BESTIE DA DISPIACERE racconto di Maurizio ... - Exclusion.net
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<strong>BESTIE</strong> <strong>DA</strong> <strong>DISPIACERE</strong><br />
<strong>racconto</strong> <strong>di</strong> <strong>Maurizio</strong> Braucci<br />
E’ un uomo molto simpatico, quando ti<br />
ascolta parlare socchiude gli occhi,<br />
assumendo un’espressione assorta che<br />
potresti scambiare per minacciosa,<br />
sputacchia nel vuoto una batteria <strong>di</strong> suoni<br />
labiali e ti fissa, arrovellandosi intorno al<br />
filtro della sua eterna sigaretta. L’in<strong>di</strong>ce e<br />
il me<strong>di</strong>o sono depositi ocra <strong>di</strong> nicotina e<br />
<strong>di</strong> collante, è robusto, un buon peso<br />
me<strong>di</strong>o, le spalle curvate dallo strazio, i<br />
neri capelli ricci del vecchio sud. Avanza<br />
con le braccia ciondoloni sui pie<strong>di</strong><br />
leggermente piatti, al suo fianco il fosco<br />
Pippo, bestia da <strong>di</strong>spiacere, il cane reietto<br />
che Baudelaire avrebbe volentieri cantato.<br />
Ci conosciamo da otto anni, il suo passato<br />
è incerto, si <strong>di</strong>ce che fosse un rapinatore<br />
emigrato a Francoforte o un operaio<br />
assunto da una grossa carrozzeria <strong>di</strong><br />
quella città, che sia finito in galera per<br />
una spiata o in manicomio per una<br />
delusione d’amore, imparentato a un boss<br />
del napoletano o solo reprobo figlio <strong>di</strong><br />
1
una famiglia allo sfascio, non so. Il suo<br />
nome è Ulisse, non ha <strong>di</strong>mora.<br />
L’ho conosciuto quando occupammo una<br />
struttura abbandonata per farne un centro<br />
sociale, lui era già lì, col suo cane al<br />
seguito, dormiva nella stanza delle<br />
caldaie, quando gli fu chiesto chi fosse<br />
parlò <strong>di</strong> sé in terza persona “E’un po’<br />
pazzarello” <strong>di</strong>sse “Ma è capace <strong>di</strong> tagliarsi<br />
la testa e poi <strong>di</strong> rimetterla al suo posto”.<br />
Era una sintesi pratica: sono un borderline<br />
ma so <strong>di</strong>fendermi. Gli ricavammo un<br />
alloggio all’interno della palazzina,<br />
poteva usare bagno e doccia, ma<br />
soprattutto stare con noi, gran parte dei<br />
frequentatori del posto lo prendeva in<br />
considerazione, lunghe chiacchierate,<br />
doni <strong>di</strong> vestiti, <strong>di</strong> sol<strong>di</strong>, <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>o e persino<br />
<strong>di</strong> televisori. Col tempo, constatando<br />
queste continue elargizioni, ho capito che<br />
molti gli rifilavano oggetti rotti,<br />
inutilizzabili o malconci, come se<br />
avessero già condannato<br />
all’incompletezza la sua capacità <strong>di</strong><br />
godere. Via, via, la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un<br />
marginale si riempie <strong>di</strong> cose che<br />
incarnano la percezione che la gente ha <strong>di</strong><br />
2
lui: tarato, liso, irreparabile. Con esito<br />
grottesco, gli uomini donano al pazzo, al<br />
reietto, assecondandolo, i propri scarti,<br />
all’ultimo gli ultimi e, così facendo, ne<br />
fanno delle istituzioni del degrado. In<br />
poco tempo da Ulisse sono passati vestiti<br />
con macchie, strappi o bruciature, lettori<br />
<strong>di</strong> video e au<strong>di</strong>ocassette con condensatori,<br />
testine e modulatori ormai andati, scarpe<br />
sghignazzanti o con la suola curva,<br />
mentre, come se si trattasse <strong>di</strong> rime<strong>di</strong>are a<br />
degli spropositi, alle uniche cose decenti<br />
ci pensavano i ladri. Nel 1995, Ulisse<br />
passa dalle caldaie (in precedenza<br />
dormiva nelle auto <strong>di</strong> un garage) ad una<br />
stanza perennemente in subbuglio marcata<br />
dal lezzo del proprio <strong>di</strong>sagio e da quello<br />
della stretta convivenza con Pippo. Ogni<br />
mattina si reca al lavoro nello stesso<br />
quartiere dove è nato, in una fabbrichetta<br />
<strong>di</strong> scarpe i cui proprietari gli affidano<br />
piccole mansioni e un minimo <strong>di</strong> red<strong>di</strong>to e<br />
<strong>di</strong> affetto. E’ la sua barricata contro una<br />
deriva senza ritorno, la manifestazione del<br />
suo temperamento pragmatico,<br />
l’ancoraggio ad un <strong>di</strong>ligente ritmo<br />
quoti<strong>di</strong>ano dentro un farfugliamento<br />
3
esistenziale. Una volta era<br />
soprannominato “l’astronauta” perché<br />
parlava <strong>di</strong> marziani, Nato e Nasa, e<br />
intratteneva gli ascoltatori incantandoli<br />
con rime sciolte e astrazioni poetiche,<br />
qualcosa <strong>di</strong> inscritto dalla lettera del<br />
veggente <strong>di</strong> Rimbaud faceva capolino<br />
nelle sue parole guadagnandogli una sorta<br />
<strong>di</strong> ammirazione, non senza che lui ne<br />
fosse consapevole. Questo Lazarillo che è<br />
alla guida <strong>di</strong> nessuno, in pieno accordo<br />
con il tema picaresco della fame si dà da<br />
fare per sod<strong>di</strong>sfare la propria golosità,<br />
toccando ogni giorno varie fonti <strong>di</strong><br />
rifocillamento: i datori <strong>di</strong> lavoro, una<br />
benevolente vecchia vedova, il rude<br />
proprietario <strong>di</strong> una trattoria, il giovane<br />
gestore <strong>di</strong> un pub. Ha un rapporto intimo<br />
col quartiere che lui ripaga con la sua<br />
infinita dolcezza, da bravo poeta sa<br />
fingere la fame, la sete e le avversità che<br />
gli fanno già copia, mai patetico, mai<br />
brutale, la mattina forgia suole <strong>di</strong> vento e<br />
la sera mette a punto i capricci della sua<br />
sorte insieme all’angelo canino. E’ un<br />
duro, dove un altro sarebbe già al tappeto,<br />
lui si gratta. A volte è insopportabile,<br />
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cocciuto, rompiballe, pare che voglia<br />
fartela pagare, d’un tratto entrava nelle<br />
nostre stupide riunioni politiche e<br />
accentrava su <strong>di</strong> sé tutta l’attenzione, per<br />
lo più ubriaco si metteva a delirare a voce<br />
spiegata, un moralista contro una banda <strong>di</strong><br />
puerili, futuri conformisti. Mi ricordo che<br />
piantò un <strong>di</strong>to nella guancia <strong>di</strong> una<br />
ragazza lasciandole un segno per mesi,<br />
stava ormai per scatenarsi quando un<br />
amico gli tirò giù la giacca<br />
immobilizzandogli le braccia, lui si<br />
infuriò a morte, umiliato. Da allora, ogni<br />
volta che arrivava per dare spettacolo non<br />
desiderato, uscivamo noi dalla sala, dopo<br />
cinque minuti ci ripensava, era come se al<br />
suo rea<strong>di</strong>ng non si fosse presentato<br />
nessuno, veniva fuori con la coda tra le<br />
gambe, le sue illuminazioni <strong>di</strong> vino<br />
riposte nello stomaco. Nel 1996<br />
inoltrammo la pratica per la pensione <strong>di</strong><br />
invali<strong>di</strong>tà, come altre cose avviate nel<br />
centro sociale era all’insegna <strong>di</strong> un’onesta<br />
inesperienza, non pensammo <strong>di</strong> rivolgerci<br />
a cose come le unità <strong>di</strong> salute mentale o<br />
alla psichiatria, non sapevamo quanto<br />
fossero inelu<strong>di</strong>bili e le vedevamo come<br />
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una condanna fatta <strong>di</strong> farmaci e<br />
segregazione. Essere in un luogo dove<br />
girava gente con pochi pregiu<strong>di</strong>zi verso<br />
uno schizofrenico e dove si tenevano<br />
concerti, proiezioni, spettacoli teatrali,<br />
alleggerì via, via la pressione mentale <strong>di</strong><br />
Ulisse, il suo eloquio <strong>di</strong>venne meno<br />
sconnesso, si innamorava delle varie<br />
ragazze che si occupavano <strong>di</strong> lui per lo<br />
spazio <strong>di</strong> una stagione e faceva<br />
scampanellate inattese a casa degli<br />
studenti <strong>di</strong>venuti suoi amici. I familiari<br />
non comparvero mai, sapevamo che due<br />
sorelle stavano da qualche parte, solo un<br />
amico <strong>di</strong> infanzia prese a fargli visita per<br />
alcuni mesi, mi raccontò che Ulisse era<br />
emigrato a Francoforte a venticinque anni<br />
e che lì una delusione d’amore aveva<br />
scatenato in lui quello stato <strong>di</strong><br />
alienazione. Alcuni abitanti della zona si<br />
rammaricavano <strong>di</strong> ricordarlo, giovane e<br />
assennato, come uno che non si faceva<br />
passare la mosca per il naso, tale<br />
rivelazione mi è sempre parsa come<br />
l’effetto <strong>di</strong> quella visione fatalistica che i<br />
vecchi napoletani avevano per le<br />
complicazioni e che agiva da erogatore<br />
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metafisico <strong>di</strong> solidarietà, in pratica era<br />
come se <strong>di</strong>cessero: prima era come tutti<br />
noi, potrebbe capitare anche a me, quin<strong>di</strong><br />
lo tollero. Del resto, Ulisse riusciva a<br />
sopravvivere proprio grazie alla fragile<br />
trama <strong>di</strong> relazioni ed espe<strong>di</strong>enti che aveva<br />
tessuto, ma da lì non sarebbe andato oltre,<br />
la sua situazione poteva peggiorare ma<br />
certo non migliorare. Quello che gli era<br />
possibile fare l’aveva fatto, ma<br />
rimanevano irrisolte delle questioni<br />
essenziali, non aveva una vera casa, un<br />
vero lavoro, nessuna terapia per le sue<br />
crisi, a trentasette anni l’alcool e gli<br />
zuccheri gli avevano già consumato i<br />
denti e si riduceva in con<strong>di</strong>zioni igieniche<br />
<strong>di</strong>sastrose. Una volta, <strong>di</strong> notte, è stato<br />
visto correre insieme ad una ragazza nuda<br />
nel parco antistante il centro sociale, si<br />
trattava <strong>di</strong> una nostra ospite occasionale<br />
dall’accento nor<strong>di</strong>co, nevrotica come lui,<br />
ed è stata l’unica relazione sentimentale<br />
che gli ho visto avere. Durò pochi giorni,<br />
poi la ragazza fu percossa a sangue da<br />
alcune donne e sparì per sempre, pare che<br />
il motivo dell’aggressione fosse una<br />
risposta poco educata da parte sua, non<br />
7
era del quartiere e non le fu perdonato.<br />
Non <strong>di</strong> rado accadeva che bande <strong>di</strong><br />
ragazzini dessero l’assalto alle case <strong>di</strong><br />
poveri matti con lanci <strong>di</strong> pietre e cori <strong>di</strong><br />
insulti, o che qualcuno li frequentasse per<br />
sottrargli sol<strong>di</strong> e oggetti. Rimasi un intero<br />
pomeriggio col fratello <strong>di</strong> uno <strong>di</strong> questi<br />
sventurati a cui una corvè aveva quasi<br />
<strong>di</strong>strutto il basso in cui viveva, l’uomo<br />
non sapeva come fare per proteggere il<br />
suo familiare, ci pensò il poveretto stesso<br />
morendo <strong>di</strong> infarto due settimane dopo.<br />
Di notte, anche Ulisse subiva l’asse<strong>di</strong>o<br />
ingiurioso da parte <strong>di</strong> orchetti sfaccendati,<br />
per fortuna la sua stanza era all’interno <strong>di</strong><br />
una palazzina, eppure trovavano il modo<br />
per lanciare ogni tanto delle pietre o,<br />
quando il centro sociale era aperto, per<br />
rubargli le poche cose buone che<br />
possedeva. Nel 1998 Ulisse ottenne il<br />
decreto <strong>di</strong> invali<strong>di</strong>tà, questo significava<br />
che gli era stato riconosciuto il <strong>di</strong>ritto a<br />
percepire una pensione, due visite<br />
me<strong>di</strong>che avevano attestato la sua<br />
patologia ed era questa la nostra vittoria<br />
<strong>di</strong> Pirro. Già in precedenza ci eravamo<br />
preoccupati <strong>di</strong> fargli la carta <strong>di</strong> identità, da<br />
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essa risultava domiciliato presso<br />
l’abitazione dove aveva vissuto con i<br />
fratelli e le sorelle e che, da cinque anni<br />
almeno, era occupata da una coppia <strong>di</strong><br />
singalesi. Intanto, si era messo al seguito<br />
<strong>di</strong> un componente del collettivo, fabbro <strong>di</strong><br />
professione, per dei lavori in un grosso<br />
negozio <strong>di</strong> abbigliamento, all’inizio, come<br />
è uso degli artigiani, il nostro amico aveva<br />
aperto un conto al bar a<strong>di</strong>acente. Pochi<br />
giorni e il fabbro scoprì <strong>di</strong> dover pagare<br />
qualche trentina <strong>di</strong> caffè, litigando al fine<br />
<strong>di</strong> non versare un supplemento per lo<br />
zucchero con cui il suo appren<strong>di</strong>sta quasi<br />
si riempiva le tazzine. Risultato: niente<br />
più cre<strong>di</strong>to, solo caffè lunghi e il dosatore<br />
che spariva dal banco all’arrivo <strong>di</strong> Ulisse.<br />
Qualche mese dopo, una ragazza del<br />
collettivo propose <strong>di</strong> contattare un suo<br />
amico psichiatra, garantendo che fosse<br />
una persona intelligente, promotore <strong>di</strong><br />
terapie non invasive. La questione nacque<br />
all’interno <strong>di</strong> un’assemblea a cui era<br />
presente un amico caduto in uno stato <strong>di</strong><br />
nevrosi ossessiva, un compagno che avrò<br />
sempre nel cuore per il coraggio e<br />
l’intelligenza, la sua reazione fu dura, con<br />
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tutte le armi della retorica antagonista e<br />
della sua <strong>di</strong>sperata identificazione cercò<br />
<strong>di</strong> convincerci che Ulisse non aveva<br />
bisogno <strong>di</strong> farmaci ma <strong>di</strong> amore e <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti<br />
esau<strong>di</strong>ti. Poiché queste giuste<br />
considerazioni non potevano tradursi in<br />
azioni, o meglio avrebbero richiesto un<br />
livello <strong>di</strong> responsabilizzazione e <strong>di</strong><br />
tatticismo troppo elevato per un fottuto<br />
centro sociale, si decise <strong>di</strong> provare a<br />
organizzare un incontro tra Ulisse e il<br />
me<strong>di</strong>co. Lo psichiatra venne nella stanza<br />
del suo potenziale paziente e fu accolto da<br />
questi con grande <strong>di</strong>ffidenza, ma la<br />
me<strong>di</strong>azione della ragazza poté molto e il<br />
nostro uomo venne persuaso a fare visita<br />
al dottore la settimana successiva per<br />
chiacchierare un po’. In breve funzionava,<br />
vi fu una <strong>di</strong>agnosi e una terapia minima <strong>di</strong><br />
risperdal con colloqui perio<strong>di</strong>ci, dopo un<br />
mese c’erano evidentemente dei risultati.<br />
All’inizio, la somministrazione del<br />
me<strong>di</strong>cinale era affidata alla nostra amica,<br />
poi il compito passò alla proprietaria della<br />
fabbrica <strong>di</strong> scarpe dove Ulisse lavorava.<br />
Intanto furono effettuati vari solleciti<br />
all’Inps per sbloccare la situazione<br />
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pensionistica, ogni volta sembrava che<br />
l’avrebbero erogata dal mese seguente,<br />
eravamo nel ‘99, tre anni già per un cristo<br />
in croce, solo oggi so che per<br />
un’istituzione cinica come quella il tempo<br />
è un puro calcolo economico. Credo che<br />
pochi enti possano vantare tanta capacità<br />
<strong>di</strong> ricatto verso i propri utenti, dal 1933,<br />
<strong>di</strong>ttatura a parte, l’Istituto si è sviluppato<br />
tra manovre assurde per garantire<br />
clientelismi e consensi ai vari governi,<br />
recando su <strong>di</strong> sé i segni <strong>di</strong> tale mostruosità<br />
già nell’espressione beffarda e desolata<br />
dei suoi impiegati. Non è un ente ma<br />
un’entità, dove quasi tutte le porte<br />
ufficiali sono solo <strong>di</strong>pinte e dove esistono<br />
cunicoli noti solo ai me<strong>di</strong>atori e agli<br />
operatori dell’indotto, passaggi che<br />
permettono <strong>di</strong> saltare anni <strong>di</strong> attesa e<br />
procedure che tagliano trasversalmente<br />
cerchi concentrici <strong>di</strong> <strong>di</strong>sperazione. Degli<br />
sprovveduti onesti come noi, senza una<br />
guida potevano solo continuare a girare in<br />
tondo nei suoi meandri.<br />
Nel frattempo stava accadendo la cosa<br />
peggiore per Ulisse: il centro sociale si<br />
stava <strong>di</strong>sgregando. Promotore <strong>di</strong><br />
11
numerose attività sociali e culturali, una<br />
delle esperienze citta<strong>di</strong>ne più feconde<br />
della seconda metà degli anni novanta pur<br />
senza aderenze politiche, esso pagava lo<br />
scotto <strong>di</strong> un’azione incessante in un<br />
territorio <strong>di</strong>fficile e l’ingenuità <strong>di</strong> non aver<br />
mai veramente perseguito quel minimo <strong>di</strong><br />
garanzie operative che solo una strategica<br />
legalizzazione poteva dare. Era un luogo<br />
abusivo ma la sua esistenza era più che<br />
lecita, lì si sperimentavano mo<strong>di</strong> non<br />
preconcetti per affrontare i soliti<br />
problemi, senza che fosse mai facile e un<br />
ostacolo è sempre derivato dalla mentalità<br />
conformista <strong>di</strong> alcuni suoi partecipanti,<br />
quelli che con grande facilità e orgoglio<br />
sapevano definirsi “<strong>di</strong> sinistra”. In breve,<br />
il gruppo che lo animava iniziò a tracciare<br />
una parabola <strong>di</strong>scendente, prevalsero<br />
stanchezza, spaccature e la<br />
sovrapposizione tra azione in<strong>di</strong>viduale e<br />
maleolente egoismo. Chiaramente, <strong>di</strong> tutto<br />
ciò Ulisse non si accorse, ma la tensione<br />
intorno alla sua situazione iniziò a calare:<br />
la ragazza che aveva promosso la sua<br />
terapia sparì, gli incontri con lo psichiatra<br />
si interruppero, la prescrizione dei<br />
12
me<strong>di</strong>cinali iniziò ad essere rinnovata mesi<br />
dopo che erano finiti ma, soprattutto,<br />
iniziammo a frequentarlo sempre meno<br />
spesso. Anche la pressione sulla pratica<br />
pensionistica si allentò, così come<br />
auspicano le politiche temporeggiatrici<br />
condotte dall’Inps in questi casi, <strong>di</strong><br />
meglio per i suoi calcoli ci sarebbe stata<br />
solo la morte dell’utente. Mentre tutto si<br />
<strong>di</strong>ssolveva, avemmo però la saggia idea <strong>di</strong><br />
interpellare un giovane avvocato che<br />
frequentava il centro sociale e che si stava<br />
specializzando in assistenza sindacale e<br />
previdenziale. Nella nostra nebulosa<br />
visione, percepire un red<strong>di</strong>to avrebbe<br />
significato per Ulisse una casa decente e<br />
un risollevamento morale, igienico e<br />
umano, ma ci sbagliavamo, la vera risorsa<br />
per lui era stare in una salda e attiva<br />
relazione con persone capaci <strong>di</strong><br />
con<strong>di</strong>videre i suoi problemi ed elaborare<br />
delle strategie precise fino a spazi non<br />
ancora in<strong>di</strong>viduabili, utopistici. Il<br />
quartiere intorno poteva decidere solo se<br />
accettarlo o meno, lo aveva accettato ma<br />
in quegli anni <strong>di</strong> rapida trasformazione il<br />
suo margine <strong>di</strong> tolleranza si riduceva<br />
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sempre più con l’esaltazione <strong>di</strong> caratteri e<br />
valori piccolo-borghesi. La fabbrichetta <strong>di</strong><br />
scarpe era un ancoraggio spontaneo<br />
contro una zona <strong>di</strong> non ritorno mentale,<br />
offriva un senso alla sua quoti<strong>di</strong>anità ma<br />
si concludeva in una strategia <strong>di</strong><br />
