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BESTIE DA DISPIACERE racconto di Maurizio ... - Exclusion.net

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<strong>BESTIE</strong> <strong>DA</strong> <strong>DISPIACERE</strong><br />

<strong>racconto</strong> <strong>di</strong> <strong>Maurizio</strong> Braucci<br />

E’ un uomo molto simpatico, quando ti<br />

ascolta parlare socchiude gli occhi,<br />

assumendo un’espressione assorta che<br />

potresti scambiare per minacciosa,<br />

sputacchia nel vuoto una batteria <strong>di</strong> suoni<br />

labiali e ti fissa, arrovellandosi intorno al<br />

filtro della sua eterna sigaretta. L’in<strong>di</strong>ce e<br />

il me<strong>di</strong>o sono depositi ocra <strong>di</strong> nicotina e<br />

<strong>di</strong> collante, è robusto, un buon peso<br />

me<strong>di</strong>o, le spalle curvate dallo strazio, i<br />

neri capelli ricci del vecchio sud. Avanza<br />

con le braccia ciondoloni sui pie<strong>di</strong><br />

leggermente piatti, al suo fianco il fosco<br />

Pippo, bestia da <strong>di</strong>spiacere, il cane reietto<br />

che Baudelaire avrebbe volentieri cantato.<br />

Ci conosciamo da otto anni, il suo passato<br />

è incerto, si <strong>di</strong>ce che fosse un rapinatore<br />

emigrato a Francoforte o un operaio<br />

assunto da una grossa carrozzeria <strong>di</strong><br />

quella città, che sia finito in galera per<br />

una spiata o in manicomio per una<br />

delusione d’amore, imparentato a un boss<br />

del napoletano o solo reprobo figlio <strong>di</strong><br />

1


una famiglia allo sfascio, non so. Il suo<br />

nome è Ulisse, non ha <strong>di</strong>mora.<br />

L’ho conosciuto quando occupammo una<br />

struttura abbandonata per farne un centro<br />

sociale, lui era già lì, col suo cane al<br />

seguito, dormiva nella stanza delle<br />

caldaie, quando gli fu chiesto chi fosse<br />

parlò <strong>di</strong> sé in terza persona “E’un po’<br />

pazzarello” <strong>di</strong>sse “Ma è capace <strong>di</strong> tagliarsi<br />

la testa e poi <strong>di</strong> rimetterla al suo posto”.<br />

Era una sintesi pratica: sono un borderline<br />

ma so <strong>di</strong>fendermi. Gli ricavammo un<br />

alloggio all’interno della palazzina,<br />

poteva usare bagno e doccia, ma<br />

soprattutto stare con noi, gran parte dei<br />

frequentatori del posto lo prendeva in<br />

considerazione, lunghe chiacchierate,<br />

doni <strong>di</strong> vestiti, <strong>di</strong> sol<strong>di</strong>, <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>o e persino<br />

<strong>di</strong> televisori. Col tempo, constatando<br />

queste continue elargizioni, ho capito che<br />

molti gli rifilavano oggetti rotti,<br />

inutilizzabili o malconci, come se<br />

avessero già condannato<br />

all’incompletezza la sua capacità <strong>di</strong><br />

godere. Via, via, la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un<br />

marginale si riempie <strong>di</strong> cose che<br />

incarnano la percezione che la gente ha <strong>di</strong><br />

2


lui: tarato, liso, irreparabile. Con esito<br />

grottesco, gli uomini donano al pazzo, al<br />

reietto, assecondandolo, i propri scarti,<br />

all’ultimo gli ultimi e, così facendo, ne<br />

fanno delle istituzioni del degrado. In<br />

poco tempo da Ulisse sono passati vestiti<br />

con macchie, strappi o bruciature, lettori<br />

<strong>di</strong> video e au<strong>di</strong>ocassette con condensatori,<br />

testine e modulatori ormai andati, scarpe<br />

sghignazzanti o con la suola curva,<br />

mentre, come se si trattasse <strong>di</strong> rime<strong>di</strong>are a<br />

degli spropositi, alle uniche cose decenti<br />

ci pensavano i ladri. Nel 1995, Ulisse<br />

passa dalle caldaie (in precedenza<br />

dormiva nelle auto <strong>di</strong> un garage) ad una<br />

stanza perennemente in subbuglio marcata<br />

dal lezzo del proprio <strong>di</strong>sagio e da quello<br />

della stretta convivenza con Pippo. Ogni<br />

mattina si reca al lavoro nello stesso<br />

quartiere dove è nato, in una fabbrichetta<br />

<strong>di</strong> scarpe i cui proprietari gli affidano<br />

piccole mansioni e un minimo <strong>di</strong> red<strong>di</strong>to e<br />

<strong>di</strong> affetto. E’ la sua barricata contro una<br />

deriva senza ritorno, la manifestazione del<br />

suo temperamento pragmatico,<br />

l’ancoraggio ad un <strong>di</strong>ligente ritmo<br />

quoti<strong>di</strong>ano dentro un farfugliamento<br />

3


esistenziale. Una volta era<br />

soprannominato “l’astronauta” perché<br />

parlava <strong>di</strong> marziani, Nato e Nasa, e<br />

intratteneva gli ascoltatori incantandoli<br />

con rime sciolte e astrazioni poetiche,<br />

qualcosa <strong>di</strong> inscritto dalla lettera del<br />

veggente <strong>di</strong> Rimbaud faceva capolino<br />

nelle sue parole guadagnandogli una sorta<br />

<strong>di</strong> ammirazione, non senza che lui ne<br />

fosse consapevole. Questo Lazarillo che è<br />

alla guida <strong>di</strong> nessuno, in pieno accordo<br />

con il tema picaresco della fame si dà da<br />

fare per sod<strong>di</strong>sfare la propria golosità,<br />

toccando ogni giorno varie fonti <strong>di</strong><br />

rifocillamento: i datori <strong>di</strong> lavoro, una<br />

benevolente vecchia vedova, il rude<br />

proprietario <strong>di</strong> una trattoria, il giovane<br />

gestore <strong>di</strong> un pub. Ha un rapporto intimo<br />

col quartiere che lui ripaga con la sua<br />

infinita dolcezza, da bravo poeta sa<br />

fingere la fame, la sete e le avversità che<br />

gli fanno già copia, mai patetico, mai<br />

brutale, la mattina forgia suole <strong>di</strong> vento e<br />

la sera mette a punto i capricci della sua<br />

sorte insieme all’angelo canino. E’ un<br />

duro, dove un altro sarebbe già al tappeto,<br />

lui si gratta. A volte è insopportabile,<br />

4


cocciuto, rompiballe, pare che voglia<br />

fartela pagare, d’un tratto entrava nelle<br />

nostre stupide riunioni politiche e<br />

accentrava su <strong>di</strong> sé tutta l’attenzione, per<br />

lo più ubriaco si metteva a delirare a voce<br />

spiegata, un moralista contro una banda <strong>di</strong><br />

puerili, futuri conformisti. Mi ricordo che<br />

piantò un <strong>di</strong>to nella guancia <strong>di</strong> una<br />

ragazza lasciandole un segno per mesi,<br />

stava ormai per scatenarsi quando un<br />

amico gli tirò giù la giacca<br />

immobilizzandogli le braccia, lui si<br />

infuriò a morte, umiliato. Da allora, ogni<br />

volta che arrivava per dare spettacolo non<br />

desiderato, uscivamo noi dalla sala, dopo<br />

cinque minuti ci ripensava, era come se al<br />

suo rea<strong>di</strong>ng non si fosse presentato<br />

nessuno, veniva fuori con la coda tra le<br />

gambe, le sue illuminazioni <strong>di</strong> vino<br />

riposte nello stomaco. Nel 1996<br />

inoltrammo la pratica per la pensione <strong>di</strong><br />

invali<strong>di</strong>tà, come altre cose avviate nel<br />

centro sociale era all’insegna <strong>di</strong> un’onesta<br />

inesperienza, non pensammo <strong>di</strong> rivolgerci<br />

a cose come le unità <strong>di</strong> salute mentale o<br />

alla psichiatria, non sapevamo quanto<br />

fossero inelu<strong>di</strong>bili e le vedevamo come<br />

5


una condanna fatta <strong>di</strong> farmaci e<br />

segregazione. Essere in un luogo dove<br />

girava gente con pochi pregiu<strong>di</strong>zi verso<br />

uno schizofrenico e dove si tenevano<br />

concerti, proiezioni, spettacoli teatrali,<br />

alleggerì via, via la pressione mentale <strong>di</strong><br />

Ulisse, il suo eloquio <strong>di</strong>venne meno<br />

sconnesso, si innamorava delle varie<br />

ragazze che si occupavano <strong>di</strong> lui per lo<br />

spazio <strong>di</strong> una stagione e faceva<br />

scampanellate inattese a casa degli<br />

studenti <strong>di</strong>venuti suoi amici. I familiari<br />

non comparvero mai, sapevamo che due<br />

sorelle stavano da qualche parte, solo un<br />

amico <strong>di</strong> infanzia prese a fargli visita per<br />

alcuni mesi, mi raccontò che Ulisse era<br />

emigrato a Francoforte a venticinque anni<br />

e che lì una delusione d’amore aveva<br />

scatenato in lui quello stato <strong>di</strong><br />

alienazione. Alcuni abitanti della zona si<br />

rammaricavano <strong>di</strong> ricordarlo, giovane e<br />

assennato, come uno che non si faceva<br />

passare la mosca per il naso, tale<br />

rivelazione mi è sempre parsa come<br />

l’effetto <strong>di</strong> quella visione fatalistica che i<br />

vecchi napoletani avevano per le<br />

complicazioni e che agiva da erogatore<br />

6


metafisico <strong>di</strong> solidarietà, in pratica era<br />

come se <strong>di</strong>cessero: prima era come tutti<br />

noi, potrebbe capitare anche a me, quin<strong>di</strong><br />

lo tollero. Del resto, Ulisse riusciva a<br />

sopravvivere proprio grazie alla fragile<br />

trama <strong>di</strong> relazioni ed espe<strong>di</strong>enti che aveva<br />

tessuto, ma da lì non sarebbe andato oltre,<br />

la sua situazione poteva peggiorare ma<br />

certo non migliorare. Quello che gli era<br />

possibile fare l’aveva fatto, ma<br />

rimanevano irrisolte delle questioni<br />

essenziali, non aveva una vera casa, un<br />

vero lavoro, nessuna terapia per le sue<br />

crisi, a trentasette anni l’alcool e gli<br />

zuccheri gli avevano già consumato i<br />

denti e si riduceva in con<strong>di</strong>zioni igieniche<br />

<strong>di</strong>sastrose. Una volta, <strong>di</strong> notte, è stato<br />

visto correre insieme ad una ragazza nuda<br />

nel parco antistante il centro sociale, si<br />

trattava <strong>di</strong> una nostra ospite occasionale<br />

dall’accento nor<strong>di</strong>co, nevrotica come lui,<br />

ed è stata l’unica relazione sentimentale<br />

che gli ho visto avere. Durò pochi giorni,<br />

poi la ragazza fu percossa a sangue da<br />

alcune donne e sparì per sempre, pare che<br />

il motivo dell’aggressione fosse una<br />

risposta poco educata da parte sua, non<br />

7


era del quartiere e non le fu perdonato.<br />

Non <strong>di</strong> rado accadeva che bande <strong>di</strong><br />

ragazzini dessero l’assalto alle case <strong>di</strong><br />

poveri matti con lanci <strong>di</strong> pietre e cori <strong>di</strong><br />

insulti, o che qualcuno li frequentasse per<br />

sottrargli sol<strong>di</strong> e oggetti. Rimasi un intero<br />

pomeriggio col fratello <strong>di</strong> uno <strong>di</strong> questi<br />

sventurati a cui una corvè aveva quasi<br />

<strong>di</strong>strutto il basso in cui viveva, l’uomo<br />

non sapeva come fare per proteggere il<br />

suo familiare, ci pensò il poveretto stesso<br />

morendo <strong>di</strong> infarto due settimane dopo.<br />

Di notte, anche Ulisse subiva l’asse<strong>di</strong>o<br />

ingiurioso da parte <strong>di</strong> orchetti sfaccendati,<br />

per fortuna la sua stanza era all’interno <strong>di</strong><br />

una palazzina, eppure trovavano il modo<br />

per lanciare ogni tanto delle pietre o,<br />

quando il centro sociale era aperto, per<br />

rubargli le poche cose buone che<br />

possedeva. Nel 1998 Ulisse ottenne il<br />

decreto <strong>di</strong> invali<strong>di</strong>tà, questo significava<br />

che gli era stato riconosciuto il <strong>di</strong>ritto a<br />

percepire una pensione, due visite<br />

me<strong>di</strong>che avevano attestato la sua<br />

patologia ed era questa la nostra vittoria<br />

<strong>di</strong> Pirro. Già in precedenza ci eravamo<br />

preoccupati <strong>di</strong> fargli la carta <strong>di</strong> identità, da<br />

