1 22,2 24,9 17,8 71,6 70,0 100,0 100,0 100,0 

Bolzano 

Bozen 

25,7 24,3 1,9 1,6 52,7 17,2 16,2 21,6 80,9 82,3 100,0 100,0 100,0 

Trento 56,6 26,5 11,8 8,4 27,0 28,6 33,4 16,3 59,7 58,3 100,0 100,0 100,0 

Veneto 51,7 33,2 3,7 4,0 38,2 68,2 64,6 10,2 28,1 31,3 100,0 100,0 100,0 


Giulia 

55,4 25,6 26,0 27,0 42,2 54,0 50,5 2,4 20,0 22,6 100,0 100,0 100,0 

Liguria 80,5 64,1 32,8 23,8 17,9 44,2 40,6 1,7 23,0 35,6 100,0 100,0 100,0 

Emilia 

Romagna 

60,1 53,2 13,2 11,7 32,7 49,9 50,9 7,1 36,9 37,4 100,0 100,0 100,0 

Toscana 27,3 15,6 0,9 0,9 60,8 32,0 33,1 11,9 67,0 66,0 100,0 100,0 100,0 

Umbria 59,9 55,9 5,0 4,8 35,0 33,1 29,2 5,2 61,9 66,0 100,0 100,0 100,0 

Marche 45,7 30,6 4,8 4,8 50,9 53,9 50,1 3,4 41,3 45,1 100,0 100,0 100,0 

Lazio 23,5 5,1 3,3 3,3 65,2 73,2 72,1 11,2 23,5 24,6 100,0 100,0 100,0 

Abruzzo 70,0 58,5 4,7 4,7 28,2 64,0 58,4 1,9 31,2 36,9 100,0 100,0 100,0 

Molise 3,2 - 2,3 2,0 87,2 80,4 79,3 9,6 17,3 18,6 100,0 100,0 100,0 

Campania 14,4 6,0 4,3 9,2 75,1 64,6 58,0 10,5 31,2 32,7 100,0 100,0 100,0 

Puglia 13,2 1,1 4,4 3,8 63,5 69,0 55,4 23,3 26,6 40,8 100,0 100,0 100,0 

Basilicata 14,1 8,2 4,4 3,9 56,5 34,3 35,7 29,4 61,3 60,3 100,0 100,0 100,0 

Calabria 27,7 15,7 6,2 6,2 65,3 85,2 85,8 7,0 8,6 7,9 100,0 100,0 100,0 

Sicilia 20,2 8,8 15,4 14,3 71,5 72,0 70,4 8,3 12,7 15,3 100,0 100,0 100,0 

Sardegna 10,8 1,7 2,6 2,3 77,0 78,7 75,0 12,2 18,7 22,7 100,0 100,0 100,0 

ITALIA 50,7 37,2 7,1 7,0 42,2 58,3 54,4 7,1 34,6 38,6 100,0 100,0 100,0 

Italia Nord 

occidentale 

62,9 48,8 9,0 7,6 32,5 53,3 48,3 4,6 37,7 44,0 100,0 100,0 100,0 

Italia Nord 

orientale 

55,6 39,6 10,0 9,4 36,2 54,8 52,9 8,2 35,2 37,7 100,0 100,0 100,0 


ACQUA 

Articolo 


Italia Centrale 35,6 22,9 2,5 2,5 55,5 51,4 50,9 8,9 46,1 46,6 100,0 100,0 100,0 

Italia 

Meridionale 

40,5 30,3 4,4 6,4 51,2 67,8 60,0 8,3 27,8 33,6 100,0 100,0 100,0 

Italia Insulare 14,5 4,5 10,5 9,8 74,8 74,5 72,1 10,7 14,9 18,0 100,0 100,0 100,0 


Impianti di depurazione delle acque reflue urbane 

in esercizio secondo la tipologia di trattamento, 

per ripartizione geografica e classi di abitanti 

equivalenti serviti (AES) effettivi. Anno 1999 

Classi di AES 

effettivi 

Primario Secondario 

ITALIA 

Terziario Totale 

Fino a 2.000 5.669 3.207 334 9.210 

2.001-10.000 97 1.121 244 1.462 

10.001-50.000 57 409 143 609 

50.001-100.000 10 69 45 124 

Oltre 100.000 6 49 49 104 

Totale 5.839 4.855 

ITALIA NORD OCCIDENTALE 

815 11.509 

Fino a 2.000 2.672 1.004 94 3.770 

2.001-10.000 23 263 55 341 

10.001-50.000 23 111 26 160 

50.001-100.000 6 17 5 28 

Oltre 100.000 - 13 17 30 

Totale 2.724 1.408 

ITALIA NORD ORIENTALE 

197 4.329 

Fino a 2.000 1.623 740 99 2.462 

2.001-10.000 18 236 70 324 

10.001-50.000 5 78 46 129 

50.001-100.000 3 11 16 30 

Oltre 100.000 4 13 13 30 

Totale 1.653 1.078 

ITALIA CENTRALE 

244 2.975 

Fino a 2.000 634 733 72 1.439 

2.001-10.000 18 207 40 265 

10.001-50.000 4 62 29 95 

50.001-100.000 - 13 13 26 

Oltre 100.000 - 6 10 16 

Totale 656 1.021 

ITALIA MERIDIONALE 

164 1.841 

Fino a 2.000 682 536 49 1.267 

2.001-10.000 22 241 53 316 

10.001-50.000 17 104 32 153 

50.001-100.000 - 22 5 27 

TABELLA 6 



ACQUA 

Articolo 

Oltre 100.000 1 11 9 21 

Totale 722 914 

ITALIA INSULARE 

148 1.784 

Fino a 2.000 58 194 20 272 

2.001-10.000 16 174 26 216 

10.001-50.000 8 54 10 72 

50.001-100.000 1 6 6 13 

Oltre 100.000 1 6 - 7 

Totale 84 434 62 580 


TABELLA 7 

Capacità media degli impianti di depurazione delle acque 

reflue urbane in esercizio in termini di AES effettivi, 

secondo la tipologia di trattamento, per regione e 

ripartizione geografica. Anno 1999 

Regioni 

e ripartizioni 

geografiche 


Piemonte 261 3.405 74.893 2.265 

Valle D'Aosta 261 4.543 148.300 1.393 

Lombardia 1.001 10.102 20.489 8.005 

Trentino - Alto Adige 782 3.952 24.463 6.072 

Bolzano 905 4.059 46.574 12.442 

Trento 761 3.873 13.408 3.668 

Veneto 484 12.071 18.638 6.751 

Friuli - Venezia Giulia 1.491 4.067 25.959 3.177 

Liguria 1.317 8.002 44.753 3.231 

Emilia - Romagna 1.031 7.150 24.275 4.691 

Toscana 278 4.342 46.465 8.238 

Umbria 137 1.544 19.570 1.633 

Marche 388 3.957 45.025 3.734 

Lazio 1.489 12.015 22.362 10.703 

Abruzzo 118 3.947 29.272 1.738 

Molise 4.023 5.068 9.914 5.499 

Campania 4.984 14.472 50.065 16.838 

Puglia 7.893 26.030 27.406 23.951 

Basilicata 1.607 3.145 10.791 5.177 

Calabria 1.267 7.436 6.978 5.696 

Sicilia 11.182 14.785 22.374 14.691 

Sardegna 1.417 5.923 8.849 5.794 

ITALIA 778 7.684 27.223 5.564 

Italia Nord occidentale 548 6.256 31.636 3.819 

Italia Nord orientale 935 7.848 22.230 5.187 

Italia Centrale 475 6.357 35.489 6.856 

Italia Meridionale 864 10.431 26.382 7.882 

Italia Insulare 6.764 9.252 12.994 9.291 



Regioni 

e ripartizione 

geografiche 

ACQUA 

Articolo 

Comune 

Azienda municipalizzata 

Consorzio e 

Azienda speciale 


TABELLA 8 

Gestori di impianti di depurazione delle acque reflue 

urbane secondo la forma giuridica, per regione 


Consorzio 

(a) 

Ente 

pubblico 

(b) 

Società 

per azioni 

Altro Totale 

Piemonte 677 7 28 1 13 15 741 

Valle d'Aosta 50 - 1 1 1 - 53 

Lombardia 436 14 34 3 43 13 543 

Trentino - Alto 

Adige 

123 1 12 3 3 7 149 

Bolzano-Bozen 40 1 12 2 1 7 63 

Trento 83 - - 1 2 - 86 

Veneto 241 11 18 1 10 10 291 


Giulia 

112 3 5 1 5 7 133 

Liguria 130 - 9 2 5 7 153 

Emilia - Romagna 113 3 10 - 13 2 141 

Toscana 80 7 9 2 18 9 125 

Umbria 65 1 1 - 6 4 77 

Marche 117 6 6 - 3 9 141 

Lazio 202 1 3 - 10 17 233 

Abruzzo 155 2 5 1 2 7 172 

Molise 77 - - 9 - 11 97 

Campania 286 2 6 1 6 9 310 

Puglia 40 - - - 1 4 45 

Basilicata 72 - 2 - - 16 90 

Calabria 307 - 5 - 1 13 326 

Sicilia 242 1 4 4 5 14 270 

Sardegna 117 1 12 4 3 18 155 

ITALIA 3.642 60 170 33 148 192 4.245 

Italia Nord 

occidentale 

1.293 21 72 7 62 35 1.490 

Italia Nord 

orientale 

589 18 45 5 31 26 714 

Italia Centrale 464 15 19 2 37 39 576 

Italia Meridionale 937 4 18 11 10 60 1.040 

Italia Insulare 359 2 16 8 8 32 425 

(a) Comprende anche i consorzi ai sensi della legge 142/90. 

(b) Comprende gli enti pubblici regionali, provinciali e statali nonché le Regioni e le Province. 



Regioni 

e ripartizione 

geografiche 

Comune 

Azienda municipalizzata 

Consorzio e 

Azienda speciale 


Consorzio 

(a) 

Ente 

pubblico 

(b) 

Società 

per azioni 

ACQUA 

Articolo 

TABELLA 9 

Gestori di impianti di depurazione delle acque reflue 

urbane secondo la forma giuridica, per regione 


(composizione percentuale) 

Altro Totale 

Piemonte 91,4 0,9 3,8 0,1 1,8 2,0 100,0 

Valle d'Aosta 94,3 - 1,9 1,9 1,9 - 100,0 

Lombardia 80,3 2,6 6,3 0,6 7,9 2,4 100,0 

Trentino - Alto 

Adige 

82,6 0,7 8,1 2,0 2,0 4,7 100,0 

Bolzano-Bozen 63,5 1,6 19,0 3,2 1,6 11,1 100,0 

Trento 96,5 - - 1,2 2,3 - 100,0 

Veneto 82,8 3,8 6,2 0,3 3,4 3,4 100,0 


Giulia 

84,2 2,3 3,8 0,8 3,8 5,3 100,0 

Liguria 85,0 - 5,9 1,3 3,3 4,6 100,0 

Emilia - Romagna 80,1 2,1 7,1 - 9,2 1,4 100,0 

Toscana 64,0 5,6 7,2 1,6 14,4 7,2 100,0 

Umbria 84,4 1,3 1,3 - 7,8 5,2 100,0 

Marche 83,0 4,3 4,3 - 2,1 6,4 100,0 

Lazio 86,7 0,4 1,3 - 4,3 7,3 100,0 

Abruzzo 90,1 1,2 2,9 0,6 1,2 4,1 100,0 

Molise 78,6 - - 10,2 - 11,2 100,0 

Campania 92,3 0,6 1,9 0,3 1,9 2,9 100,0 

Puglia 88,9 - - - 2,2 8,9 100,0 

Basilicata 80,0 - 2,2 - - 17,8 100,0 

Calabria 94,2 - 1,5 - 0,3 4,0 100,0 

Sicilia 89,6 0,4 1,5 1,5 1,9 5,2 100,0 

Sardegna 75,5 0,6 7,7 2,6 1,9 11,6 100,0 

ITALIA 85,8 1,4 4,0 0,8 3,5 4,5 100,0 

Italia Nord 

occidentale 

86,8 1,4 4,8 0,5 4,2 2,3 100,0 

Italia Nord 

orientale 

82,5 2,5 6,3 0,7 4,3 3,6 100,0 

Italia Centrale 80,6 2,6 3,3 0,3 6,4 6,8 100,0 

Italia Meridionale 90,0 0,4 1,7 1,2 1,0 5,8 100,0 

Italia Insulare 84,5 0,5 3,8 1,9 1,9 7,5 100,0 

(a) (b) cfr. corrispondenti note alla Tavola 8 




Osservatorio INAIL - Articolo 

Rapporto INAIL 2003: 

occhio alla prevenzione anche con meno infortuni 

INAIL 

Come ogni anno l’INAIL ha presentato il rapporto sugli infortuni. Leggendo i dati si nota immediatamente, che, in quasi 

tutti i settori produttivi, ci si trova davanti ad una diminuzione, rispetto all’anno 2002, dei casi di infortunio, nonché di 

quelli mortali. Il dato appare ancora più significativo se si tiene conto del fatto che, nel corso dell’ultimo anno, l’occupazione 

è aumentata dell’1%. Se si raffronta, inoltre, il dato italiano con quello elaborato da Eurostat in Europa, si nota che è 

decisamente inferiore a quello di altri grandi Paesi europei come la Spagna, la Francia e la Germania. 

I 

l Presidente dell’INAIL Vincenzo Mungari, 

che ha presentato l’8 luglio il Rapporto 

Annuale 2003 nell’Auditorium dell’Istituto 

a Roma ha confermato che lo scorso anno 

sono accaduti «meno infortuni (-15.000 rispetto 

all’anno precedente), meno morti (-87), ma 

la prevenzione e la sicurezza devono ancora 

diventare un valore sociale. Nel nostro Paese e 

nel mondo.». 

Gli infortuni nel 2003: 

una panoramica 

Tav. 1 - Rapporto INAIL 2003 

Il calo rispetto al dato del 2002 è dell’1,5%: 

dai 993.000 infortuni di due anni fa ai 

978.000 dell’anno scorso. Più in dettaglio, 

una riduzione dell’1,5% nell’industria e servizi, 

una più marcata in agricoltura (-3,5%) e 

un incremento del 2,1% per i dipendenti 

dello Stato, 

Il dato, che si può ritenere ormai consolidato, 

conferma pienamente le stime previsionali 

effettuate nei mesi precedenti su dati 

provvisori e risulta ancora più significativo, 

se si tiene conto che nello stesso anno 

2003, l’occupazione è cresciuta dell’1% 

(fonte ISTAT); il trend in diminuzione sembra 

comunque destinato, sulla base di proiezioni 

effettuate sui dati del primo trimestre 

2004, a proseguire anche nell’anno in corso: 

per esso infatti si stima, una riduzione 

complessiva compresa tra -1% e -2%. 

Significativa anche la flessione degli infortuni 

mortali che sono scesi dai 1.481 del 2002 

ai 1.394 del 2003, con una flessione di 27 

casi nell’industria e servizi, 47 in agricoltura 

IGIENE E SICUREZZA 

di Marco Stancati, 

direttore centrale comunicazione INAIL 

e 13 tra i dipendenti dello Stato. Il risparmio 

di vite umane è da attribuire in larga parte 

alla significativa contrazione degli infortuni 

mortali in itinere, scesi dai 390 denunciati 

nel 2002 ai 328 del 2003; un dato positivo 

riconducibile anche agli effetti esplicati nella 

seconda metà dell’anno dalle disposizioni in 

materia di circolazione stradale e, in particolare, 

dalla “patente a punti”. 

Sul piano territoriale, si registra per l’industria 

e i servizi un calo diffuso ed abbastanza 

omogeneo nelle varie aree geografiche del 

Paese, con maggiori accentuazioni al sud e 

nel nord ovest (in particolare Puglia, Basilicata, 

Calabria, Piemonte). Incrementi di un certo 

rilievo in Trentino Alto Adige. In agricoltura 

la flessione interessa tutte le zone geografiche 

ad eccezione delle Isole dove si segnalano 

modesti incrementi. 

A livello di settori economici, il calo generale 

degli infortuni ha interessato in misura più 

consistente i tradizionali settori dell’agricoltura 

e dell’industria rispetto a quelli dei servizi. 

Significativa la contrazione nell’industria manifatturiera 

(in particolare tessile e metalmeccanica) 

e dei trasporti. Sostanzialmente stabile 

il settore delle costruzioni, che nel 2003 

ha registrato peraltro una notevole crescita 

occupazionale (+3,5%), senza che questo 

comportasse un incremento degli incidenti, 

anche grazie agli investimenti in prevenzione 

che sono stati realizzati in particolare su 

questo settore. 

Pur in presenza di questo quadro statistico 

confortante occorre stare in guardia contro 

ogni ingiustificato trionfalismo. Bisogna evitare 

di usare in maniera cinica le statistiche: 

dietro i numeri ci sono altrettante persone 

che hanno visto compromessa, talvolta in modo 

irreversibile, la propria esistenza. 

Gli infortuni su lavoro 

nella UE e nel mondo 

Anche se il fenomeno degli infortuni sul lavoro 

è in calo da qualche anno in tutta l’Unione 

Europea, sono stati circa 4,7 milioni gli infortuni 

con assenza dal lavoro superiori a tre giorni 

che si sono verificati nell’UE nel corso dell’ultimo 

anno per il quale sono disponibili i dati 

EUROSTAT (il 2001) e circa 5.000 i morti sul 

lavoro (esclusi i casi di infortuni in itinere ea 

bordo di qualsiasi mezzo di trasporto). 

Gli infortuni a livello europeo si distribuiscono 

prevalentemente nell’industria manifatturiera 

(27,4%), nelle costruzioni (17,5%), nel 

commercio (11,3%) nei trasporti (9,4%). I 

casi mortali sono concentrati nel settore delle 

costruzioni (24%), industria manifatturiera 

(19%), trasporti (18%) e agricoltura (12%). 

Sulla base dei “tassi di incidenza standardizzati” 

elaborati da Eurostat, l’Italia si colloca 

al di sotto delle medie europee (UE 15 Stati 

e UE 12 Stati - Zona EURO) per quanto 

riguarda il complesso degli infortuni (3.779 

per 100.000 occupati contro, rispettivamente, 

3.830 e 4.416). Il dato italiano è decisamente 

inferiore a quello di altri grandi Paesi 

europei: la Spagna (6.917), la Francia 

(4.819) e la Germania (4.380). 

Per i casi mortali, l’indicatore relativo all’Italia si 

colloca in linea con quello medio della UE-12 e 

poco sopra quello medio della UE-15. 

Ma gli infortuni sul lavoro costituiscono un 


Anni 

Tav. 1 - Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2001-2003 e denunciati all’INAIL 

Agricoltura 

problema per tutti i Paesi, e secondo le stime 

dell’Organizzazione Internazionale del 

Lavoro, ogni anno nel mondo circa 270 milioni 

di persone sono coinvolte in incidenti 

sul lavoro, mentre sono 160 milioni quelle 

affette da malattie connesse al lavoro, il tutto 

con riflessi economici stimati intorno al 

4% del PIL mondiale. 

Il dato più impressionante è quello che stima 

in 6.000 le persone che muoiono in media 

ogni giorno nel mondo per incidenti o malattie 

da lavoro, per un totale di oltre 2,2 milioni 

di casi l’anno. Il numero dei morti per 

infortunio sfiora i 350.000, di cui 22.000 

sono minori. 

Gli infortuni degli extracomunitari 


Nel rapporto annuale INAIL 2003 è stata 

dedicata specifica attenzione al fenomeno 

infortunistico che riguarda due categorie 

che vanno assumendo sempre più rilievo nello 

scenario attuale del mondo del lavoro: gli 

extracomunitari e i lavoratori cosiddetti 

“atipici”. 

Circa 107.000 sono stati gli infortuni sul 

lavoro degli extracomunitari nel 2003 e 157 


Per anno, gestione e sesso 

Totale infortuni Mortali 

Industria 

e Servizi 

Dipendenti 

Conto 

Stato 

Totale 

Agricoltura 

Industria 

e Servizi 

i casi mortali. Un fenomeno in crescita (erano 

stati 92.000 infortuni e 120 i casi mortali 

nel 2002) legato alla progressiva emersione 

di lavoratori già presenti e all’ingresso di nuove 

forze lavoro. 

Il tasso di incidenza infortunistica per i lavoratori 

extracomunitari risulta sensibilmente più 

elevato rispetto a quello medio nazionale 

(57 casi contro 44 per 1.000 occupati) e la 

spiegazione è da ricercarsi nelle attività svolte, 

in genere pericolose, legate alla mobilità 

e alla stagionalità dell’impiego. 

A pagare il tributo più elevato in termini di 

infortuni sono i lavoratori di Marocco 

(20,5%), Albania (13%) e Romania (8%), 

mentre gli infortuni mortali vedono in testa 

l’Albania (32 morti), Romania (22 morti) e 

Marocco (19 morti). 

I settori di attività dove si concentrano gli 

infortuni degli extracomunitari sono le 

costruzioni (25,5% dei casi mortali) e 

l’industria manifatturiera, in particolare 

la metallurgia. 

A livello territoriale, gli infortuni degli 

extracomunitari sono concentrati al 

nord (quasi 80% del totale nazionale) 

soprattutto in Lombardia (21,1%), Veneto 

(19,6%), e Emilia Romagna (18,9%). 



Dipendenti 

Conto 

Stato 

Totale 

Maschi 

2001 60.295 711.700 7.651 779.646 150 1.260 12 1.422 

2002 55.437 684.638 8.154 748.229 160 1.178 17 1.355 

2003 

Femmine 

53.999 672.601 7.866 734.466 112 1.149 8 1.269 

2001 20.238 208.958 14.547 243.743 9 112 6 127 

2002 18.233 210.029 16.349 244.611 7 112 7 126 

2003 17.099 209.075 17.163 243.337 8 114 3 125 

Maschi e Femmine 

2001 80.533 920.658 22.198 1.023.389 159 1.372 18 1.549 

2002 73.670 894.667 24.503 992.840 167 1.290 24 1.481 

2003 71.098 881.676 25.029 977.803 120 1.263 11 1.394 

Il trend per gli “atipici” 


Per quanto riguarda i lavoratori parasubordinati, 

sono stati circa 7.500 gli infortuni nell’anno 

2003, di cui 14 mortali. Questa è una 

categoria di lavoratori prevalentemente addetti 

ad attività di carattere impiegatizio e 

tecnico impiegatizio, ed esprime un indice di 

incidenza (circa 20 infortuni denunciati per 

1.000 occupati stimati) inferiore a quello medio 

nazionale e in linea con le caratteristiche 

lavorative e di rischio della categoria impegnata 

in larga parte nelle attività dei servizi. 

Sono stati invece circa 12.500 gli infortuni 

dei lavoratori interinali nell’anno 2003, di 

cui 11 casi mortali. Si tratta di una categoria 

di lavoratori che operano prevalentemente 

nei settori produttivi dell’Industria e orientati 

ad attività di tipo manuale, e quindi presenta 

un indice di incidenza di circa 70 infortuni 

denunciati per 1.000 lavoratori, che rappresenta 

un valore sensibilmente superiore a 

quello medio nazionale. 

Sia per i lavoratori parasubordinati che per 

gli interinali, gli infortuni sul lavoro sono concentrati 

soprattutto al Nord dove tali forme 





Tav. 6 - Extracomunitari - Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2001-2003 

e denunciati all’INAIL per Paese di nascita, gestione e anno 

Paese 

di nascita 

Agricoltura 


2001 2002 2003 2001 2002 2003 

Marocco 688 755 818 1 1 3 

Albania 531 647 803 2 1 - 

India 309 390 479 - 1 1 

Romania 122 256 456 1 2 1 

Tunisia 275 374 372 1 - - 

Macedonia 172 188 279 - - - 

Jugoslavia 200 187 188 - - - 

Altri Paesi 1.166 1.336 1.554 3 1 2 

In complesso 3.463 4.133 4.949 8 6 7 

Industria e servizi 

Marocco 15.953 19.991 21.116 16 22 16 

Albania 8.241 10.562 13.115 10 16 32 

Romania 2.802 4.480 8.086 14 18 21 

Tunisia 4.815 5.956 6.051 4 6 7 

Jugoslavia 4.235 4.802 5.135 7 6 7 

Senegal 3.880 4.234 4.455 3 2 5 

Egitto 1.636 1.873 2.284 3 6 3 

Pakistan 1.516 1.422 2.103 1 1 

Argentina 1.202 1.677 2.098 4 1 3 

Altri Paesi 26.035 32.884 37.538 52 36 55 

In complesso 70.315 87.881 101.981 

Totale 

113 114 150 

Marocco 16.641 20.746 21.934 17 23 19 

Albania 8.772 11.209 13.918 12 17 32 

Romania 2.924 4.736 8.542 15 20 22 

Tunisia 5.090 6.330 6.423 5 6 7 

Jugoslavia 4.435 4.989 5.323 7 6 7 

Senegal 4.040 4.407 4.633 4 2 5 

Egitto 1.708 1.946 2.366 3 6 3 

India 1.555 1.887 2.302 3 3 4 

Macedonia 1.287 1.710 2.180 3 4 4 

Altri Paesi 27.326 34.054 39.309 52 33 54 

In complesso 73.778 92.014 106.930 121 120 157 





Tav. 8 - Parasubordinati - Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2001-2003 e denunciati all’INAIL 

per settore di attività economica e anno - Industria e servizi 

Settore 


di attività economica 2001 2002 2003 2001 2002 2003 

Agrindustria 29 47 38 - 1 - 

Pesca 2 1 1 - - - 

Estrazione di minerali 9 12 9 - - - 

Industria alimentare 100 150 133 - - - 

Industria tessile e abbigliamento 76 74 71 - - - 

Industria conciaria 22 20 26 - - - 

Industria del legno 36 66 49 - - - 

Industria della carta 55 68 59 - - - 

Industria del petrolio 2 5 - - - 

Industria chimica 33 37 42 - 1 - 

Industria della gomma e plastica 42 46 64 - - - 

Industria lav. minerali non metalliferi 52 74 59 - 2 3 

Industria dei metalli 209 285 244 1 3 - 

Industria meccanica 152 155 161 1 1 - 

Industria macchine elettriche 58 87 81 1 - 2 

Industria fabbricazione mezzi 

di trasporto 

35 59 46 - - - 

Altre industrie 53 85 72 - 1 - 

Totale Industrie manifatturiere 925 1.206 1.112 3 8 5 

Elettricità, gas, acqua 19 27 20 - - - 

Costruzioni 376 549 558 1 3 2 

Industria 1.360 1.842 1.738 4 12 7 

Commercio e riparazione auto 82 92 113 3 - - 

Commercio all'ingrosso 283 337 324 3 1 1 

Commercio al dettaglio 235 351 343 1 1 - 

Totale commercio 600 780 780 7 2 1 

Alberghi e ristoranti 286 380 277 - 4 - 

Trasporti e comunicazioni 439 648 582 1 2 3 

Intermediazione finanziaria 32 47 42 - - - 

Attività immobiliari e professionali 668 1.030 889 2 5 - 

Pubblica Amministrazione 122 123 144 - - - 

Istruzione 55 93 60 - - 1 

Sanità e servizi sociali 264 391 343 - 2 - 

Altri servizi pubblici 299 347 344 1 1 1 

Servizi 2.765 3.839 3.461 11 16 6 

Industria e servizi 4.125 5.681 5.199 15 28 13 

Non determinato 857 1.665 2.351 - - 1 

In complesso 4.982 7.346 7.550 15 28 14 




contrattuali sono più diffuse e consolidate; 

in particolare in Lombardia, Veneto ed Emilia 

Romagna, regioni nelle quali si registra 

più della metà degli infortuni denunciati in 

Italia per queste categorie di lavoratori. 

I settori più a rischio 


Secondo il rapporto annuale INAIL, le attività 

economiche più pericolose nell’anno 2003, 

in termini assoluti, risultano essere la lavorazione 

dei metalli (ferro, acciaio, fusioni, saldature 

ecc.), la lavorazione dei minerali non 

metalliferi (vetro, ceramica, laterizi ecc.), la 

lavorazione del legno e le costruzioni. 

Si tratta di settori con una forte componente 

di lavoro manuale o, comunque, caratterizzati 

da uno stretto e continuo contatto 

fisico fra il lavoratore e gli strumenti, macchinari 

o materiali dell’ambiente di lavoro. 

Se si esamina l’indice di gravità degli infortuni 

e ci si sofferma sugli infortuni con esiti di 

invalidità permanente, emerge ancora più 

chiaramente il nesso tra rischio infortunistico 

e lavorazione di tipo manuale: il settore 

più pericoloso in questo caso è quello della 

lavorazione del legno, dove il 60% degli 

infortuni invalidanti colpisce la mano, seguito 

dalle costruzioni. 

Sempre tenendo conto dell’indice relativo di 

gravità, negli infortuni con esito mortale la 

graduatoria vede balzare al primo posto il 

settore dei trasporti che, con oltre 65.000 

infortuni e quasi 200 morti l’anno, fornisce 

una quota rilevante del contributo del mondo 

del lavoro alle stragi sulla strada. Seguono, 

nella graduatoria della mortalità, l’estrazione 

dei minerali e le costruzioni. 

Zoom sulle costruzioni 

Proprio le attività di costruzione esprimono 

da sempre un rischio infortunistico molto 

elevato, e non solo in Italia. 

Numeri preoccupanti al punto che nel 2003 

è stata bandita una campagna informativa 

e ispettiva incentrata proprio sulla prevenzione, 

in particolare delle cadute dall’alto. 

E che il tema del rischio nel settore costruzioni 

sia ancora attuale trova conferma 

nel programma della “Settimana europea 

della sicurezza 2004” (ottobre), 

nella quale proprio la prevenzione degli 

infortuni nello specifico (“il rischio nel 


settore delle costruzioni”) rappresenterà 

l’argomento centrale dei lavori. 