mantenimento. Altra questione era se<br />
Ulisse poteva <strong>di</strong>ventare autonomo e<br />
lottare per la propria felicità, noi,<br />
naturalmente, avremmo riposto <strong>di</strong> si ma<br />
mentre puntavamo nella <strong>di</strong>rezione<br />
sbagliata e con strumenti inadatti. In poco<br />
meno <strong>di</strong> un anno, con la deriva del centro<br />
sociale, tutti i guadagni <strong>di</strong> Ulisse erano<br />
perduti, negli ultimi tempi avevo imparato<br />
a ricevere dal mio amico delle impressioni<br />
ottimistiche sul suo futuro, faceva<br />
progetti, era <strong>di</strong> buon umore, più attento al<br />
suo aspetto, mi assillava con la proposta<br />
<strong>di</strong> aprire insieme una piccola pizzeria. Ora<br />
lo ritrovavo cupo, pessimista, trasandato e<br />
irascibile, il <strong>di</strong>niego era la sua espressione<br />
costante, lo avevamo illuso, ci eravamo<br />
messi a giocare con lui finché la musica<br />
girava, poi eravamo spariti. Per punirmi<br />
iniziò a <strong>di</strong>menticare il mio nome, ma io<br />
stesso non me la passavo bene, non avevo<br />
14
tempo e spazio per lui, l’unica cosa che<br />
riuscimmo a fare fu <strong>di</strong> andarcene in barca<br />
a vela, ci <strong>di</strong>vertimmo e alla fine chiese il<br />
solito “Quando ci rive<strong>di</strong>amo?”. Il centro<br />
sociale aveva ridotto dell’ottanta per<br />
cento le sue attività, era un luogo spento<br />
quando due capover<strong>di</strong>ani chiesero<br />
ospitalità, gli venne concessa e furono<br />
alloggiati in una stanza attigua a quella <strong>di</strong><br />
Ulisse che si ritrovò in compagnia ma con<br />
scarsa considerazione da parte dei nuovi<br />
ospiti. Verso la fine del 2001 iniziammo<br />
una reazione allo stallo, nuovi componenti<br />
nel collettivo, qualche entusiasmo in più<br />
ma intorno a noi la situazione stava<br />
cambiando, il territorio era molto<br />
peggiorato, gli adulti avevano esacerbato<br />
la loro tendenza all’in<strong>di</strong>fferenza per tutto<br />
ciò che non fossero personali problemi<br />
economici o <strong>di</strong> quietu<strong>di</strong>ne e i giovani<br />
erano sempre più nevrotici e incocainati.<br />
In tutta Italia l’avventura multiforme dei<br />
centri sociali si andava ri<strong>di</strong>mensionando,<br />
annegati nella competizione col terzo<br />
settore o nell’inflazione <strong>di</strong> proposte<br />
(pseudo)culturali, era impossibile per loro<br />
tenere il passo, la scelta iniziò a porsi tra<br />
15
legalizzazione (talvolta non strategica ma<br />
<strong>di</strong> convenienza), massimizzazione della<br />
copertura partitica o arretramento, noi<br />
rientrammo nella terza categoria. Nasceva<br />
il movimento no global che seppure aveva<br />
il merito <strong>di</strong> estendersi a vari settori della<br />
società in modo trasversale, si esponeva<br />
alla me<strong>di</strong>azione politica dei più<br />
rappresentativi e allo scambio della<br />
pratica nella quoti<strong>di</strong>anità con quella<br />
simbolica e mass-me<strong>di</strong>ologica. Ulisse<br />
prese una gatta, Sara, e una cagnolina,<br />
Dara, che andarono ad affiancare il<br />
vecchio e zoppicante Pippo, ma poiché<br />
non potevano seguirlo al lavoro, restavano<br />
chiuse nella sua stanza tutto il giorno con<br />
grande peggioramento della situazione<br />
igienica. Nel 2002 i denti <strong>di</strong> Ulisse erano<br />
quasi tutti marci, aveva un’infiammazione<br />
dolorosissima e dovetti portarlo d’urgenza<br />
all’ospedale, trovandogli prima un me<strong>di</strong>co<br />
curante per la prescrizione della visita. Il<br />
dentista concluse che ci fosse poco da fare<br />
se non cavargli le ultime ra<strong>di</strong>ci, il<br />
problema era che ogni volta bisognava<br />
rinnovare la prescrizione, poi la<br />
prenotazione e infine portarlo nel reparto<br />
16
<strong>di</strong> odontoiatria, trovai ri<strong>di</strong>cola questa<br />
procedura visto che erano in programma<br />
numerose sedute e che alla fine la protesi<br />
bisognava pagarla a parte. Quel po’ <strong>di</strong><br />
collettivo che era rimasto riprese però a<br />
interessarsi <strong>di</strong> Ulisse, uno dei componenti<br />
conosceva un dentista e questi accettò <strong>di</strong><br />
occuparsene gratuitamente. A turno,<br />
qualcuno prelevava il nostro amico dalla<br />
fabbrica e lo accompagnava a<br />
destinazione, alla fine, con 250 euro <strong>di</strong><br />
colletta per la protesi ed una copia de “La<br />
Società dello Spettacolo” <strong>di</strong> Debord in<br />
regalo al dentista amico, Ulisse ebbe dei<br />
denti posticci. Intanto l’avvocato era<br />
sempre alla carica, optò, visto l’enorme<br />
ritardo (sei anni!), per un’ingiunzione <strong>di</strong><br />
pagamento all’Inps che avrebbe allungato<br />
ancor più i tempi ma che certamente<br />
avrebbe sbloccato la situazione. All’inizio<br />
del 2003 anche la nuova autogestione del<br />
centro sociale fallì, l’episo<strong>di</strong>o scatenante<br />
fu un duro scontro con una banda <strong>di</strong> ladri<br />
del quartiere dopo che questi avevano<br />
messo a segno un colpo milionario nella<br />
casa <strong>di</strong> un nostro amico musicista. Ci<br />
ritrovammo da soli ad affrontarli mentre<br />
17
un intero quartiere avrebbe voluto torcere<br />
il collo a questa masnada <strong>di</strong> incapaci che<br />
entrava da anni nelle loro abitazioni,<br />
invece non mosse un <strong>di</strong>to mentre il loro<br />
capo faceva proseliti tra i ragazzini grazie<br />
alla tanta grana che si ritrovava in tasca.<br />
Ne uscimmo vincitori, non io però, che<br />
dovetti abbrutirmi e sperimentare quanto,<br />
in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> responsabilità, bisogna<br />
vigilare su se stessi più che sugli altri. Fu<br />
a questo punto che decisi <strong>di</strong> lasciare il<br />
centro sociale, ne avevo abbastanza <strong>di</strong><br />
miserabilità umana, <strong>di</strong> ricatti politici, <strong>di</strong><br />
falsi proletari e stupi<strong>di</strong> borghesi, avevo<br />
lavorato lì quasi otto anni de<strong>di</strong>candogli<br />
per cinque tutto il mio tempo, ero stanco,<br />
lo avevo amato. Intanto, l’avvocato, non<br />
avendo ricevuto risposta dall’Inps per<br />
quanto riguardava l’ingiunzione <strong>di</strong><br />
pagamento, richiese alla magistratura la<br />
confisca della quota spettante ad Ulisse<br />
come prestazioni fino ad allora non<br />
percepite, la legge gli dette ragione e<br />
<strong>di</strong>spose l’esecuzione del sequestro presso<br />
la Banca d’Italia degli arretrati, ma<br />
bisognava attendere ancora.<br />
18
Una notte <strong>di</strong> marzo in cui Ulisse come al<br />
solito si era addormentato col suo<br />
televisore a tutto volume, uno dei<br />
capover<strong>di</strong>ani, esaurito dai propri<br />
fallimenti e dall’incapacità a risolverli<br />
malgrado certe opportunità che gli<br />
avevamo <strong>di</strong>sposto, entrò nella sua stanza,<br />
sfasciò il televisore e riempì <strong>di</strong> botte il<br />
mio amico. Seppi <strong>di</strong> questa notizia<br />
quando ormai Ulisse, atterrito, aveva<br />
lasciato il centro sociale, aveva vagato<br />
qualche notte all’ad<strong>di</strong>accio e poi si era<br />
inse<strong>di</strong>ato in un e<strong>di</strong>ficio abbandonato poco<br />
<strong>di</strong>stante che chiamare tugurio è come<br />
definire De Gasperi un abile statista.<br />
Senza servizi igienici, senza corrente<br />
elettrica, l’uomo poteva solo ri<strong>di</strong>scendere<br />
la china verso l’inferno o meglio<br />
raggiungere il livello <strong>di</strong> tanti come lui<br />
destinati all’abisso alle porte <strong>di</strong> Saba.<br />
Perse la protesi dentaria che tanta fatica<br />
era costata e mise da parte ogni possibilità<br />
<strong>di</strong> ottimismo, gli restavano Pippo, Sara,<br />
Dara e il lavoro alla fabbrica <strong>di</strong> scarpe.<br />
Pochi giorni dopo mi giunse la telefonata<br />
dell’avvocato, aveva davanti a sé<br />
l’assegno circolare <strong>di</strong> 15.000 euro<br />
19
d’arretrati, pochi per cambiare la<br />
situazione, troppi per lasciarla immutata!<br />
La prima, vitale esigenza <strong>di</strong>venne trovare<br />
una casa ad Ulisse, farlo approdare ad<br />
Itaca, adesso eravamo in tre ad agire, non<br />
più un collettivo e ciò significava vedersi<br />
ridotta quella piccola rete operativa che<br />
aveva dato soluzioni alle problematiche<br />
precedenti. Ci serviva qualche buon<br />
consiglio su come procedere, il primo a<br />
cui chiedemmo fu lo psichiatra che lo<br />
aveva tenuto in cura, il quale,<br />
innanzitutto, gli rinnovò la terapia <strong>di</strong><br />
risperdal e per la sistemazione ci <strong>di</strong>ede dei<br />
suggerimenti sulle case-famiglia. La<br />
questione era che Ulisse aveva i suoi<br />
animali a cui teneva più <strong>di</strong> ogni altra cosa,<br />
la maggior parte delle microresidenzialità<br />
non avrebbe mai accettato un cane,<br />
figuriamoci due e un gatto. Inoltre, poiché<br />
era evidente che Ulisse aveva mantenuto<br />
un certo equilibrio proprio attraverso la<br />
sua vita <strong>di</strong> quartiere, stentavamo ad<br />
accettare una soluzione che lo<br />
allontanasse da lì. Iniziammo a battere tre<br />
piste: affitto <strong>di</strong> un’abitazione, mutuo per il<br />
suo acquisto o sistemazione presso una<br />
20
comunità terapeutica che accettasse gli<br />
animali e non fosse troppo <strong>di</strong>stante.<br />
Stupidamente, stavamo <strong>di</strong>videndo le<br />
problematiche <strong>di</strong> Ulisse tra quelle<br />
materiali e psicologiche, ma del resto, pur<br />
informandosi, a Napoli non esistevano<br />
associazioni o gruppi da interpellare che<br />
avessero un approccio globale a situazioni<br />
del genere, idem per le istituzioni. Noi,<br />
invece, stavamo cercando <strong>di</strong> sistemare un<br />
senza tetto, uno schizofrenico, l’operaio<br />
<strong>di</strong> una fabbrichetta <strong>di</strong> scarpe, due cani e<br />
un gatto.<br />
Le ricerche <strong>di</strong> una casa in affitto si erano<br />
rivelate vane, nessuno accettava un matto<br />
con animali e in più i prezzi erano<br />
altissimi, avevamo chiesto anche ad<br />
alcuni preti ed associazioni cattoliche ma<br />
sembrava che non riuscissero a sistemare<br />
nemmeno intere famiglie, fittarle agli<br />
extracomunitari rendeva <strong>di</strong> più. Ulisse<br />
aveva <strong>di</strong>sponibili gli arretrati, ma il<br />
pagamento delle quote mensili era ancora<br />
in alto mare, a settembre avrebbe passato<br />
una visita per ottenere l’eventuale<br />
accompagnamento, nel caso ciò avrebbe<br />
significato che la pensione sarebbe<br />
21
passata da 200 a circa 400 euro, chissà<br />
quando. Questa sospensione ci limitava<br />
anche rispetto all’ottenimento <strong>di</strong> un<br />
mutuo che comunque gli operatori<br />
finanziari non erano <strong>di</strong>sposti a<br />
concedergli, rispondevano che la pensione<br />
<strong>di</strong> invali<strong>di</strong>tà non è “aggre<strong>di</strong>bile”, nel caso<br />
<strong>di</strong> mancato pagamento lo stato vieta <strong>di</strong><br />
rifarsi su <strong>di</strong> essa e quin<strong>di</strong> non valeva come<br />
garanzia. Avevamo cercato eventuali<br />
agevolazioni pubbliche per l’acquisto <strong>di</strong><br />
una prima casa: nulla, l’unico Comune in<br />
Italia a prevedere una partecipazione<br />
pubblica sull’acquisto della prima casa da<br />
parte <strong>di</strong> un invalido civile era Venezia,<br />
delibera dell’assessorato ai servizi sociali,<br />
esempio <strong>di</strong> civiltà. Infine, in nessuna casafamiglia<br />
della città prendevano animali e<br />
l’accesso era regolato da lunghi perio<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
osservazione, pure scrivendo ai vari<br />
assessorati ai servizi sociali, comunale,<br />
regionale e provinciale, non avevamo<br />
avuto. Spesso andavo a dormire col<br />
pensiero <strong>di</strong> dove Ulisse fosse costretto a<br />
stare e col senso <strong>di</strong> colpa <strong>di</strong> non riuscire a<br />
sistemarlo altrove, ogni tentativo <strong>di</strong><br />
convincerlo <strong>di</strong> tornare nel centro sociale<br />
22
era stato inutile, spaventato a morte<br />
“dall’uomo nero” che lo aveva picchiato.<br />
Decidemmo <strong>di</strong> ritirare l‘assegno<br />
dall’avvocato e <strong>di</strong> aprire un conto postale<br />
ma Ulisse non aveva più la carta <strong>di</strong><br />
identità, era scaduta e l’aveva infilata in<br />
una buca delle lettere, lo accompagnai in<br />
circoscrizione per rifarsela, quando ci fu<br />
da specificare il domicilio ebbi la cattiva<br />
idea <strong>di</strong> <strong>di</strong>re la verità, cioè che si trattava <strong>di</strong><br />
un senza tetto, allora, mi venne risposto,<br />
non può avere la carta d’identità. Come si<br />
fa in questi casi? Mi spe<strong>di</strong>rono dal<br />
capoufficio il quale, in tutta confidenza,<br />
mi <strong>di</strong>sse che in questi casi serviva un<br />
politico che garantisse per “conoscenza<br />
personale”. Saliì al piano superiore, al<br />
consiglio circoscrizionale, conoscevo<br />
alcuni <strong>di</strong> loro lì, spiegai la cosa ma<br />
nessuno volle aiutarmi, uno <strong>di</strong> Alleanza<br />
Nazionale sembrò interessarsi, si fece<br />
dare ragguagli e poi però prese ad<br />
ammonire Ulisse: ma lo sapeva lui che la<br />
carta d’identità non va persa, che è<br />
documento importante? Non trovai il<br />
coraggio per sottolineare la con<strong>di</strong>zione<br />
del mio amico, umiliandolo davanti a<br />
23
degli imbecilli tali. Andammo da un<br />
<strong>di</strong>rigente per sapere che fare e questo, con<br />
superbia, cominciò a concionare con tanto<br />
<strong>di</strong> latino, persi le staffe e lo attaccai con<br />
riferimenti a Kafka e Balzac. Alla fine gli<br />
strappammo che l’unica era domiciliare<br />
Ulisse a casa mia, risposi che lo avei fatto<br />
ma che mi stava chiedendo <strong>di</strong> <strong>di</strong>chiarare il<br />
falso visto che non era vero, e comunque<br />
sarebbe passato un mese prima che la<br />
polizia municipale fosse venuta per il<br />
riscontro. Il giorno dopo mi ricordai <strong>di</strong> un<br />
funzionario che conoscevo in Municipio,<br />
fu lui a risolvere la questione. Versammo<br />
l’assegno su un conto postale intestato ad<br />
Ulisse, tenni io il libretto e, visto quanta<br />
fatica era costata, la carta d’identità,<br />
tuttavia queste manfrine mi avevano<br />
spaventato, avevo il terrore che qualcuno<br />
potesse accusarci <strong>di</strong> plagio o <strong>di</strong> furto dei<br />
sol<strong>di</strong>. Un giorno, spuntò dalle parole <strong>di</strong><br />
un’assistente sociale una comunità<br />
terapeutica nel casertano con un metodo<br />
improntato al reinserimento, ormai non<br />
scartavamo nessuna ipotesi, prendemmo<br />
l’auto e andammo lì con Ulisse che fu<br />
entusiasta della gita. Era un bel posto in<br />
24
campagna, un e<strong>di</strong>ficio abitativo <strong>di</strong> due<br />
piani e vari capannoni per le officine,<br />
recinti <strong>di</strong> animali d’allevamento, strutture<br />
preve<strong>di</strong>bili ma ci colpì che i pazienti<br />
facessero gare <strong>di</strong> go-kart su una pista<br />
approntata con barriere <strong>di</strong> copertoni. Ci<br />
venne spiegato che l’ospitalità durava un<br />
anno al massimo, prevedeva lavoro<br />
retribuito e, dopo alcuni mesi, a piccoli<br />
gruppi, i residenti venivano spostati in<br />
appartamenti all’interno del paese per<br />
favorirne l’autonomia che lentamente<br />
doveva puntare ad essere totale. Il me<strong>di</strong>co<br />
responsabile si <strong>di</strong>sse <strong>di</strong>sponibile ad<br />
accogliere Ulisse e anche i suoi animali,<br />
quello che bisognava fare era passare per<br />
l’unità <strong>di</strong> salute mentale <strong>di</strong> appartenenza e<br />
ottenere la delibera per mandarlo lì. Il<br />
nostro amico non stava nella pelle,<br />
avrebbe voluto rimanere da subito, anche<br />
a noi sembrava una buona soluzione che<br />
lo riportava alla questione basilare della<br />
sua schizofrenia. Era appena iniziato<br />
agosto, sprovveduti per l’ennesima volta,<br />
andammo con Ulisse all’unità <strong>di</strong> salute<br />
mentale e raccontammo tutto come uccelli<br />
canterini, aspettandoci chissà quale<br />
25
supporto. Inorri<strong>di</strong>to, il me<strong>di</strong>co a cui ci<br />
eravamo rivolti lasciò subito intendere<br />
che non si poteva fare, non conoscevano il<br />
paziente, serviva un periodo lungo <strong>di</strong><br />
osservazione e poi, se lo ritenevano<br />
necessario, si sarebbe ricorso ad una<br />
comunità. Ribattemmo che uno psichiatra<br />
già lo teneva in cura, che era anche un<br />
me<strong>di</strong>co noto nell’ambiente, che esisteva<br />
una <strong>di</strong>agnosi e che la situazione era<br />
aggravata dal fatto che si trattasse <strong>di</strong> un<br />
senzatetto. Ma loro mica trovavano casa<br />
alla gente, erano un servizio sanitario e<br />
poi ci rendevamo conto <strong>di</strong> quanto costasse<br />
una comunità?, le risorse erano scarse e<br />
andavano centellinate. Tornammo qualche<br />
giorno dopo insieme al nostro amico<br />
psichiatra, ma ciò valse solo a far<br />
iscrivere Ulisse nel registro dei loro<br />
pazienti per la somministrazione<br />
quoti<strong>di</strong>ana del risperdal e per offrirgli<br />
pranzo e cena in ospedale. Sarebbe<br />
dovuto passare del tempo, lo avrebbero<br />
tenuto sotto osservazione, poi si sarebbe<br />
deciso il da farsi. Dopo <strong>di</strong>eci giorni,<br />
Ulisse smise <strong>di</strong> recarsi all’unità operativa,<br />
nessuno dei me<strong>di</strong>ci interpellati si prese la<br />
26
iga <strong>di</strong> telefonarci malgrado le ripetute<br />
nostre raccomandazioni.<br />
A settembre Ulisse fu accompagnato a<br />
passare la visita per ottenere<br />
l’accompagnamento, l’aumento della<br />
quota pensionistica mensile sarebbe<br />
servito a pagargli un tutore, niente male<br />
visto che già per noi che eravamo in tre<br />
risultava così faticoso stargli <strong>di</strong>etro.<br />
Anche qui l’amico psichiatra si offrì <strong>di</strong><br />
essere presente e spiegare la situazione al<br />
collega che avrebbe visitato Ulisse, non<br />
andò molto bene, il me<strong>di</strong>co non lo trovò<br />
troppo “non autosufficiente” anzi “era<br />
capace <strong>di</strong> lavarsi la faccia”, chissà perché<br />
fu un car<strong>di</strong>ologo a dare parere, tuttavia<br />
promise che avrebbe fatto il possibile.<br />
Tornammo a tempestare <strong>di</strong> richieste<br />
l’unità <strong>di</strong> salute mentale, ogni volta che<br />
andavamo lì i me<strong>di</strong>ci si trovavano a<br />
colloquio con un paziente o dovevano<br />
scappare a fare una visita domiciliare,<br />
erano indaffaratissimi e ci prestavano<br />
poca attenzione, per loro eravamo solo dei<br />
fasti<strong>di</strong>osi rompiscatole anziché una risorsa<br />
gratuita. Ottenemmo però che passassero<br />
la pratica ai servizi sociosanitari, lì<br />
27
conoscevamo qualcuno che forse poteva<br />
darci una mano, ricorremmo anche alle<br />
raccomandazioni, volevamo risolvere<br />