8


essa risultava domiciliato presso<br />

l’abitazione dove aveva vissuto con i<br />

fratelli e le sorelle e che, da cinque anni<br />

almeno, era occupata da una coppia <strong>di</strong><br />

singalesi. Intanto, si era messo al seguito<br />

<strong>di</strong> un componente del collettivo, fabbro <strong>di</strong><br />

professione, per dei lavori in un grosso<br />

negozio <strong>di</strong> abbigliamento, all’inizio, come<br />

è uso degli artigiani, il nostro amico aveva<br />

aperto un conto al bar a<strong>di</strong>acente. Pochi<br />

giorni e il fabbro scoprì <strong>di</strong> dover pagare<br />

qualche trentina <strong>di</strong> caffè, litigando al fine<br />

<strong>di</strong> non versare un supplemento per lo<br />

zucchero con cui il suo appren<strong>di</strong>sta quasi<br />

si riempiva le tazzine. Risultato: niente<br />

più cre<strong>di</strong>to, solo caffè lunghi e il dosatore<br />

che spariva dal banco all’arrivo <strong>di</strong> Ulisse.<br />

Qualche mese dopo, una ragazza del<br />

collettivo propose <strong>di</strong> contattare un suo<br />

amico psichiatra, garantendo che fosse<br />

una persona intelligente, promotore <strong>di</strong><br />

terapie non invasive. La questione nacque<br />

all’interno <strong>di</strong> un’assemblea a cui era<br />

presente un amico caduto in uno stato <strong>di</strong><br />

nevrosi ossessiva, un compagno che avrò<br />

sempre nel cuore per il coraggio e<br />

l’intelligenza, la sua reazione fu dura, con<br />

9


tutte le armi della retorica antagonista e<br />

della sua <strong>di</strong>sperata identificazione cercò<br />

<strong>di</strong> convincerci che Ulisse non aveva<br />

bisogno <strong>di</strong> farmaci ma <strong>di</strong> amore e <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti<br />

esau<strong>di</strong>ti. Poiché queste giuste<br />

considerazioni non potevano tradursi in<br />

azioni, o meglio avrebbero richiesto un<br />

livello <strong>di</strong> responsabilizzazione e <strong>di</strong><br />

tatticismo troppo elevato per un fottuto<br />

centro sociale, si decise <strong>di</strong> provare a<br />

organizzare un incontro tra Ulisse e il<br />

me<strong>di</strong>co. Lo psichiatra venne nella stanza<br />

del suo potenziale paziente e fu accolto da<br />

questi con grande <strong>di</strong>ffidenza, ma la<br />

me<strong>di</strong>azione della ragazza poté molto e il<br />

nostro uomo venne persuaso a fare visita<br />

al dottore la settimana successiva per<br />

chiacchierare un po’. In breve funzionava,<br />

vi fu una <strong>di</strong>agnosi e una terapia minima <strong>di</strong><br />

risperdal con colloqui perio<strong>di</strong>ci, dopo un<br />

mese c’erano evidentemente dei risultati.<br />

All’inizio, la somministrazione del<br />

me<strong>di</strong>cinale era affidata alla nostra amica,<br />

poi il compito passò alla proprietaria della<br />

fabbrica <strong>di</strong> scarpe dove Ulisse lavorava.<br />

Intanto furono effettuati vari solleciti<br />

all’Inps per sbloccare la situazione<br />

10


pensionistica, ogni volta sembrava che<br />

l’avrebbero erogata dal mese seguente,<br />

eravamo nel ‘99, tre anni già per un cristo<br />

in croce, solo oggi so che per<br />

un’istituzione cinica come quella il tempo<br />

è un puro calcolo economico. Credo che<br />

pochi enti possano vantare tanta capacità<br />

<strong>di</strong> ricatto verso i propri utenti, dal 1933,<br />

<strong>di</strong>ttatura a parte, l’Istituto si è sviluppato<br />

tra manovre assurde per garantire<br />

clientelismi e consensi ai vari governi,<br />

recando su <strong>di</strong> sé i segni <strong>di</strong> tale mostruosità<br />

già nell’espressione beffarda e desolata<br />

dei suoi impiegati. Non è un ente ma<br />

un’entità, dove quasi tutte le porte<br />

ufficiali sono solo <strong>di</strong>pinte e dove esistono<br />

cunicoli noti solo ai me<strong>di</strong>atori e agli<br />

operatori dell’indotto, passaggi che<br />

permettono <strong>di</strong> saltare anni <strong>di</strong> attesa e<br />

procedure che tagliano trasversalmente<br />

cerchi concentrici <strong>di</strong> <strong>di</strong>sperazione. Degli<br />

sprovveduti onesti come noi, senza una<br />

guida potevano solo continuare a girare in<br />

tondo nei suoi meandri.<br />

Nel frattempo stava accadendo la cosa<br />

peggiore per Ulisse: il centro sociale si<br />

stava <strong>di</strong>sgregando. Promotore <strong>di</strong><br />

11


numerose attività sociali e culturali, una<br />

delle esperienze citta<strong>di</strong>ne più feconde<br />

della seconda metà degli anni novanta pur<br />

senza aderenze politiche, esso pagava lo<br />

scotto <strong>di</strong> un’azione incessante in un<br />

territorio <strong>di</strong>fficile e l’ingenuità <strong>di</strong> non aver<br />

mai veramente perseguito quel minimo <strong>di</strong><br />

garanzie operative che solo una strategica<br />

legalizzazione poteva dare. Era un luogo<br />

abusivo ma la sua esistenza era più che<br />

lecita, lì si sperimentavano mo<strong>di</strong> non<br />

preconcetti per affrontare i soliti<br />

problemi, senza che fosse mai facile e un<br />

ostacolo è sempre derivato dalla mentalità<br />

conformista <strong>di</strong> alcuni suoi partecipanti,<br />

quelli che con grande facilità e orgoglio<br />

sapevano definirsi “<strong>di</strong> sinistra”. In breve,<br />

il gruppo che lo animava iniziò a tracciare<br />

una parabola <strong>di</strong>scendente, prevalsero<br />

stanchezza, spaccature e la<br />

sovrapposizione tra azione in<strong>di</strong>viduale e<br />

maleolente egoismo. Chiaramente, <strong>di</strong> tutto<br />

ciò Ulisse non si accorse, ma la tensione<br />

intorno alla sua situazione iniziò a calare:<br />

la ragazza che aveva promosso la sua<br />

terapia sparì, gli incontri con lo psichiatra<br />

si interruppero, la prescrizione dei<br />

12


me<strong>di</strong>cinali iniziò ad essere rinnovata mesi<br />

dopo che erano finiti ma, soprattutto,<br />

iniziammo a frequentarlo sempre meno<br />

spesso. Anche la pressione sulla pratica<br />

pensionistica si allentò, così come<br />

auspicano le politiche temporeggiatrici<br />

condotte dall’Inps in questi casi, <strong>di</strong><br />

meglio per i suoi calcoli ci sarebbe stata<br />

solo la morte dell’utente. Mentre tutto si<br />

<strong>di</strong>ssolveva, avemmo però la saggia idea <strong>di</strong><br />

interpellare un giovane avvocato che<br />

frequentava il centro sociale e che si stava<br />

specializzando in assistenza sindacale e<br />

previdenziale. Nella nostra nebulosa<br />

visione, percepire un red<strong>di</strong>to avrebbe<br />

significato per Ulisse una casa decente e<br />

un risollevamento morale, igienico e<br />

umano, ma ci sbagliavamo, la vera risorsa<br />

per lui era stare in una salda e attiva<br />

relazione con persone capaci <strong>di</strong><br />

con<strong>di</strong>videre i suoi problemi ed elaborare<br />

delle strategie precise fino a spazi non<br />

ancora in<strong>di</strong>viduabili, utopistici. Il<br />

quartiere intorno poteva decidere solo se<br />

accettarlo o meno, lo aveva accettato ma<br />

in quegli anni <strong>di</strong> rapida trasformazione il<br />

suo margine <strong>di</strong> tolleranza si riduceva<br />

13


sempre più con l’esaltazione <strong>di</strong> caratteri e<br />

valori piccolo-borghesi. La fabbrichetta <strong>di</strong><br />

scarpe era un ancoraggio spontaneo<br />

contro una zona <strong>di</strong> non ritorno mentale,<br />

offriva un senso alla sua quoti<strong>di</strong>anità ma<br />

si concludeva in una strategia <strong>di</strong><br />

mantenimento. Altra questione era se<br />

Ulisse poteva <strong>di</strong>ventare autonomo e<br />

lottare per la propria felicità, noi,<br />

naturalmente, avremmo riposto <strong>di</strong> si ma<br />

mentre puntavamo nella <strong>di</strong>rezione<br />

sbagliata e con strumenti inadatti. In poco<br />

meno <strong>di</strong> un anno, con la deriva del centro<br />

sociale, tutti i guadagni <strong>di</strong> Ulisse erano<br />

perduti, negli ultimi tempi avevo imparato<br />

a ricevere dal mio amico delle impressioni<br />

ottimistiche sul suo futuro, faceva<br />

progetti, era <strong>di</strong> buon umore, più attento al<br />

suo aspetto, mi assillava con la proposta<br />

<strong>di</strong> aprire insieme una piccola pizzeria. Ora<br />

lo ritrovavo cupo, pessimista, trasandato e<br />

irascibile, il <strong>di</strong>niego era la sua espressione<br />

costante, lo avevamo illuso, ci eravamo<br />

messi a giocare con lui finché la musica<br />

girava, poi eravamo spariti. Per punirmi<br />

iniziò a <strong>di</strong>menticare il mio nome, ma io<br />

stesso non me la passavo bene, non avevo<br />

14


tempo e spazio per lui, l’unica cosa che<br />

riuscimmo a fare fu <strong>di</strong> andarcene in barca<br />

a vela, ci <strong>di</strong>vertimmo e alla fine chiese il<br />

solito “Quando ci rive<strong>di</strong>amo?”. Il centro<br />

sociale aveva ridotto dell’ottanta per<br />

cento le sue attività, era un luogo spento<br />

quando due capover<strong>di</strong>ani chiesero<br />

ospitalità, gli venne concessa e furono<br />

alloggiati in una stanza attigua a quella <strong>di</strong><br />

Ulisse che si ritrovò in compagnia ma con<br />

scarsa considerazione da parte dei nuovi<br />

ospiti. Verso la fine del 2001 iniziammo<br />

una reazione allo stallo, nuovi componenti<br />

nel collettivo, qualche entusiasmo in più<br />

ma intorno a noi la situazione stava<br />

cambiando, il territorio era molto<br />

peggiorato, gli adulti avevano esacerbato<br />

la loro tendenza all’in<strong>di</strong>fferenza per tutto<br />

ciò che non fossero personali problemi<br />

economici o <strong>di</strong> quietu<strong>di</strong>ne e i giovani<br />

erano sempre più nevrotici e incocainati.<br />

In tutta Italia l’avventura multiforme dei<br />

centri sociali si andava ri<strong>di</strong>mensionando,<br />

annegati nella competizione col terzo<br />

settore o nell’inflazione <strong>di</strong> proposte<br />

(pseudo)culturali, era impossibile per loro<br />

tenere il passo, la scelta iniziò a porsi tra<br />

15


legalizzazione (talvolta non strategica ma<br />

<strong>di</strong> convenienza), massimizzazione della<br />

copertura partitica o arretramento, noi<br />

rientrammo nella terza categoria. Nasceva<br />

il movimento no global che seppure aveva<br />

il merito <strong>di</strong> estendersi a vari settori della<br />

società in modo trasversale, si esponeva<br />

alla me<strong>di</strong>azione politica dei più<br />

rappresentativi e allo scambio della<br />

pratica nella quoti<strong>di</strong>anità con quella<br />

simbolica e mass-me<strong>di</strong>ologica. Ulisse<br />

prese una gatta, Sara, e una cagnolina,<br />

Dara, che andarono ad affiancare il<br />

vecchio e zoppicante Pippo, ma poiché<br />

non potevano seguirlo al lavoro, restavano<br />

chiuse nella sua stanza tutto il giorno con<br />

grande peggioramento della situazione<br />

igienica. Nel 2002 i denti <strong>di</strong> Ulisse erano<br />

quasi tutti marci, aveva un’infiammazione<br />

dolorosissima e dovetti portarlo d’urgenza<br />

all’ospedale, trovandogli prima un me<strong>di</strong>co<br />

curante per la prescrizione della visita. Il<br />

dentista concluse che ci fosse poco da fare<br />

se non cavargli le ultime ra<strong>di</strong>ci, il<br />

problema era che ogni volta bisognava<br />

rinnovare la prescrizione, poi la<br />

prenotazione e infine portarlo nel reparto<br />

16


<strong>di</strong> odontoiatria, trovai ri<strong>di</strong>cola questa<br />

procedura visto che erano in programma<br />

numerose sedute e che alla fine la protesi<br />

bisognava pagarla a parte. Quel po’ <strong>di</strong><br />

collettivo che era rimasto riprese però a<br />

interessarsi <strong>di</strong> Ulisse, uno dei componenti<br />

conosceva un dentista e questi accettò <strong>di</strong><br />

occuparsene gratuitamente. A turno,<br />

qualcuno prelevava il nostro amico dalla<br />

fabbrica e lo accompagnava a<br />

destinazione, alla fine, con 250 euro <strong>di</strong><br />

colletta per la protesi ed una copia de “La<br />

Società dello Spettacolo” <strong>di</strong> Debord in<br />

regalo al dentista amico, Ulisse ebbe dei<br />

denti posticci. Intanto l’avvocato era<br />

sempre alla carica, optò, visto l’enorme<br />

ritardo (sei anni!), per un’ingiunzione <strong>di</strong><br />

pagamento all’Inps che avrebbe allungato<br />

ancor più i tempi ma che certamente<br />

avrebbe sbloccato la situazione. All’inizio<br />

del 2003 anche la nuova autogestione del<br />

centro sociale fallì, l’episo<strong>di</strong>o scatenante<br />

fu un duro scontro con una banda <strong>di</strong> ladri<br />

del quartiere dopo che questi avevano<br />

messo a segno un colpo milionario nella<br />

casa <strong>di</strong> un nostro amico musicista. Ci<br />

ritrovammo da soli ad affrontarli mentre<br />

17


un intero quartiere avrebbe voluto torcere<br />

il collo a questa masnada <strong>di</strong> incapaci che<br />

entrava da anni nelle loro abitazioni,<br />

invece non mosse un <strong>di</strong>to mentre il loro<br />

capo faceva proseliti tra i ragazzini grazie<br />

alla tanta grana che si ritrovava in tasca.<br />

Ne uscimmo vincitori, non io però, che<br />

dovetti abbrutirmi e sperimentare quanto,<br />

in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> responsabilità, bisogna<br />

vigilare su se stessi più che sugli altri. Fu<br />

a questo punto che decisi <strong>di</strong> lasciare il<br />

centro sociale, ne avevo abbastanza <strong>di</strong><br />

miserabilità umana, <strong>di</strong> ricatti politici, <strong>di</strong><br />

falsi proletari e stupi<strong>di</strong> borghesi, avevo<br />

lavorato lì quasi otto anni de<strong>di</strong>candogli<br />

per cinque tutto il mio tempo, ero stanco,<br />

lo avevo amato. Intanto, l’avvocato, non<br />

avendo ricevuto risposta dall’Inps per<br />

quanto riguardava l’ingiunzione <strong>di</strong><br />

pagamento, richiese alla magistratura la<br />

confisca della quota spettante ad Ulisse<br />

come prestazioni fino ad allora non<br />

percepite, la legge gli dette ragione e<br />

<strong>di</strong>spose l’esecuzione del sequestro presso<br />

la Banca d’Italia degli arretrati, ma<br />

bisognava attendere ancora.<br />

18


Una notte <strong>di</strong> marzo in cui Ulisse come al<br />

solito si era addormentato col suo<br />

televisore a tutto volume, uno dei<br />

capover<strong>di</strong>ani, esaurito dai propri<br />

fallimenti e dall’incapacità a risolverli<br />

malgrado certe opportunità che gli<br />

avevamo <strong>di</strong>sposto, entrò nella sua stanza,<br />

sfasciò il televisore e riempì <strong>di</strong> botte il<br />

mio amico. Seppi <strong>di</strong> questa notizia<br />

quando ormai Ulisse, atterrito, aveva<br />

lasciato il centro sociale, aveva vagato<br />

qualche notte all’ad<strong>di</strong>accio e poi si era<br />

inse<strong>di</strong>ato in un e<strong>di</strong>ficio abbandonato poco<br />