Attualmente in Italia questo settore, che è ai 

primi posti in tutte le graduatorie di rischio, 

dà luogo, ogni anno, a più di 100.000 infortuni 

e 300 morti. Nella UE il totale annuo degli 

infortuni (con assenza dal lavoro superiore a 

tre giorni) è di circa 800.000 e 1.300 morti. 

La storia delle costruzioni è strettamente collegata 

alle vicende sociali ed economiche 

del Paese: vorticosa crescita degli infortuni 

negli anni della ricostruzione post-bellica, fino 

a raggiungere la punta massima nei primi 

anni ’60 con oltre 300.000 infortuni e 

1.000 morti l’anno. Progressiva e netta flessione 

dalla fine anni ’60 fino alla metà degli 

anni ’90, quando il fenomeno sembra assestato 

sui valori attuali. Nell’arco degli ultimi 

50 anni il rischio di infortunio mortale è sceso 

da circa 0,80 casi per mille addetti a 0,20 

(un rapporto di 4 a 1). 

Gli indici di frequenza del settore, ancora troppo 

elevati, sono molto differenziati in relazione 

alla dimensione aziendale: il rischio risulta 

molto più elevato nelle piccole aziende. 

Si riscontrano, inoltre, frequenze infortunistiche 

nettamente superiori tra i lavoratori dipendenti 

rispetto ai lavoratori autonomi, anche 

se è presumibile una minore propensione, 

da parte di questi ultimi, a denunciare 

infortuni di minore gravità. 

In particolare, le cadute dall’alto (da ponteggi 

o da tetti) rappresentano ancora oggi uno 

degli aspetti più gravi del settore, anche se vi 

è stato un sensibile regresso a partire dagli 

anni immediatamente successivi alla emanazione 

delle norme prevenzionali di tipo europeo: 

attualmente il fenomeno risulta assestato 

intorno ai 10.000 casi annui, con un numero 

di morti ancora superiore a 100. 

Panoramica sulle malattie 

professionali 


L’INAIL avverte nel Rapporto che l’analisi 

dell’andamento dell’ultimo quinquennio 

dal 1999 al 2003 è stata svolta con criteri 

di estrazione dei dati rinnovati rispetto 

alle precedenti serie storiche. Tale analisi 

conferma una sostanziale stabilità numerica 

delle malattie da lavoro di cui 

l’INAIL viene a conoscenza. La cadenza è 

di circa 24.000 casi l’anno nell’industria 

e nei servizi e un migliaio in agricoltura. 

Le quote di casi indeterminati sono per gli 

anni più recenti ancora assai elevate, né potrebbe 

essere differentemente per un fenomeno 

dai tempi non brevissimi come è quello 

delle malattie professionali. In ogni caso, 

pur esprimendo le valutazioni con i tempi 

del condizionale, sembra proseguire la tendenza 

alla flessione del numero delle malattie 

tabellate a tutto vantaggio del complesso 

delle non tabellate secondo una logica che 

peraltro appare fisiologicamente in linea con 

il quadro complessivo della situazione. 

Il confronto sottolinea che le malattie non 

tabellate esprimono ormai numeri praticamente 

doppi rispetto alle tabellate e rappresentano 

addirittura oltre i due terzi del totale 

delle richieste di riconoscimento. 

L’analisi per tipo di tecnopatia evidenzia come 

negli ultimi anni ipoacusie e sordità da 

rumore, pur continuando ad occupare la posizione 

di vertice nelle graduatorie hanno 

visto sensibilmente ridotto il loro numero di 

fronte alla crescita di altre patologie e, in 

particolar modo, delle tendiniti che sono 

quasi raddoppiate e dei casi di sindrome del 

tunnel carpale. 

A fronte della flessione percentuale e numerica 

delle ipoacusie, si confermano ai vertici 

della graduatoria: 

● l’asma bronchiale e l’alveolite allergica 

nel settore agricolo; 

● le malattie cutanee (peraltro in regresso), 

l’asbestosi, le neoplasie da asbesto 

(ancora in crescita) e le malattie osteoarticolari 

in area industriale e terziaria dove la 

silicosi, in costante regresso da molti anni 

per il diminuire delle fonti di rischio, mostra 

ancora numeri di un certo rilievo. 

Discorso a parte per i tumori che, stabili o in 

moderata espansione numerica, denunciano, 

senza alcun dubbio, solo una quota parziale 

del fenomeno reale stante l’ancora scarsa 

propensione (ed è un problema culturale) 

della classe medica all’indagine sistematica 

circa la possibile natura professionale di queste 

patologie. l 

L’intera documentazione del 

Rapporto Annuale 2003 dell’INAIL 

(Rapporto, Appendice 

Statistica, Relazione del Presidente) 

è consultabile e scaricabile 

all’indirizzo: http://www. 

inail.it/pubblicazionieriviste/tuttititoli/rapporti/rapportoannuale/2003/rapportoannuale.htm 





Tav. 3 - Infortuni mortali sul lavoro avvenuti nel periodo 2001-2003 e denunciati all’INAIL 

per settore di attività economica, sesso e anno - Industria e servizi 

Settore 

Maschi e Femmine Femmine 

di attività economica 

2001 2002 2003 2001 2002 2003 

A Agrindustria 10 10 15 - - 1 

B Pesca 1 3 4 - - - 

C Estrazione di minerali 9 14 9 - - - 

DA Industria alimentare 23 42 29 2 6 2 

DB Industria tessile e abbigliamento 18 10 14 2 3 6 

DC Industria conciaria 7 9 4 2 2 1 

DD Industria del legno 11 15 10 1 1 - 

DE Industria della carta 9 9 12 1 3 2 

DF Industria del petrolio 4 1 2 - - - 

DG Industria chimica 19 25 16 3 - 1 

DH Industria della gomma e plastica 19 11 8 4 4 2 

DI Industria lav. minerali non metalliferi 32 27 35 1 2 3 

DJ Industria dei metalli 92 91 94 4 1 - 

DK Industria meccanica 48 38 47 2 1 4 

DL Industria macchine elettriche 37 26 23 5 1 2 

DM 

Industria fabbricazione mezzi 

di trasporto 

14 13 5 2 1 - 

DN Altre industrie 18 15 10 1 - 3 

D Totale Industrie manifatturiere 351 332 309 30 25 26 

E Elettricità, gas, acqua 11 5 9 2 - 1 

F Costruzioni 332 317 316 2 3 2 

Industria 714 681 662 34 28 30 

G50 Commercio e riparazione auto 35 32 38 - 2 2 

G51 Commercio all'ingrosso 56 53 44 4 8 3 

G52 Commercio al dettaglio 33 31 25 10 11 5 

G Totale commercio 124 116 107 14 21 10 

H Alberghi e ristoranti 33 48 39 9 11 9 

I Trasporti e comunicazioni 228 191 169 7 5 4 

J Intermediazione finanziaria 11 14 10 2 3 5 

K Attività immobiliari e professionali 88 85 79 12 18 20 

L Pubblica Amministrazione 24 17 24 6 6 9 

M Istruzione 2 3 5 - 1 1 

N Sanità e servizi sociali 19 16 14 9 7 4 

O Altri servizi pubblici 31 36 25 8 7 5 

Servizi 560 526 472 67 79 67 

Industria e servizi 1.274 1.207 1.134 101 107 97 

Non determinato 98 83 129 11 5 17 

In complesso 1.372 1.290 1.263 112 112 114 





Tav. 18 - Malattie professionali manifestatesi nel periodo 1999-2003 e denunciate all’INAIL 

per settore di attività economica e anno - Industria e servizi 

Settore di attività economica 1999 2000 2001 2002 2003 

A Agrindustria 59 44 77 93 59 

B Pesca 3 6 5 9 8 

C Estrazione di minerali 195 201 150 200 165 

DA Industria alimentare 403 442 548 495 407 

DB Industria tessile e abbigliamento 513 431 525 532 500 

DC Industria conciaria 195 206 224 258 206 

DD Industria del legno 322 316 333 358 317 

DE Industria della carta 197 172 225 238 241 

DF Industria del petrolio 27 31 40 47 20 

DG Industria chimica 197 219 328 225 196 

DH Industria della gomma e plastica 204 226 259 285 250 

DI Industria lav. minerali non metalliferi 739 731 808 792 658 

DJ Industria dei metalli 1.611 1.581 1.818 1.722 1.289 

DK Industria meccanica 838 863 955 946 697 

DL Industria macchine elettriche 285 302 386 379 330 

DM Industria fabbricazione mezzi di trasporto 816 740 953 1.020 788 

DN Altre industrie 425 377 436 447 376 

D Totale Industrie manifatturiere 6.772 6.637 7.838 7.744 6.275 

E Elettricità, gas, acqua 134 125 159 211 177 

F Costruzioni 2.406 2.485 2.516 2.838 2.281 

Industria 9.569 9.498 10.745 11.095 8.965 

G50 Commercio e riparazione auto 265 289 330 405 368 

G51 Commercio all'ingrosso 138 158 214 251 201 

G52 Commercio al dettaglio 177 200 247 290 241 

G Totale commercio 580 647 791 946 810 

H Alberghi e ristoranti 95 131 174 202 175 

I Trasporti e comunicazioni 585 643 898 1.091 835 

J Intermediazione finanziaria 40 20 38 53 43 

K Attività immobiliari e professionali 323 340 390 573 483 

L Pubblica Amministrazione 490 423 550 573 528 

M Istruzione 13 12 21 35 20 

N Sanità e servizi sociali 320 324 318 368 299 

O Altri servizi pubblici 420 436 495 601 561 

Servizi 2.866 2.976 3.675 4.442 3.754 

Industria e servizi 12.435 12.474 14.420 15.537 12.719 

Non determinato 11.659 12.302 12.713 9.791 10.512 

In complesso 24.094 24.776 27.133 25.328 23.231 


di Mario Gallo, docente di Diritto della Sicurezza del Lavoro presso il Corso di Perfezionamento 

per Consulenti del Lavoro - Università degli Studi di Cassino 

Negli ultimi anni, grazie alle 

numerose trattative svoltesi 

tra Confindustria e associazioni 

sindacali conclusesi con l’Accordo 

Interconfederale del 9 

giugno 2004, per il recepimento 

delle disposizioni pervenute 

dall’Accordo-Quadro Europeo, 

il telelavoro trova finalmente 

una disciplina che getta le basi 

per un futuro riassetto della legislazione 

in materia. È questo 

un passo molto importante, visto 

la crescita costante di questo 

tipo di impiego e considerata, 

soprattutto, la normativa vigente 

in materia ormai obsoleta 

e opaca. Molto importante 

è l’accento che pone l’Accordo 

sulle problematiche connesse 

all’organizzazione della sicurezza 

in questo ambito lavorativo. 


Adistanza di circa due anni dalla 

conclusione dell’Accordo- 

Quadro Europeo sul telelavoro, 

siglato tra UNICE/UEAPME, 

CEEP e CES, anche l’Italia dà attuazione 

all’intesa europea con l’Accordo 

Interconfederale di recepimento 

del 9 giugno 2004, allineandosi così 

con Svezia, Gran Bretagna, Olanda 

e Spagna. Infatti, grazie al nuovo 

accordo concluso dalla Confindustria 

e da altri organismi datoriali 

con CGIL, CISL, UIL, il telelavoro 

trova finalmente una disciplina quadro 

che, sia pur di tipo collettivo, è 

destinata a fungere da propulsore 

per un futuro riassetto della legislazione 

in materia. Si consideri che, 

secondo i dati diffusi dal Censis, si 

può stimare che il 3,6% degli occupati 

operano attraverso il telelavoro 

e l’1,6% lavora direttamente da casa; 

in futuro il dato è destinato a 

crescere: nel 2005 il peso del telelavoro 

salirà al 7,1%, mentre i cosiddetti 

home workers arriveranno al 

4,2%. Tutto ciò a fronte di una normativa 

ormai obsoleta e opaca che 

regolamenta confusamente questa 

forma flessibile di lavoro, specie sotto 

il profilo della sicurezza e igiene 

del lavoro; pertanto, per meglio 

comprendere il contesto giuridico in 

cui il nuovo Accordo Interconfederale 

si va ad inserire è opportuno 

preliminarmente chiarire brevemente 

sia la natura del rapporto in esame 

sia l’attuale quadro normativo 

generale per sviluppare, successiva- 


Commento 

Nel 2005 il telelavoro salirà al 7,1%, mentre i cosiddetti home workers arriveranno al 4,2% 

Dall’Accordo Interconfederale 

le nuove tutele del lavoratore a domicilio 

mente, gli aspetti innovativi dell’Accordo 

Interconfederale e le problematiche 

operative connesse all’organizzazione 

della sicurezza nel telelavoro. 

La disciplina generale 

In primo luogo occorre premettere 

che il telelavoro è essenzialmente 

riconducibile allo schema generale 

del lavoro a domicilio disciplinato 

dalla legge n. 877/1973 - che ha 

abrogato la legge n. 264/1958 che 

originariamente regolava l’istituto - 

la quale, all’art. 1, afferma il principio 

in base al quale «È lavoratore a 

domicilio chiunque, con vincolo di 

subordinazione, esegue nel proprio 

domicilio o in locale di cui abbia 

disponibilità, anche con l’aiuto accessorio 

di membri della sua famiglia 

conviventi e a carico, ma con 

esclusione di manodopera salariata 

e di apprendisti, lavoro retribuito 

per conto di uno o più imprenditori, 

utilizzando materie prime o accessorie 

e attrezzature proprie o dello 

stesso imprenditore, anche se fornite 

per tramite di terzi». Il successivo 

comma 2 deroga ai principi generali 

della subordinazione contenuti 

nell’art. 2094 c.c., ritenendo necessario, 

ai fini dell’esistenza del vincolo, 

anche della sussistenza di una 

sola attività direttiva da parte dell’imprenditore 

di tipo discontinuo - 

anche una volta per tutte [1] - e una 

di controllo ex post. Nel successivo 

articolo 2 è fatto divieto di ricorrere 

[1] Cass. Civ., 23 luglio 1983 n. 5096, GC, 1984, I, 1215; Cass. Civ. 17 febbraio 1998 n. 1676, FI, 1998, I, 1463. 



Commento 

al lavoro a domicilio «per le attività 

le quali comportino l’impiego di sostanze 

o materiali nocivi o pericolosi 

per la salute o l’incolumità del 

lavoratore e dei suoi familiari» [2] . 

L’art. 2128 cod. civ., invece, si limita 

ad un generico rinvio alla disciplina 

generale del lavoro nell’impresa 

in quanto compatibile con la specialità 

del rapporto. Il timore dell’evasione 

dalle tutele si è tradotto in una 

disciplina originariamente molto rigida, 

basata oltre che sulle accennate 

disposizioni, anche sull’Accordo 

Interconfederale 20 giugno 1997 

per il settore terziario, e sul D.P.R. 

n. 70/1999 - emanato in attuazione 

dell’art. 4, commi 1 e 3, legge n. 

191/1998 - per il settore pubblico. 

La sicurezza nel telelavoro 

Per quanto concerne la tutela del 

diritto alla salute del telelavoratore, 

occorre ammettere che la stessa rappresenta 

ancora oggi una materia alquanto 

lacunosa. Per meglio analizzare 

i termini della questione bisogna 

evidenziare che il telelavoro - o 

lavoro a distanza - può concretamente 

assumere o la forma comune del 

lavoro a domicilio o quella più avanzata 

del telecottage in cui sono messi 

a disposizione edifici, anche di 

terzi, appositamente attrezzati [3] .In 

quest’ultimo caso, se il luogo di lavoro 

appartiene al datore di lavoro, 

si applicheranno le comuni regole 

di sicurezza e igiene del lavoro, 

mentre, nella fattispecie in cui sia di 

terzi - per esempio un’impresa che 

offre locali già attrezzati con VDT, 


usufruibili da una pluralità di committenti 

- nel permanere la responsabilità 

del datore di telelavoro, andranno 

sviluppati rapporti di cooperazione 

e di coordinamento. 

Più complessa appare, invece, la 

fattispecie del telelavoro a domicilio. 

Infatti, pur se è da ritenersi applicabile 

il principio generale di tutela 

contenuto nell’art. 2087 cod. civ., 

in quanto compatibile, non altrettanto 

si può dire per la disciplina antinfortunistica 

specifica che garantisce 

il diritto alla salute solo al lavoratore 

«che fuori del proprio domicilio 

presta il proprio lavoro alle dipendenze 

e sotto la direzione altrui» 

(Cfr. art. 3, D.P.R. 27 aprile 1955, 

n. 547, art. 3, D.P.R. 19 marzo 

1956, n. 303, e art. 1, comma 3, 

D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277). Infatti, 

come è stato magistralmente 

posto in evidenza dalla Suprema 

Corte di Cassazione il presupposto 

comune di applicazione delle norme 

antinfortunistiche e di igiene del lavoro 

è costituito dalla sussistenza di 

rapporti di lavoro subordinato strictu 

sensu; ciò comporta la non applicabilità 

delle disposizioni al lavoro 

a domicilio, che per sua stessa definizione, 

anche normativa, implica 

l’espletamento dell’attività nel domicilio 

del prestatore o, comunque, 

in locali a questo equiparabili, avendone 

la disponibilità il lavoratore 

stesso e non anche il datore di lavoro 

(Cass. Pen., sez. III, Sent. 13 

dicembre 1999, n. 14165) [4] . 

L’impossibilità da parte del datore 

di lavoro di vigilare sul telelavo- 

ratore - che costituisce uno dei tre 

pilastri su cui poggia la responsabilità 

penale - ha indotto il legislatore 

nel recepire la direttiva 89/391/CEE 

ad operare nel D.Lgs. 19 settembre 

1994, n. 626, una forma di confinamento, 

statuendo, all’art. 1, comma 

3, che al lavoro a domicilio le disposizioni 

del decreto si applicano solo 

nei casi espressamente previsti. Il 

risultato è che, in concreto, anche la 

disciplina del D.Lgs. n. 626/1994 

non trova applicazione nella fattispecie 

del telelavoro a domicilio, tenuto 

conto che i locali di lavoro sono 

nella disponibilità del lavoratore e 

non anche del datore di lavoro (conforme 

Cass. Pen., sez. 3, 13 dicembre 

1996, Aringhi e altro). 

Rispetto a questo quadro deficitario, 

in cui non sono mancati negli 

ultimi anni tentativi coraggiosi da 

parte di giurisprudenza e dottrina, 

in una rincorsa affannosa finalizzata 

a dimostrare l’applicabilità di 

ciò che invece non lo è - sfociando 

anche in alcuni casi nell’applicazione 

analogica della norma penale a 

situazioni in essa non contemplate, 

in evidente violazione del divieto 

sancito dall’art. 14 delle preleggi [5] 

- un’inversione di tendenza si è registrato 

nel solo settore pubblico 

grazie al già citato D.P.R. n. 

70/1999, in cui non solo viene definito 

il concetto di telelavoro [6] ,ma 

per la prima volta è stata dettata 

una specifica disciplina protettiva 

attraverso l’art. 3, il quale dispone 

che l’organo di governo di ciascuna 

amministrazione deve elaborare 

[2] La violazione di tale precetto è sanzionata con l’arresto fino a sei mesi (art. 13, comma 1, legge n. 887/1973). 

[3] A. Trupiano, Telelavoro nella P.A.: le norme sulla sicurezza, in Ambiente&Sicurezza, n. 2/1999, pag. 52. 

[4] In tal senso conforme la dottrina di F. Pontrandolfi, La nozione di lavoro subordinato nelle norme per la prevenzione infortuni, 

in “Riv. inf. mal. prof.” 1999, II, 11, il quale ha precisato che l’elemento essenziale della tutela prevenzionale è costituito dalla 

«presenza del lavoratore - a qualsiasi titolo - presso la sede di lavoro dell’imprenditore, (solamente) all’interno della quale lo 

stesso ha l’obbligo di adottare tutte le cautele idonee ad evitare situazioni di rischio». Si veda anche A. Vallebona, Istituzioni di 

diritto del lavoro - parte II - Il rapporto di lavoro, G. Giappichelli, Torino, 1999, pag. 414 e segg., che nega l’applicabilità della 

disciplina antinfortunistica «poiché l’ambiente ove questo si svolge non è nella disponibilità dell’imprenditore». 

[5] Cfr. Pret. Pistoia, Sez. Pescia, 12 aprile 1999. 

[6] Ai sensi dell’art. 2 del citato D.P.R. n. 70/1999 «la prestazione di lavoro eseguita dal dipendente di una delle amministrazioni 

pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, 

collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie 

dell’informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa 

inerisce.» 


un progetto di telelavoro in cui siano 

precisati, tra gli altri, gli obiettivi, 

le attività interessate, le tecnologie 

utilizzate ed i sistemi di supporto, 

le modalità di effettuazione secondo 

principi di ergonomia cognitiva. 

Inoltre, l’art. 4 definisce una 

specifica obbligazione di sicurezza 

a carico del datore di lavoro pubblico 

statuendo al comma 2 che «La 

prestazione di telelavoro può effettuarsi 

nel domicilio del dipendente 

a condizione che sia ivi disponibile 

un ambiente di lavoro di cui l’amministrazione 

abbia preventivamente 

verificato la conformità alle norme 

generali di prevenzione e sicurezza 

delle utenze domestiche» [7] . 

A corollario il successivo art. 5, 

nel disciplinare gli aspetti organizzativi 

della postazione di lavoro, 

prevede che la stessa deve essere 

messa a disposizione, installata e 

collaudata a cura ed a spese dell’amministrazione 

interessata, sulla 

quale gravano altresì la manutenzione 

e la gestione di sistemi di 

supporto per il dipendente ed i relativi 

costi; grava, invece, sul lavoratore 

l’obbligo di utilizzare la postazione 

esclusivamente per le attività 

inerenti al rapporto di lavoro. In 

quest’articolato contesto normativo, 

uno spazio di rilievo è riconosciuto 

alla contrattazione collettiva 

alla quale è assegnato il delicato 

compito sia di garantire al telelavoratore 

un trattamento equivalente a 

quello dei dipendenti impiegati nella 

sede di lavoro e, in particolare, 

una adeguata tutela della salute e 

della sicurezza del lavoro, sia di 

definire le modalità per l’accesso 

al domicilio del dipendente addetto 

al telelavoro dei soggetti aventi 

competenza in materia di salute, 

sicurezza e manutenzione (art. 7). 


Il nuovo sistema 

delle tutele 

Delineato il sistema normativo 

previgente ora è possibile analizzare 

e meglio apprezzare gli aspetti 

innovativi dell’Accordo Interconfederale 

del 9 giugno 2004. Come accennato 

con tale strumento è stato 

recepito l’Accordo-quadro europeo, 

stipulato a Bruxelles il 16 luglio 

2002, tra UNICE/UEAPME, CEEP 

e CES (si veda il riquadro 1); uno 

degli obiettivi strategici è coniugare 

flessibilità e sicurezza. Un primo 

aspetto importante è che l’art. 1, in 

un certo senso, annulla la tradizionale 

equazione telelavoro uguale rapporto 

speciale e, viceversa, afferma 

il nuovo concetto che lo stesso non 

è altro che una «forma di organizzazione 

e/o di svolgimento del lavoro 

che si avvale delle tecnologie dell’informazione 

nell’ambito di un 

contratto o di un rapporto di lavoro, 

in cui l’attività lavorativa che 

potrebbe anche essere svolta nei locali 

dell’impresa, viene regolarmente 

svolta al di fuori dei locali della 

stessa» (art. 1). L’opzione per tale 

strumento è rimessa alla libera volontà 

delle parti in via originaria o 

successiva, con l’obbligo per il datore 

di lavoro di fornire al telelavoratore 

le relative informazioni scritte, 

conformemente alla direttiva 91/ 

533/CEE, ivi incluse le informazioni 

relative al contratto collettivo applicato 

ed alla descrizione della prestazione 

lavorativa (art. 2). 

Il successivo articolo 3 inserisce 

il principio di non discriminazione 

in materia di condizioni di lavoro, 

disponendo che il telelavoratore fruisce 

dei medesimi diritti, garantiti 

dalla legislazione e dal contratto collettivo 

applicato, previsti per un lavoratore 

comparabile che svolge at- 


Commento 

tività nei locali dell’impresa. In tale 

direzione si colloca il successivo 

art. 5 che tutela il diritto alla riservatezza 

del lavoratore, disponendo al 

comma 2 che l’eventuale installazione 

di qualsiasi strumento di controllo 

deve risultare proporzionata all’obiettivo 

perseguito e deve essere 

effettuata nel rispetto del D.Lgs. 19 

settembre 1994, n. 626, in materia 

di videoterminali. Naturalmente andranno 

osservati anche i principi 

contenuti nell’art. 4 della legge n. 

300/1970 sull’impiego di impianti 

audiovisivi [8] . 

Per prevenire eventuali contenziosi 

l’art. 6 dispone che la regolamentazione 

degli strumenti di lavoro 

deve avvenire prima dell’inizio 

del telelavoro. Di regola, è il datore 

di lavoro ad essere responsabile della 

fornitura, dell’istallazione e della 

manutenzione degli strumenti necessari 

ad un telelavoro svolto regolarmente, 

salvo che il telelavoratore 

non faccia uso di strumenti propri, 

fermo restando l’obbligo a carico 

del lavoratore di segnalare immediatamente 

ogni guasto o malfunzionamento 

alle strutture aziendali competenti. 

Accanto a queste norme di carattere 

generale il nuovo Accordo definisce 

all’art. 7 alcuni punti cardine 

in materia di sicurezza e igiene del 

lavoro. Infatti, dopo un’affermazione 

di mero principio - alla luce di 

quanto evidenziato in precedenza - 

in base alla quale «Il datore di lavoro 

è responsabile della tutela della 

salute e della sicurezza professionale 

del telelavoratore, conformemente 

alla direttiva 89/391/CEE, 

oltre che alle direttive particolari 

come recepite, alla legislazione nazionale 

e ai contratti collettivi, in 

quanto applicabili», di notevole ri- 

[7] Si veda sull’argomento di Walter Saresella, Il telelavoro negli uffici pubblici, in Ambiente&Sicurezza n. 7/1999, pag. 99. 

[8] L’art. 4 dispone il divieto utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza 

dell’attività dei lavoratori. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e 

produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei 

lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di 

queste, con la commissione interna. 



Commento 

lievo appare il comma 2, il quale, 

sia pure timidamente, determina a 

carico del datore di lavoro l’obbligo 

di elaborare una politica di prevenzione 

con particolare riferimento 

ai rischi da videoterminali, nonché 

delle specifiche disposizioni 

aziendali di sicurezza che dovranno 

essere notificate al lavoratore il 

quale, naturalmente, ne sarà tenuto 

al rispetto. Sul piano operativo 

l’art. 8, nel riconoscere a quest’ultimo 

un’autonomia nell’organizzazione 

del lavoro - sia pure nei limiti 

delle direttive aziendali impartite 

- dispone che il carico di lavoro ed 

i livelli di prestazione del telelavoratore 

devono essere equivalenti a 

quelli dei lavoratori comparabili 

che svolgono attività nei locali dell’impresa; 

non solo, ma per prevenire 

l’isolamento del telelavoratore 

rispetto agli altri lavoratori dell’azienda, 

il datore di lavoro è tenuto 

a garantire l’adozione di apposite 

misure, come l’opportunità di incontrarsi 

regolarmente con i colleghi 

e di accedere alle informazioni 

dell’azienda. Sintonizzato con 

l’art. 3 è l’art. 9, il quale assicura 

che i telelavoratori, compresi i supervisori, 

fruiscano delle medesime 

opportunità d’accesso alla formazione 

di base e ad una formazione 

specifica, mirata sugli strumenti 

tecnici di lavoro di cui dispongono 

e sulle caratteristiche di tale forma 

di organizzazione del lavoro. Pertanto, 

non sorge alcun dubbio circa 

la trasposizione nel rapporto individuale 

di telelavoro degli articoli 22 

e 56 del D.Lgs. 19 settembre 1994, 

n. 626, ed in particolare l’obbligo 

per il datore di assicurare al lavoratore 

un’adeguata formazione in materia 

di videoterminali, per quanto 

concerne le misure applicabili al 

posto di lavoro, in base all’analisi 

dei rischi, le modalità di svolgimen- 


to dell’attività, e la protezione degli 

occhi e della vista. Analogamente 

andranno osservate le linee guida 

contenute nel D.M. 2 ottobre 

2000 [9] . 

Inoltre, al fine di verificare la 

corretta applicazione della disciplina 

in materia di salute e sicurezza, 

al datore di lavoro, alle rappresentanze 

dei lavoratori e/o alle autorità 

competenti è riconosciuto il potere 

d’accesso al luogo in cui viene svolto 

il telelavoro, nei limiti della normativa 

nazionale e dei contratti collettivi; 

qualora il telelavoratore svolga 

l’attività nel proprio domicilio, 

tale accesso è subordinato a preavviso 

ed al suo consenso, nei limiti 

della normativa nazionale e dei contratti 

collettivi, fermo restando che 

lo stesso può chiedere ispezioni 

(art. 7, commi 3 e 4). 

Pertanto, da una prima lettura 

sembrerebbe che, in effetti, le tutele 

tutto sommato si limitano a tre soli 

aspetti: politica di prevenzione, direttive 

e formazione. Tuttavia, ad 

un’attenta lettura dell’art. 3 in tema 

di principio di non discriminazione 

delle condizioni di lavoro, appare 

evidente che l’Accordo Interconfederale, 

sia pure indirettamente, di 

riflesso, rende applicabile l’intero sistema 

di tutele della sicurezza e igiene 

normalmente previste per i lavoratori 

che operano all’interno dell’unità 

produttiva. 