questa situazione, ma dopo un mese la<br />
pratica era ancora nelle loro mani, ci<br />
tennero in un limbo che li rappresentava<br />
benissimo. Intanto cercavamo sempre una<br />
casa, l’idea del mutuo non ci aveva<br />
abbandonato perché c’era il vantaggio <strong>di</strong><br />
garantire ad Ulisse una proprietà a vita,<br />
interpellammo un agente immobiliare ma<br />
le cifre erano sempre troppo alte, anche<br />
qui bisognava aspettare, il limite<br />
invalicabile sarebbe stato il freddo<br />
invernale. Il nostro amico iniziò a<br />
<strong>di</strong>ventare sempre più impaziente e noi con<br />
lui, abbordammo <strong>di</strong>rettamente il primario<br />
della salute mentale, si <strong>di</strong>mostrò<br />
comprensivo ma molto <strong>di</strong>stante, anche lui<br />
ribadì che bisognava passare la palla ai<br />
servizi sociosanitari, ci promise che<br />
avrebbe fatto il possibile. Valutammo<br />
ogni ipotesi, Ulisse mi tempestava <strong>di</strong><br />
telefonate, un suo conoscente lo stava<br />
prendendo in giro promettendogli per<br />
15.000 euro una casa in ven<strong>di</strong>ta, ci toccò<br />
andare a verificare per ammonirlo <strong>di</strong> non<br />
28
sbeffeggiare un cristo già in croce.<br />
Ottobre passò senza che nulla fosse<br />
cambiato, Ulisse aveva smesso <strong>di</strong><br />
insistere. A novembre prendemmo una<br />
decisione drastica, l’idea che il freddo<br />
sopraggiungesse ci spaventava, con una<br />
piccola parte degli arretrati potevamo<br />
mettere a posto la stanza nel centro<br />
sociale (20 mq), creare un ingresso<br />
in<strong>di</strong>pendente e i servizi igienici, uno <strong>di</strong><br />
noi tre era architetto ed elaborò un<br />
progetto che razionalizzasse tutto lo<br />
spazio. Il ragionamento era semplice, se<br />
gli avessimo fittato una casa, in tre mesi<br />
avremmo pagato la cifra necessaria a<br />
ristrutturare il locale, inoltre era l’unica<br />
soluzione e l’avvocato poi avrebbe potuto<br />
aiutarci a richiedere lo spazio al Comune<br />
per uso abitativo, legalizzandolo.<br />
Partimmo, venne stilato il programma dei<br />
lavori dopo aver fatto dei sopralluoghi, il<br />
giorno dopo dovevo vedermi con Ulisse<br />
per prelevare la cifra necessaria, gli operai<br />
sarebbero stati già all’opera.<br />
Epilogo<br />
29
All’appuntamento, Ulisse arriva con un<br />
uomo che mi presenta come il cugino,<br />
sguardo sospettoso da parte <strong>di</strong> questo che<br />
non reggo, come mai, gli chiedo, appare<br />
solo ora? Cerca <strong>di</strong> tranquillizzarmi, è<br />
venuto solo perché invitato, anzi, si<br />
congratula con me per quello che stiamo<br />
facendo. Lo aggiorno in breve sugli<br />
eventi, ma è un tipo losco, ci tiene a farmi<br />
un <strong>racconto</strong> criminale <strong>di</strong> Ulisse, sostiene<br />
sia stato un rapinatore arrestato in<br />
Germania dove il carcere duro gli ha<br />
incrinato l’equilibrio mentale, snocciola<br />
altrettanti quadri neri sul resto della<br />
famiglia. Dice che parlerà con la sorella <strong>di</strong><br />
Ulisse per decidere il da farsi “Non è<br />
troppo ambiguo” insisto io “Pro<strong>di</strong>garsi<br />
solo ora che ci sono dei sol<strong>di</strong> <strong>di</strong> mezzo?”.<br />
Ancora mi rassicura, la loro non è una<br />
famiglia <strong>di</strong> infami, e ricorre a questa<br />
parola per la decima volta. La presenza<br />
del cugino, l’essere da parte sua un<br />
emblema dei legami <strong>di</strong> sangue che ha<br />
sempre rimpianto, galvanizza Ulisse. Il<br />
suo atteggiamento nei miei confronti<br />
cambia all’improvviso, non vuol fare<br />
alcun prelievo per i lavori nella stanza del<br />
30
centro sociale, solo prendere dei sol<strong>di</strong> per<br />
sé, per me e per il cugino, e lo richiede<br />
esibendosi in uno show isterico <strong>di</strong> urla e<br />
minacce. Finisce che ritiriamo 200 euro e<br />
che mentre mi squilla il cellulare, lui<br />
intasca sol<strong>di</strong>, libretto e carta d’identità e,<br />
in pratica, scappa insieme al cugino. Dopo<br />
alcune ore lo chiamo in fabbrica,<br />
scongiurandolo <strong>di</strong> ridarmi il libretto, ma<br />
non ne vuole sapere nemmeno con la<br />
me<strong>di</strong>azione del suo datore <strong>di</strong> lavoro. Il<br />
giorno seguente mi telefona il cugino per<br />
darmi un appuntamento a cui però non si<br />
presenta, così a mezzogiorno raggiungo<br />
Ulisse sul luogo <strong>di</strong> lavoro ma non lo<br />
trovo, è troppo tar<strong>di</strong>, mi <strong>di</strong>cono che è<br />
andato col suo parente in un paese del<br />
napoletano per comprare una villetta a<br />
prezzo mo<strong>di</strong>co! Chiamiamo l’avvocato<br />
per sapere cosa potrebbe evitare il peggio,<br />
nulla, la legge tutela i rapporti familiari,<br />
l’unica sarebbe imporre proprio il cugino<br />
come tutore affinché venga controllato da<br />
un magistrato in tutti gli atti che compie<br />
in rappresentanza <strong>di</strong> Ulisse. Gettiamo la<br />
spugna, è andata male, recitiamo il mea<br />
culpa per non aver agito sin dall’inizio<br />
31
con un titolo legale che prevenisse<br />
qualunque insorgenza profittatrice da<br />
parte dei familiari. In poco meno <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci<br />
giorni, col consenso <strong>di</strong> Ulisse ricattato nei<br />
sentimenti e nell’esigenza <strong>di</strong> una vita<br />
migliore, spariscono dal conto tutti i quasi<br />
15.000 euro! Il cugino gli ha fatto credere<br />
<strong>di</strong> star comprando per suo conto una<br />
villetta in campagna, Ulisse ne è<br />
entusiasta, tra qualche giorno, <strong>di</strong>ce, si<br />
inse<strong>di</strong>erà lì. Il 9 novembre giunge una<br />
telefonata del primario della salute<br />
mentale, è stato approvato il ricovero <strong>di</strong><br />
Ulisse in comunità per un trimestre,<br />
stanziati 12.000 euro per il pagamento<br />
della retta, quattro mesi più tar<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
quando tutto sarebbe stato efficace. Che<br />
fare? Il 12 novembre incontro Ulisse, gli<br />
spiego la situazione e gli consiglio <strong>di</strong><br />
entrare in comunità, accetta. Il giorno<br />
dopo, alle 17.00 passiamo a prenderlo in<br />
macchina, i proprietari della fabbrica e i<br />
compagni <strong>di</strong> lavoro lo salutano con le<br />
lacrime agli occhi. Un salto nel buio<br />
tugurio a prelevare Pippo, Dara e Sara e<br />
poi partenza, ha ancora in tasca il libretto<br />
postale con saldo zero e fa finta <strong>di</strong> credere<br />
32
<strong>di</strong> essere proprietario <strong>di</strong> una villetta nel<br />
napoletano, mi conforta solo che si stia<br />
lasciando il freddo alle spalle. Arriviamo<br />
dopo un’ora nel buio <strong>di</strong> una campagna<br />
brumosa, l’aria odora <strong>di</strong> mosto e noci, un<br />
grosso pastore tedesco abbaia al nostro<br />
ingresso dal cancello mentre un<br />
infermiere che ci attende lo trattiene per<br />
permetterci <strong>di</strong> passare. Ad Ulisse viene<br />
data una sistemazione provvisoria in una<br />
stanza con altri tre residenti, sul letto è<br />
piegato un pigiama. “Da quanto tempo”<br />
gli chiedo “Non dormi in lenzuola così<br />
pulite?”. “Più <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci anni” mi risponde<br />
con un sorriso. Ai saluti sto per<br />
commuovermi, Ulisse mi guarda sorpreso<br />
con la sua espressione da duro che deve<br />
affrontare altri rounds. Dove lo abbiamo<br />
portato? Chissà, in fondo non sapremmo<br />
<strong>di</strong>rlo per molte cose che ci riguardano.<br />
Dietro <strong>di</strong> noi, Pippo stenta a camminare,<br />
ormai è avanti negli anni ed ha già capito<br />
che il giovane e feroce pastore tedesco gli<br />
darà filo da torcere.<br />
33
Raffaele Quaglia<br />
<strong>di</strong> Diego De Silva<br />
Era mezzogiorno e qualcosa, e Raffaele Quaglia stava aspettando con<br />
l’orecchio buono in <strong>di</strong>rezione della porta. Invece del rumore del<br />
carrello del pranzo riconobbe quello della se<strong>di</strong>a a rotelle, che voleva<br />
<strong>di</strong>re un nuovo arrivato. Fuori era primavera, e da <strong>di</strong>etro i vetri pure il<br />
palazzo <strong>di</strong> fronte pareva contento <strong>di</strong> stare dove stava.<br />
Raffaele Quaglia aveva settant’anni e la pelle come il catrame<br />
strofinato. Una mattina si era alzato senza voce, poi nel pomeriggio gli<br />
era quasi ritornata, poi aveva fatto una cura, andata così così, poi il<br />
dottore gli aveva detto Vieniti a ricoverare che male non ti fa.<br />
Lui comunque si sentiva normale. Mangiare mangiava, il sonno non<br />
l’aveva perduto, in bagno ci andava senza fatica. Aveva un poco <strong>di</strong><br />
fischio in gola, ma quello sempre. E poi erano due anni tre mesi e<br />
ventuno giorni che non toccava le sigarette.<br />
Fino a quella mattina, il letto vicino al suo era stato sempre vuoto. Era<br />
dal primo giorno che Raffaele aspettava quel momento, però non<br />
proprio. Voleva e non voleva, aveva bisogno <strong>di</strong> compagnia e stava<br />
meglio da solo, insomma si vergognava. Non <strong>di</strong> com’era, <strong>di</strong> quella<br />
secchezza da faticatore, delle <strong>di</strong>ta mezze bruciate, <strong>di</strong> non saper parlare<br />
bene, <strong>di</strong> tutte le vene da fuori sulle braccia; si vergognava. Forse <strong>di</strong><br />
sbagliare a comportarsi, <strong>di</strong> offendere senza volere, chi lo sa.<br />
Il lamento delle ruote attraversava il corridoio mischiandosi alla voce<br />
<strong>di</strong> femmina dell’infermiere, che portava la notizia dell’arrivo come un<br />
postino <strong>di</strong> corpi. I malati coi pigiami appesi che facevano avanti e<br />
in<strong>di</strong>etro per il reparto senza importarsene dello scorno sulle facce dei<br />
parenti in visita, approfittavano del momento in cui l’infermiere<br />
passava per ficcare il naso nella se<strong>di</strong>a a rotelle.<br />
Raffaele aveva già spostato il bicchiere e l’acqua minerale cominciata<br />
dalla parte <strong>di</strong> como<strong>di</strong>no più vicina al suo letto. “Lo portano qua, lo<br />
portano qua”, pensava muovendo le labbra mentre si sentiva battere il<br />
cuore nelle orecchie e si contrariava per quel vizio <strong>di</strong> emozionarsi<br />
sempre per gli altri, pure per quelli che non gli erano niente, e subito si<br />
doveva asciugare gli occhi.<br />
34
Appena le ruote si affacciarono sulla porta, si alzò in pie<strong>di</strong> come un<br />
alunno <strong>di</strong> scuola quando entra il professore.<br />
Si aspettava un coetaneo e invece era un ragazzo sui vent’anni, la<br />
faccia pallida, gli occhi mortificati dal dolore. Aveva tutta l’aria <strong>di</strong><br />
essersi sentito male da poco, forse proprio quella notte. Raffaele si<br />
fissò sul modo in cui il giovane si teneva con le mani ai braccioli della<br />
se<strong>di</strong>a, e gli venne addosso una tristezza come la neve. Pensò che forse<br />
dov’era non stava bene, che magari ingombrava, e si andò a mettere<br />
vicino alla finestra.<br />
– Avete visto, Rafe’? Te<strong>net</strong>e compagnia – <strong>di</strong>sse l’infermiere con<br />
quella voce da bambulella con la corda e poi, mentre sollevava il<br />
ragazzo da sotto le ascelle, cominciò a muggire l’inizio <strong>di</strong> Luna rossa.<br />
– Mi raccomando trattatelo bene, che questo giovanotto non c’era<br />
posto nel reparto dove doveva andare e ce l’hanno mandato qua – finì,<br />
e lo lasciò cadere sul materasso con quella strafottenza fatta apposta<br />
per aiutare l’umore dei malati. Poi gli rimboccò la coperta e gli mise il<br />
cuscino <strong>di</strong>etro la testa. Gesù Cristo gli era scappato dal colletto e<br />
sfiorava la faccia del giovane come un amo la bocca <strong>di</strong> un pesce.<br />
“Trattatelo bene”, pensò Raffaele: Ma come ti permetti?<br />
Quando l’infermiere fu uscito dalla stanza, e lo sbattere in<strong>di</strong>sponente<br />
degli zoccoli si perse nel corridoio, il ragazzo si rivolse a Raffaele,<br />
parlandogli sottovoce.<br />
– Può abbassare un poco la persiana, per favore?<br />
Raffaele sbandò in avanti come se due mani l’avessero preso alle<br />
spalle, e si voltò <strong>di</strong> scatto a serrare la maniglia della finestra già<br />
chiusa. Eseguì alla perfezione quell’or<strong>di</strong>ne mai ricevuto e tornò subito<br />
al ragazzo, che adesso lo guardava confuso.<br />
– Sì, sì, ho … chiuso. Vuoi che me ne esco proprio, se devi dormire?<br />
Il ragazzo socchiuse gli occhi e gli accennò un sorriso, ma senza<br />
superiorità. Raffaele voleva morire per come gli doveva essere<br />
sembrato imbranato e ignorante, ma lo prese una gratitu<strong>di</strong>ne così forte<br />
che per un punto non gli veniva da piangere.<br />
– Ma no, che <strong>di</strong>ce: è camera sua, questa. Non ho sonno, mi volevo<br />
solo riposare.<br />
Intronato dall’emozione, Raffaele mosse ancora un po’ le mani senza<br />
capire dove le doveva mandare e finalmente abbassò la tapparella per<br />
metà. Allora si andò a stendere sul letto pure lui e quando poi sentì<br />
arrivare il carrello del pranzo se ne uscì dalla stanza zitto zitto (il<br />
ragazzo si era coperto gli occhi con l’avambraccio) e mangiò in pie<strong>di</strong><br />
nel corridoio, appoggiando il piatto sul termosifone.<br />
Per due giorni interi Raffaele non riuscì a farsi notare dal ragazzo. Il<br />
male tornava spesso, e restava tanto. Lo lasciava senza forze, senza<br />
parole, senza fame, fino all’attacco successivo. Dal letto non si alzava<br />
nemmeno per andare in bagno. E quando si sentiva meglio voleva solo<br />
dormire.<br />
35
Raffaele lo spiava con la coda dell’occhio per capire come si<br />
comportava il male, e dove stava. Ma non era facile, perché pareva<br />
che non era da solo, che aveva degli amici.<br />
Una volta sola il ragazzo aprì bocca, per scusarsi che stava sempre<br />
zitto. Non ti preoccupare <strong>di</strong> me gli <strong>di</strong>sse il vecchio, io sto bene.<br />
Raffaele non poteva sopportare la vista del dolore addosso a uno così<br />
giovane. Avrebbe voluto arrivare con il bicchiere d’acqua in mano<br />
prima della sete. Gli avrebbe imboccato la pastina, gli avrebbe passato<br />
la spugna umida sulla faccia e <strong>di</strong>etro al collo e messo pure il<br />
pappagallo, se glielo avesse chiesto. Ma tutti questi desideri se li<br />
teneva per sé. Aveva sempre pensato che il signore vero è quello che<br />
non si vede e non si sente, ma al momento giusto alza la mano e la<br />
porta dove serve. Così, più restava in silenzio, <strong>di</strong>screto e pronto se<br />
c’era bisogno, più si sentiva educato nel modo giusto.<br />
Il tempo andava ancora più lentamente <strong>di</strong> prima, ma almeno Raffaele<br />
aveva una ragione per contare i giorni. Adesso faceva ad<strong>di</strong>rittura la<br />
guar<strong>di</strong>a, seduto nel corridoio, davanti alla porta. Appena il ragazzo si<br />
lamentava o chiedeva, lui subito correva dall’infermiere e lo portava<br />
fino in camera, sempre restando fuori della stanza. Non voleva<br />
riconoscenza, non voleva niente.<br />
Un pomeriggio, il ragazzo rimase mezzo scoperto mentre dormiva.<br />
Aveva il sonno leggero, e si svegliò per il freddo. Quando aprì gli<br />
occhi si vide davanti Raffaele che gli rimboccava le coperte. Raffaele<br />
si tirò subito in<strong>di</strong>etro, e magro com’era sembrò rimpicciolire nel<br />
pigiama per la vergogna. Il ragazzo allungò una mano verso <strong>di</strong> lui,<br />
come avesse voluto toccarlo, ma non fece in tempo perché il sonno lo<br />
riprese subito e gli lasciò il braccio sollevato a mezz’aria. Raffaele<br />
glielo rimise delicatamente sul lenzuolo e corse fuori con le mani<br />
raccolte sul petto, come tenesse un pacchetto che voleva scartare in<br />
solitu<strong>di</strong>ne.<br />
Troppe veglie, forse. Troppa concentrazione. Troppo lavoro. Cadde<br />
dal sonno, una notte, Raffaele. E dormì tanto, ma tanto. Come non<br />
dormiva da più <strong>di</strong> vent’anni. Senza un risveglio, un’interruzione, un<br />
sogno. A un certo punto, la mattina gli sembrò <strong>di</strong> sentire dei rumori<br />
nella stanza, ma aveva la temperatura giusta, la stanchezza che lo<br />
tratteneva nel letto come una femmina, e non aprì nemmeno gli occhi.<br />
Quando poi, alle <strong>di</strong>eci passate, il giorno volle entrare per forza, si<br />
svegliò <strong>di</strong> soprassalto e si girò verso l’altro letto con la stessa paura <strong>di</strong><br />
uno che sta per scoprire <strong>di</strong> essere stato derubato.<br />
Non si lavò nemmeno la faccia. Corse in corridoio così com’era. Due<br />
malati a stento lo scansarono. Trovò l’infermiere che lavava per terra<br />
nella stanza dei dottori. Quello imme<strong>di</strong>atamente lo bloccò sulla soglia<br />
puntandogli l’in<strong>di</strong>ce contro perché non ci provasse nemmeno a entrare<br />
e fare le impronte sul bagnato. Raffaele si appoggiò all’infisso della<br />
porta. Improvvisamente gli era venuto un fiatone che quasi doveva<br />
36
spalancare la bocca per prendere aria. L’infermiere cominciò ad<br />
avanzare verso <strong>di</strong> lui inclinando malignamente la testa, come se in<br />
quella sua improvvisa fatica a respirare stesse riconoscendo dei segni<br />
che vedeva sempre meglio via via che si avvicinava.<br />
– Che ti viene, Rafe’?<br />
Intercettando quel sospetto, Raffaele s’industriò istintivamente a<br />
camuffare l’affanno, negando, prima ancora <strong>di</strong> capire che cosa.<br />
Ma fu un momento. Il tempo <strong>di</strong> tornare al punto che gli stava a cuore.<br />
- Dove sta?<br />
– Dove sta chi? – fece l’infermiere, e in quel momento Raffaele capì<br />
che voleva nascondergli qualcosa – Aah, ‘o guaglione. L’abbiamo<br />
portato a Urologia, si è liberato il posto –. E si rimise a strofinare il<br />
pavimento, <strong>di</strong>menticandosi pure la malafede con cui aveva scrutato<br />
l’affanno <strong>di</strong> Raffaele fino a un momento prima.<br />
Raffaele continuava a respirare come un cane. Non fosse stato per<br />
l’infermiere, avrebbe tirato fuori la lingua.<br />
– Ma perché, qua non stava bene? – domandò.<br />
L’infermiere si puntellò al pavimento con la mazza, prima <strong>di</strong><br />
rispondere.<br />
– Ma che è, mò sei <strong>di</strong>ventato me<strong>di</strong>co? Ne capisci <strong>di</strong> malati e <strong>di</strong> reparti,<br />
per caso?<br />
Raffaele stringeva forte i pugni, non sapeva nemmeno lui se per la<br />
mancanza del ragazzo o dell’aria.<br />
Rimase in camera tutto il giorno e la notte ad aspettare che gli<br />
passasse l’affanno. Quando, la mattina dopo, prese la decisione <strong>di</strong><br />
alzarsi, lo sapeva benissimo che non era il caso.<br />
Aspettò l’ora delle visite, si mise la camicia, i pantaloni e le scarpe e si<br />
confuse fra i parenti per uscire dal reparto. Le scale le salì un gra<strong>di</strong>no<br />
alla volta, tenendosi bene al corrimano. Poi incrociò una coppia <strong>di</strong><br />
dottori che veniva nell’altro senso parlando <strong>di</strong> cosce e ridacchiando, e<br />
dovette togliere le mani. La pagò cara, perché la fame d’aria si scatenò<br />
un’altra volta, come una bestia appostata.<br />
Nel corridoio <strong>di</strong> Urologia, gente più vecchia <strong>di</strong> lui, tutti maschi,<br />