<strong>di</strong>stante che chiamare tugurio è come<br />

definire De Gasperi un abile statista.<br />

Senza servizi igienici, senza corrente<br />

elettrica, l’uomo poteva solo ri<strong>di</strong>scendere<br />

la china verso l’inferno o meglio<br />

raggiungere il livello <strong>di</strong> tanti come lui<br />

destinati all’abisso alle porte <strong>di</strong> Saba.<br />

Perse la protesi dentaria che tanta fatica<br />

era costata e mise da parte ogni possibilità<br />

<strong>di</strong> ottimismo, gli restavano Pippo, Sara,<br />

Dara e il lavoro alla fabbrica <strong>di</strong> scarpe.<br />

Pochi giorni dopo mi giunse la telefonata<br />

dell’avvocato, aveva davanti a sé<br />

l’assegno circolare <strong>di</strong> 15.000 euro<br />

19


d’arretrati, pochi per cambiare la<br />

situazione, troppi per lasciarla immutata!<br />

La prima, vitale esigenza <strong>di</strong>venne trovare<br />

una casa ad Ulisse, farlo approdare ad<br />

Itaca, adesso eravamo in tre ad agire, non<br />

più un collettivo e ciò significava vedersi<br />

ridotta quella piccola rete operativa che<br />

aveva dato soluzioni alle problematiche<br />

precedenti. Ci serviva qualche buon<br />

consiglio su come procedere, il primo a<br />

cui chiedemmo fu lo psichiatra che lo<br />

aveva tenuto in cura, il quale,<br />

innanzitutto, gli rinnovò la terapia <strong>di</strong><br />

risperdal e per la sistemazione ci <strong>di</strong>ede dei<br />

suggerimenti sulle case-famiglia. La<br />

questione era che Ulisse aveva i suoi<br />

animali a cui teneva più <strong>di</strong> ogni altra cosa,<br />

la maggior parte delle microresidenzialità<br />

non avrebbe mai accettato un cane,<br />

figuriamoci due e un gatto. Inoltre, poiché<br />

era evidente che Ulisse aveva mantenuto<br />

un certo equilibrio proprio attraverso la<br />

sua vita <strong>di</strong> quartiere, stentavamo ad<br />

accettare una soluzione che lo<br />

allontanasse da lì. Iniziammo a battere tre<br />

piste: affitto <strong>di</strong> un’abitazione, mutuo per il<br />

suo acquisto o sistemazione presso una<br />

20


comunità terapeutica che accettasse gli<br />

animali e non fosse troppo <strong>di</strong>stante.<br />

Stupidamente, stavamo <strong>di</strong>videndo le<br />

problematiche <strong>di</strong> Ulisse tra quelle<br />

materiali e psicologiche, ma del resto, pur<br />

informandosi, a Napoli non esistevano<br />

associazioni o gruppi da interpellare che<br />

avessero un approccio globale a situazioni<br />

del genere, idem per le istituzioni. Noi,<br />

invece, stavamo cercando <strong>di</strong> sistemare un<br />

senza tetto, uno schizofrenico, l’operaio<br />

<strong>di</strong> una fabbrichetta <strong>di</strong> scarpe, due cani e<br />

un gatto.<br />

Le ricerche <strong>di</strong> una casa in affitto si erano<br />

rivelate vane, nessuno accettava un matto<br />

con animali e in più i prezzi erano<br />

altissimi, avevamo chiesto anche ad<br />

alcuni preti ed associazioni cattoliche ma<br />

sembrava che non riuscissero a sistemare<br />

nemmeno intere famiglie, fittarle agli<br />

extracomunitari rendeva <strong>di</strong> più. Ulisse<br />

aveva <strong>di</strong>sponibili gli arretrati, ma il<br />

pagamento delle quote mensili era ancora<br />

in alto mare, a settembre avrebbe passato<br />

una visita per ottenere l’eventuale<br />

accompagnamento, nel caso ciò avrebbe<br />

significato che la pensione sarebbe<br />

21


passata da 200 a circa 400 euro, chissà<br />

quando. Questa sospensione ci limitava<br />

anche rispetto all’ottenimento <strong>di</strong> un<br />

mutuo che comunque gli operatori<br />

finanziari non erano <strong>di</strong>sposti a<br />

concedergli, rispondevano che la pensione<br />

<strong>di</strong> invali<strong>di</strong>tà non è “aggre<strong>di</strong>bile”, nel caso<br />

<strong>di</strong> mancato pagamento lo stato vieta <strong>di</strong><br />

rifarsi su <strong>di</strong> essa e quin<strong>di</strong> non valeva come<br />

garanzia. Avevamo cercato eventuali<br />

agevolazioni pubbliche per l’acquisto <strong>di</strong><br />

una prima casa: nulla, l’unico Comune in<br />

Italia a prevedere una partecipazione<br />

pubblica sull’acquisto della prima casa da<br />

parte <strong>di</strong> un invalido civile era Venezia,<br />

delibera dell’assessorato ai servizi sociali,<br />

esempio <strong>di</strong> civiltà. Infine, in nessuna casafamiglia<br />

della città prendevano animali e<br />

l’accesso era regolato da lunghi perio<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

osservazione, pure scrivendo ai vari<br />

assessorati ai servizi sociali, comunale,<br />

regionale e provinciale, non avevamo<br />

avuto. Spesso andavo a dormire col<br />

pensiero <strong>di</strong> dove Ulisse fosse costretto a<br />

stare e col senso <strong>di</strong> colpa <strong>di</strong> non riuscire a<br />

sistemarlo altrove, ogni tentativo <strong>di</strong><br />

convincerlo <strong>di</strong> tornare nel centro sociale<br />

22


era stato inutile, spaventato a morte<br />

“dall’uomo nero” che lo aveva picchiato.<br />

Decidemmo <strong>di</strong> ritirare l‘assegno<br />

dall’avvocato e <strong>di</strong> aprire un conto postale<br />

ma Ulisse non aveva più la carta <strong>di</strong><br />

identità, era scaduta e l’aveva infilata in<br />

una buca delle lettere, lo accompagnai in<br />

circoscrizione per rifarsela, quando ci fu<br />

da specificare il domicilio ebbi la cattiva<br />

idea <strong>di</strong> <strong>di</strong>re la verità, cioè che si trattava <strong>di</strong><br />

un senza tetto, allora, mi venne risposto,<br />

non può avere la carta d’identità. Come si<br />

fa in questi casi? Mi spe<strong>di</strong>rono dal<br />

capoufficio il quale, in tutta confidenza,<br />

mi <strong>di</strong>sse che in questi casi serviva un<br />

politico che garantisse per “conoscenza<br />

personale”. Saliì al piano superiore, al<br />

consiglio circoscrizionale, conoscevo<br />

alcuni <strong>di</strong> loro lì, spiegai la cosa ma<br />

nessuno volle aiutarmi, uno <strong>di</strong> Alleanza<br />

Nazionale sembrò interessarsi, si fece<br />

dare ragguagli e poi però prese ad<br />

ammonire Ulisse: ma lo sapeva lui che la<br />

carta d’identità non va persa, che è<br />

documento importante? Non trovai il<br />

coraggio per sottolineare la con<strong>di</strong>zione<br />

del mio amico, umiliandolo davanti a<br />

23


degli imbecilli tali. Andammo da un<br />

<strong>di</strong>rigente per sapere che fare e questo, con<br />

superbia, cominciò a concionare con tanto<br />

<strong>di</strong> latino, persi le staffe e lo attaccai con<br />

riferimenti a Kafka e Balzac. Alla fine gli<br />

strappammo che l’unica era domiciliare<br />

Ulisse a casa mia, risposi che lo avei fatto<br />

ma che mi stava chiedendo <strong>di</strong> <strong>di</strong>chiarare il<br />

falso visto che non era vero, e comunque<br />

sarebbe passato un mese prima che la<br />

polizia municipale fosse venuta per il<br />

riscontro. Il giorno dopo mi ricordai <strong>di</strong> un<br />

funzionario che conoscevo in Municipio,<br />

fu lui a risolvere la questione. Versammo<br />

l’assegno su un conto postale intestato ad<br />

Ulisse, tenni io il libretto e, visto quanta<br />

fatica era costata, la carta d’identità,<br />

tuttavia queste manfrine mi avevano<br />

spaventato, avevo il terrore che qualcuno<br />

potesse accusarci <strong>di</strong> plagio o <strong>di</strong> furto dei<br />

sol<strong>di</strong>. Un giorno, spuntò dalle parole <strong>di</strong><br />

un’assistente sociale una comunità<br />

terapeutica nel casertano con un metodo<br />

improntato al reinserimento, ormai non<br />

scartavamo nessuna ipotesi, prendemmo<br />

l’auto e andammo lì con Ulisse che fu<br />

entusiasta della gita. Era un bel posto in<br />

24


campagna, un e<strong>di</strong>ficio abitativo <strong>di</strong> due<br />

piani e vari capannoni per le officine,<br />

recinti <strong>di</strong> animali d’allevamento, strutture<br />

preve<strong>di</strong>bili ma ci colpì che i pazienti<br />

facessero gare <strong>di</strong> go-kart su una pista<br />

approntata con barriere <strong>di</strong> copertoni. Ci<br />

venne spiegato che l’ospitalità durava un<br />

anno al massimo, prevedeva lavoro<br />

retribuito e, dopo alcuni mesi, a piccoli<br />

gruppi, i residenti venivano spostati in<br />

appartamenti all’interno del paese per<br />

favorirne l’autonomia che lentamente<br />

doveva puntare ad essere totale. Il me<strong>di</strong>co<br />

responsabile si <strong>di</strong>sse <strong>di</strong>sponibile ad<br />

accogliere Ulisse e anche i suoi animali,<br />

quello che bisognava fare era passare per<br />

l’unità <strong>di</strong> salute mentale <strong>di</strong> appartenenza e<br />

ottenere la delibera per mandarlo lì. Il<br />

nostro amico non stava nella pelle,<br />

avrebbe voluto rimanere da subito, anche<br />

a noi sembrava una buona soluzione che<br />

lo riportava alla questione basilare della<br />

sua schizofrenia. Era appena iniziato<br />

agosto, sprovveduti per l’ennesima volta,<br />

andammo con Ulisse all’unità <strong>di</strong> salute<br />

mentale e raccontammo tutto come uccelli<br />

canterini, aspettandoci chissà quale<br />

25


supporto. Inorri<strong>di</strong>to, il me<strong>di</strong>co a cui ci<br />

eravamo rivolti lasciò subito intendere<br />

che non si poteva fare, non conoscevano il<br />

paziente, serviva un periodo lungo <strong>di</strong><br />

osservazione e poi, se lo ritenevano<br />

necessario, si sarebbe ricorso ad una<br />

comunità. Ribattemmo che uno psichiatra<br />

già lo teneva in cura, che era anche un<br />

me<strong>di</strong>co noto nell’ambiente, che esisteva<br />

una <strong>di</strong>agnosi e che la situazione era<br />

aggravata dal fatto che si trattasse <strong>di</strong> un<br />

senzatetto. Ma loro mica trovavano casa<br />

alla gente, erano un servizio sanitario e<br />

poi ci rendevamo conto <strong>di</strong> quanto costasse<br />

una comunità?, le risorse erano scarse e<br />

andavano centellinate. Tornammo qualche<br />

giorno dopo insieme al nostro amico<br />

psichiatra, ma ciò valse solo a far<br />

iscrivere Ulisse nel registro dei loro<br />

pazienti per la somministrazione<br />

quoti<strong>di</strong>ana del risperdal e per offrirgli<br />

pranzo e cena in ospedale. Sarebbe<br />

dovuto passare del tempo, lo avrebbero<br />

tenuto sotto osservazione, poi si sarebbe<br />

deciso il da farsi. Dopo <strong>di</strong>eci giorni,<br />

Ulisse smise <strong>di</strong> recarsi all’unità operativa,<br />

nessuno dei me<strong>di</strong>ci interpellati si prese la<br />

26


iga <strong>di</strong> telefonarci malgrado le ripetute<br />

nostre raccomandazioni.<br />

A settembre Ulisse fu accompagnato a<br />

passare la visita per ottenere<br />

l’accompagnamento, l’aumento della<br />

quota pensionistica mensile sarebbe<br />

servito a pagargli un tutore, niente male<br />

visto che già per noi che eravamo in tre<br />

risultava così faticoso stargli <strong>di</strong>etro.<br />

Anche qui l’amico psichiatra si offrì <strong>di</strong><br />

essere presente e spiegare la situazione al<br />

collega che avrebbe visitato Ulisse, non<br />

andò molto bene, il me<strong>di</strong>co non lo trovò<br />

troppo “non autosufficiente” anzi “era<br />

capace <strong>di</strong> lavarsi la faccia”, chissà perché<br />

fu un car<strong>di</strong>ologo a dare parere, tuttavia<br />

promise che avrebbe fatto il possibile.<br />

Tornammo a tempestare <strong>di</strong> richieste<br />

l’unità <strong>di</strong> salute mentale, ogni volta che<br />

andavamo lì i me<strong>di</strong>ci si trovavano a<br />

colloquio con un paziente o dovevano<br />

scappare a fare una visita domiciliare,<br />

erano indaffaratissimi e ci prestavano<br />

poca attenzione, per loro eravamo solo dei<br />

fasti<strong>di</strong>osi rompiscatole anziché una risorsa<br />

gratuita. Ottenemmo però che passassero<br />

la pratica ai servizi sociosanitari, lì<br />

27


conoscevamo qualcuno che forse poteva<br />

darci una mano, ricorremmo anche alle<br />

raccomandazioni, volevamo risolvere<br />

questa situazione, ma dopo un mese la<br />

pratica era ancora nelle loro mani, ci<br />

tennero in un limbo che li rappresentava<br />

benissimo. Intanto cercavamo sempre una<br />

casa, l’idea del mutuo non ci aveva<br />

abbandonato perché c’era il vantaggio <strong>di</strong><br />

garantire ad Ulisse una proprietà a vita,<br />

interpellammo un agente immobiliare ma<br />

le cifre erano sempre troppo alte, anche<br />

qui bisognava aspettare, il limite<br />

invalicabile sarebbe stato il freddo<br />

invernale. Il nostro amico iniziò a<br />

<strong>di</strong>ventare sempre più impaziente e noi con<br />

lui, abbordammo <strong>di</strong>rettamente il primario<br />

della salute mentale, si <strong>di</strong>mostrò<br />

comprensivo ma molto <strong>di</strong>stante, anche lui<br />

ribadì che bisognava passare la palla ai<br />

servizi sociosanitari, ci promise che<br />

avrebbe fatto il possibile. Valutammo<br />

ogni ipotesi, Ulisse mi tempestava <strong>di</strong><br />

telefonate, un suo conoscente lo stava<br />

prendendo in giro promettendogli per<br />

15.000 euro una casa in ven<strong>di</strong>ta, ci toccò<br />

andare a verificare per ammonirlo <strong>di</strong> non<br />

28


sbeffeggiare un cristo già in croce.<br />

Ottobre passò senza che nulla fosse<br />

cambiato, Ulisse aveva smesso <strong>di</strong><br />

insistere. A novembre prendemmo una<br />

decisione drastica, l’idea che il freddo<br />

sopraggiungesse ci spaventava, con una<br />

piccola parte degli arretrati potevamo<br />

mettere a posto la stanza nel centro<br />

sociale (20 mq), creare un ingresso<br />

in<strong>di</strong>pendente e i servizi igienici, uno <strong>di</strong><br />