Conclusioni 

Non c’è dubbio che il nuovo 

Accordo Interconfederale 9 giugno 

2004 ha un’importante valore 

propulsivo sotto il profilo della 

sicurezza e igiene del lavoro, in 

quanto obbliga sia le organizzazioni 

sindacali a dare vita a contratti 

collettivi caratterizzati da tutele 

forti per i telelavoratori, sia 

le aziende a rinnovare i modelli 

organizzativi [10] . Resta, tuttavia, 

un problema di fondo; l’Accordo 

in esame è figlio dell’autonomia 

collettiva e non del potere legislativo. 

Il risultato è che continua a 

persistere un quadro normativo 

abnorme e squilibrato, in contrasto 

con il principio d’uguaglianza 

garantito dall’art. 3 della Costituzione, 

in cui telelavoro pubblico 

e privato non hanno pari dignità; 

mentre al primo è assicurata una 

tutela forte - anche in termini sanzionatori 

- di tipo legale, al secondo, 

invece, è riconosciuta solo 

una tutela tutto sommato di natura 

contrattuale. L’effetto negativo 

più evidente di questo stato di 

cose, per esempio, si registra in 

ordine alla sorveglianza sanitaria 

prevista per i lavoratori che utilizzano 

un’attrezzatura munita di videoterminali, 

in modo sistematico 

o abituale, per venti ore settimanali, 

dedotte le interruzioni previste 

dall’art. 54 del D.Lgs. 19 

settembre 1994, n. 626. L’Accordo 

Interconfederale estende con 

l’art. 3 questa fondamentale tutela 

anche al telelavoro a domicilio, 

ma il chiaroscuro che contorna 

l’art. 1, comma 3, del D.Lgs. 19 

settembre 1994, n. 626, consiglia 

anche di richiedere espressamente 

al lavoratore il proprio consenso 

all’assoggettamento al controllo 

sanitario del medico competente, 

assolutamente non necessario 

per le altre categorie di lavoratori. 

Pertanto, siamo ancora una volta 

alla presenza di un sistema normativo 

antiquato rispetto al fenomeno 

della flessibilità del lavoro, 

con poche luci e molte ombre, 

che dovrebbe stimolare il legislatore 

ad intervenire immediatamente: 

l’occasione più propizia è quella 

del prossimo testo unico della 

sicurezza. 

[9] Si veda sull’argomento, di Mario Gallo, La tutela degli addetti al VDT: problemi applicativi delle nuove linee guida, in 

Ambiente & Sicurezza n. 22/2000, pag. 31. 

[10] In tal senso si veda anche l’interessante lavoro di M. Santachiara, Il telelavoro domiciliare: l’esperienza di Telecom Italia, in 

Guida al Lavoro, Il Sole 24 Ore, n. 28/2002, pag. 99. 


Le nuove regole sul telelavoro in sintesi 

- il telelavoro è una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie 

dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa che potrebbe 

anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa (art. 1); 

- principio di non discriminazione in materia di condizioni di lavoro (art. 3); 

- il datore di lavoro ha la responsabilità di adottare misure appropriate, in particolare per quel che riguarda il 

software, atte a garantire la protezione dei dati utilizzati ed elaborati dal telelavoratore per fini professionali (art. 4); 

- tutela del diritto alla riservatezza del lavoratore (art. 5); 

- di regola, il datore di lavoro è responsabile della fornitura, dell’istallazione e della manutenzione degli strumenti 

necessari ad un telelavoro svolto regolarmente, salvo che il telelavoratore non faccia uso di strumenti propri (art. 6); 

- obbligo di segnalazione immediata di guasti o malfunzionamento degli strumenti di lavoro da parte del 

telelavoratore (art. 6); 

- il datore di lavoro è responsabile della tutela della salute e della sicurezza professionale del telelavoratore (art. 7); 

- obbligo del datore di lavoro d’informare il lavoratore sulle politiche aziendali in materia di salute e di sicurezza 

sul lavoro, in particolare in ordine all’esposizione al video, e di elaborare specifiche disposizioni (art. 7, comma 2); 

- il telelavoratore applica correttamente le direttive aziendali di sicurezza (art. 7, comma 2); 

- nuova regolamentazione degli accessi e delle ispezioni (art. 7, comma 2); 

- carico di lavoro ed i livelli di prestazione del telelavoratore equivalenti a quelli dei lavoratori comparabili che 

svolgono attività nei locali dell’impresa (art. 8, comma 2); 

- sviluppo di azioni di prevenzione dell’isolamento del telelavoratore rispetto agli altri lavoratori dell’azienda (art. 

8, comma 3); 

- formazione specifica (art. 9). 

Accordo Interconfederale per il recepimento dell’Accordo 

- Quadro Europeo sul Telelavoro concluso il 

16 luglio 2002 tra UNICE/UEAPME, CEEP E CES 

Il 9 giugno 2004 

tra 

CONFINDUSTRIA, CONFARTIGIANATO, 

CONFESERCENTI, CNA, CONFAPI, 

CONFSERVIZI, ABI, AGCI, ANIA, APLA, 

CASARTIGIANI, CIA, CLAAI, COLDIRETTI, 

CONFAGRICOLTURA, CONFCOOPERATIVE, 

CONFCOMMERCIO, CONFINTERIM, 

LEGACOOP, UNCI 

e CGIL, CISL, UIL 

- visto l’accordo-quadro europeo sul telelavoro stipulato 

a Bruxelles il 16 luglio 2002 tra UNICE/UEAPME, 

CEEP e CES e realizzato su base volontaria a seguito 

dell’invito rivolto alle parti sociali dalla Commissione 

delle Comunità europee - nell’ambito della seconda 

fase della consultazione relativa alla modernizzazione 

ed al miglioramento dei rapporti di lavoro - ad avviare 

negoziati in tema di telelavoro; 

- vista la dichiarazione attraverso la quale le parti 



Documento 

Riquadro 1 

stipulanti l’accordo-quadro europeo sul telelavoro hanno 

annunciato che all’attuazione di tale accordo negli 

Stati Membri, negli Stati appartenenti allo Spazio Economico 

Europeo nonché nei Paesi candidati, provvederanno 

le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie 

conformemente alle prassi e alle procedure nazionali 

proprie delle parti sociali; 

- considerato che le parti in epigrafe ritengono che il 

telelavoro costituisce per le imprese una modalità di 

svolgimento della prestazione che consente di modernizzare 

l’organizzazione del lavoro e per i lavoratori una 

modalità di svolgimento della prestazione che permette 

di conciliare l’attività lavorativa con la vita sociale 

offrendo loro maggiore autonomia nell’assolvimento 

dei compiti loro affidati; 

- considerato che se si intende utilizzare al meglio le 

possibilità insite nella società dell’informazione, si deve 

incoraggiare tale nuova forma di organizzazione del 

lavoro in modo tale da coniugare flessibilità e sicurezza, 

migliorando la qualità del lavoro ed offrendo anche alle 



Documento 

persone disabili più ampie opportunità sul mercato del 

lavoro; 

- considerato che l’accordo europeo mira a stabilire 

un quadro generale a livello europeo; 

le parti in epigrafe riconoscono che 

1. il presente accordo interconfederale costituisce 

attuazione, ex art. 139, paragrafo 2, del Trattato che 

istituisce la Comunità europea, dell’accordo-quadro europeo 

sul telelavoro stipulato a Bruxelles il 16 luglio 

2002 tra UNICE/UEAPME, CEEP e CES di cui si 

allega il testo nella traduzione in lingua italiana così 

come concordata fra le parti in epigrafe; 

2. il telelavoro ricomprende una gamma di situazioni 

e di prassi ampia ed in rapida espansione. Per tale 

motivo le parti hanno individuato nell’accordo una definizione 

del telelavoro che consente di considerare diverse 

forme di telelavoro svolte con regolarità; 

3. l’accordo, realizzato su base volontaria, mira a 

stabilire un quadro generale a livello nazionale al quale 

le organizzazioni aderenti alle parti in epigrafe daranno 

applicazione conformemente alle prassi e procedure 

usuali proprie delle stesse parti sociali; 

4. l’applicazione dell’accordo non deve costituire 

valido motivo per ridurre il livello generale di tutela 

garantito ai lavoratori dal campo di applicazione dell’accordo 

medesimo. Peraltro, nel procedere alla sua applicazione 

si eviterà di porre inutili oneri a carico delle 

piccole e medie imprese. 

Tutto ciò premesso, le parti in epigrafe concordano: 

Art. 1 

Definizione e campo di applicazione 

1. Il telelavoro costituisce una forma di organizzazione 

e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle 

tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto 

o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa 

che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, 

viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della 

stessa. 

2. Il presente accordo riguarda i telelavoratori. Il 

telelavoratore è colui che svolge telelavoro nel senso 

precedentemente definito. 

Art. 2 

Carattere volontario 

1. Il telelavoro consegue ad una scelta volontaria del 

datore di lavoro e del lavoratore interessati. Esso può 

essere inserito nella descrizione iniziale delle prestazioni 

del lavoratore ovvero scaturire da un successivo impegno 

assunto volontariamente. 

2. In entrambi i casi il datore di lavoro provvede a 

fornire al telelavoratore le relative informazioni scritte, 

conformemente alla direttiva 91/533/CEE, ivi incluse le 

informazioni relative al contratto collettivo applicato ed 


alla descrizione della prestazione lavorativa. Le specificità 

del telelavoro richiedono di regola ulteriori informazioni 

scritte relative all’unità produttiva cui il telelavoratore 

è assegnato, il suo superiore diretto o le altre 

persone alle quali il telelavoratore può rivolgersi per 

questioni di natura professionale o personale, nonché le 

modalità cui fare riferimento. 

3. Qualora il telelavoro non sia ricompreso nella 

descrizione iniziale dell’attività lavorativa e qualora il 

datore di lavoro offra la possibilità di svolgere telelavoro, 

il lavoratore potrà accettare o respingere tale offerta. 

4. Qualora il lavoratore esprimesse il desiderio di 

voler lavorare come telelavoratore, l’imprenditore può 

accettare o rifiutare la richiesta. 

5. Il passaggio al telelavoro, considerato che implica 

unicamente l’adozione di una diversa modalità di svolgimento 

del lavoro, non incide, di per sé, sullo status 

del telelavoratore. Il rifiuto del lavoratore di optare per 

il telelavoro non costituisce, di per sé, motivo di risoluzione 

del rapporto di lavoro, né di modifica delle condizioni 

del rapporto di lavoro del lavoratore medesimo. 

6. Qualora il telelavoro non sia ricompreso nella 

descrizione iniziale della prestazione lavorativa, la decisione 

di passare al telelavoro è reversibile per effetto di 

accordo individuale e/o collettivo. La reversibilità può 

comportare il ritorno all’attività lavorativa nei locali 

del datore di lavoro su richiesta di quest’ultimo o del 

lavoratore. 

Art. 3 

Condizioni di lavoro 

1. Per quanto attiene alle condizioni di lavoro, il 

telelavoratore fruisce dei medesimi diritti, garantiti dalla 

legislazione e dal contratto collettivo applicato, previsti 

per un lavoratore comparabile che svolge attività nei 

locali dell’impresa. 

Art. 4 

Protezione dei dati 

1. Il datore di lavoro ha la responsabilità di adottare 

misure appropriate, in particolare per quel che riguarda 

il software, atte a garantire la protezione dei dati utilizzati 

ed elaborati dal telelavoratore per fini professionali. 

2. Il datore di lavoro provvede ad informare il telelavoratore 

in ordine a tutte le norme di legge e regole 

aziendali applicabili relative alla protezione dei dati. 

3. Il telelavoratore è responsabile del rispetto di tali 

norme e regole. 

4. Il datore di lavoro provvede ad informare il lavoratore, 

in particolare, in merito ad ogni eventuale restrizione 

riguardante l’uso di apparecchiature, strumenti, 

programmi informatici, quali internet ed alle eventuali 

sanzioni applicabili in caso di violazione, come stabilito 

dalla contrattazione collettiva. 


Art. 5 

Diritto alla riservatezza 

1. Il datore di lavoro rispetta il diritto alla riservatezza 

del telelavoratore. 

2. L’eventuale installazione di qualsiasi strumento di 

controllo deve risultare proporzionata all’obiettivo perseguito 

e deve essere effettuata nel rispetto del d.lgs. 19 

settembre 1994, n. 626 di recepimento della direttiva 

90/270/CEE relativa ai videoterminali. 

Art. 6 

Strumenti di lavoro 

1. Ogni questione in materia di strumenti di lavoro e 

responsabilità deve essere chiaramente definita prima 

dell’inizio del telelavoro in conformità a quanto previsto 

dalla legge e dai contratti collettivi, così come ogni 

questione in materia di costi, tenuto conto di quanto in 

tal senso previsto dal successivo comma 5. 

2. Di regola, il datore di lavoro è responsabile della 

fornitura, dell’istallazione e della manutenzione degli 

strumenti necessari ad un telelavoro svolto regolarmente, 

salvo che il telelavoratore non faccia uso di strumenti 

propri. 

3. Ove il telelavoro venga svolto con regolarità, il 

datore di lavoro provvede alla compensazione o copertura 

dei costi direttamente derivanti dal lavoro, in particolare 

quelli relativi alla comunicazione. 

4. Il datore di lavoro fornisce al telelavoratore i 

supporti tecnici necessari allo svolgimento della prestazione 

lavorativa. 

5. Il datore di lavoro, in conformità a quanto in tal 

senso previsto dalla legislazione e dai contratti collettivi, 

nonché in base a quanto concordato ai sensi del 

comma 1 del presente articolo, si fa carico dei costi 

derivanti dalla perdita e danneggiamento degli strumenti 

di lavoro nonché dei dati utilizzati dal telelavoratore. 

6. In caso di guasto o malfunzionamento degli strumenti 

di lavoro il telelavoratore dovrà darne immediato 

avviso alle strutture aziendali competenti. 

7. Il telelavoratore avrà debita cura degli strumenti di 

lavoro affidatigli e non raccoglierà né diffonderà materiale 

illegale via internet. 

Art. 7 

Salute e sicurezza 

1. Il datore di lavoro è responsabile della tutela della 

salute e della sicurezza professionale del telelavoratore, 

conformemente alla direttiva 89/391/CEE, oltre che alle 

direttive particolari come recepite, alla legislazione nazionale 

e ai contratti collettivi, in quanto applicabili. 

2. Il datore di lavoro informa il telelavoratore delle 

politiche aziendali in materia di salute e di sicurezza sul 

lavoro, in particolare in ordine all’esposizione al video. 

Il telelavoratore applica correttamente le direttive aziendali 

di sicurezza. 



Documento 

3. Al fine di verificare la corretta applicazione della 

disciplina applicabile in materia di salute e sicurezza, 

il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e/o 

le autorità competenti hanno accesso al luogo in cui 

viene svolto il telelavoro, nei limiti della normativa 

nazionale e dei contratti collettivi. Ove il telelavoratore 

svolga la propria attività nel proprio domicilio, tale 

accesso è subordinato a preavviso ed al suo consenso, 

nei limiti della normativa nazionale e dei contratti 

collettivi. 

4. Il telelavoratore può chiedere ispezioni. 

Art. 8 

Organizzazione del lavoro 

1. Nell’ambito della legislazione, dei contratti collettivi 

e delle direttive aziendali applicabili, il telelavoratore 

gestisce l’organizzazione del proprio tempo di 

lavoro. 

2. Il carico di lavoro ed i livelli di prestazione del 

telelavoratore devono essere equivalenti a quelli dei 

lavoratori comparabili che svolgono attività nei locali 

dell’impresa. 

3. Il datore di lavoro garantisce l’adozione di misure 

dirette a prevenire l’isolamento del telelavoratore 

rispetto agli altri lavoratori dell’azienda, come l’opportunità 

di incontrarsi regolarmente con i colleghi e di 

accedere alle informazioni dell’azienda. 

Art. 9 

Formazione 

1. I telelavoratori fruiscono delle medesime opportunità 

di accesso alla formazione e allo sviluppo della 

carriera dei lavoratori comparabili che svolgono attività 

nei locali dell’impresa e sono sottoposti ai medesimi 

criteri di valutazione di tali lavoratori. 

2. Oltre alla normale formazione offerta a tutti i 

lavoratori, i telelavoratori ricevono una formazione 

specifica, mirata sugli strumenti tecnici di lavoro di cui 

dispongono e sulle caratteristiche di tale forma di organizzazione 

del lavoro. Il supervisore del telelavoratore 

ed i suoi colleghi diretti possono parimenti aver bisogno 

di un addestramento professionale per tale forma 

di lavoro e per la sua gestione. 

Art. 10 

Diritti collettivi 

1. I telelavoratori hanno gli stessi diritti collettivi 

dei lavoratori che operano all’interno dell’azienda. 

Non deve essere ostacolata la comunicazione con i 

rappresentanti dei lavoratori. 

2. Si applicano le stesse condizioni di partecipazione 

e di eleggibilità alle elezioni per le istanze rappresentative 

dei lavoratori dove queste sono previste. 

3. I telelavoratori sono inclusi nel calcolo per deter- 



Documento 

minare le soglie per gli organismi di rappresentanza dei 

lavoratori conformemente alla legislazione ed ai contratti 

collettivi. 

4. L’unità produttiva alla quale il telelavoratore sarà 

assegnato al fine di esercitare i suoi diritti collettivi, è 

precisata fin dall’inizio. 

5. I rappresentanti dei lavoratori sono informati e 

consultati in merito all’introduzione del telelavoro conformemente 

alla legislazione nazionale, alle direttive 

europee come recepite ed ai contratti collettivi. 

Art. 11 

Contrattazione collettiva 

1. Al fine di tener conto delle specifiche esigenze 

delle parti sociali interessate ad adottare il telelavoro, le 

stesse possono concludere, al livello competente, accordi 

che adeguino e/o integrino i principi ed i criteri 

definiti con il presente accordo interconfederale. Sono 

fatti salvi gli accordi collettivi già conclusi in materia. 

2. La contrattazione collettiva, o in assenza il contratto 

individuale redatto con il lavoratore, deve prevedere, 

ai sensi dell’art. 2, comma 6, la reversibilità della decisione 

di passare al telelavoro con indicazione delle 

relative modalità. 

3. Al fine di tener conto delle peculiari caratteristiche 

del telelavoro, si potrà far ricorso ad accordi specifici 

integrativi di natura collettiva e/o individuale. 

Art. 12 

Applicazione e verifica dell’Accordo 

1. In caso di controversie relative all’interpretazione 

ed all’applicazione del presente accordo interconfederale 

le parti interessate potranno rivolgersi congiuntamente 

o separatamente alle parti firmatarie richiamate in 

epigrafe. 

2. Ai fini della relazione da rendere ad UNICE/UE- 

APME, CEEP e CES circa l’attuazione in sede nazionale 

dell’accordo-quadro europeo ed alla sua eventuale 

revisione prevista per il luglio 2007, le articolazioni 

territoriali/categoriali aderenti alle Confederazioni di 

rappresentanza delle imprese così come le Federazioni 

nazionali e territoriali aderenti a CGIL, CISL, UIL, 

provvederanno a comunicare con periodicità annuale 

alle parti in epigrafe, la conclusione di accordi e contratti 

collettivi in materia di telelavoro ed ogni utile informazione 

circa l’andamento di tale modalità di svolgimento 

della prestazione lavorativa. l 

ALLEGATO 

. Accordo europeo sul telelavoro stipulato a Bruxelles il 16 luglio 2002 (omissis) 

Il testo è disponibile on–line all’indirizzo www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com 

Ponteggi: tolleranze conformate alle norme EN 

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Direzione Generale della Tutela 

delle Condizioni di Lavoro - Divisione VII Igiene e sicurezza del lavoro 

8 luglio 2004, n. 28, Prot. 5827/PR/OP/PONT/Circ 

Oggetto: Art. 30 D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 - Autorizzazione alla costruzione ed all’impiego 

di ponteggi metallici fissi - Chiarimenti concernenti le tolleranze dimensionali dei profili cavi 

Le circolari nn. 85/78, 44/90, e 132/91 di questo Ministero riguardanti le autorizzazioni alla costruzione 

ed all’impiego dei metallici fissi, rispettivamente a tubi e giunti, a telai prefabbricati ed a montanti e 

traversi prefabbricati, hanno fissato via via nel tempo le tolleranze sugli spessori dei tubi. 

Considerato che su tale argomento negli ultimi anni sono state introdotte nel sistema normativo 

italiano norme EN, si ritiene opportuno, su conforme parere del gruppo ponteggi, uniformare dette 

tolleranze riferendosi a quanto previsto da tali norme ed in particolare alle norme UNI EN 39 e d UNI EN 

10219-2, sia per ciò che attiene ai tubi sciolti per ponteggi a tubi giunti e sia per tubi utilizzati per 

ponteggi a telai prefabbricati ed a montanti e traversi prefabbricati, nelle quali la tolleranza in difetto 

sugli spessori è pari al 10%. 

Il Dirigente 

Dott. ssa A.M. Faventi 


Il Direttore generale 

Dott. Paolo Onelli 



Infortuni: dall’INAIL un nuovo criterio 

per individuare la sede competente 

INAIL 

Delibera Commissario Straordinario INAIL 

17 giugno 2004, PRES-C.S. n. 446 

Oggetto: Modifica dei criteri per l’individuazione della Sede competente a trattare le denunce di infortunio sul lavoro 

e di malattia professionale. Articoli 13 e 53, commi 1 e 5, del Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione 

obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e 

successive modificazioni. 

IL PRESIDENTE - COMMISSARIO STRAORDINARIO 


Osservatorio INAIL - Documento 

Con la delibera 17 giugno 2004, n. 446, l’INAIL ha modificato i criteri per individuare la Sede competente a trattare i casi di 

infortunio. Secondo il nuovo criterio, per tutti gli infortuni accaduti dopo il 12 luglio 2004, la sede competente è quella nel 

cui ambito territoriale rientra il domicilio dell’assicurato, luogo in cui vive abitualmente. L’Istituto ha già escluso che le 

denunce presentate o pervenute dopo il 12 luglio a sedi non competenti possano essere restituite o non accettate dagli 

uffici che le ricevono. Le denunce che perverranno alla sede non competente saranno gestite sia per l’aspetto operativo che 

per quello procedurale dalla sede ricevente per conto della sede competente. 

visto il Decreto Legislativo n. 479 del 30 giugno 1994 e successive modificazioni; 

visto il Decreto del Presidente della Repubblica n. 367 del 24 settembre 1997; 

visti il Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze del 5 

luglio 2002 ed i successivi Decreti di proroga; 

vista la relazione del Direttore Generale in data 10 giugno 2004; 

visto il Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, 

approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965 n. 1124, e successive modifiche ed integrazioni; 

visto, in particolare, l’articolo 13 del predetto Testo Unico - al quale rinvia il successivo art. 53, commi 1 e 5 - che prevede che 

la denuncia degli infortuni e delle malattie professionali deve essere effettuata “nella sede della circoscrizione dell’Istituto 

assicuratore nella quale si svolgono i lavori, salvo una diversa sede stabilita dall’Istituto medesimo”; 

rilevata la necessità di facilitare i rapporti tra l’Istituto e gli assicurati, quali soggetti destinatari della tutela; 

considerato l’interesse dell’Istituto all’erogazione delle prestazioni con efficacia e tempestività; 

considerato che il criterio del “domicilio dell’assicurato” ai fini dell’attribuzione della competenza territoriale a trattare le 

denunce di infortunio e di malattia professionale non incide sui rapporti con i datori di lavoro, anche in considerazione 

della possibilità di effettuare le denunce di infortunio via internet. 

Delibera 

che la Sede competente a trattare le denunce di infortunio sul lavoro e di malattia professionale è quella nel cui ambito 

territoriale rientra il domicilio dell’assicurato. 

Bando INAIL: entro il 28 luglio 2004 

la presentazione delle domande 

http://www.inail.it/prevenzionerischio/incentiviindex.htm 

L’INAIL promuove il bando per la presentazione delle domande di finanziamento dei programmi di adeguamento 

delle strutture e dell’organizzazione alle normative di sicurezza e igiene del lavoro delle piccole e 

medie imprese e dei settori agricolo e artigianale, in attuazione del D.Lgs n. 626/94 e successive modificazioni. 

Per la compilazione guidata delle domande è stato predisposto un apposito CD Rom, scaricabile dal sito 

internet www.inail.it e disponibile presso tutte le dell’Istituto. 

Le domande - che dovranno essere compilate esclusivamente attraverso il CD Rom - devono essere inoltrate 

all’INAIL entro il 28 luglio 2004, secondo le modalità indicate sul bando. 

Il file da inviare è quello con estensione .ISI2 

Per ulteriori informazioni telefonare al numero verde 803-888 



Commento 

di Enzandrea Prandi, medico del lavoro 

Il decreto ministeriale 15 luglio 

2003, n. 388 introdurrà, a partire 

dal 3 agosto prossimo, importanti 

novità in merito agli 

obblighi inerenti la gestione e 

l’organizzazione del servizio di 

pronto soccorso aziendale. I 

suoi contenuti supereranno le 

indicazioni normative fornite 

da previgenti disposizioni in 

materia (in particolare le indicazioni 

fornite al riguardo dal 

D.P.R. n. 303/1956). Come spesso 

avviene per norme che rielaborano 

e rivisitano criticamente 

materie precedentemente 

trattate, introducendo nuovi 

parametri di riferimento e attuazioni 

concettuali, il D.M. n. 

388/2003 ha suscitato numerosi 

quesiti e diverse esigenze interpretative 

su aspetti che non 

risultavano sufficientemente 

esplicati. 


Le risposte del Ministero della Salute ad alcunei quesiti sul pronto soccorso in azienda e nei cantieri edili 

Il primo soccorso: alcuni chiarimenti 

prima dell’entrata in vigore del D.M. n. 388 

Il Ministero della Salute, Dipartimento 

della Prevenzione e della 

Comunicazione, Direzione Generale 

Prevenzione Sanitaria ha risposto 

con due note rispettivamente del 

3 giugno 2004 e 30 giugno 2004 a 

quesiti da più parte posti in merito 

all’applicazione di alcuni articoli 

del D.M. n. 388/2003 [1] . 

Articolo 1, comma 1: la nota 

riferisce, giustamente, la definizione 

di unità produttiva all’articolo 2, 

comma 1, lettera i) del D.Lgs. n. 

626/1994 (unità produttiva: stabilimento 

o struttura finalizzata alla produzione 

di beni o servizi, dotata di 

autonomia finanziaria e tecnico-funzionale) 

precisando che per la classificazione 

si deve far riferimento a 

tutti i lavoratori dell’azienda o dell’unità 

produttiva in ogni caso tenendo 

conto dell’attività svolta con indice 

più elevato. A tal riguardo è utile, 

per contiguità dei concetti espressi, 

riportare anche la risposta in merito 

al quesito posto circa l’individuazione 

dei presidi di primo soccorso 

che devono essere garantiti 

nei cantieri edili. Anche a questo 

proposito viene ritenuto fondamentale 

il concetto di unità produttiva 

espresso nell’articolo 2. comma 1, 

lettera i) del D.Lg. n. 626/1994: nel 

caso i cantieri rientrino in tale definizione 

il presidio sanitario dovrà 

essere rappresentato dalla cassetta 

di pronto soccorso eventualmente integrata 

da presidi di cui si ravvisi la 

necessità in base alla presenza di 

specifici rischi. I cantieri non rientranti 

nelle caratteristiche strutturali/ 

operative della definizione di unità 

produttiva (ad es. piccoli cantieri 

stradali, ristrutturazioni con la presenza 

di una singola impresa ecc.) 

dovrà essere previsto sempre almeno 

un pacchetto di medicazione. 

Articolo 2, comma 5: il pacchetto 

di medicazione ed idoneo mezzo 

di comunicazione deve essere previsto 

quando il personale dell’azienda 

lavori all’esterno della stessa ed in 

luoghi isolati intesi come mal collegati 

o lontani dai centri abitati (a 

questo proposito ritengo che si sarebbe 

dovuto far riferimento a posti 

di primo soccorso e non alla semplice 

esistenza di un paese, NdR). 

Articolo 3, comma 1: si precisa 

che gli addetti al primo soccorso, 

anche se datori di lavoro, devono 

frequentare uno specifico corso per 

acquisire le necessarie conoscenze 

teoriche e pratiche per l’attuazione 

delle misure di primo soccorso. Gli 

obbiettivi didattici di tale corso, a 

far data dall’entrata in vigore del 

D.M. n. 388/2003, sono quelli previsti 

negli allegati 3 e 4 del decreto 

ministeriale stesso. Relativamente 

all’obbligo dell’aggiornamento della 

formazione da effettuarsi ogni tre 

anni il riferimento temporale sul 

quale basarsi è chiaramente espresso 

dalla data di ultimazione dell’ultimo 

corso effettuato. 

[1] Sull’argomento si veda Nadia Taverna, «Dal 4 agosto 2004 nuova organizzazione del pronto soccorso», n. 4/2004, pag. 18; 

Enzandrea Prandi, «Con il D.M. n. 388/2003 sul primo soccorso più spazio alla valutazione dei rischi», inAmbiente&Sicurezza 

n. 5/2004, pag. II. 


Circolare del Ministero della Salute - Dipartimento della Prevenzione 

e della Comunicazione - Direzione Generale Prevenzione Sanitaria, 

3 giugno 2004, Prot. DGPREV - 13008/P/ 

Oggetto: Quesiti applicazione del Decreto 15 

luglio 2003 n. 388 

In riferimento ai quesiti posti, per quanto specificato in 

oggetto, da parte dello scrivente Ufficio si precisa quanto 

segue. 

Art. 1 c. 1. - Classificazione: ai fini della classificazione 

delle aziende, ovvero delle unità produttive, intese secondo 

la definizione data dal DLgs. 626/94 come 

“Stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di 

beni o servizi dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale”, 

vanno considerati tutti i lavoratori dell’azienda. 

Se l’azienda o l’unità produttiva svolge attività lavorative 

comprese in gruppi diversi, per identificare la categoria 

di appartenenza il datore di lavoro deve riferirsi all’attività 

con indice più elevato. 