stavano appoggiati alle pareti e mostravano senza pudore i cateteri<br />
mezzi pieni che gli pendevano dai pigiami. Quell’odore prendeva agli<br />
occhi, tanto era forte. Erano malati pure loro, ma così estranei. Da<br />
come lo guardarono Raffaele si accorse subito che avevano capito che<br />
era un intruso. Si affacciò nella prima stanza, guardò i malati nei letti<br />
uno per volta. Gli pareva <strong>di</strong> vedere attraverso il collo <strong>di</strong> un imbuto.<br />
Poi, senza capire né come né quando, si trovò davanti agli occhi, ma<br />
proprio a due centimetri dagli occhi, la lana rossa <strong>di</strong> un paio calzini<br />
infilati dentro certe pantofole tutte consumate sulla punta. E uno <strong>di</strong><br />
quei sacchetti con la piscia che gli pendeva poco più in alto della testa.<br />
Come pungeva, quell’odore. Però, se lo sentiva, voleva <strong>di</strong>re che<br />
ancora respirava.<br />
37
Il pavimento era stranamente caldo sulla faccia.<br />
Quando riaprì gli occhi era <strong>di</strong> nuovo nel suo letto, con la flebo<br />
attaccata. L’infermiere con la vocetta gli stava dosando la velocità<br />
delle gocce che scendevano nel tubicino.<br />
– Proprio una bella pensata, Rafe’, complimenti. Un altro poco e<br />
perdevo il posto.<br />
Raffaele voleva parlare, ma la voce si fermava nello stomaco. Provò a<br />
sollevare la schiena. L’infermiere gli premette una mano sulla spalla.<br />
– Ah-ah: non ci pensare proprio. Statti buono che tra poco ti facciamo<br />
un’altra siringa per l’aria.<br />
Raffaele muoveva solo la testa, neanche la bocca. Scriveva la<br />
domanda con gli occhi.<br />
– Che vuoi sapere, ah? Eh, sì, sì, ho capito, ‘o guaglione. Sta bene, sta<br />
bene, non ti preoccupare.<br />
Il vecchio lo guardò negli occhi per capire se <strong>di</strong>ceva la verità. Allora<br />
l’infermiere <strong>di</strong>ede qualche altro colpetto inutile al tubicino della flebo<br />
e se ne andò.<br />
Raffaele rimase a letto fino a che non perse il conto dei giorni. Una<br />
volta sola pensò <strong>di</strong> alzarsi, ma come si levò le coperte <strong>di</strong> dosso capì,<br />
senza il minimo dubbio, che non era proprio cosa.<br />
Una sera, verso le <strong>di</strong>eci, sentì un peso fortissimo sulla spalla sinistra.<br />
Subito si allungò verso il pulsante del campanello attaccato al muro<br />
col filo elettrico. Stava quasi per suonare quando decise che l’ultima<br />
faccia che voleva vedere era quella dell’infermiere con la vocetta.<br />
Allora, anche se si stava cacando sotto dalla paura, lasciò andare il<br />
campanello e si fece scivolare <strong>di</strong> nuovo fino al cuscino. Poi aspettò.<br />
Quella notte Raffaele si alzò senza nessuno sforzo, camminò per il<br />
corridoio a pie<strong>di</strong> nu<strong>di</strong> mentre tutti dormivano e salì un’altra volta a<br />
Urologia. Questa volta controllò stanza per stanza, letto dopo letto,<br />
bagno dopo bagno. Entrò pure negli uffici dei dottori ma il ragazzo<br />
non c’era. Allora si arrabbiò veramente. Aprì tutti i cassetti e buttò le<br />
carte per aria. Diede calci ai mobili. Gridò nel corridoio. Scese nelle<br />
cucine scivolando lungo il corrimano delle scale. Buttò delle pentole<br />
per terra e ruppe pure un bicchiere. Sbucò nell’atrio dell’ospedale. Il<br />
guar<strong>di</strong>ano dormiva con la bocca mezza aperta. Aprì le due porte<br />
centrali e uscì nella notte che pungeva. L’ultima cosa che <strong>di</strong>sse prima<br />
<strong>di</strong> andarsene fu che non sopportava quando non gli <strong>di</strong>cevano la verità.<br />
A prenderlo, vennero l’infermiere con la vocetta e un altro più<br />
giovane, con un foglio prestampato in una mano e una penna nel<br />
taschino. Quello con la vocetta gli tirò via le coperte <strong>di</strong> dosso con un<br />
gesto solo, strappando, senza un poco <strong>di</strong> rispetto.<br />
- Nell’arma<strong>di</strong>o hai visto?<br />
– Mh. Pantaloni, cintura, scarpe, due camicie piegate e la cravatta.<br />
38
– Guarda bene nel como<strong>di</strong>no. Che teneva: gli occhiali, il portafoglio<br />
e?<br />
– Ho visto già, solo i biscotti.<br />
Raffaele, con la bocca e gli occhi aperti, pareva un bambino quando<br />
guarda i gran<strong>di</strong> che <strong>di</strong>scutono.<br />
- Va buo’, scrivi.<br />
- Ma moglie, figli? Li hai chiamati?<br />
- No, non tiene a nessuno. Aiutami mò.<br />
Proprio in quel momento, da un’altra parte, in una casa qualunque, un<br />
bambino cominciava appena a camminare, con la mamma accanto che<br />
lo guardava innamorata, <strong>di</strong>menticandosi quanto avesse sempre trovato<br />
interminabili i mesi che finiscono in embre. Il padre <strong>di</strong> suo figlio<br />
sarebbe tornato a casa, quel giorno, dopo un’altra intera settimana <strong>di</strong><br />
lontananza. Gli avrebbe raccontato il bambino dal lunedì al venerdì.<br />
Avrebbero riso insieme, guardandogli i passetti <strong>di</strong>sorientati intorno<br />
alla tavola, durante la cena. E avrebbero approfittato <strong>di</strong> tutto il tempo<br />
che restava prima <strong>di</strong> salutarsi un’altra volta.<br />
PER UN POSSIBILE USO DELLE<br />
SACCHE DI RESISTENZA AL<br />
COSIDDETTO MALE<br />
DI VIVERE: SE ANCORA CE NE<br />
FOSSERO<br />
<strong>di</strong> Giuseppe Montesano<br />
Le voci, le voci arrivano fruscianti e gorgoglianti come se<br />
attraversassero un acquario, ma sono chiarissime.<br />
“Si sta svegliando…”<br />
39
“L’avevo detto io che respirava, avete visto? A volte capita,<br />
che non si svegliano subito. Non tutti reagiscono<br />
all’anestesia allo stesso modo…”<br />
“Forza, su, facci sentire come parli!”<br />
Quando se ne vanno dopo essersi assicurati che non sono<br />
morto, posso <strong>di</strong> nuovo stare zitto e guardarmi intorno<br />
socchiudendo le palpebre. Forse è un effetto della mia<br />
spossatezza, ma i letti <strong>di</strong> metallo nei quali siamo stesi mi<br />
appaiono inverosimilmente piccoli, come i lettini dei<br />
bambini. Le pareti <strong>di</strong> questo parallelepipedo <strong>di</strong> un bianco<br />
scialbo sono interrotte da un solo lato da finestroni alti e<br />
stretti come le aperture in una chiesa o le finestre <strong>di</strong> una<br />
prigione, e questo luogo che sembra qualcosa a metà tra un<br />
corridoio che finisce nel nulla e una camerata dell’esercito è<br />
davvero immenso: anche dopo che ho chiuso e riaperto gli<br />
occhi più volte, lo spazio resta sempre troppo grande. Per<br />
dove si parte <strong>di</strong> qui? Mi sento bizzarramente euforico, ma se<br />
provo a muovermi sono costretto ad accorgermi che ho un<br />
corpo indolenzito e sordo, estraneo come il corpo <strong>di</strong> un<br />
altro. Un infermiere che attraversa la camerata mi passa<br />
davanti e sembra basso come se fosse un nano, dopo un<br />
poco ritorna canticchiando tra sé portando un foglio con un<br />
grafico stretto tra le <strong>di</strong>ta, e quasi si mette a correre. Vorrei<br />
dormire, ma il ragazzino <strong>di</strong> fianco a me non smette <strong>di</strong><br />
lamentarsi.<br />
“Voglio a mammà! voglio a mammà mia!”<br />
40
A me sembra che stia benissimo, è pieno <strong>di</strong> energia e <strong>di</strong><br />
salute, ma quando l’infermiere cerca <strong>di</strong> spiegargli che non<br />
deve muoversi troppo se no si apre la ferita, il ragazzino<br />
piagnucola e riprende a lamentarsi.<br />
“Addò sta, ’a mamma mia?”<br />
Ha l’aria <strong>di</strong> quei ragazzi viziati e prepotenti con le madri ai<br />
loro pie<strong>di</strong>, e vorrei <strong>di</strong>rgli <strong>di</strong> stare zitto perché mi fa venire il<br />
mal <strong>di</strong> testa. Ma a un tratto arriva una folla: madre, padre,<br />
fratelli, zie, cugini, un poppante in braccio a una donna<br />
anziana vestita <strong>di</strong> nero, e circondano il letto del ragazzino.<br />
Sto ripiombando nel torpore, ma ora il senso <strong>di</strong> leggerezza è<br />
sparito, e sento un dolore sordo che batte in una vena della<br />
mia testa e cresce. Se questi qui a fianco se ne andassero!<br />
Mi arrivano frasi spezzate, che cerco <strong>di</strong> non sentire. Il<br />
ragazzino frigna petulante, <strong>di</strong>ce che lui in ospedale non ci<br />
vuole stare, esige fumetti e patine fritte.<br />
“Dotto’, ma se le può mangiare ’e patatine?”<br />
Non sento la risposta dell’infermiere, ma solo la voce <strong>di</strong><br />
quella che forse è la madre del ragazzino.<br />
“Ue’, Gesù mio, dutto’! E mo’ a chisto che ci può fare un<br />
poco <strong>di</strong> coca-cola? Allora ’stu figlio mio adda murì ’e sete?”<br />
Di colpo mi rendo conto che anch’io ho la gola rasposa per<br />
la sete, ma mi ricordo anche che mi hanno detto che non<br />
posso bere fino a stasera. O l’ho sognato? Sono sicuro che al<br />
ragazzino a fianco, appena l’infermiere se ne andrà, gli<br />
daranno da bere la coca-cola <strong>di</strong> nascosto: ma io no, non<br />
41
errò. Credo ciecamente alle prescrizioni <strong>di</strong> me<strong>di</strong>ci e<br />
infermieri, sono affidato a loro come il bambino che non<br />
sono più, e so che devo obbe<strong>di</strong>re. In fondo loro sono qui<br />
apposta per me: o altrimenti per quale altro motivo? Su<br />
questo atto <strong>di</strong> fede scivolo nel sonno, ma nella colla<br />
dell’intorpi<strong>di</strong>mento avverto scricchiolare le suture del<br />
cranio, sento i tessuti che lottano per cicatrizzarsi, e nel buio<br />
assoluto degli occhi chiusi e della gola secca, la vena nella<br />
testa che batte sempre più forte.<br />
O forse, invece <strong>di</strong> questo <strong>racconto</strong> che sembra un ricordo <strong>di</strong><br />
molti anni fa, dovrei semplicemente stenografare l’episo<strong>di</strong>o<br />
che è avvenuto nell’aprile 2003 in una Asl del <strong>di</strong>stretto nel<br />
quale abito?<br />
Una donna bella e educata va alla sede competente dell’Asl<br />
dove, <strong>di</strong>etro presentazione <strong>di</strong> “adeguata documentazione”,<br />
si <strong>di</strong>stribuiscono pannoloni per anziani e bustine per operati<br />
all’intestino. La donna ha con sé una richiesta<br />
dell’ospedale Pascale, che le serve per ritirare delle bustine<br />
per l’anastomia subita da L., operata tre settimane prima e<br />
poi rioperata una settimana dopo perché la prima<br />
operazione era riuscita male. Le bustine richieste sono del<br />
modello “X” perché in ospedale, dopo varie prove, si è<br />
constatato che il modello “X” è l’unico che funziona bene e<br />
che si adatta a quella paziente. La donna porge il certificato<br />
a un’impiegata, spiega che la fornitura dell’Asl dovrà<br />
42
durare all’incirca due mesi, e aspetta. Ma l’impiegata, dopo<br />
aver guardato il certificato, scuote la testa.<br />
“No, per avere <strong>di</strong>ritto alle bustine ci vuole l’attestato <strong>di</strong><br />
invali<strong>di</strong>tà civile.”<br />
La donna bella e educata la guarda sorpresa e pensa: lo sa<br />
l’impiegata che per avere un certificato <strong>di</strong> invali<strong>di</strong>tà civile<br />
ci vogliono anni? Poi, pazientemente, cerca <strong>di</strong> spiegarsi<br />
meglio.<br />
“Ma è stata operata otto giorni fa: come può fare?”<br />
“Senza invali<strong>di</strong>tà civile attestata non ha <strong>di</strong>ritto alle bustine.<br />
E comunque, a prescindere dall’invali<strong>di</strong>tà, deve venire qui e<br />
sottoporsi a una visita.”<br />
“Ma non può uscire! La prescrizione è <strong>di</strong> immobilità<br />
assoluta: ha avuto una grave emorragia interna due giorni<br />
dopo l’intervento…”<br />
“Bene, allora fra qualche giorno manderemo noi il<br />
geriatra…”<br />
“Il geriatra? Ma ha trent’anni!Non ha letto il certificato?”<br />
“Bene, man<strong>di</strong>amo il gastroenterologo. Ma per avere il<br />
gastroenterologo ci vogliono più giorni, il gastroenterologo<br />
è molto richiesto…”<br />
“E intanto la signora i bisogni dove li fa?”<br />
Probabilmente irritata dal tono della donna bella e educata,<br />
l’impiegata guarda <strong>di</strong> nuovo la prescrizione con il timbro<br />
dell’ospedale Pascale, e sospira come si fa quando si parla<br />
con un bambino o un demente. Poi rilegge la sigla del<br />
43
modello <strong>di</strong> bustina sillabando a alta voce, e inarca le<br />
sopracciglia.<br />
“E perché proprio questo modello e non quello che<br />
abbiamo in deposito? Non può usare il nostro? Sempre una<br />
bustina è…”<br />
“Perché dopo vari tentativi, in ospedale hanno visto che è<br />
l’unico che si adatta a lei. E comunque il costo è lo<br />
stesso…”<br />
“Ah sì? Vuole per forza questo modello? Allora quando<br />
viene il me<strong>di</strong>co deve <strong>di</strong>mostrare davanti a lui perché il<br />
nostro modello non va bene…”<br />
“Certo, ho capito. Ma deve solo far vedere che col vostro<br />
modello le feci refluiscono fuori, o per sicurezza deve fare<br />
la cacca davanti al me<strong>di</strong>co?”<br />
L’impiegata forse percepisce il sarcasmo nella voce della<br />
donna educata, e la scruta socchiudendo gli occhi,<br />
<strong>di</strong>ffidente.<br />
“Mhhh! Lei <strong>di</strong>ce che il modello è stato prescritto dal<br />
Pascale? Ma io potrei sospettare: perché al Pascale<br />
vogliono proprio questo modello? Perché il me<strong>di</strong>co ha<br />
segnato questo modello e non quello del nostro fornitore?”<br />
“Se ragionassi come lei anch’io potrei <strong>di</strong>re: e voi perché mi<br />
volete per forza dare le bustine del vostro fornitore e non le<br />
altre?”<br />
44
E senza più aspettare risposte, la donna bella e educata si<br />
riprende la prescrizione e va in farmacia, dove or<strong>di</strong>na e poi<br />
compra per 25 euro un pacchetto <strong>di</strong> bustine.<br />
L. tra l’altro è <strong>di</strong>soccupata: e non ha nessuna “conoscenza”<br />
che possa farle avere un certificato falso, o qualcosa <strong>di</strong><br />
legalmente illegale come si usa da queste parti quando si<br />
hanno degli “amici” pronti a aiutare gli “amici” e a<br />
invocare per tutti gli altri la dura legge dell’”efficienza”.<br />
Ne parlo con G., esperto <strong>di</strong> statistica e <strong>di</strong> politiche sociali,<br />
impegnato in quella che lui chiama “la lotta alla<br />
globalizzazione”.<br />
“Ma quante e quanti L. ci sono, da queste parti?”<br />
”Pochi, sono la minoranza.”<br />
”Sì, ma una minoranza <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong><br />
persone…”<br />
”E’ vero, però sono poveri, e non contano.”<br />
”Non contano perché sono poveri?”<br />
”No, perché sono una minoranza.”<br />
”Ma le democrazie non devono garantire le minoranze?”<br />
G. scoppia a ridere <strong>di</strong> gusto, mi batte la mano sulla spalla e<br />
mi trascina in un bar.<br />
”Come lo vuoi il caffè?Qua fanno un nocciolato che è una<br />
favola…”<br />
45
La camerata dell’ospedale non somiglia a un luogo <strong>di</strong> cura.<br />
Su un tavolino <strong>di</strong> fòrmica e <strong>di</strong> metallo il ragazzino e un<br />
uomo dall’aria sbruffona stanno giocando a carte. Lo<br />
sbruffone spiega al ragazzino i segreti del tressette, ma<br />
quello vuole solo giocare a scopa e vincere. Ogni volta che<br />
gioca con me e per caso vinco io mi guarda e scuote la testa<br />
<strong>di</strong>sgustato e sospettoso, come se avessi barato.<br />
Mentre giochiamo, un vecchio magro che sta nell’angolo <strong>di</strong><br />
fronte a noi a volte si lamenta, ma il suono che esce fuori<br />
dai suoi polmoni somiglia più al richiamo <strong>di</strong> certi ven<strong>di</strong>tori<br />
ambulanti che a un lamento: non si capisce se è<br />
un’invocazione, una canzone o un pianto che finisce<br />
regolarmente in uno sghignazzo. Il vecchio è incontinente, e<br />
forse a causa dell’età o forse a causa dell’operazione, la fa<br />
nel letto a tutte le ore. Tra lui e gli infermieri si è stabilito un<br />
bizzarro rapporto: il vecchio chiama senza stancarsi, a voce<br />
altissima, lamentandosi che non lo puliscono; l’infermiere <strong>di</strong><br />
turno arriva e lo minaccia che se lui se la fa <strong>di</strong> nuovo sotto,<br />
lo lascia in quella schifezza tutta la notte; allora il vecchio<br />
sghignazza, soffocandosi dal ridere fino a sputare muco, e<br />
prende in giro l’infermiere <strong>di</strong>cendogli che è costretto a<br />
cambiarlo perché se no non gli danno lo stipen<strong>di</strong>o. I due<br />
litigano o fingono <strong>di</strong> litigare in continuazione, e a volte<br />
l’infermiere lo prende in giro.<br />
“Ma comme, si’ vivo ancora? Te vuo’ decidere a murì?”<br />
46
La battuta fa scompisciare il vecchio, che replica che invece<br />
deve campare “assai”, per dare fasti<strong>di</strong>o all’infermiere. Mica<br />
è scemo! Cibo, un letto e un infermiere tutto per lui che lo<br />
accu<strong>di</strong>sce e gli pulisce il sedere: e che gli manca, qua? Ma<br />
poi all’improvviso, mentre sta <strong>di</strong>cendo questo e ridacchia<br />
contento, sembra ricordarsi <strong>di</strong> qualcosa e scoppia in una<br />
collera feroce.<br />
“Chella zoccola! M’’a lassato ccà perché ci faccio schifo,<br />
alla signora…”<br />
La “signora” è sua nipote, e non si capisce bene se è il<br />
vecchio che l’ha <strong>di</strong>seredata, o se è stata lei che prima si è<br />
presa i sol<strong>di</strong> del pensionato e poi lo ha abbandonato. Il<br />
vecchio si solleva su un gomito come per tentare <strong>di</strong> sedersi,<br />
poggiato su un fianco perché su quel lato sente meno dolore,<br />
e parla animatamente con l’infermiere. Lui, a quella zoccola<br />
e ai suoi figli, non gli lascia niente! Adesso si riprende e<br />
torna a casa, e quei fetenti lo devono sopportare, perché lui<br />
tiene ancora “ nu sacco ’e denare” nascosti: e sfregando tra<br />
loro il pollice e l’in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> una mano ride furbesco, per<br />
ricadere poi stremato sul materasso. L’infermiere, che <strong>di</strong><br />
solito quando il vecchio attacca a lamentarsi lo tratta<br />
bruscamente, ora invece cerca <strong>di</strong> calmarlo. Lo chiama<br />
“nonno”, e gli <strong>di</strong>ce che i nipoti verranno sicuramente a<br />
fargli visita: può essere mai che lo abbandonano? Ma io sto<br />
qui da una settimana e non ho mai visto nessun nipote: gli<br />
unici che parlano con il vecchio sono gli infermieri e il<br />
47
agazzino, e si danno del tu anche se tra loro c’è una grande<br />
<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> età.<br />
L’altra notte l’infermiere con il fisico da atleta è arrivato<br />
barcollando <strong>di</strong> sonno dopo che il vecchio aveva svegliato<br />
tutta la camerata, e gli ha fatto una scenata gridando che<br />
l’aveva fatto apposta a sporcarsi dopo che lui lo aveva pulito<br />
e cambiato.<br />
“E che miseria! Ma pecché nun duorme nu poco, eh?”<br />
Lo ha sgridato a lungo come si fa coi bambini, ma poi lo ha<br />
pulito e gli ha rifatto il letto. Il vecchio questa volta non ha<br />
fatto battute, e l’infermiere, prima <strong>di</strong> andarsene, gli ha<br />
aggiustato con un gesto femminile i cuscini più volte, finché<br />
il vecchio non gli ha battuto la mano scheletrica sulla spalla<br />
come a <strong>di</strong>re: ora basta, va bene.<br />
O forse, invece <strong>di</strong> queste storie <strong>di</strong> vecchi e infermieri, dovrei<br />
riflettere sul fatto che nel me<strong>di</strong>oevo gli ospedali in Francia<br />