noi tre era architetto ed elaborò un<br />

progetto che razionalizzasse tutto lo<br />

spazio. Il ragionamento era semplice, se<br />

gli avessimo fittato una casa, in tre mesi<br />

avremmo pagato la cifra necessaria a<br />

ristrutturare il locale, inoltre era l’unica<br />

soluzione e l’avvocato poi avrebbe potuto<br />

aiutarci a richiedere lo spazio al Comune<br />

per uso abitativo, legalizzandolo.<br />

Partimmo, venne stilato il programma dei<br />

lavori dopo aver fatto dei sopralluoghi, il<br />

giorno dopo dovevo vedermi con Ulisse<br />

per prelevare la cifra necessaria, gli operai<br />

sarebbero stati già all’opera.<br />

Epilogo<br />

29


All’appuntamento, Ulisse arriva con un<br />

uomo che mi presenta come il cugino,<br />

sguardo sospettoso da parte <strong>di</strong> questo che<br />

non reggo, come mai, gli chiedo, appare<br />

solo ora? Cerca <strong>di</strong> tranquillizzarmi, è<br />

venuto solo perché invitato, anzi, si<br />

congratula con me per quello che stiamo<br />

facendo. Lo aggiorno in breve sugli<br />

eventi, ma è un tipo losco, ci tiene a farmi<br />

un <strong>racconto</strong> criminale <strong>di</strong> Ulisse, sostiene<br />

sia stato un rapinatore arrestato in<br />

Germania dove il carcere duro gli ha<br />

incrinato l’equilibrio mentale, snocciola<br />

altrettanti quadri neri sul resto della<br />

famiglia. Dice che parlerà con la sorella <strong>di</strong><br />

Ulisse per decidere il da farsi “Non è<br />

troppo ambiguo” insisto io “Pro<strong>di</strong>garsi<br />

solo ora che ci sono dei sol<strong>di</strong> <strong>di</strong> mezzo?”.<br />

Ancora mi rassicura, la loro non è una<br />

famiglia <strong>di</strong> infami, e ricorre a questa<br />

parola per la decima volta. La presenza<br />

del cugino, l’essere da parte sua un<br />

emblema dei legami <strong>di</strong> sangue che ha<br />

sempre rimpianto, galvanizza Ulisse. Il<br />

suo atteggiamento nei miei confronti<br />

cambia all’improvviso, non vuol fare<br />

alcun prelievo per i lavori nella stanza del<br />

30


centro sociale, solo prendere dei sol<strong>di</strong> per<br />

sé, per me e per il cugino, e lo richiede<br />

esibendosi in uno show isterico <strong>di</strong> urla e<br />

minacce. Finisce che ritiriamo 200 euro e<br />

che mentre mi squilla il cellulare, lui<br />

intasca sol<strong>di</strong>, libretto e carta d’identità e,<br />

in pratica, scappa insieme al cugino. Dopo<br />

alcune ore lo chiamo in fabbrica,<br />

scongiurandolo <strong>di</strong> ridarmi il libretto, ma<br />

non ne vuole sapere nemmeno con la<br />

me<strong>di</strong>azione del suo datore <strong>di</strong> lavoro. Il<br />

giorno seguente mi telefona il cugino per<br />

darmi un appuntamento a cui però non si<br />

presenta, così a mezzogiorno raggiungo<br />

Ulisse sul luogo <strong>di</strong> lavoro ma non lo<br />

trovo, è troppo tar<strong>di</strong>, mi <strong>di</strong>cono che è<br />

andato col suo parente in un paese del<br />

napoletano per comprare una villetta a<br />

prezzo mo<strong>di</strong>co! Chiamiamo l’avvocato<br />

per sapere cosa potrebbe evitare il peggio,<br />

nulla, la legge tutela i rapporti familiari,<br />

l’unica sarebbe imporre proprio il cugino<br />

come tutore affinché venga controllato da<br />

un magistrato in tutti gli atti che compie<br />

in rappresentanza <strong>di</strong> Ulisse. Gettiamo la<br />

spugna, è andata male, recitiamo il mea<br />

culpa per non aver agito sin dall’inizio<br />

31


con un titolo legale che prevenisse<br />

qualunque insorgenza profittatrice da<br />

parte dei familiari. In poco meno <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci<br />

giorni, col consenso <strong>di</strong> Ulisse ricattato nei<br />

sentimenti e nell’esigenza <strong>di</strong> una vita<br />

migliore, spariscono dal conto tutti i quasi<br />

15.000 euro! Il cugino gli ha fatto credere<br />

<strong>di</strong> star comprando per suo conto una<br />

villetta in campagna, Ulisse ne è<br />

entusiasta, tra qualche giorno, <strong>di</strong>ce, si<br />

inse<strong>di</strong>erà lì. Il 9 novembre giunge una<br />

telefonata del primario della salute<br />

mentale, è stato approvato il ricovero <strong>di</strong><br />

Ulisse in comunità per un trimestre,<br />

stanziati 12.000 euro per il pagamento<br />

della retta, quattro mesi più tar<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

quando tutto sarebbe stato efficace. Che<br />

fare? Il 12 novembre incontro Ulisse, gli<br />

spiego la situazione e gli consiglio <strong>di</strong><br />

entrare in comunità, accetta. Il giorno<br />

dopo, alle 17.00 passiamo a prenderlo in<br />

macchina, i proprietari della fabbrica e i<br />

compagni <strong>di</strong> lavoro lo salutano con le<br />

lacrime agli occhi. Un salto nel buio<br />

tugurio a prelevare Pippo, Dara e Sara e<br />

poi partenza, ha ancora in tasca il libretto<br />

postale con saldo zero e fa finta <strong>di</strong> credere<br />

32


<strong>di</strong> essere proprietario <strong>di</strong> una villetta nel<br />

napoletano, mi conforta solo che si stia<br />

lasciando il freddo alle spalle. Arriviamo<br />

dopo un’ora nel buio <strong>di</strong> una campagna<br />

brumosa, l’aria odora <strong>di</strong> mosto e noci, un<br />

grosso pastore tedesco abbaia al nostro<br />

ingresso dal cancello mentre un<br />

infermiere che ci attende lo trattiene per<br />

permetterci <strong>di</strong> passare. Ad Ulisse viene<br />

data una sistemazione provvisoria in una<br />

stanza con altri tre residenti, sul letto è<br />

piegato un pigiama. “Da quanto tempo”<br />

gli chiedo “Non dormi in lenzuola così<br />

pulite?”. “Più <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci anni” mi risponde<br />

con un sorriso. Ai saluti sto per<br />

commuovermi, Ulisse mi guarda sorpreso<br />

con la sua espressione da duro che deve<br />

affrontare altri rounds. Dove lo abbiamo<br />

portato? Chissà, in fondo non sapremmo<br />

<strong>di</strong>rlo per molte cose che ci riguardano.<br />

Dietro <strong>di</strong> noi, Pippo stenta a camminare,<br />

ormai è avanti negli anni ed ha già capito<br />

che il giovane e feroce pastore tedesco gli<br />

darà filo da torcere.<br />

33


Raffaele Quaglia<br />

<strong>di</strong> Diego De Silva<br />

Era mezzogiorno e qualcosa, e Raffaele Quaglia stava aspettando con<br />

l’orecchio buono in <strong>di</strong>rezione della porta. Invece del rumore del<br />

carrello del pranzo riconobbe quello della se<strong>di</strong>a a rotelle, che voleva<br />

<strong>di</strong>re un nuovo arrivato. Fuori era primavera, e da <strong>di</strong>etro i vetri pure il<br />

palazzo <strong>di</strong> fronte pareva contento <strong>di</strong> stare dove stava.<br />

Raffaele Quaglia aveva settant’anni e la pelle come il catrame<br />

strofinato. Una mattina si era alzato senza voce, poi nel pomeriggio gli<br />

era quasi ritornata, poi aveva fatto una cura, andata così così, poi il<br />

dottore gli aveva detto Vieniti a ricoverare che male non ti fa.<br />

Lui comunque si sentiva normale. Mangiare mangiava, il sonno non<br />

l’aveva perduto, in bagno ci andava senza fatica. Aveva un poco <strong>di</strong><br />

fischio in gola, ma quello sempre. E poi erano due anni tre mesi e<br />

ventuno giorni che non toccava le sigarette.<br />

Fino a quella mattina, il letto vicino al suo era stato sempre vuoto. Era<br />

dal primo giorno che Raffaele aspettava quel momento, però non<br />

proprio. Voleva e non voleva, aveva bisogno <strong>di</strong> compagnia e stava<br />

meglio da solo, insomma si vergognava. Non <strong>di</strong> com’era, <strong>di</strong> quella<br />

secchezza da faticatore, delle <strong>di</strong>ta mezze bruciate, <strong>di</strong> non saper parlare<br />

bene, <strong>di</strong> tutte le vene da fuori sulle braccia; si vergognava. Forse <strong>di</strong><br />

sbagliare a comportarsi, <strong>di</strong> offendere senza volere, chi lo sa.<br />

Il lamento delle ruote attraversava il corridoio mischiandosi alla voce<br />

<strong>di</strong> femmina dell’infermiere, che portava la notizia dell’arrivo come un<br />

postino <strong>di</strong> corpi. I malati coi pigiami appesi che facevano avanti e<br />

in<strong>di</strong>etro per il reparto senza importarsene dello scorno sulle facce dei<br />

parenti in visita, approfittavano del momento in cui l’infermiere<br />

passava per ficcare il naso nella se<strong>di</strong>a a rotelle.<br />

Raffaele aveva già spostato il bicchiere e l’acqua minerale cominciata<br />

dalla parte <strong>di</strong> como<strong>di</strong>no più vicina al suo letto. “Lo portano qua, lo<br />

portano qua”, pensava muovendo le labbra mentre si sentiva battere il<br />

cuore nelle orecchie e si contrariava per quel vizio <strong>di</strong> emozionarsi<br />

sempre per gli altri, pure per quelli che non gli erano niente, e subito si<br />

doveva asciugare gli occhi.<br />

34


Appena le ruote si affacciarono sulla porta, si alzò in pie<strong>di</strong> come un<br />

alunno <strong>di</strong> scuola quando entra il professore.<br />

Si aspettava un coetaneo e invece era un ragazzo sui vent’anni, la<br />

faccia pallida, gli occhi mortificati dal dolore. Aveva tutta l’aria <strong>di</strong><br />

essersi sentito male da poco, forse proprio quella notte. Raffaele si<br />

fissò sul modo in cui il giovane si teneva con le mani ai braccioli della<br />

se<strong>di</strong>a, e gli venne addosso una tristezza come la neve. Pensò che forse<br />

dov’era non stava bene, che magari ingombrava, e si andò a mettere<br />

vicino alla finestra.<br />

– Avete visto, Rafe’? Te<strong>net</strong>e compagnia – <strong>di</strong>sse l’infermiere con<br />

quella voce da bambulella con la corda e poi, mentre sollevava il<br />

ragazzo da sotto le ascelle, cominciò a muggire l’inizio <strong>di</strong> Luna rossa.<br />

– Mi raccomando trattatelo bene, che questo giovanotto non c’era<br />

posto nel reparto dove doveva andare e ce l’hanno mandato qua – finì,<br />

e lo lasciò cadere sul materasso con quella strafottenza fatta apposta<br />

per aiutare l’umore dei malati. Poi gli rimboccò la coperta e gli mise il<br />

cuscino <strong>di</strong>etro la testa. Gesù Cristo gli era scappato dal colletto e<br />

sfiorava la faccia del giovane come un amo la bocca <strong>di</strong> un pesce.<br />