Art. 2 c. 5 - Obbligo di fornire pacchetto di medicazione 

e mezzo idoneo di comunicazione: tale obbligo riguarda 

l’utilizzazione di proprio personale in attività esterne 

alla sede aziendale o all’unità produttiva limitatamente a 

prestazioni lavorative in luoghi isolati intesi come mal 

collegati e/o appartati e lontani rispetto ai centri abitati 

secondo la comune accezione del termine. 

Art. 3 c. 1 - Addetti al pronto soccorso: precisato che 

l’art. 95 del D.Lgs. 626/94 prevede l’esonero dalla frequenza 

del corso di formazione di cui al comma 2 dell’art. 10 

Alle Organizzazioni Confederate 

D.M. 15 luglio 2003, n. 388. Disposizioni sul pronto 

soccorso aziendale. Individuazione dei presidi di pronto 

soccorso nei cantieri edili o di ingegneria civile. Parere 

del Ministero della Salute. 

Il Ministero della Salute - Dipartimento della prevenzione 

e della comunicazione - D.G. prevenzione sanitaria, 

Uff. II - ha risposto, con nota n. 15677/P/F.1.a.a. del 

30 giugno 2004, ad un quesito, da noi posto in merito 

all’individuazione dei presidi di pronto soccorso che 

devono essere garantiti nei cantieri edili o di ingegneria 

civile, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 15 luglio 2003. 

Il contenuto della risposta viene di seguito riportato: 

“Per i cantieri rientranti nella definizione di azienda o 

unità produttiva, il presidio sanitario da assegnare risulta 

essere costituito dalla cassetta di pronto soccorso. Il 

contenuto di detta cassetta, fissato dall’allegati 1 del 

D.M. in oggetto, dovrà essere eventualmente integrato 



Documento 

per il datore di lavoro, che rientrando nei casi previsti 

nell’allegato 1, svolga direttamente i compiti propri del 

servizio di prevenzione e protezione dai rischi, elencati 

nell’art. 9, solamente in prima applicazione ed in ogni 

caso non oltre il 31.12.1996, precisato che detti compiti 

non ricomprendono il pronto soccorso, si osserva che la 

necessità della frequenza a specifico corso per acquisire le 

necessarie conoscenze teoriche e pratiche per l’attuazione 

delle misure di primo soccorso, risultano necessarie sia 

nel caso in cui il datore di lavoro, avvalendosi del comma 

2 dell’art. 15 svolga direttamente tali funzioni, sia nel 

caso in cui siano stati preventivamente designati a svolgere 

uno o più dipendenti. 

Con l’entrata in vigore del regolamento, gli obiettivi 

didattici ed i contenuti minimi della formazione per il 

primo soccorso sono stabiliti negli allegati 3 e 4 dello 

stesso: secondo la precisazione del comma 5 sono ritenuti 

validi i corsi ultimati precedentemente. 

Per quanto attiene all’obbligo di aggiornamento della 

formazione, con cadenza triennale almeno per quanto 

riguarda le capacità di intervento pratico, non essendo 

previsti differimenti, lo stesso è da ritenere immediatamente 

vigente con l’entrata in vigore, e ovviamente da riferire 

alla formazione acquisita, al fine di sopperire a carenze 

connesse a formazioni datate: pertanto, per la ripetizione 

della formazione il riferimento è costituito dalla data di 

ultimazione dell’ultimo corso effettuato. 

Circolare Confindustria - Area strategica Welfare e Risorse umane, 

Lavoro e Relazioni Industriali, 6 luglio 2004, n. 18057 

sulla base di rischi specifici, in applicazione di quanto 

previsto dall’art. 4. 

Per altri cantieri (temporanei o mobili) non rientranti 

per caratteristiche strutturali/operative nella definizione 

di unità produttiva, può risultare sufficiente un idoneo 

pacchetto di medicazione.......”. 

Si rammenta che l’art. 2, comma 1 lett. i) del decreto 

legislativo n. 626/1994, e successive modifiche ed integrazioni, 

definisce l’unità produttiva nei termini seguenti: 

“unità produttiva: stabilimento o struttura finalizzata alla 

produzione di beni o servizi, dotata di autonomia finanziaria 

e tecnico-funzionale.” 

Pertanto, in tutti i cantieri edili o di ingegneria civile, 

operanti al di fuori della sede aziendale e non configurabili 

come unità produttive, secondo la definizione sopra 

ricordata, è sufficiente che sia garantito da parte del 

datore di lavoro, come presidio sanitario, il pacchetto di 

medicazione di cui all’art. 2 comma 2 lett. a). l 



Commento 

di Mario Gallo, docente di Diritto della Sicurezza del Lavoro presso il Corso di Perfezionamento 

Consulenti del Lavoro - Università degli Studi di Cassino 

Con l’emanazione della circolare 

24 giugno 2004, n. 24, il Ministero 

del Lavoro e delle Politiche 

Sociali è intervenuto tempestivamente 

sulla delicata materia 

dell’attività ispettiva fornendo 

importanti chiarimenti 

e indicazioni operative in ordine 

alla corretta applicazione 

D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124, il 

quale, com’è noto, ha riformato 

l’intero sistema di vigilanza 

sul mercato del lavoro, in attuazione 

della delega contenuta 

all’art. 8 della legge n. 

30/2003, cosiddetta “legge Biagi”. 


Indicazioni operative sulla corretta applicazione D.Lgs. n. 124/2004 di riforma del sistema di vigilanza 

Dalla circolare MinLavoro n. 24/2004 

nuovi chiarimenti sulla riforma dei servizi ispettivi 

La disamina ministeriale proposta 

con la circolare n. 

24/2004 è a trecentosessanta 

gradi poiché tocca tutti i nodi cruciali 

del citato D.Lgs. n. 

124/2004, confermando anche alcuni 

orientamenti interpretativi offerti 

dalla dottrina in prima battuta 

[1] . Tuttavia, non tutti i dubbi 

sono stati dissolti, almeno su tre 

delicate questioni; comunque, bisogna 

riconoscere che con questo 

provvedimento il Ministero ha offerto 

un apprezzabile contributo 

ad un primo riassetto dell’attività 

di controllo e in questa sede approfondiremo 

in particolare quegli 

aspetti della circolare rilevanti 

anche ai fini della vigilanza in 

materia di sicurezza e igiene del 

lavoro. 

L’attività 

di vigilanza generale 

Un primo aspetto che la novella 

circolare affronta è l’organizzazione 

complessiva dell’intero sistema 

di vigilanza basato su due direttrici 

fondamentali; la prima vede le 

Direzioni Regionali del Lavoro 

con il delicato compito di coordinare 

sul proprio territorio regionale 

di competenza l’attività di vigilanza 

in materia di rapporto di lavoro, 

individuando linee operative 

e priorità d’azione sulla base delle 

direttive emanate dalla Direzione 

Generale, in sintonia con le linee 

guida della Commissione centrale 

di coordinamento. La seconda riconferma 

il ruolo nevralgico delle 

Direzioni Provinciali del Lavoro 

alle quali, come in passato, è assegnato 

il compito di vigilare sulla 

tutela dei rapporti di lavoro coordinandosi 

con INPS, INAIL e gli 

altri enti previdenziali, specie per 

quanto concerne la piaga del lavoro 

sommerso. Per quanto riguarda 

lo status del personale ispettivo in 

forza alle Direzioni e il personale 

di vigilanza di INPS, INAIL, 

ENPALS e degli altri enti previdenziali, 

resta ferma in primo luogo 

la qualifica di pubblico ufficiale; 

tuttavia, viene nuovamente ribadito 

- quasi per rimarcare la differenza 

con i poteri conferiti agli 

ispettori degli enti previdenziali - 

che al personale ispettivo delle direzioni 

Regionali e Provinciali del 

Lavoro è riconosciuta anche la 

qualità d’ufficiale di Polizia Giudiziaria 

(UPG), naturalmente «nei limiti 

del servizio cui è destinato e 

secondo le attribuzioni conferite 

dalla normativa vigente». Pertanto, 

gli ispettori del lavoro continueranno 

a svolgere sia la vigilanza 

amministrativa (temporalmente 

antecedente al sorgere di ipotesi 

di reato, e orientata alla prevenzione) 

che quella giudiziaria (in cui 

sono stati rilevate ipotesi di reato). 

Gli ispettori degli enti previdenziali, 

viceversa, qualora accer- 

[1] Pierguido Soprani, Con il D.Lgs. n. 124/2004 riformate le funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, in 

Ambiente&Sicurezza, n. 11/2004, pag. 16; dello stesso autore, Il rimborso delle somme pagate per le contravvenzioni, in 

Ambiente&Sicurezza n. 14/2004, pag. 74. 


tino la sussistenza di un reato perseguibile 

d’ufficio non potranno 

autonomamente operare per il ripristino 

della legalità ma dovranno 

limitarsi al dare notizia direttamente 

all’Autorità Giudiziaria ai 

sensi dell’art. 331 c.p.c. né tantomeno, 

in ogni caso, hanno funzioni 

investigative - come il potere 

d’interrogare il datore o i lavoratori 

o altri soggetti - conformemente 

all’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 

124/2004. 

Per quanto riguarda il nuovo 

modello unificato di verbale ispettivo 

previsto dall’art. 10, comma 

4, del predetto decreto, in attesa 

che entro il 27 novembre 2004 sia 

emanato da parte del Ministero il 

relativo provvedimento regolamentare, 

la circolare si limita a ricordare 

che i verbali di accertamento 

del personale che effettua vigilanza 

costituiscono fonte di prova in 

ordine agli elementi di fatto acquisiti 

e documentati e possono essere 

reciprocamente utilizzati per 

l’adozione di eventuali provvedimenti 

sanzionatori amministrativi 

e civili di competenza dei relativi 

organi ispettivi. Sotto quest’ultimo 

profilo, inoltre, precisa che 

l’utilizzabilità diretta delle acquisizioni 

effettuate dai vari organi di 

controllo «è conforme ai principi 

di buon andamento ed efficacia 

della pubblica amministrazione», 

poiché consente l’utilizzazione degli 

elementi acquisiti in sede di 

vigilanza anche da altri soggetti 

«purché tali elementi siano contenuti 

nei verbali di accertamento 

che, come è noto, godono tutti della 

medesima fede privilegiata (cfr. 

ex multis, Cass. Sez. Civ. dell’11 

giugno 2001, n. 7832)». 

Sempre in tema d’esercizio della 

funzione di vigilanza la circola- 


re del Ministero dell’Interno n. 

24/2004 affronta anche il tema della 

razionalizzazione della stessa; 

rinviando al futuro decreto che dovrà 

regolamentare le modalità di 

attuazione e il funzionamento della 

banca dati telematica, con 

l’obiettivo di evitare le frequenti 

duplicazioni degli interventi ispettivi 

[2] in via transitoria viene introdotto 

un meccanismo d’interscambio 

- a mezzo posta elettronica - 

tra tutti gli organi di vigilanza interessati 

che con la massima tempestività 

dovranno comunicare reciprocamente 

i nominativi dei datori 

di lavoro ispezionati, secondo modalità 

definite sulla base di intese 

raggiunte a livello regionale o provinciale. 

La vigilanza 

in materia di sicurezza 

Per quanto riguarda l’attività di 

vigilanza in materia di sicurezza 

del lavoro la circolare in esame 

non fornisce alcuna indicazione di 

carattere operativo in ordine al coordinamento 

dei servizi ispettivi; 

com’è noto l’art. 1, comma 1, del 

D.Lgs. n. 124/2004 ha lasciato immutato 

il sistema delle competenze 

disegnato dall’art. 23 del 

D.Lgs. n. 626/1994, il quale assegna 

una competenza primaria di 

tipo generale ai dipartimenti di 

prevenzione delle Aziende Sanitarie 

Locali ed una solo integrativa 

di tipo speciale ai servizi ispettivi 

alle DPL (si veda la tabella 1). 

Per questi ultimi l’attività di vigilanza 

è circoscritta ad alcune attività 

- per esempio, i lavori edili - 

con l’obbligo d’informare preventivamente 

l’ASL competente per 

territorio (art. 23, comma 2, 

D.Lgs. n. 626/1994; D.P.C.M. 14 

ottobre 1997, n. 412). Questo prin- 


Commento 

cipio fondamentale, finalizzato a 

salvaguardare il modello di vigilanza 

introdotto con la legge 

833/1978, nella prassi corrente in 

diversi casi è stato disatteso in 

quanto gli ispettori non solo hanno 

proceduto a controlli in materia 

di sicurezza presso aziende escluse 

della propria competenza ma 

anche senza aver esperito la prescritta 

azione informazione preventiva 

all’ASL, con il risultato che i 

PVC sono da ritenersi viziati per 

mancanza del presupposto di legittimità. 

Un richiamo da parte del 

Ministero ad un maggior rigore in 

tal senso sarebbe stato opportuno. 

La promozione 

al rispetto della normativa 

La circolare n. 24/2004 detta 

anche importanti chiarimenti sulla 

nuova funzione di promozione al 

rispetto della normativa lavoristica 

e previdenziale delle Direzioni 

che, almeno in prima analisi, aveva 

suscitato le lamentele delle categorie 

professionali alle quali è 

riservata la consulenza del lavoro. 

Il Ministero è efficacemente intervenuto 

su tale problematica in primo 

luogo rimarcando che l’attività 

di promozione deve essere finalizzata 

al rispetto della normativa, 

su questioni di rilevanza generale, 

nonché sulle novità legislative e 

interpretative. Pertanto, restano 

esclusi i singoli casi concreti o 

problemi particolari d’interesse 

aziendale i quali continuano a rimanere 

di competenza tipica dei 

consulenti del lavoro e delle altre 

figure professionali di cui alla legge 

n. 12/1979 (Dottori Commercialisti, 

Avvocati e Ragionieri Commercialisti). 

Nello svolgimento di 

tale funzione gli ispettori non rivestono 

la qualifica di UPG, ossia 

[2] Un esempio emblematico di tale fenomeno negativo - tra i tanti - riscontrato nella prassi professionale è il caso di un 

distributore di carburanti che nel corso del mese di novembre dello scorso anno in una sola settimana è stato controllato dagli 

ispettori della DRL, dell’INPS, dell’INAIL, nonché dalla Guardia di Finanza, per verificare le presenza di lavoro nero con 

addirittura un ispettore che voleva sanzionare il datore di lavoro che al momento non disponeva del libro matricola in quanto 

consegnato al proprio consulente che lo doveva esibire presso la DRL. 



Commento 



non esercitano funzioni di vigilanza 

né possono svolgere alcuna attività 

di accertamento. 

Sul piano operativo gli ispettori 

dovranno fornire chiarimenti e indicazioni 

operative che devono 

fondarsi esclusivamente su circolari 

e su posizioni ufficiali assunte 

dal Ministero del Lavoro. La circolare 

ricorda ancora che bisognerà 

attendere un Decreto Ministeriale 

che stabilirà lo schema di convenzione 

in forza del quale la Direzione 

Generale, le DRL, le DPL e gli 

Enti previdenziali, anche d’intesa 

tra loro, potranno svolgere attività 

di informazione ed aggiornamento 

nei confronti di enti, datori di lavoro 

ed associazioni a cura e spese 

degli stessi. Resta da capire se i 

prossimi interventi toccheranno in 

qualche modo anche l’attività d’informazione, 

consulenza e assistenza 

in materia di sicurezza e igiene 

del lavoro ai sensi dell’art. 24 del 

D.Lgs. n. 626/1994. 

L’istituto dell’interpello 

Uno degli aspetti francamente 

più deludenti della riforma introdotta 

dal D.Lgs. n. 124/2004 è la 

disciplina sul diritto d’interpello. 

Ulteriore articolazione della funzione 

di promozione del nuovo 

modello d’ispezione, rispetto ai 

principi previsti dall’art. 9 del citato 

decreto la circolare non aggiunge 

nulla di particolarmente significativo, 

limitandosi a ricordare che 

l’interpello è uno strumento che 

può essere utilizzato in via esclusiva 

dagli enti pubblici, le associazioni 

di categoria e ordini professionali. 

Abilitati a ricevere la domanda 

sono le Direzioni Provinciali 

del Lavoro nonché INAIL, 

INPS e gli altri enti previdenziali, 

ai quali i predetti soggetti potranno 

indirizzare unicamente quesiti 

di ordine generale sull’applicazio- 


ne della normativa nelle materie 

di propria competenza: pertanto, 

saranno automaticamente “scartati” 

quei quesiti di carattere particolare 

o proposti dalle singole aziende. 

Sul piano strettamente operativo 

la domanda andrà proposta unicamente 

alle sedi periferiche per 

via telematica e successivamente 

le stesse analizzeranno preliminarmente 

il quesito trasmettendolo 

“tempestivamente” alla Direzione 

Generale corredato da un’apposita 

relazione. 

Sul piano degli effetti giuridici 

della risposta all’interpello fornita 

dalla Direzione Generale la circolare 

precisa che gli stessi non toccano 

l’ambito del rapporto di lavoro 

che intercorre tra le parti e qualora 

il datore di lavoro provveda 

ad adeguarsi a quanto forma oggetto 

della risposta all’interpello, tale 

comportamento adesivo va valutato 

ai fini della sussistenza dell’elemento 

soggettivo (colpa o dolo) 

nella commissione degli illeciti 

amministrativi (art. 3, legge n. 

689/1981) nonché dell’applicazione 

delle sanzioni civili. Qualche 

autore ha già cercato di omologare 

il nuovo strumento come conforme 

all’interpello previsto in materia 

tributaria ma in realtà sono 

molto diversi tra di loro. In primo 

luogo non vengono chiaramente 

definiti i termini procedurali; in 

secondo luogo l’interpello è collettivo 

- in materia tributaria, invece, 

anche il singolo contribuente è legittimato 

ad agire - e non tutela il 

richiedente assistito dall’associazione 

di categoria o dal professionista 

il quale non solo non può 

proporre quesiti specifici ma ammesso 

anche che si uniformi alla 

soluzione data dalla Direzione Generale 

rischia di non ottenere alcun 

beneficio sotto il profilo penale. 

Resta solo il dato di fatto che 


Commento 

l’interpello è ammissibile anche 

per le normative in materia di sicurezza 

e igiene del lavoro ricadenti 

sotto la competenza delle DPL. 

Gli istituti del ravvedimento 

operoso obbligatorio 

Molto interessanti sono i chiarimenti 

ministeriali in materia di diffida 

(art. 13, D.Lgs. n. 124/2004) 

in cui il personale ispettivo, rilevato 

l’inosservanza di norme alla 

quale sono collegate sanzioni amministrative, 

è obbligato «a diffidare 

il datore di lavoro alla regolarizzazione 

delle inosservanze comunque 

sanabili, fissando il relativo 

termine »[3] . A differenza del 

vecchio e discusso modello di tipo 

facoltativo, lo strumento in esame 

ha natura obbligatoria ed è applicabile 

in quelle fattispecie d’illeciti 

amministrativi comunque sanabili 

commessi anche anteriormente al 

27 maggio 2004, data di entrata in 

vigore delle nuove norme. Pertanto, 

la circolare precisa che sono 

escluse dalla sfera applicativa dell’istituto 

tutte le violazioni in cui 

l’interesse sostanziale protetto dalla 

norma non è “... in alcun modo 

recuperabile”: la fattispecie più 

critica in tal senso è soprattutto 

quella relativa alla tutela dell’integrità 

psico-fisica e della personalità 

morale del lavoratore. A titolo 

esemplificativo, sia pure con qualche 

imprecisione tecnica, il Ministero 

richiama la fattispecie del superamento 

delle 48 ore medie di 

lavoro settimanale, quella delle 

violazioni sostanziali in materia di 

apprendistato, oppure l’utilizzo di 

lavoratori dello spettacolo senza 

certificato di agibilità. Viceversa, 

sono qualificate come sanabili le 

violazioni amministrative relative 

ad adempimenti omessi, in tutto o 

in parte, che possono ancora essere 

materialmente realizzabili, an- 

[3] Si ricorda che ai sensi dell’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 124/2004, ottemperando alla diffida impartita il trasgressore sarà 

ammesso a pagare una sanzione pecuniaria pari al minimo previsto dalla legge ovvero nella misura pari ad 1/4 della sanzione 

stabilita in misura fissa. 



Commento 

che qualora la legge preveda un 

termine per l’effettuazione dell’adempimento, 

e le forme di ravvedimento 

volontario tardivo, in 

cui il trasgressore ha, ancor prima 

dell’adozione della diffida, posto 

in essere il comportamento dovuto, 

sia pure oltre il termine stabilito 

dalla norma. 

Per quanto concerne l’istituto 

della disposizione (art. 14, D.Lgs. 

n. 124/2004) l’intervento ministeriale 

appare scarsamente incisivo; 

tale strumento, com’è noto, ha ormai 

un carattere residuale nei soli 

casi in cui ai fini dell’applicazione 

delle norme è attribuito dalle singole 

disposizioni di legge un apprezzamento 

discrezionale degli 

ispettori. La circolare ricorda che 

contro il provvedimento è ammesso 

entro 15 giorni ricorso al Direttore 

della DPL competente per territorio, 

il quale è chiamato a decidere 

nei successivi 15 giorni; in 

caso di mancata decisione il ricorso 

si intende respinto (principio 

del “silenzio-rigetto”). 

Certamente una maggiore valenza 

interpretativa ha la precisazione 

che restano ancora in vigore gli 

artt. 10 e 11 del D.P.R. 19 marzo 

1955, n. 520. L’art. 10 del predetto 

D.P.R. n. 520/1955 dispone che 

«Le disposizioni impartite dagli 

ispettori del lavoro in materia di 

prevenzione infortuni sono esecutive. 

Sono parimenti esecutive, 

quando siano approvate dal capo 

dell’Ispettorato provinciale competente 

le disposizioni impartite 

dagli ispettori per l’applicazione 

di norme obbligatorie per cui sia 

attribuito all’Ispettorato dalle singole 

leggi un apprezzamento discrezionale. 

Contro tali disposizio- 


ni è ammesso ricorso al Ministro 

per il lavoro e la previdenza sociale 

entro quindici giorni, salvo 

quanto disposto dal successivo 

art. 31. Il ricorso non ha effetto 

sospensivo, salvo i casi nei quali 

la sospensione sia espressamente 

stabilita da disposizioni legislative 

o regolamentari, o il Ministro 

ritenga di disporla» [4] . Il successivo 

art. 11, invece, dispone che 

l’inosservanza della disposizione 

impartita in materia di sicurezza o 

igiene del lavoro è punita con l’arresto 

fino a un mese o dell’ammenda 

fino a euro 413. 

Per quanto concerne, infine, 

l’istituto della prescrizione obbligatoria 

(art. 15, D.Lgs. n. 

124/2004) - per il quale si è fatto 

pedissequa trasposizione delle norme 

del D.Lgs. n. 758/1994 - la 

circolare n. 24/2004 si è limitata a 

ricordare l’ambito applicativo - 

reati di natura contravvenzionale, 

con pena alternativa dell’arresto o 

dell’ammenda ovvero della sola 

ammenda - e che l’accesso ai benefici 

è ammesso non solo quando 

l’inadempienza può essere sanata, 

ma anche nelle ipotesi di reato a 

“condotta esaurita”; trattasi, pertanto, 

dei reati istantanei, con o 

senza effetti permanenti, nonché 

nelle fattispecie in cui il reo abbia 

autonomamente provveduto all’adempimento 

degli obblighi di 

legge sanzionati precedentemente 

all’emanazione della prescrizione: 

si rilevi la chiara trasposizione degli 

insegnamenti della Corte Costituzionale 

contenuti nella sentenza 

18 febbraio 1998, n. 19. 

Conclusioni 

Ancora una volta il tanto atteso 

chiarimento ministeriale non appaga 

completamente le aspettative, 

almeno su tre punti. Infatti, ci si 

attendeva soprattutto uno sforzo 

da parte del Ministero del Welfare 

che ponesse le basi per raccordare 

più efficacemente l’azione di vigilanza 

dei diversi organi ispettivi, 

promuovendo la concertazione e il 

coordinamento, ingredienti questi 

la cui mancanza determina un sistema 

di controllo con evidenti zone 

d’ombra. Un aspetto non secondario 

è il mancato richiamo all’art. 

24 del D.Lgs. n. 626/1994 

che non è stato armonizzato rispetto 

alle nuove funzioni di promozione, 

specie quelle individuate nell’art. 

8, comma 3. Infine, un’ultima 

annotazione di carattere generale 

riguarda l’istituto dell’interpello; 

non vi è dubbio che uno 

degli elementi che frequentemente 

pone in sofferenza gli addetti ai 

lavori nell’applicazione della legislazione 

in materia di sicurezza e 

igiene del lavoro è l’incertezza interprativa. 

Di fronte a questo problema 

così delicato - basti pensare 

a settori nevralgici come l’edilizia 

- il legislatore delegato ha scelto 

un modello operativo a ridotta efficacia, 

legato anche ad una procedura 

molto burocratica, che quasi 

ne disincentiva l’utilizzo e che appare 

escludere le associazioni di 

professionisti che allo stato attuale 

sono privi di un proprio Albo. 

Pertanto, bisognerà attendere nuovi 

chiarimenti anche se, ormai, la 

speranza di un sistema di vigilanza 

più equilibrato deve essere riposta 

nell’atteso Codice della sicurezza 

previsto dalla legge delega 

29 luglio 2003, n. 229, ed in odore 

di proroga di sei mesi [5] . 

[4] Consiglio di Stato, sez. VI, sent. del 16 maggio 1983, n. 354, Enel c. Ispettorato provinciale del lavoro di Rieti (p.d. 830740) in 

base al quale «L’art. 10 del D.P.R. 19 marzo 1955 n. 520, attribuisce all’ispettore del lavoro un generale potere di impartire 

disposizioni esecutive in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Pertanto tale potere può essere esercitato anche nei 

casi in cui le singole norme non demandino espressamente all’ispettore il compito di specificare misure di sicurezza indicate 

mediante “clausole generali”». Cfr. anche Consiglio di Stato, sez. VI, sent. del 5 marzo 1985, n. 82, Ministero del lavoro e della 

previdenza sociale c. Soc. Fiat (p.d. 850399); Consiglio di Stato, sez. VI, 19 luglio 1994, Ministero del lavoro c. Società 

Autostrade. 

[5] Mario Gallo, Approvata la delega al Governo per la definizione del nuovo codice, inAmbiente&Sicurezza, n. 18/2003, pag. 38. 


Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 

24 giugno 2004, n. 24 

Oggetto: D.Lgs. n. 125 del 23 aprile 2004. Chiarimenti 

e indicazioni operative 

Il Decreto Legislativo del 23 aprile 2004, n. 124 

introduce nell’ordinamento una organica riforma dei 

servizi di vigilanza in materia di lavoro, in attuazione 

della delega legislativa prevista dall’art. 8, legge 14 

febbraio 2003, n. 30, con particolare riferimento all’organizzazione 

complessiva e al coordinamento dell’attività 

ispettiva di tutti gli organismi competenti in materia 

di lavoro e legislazione sociale, nonché di quelli comunque 

impegnati sul territorio in azioni di contrasto al 

lavoro sommerso e irregolare, per profili diversi da 

quelli di ordine e sicurezza pubblica. 

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, anche 

a mezzo della Direzione Generale con compiti di direzione 

e di coordinamento delle attività ispettive, di cui 

all’art. 2 del D.Lgs. n. 124/2004 e della Commissione 

centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza, assume, 

nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni 

e alle Province autonome, le iniziative di contrasto al 

lavoro sommerso e irregolare, provvedendo a vigilare 

su tutto il territorio nazionale in materia di rapporti di 

lavoro e di livelli essenziali delle prestazioni concernenti 

diritti civili e sociali, anche promuovendo l’osservanza 

complessiva della normativa di legislazione sociale e 

del lavoro, ivi compresa l’applicazione dei contratti 

collettivi e della disciplina previdenziale. 

La Direzione Generale assume compiti di direzione 

delle attività ispettive, fornisce direttive operative e 

svolge attività di coordinamento nella vigilanza della 

predetta materia, assicurando l’esercizio unitario dell’attività 

ispettiva di competenza del Ministero del lavoro e 

degli Enti previdenziali, nonché l’uniformità di comportamento 

dei relativi organi di vigilanza. 

Compiti delle Direzioni regionali 

del lavoro (art. 4) 

Alle Direzioni regionali del lavoro (DRL) spetta il 

compito di coordinare sul relativo territorio regionale 

l’attività di vigilanza in materia, individuando linee 

operative e priorità di azione sulla base delle direttive 

emanate dalla Direzione Generale, anche conformemente 

agli indirizzi e agli obiettivi individuati dalla Commissione 

centrale di coordinamento. 

I Direttori regionali, nello svolgere tale attività di 

coordinamento, privilegiano un confronto diretto e costante 

con i Direttori regionali degli Enti previdenziali e 

assicurativi, favorendo ogni ulteriore attività di consultazione 

e di dialogo e comunque con incontri di coordinamento 

che abbiano luogo almeno ogni tre mesi. 



Documento 

Quanto alla composizione della Commissione regionale 

di coordinamento, istituita con decreto del Direttore 

della DRL, l’individuazione delle rappresentanze sindacali 

competenti ad effettuare la designazione dei rispettivi 

rappresentanti avviene, nell’ambito di quelle 

comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, 

fra le organizzazioni che a livello regionale hanno 

maggiore rappresentatività. 

Compiti delle Direzioni provinciali 

del lavoro (art. 5) 

Alle Direzioni provinciali del lavoro (DPL) spetta il 

compito di coordinare, nell’ambito territoriale di competenza, 

l’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione 

sociale fornendo le direttive necessarie a razionalizzare 

l’attività di vigilanza, al fine di evitare duplicazioni 

di interventi ed uniformarne le modalità di esecuzione. 