erano chiamati Hôtel-Dieu? Come il tempo trasforma e<br />
porta alla deriva i significati!<br />
Quando ci ammaliamo torniamo inevitabilmente infantili, e<br />
il sogno che ci visita è quello <strong>di</strong> qualcuno che si prenda<br />
cura <strong>di</strong> noi: ma non sappiamo bene <strong>di</strong> cosa si tratti, non lo<br />
sappiamo più: e invece del sogno <strong>di</strong> qualcuno che si prende<br />
cura <strong>di</strong> noi, siamo condannati a fantasticare sull’efficienza.<br />
Ma l’efficienza, nel nostro incubo realizzato, finisce col<br />
somigliare come una goccia d’acqua a questo: delle<br />
48
macchine in fila riparate da altre macchine, in un vuoto<br />
asettico dove si sente appena il ronzio <strong>di</strong> tutti i meccanismi<br />
che ripetono gli stessi gesti inutili. E efficienza è poi anche<br />
la sarcastica risposta in forma <strong>di</strong> “dati statistici” e<br />
“ricerche <strong>di</strong> settore” che il profitto come unico Dio offre ai<br />
mortali che chiedono tregua dal male, ai corpi miserabili e<br />
splen<strong>di</strong><strong>di</strong> bisognosi <strong>di</strong> cura: l’efficienza allora sarà solo<br />
l’implacabile <strong>di</strong>fferenza tra chi ha e chi non ha spostata dai<br />
beni mobili al dolore del corpo: e efficienza <strong>di</strong> un sistema<br />
sanitario vorrà <strong>di</strong>re sempre la stessa cosa, che l’ingiustizia<br />
perseguita i deboli fin sopra il letto <strong>di</strong> morte: e guai a chi<br />
non è stato capace <strong>di</strong> arricchirsi, perché su lui<br />
“l’efficienza” cadrà come la scure su un condannato.<br />
Eppure, non è così semplice: perché chi potrebbe davvero<br />
essere sicuro che nell’abbondanza <strong>di</strong> denaro si penserebbe<br />
ancora a prendersi cura <strong>di</strong> un corpo vivente? Non c’è forse,<br />
al contrario e ironicamente, un rapporto <strong>di</strong>retto tra<br />
mancanza <strong>di</strong> umanità e crescita del profitto, e viceversa?<br />
Ci accontenteremmo già solo <strong>di</strong> non essere soffocati dalle<br />
burocrazie della salute, dalla violenza psicologica dei<br />
me<strong>di</strong>ci ancora legati all’idea dello stregone che deve<br />
nascondere i suoi misteri, dallo sguardo ottuso <strong>di</strong> chi “si è<br />
preso una laurea” per farsi la villetta a Serapo e il<br />
viaggetto in Brasile, dalla povertà <strong>di</strong> immaginazione che nel<br />
meccanismo impiegatizio della “salute” ci fa sentire tutti<br />
come lo scarafaggio nella Metamorfosi <strong>di</strong> Kafka: e in<br />
49
fondo, insinua bonario il buon senso degli esperti ben<br />
pagati, che preten<strong>di</strong>amo, potrebbe sempre andare peggio,<br />
tutto sommato qua ci si arrangia, e non si <strong>di</strong>ce sempre che<br />
chi si contenta gode?<br />
Ma io non ho mai visto godere qualcuno che si è accontentato,<br />
e i proverbi sono tra<strong>di</strong>menti.<br />
Qui l’odore <strong>di</strong> candeggina o lisoformio si mescola al vapore<br />
umido e all’odore dei cibi casalinghi che i familiari portano<br />
a chi può mangiare: peperoni fritti con i capperi e le olive,<br />
maccheroni con il ragù, e banane e pesche che maturando<br />
riempiono la camerata <strong>di</strong> profumo. Forse qui solo io, per<br />
una strana forma <strong>di</strong> ascesi o forse <strong>di</strong> inutile egualitarismo,<br />
mangio il cibo dell’ospedale: è lo stesso motivo che mi<br />
spinge a non aprire i libri sul como<strong>di</strong>no e a leggere i fumetti<br />
del ragazzino? Non lo so, ma mangio il cibo dell’ospedale<br />
senza sacrificio e senza <strong>di</strong>sgusto: la pastina in brodo<br />
vegetale, il fantasma <strong>di</strong> merluzzo semibollito con il<br />
pomodoro crudo, la mela cotta senza sapore: e uso paziente<br />
le ri<strong>di</strong>cole posate <strong>di</strong> plastica.<br />
Il vecchio scheletrico <strong>di</strong> fronte peggiora ogni giorno <strong>di</strong> più,<br />
ma ce n’è un altro in fondo alla camerata che è dato ormai<br />
per spacciato. Questo sta zitto per intere giornate, forse<br />
inebetito dai sedativi, ma quando a un tratto si risveglia, la<br />
sua voce lacera da un capo all’altro lo stanzone, e passa<br />
come un colpo <strong>di</strong> frusta sui letti: con una violenza e una<br />
forza che non si immaginerebbero in quel corpo piccolo, il<br />
50
vecchio urla il suo rifiuto a morire come tutte le bestie che<br />
siamo: ma nello stesso tempo anche il suo rifiuto a essere<br />
curato inutilmente: “faciteme murì”, <strong>di</strong>ce.<br />
Gli infermieri lo lasciano tranquillo, il me<strong>di</strong>co che viene a<br />
vederlo non insiste e se ne va quasi subito: l’unica persona<br />
che scatena la sua ira è sua sorella. E’ una suora che fa parte<br />
<strong>di</strong> non so quale or<strong>di</strong>ne, e ogni volta che viene a trovarlo si<br />
svolge la stessa scena: la donna gli <strong>di</strong>ce in tono lagnoso che<br />
lui deve pregare, e il vecchio appena sente la parola<br />
“pregare” o sente la sorella borbottare il rosario, comincia a<br />
bestemmiare. Bestemmia tutto ciò che è possibile, e la voce<br />
fioca gli cresce gigantesca: e più la sorella cerca <strong>di</strong> calmarlo<br />
o alza la voce nella preghiera, più il vecchio bestemmia cose<br />
enormi, atroci, irripetibili.<br />
“Tu e ’stu Dio! Ma che aggia fà cu’ Dio? Io aggia sulo<br />
murì…”<br />
Questa è l’unica frase <strong>di</strong> senso compiuto che non sia una<br />
bestemmia che il vecchio ha detto oggi: a parte il consueto<br />
epiteto <strong>di</strong> “zoccola” rivolto a sua sorella. Vuole essere<br />
lasciato in pace a morire; lei non deve venire più, mai più;<br />
non vuole essere preso per fesso con le preghiere; la verità è<br />
che chi sta crepando come un animale è lui; quella puttana<br />
<strong>di</strong> sua sorella se ne deve andare per sempre: e il vecchio<br />
piange, ma per la rabbia e lo sforzo, non per chiedere<br />
conforto.<br />
51
A mezza voce nella camerata si <strong>di</strong>scute se abbia ragione, ma<br />
nessuno ha il coraggio <strong>di</strong> trarre una conclusione: e ogni<br />
pomeriggio, all’ora delle visite, si ripete l’osceno rito. Solo<br />
gli infermieri si sono schierati dalla parte del vecchio,<br />
cercando <strong>di</strong> far capire alla suora che quando lei non c’è il<br />
fratello non bestemmia mai.<br />
“Suora, e che ci volete fare? Lo volete far morire dannato?”<br />
E’ strano, ma anche abituati come sono alla sofferenza degli<br />
altri fino a sembrare scanzonati e in<strong>di</strong>fferenti, è come se gli<br />
infermieri cercassero <strong>di</strong> proteggere la solitu<strong>di</strong>ne nella quale<br />
il vecchio vuole restarsene chiuso, il suo rifugio inebetito, la<br />
tana finale. Ma mentre il vecchio conduce la sua personale<br />
battaglia contro la fine e forse ancora più contro la<br />
vergogna, il ragazzino e lo sbruffone <strong>di</strong>scutono <strong>di</strong> prostitute.<br />
“Ma tu tieni ancora il latte in bocca, che devi fare?”<br />
Si accosta anche un infermiere, che dà uno scappellotto<br />
sulla nuca del ragazzino.<br />
“ ’O piccerillo è scetato, eh?”<br />
Ma poi, <strong>di</strong>etro l’insistenza del ragazzino, lo sbruffone<br />
comincia a spiegare come si fa. Con la crudezza assoluta del<br />
popolo quando parla <strong>di</strong> cose naturali, e con una semplicità<br />
pulita come un coltello che taglia il pane, l’uomo spiega al<br />
ragazzino la prima volta. E’ facile: il ragazzino non deve<br />
fare niente, e soprattutto non si deve preoccupare, fa tutto<br />
lei. Lo sbruffone è <strong>di</strong>ventato a un tratto serio, e la sua voce e<br />
persino i suoi gesti, si sono fatti pacati e quasi gentili. Ogni<br />
52
tanto il lamento che ormai è un rantolo del vecchio <strong>di</strong> fronte<br />
copre le spiegazioni dell’uomo, e allora il ragazzino, che<br />
oltre agli infermieri è l’unico che scherza con il vecchio<br />
prendendolo in giro: “’o no’, nun sì cchiù buono!”, ma che<br />
lo aiuta mille volte in una giornata a sistemarsi i cuscini a<br />
spostarsi <strong>di</strong> lato a bere l’acqua, guarda verso il vecchio con<br />
astio.<br />
“Ma ’stu vecchio quando mòre?”<br />
E la frase suona come le spiegazioni <strong>di</strong> quell’altro sul sesso:<br />
spassionata, senza compiacimento o cattiveria, naturale<br />
come la pioggia che cade.<br />
O forse, invece <strong>di</strong> questo ragazzino e della pioggia che cade<br />
naturale, dovrei parlare del terrore e della vergogna che<br />
nascono negli “ospiti” dei cosiddetti luoghi <strong>di</strong> cura <strong>di</strong><br />
fronte all’in<strong>di</strong>fferenza dei sani?<br />
La vergogna che prova il malato non è quella del mostrarsi<br />
nudo o in posizioni oscene a degli estranei che non palpano<br />
la sua carne per piacere o la lacerano per o<strong>di</strong>o, ma è quella<br />
<strong>di</strong> scoprire la solitu<strong>di</strong>ne: il non poter comunicare all’altro,<br />
fosse anche il più prossimo, la propria realtà. Ci si sente<br />
colpevoli esattamente come i personaggi dei romanzi <strong>di</strong><br />
Kafka: senza sapere perché. Tutta l’educazione e la cultura<br />
dei piccoli borghesi che siamo ormai tutti è insufficiente <strong>di</strong><br />
fronte a questo senso <strong>di</strong> colpa, perché la nostra educazione<br />
trascura esattamente tutto ciò che è essenziale: vita, amore,<br />
53
morte, sesso, fame. Eppure come stupirsi se nei luoghi <strong>di</strong><br />
cura il corpo <strong>di</strong>venta un’appen<strong>di</strong>ce, un oggetto separato da<br />
tutto il resto e del quale in tanta esibizione <strong>di</strong> piaghe, in<br />
fondo si tace? Ormai anche al <strong>di</strong> fuori degli ospedali i corpi<br />
sono cose e niente più: è questa una delle leggi non scritte<br />
sulle quali si regge oggi l’inganno sociale e economico, e il<br />
luogo <strong>di</strong> cura, come la scuola o l’ufficio o la fabbrica, non<br />
fa che ripetere dentro le sue strutture deformate l’ingiustizia<br />
dell’intera società: non si può curare nemmeno un solo,<br />
piccolissimo malato, in una società malata.<br />
E chiedo: perché un uomo che fra sei mesi morirà deve fare<br />
una fila <strong>di</strong> tre ore e poi ritornare il giorno dopo perché<br />
sulla carta straxccia che gli serve a sopravvivere manca<br />
sempre un timbro? Quell’uomo è in grado <strong>di</strong> sopportare<br />
molte cose, <strong>di</strong> non vedere più la luce all’alba, <strong>di</strong> non sentire<br />
più il sapore del vino, <strong>di</strong> perdere il suo corpo amato: ma è<br />
necessario che sia oscenamente schernito dalla burocrazia<br />
della salute? Non abbiamo bisogno <strong>di</strong> più leggi, <strong>di</strong> leggi è<br />
già piena la vita per escludere i molti dal benessere dei<br />
pochi: abbiamo bisogno <strong>di</strong> giustizia. Ospedali e manicomi<br />
dovrebbero essere rasi al suolo, così <strong>di</strong>cono i nostri sogni<br />
più profon<strong>di</strong>: ma non si raderebbe al suolo ciò che ci spinge<br />
là dentro, pecore pazienti o riottose: il male naturale, il<br />
<strong>di</strong>ssesto dell’anima, la violenza che ci infligge da tutte le<br />
parti la realtà sociale. Eppure le vittime potenziali che<br />
siamo, potrebbero ancora fare il loro 1789 della mente,<br />
54
ieducarsi a partire dalle cose elementari, far crollare la<br />
ripugnante prigione dell’io scoprendo che l’altro, persino il<br />
ragioniere dell’Asl che mi guarda innervosito perché ho<br />
interrotto il suo caffè con sigaretta, è come me.<br />
In un piccolo libro che si chiama Sacche <strong>di</strong> resistenza, John<br />
Berger ha accennato a qualcosa <strong>di</strong> simile parlando <strong>di</strong><br />
Rembrandt: “Quando ritraeva liberamente le persone che<br />
amava o immaginava o sentiva vicine, cercava in quel<br />
preciso istante <strong>di</strong> entrare nel loro spazio corporeo, cercava<br />
<strong>di</strong> entrare nel loro Hôtel-Dieu: e trovare così una via <strong>di</strong><br />
uscita dalle tenebre. Davanti al piccolo quadro Donna che<br />
si bagna in un fiume ci sentiamo vicini a lei, dentro la sua<br />
veste sollevata. Non come voyeur né come i vecchi<br />
lussuriosi che spiano Susanna. E’ solo che siamo trascinati<br />
dalla tenerezza del suo amore ad abitare lo spazio <strong>di</strong> quel<br />
corpo.”<br />
Ma è <strong>di</strong>fficile accostarsi sia pure solo intellettualmente a<br />
ciò che Berger descrive qui: ed è <strong>di</strong>fficile vedere che nesso<br />
ci sia tra Rembrandt e i ticket da pagare per poter<br />
sopravvivere come macchine più o meno efficienti. Eppure<br />
non c’è scampo: appena si <strong>di</strong>stoglie lo sguardo dall’altro, e<br />
si <strong>di</strong>mentica che è come me, comincia l’orrore. Appena<br />
sono meno attento, il vuoto <strong>di</strong>laga: la vittima scambia<br />
l’altra vittima per un nemico, e invece <strong>di</strong> schierarsi dalla<br />
sua parte contro i persecutori, chiede ai persecutori che<br />
ridono <strong>di</strong> tanta stolta servilità: sacrificate lui, e salvate me!<br />
55
Ma la vittima sciocca non ha nemmeno finito <strong>di</strong> invocare<br />
questa egoista pietà, che viene fatta a pezzi fianco a fianco<br />
dell’altro. Deve continuare ancora così per sempre? Tutti i<br />
1789 devono per forza mettere il collo degli altri e poi il<br />
proprio sotto una ghigliottina? O forse il prendersi cura<br />
l’uno dell’altro potrebbe ancora <strong>di</strong>ventare l’insurrezione<br />
permanente?<br />
Non ho risposte possibili, da solo. Le parole sono cose?<br />
Non so nemmeno questo. Dice misteriosamente Berger<br />
parlando sull’arte <strong>di</strong> essere attenti verso gli altri:<br />
“Stranamente, l’amore è la migliore garanzia contro<br />
l’idealizzazione.”<br />
Stamattina il vecchio <strong>di</strong> fronte non si muove.<br />
“Io non tengo tempo da perdere! Iamme, nun pazzià…”<br />
L’infermiere lo scuote sbuffando, ma non ha nemmeno<br />
finito la frase che si rabbuia, si china sul vecchio e chiama<br />
sottovoce un compagno. Dopo un po’ che quello è sparito<br />
arriva un me<strong>di</strong>co e prende tra le <strong>di</strong>ta il polso del vecchio, si<br />
china su <strong>di</strong> lui con lo stetoscopio, gli ausculta il cuore e<br />
chiede qualcosa ai due infermieri. Il ragazzino, che <strong>di</strong> solito<br />
si sveglia alle un<strong>di</strong>ci, è già seduto in mezzo al letto nella<br />
luce incerta dell’alba, e fissa la scena in silenzio. Poi mette i<br />
pie<strong>di</strong> nu<strong>di</strong> sul pavimento e si avvicina al vecchio, ma<br />
l’infermiere lo prende per una spalla e gli <strong>di</strong>ce che se ne<br />
deve tornare a dormire. Gli infermieri borbottano tra <strong>di</strong> loro<br />
56
sulla nipote che non è mai venuta e chissà adesso come si fa<br />
a trovarla, arriva un altro me<strong>di</strong>co, rifà gli stessi gesti del<br />
primo, scuote la testa: allora l’infermiere atletico prende in<br />
braccio senza sforzo il corpo piccolo del vecchio, come se<br />
fosse un uccello rinsecchito in pigiama, e lo porta via.<br />
E’ una mattinata <strong>di</strong> luglio tersa, e a uscire fuori in giro<br />
l’ospedale sembra immerso in un bosco. L’aria è sottile, ed<br />
è come passeggiare in montagna. Ma i malati del pa<strong>di</strong>glione<br />
se ne stanno sui muretti a fumare, reggendo con la mano<br />
libera le bustine con le loro secrezioni. Ogni tanto i me<strong>di</strong>ci<br />
<strong>di</strong> turno li rimproverano, ma in genere fanno finta <strong>di</strong> non<br />
vedere. Io detesto le cicche semispente schiacciate sui<br />
pianerottoli e sulle scale, ma ormai non mi danno più<br />
fasti<strong>di</strong>o, e qui dentro ho smesso <strong>di</strong> considerare importanti<br />
molte cose. Qualche giorno fa ho detto allo sbruffone che<br />
non era giusto che una donna anziana operata da poco<br />
fumasse tossendo nei corridoi senza che nessuno glielo<br />
impe<strong>di</strong>sse, ma quello mi ha riso in faccia.<br />
“E che ne sai, tu? E se quella deve morire tra tre giorni?<br />
Meglio che fuma, siente a me…”<br />
Non ho saputo cosa rispondere, e sono rimasto zitto.<br />
Alcuni <strong>di</strong>cono che qui i ratti abbondano perché c’è troppo<br />
cibo che si butta, e nessun <strong>di</strong>sinfettante può eliminare chi ha<br />
fame: ma devono essere animali <strong>di</strong>screti, perché pare che<br />
compaiano solo <strong>di</strong> notte. Dicono anche che sotto questi<br />
alberi secolari vivano piccole volpi, e ricci grassottelli che<br />
57
qualcuno ha mangiato arrostiti infilzandoli su uno stecco:<br />
altri invece <strong>di</strong>cono che d’autunno ci sono talmente tanti<br />
funghi che non si riesce nemmeno a coglierli tutti.<br />
Sarà vero?<br />
La tasca davanti<br />
<strong>di</strong> Valeria Parrella<br />
58<br />
Ad Alessia, piccola piccola<br />
Aveva solo un numero <strong>di</strong> telefono, su un foglietto<br />
da qualche parte. Nella tasca davanti, sì, ma<br />
dell’altra salopette. E come avrebbe potuto<br />
salvarlo sul cellulare? Doveva forse metterci un<br />
nome che non le <strong>di</strong>ceva niente?<br />
Comunque aveva deciso <strong>di</strong> andare<br />
all’appuntamento, aspettare un poco, guardarsi<br />
intorno, valutare, e poi magari andare via se la<br />
cosa non si fosse messa per il verso giusto.<br />
Tanto… Erano protette l’una dall’altra da un<br />
doppio anonimato telefonico<br />
- signora Maddalena-<br />
- sì-
- il suo numero…me l’ha dato il dott.<br />
Savastano-<br />
- sì, signora, ho capito: ma a che mese stiamo?-<br />
- entro nel settimo-<br />
- è tar<strong>di</strong>, lo sa?-<br />
- lo so-<br />
- vabbè, venga giovedì alle quin<strong>di</strong>ci, e<strong>di</strong>ficio 9,<br />
primo piano. Signora: c’è un corridoio lungo<br />
lungo, ci saranno delle persone che aspettano<br />
per le visite. In fondo, il corridoio svolta sulla<br />
destra: la terza porta. Non bussi, mi aspetti<br />
fuori-<br />
- va bene, alle quin<strong>di</strong>ci-<br />
- signora, sia chiaro. Lei è in ospedale per fare<br />
una visita a una persona. Qualunque cosa<br />
chiedano a me o a lei, io non la conosco e non<br />
so <strong>di</strong> cosa parla…-<br />
Così era emersa dalla metropolitana collinare<br />
<strong>di</strong>rettamente nel muro <strong>di</strong> cinta del policlinico.<br />
Aveva camminato piano tra gli eucalipti, con i<br />
quadricipiti tesi a contrastare la salita: il viale che<br />
accompagnava alle cliniche si snodava lungo la<br />
collina del Rione Alto e guardava Napoli da<br />
lontano. Avrebbe fatto pensare a un sanatorio, se<br />
non fosse stato affacciato sulla cappa <strong>di</strong> smog<br />
dell’area metropolitana più grande del paese.<br />
59
Ora era arrivata al pa<strong>di</strong>glione 9. Aspettava nella<br />
salopette.<br />
Aspettava che si aprissero le porte per fare entrare<br />
i visitatori, mentre qualcuno si lamentava <strong>di</strong><br />
qualcosa ad alta voce, e tutti avevano occultato,<br />
in un modo o nell’altro, del cibo da portare in<br />
corsia. C’era profumo <strong>di</strong> frittate, e carne alla<br />
pizzaiola. Le salì una voglia fortissima <strong>di</strong><br />