“Trattatelo bene”, pensò Raffaele: Ma come ti permetti?<br />

Quando l’infermiere fu uscito dalla stanza, e lo sbattere in<strong>di</strong>sponente<br />

degli zoccoli si perse nel corridoio, il ragazzo si rivolse a Raffaele,<br />

parlandogli sottovoce.<br />

– Può abbassare un poco la persiana, per favore?<br />

Raffaele sbandò in avanti come se due mani l’avessero preso alle<br />

spalle, e si voltò <strong>di</strong> scatto a serrare la maniglia della finestra già<br />

chiusa. Eseguì alla perfezione quell’or<strong>di</strong>ne mai ricevuto e tornò subito<br />

al ragazzo, che adesso lo guardava confuso.<br />

– Sì, sì, ho … chiuso. Vuoi che me ne esco proprio, se devi dormire?<br />

Il ragazzo socchiuse gli occhi e gli accennò un sorriso, ma senza<br />

superiorità. Raffaele voleva morire per come gli doveva essere<br />

sembrato imbranato e ignorante, ma lo prese una gratitu<strong>di</strong>ne così forte<br />

che per un punto non gli veniva da piangere.<br />

– Ma no, che <strong>di</strong>ce: è camera sua, questa. Non ho sonno, mi volevo<br />

solo riposare.<br />

Intronato dall’emozione, Raffaele mosse ancora un po’ le mani senza<br />

capire dove le doveva mandare e finalmente abbassò la tapparella per<br />

metà. Allora si andò a stendere sul letto pure lui e quando poi sentì<br />

arrivare il carrello del pranzo se ne uscì dalla stanza zitto zitto (il<br />

ragazzo si era coperto gli occhi con l’avambraccio) e mangiò in pie<strong>di</strong><br />

nel corridoio, appoggiando il piatto sul termosifone.<br />

Per due giorni interi Raffaele non riuscì a farsi notare dal ragazzo. Il<br />

male tornava spesso, e restava tanto. Lo lasciava senza forze, senza<br />

parole, senza fame, fino all’attacco successivo. Dal letto non si alzava<br />

nemmeno per andare in bagno. E quando si sentiva meglio voleva solo<br />

dormire.<br />

35


Raffaele lo spiava con la coda dell’occhio per capire come si<br />

comportava il male, e dove stava. Ma non era facile, perché pareva<br />

che non era da solo, che aveva degli amici.<br />

Una volta sola il ragazzo aprì bocca, per scusarsi che stava sempre<br />

zitto. Non ti preoccupare <strong>di</strong> me gli <strong>di</strong>sse il vecchio, io sto bene.<br />

Raffaele non poteva sopportare la vista del dolore addosso a uno così<br />

giovane. Avrebbe voluto arrivare con il bicchiere d’acqua in mano<br />

prima della sete. Gli avrebbe imboccato la pastina, gli avrebbe passato<br />

la spugna umida sulla faccia e <strong>di</strong>etro al collo e messo pure il<br />

pappagallo, se glielo avesse chiesto. Ma tutti questi desideri se li<br />

teneva per sé. Aveva sempre pensato che il signore vero è quello che<br />

non si vede e non si sente, ma al momento giusto alza la mano e la<br />

porta dove serve. Così, più restava in silenzio, <strong>di</strong>screto e pronto se<br />

c’era bisogno, più si sentiva educato nel modo giusto.<br />

Il tempo andava ancora più lentamente <strong>di</strong> prima, ma almeno Raffaele<br />

aveva una ragione per contare i giorni. Adesso faceva ad<strong>di</strong>rittura la<br />

guar<strong>di</strong>a, seduto nel corridoio, davanti alla porta. Appena il ragazzo si<br />

lamentava o chiedeva, lui subito correva dall’infermiere e lo portava<br />

fino in camera, sempre restando fuori della stanza. Non voleva<br />

riconoscenza, non voleva niente.<br />

Un pomeriggio, il ragazzo rimase mezzo scoperto mentre dormiva.<br />

Aveva il sonno leggero, e si svegliò per il freddo. Quando aprì gli<br />

occhi si vide davanti Raffaele che gli rimboccava le coperte. Raffaele<br />

si tirò subito in<strong>di</strong>etro, e magro com’era sembrò rimpicciolire nel<br />

pigiama per la vergogna. Il ragazzo allungò una mano verso <strong>di</strong> lui,<br />

come avesse voluto toccarlo, ma non fece in tempo perché il sonno lo<br />

riprese subito e gli lasciò il braccio sollevato a mezz’aria. Raffaele<br />

glielo rimise delicatamente sul lenzuolo e corse fuori con le mani<br />

raccolte sul petto, come tenesse un pacchetto che voleva scartare in<br />

solitu<strong>di</strong>ne.<br />

Troppe veglie, forse. Troppa concentrazione. Troppo lavoro. Cadde<br />

dal sonno, una notte, Raffaele. E dormì tanto, ma tanto. Come non<br />

dormiva da più <strong>di</strong> vent’anni. Senza un risveglio, un’interruzione, un<br />

sogno. A un certo punto, la mattina gli sembrò <strong>di</strong> sentire dei rumori<br />

nella stanza, ma aveva la temperatura giusta, la stanchezza che lo<br />

tratteneva nel letto come una femmina, e non aprì nemmeno gli occhi.<br />

Quando poi, alle <strong>di</strong>eci passate, il giorno volle entrare per forza, si<br />

svegliò <strong>di</strong> soprassalto e si girò verso l’altro letto con la stessa paura <strong>di</strong><br />

uno che sta per scoprire <strong>di</strong> essere stato derubato.<br />

Non si lavò nemmeno la faccia. Corse in corridoio così com’era. Due<br />

malati a stento lo scansarono. Trovò l’infermiere che lavava per terra<br />

nella stanza dei dottori. Quello imme<strong>di</strong>atamente lo bloccò sulla soglia<br />

puntandogli l’in<strong>di</strong>ce contro perché non ci provasse nemmeno a entrare<br />

e fare le impronte sul bagnato. Raffaele si appoggiò all’infisso della<br />

porta. Improvvisamente gli era venuto un fiatone che quasi doveva<br />

36


spalancare la bocca per prendere aria. L’infermiere cominciò ad<br />

avanzare verso <strong>di</strong> lui inclinando malignamente la testa, come se in<br />

quella sua improvvisa fatica a respirare stesse riconoscendo dei segni<br />

che vedeva sempre meglio via via che si avvicinava.<br />

– Che ti viene, Rafe’?<br />

Intercettando quel sospetto, Raffaele s’industriò istintivamente a<br />

camuffare l’affanno, negando, prima ancora <strong>di</strong> capire che cosa.<br />

Ma fu un momento. Il tempo <strong>di</strong> tornare al punto che gli stava a cuore.<br />

- Dove sta?<br />

– Dove sta chi? – fece l’infermiere, e in quel momento Raffaele capì<br />

che voleva nascondergli qualcosa – Aah, ‘o guaglione. L’abbiamo<br />

portato a Urologia, si è liberato il posto –. E si rimise a strofinare il<br />

pavimento, <strong>di</strong>menticandosi pure la malafede con cui aveva scrutato<br />

l’affanno <strong>di</strong> Raffaele fino a un momento prima.<br />

Raffaele continuava a respirare come un cane. Non fosse stato per<br />

l’infermiere, avrebbe tirato fuori la lingua.<br />

– Ma perché, qua non stava bene? – domandò.<br />

L’infermiere si puntellò al pavimento con la mazza, prima <strong>di</strong><br />

rispondere.<br />

– Ma che è, mò sei <strong>di</strong>ventato me<strong>di</strong>co? Ne capisci <strong>di</strong> malati e <strong>di</strong> reparti,<br />

per caso?<br />

Raffaele stringeva forte i pugni, non sapeva nemmeno lui se per la<br />

mancanza del ragazzo o dell’aria.<br />

Rimase in camera tutto il giorno e la notte ad aspettare che gli<br />

passasse l’affanno. Quando, la mattina dopo, prese la decisione <strong>di</strong><br />

alzarsi, lo sapeva benissimo che non era il caso.<br />

Aspettò l’ora delle visite, si mise la camicia, i pantaloni e le scarpe e si<br />

confuse fra i parenti per uscire dal reparto. Le scale le salì un gra<strong>di</strong>no<br />

alla volta, tenendosi bene al corrimano. Poi incrociò una coppia <strong>di</strong><br />

dottori che veniva nell’altro senso parlando <strong>di</strong> cosce e ridacchiando, e<br />

dovette togliere le mani. La pagò cara, perché la fame d’aria si scatenò<br />

un’altra volta, come una bestia appostata.<br />

Nel corridoio <strong>di</strong> Urologia, gente più vecchia <strong>di</strong> lui, tutti maschi,<br />

stavano appoggiati alle pareti e mostravano senza pudore i cateteri<br />

mezzi pieni che gli pendevano dai pigiami. Quell’odore prendeva agli<br />

occhi, tanto era forte. Erano malati pure loro, ma così estranei. Da<br />

come lo guardarono Raffaele si accorse subito che avevano capito che<br />

era un intruso. Si affacciò nella prima stanza, guardò i malati nei letti<br />

uno per volta. Gli pareva <strong>di</strong> vedere attraverso il collo <strong>di</strong> un imbuto.<br />

Poi, senza capire né come né quando, si trovò davanti agli occhi, ma<br />

proprio a due centimetri dagli occhi, la lana rossa <strong>di</strong> un paio calzini<br />

infilati dentro certe pantofole tutte consumate sulla punta. E uno <strong>di</strong><br />

quei sacchetti con la piscia che gli pendeva poco più in alto della testa.<br />

Come pungeva, quell’odore. Però, se lo sentiva, voleva <strong>di</strong>re che<br />

ancora respirava.<br />

37


Il pavimento era stranamente caldo sulla faccia.<br />

Quando riaprì gli occhi era <strong>di</strong> nuovo nel suo letto, con la flebo<br />

attaccata. L’infermiere con la vocetta gli stava dosando la velocità<br />

delle gocce che scendevano nel tubicino.<br />

– Proprio una bella pensata, Rafe’, complimenti. Un altro poco e<br />

perdevo il posto.<br />

Raffaele voleva parlare, ma la voce si fermava nello stomaco. Provò a<br />

sollevare la schiena. L’infermiere gli premette una mano sulla spalla.<br />

– Ah-ah: non ci pensare proprio. Statti buono che tra poco ti facciamo<br />

un’altra siringa per l’aria.<br />

Raffaele muoveva solo la testa, neanche la bocca. Scriveva la<br />

domanda con gli occhi.<br />

– Che vuoi sapere, ah? Eh, sì, sì, ho capito, ‘o guaglione. Sta bene, sta<br />

bene, non ti preoccupare.<br />

Il vecchio lo guardò negli occhi per capire se <strong>di</strong>ceva la verità. Allora<br />

l’infermiere <strong>di</strong>ede qualche altro colpetto inutile al tubicino della flebo<br />

e se ne andò.<br />

Raffaele rimase a letto fino a che non perse il conto dei giorni. Una<br />

volta sola pensò <strong>di</strong> alzarsi, ma come si levò le coperte <strong>di</strong> dosso capì,<br />

senza il minimo dubbio, che non era proprio cosa.<br />

Una sera, verso le <strong>di</strong>eci, sentì un peso fortissimo sulla spalla sinistra.<br />

Subito si allungò verso il pulsante del campanello attaccato al muro<br />

col filo elettrico. Stava quasi per suonare quando decise che l’ultima<br />

faccia che voleva vedere era quella dell’infermiere con la vocetta.<br />

Allora, anche se si stava cacando sotto dalla paura, lasciò andare il<br />

campanello e si fece scivolare <strong>di</strong> nuovo fino al cuscino. Poi aspettò.<br />

Quella notte Raffaele si alzò senza nessuno sforzo, camminò per il<br />

corridoio a pie<strong>di</strong> nu<strong>di</strong> mentre tutti dormivano e salì un’altra volta a<br />

Urologia. Questa volta controllò stanza per stanza, letto dopo letto,<br />

bagno dopo bagno. Entrò pure negli uffici dei dottori ma il ragazzo<br />

non c’era. Allora si arrabbiò veramente. Aprì tutti i cassetti e buttò le<br />

carte per aria. Diede calci ai mobili. Gridò nel corridoio. Scese nelle<br />

cucine scivolando lungo il corrimano delle scale. Buttò delle pentole<br />

per terra e ruppe pure un bicchiere. Sbucò nell’atrio dell’ospedale. Il<br />

guar<strong>di</strong>ano dormiva con la bocca mezza aperta. Aprì le due porte<br />

centrali e uscì nella notte che pungeva. L’ultima cosa che <strong>di</strong>sse prima<br />

<strong>di</strong> andarsene fu che non sopportava quando non gli <strong>di</strong>cevano la verità.<br />

A prenderlo, vennero l’infermiere con la vocetta e un altro più<br />

giovane, con un foglio prestampato in una mano e una penna nel<br />

taschino. Quello con la vocetta gli tirò via le coperte <strong>di</strong> dosso con un<br />

gesto solo, strappando, senza un poco <strong>di</strong> rispetto.<br />

- Nell’arma<strong>di</strong>o hai visto?<br />

– Mh. Pantaloni, cintura, scarpe, due camicie piegate e la cravatta.<br />

38


– Guarda bene nel como<strong>di</strong>no. Che teneva: gli occhiali, il portafoglio<br />

e?<br />

– Ho visto già, solo i biscotti.<br />

Raffaele, con la bocca e gli occhi aperti, pareva un bambino quando<br />

guarda i gran<strong>di</strong> che <strong>di</strong>scutono.<br />

- Va buo’, scrivi.<br />

- Ma moglie, figli? Li hai chiamati?<br />

- No, non tiene a nessuno. Aiutami mò.<br />

Proprio in quel momento, da un’altra parte, in una casa qualunque, un<br />

bambino cominciava appena a camminare, con la mamma accanto che<br />

lo guardava innamorata, <strong>di</strong>menticandosi quanto avesse sempre trovato<br />

interminabili i mesi che finiscono in embre. Il padre <strong>di</strong> suo figlio<br />

sarebbe tornato a casa, quel giorno, dopo un’altra intera settimana <strong>di</strong><br />

lontananza. Gli avrebbe raccontato il bambino dal lunedì al venerdì.<br />

Avrebbero riso insieme, guardandogli i passetti <strong>di</strong>sorientati intorno<br />

alla tavola, durante la cena. E avrebbero approfittato <strong>di</strong> tutto il tempo<br />