Al fine di garantire una più integrata ed efficace 

azione complessiva di contrasto del lavoro irregolare 

sul territorio e di evitare duplicità di interventi, deve 

ravvisarsi, anche a livello provinciale, l’opportunità di 

mantenere costanti rapporti con gli Enti impegnati nell’attività 

di vigilanza, con particolare riferimento a 

INPS e INAIL. 

In tal senso, sulla base delle indicazioni fornite dalle 

DRL e dalle Commissioni regionali, si ritiene opportuno 

favorire ogni attività di consultazione e di dialogo 

con tutti i soggetti interessati, da realizzarsi in particolare 

mediante incontri almeno trimestrali con i Direttori 

provinciali di INPS, INAIL, nonché degli altri Enti 

previdenziali. 

In ogni caso in cui sia necessario attivare un più 

stretto coordinamento operativo di tutti gli organi impegnati 

nell’azione di contrasto al lavoro irregolare, sono 

convocati i CLES, nella composizione prevista dal 

D.Lgs. n. 124/2004, che sostituiscono operativamente 

le commissioni provinciali di coordinamento della vigilanza. 

A tal proposito si ritiene opportuno precisare che 

la partecipazione al CLES del Comandante provinciale 

della Guardia di finanza, del rappresentante degli Uffici 

locali dell’Agenzia delle entrate e del presidente della 

Commissione provinciale per la emersione del lavoro 

non regolare di cui all’articolo 78, comma 4, della L. n. 

448/1998, è conseguenza automatica della previsione 

normativa e non necessita di alcun ulteriore atto amministrativo. 

A tali organismi spetta, infatti, il ruolo di supporto 

del Dirigente, supporto che nelle rispettive sedi nazionale 

e regionali è riservato alle apposite Commissioni 

centrale e regionali di coordinamento. 



Documento 

Inoltre i CLES dovranno redigere un rapporto trimestrale 

sullo stato del mercato del lavoro e sui risultati 

della attività ispettiva nella provincia di competenza, 

anche avvalendosi degli esiti dell’attività delle Commissioni 

per l’emersione del lavoro non regolare. 

Ogni anno dovrà essere, altresì, redatta una relazione 

di sintesi sull’attività svolta. 

Le relazioni trimestrali e annuali dovranno essere 

inviate alle DRL che, a loro volta, trasmetteranno i dati 

elaborati alla Direzione Generale per le valutazioni complessive. 

Al fine di predisporre e redigere le relazioni di cui 

sopra, i CLES potranno articolarsi in sottocommissioni 

operative che procederanno alla necessaria attività di 

raccolta dati e alla istruttoria di tali documenti. 

Si ritiene opportuno, infine, che il dirigente dell’ufficio, 

ferma restando la propria autonomia decisionale e 

le sue prerogative, consulti i responsabili dei Servizi 

Ispezione Lavoro e Politiche del Lavoro, nonché dell’Ufficio 

Legale, onde acquisire i dati statistici e le 

segnalazioni di merito da portare quali elementi di discussione 

all’interno dei CLES. 

Personale ispettivo (art. 6) 

Nulla muta rispetto al passato con riferimento all’esercizio 

delle funzioni di vigilanza in materia di lavoro 

e di legislazione sociale da parte del personale in 

forza presso le DRL e le DPL, nonché del personale di 

vigilanza di INPS, INAIL, ENPALS e degli altri Enti 

per i quali sussiste la contribuzione obbligatoria nell’ambito 

dell’attività di verifica del rispetto degli obblighi 

previdenziali e contributivi. 

Il personale ispettivo in forza presso le direzioni 

regionali e provinciali del lavoro, nei limiti del servizio 

cui è destinato e secondo le attribuzioni conferite dalla 

normativa vigente, opera anche in qualità di ufficiale di 

Polizia Giudiziaria. 

Ove in occasione della attività ispettiva si riscontri, 

da parte del personale di vigilanza degli enti previdenziali, 

la sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, le 

comunicazioni di legge andranno effettuate direttamente 

all’Autorità Giudiziaria ai sensi dell’art. 331 c.p.p.. 

Restano evidentemente fermi i poteri di contestazione 

degli illeciti amministrativi in capo a tutto il personale 

di vigilanza, indipendentemente dal possesso della 

qualifica di Ispettore del lavoro, delle DRL e delle DPL, 

nonché degli Enti previdenziali. 

Competenze delle Direzioni 

del Lavoro (artt. 7 e 8) 

Le Direzioni del lavoro hanno competenza generale 

in materia di vigilanza sulla tutela dei rapporti di lavoro 

e di legislazione sociale ovunque sia prestata attività 

lavorativa, prescindendo dalla specifica tipologia contrattuale 

adottata dalle parti contraenti. 


Al personale delle DPL è affidato anche il compito 

di svolgere attività di prevenzione e promozione finalizzata 

al rispetto della normativa lavoristica e previdenziale, 

su questioni di rilevanza generale, nonché sulle novità 

legislative e interpretative. Tali iniziative sono organizzate 

dalle DRL e dalle DPL, anche in concorso con i 

CLES e con le Commissioni Regionali e Provinciali, 

che ne stabiliscono le modalità di svolgimento. 

Le problematiche trattate nel corso di tali attività non 

possono riguardare, peraltro, singoli casi concreti o problemi 

particolari di interesse aziendale, essendo questi 

prerogativa tipica dei consulenti del lavoro e delle altre 

figure professionali di cui alla legge n. 12/1979. 

Nel corso di tali iniziative, che possono aver luogo 

anche presso le aziende, il personale, ove rivesta qualifica 

ispettiva, non esercita funzioni di vigilanza né può 

svolgere alcuna attività di accertamento. 

L’attività informativa, promozionale e preventiva 

può essere svolta, altresì, nel corso dell’attività ispettiva 

qualora emergano profili di inosservanza e di non corretta 

applicazione della normativa, in assenza di rilievi 

sanzionatori di tipo penale o amministrativo. 

Anche in queste situazioni, il personale ispettivo può 

fornire chiarimenti e indicazioni operative che devono 

fondarsi esclusivamente su circolari e su posizioni ufficiali 

del Ministero del lavoro (e degli Enti di previdenza 

per i profili di competenza). 

Sulla base di una apposita convenzione, il cui schema 

sarà definito da successivo Decreto Ministeriale, la 

Direzione Generale e le DRL e DPL e gli Enti previdenziali, 

anche d’intesa tra loro, potranno svolgere attività 

di informazione ed aggiornamento nei confronti di enti, 

datori di lavoro ed associazioni a cura e spese degli 

stessi, secondo quanto stabilito dal predetto Decreto. 

La disciplina sopra descritta non trova applicazione 

sino all’emanazione del decreto ministeriale che stabilirà 

lo schema delle convenzioni e i relativi profili economici. 

Diritto di interpello (art. 9) 

Il diritto di interpello compete esclusivamente ad enti 

pubblici, associazioni di categoria e ordini professionali. 

Tale facoltà consiste nella possibilità di porre alle 

DPL e agli Istituti previdenziali quesiti di ordine generale 

sull’applicazione delle normative, nelle materie di 

rispettiva competenza. 

Tali quesiti, inoltrati alle sedi competenti esclusivamente 

in via telematica, dovranno essere istruiti rispettivamente 

dalle DPL e dagli Istituti previdenziali destinatari 

degli stessi e quindi tempestivamente inviati alla 

Direzione Generale corredati da apposita relazione. 

Per quanto sopra precisato, in relazione a tale particolare 

procedura, le DPL e le sedi periferiche degli Istituti 

non potranno dare seguito a quesiti di carattere particolare 

o proposti dalle singole aziende. 


Peraltro ogni attività di carattere “informativo” nei 

confronti delle aziende e dei lavoratori può continuare 

ad essere svolta dal personale ispettivo, senza che tale 

attività possa integrare i requisiti tipici della consulenza 

del lavoro, che rimane riservata ai professionisti di cui 

all’art. 1 della legge n. 12/1979. 

Fermi restando gli effetti civili fra le parti e le eventuali 

conseguenze sul piano previdenziale, nel caso in 

cui il datore di lavoro provveda ad adeguarsi a quanto 

forma oggetto della risposta all’interpello, tale comportamento 

adesivo va valutato ai fini della sussistenza dell’elemento 

soggettivo (colpa o dolo) nella commissione 

degli illeciti amministrativi (art. 3 della legge n. 

689/1981) nonché dell’applicazione delle sanzioni civili. 

Si fa riserva di comunicare l’indirizzo di posta elettronica 

della Direzione Generale per la trasmissione dei 

quesiti. 

Razionalizzazione dell’attività 

di vigilanza (art. 10) 

In attesa del Decreto Ministeriale che stabilirà le 

modalità di attuazione e il funzionamento della banca 

dati telematica, al fine di evitare duplicazione di interventi 

ispettivi in materia di lavoro previdenza e assistenza 

sociale, tutti gli organi di vigilanza interessati provvedono 

con la massima tempestività a comunicare reciprocamente 

i nominativi dei datori di lavoro ispezionati, 

secondo modalità definite sulla base di intese raggiunte 

a livello regionale o provinciale. 

Tali comunicazioni vanno effettuate mediante indirizzo 

di posta elettronica riservato ad uso dei Dirigenti e 

dei Responsabili dei servizi ispettivi di DPL, INPS, 

INAIL e degli altri Enti previdenziali interessati. 

Nell’ottica di un maggior coordinamento e cooperazione, 

i Direttori delle DRL istituiscono Gruppi di intervento 

straordinario in ambito regionale, nel rispetto 

delle direttive della Direzione Generale, d’intesa con il 

Comando Nucleo Carabinieri presso l’Ispettorato del 

lavoro e con le Direzioni regionali di INAIL e INPS. 

Il coordinamento del gruppo è affidato, dal Dirigente 

o dal responsabile del Settore Ispettivo della DRL, ad 

uno degli Ispettori del lavoro che lo compongono. 

Nelle more della attuazione del modello unificato di 

verbale ispettivo, che costituisce uno strumento unitario 

di rilevazione degli illeciti, si sottolinea l’importanza 

del comma 5 dell’art. 10 per il quale i verbali di accertamento 

del personale che effettua vigilanza costituiscono 

fonte di prova in ordine agli elementi di fatto acquisiti e 

documentati e possono essere reciprocamente utilizzati 

per l’adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori 

amministrativi e civili di competenza dei relativi organi 

ispettivi. 

L’utilizzabilità diretta delle acquisizioni effettuate 



Documento 

dai vari organi di controllo risulta infatti conforme ai 

principi di buon andamento ed efficacia della pubblica 

amministrazione, in quanto rende possibile, ai fini della 

adozione dei provvedimenti sanzionatori, l’utilizzazione 

degli elementi acquisiti in sede di vigilanza anche da 

altri soggetti purché tali elementi siano contenuti nei 

verbali di accertamento che, come è noto, godono tutti 

della medesima fede privilegiata (cfr. ex multis, Cass. 

Sez. Civ. del 11 giugno 2001, n. 7832). (omissis) 

Diffida (art. 13) 

Il personale ispettivo, anche degli Enti previdenziali 

per i profili di competenza, che durante un accertamento 

constata l’inosservanza di norme per inadempimenti 

cui la legge ricollega sanzioni amministrative, nel verbale 

di ispezione deve provvedere “a diffidare il datore di 

lavoro alla regolarizzazione delle inosservanze comunque 

sanabili, fissando il relativo termine”. 

La diffida opera dunque quale condizione di procedibilità 

in ipotesi di illeciti amministrativi che risultano accertati 

e provati e se le inadempienze risultano sanabili. 

In primo luogo sono da ritenersi escluse dall’ambito 

della diffida tutte le violazioni in cui l’interesse sostanziale 

(soprattutto relativo alla tutela dell’integrità psicofisica 

e della personalità morale) protetto dalla norma 

non è in alcun modo recuperabile (ad es. per aver fatto 

superare le 48 ore medie di lavoro settimanale, per non 

aver rispettato adempimenti, di tipo non meramente 

documentale, in materia di apprendistato, lavoro minorile 

e genitori lavoratori, per aver utilizzato lavoratori 

dello spettacolo privi del certificato di agibilità). 

Sono invece da ritenersi “sanabili” le violazioni amministrative 

relative ad adempimenti omessi, in tutto o 

in parte, che possono ancora essere materialmente realizzabili, 

anche qualora la legge preveda un termine per 

l’effettuazione dell’adempimento (illeciti omissivi istantanei 

con effetti permanenti). 

Appare invece possibile attivare la procedura in esame 

anche nelle ipotesi in cui il trasgressore abbia, ancor 

prima dell’adozione della diffida, posto in essere il 

comportamento dovuto, sia pur tardivamente. In tale 

circostanza infatti - analogamente a quanto avviene in 

materia di prescrizione obbligatoria - risulterebbe incongruo 

penalizzare chi effettua comunque un adempimento 

dovuto oltre il termine previsto rispetto a chi lo 

ometta totalmente. Tale fattispecie inoltre rientra, seppur 

latamente, nella nozione di sanabilità in quanto la 

finalità tutelata dalla disposizione viene comunque salvaguardata 

mediante un comportamento posto in essere 

volontariamente dal trasgressore. 

Evidentemente, in tale ipotesi, non si avrà un vero e 

proprio atto di diffida ma un accertamento della condotta 

posta in essere e conseguente ammissione al pagamento 

della sanzione ai sensi dell’articolo 13 del decreto 

(diffida ora per allora). 



Documento 

Se il datore di lavoro ottempera alla diffida il procedimento 

sanzionatorio si estingue mediante il pagamento di 

una somma agevolata a titolo di sanzione, pari al minimo 

fissato dalla legge oppure, in caso di sanzioni in misura 

fissa, a un quarto dell’importo stabilito. 

Va comunque rilevato che nelle ipotesi in cui l’ammontare 

della somma, determinato ai sensi dell’articolo 13 del 

decreto, sia superiore alla sanzione in misura ridotta, quantificata 

ai sensi dell’articolo 16 della L. n. 689/1981, non è 

evidentemente conforme alla finalità dell’istituto procedere 

con l’atto di diffida. 

La nuova diffida, inoltre, interrompe i termini di cui 

all’art. 14 della legge n. 689/1981, “fino alla scadenza del 

termine per la regolarizzazione”, pertanto, verificata l’inottemperanza, 

l’attività ispettiva riprende il suo corso. 

Si ricorda, da ultimo, che la diffida trova applicazione a 

decorrere dal 27 maggio 2004 ed è applicabile anche alle 

violazioni commesse antecedentemente a tale data. 

Disposizione (art. 14) 

L’art. 14 del decreto attribuisce efficacia “esecutiva” 

alle disposizioni impartite dal personale ispettivo in materia 

di lavoro e di legislazione sociale, “nell’ambito dell’applicazione 

delle norme per cui sia attribuito dalle singole 

disposizioni di legge un apprezzamento discrezionale”. 

Il provvedimento è ricorribile entro 15 giorni con ricorso 

al Direttore della DPL competente per territorio, il 

quale è chiamato a decidere nei successivi 15 giorni, in 

caso di mancata decisione il ricorso si intende respinto 

(cosiddetto “silenzio-rigetto”). 

A differenza della diffida, la disposizione impone al 

datore di lavoro un obbligo nuovo, che viene a specificare 


Con la circolare del MinWelfare n. 25/2004 

entrano a pieno regime le Agenzie per il lavoro 

quello genericamente previsto dalla legge, specie laddove 

essa non regolamenta fin nei dettagli la singola fattispecie 

considerata. 

Rimangono, peraltro, in vigore gli artt. 10 e 11 del 

D.P.R. 19 marzo 1955, n. 520; pertanto, l’inottemperanza 

alla disposizione del funzionario ispettivo seguita ad essere 

soggetta alle previste sanzioni amministrative e penali, 

secondo la distinzione per materia. 

Prescrizione obbligatoria (art. 15) 

La “prescrizione obbligatoria” è un provvedimento impartito 

dal personale ispettivo nell’esercizio delle funzioni 

di polizia giudiziaria, conseguente all’accertamento di violazioni 

che costituiscono reato. 

Nel ridefinire l’istituto, il decreto non ha inteso intaccare 

la struttura originaria dello strumento, già ottimamente funzionante 

e strategicamente efficace, limitandosi ad operarne 

una estensiva applicazione a tutte le ipotesi di reato in cui 

sia prevista la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda 

ovvero punite soltanto con ammenda (art. 15, co. 1). 

La prescrizione si applica non soltanto quando l’inadempienza 

può essere sanata, ma anche nelle ipotesi di 

reato a “condotta esaurita”, vale a dire nei reati istantanei, 

con o senza effetti permanenti, nonché nelle fattispecie in 

cui il reo abbia autonomamente provveduto all’adempimento 

degli obblighi di legge sanzionati precedentemente 

all’emanazione della prescrizione. 

La nuova “prescrizione obbligatoria”, dunque, si presenta 

quale omologo della nuova diffida: l’una opera nelle 

ipotesi di illecito amministrativo (ma solo se l’inadempimento 

è sanabile), l’altra a fronte di violazioni di carattere 

penale (in ogni caso). 

(omissis) l 

L’emanazione del decreto del Ministero del Lavoro 5 maggio 2004, in Gazzetta Ufficiale del 2 luglio 2004, n. 153, e della 

circolare 24 giugno 2004, n. 25, in Gazzetta Ufficiale del 30 giugno 2004, n. 151, da parte del Ministero del Lavoro 

consente il decollo definitivo del nuovo statuto delle Agenzie per il Lavoro previsto dell’art. 4 del D.Lgs. n. 276/2003 

(legge Biagi). In particolare la nuova circolare fornisce chiarimenti operativi in ordine alle procedure d’iscrizione all’Albo 

e d’autorizzazione allo svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale 

e supporto alla ricollocazione professionale. Nella disamina ministeriale viene puntualizzato che nel “documento 

analitico” previsto per l’iscrizione tra i vari requisiti è necessario attestare la conformità alla normativa in materia di 

sicurezza ed igiene dei luoghi di lavoro. In tale documento, inoltre, dovrà essere descritto il modello organizzativo 

dell’agenzia, con la specificazione delle unità organizzative presenti sul territorio («unità organizzative, dislocate 

territorialmente» ex articolo 5, comma 2, D.M. 23 dicembre 2003), dell’organico, ossia del personale dell’agenzia; della 

disponibilità dei locali e delle attrezzature richieste dall’articolo 2, comma 1, del già citato D.M. 5 maggio 2004. 

Al punto 7, viene anche richiamato l’articolo 2 del D.M. 5 maggio 2004, il quale definisce le caratteristiche minime 

dei locali destinati dai soggetti autorizzati allo svolgimento dell’attività oggetto dell’autorizzazione. Dopo avere 

chiarito il concetto di sportello - unità organizzative che nello svolgimento dell’attività autorizzata accolgono 

direttamente e offrono un servizio ai clienti - viene sottolineato che nel caso in cui gli sportelli esistenti delle 

agenzie necessitassero di un adeguamento per garantire l’accessibilità dei locali ai disabili, per il tempo strettamente 

necessario e purché siano stati avviati i lavori, le stesse dovranno assicurare in ogni caso l’accesso al servizio da 

parte dei disabili, anche erogando il servizio stesso fisicamente fuori dai locali dell’agenzia. Si osservi che il rispetto 

della normativa sull’accesso ai disabili è richiesto anche da parte degli studi professionali dei consulenti del 

lavoro che erogano il servizio. 


RASSEGNA DI LEGISLAZIONE 


ITALIA 

INTEGRATORI ALIMENTARI 

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 169 

«Attuazione della direttiva 2002/46/CE relativa 

agli integratori alimentari» (G.U. 

del 15 luglio 2004, n. 164) 

Il D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 169, attua la disciplina 

comunitaria in materia di «integratori alimentari», 

intendendo come tali «i prodotti alimentari 

destinati ad integrare la comune dieta 

e che sostituiscono una fonte concentrata di 

sostanze nutritive, quali le vitamine e i minerali, 

o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o 

fisiologico, in particolare ma non in via esclusiva 

aminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre ed 

estratti di orgine vegetale, sia monocomposti 

che pluricomposti, in forme predosate» (art. 2, 

comma 1). In particolare risulta disciplinata la 

commercializzazione di dette sostanze come 

prodotti alimentari (e presentate come tali), le 

quali dovranno necessariamente essere commercializzate 

in forma preconfezionata. 

La nuova disciplina detta norme per tutte le fasi 

di «processo» e messa in commercio degli integratori 

alimentari, dalle vitamine e minerali utilizzabili 

(con relativi criteri di purezza delle fonti 

e livelli massimi ammissibili), alle regole in 

materia di produzione e confezionamento (consentite 

solo in stabilimenti autorizzati ex art. 

10, D.Lgs. n. 111/1992), di etichettatura (tra l’altro 

obbligo di apporre la denominazione «integratore 

alimentare») o di pubblicità, vietando - 

nel caso di integratori propagandati in qualunque 

modo come coadiuvanti di regimi dietetici 

ipocalorici volti alla riduzione del peso - la 


LEGISLAZIONE 

In breve 

possibilità di fare riferimento ai tempi o quantità 

di perdita di peso conseguenti al loro impiego 

(art. 7, comma 1). La messa in commercio 

potrà avvenire soltanto previo invio, da parte 

dell’impresa interessata, al Ministero della Salute 

del modello di etichetta utilizzata per il prodotto 

in questione, con facoltà delle autorità 

ministeriali di apporre divieti (art. 10). Il decreto 

rinvia alla disciplina generale di cui alla legge n. 

283/1962 per quanto non altrimenti disposto e 

commina al Ministero della Salute la definizione 

di un Piano annuale di vigilanza sui prodotti 

de quo. È previsto, infine, un doppio binario 

sanzionatorio, con sanzioni pecuniarie penali 

(ammenda da euro 2.000 a euro 20.000) in caso 

di commercializzazione non in forma preconfezionata 

ovvero per la trasgressione alle disposizioni 

in materia di vitamine e alimentari utilizzabili 

(artt. 1, 3 e 15, comma 1), e sanzioni pecuniarie 

amministrative per tutti gli altri tipi di violazioni 

(art. 15, commi 2-4), salvo, naturalmente, 

la configurabilità di deteriori ipotesi di reato. 

QUALITÀ PRODOTTI AGROALIMENTARI 

Decreto del Ministero delle Politiche 

agricole e forestali 15 giugno 2004 

«Aggiornamento del manuale operativo 

e delle procedure dei controlli di conformità 

alle norme comuni di qualità sui prodotti 

ortofrutticoli di cui all’art. 9, comma 1, del 

decreto ministeriale 28 dicembre 2001, adottato 

con decreto ministeriale 3 dicembre 2003, 

in attuazione del regolamento (CE) n. 

1148/2001 della Commissione CE, in materia di 

controlli di conformità alle norme di commercializzazione, 

applicabili nel settore degli ortofrutticoli 

freschi» (G.U. del 15 luglio 2004, n. 

164) 


LEGISLAZIONE 

In breve 

Il D.M. 15 giugno 2004 sostituisce gli allegati 

D, G, M e O del manuale operativo delle procedure 

dei controlli di conformità alle norme 

comuni di qualità sui prodotti ortofrutticoli, 

ex D.M. 3 dicembre 2003 indicato al titolo, 

sostanzialmente introducendo le nuove check-list 

relative alla domanda di iscrizione nella 

banca dati, alla richiesta di controllo all’import-export 

e alla notifica di spedizione. Risulta, 

altresì, abrogata la precedente disciplina di 

cui al D.M. 3 luglio 2002 in materia di controlli 

di conformità alle norme di commercializzazione 

applicabili nel settore degli ortofrutticoli 

freschi. 

SICUREZZA GENERALE DEI PRODOTTI 

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 172 

«Attuazione della direttiva n. 2001/95/CE 

relativa alla sicurezza generale dei prodotti» 

(G.U. del 16 luglio 2004, n. 165) 

Il D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 172, di derivazione 

comunitaria, garantisce, in linea generale, la sicurezza 

dei prodotti immessi sul mercato ovvero 

in libera pratica, intendendo per “prodotto” 

«qualsiasi prodotto destinato al consumatore, 

anche nel quadro di una prestazione di servizi, 

o suscettibile, in condizioni ragionevolmente 

prevedibili, di essere utilizzato dal consumatore, 

anche se non a lui destinato, fornito o reso 

disponibile a titolo oneroso o gratuito nell’ambito 

di un’attività commerciale, indipendentemente 

dal fatto che sia nuovo, usato o rimesso 

a nuovo». Risultano sottratti al campo applicativo 

i prodotti usati, forniti come pezzi d’antiquariato, 

o come prodotti da riparare o da rimettere 

a nuovo prima dell’utilizzazione, purché il 

fornitore ne informi per iscritto la persona cui 

fornisce il prodotto (art. 2, comma 1, lett. a). 

Secondo un principio di specialità delle leggi, 

inoltre, qualora un prodotto sia soggetto a requisiti 

di sicurezza prescritti a livello di normati- 


va comunitaria, la nuova disciplina prevista dal 

decreto sarà applicabile soltanto in riferimento 

agli aspetti ed ai rischi/categorie di rischi non 

soggetti alla normativa settoriale. Restano, inoltre, 

sottratti al campo applicativo del D.Lgs. n. 

172/2004 anche i prodotti alimentari ex Regolamento 

(CE) n. 178/2002. A carico del produttore 

e del distributore sono, dunque, previsti taluni 

stringenti obblighi quali, innanzitutto, il principio 

generale per il produttore (vedi infra) di 

immettere sul mercato soltanto «prodotti sicuri» 

(art. 3, comma 1). Il concetto di sicurezza è, a 

propria volta, estremamente ampio, dovendosi 

intendere come tale «qualsiasi prodotto che, in 

condizioni di uso normali o ragionevolmente 

prevedibili, compresa la durata e, se del caso, la 

messa in servizio, l’installazione e la manutenzione, 

non presenti alcun rischio oppure presenti 

unicamente rischi minimi, compatibili con l’impiego 

del prodotto e considerati accettabili nell’osservanza 

di un livello elevato di tutela della 

salute e della sicurezza delle persone» in funzione, 

in particolare, di alcuni elementi classificati 

quali: 1) le caratteristiche del prodotto, specie la 

sua composizione, il suo imballaggio, le modalità 

del suo assemblaggio e, se del caso, la sua 

installazione e manutenzione; 2) l’effetto del 

prodotto su altri prodotti, qualora sia ragionevolmente 

prevedibile l’utilizzazione del primo 

con i secondi; 3) la presentazione del prodotto, 

della sua etichettatura, delle eventuali avvertenze 

e istruzioni per il suo uso e la sua eliminazione, 

nonché di qualsiasi altra indicazione o 

informazione relativa al prodotto; 4) le categorie 

di consumatori che si trovano in condizione 

di rischio nell’utilizzazione del prodotto, in 

particolare dei minori e degli anziani (art. 2, 

comma 1, lett. b). La possibilità di raggiungere 

un livello di sicurezza superiore o di procurarsi 

altri prodotti che presentano un rischio minore 

non costituisce un motivo sufficiente per 

considerare un prodotto come non sicuro o 

pericoloso, cioè non rispondente alla definizione 

di prodotto sicuro appena citata. l 


a cura di Pierguido Soprani, avvocato, 

MACCHINA SENZA PORTATA MASSIMA 

Cassazione penale, sez. IV, 

(ud. 30 aprile 2003) 

17 ottobre 2003, n. 39182, 

Pres. Battisti, Rel. Iacopino 

Prevenzione degli infortuni - Lavoro in cantiere 

- Uso di una gru - Omessa indicazione 

della portata massima ammissibile - Carenza 

del costruttore - Responsabilità del medesimo 

- Sussiste - Responsabilità del datore 

di lavoro - Valutazione - Sussiste 

Il costruttore e il datore di lavoro sono entrambi 

responsabili, a titolo autonomo, della mancata 

rispondenza di un’attrezzatura di lavoro alla normativa 

antinfortunistica (fattispecie in tema di 

omicidio colposo da errato uso di una gru di 

sollevamento). 

Nota 

Il caso all’attenzione della Corte di Cassazione 

ha riguardato l’infortunio, con conseguenze 

mortali, occorso ad un gruista ribaltatosi dopo 

avere sollevato dieci traverse in cemento armato 

con una gru. Nei gradi di merito erano stati condannati 

tanto il datore di lavoro, quanto i costruttori 

della gru, in relazione alla mancata indicazione, 

sulla macchina, al momento della vendita, 

della portata legale. Tale portata era di kg. 

2900 mentre, al momento dell’utilizzo da parte 

del lavoratore deceduto, la gru presentava un 

sovraccarico, avendo alzato un peso di oltre 

4000 kg. 

Il ricorso per Cassazione veniva proposto da uno 

dei due costruttori, il quale osservava in primo 

luogo che l’applicazione della targa di indicazione 

della portata massima ammissibile avveniva 

per prassi generale durante il processo di costruzione, 

cosicché non si vede perché, proprio nel 

caso di specie, si fosse dovuta fare un’eccezione; 

dunque la targhetta autoadesiva indicante la 

portata legale si era verosimilmente staccata o 

cancellata con la manutenzione del mezzo, anche 

perché questo era stato venduto otto anni 

prima dell’infortunio. Secondariamente, atteso 

che il perito aveva accertato che la macchina 

aveva sollevato un peso di kg 4.195, con una 


RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA 

differenza in meno di kg 538 rispetto al punto di 

ribaltamento individuato in kg 4.733, non essendo 

stato raggiunto tale punto, si doveva dedurre 

che la gru non si sarebbe ribaltata se non avesse 

operato in quelle condizioni, come dimostrato 

dal fatto che nessun incidente si era verificato in 

8 anni dall’acquisto, nonostante il sollevamento 

di traversine per kg 4.195. 