pizzaiola, anzi: <strong>di</strong> carne cotta all’olio, aglio e<br />
prezzemolo. Una voglia <strong>di</strong> prezzemolo<br />
prepotente, incoercibile, proporzionale a tutto il<br />
prezzemolo che aveva dovuto eliminare dai piatti,<br />
una volta incinta.<br />
Era concentrata in sé a scacciare quei pensieri,<br />
quando si era accorta <strong>di</strong> essere circondata da<br />
molte salopette, della sua stessa taglia. Anzi: a<br />
ben vedere, tutte quelle donne incinte guardavano<br />
proprio lei, <strong>di</strong> sott’occhi, con <strong>di</strong>screzione,<br />
qualcuna sfacciatamente, ma tutte lei. Si ficcò le<br />
mani in tasca e si accarezzò la pancia lungo<br />
l’elastico degli slip.<br />
In ascensore ormai, oltre i silenzi, era stato chiaro<br />
che non si trovavano tutte lì per caso, ormai era<br />
chiaro che andavano tutte nella stessa <strong>di</strong>rezione.<br />
Così, senza chiedere nulla, Ilaria le aveva seguite<br />
nel corridoio lungo lungo, quello che alla fine<br />
60
avrebbe svoltato a destra. Mentre camminava<br />
guardava i talloni arrossati che la precedevano, i<br />
talloni schiacciati da un peso nuovo, inaspettato,<br />
temporaneo; sentiva che anche i suoi talloni erano<br />
rossi, benché non se li fosse guardati mai. Ma<br />
aveva visto quelli <strong>di</strong> sua cognata scoppiare nella<br />
tensione dei capillari: pensava a sua cognata,<br />
Ilaria, quando tutte quelle donne avevano svoltato<br />
a destra, e si erano fermate davanti alla terza<br />
porta.<br />
Sua cognata aveva lasciato Napoli per seguire il<br />
marito. Per andare a vivere a Gessate, ultima<br />
fermata della linea verde del metrò <strong>di</strong> Milano. E<br />
da allora non si era mai più chiesta se le piaceva,<br />
vivere lì. Poi un giorno era rimasta incinta, e<br />
aveva cominciato a scoprire la como<strong>di</strong>tà dello<br />
stato sociale. Non aveva mai litigato per ritirare il<br />
referto <strong>di</strong> una ecografia, mai fatto una fila al<br />
consultorio, e miracolo dei miracoli: il suo<br />
ospedale aveva organizzato un corso preparto.<br />
-e quando lo cominci il corso preparto, tu a<br />
Napoli?-<br />
E quando lo comincio il corso preparto, io? Ilaria<br />
era andata a chiedere in ospedale:<br />
61
-mi <strong>di</strong>spiace, signora: quest’anno la <strong>di</strong>rezione<br />
sanitaria non ha potuto <strong>di</strong>sporre in tal senso-<br />
Gessate, ultima fermata della linea verde: Ilaria<br />
stava ripetendosi la parola ultima, quando dalla<br />
porta era sbucata la signora Maddalena.<br />
Sembrava una giapponesina, con zoccoli se<br />
possibile ancora più brevi dei pie<strong>di</strong>. Era uscita<br />
con circospezione, aveva attraversato il gruppetto,<br />
poi si era girata e le si era piantata davanti.<br />
- È lei? – aveva chiesto.<br />
Ilaria ci aveva pensato: in fondo alla salopette, sì,<br />
era lei. Lei costretta da sua cognata, ma sempre<br />
lei.<br />
Maddalena le aveva teso la mano, le aveva<br />
accarezzato la pancia all’altezza della tasca<br />
davanti:<br />
- femmina - aveva detto,<br />
sì, ma era facile. Poi aveva fatto cenno a<br />
un’infermiera e questa aveva risposto con la<br />
mano aperta come in un saluto<br />
- 5- aveva tradotto Maddalena- oggi an<strong>di</strong>amo<br />
nella cinque- Poi :<br />
- Ilaria, <strong>di</strong>amoci il tu, Ilaria. Qua non facciamo<br />
niente <strong>di</strong> male, lo so io, lo sanno loro e lo sai<br />
tu, però questi locali a quest’ora dovrebbero<br />
servire ad altri, o essere chiusi, e io ormai non<br />
62
sono più ostetrica e lavoro negli uffici, e il<br />
dottore Falisco, che mò smonta dal turno e ci<br />
raggiunge, appunto: smonta dal turno,<br />
significa che la sua assicurazione finisce qui, e<br />
in quest’ospedale non ci dovrebbe stare.<br />
Insomma, questo corso preparto non esiste. Tu<br />
non sei qui, noi non siamo qui. Abbi pazienza,<br />
se si sa noi passiamo un guaio.-<br />
Ecco, adesso c’era, al corso preparto. Adesso<br />
bastava solo non farlo sapere mai a sua cognata<br />
Chiara, per sicurezza non <strong>di</strong>rlo neppure a suo<br />
marito: che il corso era tenuto <strong>di</strong> nascosto, che<br />
dovevano cambiare stanza ogni volta con la<br />
compiacenza dell’infermiera <strong>di</strong> turno, che si<br />
dovevano vedere sempre dalle tre alle cinque,<br />
perché è l’orario aperto al pubblico e solo così si<br />
potevano mimetizzare.<br />
Ilaria si guardava intorno, e tutto era mimetizzato:<br />
sulle scale antincen<strong>di</strong>o le degenti, in vestaglia e<br />
zoccoli, fumavano con le infermiere, in càmice e<br />
zoccoli, e i me<strong>di</strong>ci davano le informazioni agli<br />
sportelli, come impiegati, e i parenti toglievano le<br />
flebo, come infermieri, e i volontari <strong>di</strong>stribuivano<br />
i pasti, come inservienti. E in mezzo c’erano loro,<br />
come visitatori.<br />
63
Ma adesso c’era, e avrebbe finalmente potuto<br />
sfidare Chiara su un piano <strong>di</strong> parità: incinta tutt’e<br />
due a settecento chilometri e un mese <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza.<br />
E lei era partita anche in anticipo.<br />
Ilaria finalmente si sentiva all’altezza <strong>di</strong><br />
competere con i racconti, con la rivalsa<br />
sotterranea <strong>di</strong> Chiara che si era dovuta strappare<br />
Napoli <strong>di</strong> dosso e ora, dopo essersi sentita nuda,<br />
si era ritrovata in abiti più como<strong>di</strong> dei suoi.<br />
Sorrideva sod<strong>di</strong>sfatta: era nell’unico corso<br />
preparto della provincia, segreto, sovversivo<br />
dell’or<strong>di</strong>ne costituito. C’erano donne che<br />
avrebbero partorito a Giugliano, a Marano, a<br />
Somma.<br />
Non c’era nulla <strong>di</strong> sistematico, piuttosto voci <strong>di</strong><br />
voci, passaparola <strong>di</strong> quartieri: si pescava nel<br />
mucchio della maternità, come un campione in<br />
una<br />
statistica.<br />
… piano, lasciare che l’aria attraversi le narici,<br />
poi la trachea. Visualizzare il respiro come una<br />
sfera incandescente che si poggia sul <strong>di</strong>aframma e<br />
lo abbassa consentendo l’allargamento della<br />
gabbia toracica e l’espansione dei polmoni… più<br />
o meno si stava concentrando sempre su questo<br />
64
punto, Ilaria, quando il dott. Falisco riusciva a<br />
liberarsi ed entrava trafelato nella stanza.<br />
Arrivava già in borghese, togliendosi càmice e<br />
occhiali lungo il corridoio e aggiustandosi i<br />
capelli nelle ascensori. A volte doveva fare tutto<br />
il giro del pa<strong>di</strong>glione esterno per liberarsi<br />
dell’amministratore Torella. Un giorno, prima <strong>di</strong><br />
salutarlo, alla macchina, gliel’aveva chiesto: per<br />
sfidarlo, o per capire se sapeva<br />
- Torella, ma poi, i finanziamenti per quel corso<br />
preparto?-<br />
- Gianni, ma ti sembrano tempi, questi?-<br />
Falisco si conquistava a fatica il suo ruolo nella<br />
stanza. Erano donne poco abituate a parlare <strong>di</strong> sè<br />
davanti agli uomini. E inclini alle tra<strong>di</strong>zioni orali<br />
<strong>di</strong> casa, piuttosto che alle promesse dello shiatsu.<br />
- prego, continuate -<br />
tentava Falisco, ma era impossibile continuare.<br />
Già era <strong>di</strong>fficile rilassarsi su quelle se<strong>di</strong>e così<br />
scomode. Quando arrivava lui, poi, bisognava<br />
chiedergli se è vero che il brodo fa fare più latte,<br />
che non si può lavare il pavimento. Che il<br />
prezzemolo fa abortire. Il prezzemolo non fa<br />
abortire, invece la respirazione <strong>di</strong>aframmatica da<br />
seduti faceva venire a tutte il singhiozzo: e Ilaria<br />
65
quando tornava a casa doveva aspettare sempre,<br />
prima <strong>di</strong> telefonare a sua cognata Chiara.<br />
Chiara le raccontava della ginnastica in acqua,<br />
della piscina messa a <strong>di</strong>sposizione dal comune, e<br />
lei allora si era inventata una storia: una piscina<br />
interna al Policlinico<br />
- parola mia - concludeva da là - non me lo<br />
ricordavo che al policlinico c’erano queste<br />
strutture<br />
A pezzi e intervalli, cambiando i giorni e i<br />
pa<strong>di</strong>glioni, ma rincontrandosi sempre, per il solo<br />
fatto <strong>di</strong> volerlo, avevano cominciato a conoscersi.<br />
Infondo, pensava Ilaria, non era quello il tempo<br />
per lo stretching, ma per non sentirsi sole.<br />
La sfera incandescente del respiro new age<br />
esplodeva nell’ansia <strong>di</strong> raccontarsi i nuovi<br />
cambiamenti scoperti sui corpi, quei corpi adulti<br />
che si pensava non sarebbero cambiati più.<br />
Falisco era <strong>di</strong>ventato una presenza tollerata anche<br />
nei <strong>di</strong>scorsi più intimi, le inseguiva, il dottore, in<br />
una caccia al tesoro allo smontare del turno.<br />
Arrivava, alla fine, ma le donne avevano già fatto<br />
da sole, avevano già rovesciato sul pavimento<br />
della stanza lo stupore e l’orrore e la gioia della<br />
loro con<strong>di</strong>zione.<br />
66
La città era in ritardo, ma le donne arrivavano in<br />
tempo, puntuali, alle tre.<br />
Poi un giovedì Ilaria arrivò prima. A pranzo le erano<br />
cominciate le contrazioni, e l’avevano portata<br />
all’accettazione per il ricovero. Alle tre si andava<br />
ancora bene: si era imposta <strong>di</strong> passeggiare, invece <strong>di</strong><br />
star stesa come avrebbe preteso un’infermiera, e così<br />
il tempo tra una contrazione e l’altra si era fatto più<br />
pieno.<br />
Chiara l’aveva chiamata da Linate: si era messa sul<br />
primo aereo.<br />
Alle tre si andava ancora bene, Ilaria percorreva il<br />
corridoio: seguiva la fuga delle mattonelle. Quando<br />
arrivava al battiscopa, ruotava sui talloni arrossati e<br />
ricominciava nel senso opposto; alla se<strong>di</strong>cesima volta<br />
si era girata e se le era trovate davanti, le amiche del<br />
corso.<br />
-ciao- si erano dette. E poi niente più. Si<br />
guardavano, ma i loro occhi andavano oltre la<br />
curiosità: le donne assorbivano il suo dolore,<br />
come un branco. Come compagne <strong>di</strong> scuola a un<br />
esame, impe<strong>di</strong>vano che la sua ansia <strong>di</strong>ventasse<br />
solitu<strong>di</strong>ne. Appena arrivava una contrazione<br />
respiravano per sincrono vitale tutte assieme.<br />
67
Erano rimaste così per quasi quattro ore. Il tempo<br />
per Chiara <strong>di</strong> atterrare a Capo<strong>di</strong>chino e spiegare<br />
al tassista che nella circumvallazione esterna<br />
vanno tutti in senso antiorario.<br />
Il pomeriggio aveva avuto la sua svolta decisiva<br />
all’arrivo <strong>di</strong> un me<strong>di</strong>co. La presenza <strong>di</strong> quella<br />
maestranza gli aveva fatto capire che c’era poco<br />
da scherzare, o da fare ritardo, da fumare sigarette<br />
o da pensare ad altro<br />
- dottò - aveva detto una - l’avete spento il<br />
cellulare?-<br />
Quello si era girato sorridendo perché pensava a<br />
una battuta. Ma gli sguar<strong>di</strong> che aveva incrociato<br />
erano serissimi, aggressivi e minacciosi.<br />
Esigevano rispetto, <strong>di</strong> più: deferenza e<br />
professionalità<br />
- sì- aveva risposto il me<strong>di</strong>co con un filo <strong>di</strong> voce.<br />
Ilaria ci pensa spesso ora che tutte hanno<br />
partorito, e recuperato il sonno, e riconquistato la<br />
voglia <strong>di</strong> truccarsi e uscire, e che ognuna è stata<br />
risucchiata dalla sua vita, dal suo basso, o dal suo<br />
quartino al terzo piano, dal marito, dal lavoro, dai<br />
servizi e dalla spesa. Ora che non hanno più nulla<br />
in comune pensa spesso a quel momento quando,<br />
seguendo il me<strong>di</strong>co, si era voltata a guardare le<br />
68
sue compagne prima <strong>di</strong> entrare in sala parto, e<br />
aveva avuto do<strong>di</strong>ci cuori, e ventiquattro polmoni<br />
e decine <strong>di</strong> mani e un unico respiro da soffiare a<br />
suo figlio.<br />
Chiara era riuscita a salutarla con la mano da <strong>di</strong>etro le teste delle<br />
altre, poi doveva essersi gettata su una se<strong>di</strong>olina a esaminare le<br />
salopette che la circondavano:<br />
- voi siete le amiche del corso pre-parto?-<br />
- sshhh- avevano risposto loro serie.<br />
A Chiara doveva esser sembrato assurdo: con<br />
cinque parti in contemporanea, e un continuo<br />
passeggio <strong>di</strong> gente nel corridoio, e le sirene<br />
dell’ambulanza che pure ci arrivavano fin lì, a<br />
Chiara doveva parere davvero che non ci fosse<br />
bisogno <strong>di</strong> abbassare la voce. Ma non aveva<br />
voluto essere da meno, e quasi sussurrando aveva<br />
ripreso:<br />
- e la piscina, dov’è?-<br />
Il mare magnum delle possibilità<br />
<strong>di</strong> Antonio Pascale<br />
Da una decina <strong>di</strong> minuti mi stavo aggirando, da solo, in un<br />
pa<strong>di</strong>glione d’ospedale, al buio. Cercavo <strong>di</strong> raggiungere la<br />
stanzetta del dottore <strong>di</strong> turno. Camminavo per raggiungere<br />
la stanzetta in fondo al corridoio che m’avevano detto, si<br />
<strong>di</strong>stingueva dalle altre, perché era illuminata.<br />
Effettivamente c’era una luce, ma molto fioca.<br />
69
Cercavo <strong>di</strong> raggiungere la stanzetta del dottore <strong>di</strong> turno,<br />
perché mi faceva male il braccio. La gentilissima<br />
infermiera, capelli rossi, corpo massiccio, che cantava<br />
canzoni napoletane, ma senza strascicare le parole né<br />
calcando la voce nei momenti topici, l’infermiera, <strong>di</strong>cevo,<br />
prima <strong>di</strong> rimboccarmi le coperte, m’aveva rassicurato: “se ti<br />
fa male il braccio vai dal dottore e ti fai fare l’iniezione”.<br />
Solo due giorni prima stavo giocando a impennare con la<br />
bicicletta. Tutta la strada, più <strong>di</strong> cento metri, su una ruota<br />
sola. Avevo 13 anni, era giugno, fra pochi giorni avrei fatto<br />
l’esame <strong>di</strong> terza me<strong>di</strong>a, e poi mare, finalmente il mare.<br />
Non m’ero fatto male perché impennavo. Appena sceso<br />
dalla bicicletta, nemmeno messo piede sul marciapiede, una<br />
moto m’aveva travolto. Il centauro stava cercando <strong>di</strong><br />
imitarmi, andava anche lui su una ruota, però sul<br />
marciapiede. Che poi è un vecchio vizio del sud, occupare i<br />
marciapie<strong>di</strong>.<br />
Il tizio su una ruota, Gianluca Citarella, mi ha visto alla fine,<br />
troppo tar<strong>di</strong>. Ho messo le mani avanti per ripararmi e ho<br />
fatto male, subito il braccio sinistro aveva ceduto con una<br />
specie <strong>di</strong> rumore che adesso non saprei definire. Un brutto<br />
rumore, comunque.<br />
La <strong>di</strong>agnosi: ra<strong>di</strong>o e urna rotti. Si trattava <strong>di</strong> una frattura<br />
scomposta ed esposta, in quando, non solo le ossa avevano<br />
ceduto in più punti, ma un pezzo d’urna aveva bucato<br />
l’avambraccio ed era uscito fuori. La visione del fenomeno<br />
(la fuoriuscita dell’osso) aveva causato lo svenimento<br />
dell’impennatore, il suddetto Gianluca Citarella, 15 anni, e<br />
<strong>di</strong> Matteo u’chioz, così detto, perché aveva la tendenza a<br />
incantarsi davanti a qualcosa <strong>di</strong> sconosciuto e ciondolare la<br />
testa avanti e in<strong>di</strong>etro con la bocca aperta. Soprannome<br />
volgare, devo ammetterlo.<br />
Matteo, dopo un lungo momento <strong>di</strong> ciondolamento, anche<br />
lui <strong>di</strong> fronte al fenomeno inatteso era svenuto, battuto la<br />
testa e si era ritrovato con me al pronto soccorso.<br />
Se mi ricordo bene: cinque punti.<br />
70
Quando mi tirarono il braccio per sistemarlo, gridai con<br />
tutto il fiato. Non ricordo però il dolore, ma solo il grido,<br />
prolungato, alla fine del quale toccò a mia madre svenire, e<br />
Matteo appena me<strong>di</strong>cato, ebbe un conato <strong>di</strong> vomito.<br />
Comunque, causa dolore intenso, non fu possibile<br />
sistemarmi il braccio, dunque, subii la mia prima operazione<br />
(ne ho avute tre) e la mia prima anestesia. Per inciso, un<br />
brutto momento il risveglio, non mi riuscivo a riprendere,<br />
tutto il pomeriggio a cercare <strong>di</strong> capire cosa mai mi era<br />
successo, perché vedevo i contorni delle cose sfocate e<br />
perché mai sentivo un peso sul torace.<br />
Eppure m’avevano preparato a dovere. L’infermiera il<br />
giorno prima m’aveva rasato il braccio cantando, poi sorriso<br />
e detto: non ti preoccupare è cosa ’e niente.<br />
L’anestetista, la mattina presto, m’aveva stor<strong>di</strong>to con<br />
un’iniezione preparatoria e poi ero entrato in sala operatoria,<br />
sotto questa grande lampada che, prima del buio, ricordo si<br />
muoveva come un <strong>di</strong>sco volante che prende ora ora il volo.<br />
Ma la suggestione era personale, in quel periodo ero fissato<br />
con gli u.f.o.<br />
Adesso, <strong>di</strong> notte, dopo l’operazione, camminavo da solo:<br />
siccome volevo essere un ragazzino coraggioso, non avevo<br />
permesso a nessuno <strong>di</strong> rimanere: tanto ce la faccio<br />
benissimo; <strong>di</strong> notte, <strong>di</strong>cevo, il braccio mi faceva così male<br />
che m’ero alzato e stavo cercando, lungo il pa<strong>di</strong>glione buio,<br />
questo sprazzo <strong>di</strong> luce che mi restituisse un po’ <strong>di</strong> pace.<br />
“E’ cosa <strong>di</strong> niente”, aveva detto il dottore, “una puntura e<br />
passa la paura” Infatti mi sentii meglio.<br />
Ora, io, alla fine dei conti, non posso rimproverare niente ai<br />
dottori, sono stati bravi e gentili, tranne una cosa. Dicevano<br />
sempre così: “ non da retta, è cosa ’e niente ”, e invece,<br />
almeno per me, non era cosa <strong>di</strong> niente. Insomma m’aveva<br />
detto che dopo l’operazione, tempo due giorni e stavo a<br />
casa, che avrei tolto il gesso tempo 30 giorni, e dunque, ad<br />
agosto avrei fatto i bagni e la vita sarebbe ricominciata.<br />
Non era così, i dottori lo sapevano già da prima come<br />
davvero sarebbero andate le cose. Me ne accorsi solo alla<br />
fine: intorno a me, era stato costruito un castello <strong>di</strong><br />
menzogne.<br />
71
Non potevo lasciare subito l’ospedale, dovevo starci un’altra<br />
settimana. Lo sapeva anche mio padre e non me l’aveva<br />
detto. Non potevo togliere il gesso dopo 30 giorni, avrei<br />
dovuto portarne un altro, <strong>di</strong> quelli a mezzo braccio, per altri<br />
15. Dunque, niente bagni. In più, avrei dovuto fare<br />
fisioterapia da subito, e allora: niente vacanze.<br />
Quando me lo <strong>di</strong>ssero, io me ne stavo nel letto a leggere i<br />
fantastici quattro, la puntata dove fa la sua prima<br />
apparizione Silver Surfer, l’araldo dell’imbattibile Galactus<br />
che vuole <strong>di</strong>struggere la terra. Mi piacque subito Silver<br />
Surfer, e ancora adesso ho un ricordo vivissimo delle sue<br />
gesta. La parte del fumetto quando capisce che gli abitanti<br />
della terra non sono misere formiche da uccidere solo per<br />
dare energia a Galactus, ma, al contrario, essere umani che<br />
soffrono, gioiscono e, soprattutto, sono capaci <strong>di</strong> emozioni<br />
irriducibili, quella parte, mi dava un senso <strong>di</strong> commozione e<br />
<strong>di</strong> incanto che allora non sapevo spiegarle.<br />
Tutto questo precedette l’affermazione del me<strong>di</strong>co. Un’altra<br />