che restava prima <strong>di</strong> salutarsi un’altra volta.<br />

PER UN POSSIBILE USO DELLE<br />

SACCHE DI RESISTENZA AL<br />

COSIDDETTO MALE<br />

DI VIVERE: SE ANCORA CE NE<br />

FOSSERO<br />

<strong>di</strong> Giuseppe Montesano<br />

Le voci, le voci arrivano fruscianti e gorgoglianti come se<br />

attraversassero un acquario, ma sono chiarissime.<br />

“Si sta svegliando…”<br />

39


“L’avevo detto io che respirava, avete visto? A volte capita,<br />

che non si svegliano subito. Non tutti reagiscono<br />

all’anestesia allo stesso modo…”<br />

“Forza, su, facci sentire come parli!”<br />

Quando se ne vanno dopo essersi assicurati che non sono<br />

morto, posso <strong>di</strong> nuovo stare zitto e guardarmi intorno<br />

socchiudendo le palpebre. Forse è un effetto della mia<br />

spossatezza, ma i letti <strong>di</strong> metallo nei quali siamo stesi mi<br />

appaiono inverosimilmente piccoli, come i lettini dei<br />

bambini. Le pareti <strong>di</strong> questo parallelepipedo <strong>di</strong> un bianco<br />

scialbo sono interrotte da un solo lato da finestroni alti e<br />

stretti come le aperture in una chiesa o le finestre <strong>di</strong> una<br />

prigione, e questo luogo che sembra qualcosa a metà tra un<br />

corridoio che finisce nel nulla e una camerata dell’esercito è<br />

davvero immenso: anche dopo che ho chiuso e riaperto gli<br />

occhi più volte, lo spazio resta sempre troppo grande. Per<br />

dove si parte <strong>di</strong> qui? Mi sento bizzarramente euforico, ma se<br />

provo a muovermi sono costretto ad accorgermi che ho un<br />

corpo indolenzito e sordo, estraneo come il corpo <strong>di</strong> un<br />

altro. Un infermiere che attraversa la camerata mi passa<br />

davanti e sembra basso come se fosse un nano, dopo un<br />

poco ritorna canticchiando tra sé portando un foglio con un<br />

grafico stretto tra le <strong>di</strong>ta, e quasi si mette a correre. Vorrei<br />

dormire, ma il ragazzino <strong>di</strong> fianco a me non smette <strong>di</strong><br />

lamentarsi.<br />

“Voglio a mammà! voglio a mammà mia!”<br />

40


A me sembra che stia benissimo, è pieno <strong>di</strong> energia e <strong>di</strong><br />

salute, ma quando l’infermiere cerca <strong>di</strong> spiegargli che non<br />

deve muoversi troppo se no si apre la ferita, il ragazzino<br />

piagnucola e riprende a lamentarsi.<br />

“Addò sta, ’a mamma mia?”<br />

Ha l’aria <strong>di</strong> quei ragazzi viziati e prepotenti con le madri ai<br />

loro pie<strong>di</strong>, e vorrei <strong>di</strong>rgli <strong>di</strong> stare zitto perché mi fa venire il<br />

mal <strong>di</strong> testa. Ma a un tratto arriva una folla: madre, padre,<br />

fratelli, zie, cugini, un poppante in braccio a una donna<br />

anziana vestita <strong>di</strong> nero, e circondano il letto del ragazzino.<br />

Sto ripiombando nel torpore, ma ora il senso <strong>di</strong> leggerezza è<br />

sparito, e sento un dolore sordo che batte in una vena della<br />

mia testa e cresce. Se questi qui a fianco se ne andassero!<br />

Mi arrivano frasi spezzate, che cerco <strong>di</strong> non sentire. Il<br />

ragazzino frigna petulante, <strong>di</strong>ce che lui in ospedale non ci<br />

vuole stare, esige fumetti e patine fritte.<br />

“Dotto’, ma se le può mangiare ’e patatine?”<br />

Non sento la risposta dell’infermiere, ma solo la voce <strong>di</strong><br />

quella che forse è la madre del ragazzino.<br />

“Ue’, Gesù mio, dutto’! E mo’ a chisto che ci può fare un<br />

poco <strong>di</strong> coca-cola? Allora ’stu figlio mio adda murì ’e sete?”<br />

Di colpo mi rendo conto che anch’io ho la gola rasposa per<br />

la sete, ma mi ricordo anche che mi hanno detto che non<br />

posso bere fino a stasera. O l’ho sognato? Sono sicuro che al<br />

ragazzino a fianco, appena l’infermiere se ne andrà, gli<br />

daranno da bere la coca-cola <strong>di</strong> nascosto: ma io no, non<br />

41


errò. Credo ciecamente alle prescrizioni <strong>di</strong> me<strong>di</strong>ci e<br />

infermieri, sono affidato a loro come il bambino che non<br />

sono più, e so che devo obbe<strong>di</strong>re. In fondo loro sono qui<br />

apposta per me: o altrimenti per quale altro motivo? Su<br />

questo atto <strong>di</strong> fede scivolo nel sonno, ma nella colla<br />

dell’intorpi<strong>di</strong>mento avverto scricchiolare le suture del<br />

cranio, sento i tessuti che lottano per cicatrizzarsi, e nel buio<br />

assoluto degli occhi chiusi e della gola secca, la vena nella<br />

testa che batte sempre più forte.<br />

O forse, invece <strong>di</strong> questo <strong>racconto</strong> che sembra un ricordo <strong>di</strong><br />

molti anni fa, dovrei semplicemente stenografare l’episo<strong>di</strong>o<br />

che è avvenuto nell’aprile 2003 in una Asl del <strong>di</strong>stretto nel<br />

quale abito?<br />

Una donna bella e educata va alla sede competente dell’Asl<br />

dove, <strong>di</strong>etro presentazione <strong>di</strong> “adeguata documentazione”,<br />

si <strong>di</strong>stribuiscono pannoloni per anziani e bustine per operati<br />

all’intestino. La donna ha con sé una richiesta<br />

dell’ospedale Pascale, che le serve per ritirare delle bustine<br />

per l’anastomia subita da L., operata tre settimane prima e<br />

poi rioperata una settimana dopo perché la prima<br />

operazione era riuscita male. Le bustine richieste sono del<br />

modello “X” perché in ospedale, dopo varie prove, si è<br />

constatato che il modello “X” è l’unico che funziona bene e<br />

che si adatta a quella paziente. La donna porge il certificato<br />

a un’impiegata, spiega che la fornitura dell’Asl dovrà<br />

42


durare all’incirca due mesi, e aspetta. Ma l’impiegata, dopo<br />

aver guardato il certificato, scuote la testa.<br />

“No, per avere <strong>di</strong>ritto alle bustine ci vuole l’attestato <strong>di</strong><br />

invali<strong>di</strong>tà civile.”<br />

La donna bella e educata la guarda sorpresa e pensa: lo sa<br />

l’impiegata che per avere un certificato <strong>di</strong> invali<strong>di</strong>tà civile<br />

ci vogliono anni? Poi, pazientemente, cerca <strong>di</strong> spiegarsi<br />

meglio.<br />

“Ma è stata operata otto giorni fa: come può fare?”<br />

“Senza invali<strong>di</strong>tà civile attestata non ha <strong>di</strong>ritto alle bustine.<br />

E comunque, a prescindere dall’invali<strong>di</strong>tà, deve venire qui e<br />

sottoporsi a una visita.”<br />

“Ma non può uscire! La prescrizione è <strong>di</strong> immobilità<br />

assoluta: ha avuto una grave emorragia interna due giorni<br />

dopo l’intervento…”<br />

“Bene, allora fra qualche giorno manderemo noi il<br />

geriatra…”<br />

“Il geriatra? Ma ha trent’anni!Non ha letto il certificato?”<br />

“Bene, man<strong>di</strong>amo il gastroenterologo. Ma per avere il<br />

gastroenterologo ci vogliono più giorni, il gastroenterologo<br />

è molto richiesto…”<br />

“E intanto la signora i bisogni dove li fa?”<br />

Probabilmente irritata dal tono della donna bella e educata,<br />

l’impiegata guarda <strong>di</strong> nuovo la prescrizione con il timbro<br />

dell’ospedale Pascale, e sospira come si fa quando si parla<br />

con un bambino o un demente. Poi rilegge la sigla del<br />

43


modello <strong>di</strong> bustina sillabando a alta voce, e inarca le<br />

sopracciglia.<br />

“E perché proprio questo modello e non quello che<br />

abbiamo in deposito? Non può usare il nostro? Sempre una<br />

bustina è…”<br />

“Perché dopo vari tentativi, in ospedale hanno visto che è<br />

l’unico che si adatta a lei. E comunque il costo è lo<br />

stesso…”<br />

“Ah sì? Vuole per forza questo modello? Allora quando<br />

viene il me<strong>di</strong>co deve <strong>di</strong>mostrare davanti a lui perché il<br />

nostro modello non va bene…”<br />

“Certo, ho capito. Ma deve solo far vedere che col vostro<br />

modello le feci refluiscono fuori, o per sicurezza deve fare<br />

la cacca davanti al me<strong>di</strong>co?”<br />

L’impiegata forse percepisce il sarcasmo nella voce della<br />

donna educata, e la scruta socchiudendo gli occhi,<br />

<strong>di</strong>ffidente.<br />

“Mhhh! Lei <strong>di</strong>ce che il modello è stato prescritto dal<br />

Pascale? Ma io potrei sospettare: perché al Pascale<br />

vogliono proprio questo modello? Perché il me<strong>di</strong>co ha<br />

segnato questo modello e non quello del nostro fornitore?”<br />

“Se ragionassi come lei anch’io potrei <strong>di</strong>re: e voi perché mi<br />

volete per forza dare le bustine del vostro fornitore e non le<br />

altre?”<br />

44


E senza più aspettare risposte, la donna bella e educata si<br />

riprende la prescrizione e va in farmacia, dove or<strong>di</strong>na e poi<br />

compra per 25 euro un pacchetto <strong>di</strong> bustine.<br />

L. tra l’altro è <strong>di</strong>soccupata: e non ha nessuna “conoscenza”<br />

che possa farle avere un certificato falso, o qualcosa <strong>di</strong><br />

legalmente illegale come si usa da queste parti quando si<br />

hanno degli “amici” pronti a aiutare gli “amici” e a<br />

invocare per tutti gli altri la dura legge dell’”efficienza”.<br />

Ne parlo con G., esperto <strong>di</strong> statistica e <strong>di</strong> politiche sociali,<br />

impegnato in quella che lui chiama “la lotta alla<br />

globalizzazione”.<br />

“Ma quante e quanti L. ci sono, da queste parti?”<br />

”Pochi, sono la minoranza.”<br />

”Sì, ma una minoranza <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong><br />

persone…”<br />

”E’ vero, però sono poveri, e non contano.”<br />

”Non contano perché sono poveri?”<br />

”No, perché sono una minoranza.”<br />

”Ma le democrazie non devono garantire le minoranze?”<br />

G. scoppia a ridere <strong>di</strong> gusto, mi batte la mano sulla spalla e<br />

mi trascina in un bar.<br />

”Come lo vuoi il caffè?Qua fanno un nocciolato che è una<br />

favola…”<br />

45


La camerata dell’ospedale non somiglia a un luogo <strong>di</strong> cura.<br />

Su un tavolino <strong>di</strong> fòrmica e <strong>di</strong> metallo il ragazzino e un<br />

uomo dall’aria sbruffona stanno giocando a carte. Lo<br />

sbruffone spiega al ragazzino i segreti del tressette, ma<br />

quello vuole solo giocare a scopa e vincere. Ogni volta che<br />

gioca con me e per caso vinco io mi guarda e scuote la testa<br />

<strong>di</strong>sgustato e sospettoso, come se avessi barato.<br />

Mentre giochiamo, un vecchio magro che sta nell’angolo <strong>di</strong><br />

fronte a noi a volte si lamenta, ma il suono che esce fuori<br />

dai suoi polmoni somiglia più al richiamo <strong>di</strong> certi ven<strong>di</strong>tori<br />

ambulanti che a un lamento: non si capisce se è<br />

un’invocazione, una canzone o un pianto che finisce<br />

regolarmente in uno sghignazzo. Il vecchio è incontinente, e<br />

forse a causa dell’età o forse a causa dell’operazione, la fa<br />

nel letto a tutte le ore. Tra lui e gli infermieri si è stabilito un<br />

bizzarro rapporto: il vecchio chiama senza stancarsi, a voce<br />

altissima, lamentandosi che non lo puliscono; l’infermiere <strong>di</strong><br />

turno arriva e lo minaccia che se lui se la fa <strong>di</strong> nuovo sotto,<br />

lo lascia in quella schifezza tutta la notte; allora il vecchio<br />

sghignazza, soffocandosi dal ridere fino a sputare muco, e<br />

prende in giro l’infermiere <strong>di</strong>cendogli che è costretto a<br />

cambiarlo perché se no non gli danno lo stipen<strong>di</strong>o. I due<br />

litigano o fingono <strong>di</strong> litigare in continuazione, e a volte<br />

l’infermiere lo prende in giro.<br />

“Ma comme, si’ vivo ancora? Te vuo’ decidere a murì?”<br />

46


La battuta fa scompisciare il vecchio, che replica che invece<br />

deve campare “assai”, per dare fasti<strong>di</strong>o all’infermiere. Mica<br />