La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha svolto le 

seguenti considerazioni: 

- che le modalità dell’incidente erano dovute ad 

un insieme di irregolarità che, come evidenziato 

dal perito nominato, riguardavano il superamento 

della portata legale della gru, il posizionamento 

della macchina (presenza di un avvallamento 

del terreno al di sotto di un pneumatico dal lato 

del ribaltamento), la non corretta posizione dei 

martinetti con conseguente oscillazione del carico 

sollevato, la mancanza di una ruota e l’insufficiente 

pressione delle altre; 

- che la gru si era ribaltata perché al sollevamento 

di un peso superiore a quello di cui alla portata 

legale (oltre mille chili rispetto a questa) si 

erano aggiunte le altre irregolarità relative alla 

manutenzione della macchina; 

- che, ciò nonostante, il ribaltamento non si sarebbe 

potuto determinare, qualora la gru avesse 

sollevato un carico compreso nella portata legale. 

In siffatto contesto, i Giudici hanno ritenuto 

l’importanza, nel determinismo causale dell’evento, 

dell’omessa indicazione sulla gru, al momento 

della vendita, della portata legale consentita 

(2900 Kg. nell’impiego concreto della macchina), 

e l’irrilevanza del fatto che non fosse stato 

superato nell’uso della gru il limite massimo di 

portata, costituendo la fissazione della portata 

in Kg. 2900 un misura prudenziale da rispettare 

proprio nella previsione di eventuali irregolarità 

nell’uso della macchina, in modo da assicurare, 

comunque, condizioni di sicurezza. 

INFORTUNIO SUL LAVORO: 

CALCOLO DELLA PENA PECUNIARIA 


(ud. 4 luglio 2003) 

26 settembre 2003, n. 36991, 

Pres. Coco, Rel. Piccialli 

GIURISPRUDENZA 

Massime 

Infortunio sul lavoro - Lesioni personali - 

Condanna del datore di lavoro - Giudizio 



Massime 

di equivalenza delle circostanze - Irrogazione 

della pena pecuniaria - Errore nel 

calcolo della pena - Valutazione - Restituzione 

degli atti al Giudice di merito. 

Incorre in errore di diritto nella quantificazione 

della pena il Giudice che, a seguito di giudizio 

di equivalenza tra le circostanze, la determini 

in misura superiore al massimo edittale 

(fattispecie di applicazione di pena pecuniaria 

in tema di infortunio sul lavoro). 

Nota 

Nella vicenda giudiziaria in oggetto il datore di 

lavoro, condannato in entrambi i gradi del giudizio 

di merito per il reato di lesioni colpose aggravate 

dalla violazione delle norme per la prevenzione 

degli infortuni sul lavoro, si vedeva inflitta 

dalla Corte di Appello, previo giudizio di equivalenza 

delle attenuanti generiche rispetto alle 

contestate aggravanti, la pena pecuniaria quantificata 

nella misura di 600 euro. 

Con il ricorso per Cassazione l’imputato, pur 

avendo ottenuto, in conformità alla richiesta 

difensiva, la riforma della sentenza di primo 

grado che aveva irrogato la pena detentiva, 

lamentava che la Corte di Appello aveva comminato 

una pena difforme e superiore rispetto 

a quella prevista dall’art. 590, comma 1 del 

Codice penale, risultante all’esito del giudizio 

di comparazione delle circostanze. 

La Cassazione ha riconosciuto che, nel determinare 

la pena, «il giudice è incorso in un evidente 

errore», poiché per l’ipotesi in contestazione 

nel processo era prevista l’applicabilità della 

pena alternativa della multa sino ad euro 

309. L’ulteriore valutazione del Supremo collegio 

è stata che «solo il giudice di merito è 

titolare del potere di verificare la congruità e 

la legittimità della pena», e che «l’errore in 

questione non è suscettibile di rettifica diretta 

da parte di questa Corte (...) di talché deve 

essere disposto l’annullamento sul punto della 

sentenza impugnata», con la conseguenza 

che il giudice del rinvio «dovrà quindi correttamente 

rideterminare la pena pecuniaria entro 

i limiti edittali; ferme, ovviamente, le statuizioni 

sull’accertamento del reato, sulla responsabilità 

dell’imputato e sul giudizio di comparazione 

delle circostanze». 

Nell’ipotesi di lesioni personali gravi, con prognosi 

di invalidità temporanea superiore ai 40 


giorni, aggravata dalla commissione del fatto 

con violazione delle norme per la prevenzione 

degli infortuni sul lavoro, l’art. 590 del Codice 

penale prevede la pena alternativa della reclusione 

da due a sei mesi o della multa da euro 

206 a euro 619. Peraltro, a seguito della concessione 

delle attenuanti generiche ritenute 

equivalenti al profilo circostanziale aggravante, 

l’esito del giudizio di comparazione riconduceva 

la pena nella previsione base della reclusione 

fino a tre mesi o della multa fino a 

euro 309: infatti l’art. 69 c.p. «Concorso di 

circostanze aggravanti e attenuanti», stabilisce 

che, qualora il giudice ritenga che fra le 

circostanze aggravanti e quelle attenuanti vi 

sia equivalenza, è tenuto ad applicare la pena 

avendo come riferimento quella prevista per il 

reato base (cioè come se le circostanze contestate 

non sussistessero). 

È insegnamento costante della giurisprudenza 

di legittimità che l’illegalità della pena applicata 

costituisce motivo di ricorso per Cassazione 

per violazione della legge penale; in tal 

caso, come è avvenuto nel caso di specie, la 

Corte di Cassazione non può procedere alla 

correzione dell’errore, irrogando una pena diversa, 

ma deve limitarsi ad annullare sul punto 

la sentenza, con rinvio al Giudice di merito 

(Cass., sez. III, 16 febbraio 1999, Zanon; Cass., 

sez. VI, 13 febbraio 1995, Rossi; Cass., sez. V, 

22 settembre 1993, Curci; Cass., sez. II, 4 novembre 

1992, Capitieri). 

CONDANNA A PENA PECUNIARIA 

E SOSPENSIONE CONDIZIONALE 

Cassazione penale, sez. III, 

(ud. 15 luglio 2003) 

24 settembre 2003, n. 36621, 

Pres. Grassi, Rel. Franco 

Prevenzione infortuni - Reati contravvenzionali 

- Condanna del datore di lavoro - 

Irrogazione della pena pecuniaria - Mancata 

concessione della sospensione condizionale 

della pena chiesta dall’imputata - Vizio 

di motivazione - Valutazione - Sussiste 

È nulla per totale carenza di motivazione la 

sentenza di condanna che abbia implicitamente 

rigettato la richiesta dell’imputato di 


concessione della sospensione condizionale 

della pena (fattispecie in tema di condanna 

del datore di lavoro, con irrogazione della 

sola pena pecuniaria, per alcuni reati in tema 

di sicurezza e di prevenzione degli infortuni 

sul lavoro). 

Nota 

Il caso oggetto della valutazione da parte 

della Corte di Cassazione riguardava la condanna 

subita in primo grado dal datore di 

lavoro, per alcune violazioni alla normativa 

prevenzionistica posta a tutela delle condizioni 

di lavoro, e l’omessa concessione del beneficio 

della sospensione condizionale della pena, 

ritualmente richiesto dal difensore nello 

svolgimento delle conclusioni in pubblica 

udienza. 

Nel proporre ricorso per cassazione l’imputato 

aveva lamentato che, nonostante la richiesta 

difensiva di concessione dei benefici di 

legge, e sebbene egli avrebbe potuto beneficiare 

quanto meno della sospensione condizionale 

della pena, il Giudice di merito non 

aveva concesso il beneficio senza alcuna motivazione 

al riguardo. 

La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, 

valutando che dal verbale di udienza effettivamente 

risultava che il difensore aveva chiesto 

espressamente la concessione di entrambi 

benefici di legge (sospensione condizionale 

della pena e non menzione della condanna 

nel certificato penale), e che non sussistevano 

ostacoli obiettivi alla concessione della 

sospensione condizionale della pena, in quanto 

l’imputato aveva un solo precedente per 

una contravvenzione tributaria con condanna 

alla pena dell’ammenda, senza concessione, 

all’epoca, dei suddetti benefici. 

Il rigetto dell’istanza difensiva, implicitamente 

desumibile dalla mancata concessione del 

beneficio richiesto, ha determinato la nullità 

della sentenza impugnata, in quanto affetta 

da vizio di totale carenza di motivazione sul 

punto, con conseguente restituzione degli atti 

al Giudice di prime cure per un nuovo giudizio. 

La disciplina dell’istituto della sospensione 

condizionale della pena nel Codice penale 

(artt. 163 e segg.) prevede che, nel pronunciare 

sentenza di condanna alla reclusione o 



Massime 

all’arresto per un tempo non superiore a due 

anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola o 

congiunta alla pena detentiva (ragguagliata 

calcolando 38,73 euro di pena pecuniaria per 

un giorno di pena detentiva), sia equivalente 

ad una pena privativa della libertà personale 

per un tempo non superiore, nel complesso, 

a due anni, il giudice può ordinare che l’esecuzione 

della pena rimanga sospesa per il 

termine di cinque anni se la condanna è per 

delitto, e di due anni se la condanna è per 

contravvenzione. Il beneficio può essere concesso 

non più di una volta (salvo che, in caso 

di seconda condanna, la pena da infliggere, 

cumulata con quella irrogata con la precedente 

condanna, non superi i limiti indicati), e 

sempre che il giudice presuma che l’imputato 

si asterrà dal commettere ulteriori reati. Se, 

nei termini stabiliti, il condannato non commette 

un delitto, ovvero una contravvenzione 

della stessa indole, il reato è estinto, e 

l’esecuzione della pena non ha luogo; in caso 

contrario si procede alla revoca del beneficio. 

Ora, dal momento che la Giurisprudenza 

(Cass. pen., sez. V, 12 aprile 1999, n. 1039; 

Cass. pen., sez. VI, 13 luglio 1990, n. 10322; 

Cass. pen., Sez. Unite, 28 febbraio 1984, n. 

1718) costantemente ritiene che, ove sia irrogata 

la condanna alla sola pena pecuniaria 

(anche in sostituzione di una pena detentiva: 

Cass. pen., sez. I, 29 marzo 1999, n. 1006), non 

si debba tener conto, nel computo numerico, 

di tale specie di sentenza, in siffatta evenienza 

di sanzione monetaria, il Giudice è solito 

non applicare la sospensione condizionale della 

pena. Peraltro, nel caso di specie, il difensore 

dell’imputato ne aveva fatto specifica richiesta: 

sicché, in quanto sussistenti i requisiti 

richiesti dalla legge, il beneficio non poteva 

essergli negato, per di più senza alcuna motivazione. 

Nella Giurisprudenza della Suprema Corte, 

vale peraltro anche il caso contrario: l’imputato 

condannato a pena pecuniaria condizionalmente 

sospesa dal Giudice senza la formulazione 

di esplicita richiesta in tal senso, può 

impugnare la sentenza al fine di ottenere la 

revoca del beneficio, sì da non “bruciarselo” 

per ipotesi definibili in sede patrimoniale 

(sul tema Cass. pen., sez. I, 7 marzo 2001, n. 

20). 



Massime 

OBBLIGO DI VIGILANZA. 

RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO 



26 settembre 2003, n. 36993, 

Pres. Coco, Rel. Piccialli 

Prevenzione degli infortuni - Lavori alle 

macchine - Disattivazione della cellula fotoelettrica 

di blocco - Avvio involontario della 

macchina - Contatto accidentale del lavoratore 

con organi in movimento - Lesioni 

personali gravi - Conferimento di delega di 

funzioni - Prova - Non sussiste - Responsabilità 

del datore di lavoro per omessa vigilanza 

- Valutazione - È responsabile 

In assenza di delega prevenzionistica, la presenza 

di un preposto non esenta da responsabilità 

il datore di lavoro, il quale è tenuto ad 

effettuare la necessaria vigilanza sia sulla concreta 

organizzazione del lavoro che sulla funzionalità 

dei macchinari messi a disposizione 

dei lavoratori. 

Nota 

Il caso in esame attiene alla condanna del datore 

di lavoro, nei due gradi del giudizio di merito, 

alla pena di mesi due di reclusione, per un infortunio 

subito da un dipendente, che si era procurato 

lesioni colpose gravi mentre lavorava ad 

una pressa piegatrice in un’officina. A causa di 

una macchia d’olio, il lavoratore scivolava e, per 

evitare la caduta, si aggrappava al macchinario 

premendo inavvertitamente con il piede il pedale 

di avviamento e introducendo la mano nello 

spazio sottostante la pressa; poiché la cellula 

fotoelettrica che bloccava automaticamente la 

discesa era stata disattivata, la pressa schiacciava 

la mano dell’operaio con conseguente avulsione 

parziale di alcune dita. 

A carico dell’imputato erano stati ravvisati plurimi 

profili di colpa (le specifiche contravvenzioni 

contestate - artt. 68, 115 e 116 D.P.R. n. 

547/1955 - erano state estinte secondo la procedura 

del D.Lgs. n. 758/1994), consistenti nell’avere 

consentito che l’apposito meccanismo 

di sicurezza della pressa piegatrice fosse inefficiente 

e che al funzionamento di tale pressa 


fosse addetto, nonostante l’intrinseca pericolosità 

dell’apparecchio, un lavoratore sprovvisto 

di specifico addestramento. 

Con il ricorso per Cassazione l’imputato aveva 

asserito di avere delegato l’osservanza delle norme 

antinfortunistiche ad altro operaio, e che il 

macchinario messo a disposizione era funzionante 

e idoneo a fini prevenzionistici: aveva altresì 

addotto che la circostanza che la cellula fotoelettrica 

fosse stata disattivata - così come la presenza 

di una macchia d’olio sul pavimento - non 

poteva imputarsi a se medesimo, avendo egli, 

nella sua qualità di datore di lavoro, assolto alle 

proprie responsabilità. 

Secondo l’imputato l’infortunio si era verificato 

per sfortunate circostanze del tutto imprevedibili 

quale la caduta, l’involontario azionamento 

della macchina, e la contemporanea 

introduzione della mano del lavoratore nello 

spazio sottostante la pressa, situazione questa 

che rivestiva i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, 

dell’esorbitanza rispetto al processo 

produttivo e che non poteva dunque 

addebitarsi al medesimo. 

La Suprema Corte ha peraltro ritenuto l’infondatezza 

dei motivi di ricorso, ritenendo sussistenti 

sia il profilo di colpa, sia il nesso di causalità. 

Sotto il primo profilo, in carenza di prova circa 

l’effettivo conferimento di delega di funzioni, 

con idonea attribuzione di poteri e mezzi per 

assolvere le funzioni stesse, la Cassazione ha 

affermato il principio di diritto riportato in 

massima, ulteriormente irrobustito dalla considerazione 

che al funzionamento della pressa, 

macchinario intrinsecamente pericoloso, era 

stato addetto un lavoratore non esperto e privo 

della necessaria preparazione. 

Sotto il secondo profilo, la Corte ha escluso 

che l’involontaria accensione della macchina e 

la contemporanea introduzione della mano 

da parte del lavoratore, conseguenti alla sua 

caduta, potessero interrompere il nesso di causalità, 

tanto più in una situazione di inoperatività 

della cellula fotoelettrica, dipendente da 

sua disattivazione, che impediva la funzionalità 

della pressa in presenza di un corpo estraneo, 

e dunque anche allorché venisse inavvertitamente 

introdotta una mano da parte dell’operatore. 

Sotto questo profilo la situazione 

di materiale disattivazione della cellula fotoelettrica, 

che impediva la discesa della pressa in 

presenza di un corpo estraneo, è stata addebi- 


tata proprio al datore di lavoro, per inosservanza 

dell’obbligo di organizzazione del lavoro 

e di vigilanza sull’esecuzione dello stesso 

all’interno dello stabilimento. 

Quanto poi all’invocata concorrente responsabilità 

del lavoratore, questa eventualità non è stata 

ritenuta influente sulla posizione del datore 

di lavoro, il quale era chiamato a rispondere 

iure proprio, nella suddetta qualità, dell’inosservanza 

degli obblighi gravanti sul medesimo. 

CONSENSO 

AD UNA PRASSI SCORRETTA DI LAVORO 



26 settembre 2003, n. 37001, 

Pres. D’Urso, Rel. Visconti 

Prevenzione infortuni - Lavoro alle macchine 

- Pressa punzonatrice - Pulsante ad 

uomo presente - Azionamento del pulsante 

con i gomiti da parte del lavoratore - 

Responsabilità del datore di lavoro - Valutazione 

- Conoscenza della prassi scorretta 

di lavoro - È responsabile 

Il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio 

occorso al dipendente, qualora acconsenta 

all’esecuzione di una prassi scorretta di lavoro 

da lui conosciuta (fattispecie di infortunio 

ad una pressa punzonatrice). 

Nota 

La vicenda sub iudice ha riguardato l’infortunio 

sul lavoro occorso durante il lavoro ad una 

pressa punzonatrice, causa l’azionamento dei 

pulsanti di comando della discesa del punzone, 

da parte del lavoratore, con i gomiti, senza 

togliere la mano dalla verticale di caduta. 

Condannato alla pena di giorni venti di reclusione 

nei due gradi del processo di merito per la 

violazione dell’art. 115 del D.P.R. 27 aprile 1955, 

n. 547, l’imputato aveva proposto ricorso per Cassazione, 

adducendo che il macchinario era fornito 

di tutti gli accorgimenti indicati dalla citata 

norma antinfortunistica, e che le lesioni erano 

state causate esclusivamente da un comportamento 

eccezionale, abnorme, ed esorbitante rispetto 

al procedimento lavorativo da parte dell’addetto, 

che aveva inutilmente tenuta ferma 



Massime 

con le mani la tomaia da punzonare, benché questa 

fosse stata bloccata dall’apposito fermaglio. 

La Suprema Corte è stata tuttavia di opposto 

avviso: la circostanza che la macchina fosse 

pienamente rispondente alla previsione dell’art. 

115, D.P.R. n. 547/1955, essendo la stessa 

dotata di comando obbligato per mezzo dei 

due organi da manovrarsi contemporaneamente 

con ambo le mani dell’unico dipendente 

addetto, è stata ritenuta dai Giudici totalmente 

irrilevante, dal momento che il datore 

di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche 

proprio per evitare che il dipendente 

compia scelte irrazionali che, se effettuate, 

possano pregiudicarne l’integrità psico-fisica. 

Dunque le ripetute istruzioni impartite alla 

dipendente per utilizzare la macchina - cui 

peraltro ella era da tempo addetta - in tutta 

sicurezza, sono risultate insufficienti, tenuto 

conto del fatto che l’imputato, anche girando 

di persona all’interno dello stabilimento, era a 

conoscenza sia della possibilità di far funzionare 

la macchina anche con i gomiti, e non solo 

con le mani, sia della concreta pericolosa abitudine 

della dipendente di azionare la macchina 

con i gomiti, ponendo così le mani nella 

zona di battuta del punzone. 

La Cassazione ha poi rimarcato che la condotta 

del lavoratore fu tale al fine di “aggirare comodamente 

il presidio antinfortunistico, traducendosi 

per giunta in un miglioramento del lavoro 

quanto a precisione esecutiva ed a velocità di 

produzione”; essendo di ciò consapevole l’imputato, 

nella sua qualità di datore di lavoro, la 

valutazione dei giudici di merito circa la prevedibilità 

e non abnormità della condotta del dipendente 

è stata pienamente condivisa, con conseguente 

declaratoria di responsabilità del ricorrente; 

né, d’altro canto, può costituire giustificazione 

la migliore esecuzione e la maggiore precisione 

del lavoro, essendo rispetto ad esso bene 

primario, anche costituzionalmente tutelato 

(art. 32), la salute degli individui. 

La pronuncia della Cassazione si allinea con 

l’orientamento che condivisibilmente ritiene 

che, in tema di tutela delle condizioni di lavoro, 

«la colpa prevenzionale va commisurata 

con il criterio del consenso: all’inerzia rispetto 

al dovere di attivazione imposto dalla legge, 

deve affiancarsi non la conoscenza effettiva, 

bensì la mera conoscibilità, intesa quale potere-dovere 

di conoscere una situazione di cui si 



Massime 

ha l’obbligo della conoscenza. A fronte di un 

dovere di conoscenza, l’ignoranza colpevole 

non è in alcun modo discriminata dalla legge 

e, in presenza di una condotta omissiva, tenuta 

di fronte ad una situazione conoscibile ed 

in contrasto con prescrizioni legislative, il consenso 

alla protrazione di tale situazione si deduce 

per conseguenza logica inevitabile» (in 

tal senso, tra le altre, Cass. pen. sez. III, 14 

febbraio 2000, Fichera). 

La Cassazione ha così censurato l’acquiescenza 

dell’imputato ad una prassi operativa scorretta, 

consistente nell’inosservanza di una specifica 

disposizione di legge. 

SE LA CONTESTAZIONE È GENERICA 

L’INFORTUNIO È PROCEDIBILE D’UFFICIO 



2 ottobre 2003, n. 37463, 

Pres. Olivieri, Rel. Iacopino 

Prevenzione degli infortuni - Lavoro alle 

macchine - Pressa punzonatrice - Lesioni 

personali gravi - Violazione dell’art. 115 del 

D.P.R. n. 547/55 - Omessa contestazione del 

profilo di colpa specifica - Contestazione 

della colpa generica - Enunciazione chiara 

del fatto nel capo di imputazione - Procedibilità 

del reato - È procedibile d’ufficio 

È procedibile d’ufficio l’infortunio sul lavoro, 

produttivo di lesioni gravi, rispetto al quale 

sia stata contestata la sola colpa generica, purché 

dal capo di imputazione si evinca chiaramente 

la condotta oggetto di addebito e questa 

si risolva nella violazione di una specifica 

norma di legge (fattispecie in tema di violazione 

dell’art. 115 del D.P.R. n. 547/1955). 

Nota 

L’infortunio de quo si era verificato durante il 

lavoro ad una pressa (sostituzione dello stampo 

chiuso con uno aperto) non dotata di ripari o di 

dispositivi atti ad evitare che parti del corpo del 

lavoratore potessero essere colpite dal punzone 

che era stato azionato dal comando a pedale, e 

non dalla doppia pulsantiera, come previsto dall’art. 

115, D.P.R. n. 547/1955. L’operaio, dopo avere 

montato uno stampo aperto per una determi- 


nata operazione, aveva iniziato a lavorare sulla 

macchina per prova, senza essere stato a ciò comandato, 

ponendo in essere una manovra pericolosa 

in quanto, per estrarre il pezzo dalla macchina, 

aveva utilizzato le mani anziché le pinze magnetiche. 

Nel fare ciò, aveva inavvertitamente 

premuto il pulsante, così avviando la discesa del 

punzone mentre la mano si trovava nel raggio di 

caduta della pressa. Per l’effetto, egli aveva riportato 

l’amputazione di due dita della mano. 

Condannato in primo e in secondo grado, il datore 

di lavoro aveva proposto ricorso per cassazione, 

deducendo tra l’altro la nullità del decreto 

di citazione a giudizio per omessa enunciazione 

in forma chiara e precisa del fatto. Invero il 

capo di imputazione non conteneva la contestazione 

della violazione delle norme sulla prevenzione 

degli infortuni sul lavoro (in particolare 

dell’art. 115 citato) che era stata ravvisata dai 

giudici; pertanto il datore di lavoro ricorrente 

aveva sostenuto che, non essendo stata contestata 

la specifica aggravante, il reato non era 

perseguibile di ufficio ma a querela, e che essa 

non era stata presentata 

L’opinione della Cassazione è stata diversa: il 

capo di imputazione era chiaro, in quanto, pur 

mancando l’indicazione dell’art. 115, D.P.R. n. 

547/1955, la condotta era specificata in tutti i 

suoi aspetti ed appariva ben determinata anche 

con riferimento alla violazione delle norme antinfortunistiche. 

Il fatto storico era del pari illustrato 

in maniera precisa, e, d’altro canto, nei 

procedimenti per reati colposi l’affermazione di 

responsabilità per un’ipotesi di colpa non menzionata 

nel capo di imputazione rientra pur sempre 

nella generica contestazione di colpa, giacchè 

questa, benché ulteriormente specificata 

dai giudici, pone il prevenuto nelle condizioni di 

difendersi da qualunque addebito (Cass. Sez. IV, 

13 settembre 1994, Cortese). Non solo dunque 

non era a parlarsi di un difetto di correlazione 

tra imputazione e sentenza; ma poiché la violazione 

della norma antinfortunistica, benché 

non espressamente menzionata nel capo di imputazione, 

risultava dalle circostanze di fatto 

contestate all’imputato, è stata altresì esclusa la 

procedibilità a querela del reato, in quanto l’aggravante 

del fatto commesso con violazione delle 

norme per la prevenzione degli infortuni sul 

lavoro è stata descritta e deve essere tenuta 

presente ai fini della perseguibilità di ufficio, 

considerata l’entità delle lesioni patite dal lavoratore 

(lesioni gravi, con prognosi superiore ai 

40 giorni). l 


RUMORE 

Articolo 

di Francesco Borchi, ingegnere, tecnico competente in acustica ambientale - Regione Toscana, 

Fabio Miniati, ingegnere, tecnico competente in acustica ambientale - Regione Toscana, 

Andrea Sanchini, ingegnere, Spectra S.r.l. e Andrea Tombolato, fisico, tecnico competente 

in acustica ambientale - Regione Veneto 

La pubblicazione del D.P.R. 30 

marzo 2004, n. 142, recante le 

«Disposizioni per il contenimento 

e la prevenzione dell’inquinamento 

acustico derivante dal 

traffico veicolare», pur rimanendo 

da emanare alcuni decreti relativi 

a materie specifiche, ha sostanzialmente 

completato, per 

quanto di competenza statale, il 

quadro normativo in materia. Il 

passo successivo è quello di tentare 

la definizione delle caratteristiche 

che dovrebbe possedere 

uno studio di impatto ambientale 

acustico relativo alla 

realizzazione di una nuova infrastruttura 

stradale, attraverso la 

perimetrazione della fascia territoriale, 

l’individuazione di tutti i 

ricettori presenti, la modellazione 

della geometria dei luoghi 

oggetto d’indagine, ecc. I risultati, 

se rigorosi e facilmente leggibili, 

renderanno, di fatto, possibile 

la partecipazione del pubblico 

alla predisposizione dei piani 

d’azione destinati a ridurre nel 

territorio i problemi dell’inquinamento 

acustico. 

AMBIENTE 

Tra gli obiettivi la partecipazione pubblica alla predisposizione dei piani d’azione 

Dopo il D.P.R. 30 marzo 2004, n. 142 

al via gli studi di impatto acustico 

Il contesto normativo 

statale ed europea 

Il 19 marzo 2003, approvando il 

nuovo decreto relativo all’inquinamento 

acustico derivante da traffico 

veicolare [1] , il Consiglio dei Ministri 

ha dato attuazione a quanto previsto 

dall’articolo 11, legge 26 ottobre 

1995, n. 447 [2] . In questo modo, per 

quanto di competenza statale, il quadro 

normativo in materia di tutela dall’inquinamento 

acustico risulta sostanzialmente 

completo [3] . 

L’evenienza, di per sé importante, 

avrebbe potuto acquistato ancora maggior 

rilievo se il Governo avesse adottato, 

entro il 30 giugno 2004, come 

previsto dall’articolo 14, legge 31 ottobre 

2003, n. 306 [4] , un decreto legislativo 

di riordino, coordinamento e integrazione 

delle disposizioni normative 

in materia di tutela dall’inquinamento 

acustico, nel rispetto dei principi e delle 

disposizioni comunitarie in materia, 

nonché dei seguenti criteri direttivi: 

● adeguare l’ordinamento interno 

alla direttiva 2002/49/CE [5] , relativa 

alla determinazione e alla gestione 

del rumore ambientale; 

● dare piena e coerente attuazione 

alla citata direttiva 2002/49/CE, al 

fine di garantire elevati livelli di 

tutela dell’ambiente e della salute; 

● salvaguardare le azioni già poste 

in essere dalle autorità locali e dalle 

imprese e per l’attuazione della legge 

26 ottobre 1995, n. 447; 

● prevedere adeguati strumenti di 

informazione al pubblico in merito 

al rumore ambientale e ai relativi 

effetti e, in particolare, stabilire procedure 

che garantiscano la partecipazione 

del pubblico alla predisposizione 

dei piani d’azione destinati a 

ridurre nel territorio i problemi dell’inquinamento 

acustico. 

L’articolato del nuovo 

regolamento 

Il D.P.R. 30 marzo 2004, n. 142, 

che prevede una regolamentazione 

analoga a quanto già stabilito dal 

D.P.R. 18 novembre 1998, n. 459 [6] , 

per le infrastrutture ferroviarie, si 

compone di 11 articoli e di un Allegato, 

riportante due tabelle. 

All’articolo 1 sono definiti, tra gli 

altri, i concetti di infrastruttura stradale 

(di nuova realizzazione ed esistente; 

si vedano, rispettivamente, le tabelle 

1 e 2), ricettore, centro abitato, fascia 

di pertinenza acustica. 

Vale la pena soffermarsi sulla definizione 

di «ricettore», laddove si caratterizzano, 

tra l’altro, come tali anche 

le aree territoriali edificabili, già 

individuate dai piani regolatori generali 

e relative varianti vigenti, al momento 

della presentazione dei progetti 

di massima relativi a infrastrutture 

[1] D.P.R. 30 marzo 2004, n. 142 «Disposizioni per il contenimento e la prevenzione dell’inquinamento acustico derivante dal 

traffico veicolare, a norma dell’articolo 11 della legge 26 ottobre 1995, n. 447» (in Gazzetta Ufficiale del 1˚ giugno 2004, n. 

127). Si veda anche A. Demozzi e I. Postai, Rumore da infrastrutture stradali: in Gazzetta Ufficiale il regolamento in 

Ambiente&Sicurezza n. 13/2004, pag. 13. 