settimana in ospedale, poi ve<strong>di</strong>amo come va. Guardai mio<br />
padre per chiedere conferma alle parole del dottore e mio<br />
padre <strong>di</strong>sse: “sì, è così”, lui già lo sapeva.<br />
Quello che seguì da parte mia, fu il pianto più lungo, più<br />
sincero e pieno, addolorato della mia vita, almeno fino a<br />
questo momento.<br />
Non ricordo <strong>di</strong> aver mai più pianto in quel modo. Né ricordo<br />
una sola volta in cui mi sia sentito tanto solo, incompreso,<br />
mai più, nemmeno dopo le prime cotte o i primi abbandoni.<br />
Mai ricordo un dolore così siderale, nemmeno Silver Surfer,<br />
così sensibile al sentimento della razza umana, avrebbe<br />
potuto coglierlo.<br />
Perché mi avevano mentito? cosa c’era sotto? Cosa c’era<br />
dentro il mio gesso che non andava? E se m’avevano<br />
mentito una volta, come potevo fidarmi adesso?<br />
Se pochi giorni prima, percorrendo il corridoio buio, da<br />
solo, pensavo <strong>di</strong> essere già un uomo capace a tre<strong>di</strong>ci anni <strong>di</strong><br />
affrontare non solo la strada in bilico su una ruota, ma anche<br />
<strong>di</strong> non farsi influenzare dai troppi lamenti dei pazienti,<br />
andare <strong>di</strong>ritto a chiedere un analgesico, sicuro <strong>di</strong> me,<br />
72
in<strong>di</strong>pendente, all’improvviso, mi rendevo, labilmente, conto,<br />
che <strong>di</strong>pendevo non solo dagli altri, ma dalle loro bugie.<br />
E così, il dolore che non ricordo <strong>di</strong> aver sentito quando<br />
tentavano <strong>di</strong> sistemarmi il braccio, mi tornava adesso<br />
in<strong>di</strong>etro, in maniera inqualificabile. Non potevo sopportarlo,<br />
perché non potevo capirlo. Ero un bambino costretto a<br />
rimangiarsi il proprio muco.<br />
Piansi per molto tempo, se adesso chiudo gli occhi, ricordo<br />
bene il silenzio dei colleghi <strong>di</strong> camera, tutti più gran<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
me. Signori anziani che da tre giorni scherzavano con me, si<br />
voltarono dall’altra parte, dovevo apparirgli inconsolabile.<br />
Ma c’è un’altra cosa ricordo, il risveglio del giorno dopo, <strong>di</strong><br />
pomeriggio, appena passata la controra. Accanto al letto,<br />
c’era ancora mio padre, mi sorrise e <strong>di</strong>sse: “ adesso ce ne<br />
an<strong>di</strong>amo. Ce ne an<strong>di</strong>amo a casa, mi prendo io la<br />
responsabilità ”.<br />
Fu un gesto impulsivo il suo, come spesso faceva. Mio<br />
padre o rimuoveva per anni il dolore, o l’affrontava con<br />
grande impeto. Forse per questo non ricordo aver visto mio<br />
padre piangere, o il dolore era nascosto e non c’era modo <strong>di</strong><br />
farlo venire a galla (se non traslato dalla nevrosi), o doveva<br />
affrontarlo <strong>di</strong> botto, e allora non c’era tempo <strong>di</strong> piangere.<br />
Da quel giorno sono anche io così.<br />
Però, fu il risveglio più bello della mia vita. Mentre mi<br />
vestivo, non ci credevo, e infatti, rinunciai a vestirmi del<br />
tutto, rimasi con il pantalone del pigiama. Mentre andavo in<br />
macchina verso casa, non ci credevo, e guardai con un senso<br />
<strong>di</strong> incantamento, simile a quello <strong>di</strong> Matteo o’chionz, tutto<br />
quello che mi sfilava davanti: pure, anzi soprattutto, le cave<br />
<strong>di</strong> Caserta.<br />
“ La nostra pelle è la nostra storia, non possiamo cancellare<br />
le rughe”. “Il dolore è una costruzione necessaria della<br />
coscienza. Mica ce ne possiamo liberare ”. “ Possiamo<br />
portare il dolore, in uno spazio più umano, sopportabile,<br />
verso un grado <strong>di</strong> sofferenza che si sposa bene con il senso<br />
della infelicità comune. Allora avremmo un’attrezzatura<br />
73
mentale necessaria per sostenerlo. ” Sono alcune frasi che<br />
ho sentito in ospedale, adesso non sono così filologico, le<br />
ricostruisco a memoria.<br />
Non ricordo neanche bene chi le ha pronunciate, credo<br />
sinceramente che siano piccole lezioni <strong>di</strong> vita, molto<br />
sensate: forse, il nucleo attorno al quale si dovrebbe<br />
muovere il concetto (lato) <strong>di</strong> sanità (igienica, mentale,<br />
ospedaliera).<br />
L’ospedale è in fondo un po’ come l’amore, ti fa toccare<br />
cose primor<strong>di</strong>ali, ma (l’ospedale) in più legittima, ed<br />
accoglie e rende sensate, anche quelle brutture umane che la<br />
società ha, invece, messo da parte. Cosa ti chiedono in<br />
fondo i me<strong>di</strong>ci per accertare il tuo recupero fisico dopo<br />
un’operazione: hai fatto l’aria? Sei andato <strong>di</strong> corpo? Detto<br />
da un me<strong>di</strong>co a un malato, l’aria del tuo intestino non ha<br />
nulla <strong>di</strong> ironico, non c’è goliar<strong>di</strong>a spicciola, né aria<br />
barzellettiera. Anzi, al contrario, c’è attesa <strong>di</strong> vita, come<br />
quando ero neo papà e stavo attento ad ogni soffio d’aria <strong>di</strong><br />
mio figlio.<br />
O come quella volta, nella mia seconda esperienza<br />
ospedaliera, quando mi trovai a soccorrere il mio vicino <strong>di</strong><br />
letto che <strong>di</strong> notte era caduto, sbattendo la testa. Alle quattro<br />
<strong>di</strong> notte non c’era nessuno, tranne un infermiere, nemmeno<br />
tanto esperto che gli fece il massaggio car<strong>di</strong>aco, mentre io,<br />
non so perché, tenevo la mano al moribondo. Se ne stava<br />
andando, la mano era fredda e la faccia bianca, finché il<br />
moribondo non si riprese e cominciò a vomitare. Il vomito<br />
era una specie <strong>di</strong> sbuffo vitale <strong>di</strong> un vulcano. Mi macchiò<br />
anche, ma per la prima volta in vita mia non ne fui scosso né<br />
<strong>di</strong>sgustato.<br />
Ero entrato in una <strong>di</strong>mensione nuova: sarà amore? Una<br />
sottospecie? Una sopraspecie?<br />
Adesso, questo paragone, tra ospedale e amore, mi rendo<br />
conto, fatto da una persona sana, può essere fasti<strong>di</strong>oso,<br />
soprattutto verso chi invece ora è in uno stato <strong>di</strong><br />
prostrazione. Ma provo a insistere e argomentare<br />
In alcuni momenti della mia vita (sana), non<br />
necessariamente durante momenti <strong>di</strong> tristezza, ma,<br />
74
purtroppo, soprattutto, durante quelli belli (è questo il<br />
guaio), tutte le volte in cui ho pensato all’amore mi sono<br />
posto la seguente domanda: ma adesso che sono toccato<br />
dall’amore, sono guarito dai miei mali, grazie alla nobiltà<br />
del sentimento (basta la parola?), oppure ho appena iniziato<br />
una dura e lunga convalescenza? Mi sono liberato delle<br />
piccole cose brutali o da queste devo partire per liberarmene<br />
poi in un futuro?<br />
L’amore per me è come quella camminata che da bambino<br />
feci al buio nel pa<strong>di</strong>glione. Ecco, mi rivedo: sono ancora lì,<br />
nel corridoio, oppure ho visto la luce?<br />
Non so ancora rispondere, anche se provo (più o meno) ad<br />
amare, mi porto <strong>di</strong>etro una fissazione, e su questa ritorno<br />
spesso: come sarebbe stata la mia vita, se i dottori mi<br />
avessero detto la verità sul mio braccio? Non era cosa <strong>di</strong><br />
niente, che c’era da penare un po’ <strong>di</strong> più. Se me l’avessero<br />
detto, quanto avrai pianto?<br />
Certo che avrei pianto, ma sicuramente <strong>di</strong> meno, in maniera<br />
più sommessa, controllata, soprattutto perché non avrei<br />
messo in conto il concetto <strong>di</strong> improvvisa menzogna che ti<br />
sorprende e ti inganna.<br />
Me lo chiedo anche perché con il tempo devo avere<br />
introiettato questo concetto. Faccio come mio padre, per non<br />
riconoscere la piccola sofferenza <strong>di</strong>vento impulsivo. So<br />
portare, se l’occasione lo richiede, chiunque lontano da una<br />
situazione dolorosa, ma solo dopo che questa situazione, si è<br />
appunto manifestata. Ho paura <strong>di</strong> soffrire tanto e allora mi<br />
<strong>di</strong>co: tanto è cosa ’e niente? Lasciamo correre, poi <strong>di</strong>o<br />
pensa. Rifaccio l’errore che i dottori fecero a suo tempo con<br />
me. Mi avranno mica marchiato?<br />
“E’ cosa ’e niente”, tipica espressione meri<strong>di</strong>onale, in fin<br />
dei conti, una frase che nella vita può passare inosservata,<br />
ma in ospedale, bè, la situazione è più <strong>di</strong>fficile. Qui, <strong>di</strong><br />
certo, non funziona, forse perché una malattia non è cosa <strong>di</strong><br />
niente, impone un lutto, una riflessione, e bisogna sapere<br />
vivere il proprio lutto, bisogna sapere accettare il periodo <strong>di</strong><br />
maggese. E la con<strong>di</strong>zione necessaria è il riconoscimento<br />
della malattia.<br />
75
Inten<strong>di</strong>amoci, non è così tragica, virata a nero, cupa, in<br />
ospedale si ride anche, ma l’ironia va sotto un co<strong>di</strong>ce<br />
particolare, da malato a malato, non sopporta intrusioni<br />
esterne, queste, quando ci sono, hanno il sapore delle cose<br />
succedanee.<br />
Durante la mia seconda esperienza ospedaliera ho capito<br />
meglio questo concetto <strong>di</strong>, chiamiamolo così: è cosa ‘e<br />
niente, <strong>di</strong>o pensa, anche perché al suddetto concetto se ne è<br />
aggiunto un altro: e dai, ri<strong>di</strong>amoci su.<br />
Mi sono rotto il naso e uno zigomo cadendo dalla moto.<br />
Adolescenza passata ncopp’ a na rota, su motorini truccati, e<br />
poi vado a cadere, in piena tranquilla maturità, scivolando<br />
da cretino perché come un principiante, tiro il freno<br />
anteriore sul bagnato.<br />
Tra l’altro, l’unica volta in cui non portavo il casco.<br />
Operazione <strong>di</strong> tre ore, e fasciatura stretta su tutta la faccia.<br />
Ecco, il momento più deprimente è stato al risveglio, dopo<br />
l’operazione, ma non tanto per lo stato <strong>di</strong> prostrazione ma<br />
perché si sono avvicinati al mio capezzale alcuni volontari<br />
incaricati <strong>di</strong> portare opera <strong>di</strong> conforto ai malati.<br />
Responsabile <strong>di</strong> questo attentato alla mia salute spirituale,<br />
l’ho saputo dopo, sono state le teorie <strong>di</strong> Pack Adams. Un<br />
inciso, so davvero poco su lui, magari è una teoria sensata,<br />
magari è vero che l’ironia è un metodo <strong>di</strong> cura come gli<br />
altri.<br />
Cioè, io adesso non so che i miei assistenti fossero cattivi<br />
<strong>di</strong>scepoli, poco preparati o ancora, cattivi comici, ma ho<br />
vissuto i loro sforzi per farmi ridere con dolore.<br />
Per loro e per me.<br />
Avevano un sorriso stampato sul volto assolutamente<br />
innaturale e con questo ghigno si avvicinavano al mio letto<br />
per consolarmi. Ho tentato <strong>di</strong> non farli avvicinare, ma<br />
siccome avevo la faccia fasciata, mi risultava <strong>di</strong>fficile<br />
parlare, o esprimere un <strong>di</strong>ssenso visibile, e allora un<br />
volontario, il più spregiu<strong>di</strong>cato <strong>di</strong> tutti, ha attaccato<br />
<strong>di</strong>scorso, e ha cominciato a fare lo spiritoso, per raccontarmi<br />
cose comiche e leggere, o altre storie sulla vita fuori<br />
l’ospedale, una vita che dovevo assolutamente riconquistare,<br />
guarendo al più presto.<br />
76
Soprattutto grazie alla loro ironia.<br />
Invece, a me, a parte il fatto che non potevo ridere, fasciato<br />
com’ero, è venuto quasi da piangere. Non per la<br />
commozione, ma per la rabbia.<br />
Perché chi è sventurato fa del tutto per non ricordarsi le<br />
cause della sua sventura o meglio vuole (cerca <strong>di</strong>) riscattarsi<br />
dalla sventura, e non avrà voglia <strong>di</strong> ridere; almeno fino a<br />
quando non riuscirà a pensare <strong>di</strong> farcela da solo, anche<br />
imponendosi un periodo <strong>di</strong> lutto riflessivo. Insomma, non è<br />
cosa ’e niente e <strong>di</strong>o pensa ecc, e ricordare ad un infermo<br />
che fuori la vita è bella, significa fargli sentire ancora più<br />
duramente la sua con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> infermo.<br />
Senza considerare la fatica che feci per sopportare questo <strong>di</strong><br />
fronte a me che stava benissimo, tanto da ridere sulla<br />
bellezza della vita fuori dall’ospedale: è come se ci fossero<br />
due atteggiamenti <strong>di</strong>versi, quella dei miei comici che grazie<br />
alla loro salute mi spronavano, certo a fin <strong>di</strong> bene, a ridere e<br />
a tornare ad essere produttivo, e quella <strong>di</strong> me paziente che<br />
mi dovevo sforzare per ridere.<br />
Questi due atteggiamenti non si incontrano né si<br />
seducevano, restavano <strong>di</strong>stanti e facevano male al più<br />
debole. Guarda caso a me.<br />
Insomma, ebbi il sospetto è che si stava sviluppando una<br />
sorta <strong>di</strong> terapia dell’ironia. Grazie alla quale si rideva cose<br />
superficiali e innocue per scacciare in maniera altrettanto<br />
superficiale lo stress della malattia, e infine tornare al più<br />
presto a produrre.<br />
Ma non ce l’ho con quei volontari, in alcuni momenti, io<br />
non sono tanto <strong>di</strong>verso da loro. Quelli trattavano il dolore<br />
come una cosa risolvibile con una battuta e in questo<br />
rientravano nella categoria: italiani tipici, e io, in maniera<br />
speculare, rispondevo al dolore quando solo questo<br />
<strong>di</strong>ventava eccezionale, patologico, con un soprappiù<br />
d’energia, una <strong>di</strong>sponibilità d’amore che mi sorprende e mi<br />
affatica (in questo sono o non sono tipicamente italiano?).<br />
E’ la vecchia storia, quella frase che ho sentito una volta in<br />
ospedale: “ non possiamo liberarci da dolore, perché non<br />
possiamo liberarci della nostra coscienza, della nostra storia,<br />
77
meglio allora portarlo in una <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> comune<br />
infelicità ”.<br />
Ma per far questo, mi sono chiesto, una volta uscito<br />
dall’ospedale, non sarebbe meglio che queste scariche<br />
passionali, invece che accumularsi, fossero <strong>di</strong>luite nel tempo<br />
Forse uno sguardo più attento e vigile, un processo relazione<br />
tra me<strong>di</strong>co e paziente, un umile protocollo delle cose<br />
quoti<strong>di</strong>ane del paziente, tutte queste cose, potrebbero<br />
rendere più accettabile il dolore.<br />
C’è un’ultima cosa da riferire, e riguarda la mia terza<br />
esperienza ospedaliera. Un anno fa, a settembre, ho preso<br />
un’orticaria, abbastanza violenta ma repentina. Due ore e<br />
tutto era già passato.<br />
“La causa?” Avevo chiesto al dermatologo dell’ospedale.<br />
“Siamo nel mare magnum delle possibilità”, m’aveva<br />
risposto.<br />
Essere nel mare magnum non è una cosa che fa sentire bene,<br />
non sai, appunto, che pesci pigliare, ma non solo: a quale<br />
scoglio aggrapparsi. Fatto sta, mi sono spaventato, e forse<br />
per questo, dopo una settimana, si sono manifestati degli<br />
eczemi sulla schiena.<br />
Di nuovo da un dermatologo, un altro.<br />
Mi ha chiesto, con voce severa, <strong>di</strong> spiegargli i motivi della<br />
mia visita: ho cominciato a parlare e gli ho detto cos’era<br />
successo, ma mi ha subito interrotto: “ mi faccia vedere,<br />
altrimenti non capisco niente ”. Mi ha visitato: “ io sono<br />
noto perché parlo chiaro, sono eczemi con tendenza<br />
psioritica, è colpa dello stress! Lei è stressato, se non si<br />
calma, io le <strong>di</strong>co che si riempirà <strong>di</strong> bolle dalla testa ai pie<strong>di</strong>”<br />
E con il <strong>di</strong>to in<strong>di</strong>ce ha in<strong>di</strong>cato il mio cuoio capelluto ed è<br />
sceso fino ai pie<strong>di</strong>. Vari prodotti al cortisione, niente più<br />
caffè, tutto vestito <strong>di</strong> cotone bianco e via a casa: “ ci<br />
ve<strong>di</strong>amo fra 15 giorni ”.<br />
Ho pensato: questo parla chiaro o è solo una persona<br />
insensibile. Se è colpa dello stress, questo colloquio mi ha<br />
stressato alquanto.<br />
Adesso, non voglio farla lunga, sono peggiorato, pensavo<br />
sempre a quello che m’aveva detto il dermatologo: lei si<br />
riempirà <strong>di</strong> bolle dalla testa ai pie<strong>di</strong>, e tempo 15 giorni, mi<br />
78
sono riempito <strong>di</strong> bolle dalla testa ai pie<strong>di</strong> e mi sono davvero<br />
riempito <strong>di</strong> eczemi e dermatiti (io che mai, neppure i<br />
brufoli). Quello che è peggio è che il mio dermatologo, non<br />
faceva altro che offendermi: “ lei non vuole starmi a sentire,<br />
deve stare calmo, altrimenti non guarisce mai più, qui non<br />
facciamo i miracoli, quelli li chieda a padre pio ”.<br />
Per tutta la vita avevo pensato alla menzogna e alle bugie<br />
dei me<strong>di</strong>ci, adesso mi ritrovavo davanti a uno senza dubbi e<br />
solo certezze, ma come non navighiamo nel mare magnum<br />
delle possibilità?. Come fa a essere così sicuro.<br />
A inizio <strong>di</strong>cembre ero ricoperto per l’80% del corpo da<br />
dermatiti ed eczemi, dunque ricovero, e cortisone in dosi<br />
abbondanti.<br />
Alla fine della cura, ho cambiato dermatologo. Stavo già<br />
lentamente migliorando. Mi ha chiesto cose è successo, l’ho<br />
spiegato e, fatto strano, non mi ha interrotto. Mi ha visitato,<br />
m’ha detto: “ la nostra pelle è la nostra storia, non possiamo<br />
cancellarla. Lei è in via <strong>di</strong> guarigione, in via significa che si<br />
è incamminato su una strada non <strong>di</strong>fficile, ma con qualche<br />
tranello. Ma vede è inutile gridare quando si finisce in un<br />
tranello, dobbiamo evitare le buche, io e lei, insieme,<br />
possiamo farcela, magari lei mi in<strong>di</strong>ca le buche dove è solito<br />
cadere, così io le posso tracciare una rotta più precisa”.<br />
La sua voce calma, il suo tono cadenzato, il suo sguardo<br />
soffice, mi sembrava sincero, non corteggiava né la<br />
menzogna né imponeva la sua verità. E’ vero, proprio<br />
perché stavamo nel mare magnum delle possibilità, mi stava<br />
suggerendo la soluzione.<br />
La mia pelle è tornata normale.<br />
Ps. Finalmente guarito, con la pelle ambrata e forte, il 18<br />
d’agosto, stavo solo a Roma, per le strade non si vedeva<br />
nessuno, sono sceso e mi sono detto: “ è vero, ci vuole<br />
equilibrio e coraggio, per navigare nel mare magnum delle<br />
possibilità, che si fa, si rimuove o si affronta? ”.<br />
Nel dubbio, ho acceso la moto, prima, seconda, colpo <strong>di</strong><br />
frizione ed eccomi, dopo tanti anni, su una ruota, a<br />
percorrere, adesso in terza, la mia strada, viale dei 4° venti,<br />
nome mai così appropriato, me li sentivo, infatti, tutti<br />
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addosso. Non impennavo da 15 anni e da quel 18 d’agosto,<br />
adesso, sono sicuro, non impennerò mai più.<br />
COSE CHE VORREI RACCONTARE<br />
(INTORNO AGLI OSPE<strong>DA</strong>LI)<br />
<strong>di</strong> Francesco Piccolo<br />
Gli uomini in pigiama nei corridoi, che guardano giù, verso la strada,<br />
e giorno dopo giorno la malinconia la perdono, invece <strong>di</strong> farla<br />
lievitare. Il fatto che negli ospedali capita spesso <strong>di</strong> finire ai piani più<br />
alti, chissà perché. Le donne con delle vestaglie imbottite che hanno<br />
visi palli<strong>di</strong> e occhi sfuggenti. Il suono strascicato delle pantofole. Le<br />
mani sui fianchi perché fa male la schiena.<br />