è scemo! Cibo, un letto e un infermiere tutto per lui che lo<br />

accu<strong>di</strong>sce e gli pulisce il sedere: e che gli manca, qua? Ma<br />

poi all’improvviso, mentre sta <strong>di</strong>cendo questo e ridacchia<br />

contento, sembra ricordarsi <strong>di</strong> qualcosa e scoppia in una<br />

collera feroce.<br />

“Chella zoccola! M’’a lassato ccà perché ci faccio schifo,<br />

alla signora…”<br />

La “signora” è sua nipote, e non si capisce bene se è il<br />

vecchio che l’ha <strong>di</strong>seredata, o se è stata lei che prima si è<br />

presa i sol<strong>di</strong> del pensionato e poi lo ha abbandonato. Il<br />

vecchio si solleva su un gomito come per tentare <strong>di</strong> sedersi,<br />

poggiato su un fianco perché su quel lato sente meno dolore,<br />

e parla animatamente con l’infermiere. Lui, a quella zoccola<br />

e ai suoi figli, non gli lascia niente! Adesso si riprende e<br />

torna a casa, e quei fetenti lo devono sopportare, perché lui<br />

tiene ancora “ nu sacco ’e denare” nascosti: e sfregando tra<br />

loro il pollice e l’in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> una mano ride furbesco, per<br />

ricadere poi stremato sul materasso. L’infermiere, che <strong>di</strong><br />

solito quando il vecchio attacca a lamentarsi lo tratta<br />

bruscamente, ora invece cerca <strong>di</strong> calmarlo. Lo chiama<br />

“nonno”, e gli <strong>di</strong>ce che i nipoti verranno sicuramente a<br />

fargli visita: può essere mai che lo abbandonano? Ma io sto<br />

qui da una settimana e non ho mai visto nessun nipote: gli<br />

unici che parlano con il vecchio sono gli infermieri e il<br />

47


agazzino, e si danno del tu anche se tra loro c’è una grande<br />

<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> età.<br />

L’altra notte l’infermiere con il fisico da atleta è arrivato<br />

barcollando <strong>di</strong> sonno dopo che il vecchio aveva svegliato<br />

tutta la camerata, e gli ha fatto una scenata gridando che<br />

l’aveva fatto apposta a sporcarsi dopo che lui lo aveva pulito<br />

e cambiato.<br />

“E che miseria! Ma pecché nun duorme nu poco, eh?”<br />

Lo ha sgridato a lungo come si fa coi bambini, ma poi lo ha<br />

pulito e gli ha rifatto il letto. Il vecchio questa volta non ha<br />

fatto battute, e l’infermiere, prima <strong>di</strong> andarsene, gli ha<br />

aggiustato con un gesto femminile i cuscini più volte, finché<br />

il vecchio non gli ha battuto la mano scheletrica sulla spalla<br />

come a <strong>di</strong>re: ora basta, va bene.<br />

O forse, invece <strong>di</strong> queste storie <strong>di</strong> vecchi e infermieri, dovrei<br />

riflettere sul fatto che nel me<strong>di</strong>oevo gli ospedali in Francia<br />

erano chiamati Hôtel-Dieu? Come il tempo trasforma e<br />

porta alla deriva i significati!<br />

Quando ci ammaliamo torniamo inevitabilmente infantili, e<br />

il sogno che ci visita è quello <strong>di</strong> qualcuno che si prenda<br />

cura <strong>di</strong> noi: ma non sappiamo bene <strong>di</strong> cosa si tratti, non lo<br />

sappiamo più: e invece del sogno <strong>di</strong> qualcuno che si prende<br />

cura <strong>di</strong> noi, siamo condannati a fantasticare sull’efficienza.<br />

Ma l’efficienza, nel nostro incubo realizzato, finisce col<br />

somigliare come una goccia d’acqua a questo: delle<br />

48


macchine in fila riparate da altre macchine, in un vuoto<br />

asettico dove si sente appena il ronzio <strong>di</strong> tutti i meccanismi<br />

che ripetono gli stessi gesti inutili. E efficienza è poi anche<br />

la sarcastica risposta in forma <strong>di</strong> “dati statistici” e<br />

“ricerche <strong>di</strong> settore” che il profitto come unico Dio offre ai<br />

mortali che chiedono tregua dal male, ai corpi miserabili e<br />

splen<strong>di</strong><strong>di</strong> bisognosi <strong>di</strong> cura: l’efficienza allora sarà solo<br />

l’implacabile <strong>di</strong>fferenza tra chi ha e chi non ha spostata dai<br />

beni mobili al dolore del corpo: e efficienza <strong>di</strong> un sistema<br />

sanitario vorrà <strong>di</strong>re sempre la stessa cosa, che l’ingiustizia<br />

perseguita i deboli fin sopra il letto <strong>di</strong> morte: e guai a chi<br />

non è stato capace <strong>di</strong> arricchirsi, perché su lui<br />

“l’efficienza” cadrà come la scure su un condannato.<br />

Eppure, non è così semplice: perché chi potrebbe davvero<br />

essere sicuro che nell’abbondanza <strong>di</strong> denaro si penserebbe<br />

ancora a prendersi cura <strong>di</strong> un corpo vivente? Non c’è forse,<br />

al contrario e ironicamente, un rapporto <strong>di</strong>retto tra<br />

mancanza <strong>di</strong> umanità e crescita del profitto, e viceversa?<br />

Ci accontenteremmo già solo <strong>di</strong> non essere soffocati dalle<br />

burocrazie della salute, dalla violenza psicologica dei<br />

me<strong>di</strong>ci ancora legati all’idea dello stregone che deve<br />

nascondere i suoi misteri, dallo sguardo ottuso <strong>di</strong> chi “si è<br />

preso una laurea” per farsi la villetta a Serapo e il<br />

viaggetto in Brasile, dalla povertà <strong>di</strong> immaginazione che nel<br />

meccanismo impiegatizio della “salute” ci fa sentire tutti<br />

come lo scarafaggio nella Metamorfosi <strong>di</strong> Kafka: e in<br />

49


fondo, insinua bonario il buon senso degli esperti ben<br />

pagati, che preten<strong>di</strong>amo, potrebbe sempre andare peggio,<br />

tutto sommato qua ci si arrangia, e non si <strong>di</strong>ce sempre che<br />

chi si contenta gode?<br />

Ma io non ho mai visto godere qualcuno che si è accontentato,<br />

e i proverbi sono tra<strong>di</strong>menti.<br />

Qui l’odore <strong>di</strong> candeggina o lisoformio si mescola al vapore<br />

umido e all’odore dei cibi casalinghi che i familiari portano<br />

a chi può mangiare: peperoni fritti con i capperi e le olive,<br />

maccheroni con il ragù, e banane e pesche che maturando<br />

riempiono la camerata <strong>di</strong> profumo. Forse qui solo io, per<br />

una strana forma <strong>di</strong> ascesi o forse <strong>di</strong> inutile egualitarismo,<br />

mangio il cibo dell’ospedale: è lo stesso motivo che mi<br />

spinge a non aprire i libri sul como<strong>di</strong>no e a leggere i fumetti<br />

del ragazzino? Non lo so, ma mangio il cibo dell’ospedale<br />

senza sacrificio e senza <strong>di</strong>sgusto: la pastina in brodo<br />

vegetale, il fantasma <strong>di</strong> merluzzo semibollito con il<br />

pomodoro crudo, la mela cotta senza sapore: e uso paziente<br />

le ri<strong>di</strong>cole posate <strong>di</strong> plastica.<br />

Il vecchio scheletrico <strong>di</strong> fronte peggiora ogni giorno <strong>di</strong> più,<br />

ma ce n’è un altro in fondo alla camerata che è dato ormai<br />

per spacciato. Questo sta zitto per intere giornate, forse<br />

inebetito dai sedativi, ma quando a un tratto si risveglia, la<br />

sua voce lacera da un capo all’altro lo stanzone, e passa<br />

come un colpo <strong>di</strong> frusta sui letti: con una violenza e una<br />

forza che non si immaginerebbero in quel corpo piccolo, il<br />

50


vecchio urla il suo rifiuto a morire come tutte le bestie che<br />

siamo: ma nello stesso tempo anche il suo rifiuto a essere<br />

curato inutilmente: “faciteme murì”, <strong>di</strong>ce.<br />

Gli infermieri lo lasciano tranquillo, il me<strong>di</strong>co che viene a<br />

vederlo non insiste e se ne va quasi subito: l’unica persona<br />

che scatena la sua ira è sua sorella. E’ una suora che fa parte<br />

<strong>di</strong> non so quale or<strong>di</strong>ne, e ogni volta che viene a trovarlo si<br />

svolge la stessa scena: la donna gli <strong>di</strong>ce in tono lagnoso che<br />

lui deve pregare, e il vecchio appena sente la parola<br />

“pregare” o sente la sorella borbottare il rosario, comincia a<br />

bestemmiare. Bestemmia tutto ciò che è possibile, e la voce<br />

fioca gli cresce gigantesca: e più la sorella cerca <strong>di</strong> calmarlo<br />

o alza la voce nella preghiera, più il vecchio bestemmia cose<br />

enormi, atroci, irripetibili.<br />

“Tu e ’stu Dio! Ma che aggia fà cu’ Dio? Io aggia sulo<br />

murì…”<br />

Questa è l’unica frase <strong>di</strong> senso compiuto che non sia una<br />

bestemmia che il vecchio ha detto oggi: a parte il consueto<br />

epiteto <strong>di</strong> “zoccola” rivolto a sua sorella. Vuole essere<br />

lasciato in pace a morire; lei non deve venire più, mai più;<br />

non vuole essere preso per fesso con le preghiere; la verità è<br />

che chi sta crepando come un animale è lui; quella puttana<br />

<strong>di</strong> sua sorella se ne deve andare per sempre: e il vecchio<br />

piange, ma per la rabbia e lo sforzo, non per chiedere<br />

conforto.<br />

51


A mezza voce nella camerata si <strong>di</strong>scute se abbia ragione, ma<br />

nessuno ha il coraggio <strong>di</strong> trarre una conclusione: e ogni<br />

pomeriggio, all’ora delle visite, si ripete l’osceno rito. Solo<br />

gli infermieri si sono schierati dalla parte del vecchio,<br />

cercando <strong>di</strong> far capire alla suora che quando lei non c’è il<br />

fratello non bestemmia mai.<br />

“Suora, e che ci volete fare? Lo volete far morire dannato?”<br />

E’ strano, ma anche abituati come sono alla sofferenza degli<br />

altri fino a sembrare scanzonati e in<strong>di</strong>fferenti, è come se gli<br />

infermieri cercassero <strong>di</strong> proteggere la solitu<strong>di</strong>ne nella quale<br />

il vecchio vuole restarsene chiuso, il suo rifugio inebetito, la<br />

tana finale. Ma mentre il vecchio conduce la sua personale<br />

battaglia contro la fine e forse ancora più contro la<br />

vergogna, il ragazzino e lo sbruffone <strong>di</strong>scutono <strong>di</strong> prostitute.<br />

“Ma tu tieni ancora il latte in bocca, che devi fare?”<br />

Si accosta anche un infermiere, che dà uno scappellotto<br />

sulla nuca del ragazzino.<br />

“ ’O piccerillo è scetato, eh?”<br />

Ma poi, <strong>di</strong>etro l’insistenza del ragazzino, lo sbruffone<br />

comincia a spiegare come si fa. Con la crudezza assoluta del<br />

popolo quando parla <strong>di</strong> cose naturali, e con una semplicità<br />

pulita come un coltello che taglia il pane, l’uomo spiega al<br />

ragazzino la prima volta. E’ facile: il ragazzino non deve<br />

fare niente, e soprattutto non si deve preoccupare, fa tutto<br />

lei. Lo sbruffone è <strong>di</strong>ventato a un tratto serio, e la sua voce e<br />

persino i suoi gesti, si sono fatti pacati e quasi gentili. Ogni<br />

52


tanto il lamento che ormai è un rantolo del vecchio <strong>di</strong> fronte<br />

copre le spiegazioni dell’uomo, e allora il ragazzino, che<br />

oltre agli infermieri è l’unico che scherza con il vecchio<br />

prendendolo in giro: “’o no’, nun sì cchiù buono!”, ma che<br />

lo aiuta mille volte in una giornata a sistemarsi i cuscini a<br />

spostarsi <strong>di</strong> lato a bere l’acqua, guarda verso il vecchio con<br />

astio.<br />

“Ma ’stu vecchio quando mòre?”<br />

E la frase suona come le spiegazioni <strong>di</strong> quell’altro sul sesso:<br />

spassionata, senza compiacimento o cattiveria, naturale<br />

come la pioggia che cade.<br />

O forse, invece <strong>di</strong> questo ragazzino e della pioggia che cade<br />

naturale, dovrei parlare del terrore e della vergogna che<br />

nascono negli “ospiti” dei cosiddetti luoghi <strong>di</strong> cura <strong>di</strong><br />

fronte all’in<strong>di</strong>fferenza dei sani?<br />

La vergogna che prova il malato non è quella del mostrarsi<br />

nudo o in posizioni oscene a degli estranei che non palpano<br />

la sua carne per piacere o la lacerano per o<strong>di</strong>o, ma è quella<br />

<strong>di</strong> scoprire la solitu<strong>di</strong>ne: il non poter comunicare all’altro,<br />

fosse anche il più prossimo, la propria realtà. Ci si sente<br />

colpevoli esattamente come i personaggi dei romanzi <strong>di</strong><br />

Kafka: senza sapere perché. Tutta l’educazione e la cultura<br />

dei piccoli borghesi che siamo ormai tutti è insufficiente <strong>di</strong><br />

fronte a questo senso <strong>di</strong> colpa, perché la nostra educazione<br />

trascura esattamente tutto ciò che è essenziale: vita, amore,<br />

53


morte, sesso, fame. Eppure come stupirsi se nei luoghi <strong>di</strong><br />

cura il corpo <strong>di</strong>venta un’appen<strong>di</strong>ce, un oggetto separato da<br />

tutto il resto e del quale in tanta esibizione <strong>di</strong> piaghe, in<br />

fondo si tace? Ormai anche al <strong>di</strong> fuori degli ospedali i corpi<br />

sono cose e niente più: è questa una delle leggi non scritte<br />

sulle quali si regge oggi l’inganno sociale e economico, e il<br />

luogo <strong>di</strong> cura, come la scuola o l’ufficio o la fabbrica, non<br />

fa che ripetere dentro le sue strutture deformate l’ingiustizia<br />

dell’intera società: non si può curare nemmeno un solo,<br />

piccolissimo malato, in una società malata.<br />

E chiedo: perché un uomo che fra sei mesi morirà deve fare<br />

una fila <strong>di</strong> tre ore e poi ritornare il giorno dopo perché<br />

sulla carta straxccia che gli serve a sopravvivere manca<br />

sempre un timbro? Quell’uomo è in grado <strong>di</strong> sopportare<br />

molte cose, <strong>di</strong> non vedere più la luce all’alba, <strong>di</strong> non sentire<br />

più il sapore del vino, <strong>di</strong> perdere il suo corpo amato: ma è<br />

necessario che sia oscenamente schernito dalla burocrazia<br />

della salute? Non abbiamo bisogno <strong>di</strong> più leggi, <strong>di</strong> leggi è<br />

già piena la vita per escludere i molti dal benessere dei<br />

pochi: abbiamo bisogno <strong>di</strong> giustizia. Ospedali e manicomi<br />

dovrebbero essere rasi al suolo, così <strong>di</strong>cono i nostri sogni<br />

più profon<strong>di</strong>: ma non si raderebbe al suolo ciò che ci spinge<br />

là dentro, pecore pazienti o riottose: il male naturale, il<br />

<strong>di</strong>ssesto dell’anima, la violenza che ci infligge da tutte le<br />

parti la realtà sociale. Eppure le vittime potenziali che<br />

siamo, potrebbero ancora fare il loro 1789 della mente,<br />

54


ieducarsi a partire dalle cose elementari, far crollare la<br />

ripugnante prigione dell’io scoprendo che l’altro, persino il<br />

ragioniere dell’Asl che mi guarda innervosito perché ho<br />

interrotto il suo caffè con sigaretta, è come me.<br />

In un piccolo libro che si chiama Sacche <strong>di</strong> resistenza, John<br />