(segue) 


di nuova realizzazione. Con questo 

richiamo, il D.P.R. n. 142/2004, dà 

concreta attuazione al precetto, implicito 

in tanti passaggi della legge n. 

447/1995, che prevede il coordinamento 

della pianificazione urbanistica 

con le determinazioni amministrative 

assunte ai fini della tutela dall’inquinamento 

acustico. 

L’articolo 2 («Campo di applicazione») 

stabilisce, altresì, che le infrastrutture 

stradali non sono soggette al 

rispetto dei limiti di emissione fissati 

dal piano comunale di classificazione 

acustica [7] (PCCA), né si applica 

quanto previsto con riguardo ai valori 

di attenzione o di qualità; parimenti, il 

rumore prodotto dalle infrastrutture 

stradali risulta escluso dall’applicazione 

del criterio differenziale ai sensi 

dell’articolo 4, D.P.C.M. 14 novembre 

1997, «Determinazione dei valori 

limite delle sorgenti sonore» [8] . 

A chiarire quali limiti siano efficaci 

con riferimento alle infrastrutture 

stradali (di nuova realizzazione o esistenti) 

è il combinato disposto degli 

articoli 3 (Fascia di pertinenza acustica),4(Limiti 

di immissione per infrastrutture 

stradali di nuova realizzazio- 

AMBIENTE 

ne) e5(Limiti di immissione per infrastrutture 

stradali esistenti). 

Se le due tabelle dell’Allegato 1 

indicano i valori numerici di questi 

limiti, nonché l’estensione della fascia 

di pertinenza, è importante chiarire 

il meccanismo di applicazione. 

All’interno della propria fascia di 

pertinenza (di larghezza dipendente 

dal tipo di strada ed eventualmente raddoppiata 

in presenza di scuole, ospedali, 

case di cura e di riposo) l’infrastruttura 

è soggetta solo ai limiti stabiliti 

dal decreto in esame e contribuisce 

essa sola al raggiungimento di tali valori 

soglia. Al di fuori della suddetta 

fascia, la rumorosità derivante dal traffico 

veicolare concorre, con tutte le 

altre sorgenti di rumorosità ambientale, 

al raggiungimento dei limiti assoluti 

di immissione [9] (fissati dal PCCA). 

La verifica del rispetto dei limiti va 

effettuata, come recita l’articolo 6 («Interventi 

per il rispetto dei limiti»), in 

facciata degli edifici a un metro dalla 

stessa e, dato da non trascurare, in corrispondenza 

dei punti di maggiore 

esposizione nonché dei ricettori (non è, 

quindi, un valore mediato spazialmente, 

ma da rilevare ove risulti massimo). 

RUMORE 

Articolo 

Il D.P.R. n. 142/2004 presenta, sempre 

all’articolo 6, un elemento di flessibilità, 

laddove viene stabilito che, qualora 

i valori limite non siano tecnicamente 

conseguibili, ovvero considerazioni 

di natura tecnica, economica, ambientale 

evidenzino l’opportunità di 

procedere a interventi (di risanamento 

acustico) diretti sui ricettori, possono 

essere derogati i valori soglia in facciata 

purché siano rispettati valori limite 

[10] da valutare all’interno degli ambienti 

abitativi (al centro della stanza 

interessata, a finestre chiuse e a 1,5 

metri di altezza dal pavimento). 

Relativamente alle modalità di attuazione 

degli interventi diretti sul ricettore, 

appena sopra considerati, l’articolo 

7 prevede la predisposizione di 

linee guida del Ministero dell’Ambiente 

e della Tutela del territorio, di 

concerto con i dicasteri della salute e 

delle infrastrutture dei trasporti. 

L’articolo 8 («Interventi di risanamento 

acustico a carico del titolare»), 

al comma 1, stabilisce l’importante disposizione 

secondo cui il soggetto che 

richiede titolo abilitativo all’edificazione 

in prossimità di infrastrutture esistenti 

deve farsi carico degli interventi 

[2] «Legge quadro sull’inquinamento acustico» (in S.O. n. 125 alla Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 1995, n. 254) 

[3] A rigore, pur essendo completo il quadro generale, devono ancora essere emanati alcuni decreti relativi a materie specifiche. 

Tra questi occorre ricordare: 

- il decreto del Ministro dei Lavori Pubblici che deve recare indicazioni dei criteri per la progettazione, l’esecuzione e la 

ristrutturazione delle costruzioni edilizie e delle infrastrutture dei trasporti, ai fini della tutela dall’inquinamento acustico 

(previsto dall’articolo 3, comma 1, lettera f), legge n. 447/1995); 

- il decreto del Ministro dell’Ambiente riguardante la predisposizione di campagne di informazione del consumatore e di 

educazione scolastica (previsto dall’articolo 3, comma 1, lettera n), legge n. 447/1995). 

[4] «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 

2003» (in S.O. n. 173 alla Gazzetta Ufficiale del 15 novembre 2003, n. 266). Si vedano il n. 23/2003 e il n. 1/2004 di 


[5] In G.U.C.E. L del 18 luglio 2002, n. 189. Alla direttiva 2002/49/CE, ha fatto seguito l’importante raccomandazione della 

Commissione 6 agosto 2003, concernente le linee guida relative ai metodi di calcolo aggiornati per il rumore dell’attività industriale, 

degli aeromobili, del traffico veicolare e ferroviario e i relativi dati di rumorosità (in G.U.C.E. L del 22 agosto 2003, n. 212. 

[6] «Regolamento recante norme di esecuzione dell’articolo 11 della legge 26 ottobre 1995, n. 447, in materia di inquinamento 

acustico derivante da traffico ferroviario» (in Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 1999, n. 2). 

[7] Ogni comune deve predisporre il proprio “piano di classificazione acustica” ai sensi dell’articolo 6, legge n. 447/1995. 

[8] In Gazzetta Ufficiale del 1˚ dicembre 1997, n. 280. 

[9] Va debitamente sottolineato il fatto che, all’interno della fascia di pertinenza, le singole sorgenti sonore diverse dall’infrastruttura 

viaria devono rispettare, singolarmente, i limiti di emissione e, nel loro insieme, quelli di immissione, come stabiliti dal 

piano comunale di classificazione acustica. Si veda, in proposito, l’articolo 3, comma 3, D.P.C.M. 14 novembre 1997 

«Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore». 

[10] I valori limite all’interno degli ambienti abitativi sono i seguenti: 

- 35 dBA Leq notturno per ospedali, case di cura e case di riposo; 

- 40 dBA Leq notturno per tutti gli altri ricettori di carattere abitativo; 

- 45 dBA Leq diurno per le scuole. 


Tipi di strada 

(secondo 

codice della 

strada) 

Sottotipi a 

fini acustici 

(secondo D.M. 

5/11/2001 

norme funz. e 

geom. per la 

costruzione 

delle strade) 

(e delle attività) da porre in essere a 

garanzia del rispetto dei limiti. 

Il comma 2 prevede analogo regime 

per il richiedente titolo abilitativo 

all’edificazione se lo stesso atto autorizzatorio 

è rilasciato dopo la data di 

approvazione del progetto definitivo 

dell’infrastruttura stradale. 

Le disposizioni poco sopra riportate, 

per trovare corretta applicazione, richiedono, 

com’è facile intuire, un’efficace 

circolazione di informazioni tra tutti gli 

attori interessati (provati, pubblica amministrazione, 

enti gestori delle infrastrutture 

stradali e/o soggetti proponenti 

interventi di nuova realizzazione). 

Nell’ottica di contenere le emissioni 

sonore alla fonte, l’articolo 9 («Verifica 

dei limiti di emissione degli autoveicoli») 

prescrive che siano effettuati controlli, 

secondo le disposizioni già contenute 

all’articolo 80, D.Lgs. 30 aprile 

1992, n. 285 [11] , e successive modifiche, 

per accertare la rispondenza degli 

Ampiezza 

fascia di 

pertinenza 

acustica 

(m) 

Scuole*, ospedali, 

case di cura e di riposo 

diurno 

dBA 

notturno 

dBA 

autoveicoli circolanti alla certificazione 

di omologazione ai fini acustici. 

Le attività di monitoraggio per il 

rilevamento dell’inquinamento acustico 

prodotto, comunque, dalle infrastrutture 

di trasporto devono essere 

realizzate, secondo l’articolo 10 

(«Monitoraggio»), in conformità alle 

direttive impartite dal Ministero dell’ambiente 

e della tutela del territorio. 

Quanto sopra, da parte degli enti gestori, 

avvalendosi degli ordinari stanziamenti 

di bilancio. 

L’articolo 11 («Disposizioni finali»), 

considerando il fondamentale 

D.M. 29 novembre 2000 [12] , mira a 

far salvi gli interventi di risanamento 

acustico effettuati alla data di entrata 

in vigore del D.P.R. n. 142/2004. 

Analoga salvaguardia per le prescrizioni 

inserite nei provvedimenti 

di approvazione di progetti definitivi, 

qualora più restrittive dei limiti 

previsti a seguito dell’emanazione 

del decreto in esame. 

diurno 

dBA 

Altri ricettori 

notturno 

dBA 

A - autostrada 250 50 40 65 55 

B - extraurbana 

principale 

250 50 40 65 55 

C - extraurba- C1 250 50 40 65 55 

na secondaria C2 150 50 40 65 55 

D - urbana di 

scorrimento 

100 50 40 65 55 

E - urbana di 

quartiere 

RUMORE 

Articolo 

30 

F - locale 30 

* per le scuole vale solo il limite diurno. 

AMBIENTE 

Strade di nuova realizzazione 

TABELLA 1 

Definiti dai comuni, nel rispetto dei valori riportati in tabella C 

allegata al D.P.C.M. 14 novembre 1997 e, comunque, in modo 

conforme alla zonizzazione acustica delle aree urbane, come 

prevista dall’art. 6, comma 1, lettera a), legge n. 447/1995. 

Progettazione acustica e 

infrastrutture di trasporto 

L’articolo 8, comma 2, legge 26 

ottobre 1995, n. 447, stabilisce chiaramente 

che, per progetti sottoposti a 

valutazione di impatto ambientale, 

ovvero su richiesta dei comuni, i competenti 

soggetti titolari dei progetti o 

delle opere predispongano una documentazione 

di impatto acustico relativa 

alla realizzazione, alla modifica o 

al potenziamento di strade di tipo A 

(autostrade), B (strade extraurbane 

principali), C (strade extraurbane secondarie), 

D (strade urbane di scorrimento), 

E (strade urbane di quartiere) 

ed F (strade locali). 

Il settore normativo da considerare 

per la progettazione acustica di cui si 

tratta è costituito da: 

● D.M. 16 marzo 1998 [13] «Tecniche 

di rilevamento e di misurazione 

dell’inquinamento acustico». Questo 

provvedimento indica le modalità di 

effettuazione delle misure di collaudo 

[11] «Nuovo codice della strada» (in S.O. n. 74 alla Gazzetta Ufficiale del 18 maggio 1992, n. 114). 

[12] «Criteri per la predisposizione, da parte delle società e degli enti gestori dei servizi pubblici di trasporto o delle relative 

infrastrutture, dei piani degli interventi di contenimento ed abbattimento del rumore» (in Gazzetta Ufficiale del 6 dicembre 

2000, n. 285). 

[13] In Gazzetta Ufficiale del 1˚ aprile 1998, n. 76. 


e le metodiche di elaborazione dei 

dati ottenuti, al fine di ottenere i valori 

da confrontare con i limiti; 

● D.P.R. n. 142/2004 che fissa (all’interno 

delle fasce di pertinenza) i 

valori soglia per le strade di tipo A 

(autostrade), B (extraurbane principali), 

C (extraurbane secondarie) e D 

(urbane di scorrimento); 

● D.P.C.M. 14 novembre 1997. I limiti 

assoluti di immissione introdotti 

da questo provvedimento legati al PC- 

CA vengono utilizzati come riferimento 

nel caso di strade di tipo E 

(urbane di quartiere) e F (locali), ma 

anche per le strade di tipo A, B, C, D 

al di fuori delle fasce di pertinenza (è 

Tipi di strada 

(secondo 

codice della 

strada) 

Sottotipi a 

fini acustici 

(secondo 

norme CNR 

1980 e 

direttiva Put) 

utile ribadire che, all’interno della fascia 

di pertinenza, i livelli di confronto 

con i limiti previsti per infrastrutture 

stradali sono quelli prodotti dal solo 

traffico veicolare, mentre, all’esterno 

della fascia di pertinenza, il livello 

di confronto è quello prodotto da tutte 

le sorgenti di rumore); 

● D.M. 29 novembre 2000. 

In particolare l’Allegato 2 al D.M. 

29 novembre 2000, definisce i criteri 

di progettazione acustica degli interventi, 

siano essi inerenti: 

● la realizzazione di nuove infrastrutture 

di trasporto; 

● la realizzazione di opere di mitigazione 

su infrastrutture esistenti; 

● la realizzazione di insediamenti 

Ampiezza 

fascia di 

pertinenza 

acustica 

(m) 

Scuole*, ospedali, 

case di cura e di riposo 

diurno 

dBA 

notturno 

dBA 

civili o, comunque, di possibili ricettori 

(residenze, scuole, ospedali, 

ecc.) nei pressi di un’infrastruttura 

esistente o con progetto definitivo 

approvato. 

Ovviamente, oltre a quanto appena 

detto, è possibile che si debba prendere 

in considerazione specifiche disposizioni 

regionali (volte a dettagliare 

ulteriormente il quadro previsto dalla 

normativa statale), laddove emanate e 

quindi vigenti. 

Se, peraltro, il citato D.M. 29 novembre 

2000, ancora all’Allegato 2, 

fissa puntualmente le caratteristiche 

che deve possedere il software di modellazione 

acustica [14] che viene utilizzato 

per calcoli e mappature, la Comu- 

diurno 

dBA 

Altri ricettori 

notturno 

dBA 

A - autostrada 100 (fascia A) 50 40 70 60 

150 (fascia B) 65 55 

B - extraurbana 

principale 

100 (fascia A) 50 40 70 60 

150 (fascia B) 65 55 

C - extraurbana 

secondaria 

D - urbana di 

scorrimento 

E - urbana di 

quartiere 

Ca (strade 

a carreggiate 

separate e tipo 

IV CNR 1980) 

Cb (tutte le altre 

strade 

extraurbane 

secondarie) 

Da (strade 

a carreggiate 

separate e 

interquartiere) 

Db (tutte le 

altre strade 

urbane di 

scorrimento) 

100 (fascia A) 50 40 70 60 

150 (fascia B) 65 55 

100 (fascia A) 50 40 70 60 

50 (fascia B) 65 55 

100 50 40 70 60 

100 65 55 

30 

F - locale 30 

* per le scuole vale solo il limite diurno. 

AMBIENTE 

Strade esistenti e assimilabili 

RUMORE 

Articolo 

TABELLA 2 

Definiti dai comuni, nel rispetto dei valori riportati in tabella C 

allegata al D.P.C.M. 14 novembre 1997 e, comunque, in modo 

conforme alla zonizzazione acustica delle aree urbane, come 

prevista dall’art. 6, comma 1, lettera a), legge n. 447/1995. 

[14] In primo luogo la possibilità di modellizzare la geometria del sito (terreno, edifici, ostacoli di varia natura, ecc.) e di tenerne 

conto nel calcolo acustico. 


RUMORE 

Articolo 

nità europea, con la già citata direttiva 

2002/49/CE, completa il quadro prevedendo 

che le valutazioni da effettuare 

con riguardo a infrastrutture di trasporto 

stradale dovrebbero riferirsi al metodo 

di calcolo francese NMPB Routes 

96 [15] , che, a sua volta, riprende la 

norma tecnica XPS 31-133 e che utilizza 

i valori di emissione acustica tratti 

dalla “Guide de Bruit” [16] . 

L’aderenza alle specificazioni riportate 

dalla normativa italiana, prima, ed 

europea, poi, garantisce pertanto, sulla 

base di quanto appena sopra ricordato, 

la produzione di dati ambientali acustici 

standardizzati e, quindi, confrontabili 

e utilizzabili in ambito non solo nazionale, 

ma anche europeo. 

Studio per una nuova 

infrastruttura stradale 

Poiché il quadro normativo in materia 

risulta oggi definito non solo nelle 

sue linee essenziali, già note da 

tempo, ma anche nei suoi ultimi dettagli, 

non è fuori luogo tentare di definire 

quali siano le caratteristiche che 

dovrebbe possedere uno studio di impatto 

ambientale acustico relativo alla 

realizzazione di una nuova infrastruttura 

stradale. 

In generale, gli obiettivi di uno studio 

di progettazione acustica inerente 

alla realizzazione di una nuova infrastruttura 

si possono sintetizzare come 

segue: 

● previsione dei livelli sonori (dovuti 

esclusivamente al traffico veicolare) 

lungo la fascia territoriale di pertinenza 

della infrastruttura interessata; 

● individuazione puntuale, sulla base 

del confronto tra livelli previsti e 

limiti fissati, di aree/edifici sensibili e 

di punti di criticità acustica; 

● indicazione delle idonee misure di 

mitigazione, con contestuale progettazione 

di massima delle stesse. 

Se questi sono gli obiettivi, il pro- 

AMBIENTE 

gramma di lavoro dovrebbe prevedere 

le seguenti attività: 

● perimetrazione, su supporto informatico, 

della fascia territoriale (fascia 

di pertinenza, eventualmente allargata 

per la presenza di scuole, ospedali, 

case di cura e di riposo) oggetto di 

indagine; 

● individuazione, all’interno di questa 

fascia territoriale, di tutti i ricettori presenti 

(residenze, scuole, ospedali, ecc.); 

● modellazione della geometria dei 

luoghi oggetto d’indagine: modello 

del terreno e caratteristiche degli edifici 

(in particolare l’altezza in gronda) e 

ostacoli; 

● modellazione acustica a calcolatore 

mediante l’utilizzo dello standard 

NMPB Routes 96 implementato su applicativo 

dedicato; 

● effettuazione dei calcoli acustici 

nello stato di progetto senza opere di 

mitigazione; 

● individuazione dei punti di criticità 

acustica, con riferimento sia alle aree/ 

edifici sensibili sia agli altri ricettori 

presenti; 

● calcolo, per ognuna delle aree critiche 

individuate, dell’indice di priorità 

di intervento secondo quanto analiticamente 

previsto dal citato D.M. 29 novembre 

2000; 

● definizione degli interventi di mitigazione, 

con dimensionamento di 

massima degli stessi. Per il dimensionamento 

di massima delle nuove opere 

di mitigazione è sempre lo stesso 

D.M. 29 novembre 2000 a costituire 

riferimento; 

● modellazione della situazione acustica 

a seguito degli interventi di mitigazione 

e confronto con gli obiettivi 

di progetto. 

Va detto che misure di validazione 

del software utilizzato nel caso di studio, 

effettuate in sito (presso la strada 

esistente), hanno permesso di verificare 

la buona aderenza ai valori misura- 

ti delle simulazioni eseguite utilizzando 

il modello NMPB Routes 96. 

Come nota metodologica va sottolineato 

che, poiché l’impianto della legge 

quadro prevede, come già visto, 

che le infrastrutture di trasporto rispondano, 

all’interno della propria fascia 

di pertinenza, a limiti che valgono in 

via esclusiva per le stesse infrastrutture, 

da ciò segue che, nella definizione 

degli stessi limiti e, quindi, degli obiettivi 

di progetto, l’acquisizione dei piani 

di classificazione acustica dei territori 

comunali interessati risulta fornire, 

senz’altro, utili elementi conoscitivi, 

ma non vincoli progettuali cogenti. 

Ciò è vero, almeno all’interno della 

fascia di pertinenza dell’infrastruttura 

e con riferimento alle tipologie A, B, 

C e D. Lo studio di impatto acustico 

per le infrastrutture di cui sopra può, 

quindi, essere condotto anche in assenza 

di PCCA approvato. 

Al termine degli studi, delle attività 

e delle modellazioni a calcolatore, gli 

elaborati prodotti sono costituiti da una 

relazione tecnica illustrativa, da elaborati 

cartografici e mappature relativi alle 

situazioni di fatto e di progetto e da 

adeguata documentazione fotografica. 

Le mappature acustiche risultano 

di particolare interesse in quanto offrono 

una rappresentazione sintetica e 

immediata dell’impatto acustico generato 

dall’infrastruttura di progetto. La 

produzione degli elaborati in forma 

grafica consente di eseguire un facile 

confronto con i limiti imposti dall’ente 

incaricato della valutazione. 

Con l’utilizzo di questi evoluti strumenti 

di analisi, che consentono di 

pervenire a risultati allo stesso tempo 

rigorosi e facilmente leggibili, si renderà, 

di fatto, possibile la partecipazione 

del pubblico [17] alla predisposizione 

dei piani d’azione destinati a ridurre 

nel territorio i problemi dell’inquinamento 

acustico. l 

[15] Metodo di calcolo provvisorio sino alla definizione di un nuovo metodo. 

[16] Questa indicazione è, peraltro, ribadita dalla già citata raccomandazione della Commissione 6 agosto 2003, concernente le 

linee guida relative ai metodi di calcolo dell’attività veicolare e ferroviario e i relativi limiti di rumorosità industriale, degli 

aeromobili, del traffico. 

[17] È, peraltro, la stessa direttiva 2002/49/CE a prevedere esplicitamente la partecipazione del pubblico alla predisposizione dei 

piani d’azione contro l’inquinamento acustico; condivisione che non può prescindere da una campagna d’informazione 

condotta mediante adeguati strumenti. 


a cura di Roberto Bottio, Funzionario Tecnico UNI 

AMBIENTE 

UNI 

La normativa tecnica 

I sistemi antirumore ricadono nell’ambito della direttiva europea “nuovo approccio” 89/106/CEE. A essa sono legate diverse 

norme europee armonizzate come la norma “quadro” prEN14388 Road traffic noise reducing devices - Specifications, al 

momento in fase di elaborazione, che richiama una parte delle norme elencate. 

Il Ministero dell’Ambiente, fattosi portavoce delle richieste pervenute da più parti, ha richiesto alla Commissione ACUSTI- 

CA dell’UNI di attivarsi per avere una norma UNI che costituisse una linea guida per la realizzazione di interventi di 

bonifica acustica ambientale, mediante l’utilizzo di apposite barriere. 

Dall’inizio dell’anno 2003, il gruppo misto ACUSTICA/STRADE “Sistemi schermanti” [1] , sta lavorando per soddisfare le 

esigenze del Ministero Ambiente elaborando il progetto di norma U20.00.114.0 - «Linee guida per la progettazione, 

esecuzione e collaudo di sistemi antirumore per infrastrutture di trasporto via terra (stradali e ferroviarie)». 

Oltre al Ministero dell’Ambiente, partecipano al gruppo i gestori delle infrastrutture (ANAS, autostrade, ferrovie), l’APAT - 

Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (ex ANPA), le ARPA, i produttori di sistemi antirumore (coordinato da ACAI – 

Associazione fra i costruttori in acciaio italiani), i laboratori, le università e gli studi di consulenza. 

La bozza completa del progetto è stata definita il 24 giugno 2004; successivamente, verrà fatta una revisione più 

dettagliata e formale e, a seguire, verrà presentata al gruppo per la sua definitiva approvazione prima della presentazione 

alle due commissioni ACUSTICA e STRADE competenti dell’argomento, prevista per settembre 2004. 

Il progetto di norma U20.00.114.0 tratta i seguenti argomenti: 

● progettazione preliminare, intesa come studio mirato alla verifica di fattibilità di interventi di risanamento acustico 

a mezzo di sistemi antirumore, identifica gli obiettivi e le tecniche di mitigazione applicabili. Essa consente di stabilire 

l’efficacia dell’intervento definendone le specifiche minime, in termini dimensionali e qualitativi, consentendo, altresì, di 

prevedere i livelli di pressione sonora ai ricettori conseguenti all’introduzione di sistemi antirumore. La fattibilità e 

l’efficacia dell’intervento dovranno essere valutate tenendo conto dei livelli di rumore ante-operam rilevati ai ricettori nel 

periodo di riferimento più gravoso, in termini di emissioni prodotte dalla sorgente disturbante, garantendo la conformità 

ai limiti di immissione sonora stabiliti dalla legislazione vigente su tutta l’area di influenza. Il progetto preliminare dovrà 

tenere conto dei regolamenti vigenti e del quadro di riferimento ambientale, degli indirizzi di pianificazione comunale e 

della zonizzazione acustica; 

● progettazione definitiva: in continuità con le indicazioni del progetto preliminare e sulla base di tutti gli accertamenti 

tecnici da questo prescritti (monitoraggi, definizione della sorgente, sondaggi ecc.) contiene tutti gli elementi necessari 

a compiere l’intero percorso autorizzativo per il rilascio della concessione edilizia, dell’accertamento di conformità 

urbanistica o di altro atto equivalente. Il progetto definitivo, per quanto relativo alla parte acustica, contiene il completo 

inquadramento dell’intervento di mitigazione a un livello di approfondimento tale da non produrre significative differenze 

di tecniche e di costo nella successiva fase esecutiva. Il progetto definitivo fissa le caratteristiche architettoniche e 

strutturali del sistema antirumore, individuando le specifiche di progetto a cui fare riferimento nella progettazione 

esecutiva; 

● progettazione esecutiva che costituisce l’ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni, definendo, quindi, impiantistico 

l’intervento da realizzare in ogni suo particolare architettonico e strutturale; in dettaglio, descrive i criteri utilizzati per le 

scelte progettuali esecutive, per i particolari costruttivi e per il conseguimento e la verifica dei prescritti livelli di sicurezza e 

qualitativi; 

● requisiti degli appaltatori dei lavori inerenti sistemi antirumore per infrastrutture di trasporto; devono essere 

assicurati per garantire la qualità complessiva dell’opera; 

● requisiti dei sistemi antirumore: sono sia direttamente connessi alla loro funzione (caratteristiche acustiche) sia 

relativi ad altre proprietà meccaniche, di sicurezza, di compatibilità ambientale sia a requisiti di durabilità; 

● requisiti dei materiali che devono garantire le prestazioni acustiche, non acustiche e di durabilità. La scelta di questi 

materiali deve essere definita in relazione alla situazione ambientale del sito di installazione e, quindi, con specifico 

orientamento verso materiali in grado di offrire la massima durabilità richiesta e riciclabilità al termine della vita utile. 

Inoltre, si specifica quali sono le caratteristiche fisiche e chimiche rilevanti dei materiali costituenti impiegati nella 

costruzione del prodotto finito e i rispettivi valori di riferimento affinché il sistema antirumore mantenga le prestazioni 

dichiarate per l’intera durata della vita. Sono trattati prima gli elementi acustici e poi quelli strutturali, distinguendo, ogni 

volta, tra le principali famiglie di materiali, e, in seguito, guarnizioni e sigillanti, accessori metallici e porte di servizio. 

Vengono anche considerati i sistemi antirumore, per i quali non è sempre possibile distinguere tra elementi acustici e 

strutturali (terrapieni naturali e in terra rinforzata, bromuri e barriere inverdibili a basso ingombro trasversale); 

● le modalità di collaudo allo scopo di accertarne la rispondenza alle previsioni progettuali. 

–––––––––––––––––– 

(1) Il gruppo è coordinato dal prof. M. Garai dell’Università di Bologna 

RUMORE 

Osservatorio UNI - Articolo 


RUMORE 

Osservatorio UNI - Articolo 

AMBIENTE 

Elenco norme 

I sistemi antirumore per infrastrutture di trasporto via terra hanno sia proprietà direttamente connesse alla loro funzione 

(caratteristiche acustiche) che altre proprietà meccaniche, di sicurezza e di compatibilità ambientale. 

Norme riguardanti le caratteristiche acustiche dei sistemi antirumore 

Le caratteristiche acustiche possono essere suddivise in due categorie: 

1. le caratteristiche estrinseche, per le quali si rimanda alla norma UNI 11022 - «Acustica - Misurazione dell’efficacia 

acustica dei sistemi antirumore (insertion loss), per infrastrutture di trasporto, installati in ambiente esterno»; 

2. le caratteristiche intrinseche, comprendenti quelle proprie del prodotto antirumore, indipendentemente dall’ambiente 

in cui esso sarà installato e dall’effetto finale di riduzione del rumore su ricevitori dati. Allo scopo esistono le seguenti 

norme: 

● UNI EN 1793-1 «Dispositivi per la riduzione del rumore da traffico stradale - Parte 1: Metodo di prova per la 

determinazione della prestazione acustica - Caratteristiche intrinseche di assorbimento acustico»; 


determinazione della prestazione acustica - Caratteristiche intrinseche di isolamento acustico per via aerea»; 


determinazione della prestazione acustica - Spettro normalizzato del rumore da traffico»; 

● UNI CEN/TS 1793-4 «Dispositivi per la riduzione del rumore da traffico stradale - Metodo di prova per la determinazione 

della prestazione acustica - Parte 4: Caratteristiche intrinseche - Valori in situ della difrazione sonora»; 

● UNI CEN/TS 1793-5 «Dispositivi per la riduzione del rumore da traffico stradale - Metodo di prova per la determinazione 

della prestazione acustica - Caratteristiche intrinseche - Valori in sito della riflessione sonora e dell’isolamento acustico 

per via aerea». 

Norme riguardanti le caratteristiche meccaniche di sicurezza e ambientali dei sistemi antirumore 

● UNI EN 1794-1 «Dispositivi per la riduzione del rumore da traffico stradale - Parte 1: Prestazioni non acustiche - 

Prestazioni meccaniche e requisiti di stabilità»; 

● UNI EN 1794-2 «Dispositivi per la riduzione del rumore da traffico stradale - Parte 2: Prestazioni non acustiche - 

Requisiti generali di sicurezza e ambientali». 