Il rumore <strong>di</strong> stoviglie, a tutte le ore, che non si capisce da dove arriva.<br />
Le scarpette bianche e le calze bianche. Le porte dei reparti che si<br />
aprono e si chiudono rapidamente. Il campanello che suona<br />
inutilmente.<br />
I carrelli con le me<strong>di</strong>cine spinti attraverso i corridoi. Le schede con la<br />
temperatura ai pie<strong>di</strong> del letto. I letti che si alzano e si abbassano con<br />
un meccanismo semplice quando lo hai capito, ma che ci metti un<br />
sacco <strong>di</strong> tempo per capirlo.<br />
Un infermiere che da quando era giovane, decenni fa, continua a dare<br />
fiale <strong>di</strong> voltaren per i dolori muscolari, e si chiede se in questo<br />
ospedale, in questo reparto, in questa sua vita soltanto, il tempo si è<br />
fermato o se ci sono cose per cui il progresso scientifico non esiste,<br />
come per i dolori muscolari appunto. O per l’acne sul viso, visto che<br />
da generazioni gli adolescenti continuano a spalmarsi la faccia <strong>di</strong><br />
topexan e a sentire nelle narici odore <strong>di</strong> zolfo per molti anni. Il<br />
pensiero dell’infermiere quando <strong>di</strong>ce: devo chiedere a qualche collega<br />
<strong>di</strong> qualche altro ospedale. E poi si <strong>di</strong>mentica <strong>di</strong> farlo.<br />
Sonny, il ragazzo de L’ultimo spettacolo <strong>di</strong> Peter Bogdanovich, che<br />
finisce in ospedale dopo una scazzottata con il suo amico, a causa <strong>di</strong><br />
una ragazza, e quando l’infermiera gli porta il bigliettino della sua<br />
amante quarantenne, Ruth, che chiede <strong>di</strong> entrare un solo momento,<br />
Sonny la prega <strong>di</strong> <strong>di</strong>rle che lui sta dormendo. Lo sguardo<br />
dell’infermiera che ha capito tutto, e le <strong>di</strong>spiace, ma poi si gira e va a<br />
<strong>di</strong>re quel che deve <strong>di</strong>re.<br />
Un uomo che accompagna la sua donna fino davanti alla porta e se ne<br />
stanno lì zitti e poi fanno entrare lei e lui deve aspettare fuori e va a<br />
prendere un caffè al bar e poi a passeggiare nel parcheggio assolato.<br />
Poi torna e se ne sta lì fermo, insieme ad altri tre uomini e nessuno ha<br />
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voglia <strong>di</strong> parlare all’altro. Stanno tutti zitti e bevono acqua da piccole<br />
bottiglie. E poi l’infermiera esce e <strong>di</strong>ce all’uomo che sua moglie vuole<br />
vederla. L’uomo pensa alla donna, e si chiede se davvero ha detto<br />
chissà così. Poi l’uomo entra in una stanza <strong>di</strong> sei letti e c’è solo la<br />
donna nel letto. Le prende la mano e le chiede se sta bene. Lei <strong>di</strong>ce sì<br />
e piange. Piange anche l’uomo. E la donna <strong>di</strong>ce: scusami. Piange e<br />
<strong>di</strong>ce scusami, e lui le mette due <strong>di</strong>ta sulle labbra per <strong>di</strong>rle <strong>di</strong> smettere.<br />
Un’infermiera che <strong>di</strong>ce che non le fa affatto impressione che le<br />
tocchino il culo, ma vorrebbe soltanto decidere da chi farselo toccare.<br />
Tutte le volte che sono entrato in ospedale. Le in<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> tutti i<br />
reparti e le frecce. Il ragionamento che bisogna fare, per un attimo, per<br />
mettere in relazione una parte del corpo o un organo interno e il nome<br />
del reparto a cui corrisponde.<br />
Una lista <strong>di</strong> tutti gli ospedali dove sono entrato. Il più lontano è stato<br />
in Sardegna, forse, dopo un incidente in moto. Per il resto, sempre<br />
vicino casa. Questo è tutto quel che mi ricordo: chissà se sono entrato<br />
in qualche altro ospedale più lontano che si è perso nella memoria – e<br />
chissà se lo ritroverò più. In Australia, su un’isola, sono stato in<br />
infermeria – non c’era altro.<br />
Quando ho portato un bambino <strong>di</strong> otto anni che era caduto in palestra<br />
e che voleva che gli tenessi la mano mentre gli mettevano i punti<br />
sull’arcata sopracciliare. Del coraggio che in quel momento mi sono<br />
imposto e <strong>di</strong> come ho guardato tutto senza che mi facesse impressione<br />
solo per il fatto che lui contava sul mio coraggio. Quante volte, poi, mi<br />
è sembrato <strong>di</strong> averlo perduto e quante volte <strong>di</strong> averlo riconquistato.<br />
Quando è nata mia figlia – ma questo non vorrei raccontarlo, forse:<br />
troppo pudore; oppure perché farei come quelli che non sanno scrivere<br />
i racconti e non fanno altro che <strong>di</strong>re che era così emozionante, era<br />
bellissimo, era indescrivibile. Forse scriverei: non potete capire.<br />
Quando in una clinica mi hanno detto che potevo pagare soltanto in<br />
contanti, non con carta <strong>di</strong> cre<strong>di</strong>to né bancomat né assegno, una roba <strong>di</strong><br />
parecchie centinaia <strong>di</strong> euro, come se la gente uscisse <strong>di</strong> casa con<br />
pacchi <strong>di</strong> sol<strong>di</strong> come i benzinai. E quell’intervento chirurgico, il<br />
primario me lo faceva a un prezzo se al nero e a un altro se con<br />
fattura. Questo, detto nello stesso momento in cui mi ha detto che<br />
bisognava operare.<br />
Quella poesia <strong>di</strong> Carver in cui il dottore gli <strong>di</strong>ce che non c’è più niente<br />
da fare, e lui ricorda che gli stringe la mano e poi scrive cercando <strong>di</strong><br />
ricordare: “mi sa che l’ho pure ringraziato”.<br />
L’anestesia locale per un intervento al setto nasale, peraltro mal<br />
riuscito a tal punto che forse ora sto peggio <strong>di</strong> prima. Il ricordo<br />
perfetto che ho <strong>di</strong> qualcosa che mi raschiava l’osso o premeva con<br />
forza. Del sangue che qualcuno mi tamponava ogni tanto – per me<br />
solo un liquido buio che scorreva, perché non ho mai aperto gli occhi.<br />
La camera mortuaria, sul retro dell’ospedale <strong>di</strong> Caserta, dove sono<br />
stato almeno tre volte. Quell’entrata anonima. E quel che bisogna<br />
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capire si capisce soltanto grazie ai vestiti eleganti lì fuori, e alla<br />
<strong>di</strong>fferenza tra i visi palli<strong>di</strong> e i vestiti scuri.<br />
La piccola camera dove abbiamo aspettato ore che mio zio morisse,<br />
non che si salvasse, ma che morisse. Il silenzio che c’era. La nostalgia<br />
che provavo ogni volta che me ne andavo per tornare a casa. Ero<br />
aggrappato a quella piccola camera con morbosità e tutto quel che<br />
m’importava era tornarci presto.<br />
Quell’ospedale dove Nicolas Cage porta i malati con la sua ambulanza<br />
nel film <strong>di</strong> Scorsese.<br />
Quell’ospedale <strong>di</strong> Battipaglia dove sono finito per una rissa su un<br />
campo <strong>di</strong> basket, con il me<strong>di</strong>co che mi me<strong>di</strong>cava e i tifosi della<br />
squadra avversaria che mi aspettavano fuori. E io che avrei voluto<br />
rimanere lì dentro anche per tutta la vita.<br />
Quel momento in cui metti la testa nelle camere in cerca della persona<br />
che cerchi, e i malati e i parenti si voltano a guardarti, senza fasti<strong>di</strong>o,<br />
perché ti capiscono, è successo anche a loro, poco prima o in passato.<br />
Il vecchio che si gira e rigira nel letto e sbuffa per far capire al vicino<br />
e ai suoi parenti che stanno parlando ad alta voce, e che lui non sta<br />
bene e vuole starsene in pace. E che intanto pensa anche che beato lui<br />
che ha tutta quella gente intorno.<br />
Il modo <strong>di</strong> parlare a bassa voce da parte <strong>di</strong> chiunque.<br />
Quella volta che hai visto un tuo amico nel letto, pieno <strong>di</strong> fili, che<br />
aveva avuto l’infarto e lui ha fatto esattamente quel che tu ti aspettavi:<br />
si è messo a scherzare sulla morte e su quanto l’avesse sfiorata. Ma tu<br />
e lui sapevate che non era uno scherzo e tu e lui sapevate che tutto<br />
questo non riguardava soltanto lui ma anche te, e tutti, che<br />
all’improvviso dovevate pensare a quel che avevate evitato <strong>di</strong> pensare.<br />
Il momento in cui qualcuno finalmente acconsentirà a spostare l’orario<br />
della cena un po’ più tar<strong>di</strong>, un momento che sarà epocale e toglierà dal<br />
capo <strong>di</strong> tutti i ricoverati in questo paese una grande percentuale <strong>di</strong><br />
malinconia indefinibile, collocata tra le sette e le <strong>di</strong>eci <strong>di</strong> sera. Un<br />
tempo troppo lungo per la malinconia.<br />
Un anestesista che addormenta la ragazza che bisogna operare e si<br />
guarda intorno e ha un minuto <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne, un minuto <strong>di</strong> potenza<br />
totale e se la scopa velocemente <strong>di</strong> nascosto, appena davanti alla sala<br />
operatoria. Lei non lo saprà mai chiaramente, ma un po’ lo saprà<br />
sempre, in qualche parte del suo corpo lo sentirà.<br />
Un me<strong>di</strong>co che non è mai stato me<strong>di</strong>co ma è comunque bravo.<br />
Tutti i ferri <strong>di</strong>menticati dentro e <strong>di</strong> tutti gli esseri umani salvati in<br />
tempo.<br />
Le barelle negli ascensori.<br />
Guido Tersilli.<br />
La commozione che ti prende quando qualcuno che ami esce<br />
addormentato dalla sala operatoria. Quando la donna che amo,<br />
uscendo, ha chiesto nella confusione del risveglio io dov’ero.<br />
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Come ti senti e se ti fanno male i punti. Dopodomani sicuro me ne<br />
mandano, ma io vorrei chiedere al dottore se mi manda a casa domani,<br />
tanto sto bene.<br />
Una volontaria che scende dall’autobus ed entra in ospedale. Infila il<br />
camice bianco e si siede accanto al primo letto per chiacchierare con il<br />
primo malato; poi col secondo. Più che chiacchierare, ascolta, ascolta<br />
tutti i guai con aria comprensiva e dona una parola <strong>di</strong> conforto, che ha<br />
imparato col tempo a non sentire inutile, anche quando è sempre la<br />
stessa, perché altre non ne ha. Ma sa che si depositerà accanto a quel<br />
letto con soli<strong>di</strong>tà e qualcuno, qualche ora dopo, vi si aggrapperà come<br />
alla cosa migliore della giornata. E poi alla fine del suo turno si toglie<br />
il camice e prende <strong>di</strong> nuovo l’autobus e mentre se ne sta seduta a<br />
guardare fuori, si chiede se troverà qualcuno adesso che ascolterà quel<br />
che ha da <strong>di</strong>re lei, perché <strong>di</strong> cose da <strong>di</strong>re ne ha molte, almeno quante<br />
ne ha ascoltate.<br />
Il momento in cui un malato capisce che da quest’ospedale non se ne<br />
andrà più.<br />
Il conforto tutto meri<strong>di</strong>onale che si prova quando qualcuno ci <strong>di</strong>ce che<br />
in ospedale c’è il cugino della nuora <strong>di</strong> Antonietta, o la sorella<br />
dell’amica <strong>di</strong> zio Giuliano. E come corriamo a cercare quella persona<br />
che ci dovrebbe garantire, grazie a parentele lontane o ad amicizie <strong>di</strong><br />
amicizie, quella attenzione che altrimenti siamo sicuri che non<br />
avremmo.<br />
Il nido e tutti quelli che alitano contro il vetro e in<strong>di</strong>cano il proprio<br />
figlio, il nipote, la sorellina. La capacità umana in quel momento <strong>di</strong><br />
sentirsi tutti insieme e <strong>di</strong> preoccuparsi <strong>di</strong> tutti i neonati, non solo del<br />
proprio.<br />
Il pavimento appena lavato.<br />
Tutti quelli che andavano a trovare Elsa Morante durante tutto il<br />
tempo della malattia.<br />
Fuori la sala parto, un uomo che aspetta prende per nervosismo una<br />
rivista dal tavolo e comincia a leggere con <strong>di</strong>strazione la storia <strong>di</strong> una<br />
tribù dell’Australia del nord che si ciba solo <strong>di</strong> serpenti. E si <strong>di</strong>strae. E<br />
il tempo passa. E quando lo chiamano, lui quasi s’era <strong>di</strong>menticato <strong>di</strong><br />
essere lì.<br />
L’odore d’antisettico e il sangue lavato e il vomito lavato.<br />
Carlo Emilio Gadda quando scrisse Anastomosi (che all’inizio doveva<br />
intitolarsi Ablazione del duodeno per ulcera) continuava ad andare<br />
nelle ore più impensate nel pa<strong>di</strong>glione <strong>di</strong> chirurgia dell’Ospedale<br />
Maggiore, dove aveva conosciuto suor Umile, e verificava<br />
maniacalmente i nomi tecnici <strong>di</strong> quell’intervento chirurgico: forbici,<br />
bisturi, aghi, pinze <strong>di</strong> Kocher.<br />
Quando passa l’ambulanza poi, ci si ferma sempre un attimo a<br />
ripensare ad “aznalubma”, e se pure si sa bene cosa significhi, si resta<br />
lì a controllare se anche su questa ambulanza è scritto correttamente.<br />
In ogni caso continua a sembrarti assurdo che lo abbiano scritto al<br />
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contrario, perché tu in fondo te la trovi <strong>di</strong> fronte, e perché in ogni caso<br />
non capisci la vera utilità. Anche se sai a cosa serve, ti sembra<br />
sbagliato.<br />
Un carrello assurdo e coloratissimo percorre la corsia <strong>di</strong> un ospedale,<br />
lo spinge una donna, contro la porta a vetri del reparto <strong>di</strong> neurologia<br />
infantile. Entra nelle stanze riservate ai giochi dove i bambini malati<br />
vengono <strong>di</strong>stratti per alcune ore. Quando la vedono, i piccoli le vanno<br />
incontro. La donna apre il suo carrello magico e tira fuori pennelli,<br />
colori, creta, pongo, fogli, pupazzi. I bambini la assaltano. Tutti<br />
eccetto uno che rimane in <strong>di</strong>sparte vicino alla finestra, osserva <strong>di</strong><br />
sottecchi i suoi coetanei giocare mentre finge <strong>di</strong> interessarsi al<br />
paesaggio. Fuori fa freddo e sta nevicando. La donna raggiunge il<br />
piccoletto, che ha nove anni.“Tu non giochi?” Il bambino scuote la<br />
testa. “Dai fammi un <strong>di</strong>segno.” Lascia le cose lì. Ora una giovane<br />
mamma preoccupata sta parlando con lei. Dice che da tre mesi il figlio<br />
è strano. E’ sempre stato un bambino un po’ particolare, ma adesso è<br />
<strong>di</strong>verso, spesso resta immobile a fissare il vuoto, altre volte si agita e<br />
comincia a camminare avanti e in<strong>di</strong>etro, si porta le mani alle orecchie,<br />
cade preda <strong>di</strong> convulsioni, come è successo oggi, per questo è qui. La<br />
donna torna a vedere cosa ha combinato il bambino. Apre la porta e si<br />
ritrova davanti a una scena incre<strong>di</strong>bile. Il bambino sta colorando con<br />
tutti i pastelli che ha delle strisce articolate, come delle ramificazioni,<br />
su tutto il pavimento e sui muri fin dove riesce ad arrivare, anche in<br />
alto aiutandosi con una se<strong>di</strong>a. Il bambino si volta e la guarda con uno<br />
sguardo terrorizzato.<br />
Il grande ospedale <strong>di</strong> Avola, sulla strada venendo da Cassibile, sorto<br />
nel luogo dove nei famosi scontri <strong>di</strong> più <strong>di</strong> trent’anni fa morirono<br />
Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia. Resistono ancora i carrubi sul<br />
ciglio della strada e molti metri <strong>di</strong> quel muretto fatto <strong>di</strong> pietre da dove<br />
i braccianti strapparono le più grosse per spargerle sulla strada mentre<br />
battevano in ritirata, così che le camio<strong>net</strong>te della polizia non potevano<br />
inseguirli. Anzi, quelle pietre enormi stanno ancora lì, buttate accanto<br />
ai muretti dalla parte dei campi. Accanto alla cancellata dell’ospedale,<br />
ben nascosta ormai da piante che sembrano crescere man mano che la<br />
memoria della trage<strong>di</strong>a si allontana, c’è una sorta <strong>di</strong> piccolo<br />
monumento ai due caduti. Dei campi <strong>di</strong> mandorli che c’erano<br />
tutt’intorno, qui non c’è traccia.<br />
La prima raccomandazione. Involontaria. Con la madre che parla con<br />
conoscenti per avere la camera singola o al massimo doppia in<br />
ospedale o in clinica oppure si raccomanda alle infermiere per avere il<br />
neonato un po’ <strong>di</strong> più tra le braccia.<br />
Il me<strong>di</strong>co tedesco che punta il <strong>di</strong>to contro Massimo Troisi e gli <strong>di</strong>ce:<br />
“Il suo amico è pletorico”.<br />
Philip Roth che scrive a proposito della sua solitu<strong>di</strong>ne: “Se mi sveglio<br />
alle due <strong>di</strong> notte e mi viene in mente un’idea, accendo la luce e scrivo<br />
in camera da letto. Lavoro, sono sempre reperibile. Sono come un<br />
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dottore <strong>di</strong> un reparto <strong>di</strong> me<strong>di</strong>cina d’urgenza. E sono anche il caso<br />
urgente.”<br />
Un uomo giovane e forte che finisce in ospedale. In pieno agosto. E si<br />
rende conto soltanto in quel momento <strong>di</strong> quanto si possa essere soli.<br />
L’avvocato in aereo ne Il dolce domani <strong>di</strong> Atom Egoyan, quando<br />
racconta <strong>di</strong> sua figlia Zoe che a tre anni era stata morsa da una vedova<br />
nera e si gonfiava e mentre la portava in ospedale aveva un coltellino<br />
ed era pronto a fare un taglio alla gola, per farla respirare, come aveva<br />
detto il me<strong>di</strong>co.<br />
Il sollievo <strong>di</strong> un malato, dopotutto, <strong>di</strong> sentirsi in un luogo dove tutti si<br />
occupano <strong>di</strong> quel che a lui più importa: la malattia. La possibilità <strong>di</strong><br />
parlare della malattia propria e <strong>di</strong> quella degli altri.<br />
Il freddo della macchina che si posa sulla pelle nuda per farti la<br />
ra<strong>di</strong>ografia. Il rumore silenzioso dell’attimo in cui l’interno del tuo<br />
corpo viene svelato.<br />
Tutte quelle auto parcheggiate al sole o sotto la pioggia. Tutta quella<br />
gente che entra negli orari <strong>di</strong> visita. Tutte le scatole <strong>di</strong> cioccolatini,<br />
tutte le pagine <strong>di</strong> libri letti, tutti i giornali sfogliati e tutti i caffè tirati<br />
fuori dalle macchi<strong>net</strong>te automatiche. Tutte le notti, anche. Con quelli<br />
che rimangono a far compagnia e si addormentano vestiti sul letto<br />
rimasto libero. Tutti quelli che vengono ricoverati, nel momento in cui<br />
glielo <strong>di</strong>cono – tutti quelli che possono andarsene, nel momento in cui<br />
glielo <strong>di</strong>cono. Tutti quelli che rimangono soli alla fine delle visite.<br />
Tutti quelli che non mangiano. Tutti quelli che soffrono. La quantità<br />
<strong>di</strong> dolore fisico che si accumula, ogni giorno. Tutti i minuti <strong>di</strong> pace.<br />
Tutti i sonni agitati. Tutti i risvegli improvvisi e quell’attimo prima <strong>di</strong><br />
accorgersi <strong>di</strong> essere davvero qui, in ospedale.<br />
E poi un giorno, un solo giorno, in cui possa succedere il miracolo <strong>di</strong><br />
un ospedale che si svuota completamente, in cui non c’è neanche un<br />
malato, se ne attende qualcuno per domani, pare, ma oggi no. I me<strong>di</strong>ci<br />
che si guardano increduli, indecisi sul da farsi – come i professori a<br />
scuola in un giorno <strong>di</strong> sciopero degli studenti; oppure come un<br />
programma ra<strong>di</strong>ofonico senza nemmeno un ascoltatore. Un giorno<br />
così. E qualcuno che <strong>di</strong>ca qualcosa, su questo. Ma ancora non so cosa.<br />
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