Progetti di norma europei specifici sui sistemi antirumore in preparazione 

● prEN 14388, «Road traffic noise reducing devices - Specifications»; 

● prEN 14389-1, «Road traffic noise reducing devices - Procedure for assessing long term performance - Part 1: Acoustic 

characteristics»; 

● prEN 14389-2, «Road traffic noise reducing devices - Procedure for assessing long term performance - Part 2: 

Non-acoustical characteristics». 

Norme complementari 

A volte i sistemi antirumore devono essere coordinati con le barriere di sicurezza stradali, per le quali si applicano le 

seguenti norme: 

● UNI EN 1317-1 «Barriere di sicurezza stradali - Parte 1: Terminologia e criteri generali per i metodi di prova»; 

● UNI EN 1317-2 «Barriere di sicurezza stradali - Parte 2: Classi di prestazione, criteri di accettazione delle prove d’urto e 

metodi di prova per le barriere di sicurezza». 

Inoltre, per poter valutare l’utilizzo dei sistemi antirumore, è necessario una progettazione preliminare rivolta alla verifica 

di fattibilità dell’intervento di risanamento acustico per mezzo dei sistemi antirumore. La fattibilità e l’efficacia dell’intervento 

dovranno essere valutate tenendo conto dei livelli di rumore previsti ai ricettori e dei regolamenti vigenti e del 

quadro di riferimento ambientale. Allo scopo si elencano una serie di norme e di progetti utili per una buona progettazione 

preliminare. 

● UNI 9884 «Acustica - Caratterizzazione acustica del territorio mediante la descrizione del rumore ambientale»; 

● UNI 11109 «Impatto ambientale - Linee guida per lo studio dell’impatto sul paesaggio nella redazione degli studi di 

impatto ambientale»; 

● Progetti UNI U20.00.094, «Acustica - Metodo per la stima dell’impatto e del clima acustico per tipologia di sorgenti»: 

- Parte 1: Generalità; 

- Parte 2: Rumore stradale; 

- Parte 3: Rumore ferroviario; 

- Parte 5: Rumore da insediamenti produttivi (industriali e artigianali); 

- Parte 6: Rumore da luoghi di intrattenimento danzante e di pubblico spettacolo. 


RASSEGNA DI LEGISLAZIONE 


ITALIA 

ACQUA: MATERIALI PER IMPIANTI FISSI 

DI CAPTAZIONE 

Decreto del Ministero della salute 

6 aprile 2004, n. 174 

«Regolamento concernente i materiali e 

gli oggetti che possono essere utilizzati 

negli impianti fissi di captazione, trattamento, 

adduzione e distribuzione delle acque destinate 

al consumo umano» (G.U. del 17 luglio 

2004, n. 166) 

Trattasi della disciplina tecnica concernente 

le condizioni alle quali devono rispondere i 

materiali e gli oggetti utilizzati negli impianti 

fissi di captazione, di trattamento, di adduzione 

e di distribuzione delle acque destinate 

al consumo umano ex D.Lgs. n. 

31/2001, intesi come materiali da utilizzare 

tanto negli impianti nuovi quanto per sostituzioni 

nelle riparazioni, a partire da dodici 

mesi dalla data di pubblicazione in Gazzetta 

Ufficiale del regolamento in questione (salvo 

indicazioni particolari). 

L’articolo 2 reca, al proposito, un principio 

generale secondo il quale i materiali e gli 

oggetti in questione, così come i loro prodotti 

di assemblaggio (gomiti, valvole di intercettazione, 

guarnizioni ecc.), dovranno essere 

compatibili con le caratteristiche delle acque 

destinate al consumo umano, sì come 

definite ex Allegato I, D.Lgs. n. 31/2001 citato. 

Gli stessi materiali e oggetti non dovranno, 

inoltre, alterare, nel tempo, l’acqua con 

essi posta a contatto sia in condizioni normali 

che d’impiego e di messa in opera. In particolare 

questa alterazione non dovrà avvenire 

né conferendo all’acqua un carattere noci- 

AMBIENTE 

LEGISLAZIONE 

In breve 

vo per la salute, né modificandone sfavorevolmente 

le caratteristiche organolettiche, 

fisiche, chimiche e microbiologiche. Parimenti 

i materiali e gli oggetti non dovranno, nel 

tempo, modificare le caratteristiche delle acque 

poste con essi in contatto, in maniera 

tale da non consentire il rispetto dei limiti 

vigenti negli effluenti dagli impianti di depurazione 

delle acque reflue urbane. Risulta, 

in questo senso, previsto, a carico delle 

imprese che producono oggetti destinati a 

venire in contatto con acque destinate al 

consumo umano, un obbligo di controllo circa 

la rispondenza alle norme a essi applicabili 

e di dimostrazione di aver adeguatamente 

provveduto ai controlli e agli accertamenti 

necessari, tra l’altro con onere di corredare 

ciascuna fornitura di etichettatura o stampigliatura 

o marcatura attestante che gli oggetti 

in questione sono conformi alle norme 

della disciplina in oggetto (e, laddove non 

possibile, da idonea dichiarazione in questo 

senso). 

Idonee procedure in grado di prevenire la 

contaminazione dell’acqua destinata al consumo 

umano dovranno essere prese anche 

in fase di ristrutturazione degli impianti di 

adduzione ecc., come per il trasporto e lo 

stoccaggio dei materiali in questione (artt. 3 

e4). 

Il Capo II, artt. da 5 a 8, reca, a propria volta, 

disposizioni particolari per i materiali costituenti 

le tubazioni, i raccordi, le guarnizioni 

e gli accessori (leghe utilizzabili ecc.). 

Da ultimo il decreto abroga, in chiusura, la 

precedente normativa di cui all’art. 56, 

«Istruzioni ministeriali» 20 giugno 1896 recanti 

«Compilazione dei regolamenti locali 

sull’igiene del suolo e dell’abitato». Ulteriori 

approfondimenti sui prossimi numeri di 



LEGISLAZIONE 

In breve 

EMISSIONI NAZIONALI ANNUE 

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 171 

«Attuazione della direttiva 2001/81/CE relativa 

ai limiti nazionali di emissione di 

alcuni inquinanti atmosferici» (G.U. del 16 luglio 

2004, n. 165) 

Trattasi della nuova normativa tecnica emanata, 

in attuazione della corrispondente direttiva 

europea indicata al titolo, «al fine di 

tutelare l’ambiente e la salute umana dagli 

effetti nocivi causati dalla acidificazione, dalla 

eutrofizzazione del suolo e dalla presenza 

di ozono al livello del suolo», individuando 

gli strumenti per far sì che le emissioni 

nazionali annue per il biossido di zolfo, per 

gli ossidi di azoto, per i composti organici 

volatili e per l’ammoniaca, rispettino, entro 

il 2010 (e negli anni successivi), i limiti nazionali 

di emissione all’uopo individuati in allegato 

I (art. 1, comma 1). Risultano sottratte 

all’applicazione della disciplina sia le emissioni 

derivanti dal traffico marittimo internazionale 

che quelle degli aeromobili al di fuori 

del ciclo di atterraggio e di decollo. 

Gli strumenti approntati dal decreto vertono 

intorno a due linee direttrici. Da un lato 

si trovano, innanzitutto, l’obbligo di elaborare, 

da parte del Ministero dell’Ambiente e 

della Tutela del territorio - previo concerto 

con vari altri dicasteri un programma nazionale 

di riduzione delle emissioni, da sottoporre 

al CIPE entro otto mesi dall’entrata in 

vigore del decreto in questione. Il piano dovrà 

recare gli obiettivi di riduzione delle 

emissioni suddette, comprendendo, quanto 

meno, le misure per la riduzione delle emissioni 

derivanti da impianti termici per uso 

civile e da attività industriali, agricole e zootecniche, 

da trasporto stradale e da attività 

industriali, in attuazione degli impegni derivanti 

per l’Italia dalla sottoscrizione del Protocollo 

alla Convenzione di Ginevra sull’inquinamento 

atmosferico trasfrontaliero a 

lunga distanza (protocollo di Goteborg del 

1˚ dicembre 1999). Il Programma, che aggior- 

AMBIENTE 

na quello nazionale «per la progressiva riduzione 

delle emissioni nazionali annue di 

biossido di zolfo, di ossidi di azoto, di composti 

organici volatili e di ammoniaca» già 

notificato alla Commissione europea, dovrà, 

altresì, contenere incentivi finanziari, misure 

economiche, strumenti volontari e di mercato, 

per promuovere e agevolare le misure 

e i programmi per la riduzione delle emissioni, 

nonché programmi pilota per la riduzione 

delle emissioni volti a definire i modelli 

di intervento economicamente più efficaci. 

Risulteranno, comunque, sottratte alle misure 

previste dal Programma nazionale, le 

emissioni derivanti dai mezzi impiegati per 

fini istituzionali delle Forze Armate, delle 

Forze di Polizia e dal Corpo Nazionale dei 

Vigili del Fuoco. 

Sotto altro profilo si trovano l’obbligo a 

carico di APAT ed ENEA di elaborare gli 

inventari provvisori e definitivi delle emissioni 

e, su questa base, di prevedere le proiezioni 

delle medesime, con onere di rendicontazione 

annuale a favore del Ministero 

dell’Ambiente e della Tutela del territorio il 

quale, a propria volta, dovrà riferire alla 

Commissione europea e all’Agenzia europea 

per l’ambiente. Sul medesimo dicastero 

grava, infine, l’onere di messa a disposizione 

del pubblico «in forma chiara, comprensibile 

ed accessibile», anche attraverso la pubblicazione 

sul sito internet ministeriale, sia 

dei programmi di riduzione delle emissioni 

che degli inventari e proiezioni delle emissioni 

sopra indicate. Ulteriori approfondimenti 

sui prossimi numeri di Ambiente&Sicurezza. 

IPPC 

Circolare del Ministero dell’Ambiente 

e della Tutela del territorio 

13 luglio 2004 

«Circolare interpretativa in materia di 

prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento, 

di cui al decreto legislativo 4 agosto 

1999, n. 372, con particolare riferimento 

all’allegato I» (G.U. del 19 luglio 2004, n. 167) 


Si tratta di un interessante provvedimento interpretativo 

della normativa indicata al titolo, 

tra l’altro in riferimento alla definizione del 

concetto di capacità produttiva e alla definizione 

del concetto di «attività connessa». 

Riguardo il primo aspetto, ricordando la circolare, 

come in generale essendo le soglie 

delimitanti il campo applicativo del D.Lgs. n. 

372/1999, espresse in termini di capacità produttiva, 

sarà da intendersi come capacità 

produttiva la «capacità relazionabile al massimo 

inquinamento potenziale dell’impianto», 

salvo i casi in cui l’attività sia caratterizzata 

da discontinuità nella produzione o nei 

processi, ovvero da sequenzialità nei processi 

o, ancora, salvo che si tratta del caso di 

più linee produttive di diversa capacità non 

utilizzate continuativamente in contemporaneità 

e da pluralità dei prodotti. Nell’ipotesi 

di questa seconda casistica, la circolare reca 

preziose definizioni in ordine alla corretta 

interpretazione di ciascuno dei concetti detti 

(periodo di utilizzo, discontinuità dei processi, 

pluralità di linee, capacità specifica, 

pluralità di prodotti, sequenzialità ecc.). 

Circa, invece, il concetto di «attività connessa», 

com’è noto costitutiva della definizione 

di «impianto» ex art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 

372/1999, il provvedimento interpretativo 

chiarisce, dapprima, cosa debba intendersi 

per «attività accessoria» ai sensi della medesima 

definizione, affermando, in questo senso, 

la necessità di intendere un’attività svolta 

dallo stesso gestore, nello stesso sito dell’attività 

principale o in uo contiguo e direttamente 

connesso a quello dell’attività principale 

(«per mezzo di infrastrutture tecnologiche 

funzionali alla conduzione dell’attività 

principale») e con modalità di svolgimento 

tali da avere qualche implicazione tecnica 

con le modalità di svolgimento dell’attività 

principale. Ulteriori importanti chiarimenti 

sono forniti circa i concetti di «sito di ubicazione 

dell’impianto» (rispetto al quale la circolare 

rinvia alla definizione all’uopo indicata 

all’art. 2, punto t), regolamento (CE) n. 

761/2001 in materia di adesione volontaria 

AMBIENTE 

delle organizzazioni a un sistema comunitario 

di ecogestione e audit - EMAS), di impianti 

di combustione, di arrostimento, chimici 

per la fabbricazione di prodotti chimici di 

base, nonché alla definizione di «densità di 

colata per forno», di«capacità produttiva» 

per gli impianti per il pretrattamento, di 

«prodotto finito» e, infine, di capacità di 

produzione di prodotti finiti per la fabbricazione 

di prodotti alimentari. Ulteriori approfondimenti 

sui prossimi numeri di Ambiente& 

Sicurezza. 

GESTIONE DEI RIFIUTI 

LEGISLAZIONE 

In breve 

Decreto del Ministero dell’Ambiente 

e della Tutela del territorio 3 giugno 

2004, n. 167 

«Regolamento concernente modifiche al 

decreto ministeriale 28 aprile 1998, n. 

406, recante “Norme di attuazione di direttive 

dell’Unione europea, avente ad oggetto la disciplina 

dell’Albo nazionale delle imprese, che 

effettuano la gestione dei rifiuti”» (G.U. n. 

159 del 9 luglio 2004) 

Il decreto recepisce la sentenza n. 3097/2001 

resa dal TAR Lazio, sez. II-bis, concernente 

l’annullamento, in parte, del D.M. n. 

406/1998, limitatamente alla non menzione 

dei biologi tra i professionisti abilitati a rilasciare 

l’attestazione, a mezzo di perizia giurata, 

circa l’idoneità dei mezzi di trasporto 

relativamente ai rifiuti da trasportare. Si 

tratta della nota perizia che le imprese intenzionate 

a effettuare attività di raccolta e 

trasporto rifiuti devono allegare alla domanda 

di iscrizione all’Albo nazionale delle imprese 

che effettuano la gestione dei rifiuti. 

Per l’effetto risulta modificato l’art. 12, comma 

3, lett. a), citato D.M. n. 406/1998, inserendo 

anche i biologi tra i professionisti abilitati 

a rilasciare detta perizia. Ulteriori approfondimenti 

sui prossimi numeri di Ambiente&Sicurezza. 



Massime 

RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA 

a cura di Luciano Butti e Fabio Dal Seno, Butti Peres & Partner avvocati 

SCARTI ANIMALI E 

DISCIPLINA SUI RIFIUTI 

Cassazione penale, sez. III 

(ud. 5 maggio 2004) 

15 giugno 2004, n. 26851, 

Pres. Savignano, Rel. Lombardi 

Scarti animali destinati all’eliminazione - 

Disciplina dei rifiuti (D.Lgs. n. 22/1997) - 

Applicabilità in concorso con il Regolamento 

CE n. 1774/2002 - D.Lgs. n. 508/92 - 

Abrogazione tacita per effetto dell’entrata 

in vigore del predetto Regolamento 

Lo svolgimento dell’attività di raccolta, trasporto 

e stoccaggio di scarti animali non trattati in assenza 

della iscrizione all’albo nazionale delle imprese 

esercenti la gestione dei rifiuti comporta 

l’applicabilità dei reati previsti dall’art. 51 del 

D.Lgs. n. 22/1997, poiché la esclusione del regime 

generale dei rifiuti prevista dall’articolo 8, 

comma 1, del citato decreto n. 22/1997 per le 

carogne ed altri rifiuti agricoli specificamente indicati 

deve essere interpretata restrittivamente, 

e non può, perciò, estendersi agli scarti animali. 

Il D.Lgs. n. 508/1992 deve ritenersi tacitamente 

abrogato per effetto dell’entrata in vigore del 

Regolamento CE n. 1774/2002 del Parlamento 

Europeo e del Consiglio in materia di raccolta, 

trasporto, magazzinaggio e altre attività riguardanti 

i sottoprodotti di origine animale. 

Nota 

Con questa sentenza, la Cassazione sposa in pieno 

la tesi più rigorosa in materia di gestione 

degli scarti animali, secondo la quale la normativa 

speciale esistente in materia (in passato il 

D.Lgs. n. 508/1992, ora il regolamento europeo 

n. 1774/2002) non consente di evitare l’applicabilità 

della normativa sui rifiuti (D.Lgs. n. 22/1997) 

e dei reati penali da essa previsti. 

La Corte si dice consapevole che, in passato, un 

diverso indirizzo giurisprudenziale aveva sostenuto 

che «La materia dei rifiuti di origine animale 

trova una propria particolare disciplina nel 

decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 508 (attuativo 

della direttiva 90/667/CEE), così che le 

attività di smaltimento e trasporto dei cd. scarti 

AMBIENTE 

da macellazione sono sottratte alla disciplina di 

cui al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 

in virtù del principio di specialità rispetto alla 

disciplina generale in tema di rifiuti.» (Cass., sez. 

III, n. 29236/2003). 

Questo orientamento viene tuttavia disatteso, 

con l’accoglimento invece della diversa tesi (anch’essa 

in passato sostenuta dalla Cassazione) 

secondo la quale «In tema di gestione dei rifiuti, 

configura l’ipotesi di reato di cui agli art. 30 e 51 

del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 lo svolgimento 

dell’attività di raccolta, trasporto e stoccaggio di 

scarti animali non trattati in assenza della iscrizione 

all’albo nazionale delle imprese esercenti 

la gestione dei rifiuti, atteso che la esclusione 

dal regime generale dei rifiuti prevista dall’art. 

8, comma 1, del citato decreto n. 22 per le carogne 

ed altri rifiuti agricoli specificamente indicati, 

non può estendersi agli scarti animali in quanto 

le esclusioni dall’ambito di una normativa 

devono essere oggetto di interpretazione restrittiva.» 

(Cass., sez. III, n. 8520/2002). 

In particolare, secondo la sentenza in commento, 

due sono le argomentazioni fondamentali 

da considerare: 

- il D.Lgs. 14 dicembre 1992, n. 508 regolerebbe 

esclusivamente i profili sanitari e di polizia veterinaria 

della fase di trasformazione dei rifiuti di 

origine animale, con esclusione, quindi, dei profili 

di gestione dei rifiuti, per i quali rimane la 

operatività del decreto n. 22/1997; 

- il D.Lgs. n. 508/1992 dovrebbe ritenersi tacitamente 

abrogato per effetto dell’entrata in vigore 

del regolamento CE n. 1774/2002 del Parlamento 

Europeo e del Consiglio in materia di 

raccolta, trasporto, magazzinaggio e altre attività 

riguardanti i sottoprodotti di origine animale. 

Se non verrà modificato, l’indirizzo restrittivo 

accolto dalla Suprema Corte con la sentenza in 

commento appare destinato a ripercuotersi assai 

pesantemente sull’organizzazione e sulle 

procedure adottate dagli operatori del settore. 

La severità delle sanzioni penali previste dal 

D.Lgs. n. 22/1997, sulla gestione dei rifiuti deve 

perciò spingere le aziende interessate a effettuare 

un’attenta valutazione della propria attività, 

al fine di individuare eventuali modifiche da apportare 

per evitare i rischi sanzionatori. 

Ulteriori approfondimenti sui prossimi numeri 

di Ambiente&Sicurezza. l 


RASSEGNA DI DELIBERE 

E LEGGI REGIONALI 

GIUGNO-LUGLIO 2004 

a cura di Alessandro Jazzetti............................................ pag. 120

LEGISLAZIONE 

In breve 

a cura di Alessandro Jazzetti, magistrato 

GIUGNO - LUGLIO 2004 

Regione Ambito Estremi e nota 


Abruzzo Sicurezza 

sul lavoro 

Sicurezza 

sul lavoro 

Piemonte Sicurezza 

sul lavoro 

DALLE REGIONI 

RASSEGNA DI DELIBERE E LEGGI REGIONALI 

Delibera Giunta Regionale 12 marzo 2004, n. 129 

«Linee-guida per l’applicazione del D.Lgs. 26 maggio 2000, n. 

187 in materia di protezione sanitaria delle persone contro i 

pericoli delle radiazioni connesse ad esposizioni mediche» 

(in B.U. Abruzzo 4 giugno 2004, n. 15) 

Delibera Giunta Regionale 12 marzo 2004, n. 139 

«Iniziative in materia di prevenzione e promozione della salute nei 

luoghi di lavoro» 


Delibera Giunta Regionale 24 maggio 2004, n. 31-12557 

«Approvazione delle linee di indirizzo per la definizione di un 

progetto di promozione delle attività di prevenzione delle patologie 

da lavoro» 

(in B.U. Piemonte 1˚ luglio 2004, n. 26) 

Abruzzo Acqua 

AMBIENTE 

Delibera Giunta Regionale 20 febbraio 2004, n. 103 

«Disposizioni sui controlli degli scarichi di acque reflue in applicazione 

del D.Lgs. n. 152/1999 e successive modifiche e relativa gestione 

delle spese» 


Lazio Acqua Delibera Giunta Regionale 2 aprile 2004, n. 236 

«Revisione della prima individuazione delle sezioni di prelievo 

e di misura sui corpi idrici significativi della Regione Lazio e 

prescrizioni ad Arpa Lazio per gli adempimenti relativi al 

decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 e successive disposizioni 

correttive ed integrative di cui al decreto legislativo 18 

agosto 2000, n. 258» 

(in B.U. Lazio 19 giugno 2004, n. 17, S.O. n. 2) 

Liguria Acqua Delibera Giunta Regionale 28 maggio 2004, n. 540 

«Approvazione obiettivi su scala di bacino e priorità degli interventi 

per la redazione del Piano Regionale di Tutela delle Acque ex art. 

44, D.Lgs. n. 152/1999» 

(in B.U. Liguria 23 giugno 2004, n. 25, parte seconda) 

Umbria Acqua Delibera Giunta Regionale 18 maggio 2004, n. 598 

«Direttiva regionale concernente le procedure e adempimenti 

tecnico-contabili per la concessione delle risorse, l’esecuzione, 

il monitoraggio e la rendicontazione degli interventi-azioni 

previsti nell’Accordo di programma quadro “Tutela delle acque 

e gestione integrata delle risorse idriche”» 

(in B.U. Umbria 23 giugno 2004, n. 26) 

Abruzzo Finanziamenti Determinazione 3 maggio 2004, n. DE2/31 

«Piano investimenti 2002-2003 - Programma di potenziamento regionale» 



Basilicata Finanziamenti Delibera Giunta Regionale 17 maggio 2004, n. 1207 

«Piano Sviluppo Rurale (P.S.R.) 2000-2006. Elenco definitivo degli 

ammessi agli aiuti, bando mis. 3.1 - Agricoltura Biologica - Delib. 

G.R. n. 421/2003» 

(in B.U. Basilicata 4 giugno 2004, n. 41) 

Friuli 


Emilia 

Romagna 

Finanziamenti Decisione dell’Assessore Regionale alle Risorse agricole, naturali 

e forestali 26 maggio 2004, n. 410 

«Disposizione di ulteriori risorse finanziarie relativamente alla misura 

“i” del Piano di Sviluppo Rurale» 

(in B.U. Friuli-Venezia Giulia 9 giugno 2004, n. 23) 

Incidenti 

rilevanti 

Delibera Giunta Regionale 17 maggio 2004, n. 938 

«Direttiva per l’applicazione dell’art. 6 della L.R. 17 dicembre 

2003, n. 26 recante disposizioni in materia di pericoli di incidenti 

rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose» 

(in B.U. Emilia-Romagna 9 giugno 2004, n. 74) 

Basilicata Rifiuti Delibera Giunta Regionale 17 maggio 2004, n. 1200 

«D.Lgs. n. 36/2003, art. 5. Adeguamento del piano regionale di 

gestione dei rifiuti. Programma per la riduzione dei rifiuti biodegradabili 

da collocare in discarica. Adozione» 


Rifiuti Delibera Giunta Regionale 17 maggio 2004, n. 1194 

«D.Lgs. n. 209/1999, art. 4 - Adozione programma di raccolta, smaltimento 

e decontaminazione degli apparecchi contenenti PCB in 

modifica ed integrazione al programma approvato con Delib. G.R. 

23 settembre 2003, n. 703» 


Emilia 

Romagna 

DALLE REGIONI 

LEGISLAZIONE 

In breve 

Rifiuti Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale 26 maggio 

2004, n. 126 

«Disposizioni in merito alla prestazione delle garanzie finanziarie 

previste per la gestione successiva alla chiusura delle discariche di 

rifiuti» 

(in B.U. Emilia-Romagna 9 giugno 2004, n. 74) 

Lombardia Rifiuti Delibera del Consiglio Regionale 18 maggio 2004, n. VII/1011 

«Atto di indirizzo in materia di pianificazione regionale per la 

gestione dei rifiuti in attuazione della legge regionale 12 dicembre 

2003, n. 26, art. 19» 

(in B.U. Lombardia 7 giugno 2004, n. 24) 

Piemonte Rifiuti Determinazione del Dirigente regionale del Settore programmazione 

e gestione rifiuti 7 giugno 2004, n. 137 

«Legge n. 549/1995, L.R. n. 24/2002 e L.R. n. 39/1996. Interventi per il 

miglioramento qualitativo dei fanghi ai fini del recupero a fini 

agricoli, di cui alla Delib. G.R. 1˚ marzo 2000, n. 23//29513. Modalità, 

termini e modulistica per la redazione e presentazione delle istanze 

di finanziamento» 

(in B.U. Piemonte 17 giugno 2004, n. 24) 

Rifiuti Circolare del Presidente della Giunta Regionale 21 giugno 

2004, n. 2/AQA 

«D.Lgs. n. 36/2003. Prestazione delle garanzie finanziarie per la 

gestione successiva alla chiusura delle discariche» 

(in B.U. Piemonte 28 giugno 2004, n. 25) 

Puglia Rifiuti Delibera Giunta Regionale 3 giugno 2004, n. 805 

«Piano regionale per la raccolta e smaltimento degli apparecchi 

contenenti PCB soggetti ad inventario - Approvazione» 

(in B.U. Puglia 21 giugno 2004, n. 76) 

La Giunta regionale pugliese con Delibera 2086/2003 aveva in 

precedenza approvato il “Piano regionale per la raccolta e 

smaltimento degli apparecchi contenenti PCB non soggetti ad 

inventario”. 


LEGISLAZIONE 

In breve 

Sardegna Rifiuti Delibera Giunta Regionale 3 maggio 2004, n. 21/16 

«POR 2000-2006 Asse I - Attuazione della misura 1.4 - 

Iniziative dirette alla riduzione della produzione dei rifiuti 

urbani e alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani. Programma 

degli interventi selezionati tramite bando. Annualità 

2003-2004» 

(in B.U. Sardegna 21 giugno 2004, n. 20) 

Toscana Rifiuti Ordinanza Regione Toscana 14 giugno 2004, n. A/6 

«Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 novembre 

2003, n. 3325 - Attuazione dell’ordinanza n. A/1 del 18 

dicembre 2003 in relazione al finanziamento dell’intervento di 

smaltimento dei rifiuti depositati a seguito dell’alluvione in 

aree private. (Ordinanza n. A/6)» 

(in Gazzetta Ufficiale del 3 luglio 2004, n. 154) 

Rifiuti Delibera Giunta Regionale 7 giugno 2004, n. 548 

«L.R. 25/98 art. 12 comma 7 - pronuncia di conformità sul 

Piano di Gestione dei Rifiuti speciali e speciali pericolosi della Provincia 

di Pistoia» 

(in B.U. Toscana 30 giugno 2004, n. 26) 

Umbria Rifiuti Delibera Giunta Regionale 26 maggio 2004, n. 678 

«Anno 2003. Produzione rifiuti urbani e raccolta differenziata. Certificazione 

dei dati e adozione degli elaborati» 

(in B.U. Umbria 23 giugno 2004, n. 26) 

Abruzzo Tutela 

ambientale 

Basilicata Tutela 

ambientale 

Friuli 


Tutela 

ambientale 

Sardegna Tutela 

ambientale 

Toscana Tutela 

ambientale 

DALLE REGIONI 

Delibera Giunta Regionale 10 ottobre 2003, n. 1122 

«D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 - D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 

447 come modificato dal D.P.R. 31 marzo 2000, n. 440: 

Definizione della disciplina delle “Aree ecologicamente 

attrezzate”» 


Delibera Giunta Regionale 7 giugno 2004, n. 1359 

«Ufficio Controllo Finanziario e di Gestione: Approvazione programma 

di controllo POR Basilicata 2000/2006 - Programma di azioni 

innovative “Territorio di Eccellenza” anno 2003» 


Obiettivo del programma è la realizzazione di azioni tese a 

migliorare la qualità ambientale del territorio regionale, attraverso 

la sperimentazione in un’area limitata - il comprensorio 

della Val D’Agri - di un processo di certificazione ambientale 

territoriale. 

Decisione dell’Assessore regionale alle risorse agricole, naturali 

e forestali 26 maggio 2004, n. 409 

«Modifiche al Dec. Ass. 18 gennaio 2001, n. 8 dell’Assessore alle 

foreste d’approvazione del “Bando-regolamento relativo alla 

pianificazione dei processi di gestione forestale; progetti di filiera 

ed ecocertificazione; associazionismo forestale; ricostituzione 

dei boschi danneggiati; mantenimento e miglioramento della 

stabilità ecologica delle foreste”» 

(in B.U. Friuli-Venezia Giulia 9 giugno 2004, n. 23) 

Delibera del Presidente della Giunta Regionale 3 giugno 

2004, n. 73 

«Modifica al D.P.G.R. 2 luglio 2001, n. 48. Variazione dotazione 

organica del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale» 

(in B.U. Sardegna 11 giugno 2004, n. 19) 

Delibera del Consiglio Regionale 25 maggio 2004, n. 48 

«Legge regionale 16 luglio 1997, n. 50 (Tutela delle risorse genetiche 

autoctone). Programma regionale per la tutela delle risorse 

genetiche autoctone vegetali per l’anno 2004» 

(in B.U. Toscana 16 giugno 2004, n. 24, parte seconda)

Ambiente e Sicurezza..

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