Berger ha accennato a qualcosa <strong>di</strong> simile parlando <strong>di</strong><br />

Rembrandt: “Quando ritraeva liberamente le persone che<br />

amava o immaginava o sentiva vicine, cercava in quel<br />

preciso istante <strong>di</strong> entrare nel loro spazio corporeo, cercava<br />

<strong>di</strong> entrare nel loro Hôtel-Dieu: e trovare così una via <strong>di</strong><br />

uscita dalle tenebre. Davanti al piccolo quadro Donna che<br />

si bagna in un fiume ci sentiamo vicini a lei, dentro la sua<br />

veste sollevata. Non come voyeur né come i vecchi<br />

lussuriosi che spiano Susanna. E’ solo che siamo trascinati<br />

dalla tenerezza del suo amore ad abitare lo spazio <strong>di</strong> quel<br />

corpo.”<br />

Ma è <strong>di</strong>fficile accostarsi sia pure solo intellettualmente a<br />

ciò che Berger descrive qui: ed è <strong>di</strong>fficile vedere che nesso<br />

ci sia tra Rembrandt e i ticket da pagare per poter<br />

sopravvivere come macchine più o meno efficienti. Eppure<br />

non c’è scampo: appena si <strong>di</strong>stoglie lo sguardo dall’altro, e<br />

si <strong>di</strong>mentica che è come me, comincia l’orrore. Appena<br />

sono meno attento, il vuoto <strong>di</strong>laga: la vittima scambia<br />

l’altra vittima per un nemico, e invece <strong>di</strong> schierarsi dalla<br />

sua parte contro i persecutori, chiede ai persecutori che<br />

ridono <strong>di</strong> tanta stolta servilità: sacrificate lui, e salvate me!<br />

55


Ma la vittima sciocca non ha nemmeno finito <strong>di</strong> invocare<br />

questa egoista pietà, che viene fatta a pezzi fianco a fianco<br />

dell’altro. Deve continuare ancora così per sempre? Tutti i<br />

1789 devono per forza mettere il collo degli altri e poi il<br />

proprio sotto una ghigliottina? O forse il prendersi cura<br />

l’uno dell’altro potrebbe ancora <strong>di</strong>ventare l’insurrezione<br />

permanente?<br />

Non ho risposte possibili, da solo. Le parole sono cose?<br />

Non so nemmeno questo. Dice misteriosamente Berger<br />

parlando sull’arte <strong>di</strong> essere attenti verso gli altri:<br />

“Stranamente, l’amore è la migliore garanzia contro<br />

l’idealizzazione.”<br />

Stamattina il vecchio <strong>di</strong> fronte non si muove.<br />

“Io non tengo tempo da perdere! Iamme, nun pazzià…”<br />

L’infermiere lo scuote sbuffando, ma non ha nemmeno<br />

finito la frase che si rabbuia, si china sul vecchio e chiama<br />

sottovoce un compagno. Dopo un po’ che quello è sparito<br />

arriva un me<strong>di</strong>co e prende tra le <strong>di</strong>ta il polso del vecchio, si<br />

china su <strong>di</strong> lui con lo stetoscopio, gli ausculta il cuore e<br />

chiede qualcosa ai due infermieri. Il ragazzino, che <strong>di</strong> solito<br />

si sveglia alle un<strong>di</strong>ci, è già seduto in mezzo al letto nella<br />

luce incerta dell’alba, e fissa la scena in silenzio. Poi mette i<br />

pie<strong>di</strong> nu<strong>di</strong> sul pavimento e si avvicina al vecchio, ma<br />

l’infermiere lo prende per una spalla e gli <strong>di</strong>ce che se ne<br />

deve tornare a dormire. Gli infermieri borbottano tra <strong>di</strong> loro<br />

56


sulla nipote che non è mai venuta e chissà adesso come si fa<br />

a trovarla, arriva un altro me<strong>di</strong>co, rifà gli stessi gesti del<br />

primo, scuote la testa: allora l’infermiere atletico prende in<br />

braccio senza sforzo il corpo piccolo del vecchio, come se<br />

fosse un uccello rinsecchito in pigiama, e lo porta via.<br />

E’ una mattinata <strong>di</strong> luglio tersa, e a uscire fuori in giro<br />

l’ospedale sembra immerso in un bosco. L’aria è sottile, ed<br />

è come passeggiare in montagna. Ma i malati del pa<strong>di</strong>glione<br />

se ne stanno sui muretti a fumare, reggendo con la mano<br />

libera le bustine con le loro secrezioni. Ogni tanto i me<strong>di</strong>ci<br />

<strong>di</strong> turno li rimproverano, ma in genere fanno finta <strong>di</strong> non<br />

vedere. Io detesto le cicche semispente schiacciate sui<br />

pianerottoli e sulle scale, ma ormai non mi danno più<br />

fasti<strong>di</strong>o, e qui dentro ho smesso <strong>di</strong> considerare importanti<br />

molte cose. Qualche giorno fa ho detto allo sbruffone che<br />

non era giusto che una donna anziana operata da poco<br />

fumasse tossendo nei corridoi senza che nessuno glielo<br />

impe<strong>di</strong>sse, ma quello mi ha riso in faccia.<br />

“E che ne sai, tu? E se quella deve morire tra tre giorni?<br />

Meglio che fuma, siente a me…”<br />

Non ho saputo cosa rispondere, e sono rimasto zitto.<br />

Alcuni <strong>di</strong>cono che qui i ratti abbondano perché c’è troppo<br />

cibo che si butta, e nessun <strong>di</strong>sinfettante può eliminare chi ha<br />

fame: ma devono essere animali <strong>di</strong>screti, perché pare che<br />

compaiano solo <strong>di</strong> notte. Dicono anche che sotto questi<br />

alberi secolari vivano piccole volpi, e ricci grassottelli che<br />

57


qualcuno ha mangiato arrostiti infilzandoli su uno stecco:<br />

altri invece <strong>di</strong>cono che d’autunno ci sono talmente tanti<br />

funghi che non si riesce nemmeno a coglierli tutti.<br />

Sarà vero?<br />

La tasca davanti<br />

<strong>di</strong> Valeria Parrella<br />

58<br />

Ad Alessia, piccola piccola<br />

Aveva solo un numero <strong>di</strong> telefono, su un foglietto<br />

da qualche parte. Nella tasca davanti, sì, ma<br />

dell’altra salopette. E come avrebbe potuto<br />

salvarlo sul cellulare? Doveva forse metterci un<br />

nome che non le <strong>di</strong>ceva niente?<br />

Comunque aveva deciso <strong>di</strong> andare<br />

all’appuntamento, aspettare un poco, guardarsi<br />

intorno, valutare, e poi magari andare via se la<br />

cosa non si fosse messa per il verso giusto.<br />

Tanto… Erano protette l’una dall’altra da un<br />

doppio anonimato telefonico<br />

- signora Maddalena-<br />

- sì-


- il suo numero…me l’ha dato il dott.<br />

Savastano-<br />

- sì, signora, ho capito: ma a che mese stiamo?-<br />

- entro nel settimo-<br />

- è tar<strong>di</strong>, lo sa?-<br />

- lo so-<br />

- vabbè, venga giovedì alle quin<strong>di</strong>ci, e<strong>di</strong>ficio 9,<br />

primo piano. Signora: c’è un corridoio lungo<br />

lungo, ci saranno delle persone che aspettano<br />

per le visite. In fondo, il corridoio svolta sulla<br />

destra: la terza porta. Non bussi, mi aspetti<br />

fuori-<br />

- va bene, alle quin<strong>di</strong>ci-<br />

- signora, sia chiaro. Lei è in ospedale per fare<br />

una visita a una persona. Qualunque cosa<br />

chiedano a me o a lei, io non la conosco e non<br />

so <strong>di</strong> cosa parla…-<br />

Così era emersa dalla metropolitana collinare<br />

<strong>di</strong>rettamente nel muro <strong>di</strong> cinta del policlinico.<br />

Aveva camminato piano tra gli eucalipti, con i<br />

quadricipiti tesi a contrastare la salita: il viale che<br />

accompagnava alle cliniche si snodava lungo la<br />

collina del Rione Alto e guardava Napoli da<br />

lontano. Avrebbe fatto pensare a un sanatorio, se<br />

non fosse stato affacciato sulla cappa <strong>di</strong> smog<br />

dell’area metropolitana più grande del paese.<br />

59


Ora era arrivata al pa<strong>di</strong>glione 9. Aspettava nella<br />

salopette.<br />

Aspettava che si aprissero le porte per fare entrare<br />

i visitatori, mentre qualcuno si lamentava <strong>di</strong><br />

qualcosa ad alta voce, e tutti avevano occultato,<br />

in un modo o nell’altro, del cibo da portare in<br />

corsia. C’era profumo <strong>di</strong> frittate, e carne alla<br />

pizzaiola. Le salì una voglia fortissima <strong>di</strong><br />

pizzaiola, anzi: <strong>di</strong> carne cotta all’olio, aglio e<br />

prezzemolo. Una voglia <strong>di</strong> prezzemolo<br />

prepotente, incoercibile, proporzionale a tutto il<br />

prezzemolo che aveva dovuto eliminare dai piatti,<br />

una volta incinta.<br />

Era concentrata in sé a scacciare quei pensieri,<br />

quando si era accorta <strong>di</strong> essere circondata da<br />

molte salopette, della sua stessa taglia. Anzi: a<br />

ben vedere, tutte quelle donne incinte guardavano<br />

proprio lei, <strong>di</strong> sott’occhi, con <strong>di</strong>screzione,<br />

qualcuna sfacciatamente, ma tutte lei. Si ficcò le<br />

mani in tasca e si accarezzò la pancia lungo<br />

l’elastico degli slip.<br />

In ascensore ormai, oltre i silenzi, era stato chiaro<br />

che non si trovavano tutte lì per caso, ormai era<br />

chiaro che andavano tutte nella stessa <strong>di</strong>rezione.<br />

Così, senza chiedere nulla, Ilaria le aveva seguite<br />

nel corridoio lungo lungo, quello che alla fine<br />

60


avrebbe svoltato a destra. Mentre camminava<br />

guardava i talloni arrossati che la precedevano, i<br />

talloni schiacciati da un peso nuovo, inaspettato,<br />

temporaneo; sentiva che anche i suoi talloni erano<br />

rossi, benché non se li fosse guardati mai. Ma<br />

aveva visto quelli <strong>di</strong> sua cognata scoppiare nella<br />

tensione dei capillari: pensava a sua cognata,<br />

Ilaria, quando tutte quelle donne avevano svoltato<br />

a destra, e si erano fermate davanti alla terza<br />

porta.<br />

Sua cognata aveva lasciato Napoli per seguire il<br />

marito. Per andare a vivere a Gessate, ultima<br />

fermata della linea verde del metrò <strong>di</strong> Milano. E<br />

da allora non si era mai più chiesta se le piaceva,<br />

vivere lì. Poi un giorno era rimasta incinta, e<br />

aveva cominciato a scoprire la como<strong>di</strong>tà dello<br />

stato sociale. Non aveva mai litigato per ritirare il<br />

referto <strong>di</strong> una ecografia, mai fatto una fila al<br />

consultorio, e miracolo dei miracoli: il suo<br />

ospedale aveva organizzato un corso preparto.<br />

-e quando lo cominci il corso preparto, tu a<br />

Napoli?-<br />

E quando lo comincio il corso preparto, io? Ilaria<br />

era andata a chiedere in ospedale:<br />

61


-mi <strong>di</strong>spiace, signora: quest’anno la <strong>di</strong>rezione<br />

sanitaria non ha potuto <strong>di</strong>sporre in tal senso-<br />

Gessate, ultima fermata della linea verde: Ilaria<br />

stava ripetendosi la parola ultima, quando dalla<br />

porta era sbucata la signora Maddalena.<br />

Sembrava una giapponesina, con zoccoli se<br />

possibile ancora più brevi dei pie<strong>di</strong>. Era uscita<br />

con circospezione, aveva attraversato il gruppetto,<br />

poi si era girata e le si era piantata davanti.<br />

- È lei? – aveva chiesto.<br />

Ilaria ci aveva pensato: in fondo alla salopette, sì,<br />

era lei. Lei costretta da sua cognata, ma sempre<br />

lei.<br />

Maddalena le aveva teso la mano, le aveva<br />

accarezzato la pancia all’altezza della tasca<br />

davanti:<br />

- femmina - aveva detto,<br />

sì, ma era facile. Poi aveva fatto cenno a<br />

un’infermiera e questa aveva risposto con la<br />

mano aperta come in un saluto<br />

- 5- aveva tradotto Maddalena- oggi an<strong>di</strong>amo<br />

nella cinque- Poi :<br />

- Ilaria, <strong>di</strong>amoci il tu, Ilaria. Qua non facciamo<br />

niente <strong>di</strong> male, lo so io, lo sanno loro e lo sai<br />

tu, però questi locali a quest’ora dovrebbero<br />

servire ad altri, o essere chiusi, e io ormai non<br />

62


sono più ostetrica e lavoro negli uffici, e il<br />

dottore Falisco, che mò smonta dal turno e ci<br />

raggiunge, appunto: smonta dal turno,<br />

significa che la sua assicurazione finisce qui, e<br />

in quest’ospedale non ci dovrebbe stare.<br />

Insomma, questo corso preparto non esiste. Tu<br />

non sei qui, noi non siamo qui. Abbi pazienza,<br />

se si sa noi passiamo un guaio.-<br />

Ecco, adesso c’era, al corso preparto. Adesso<br />

bastava solo non farlo sapere mai a sua cognata<br />

Chiara, per sicurezza non <strong>di</strong>rlo neppure a suo<br />

marito: che il corso era tenuto <strong>di</strong> nascosto, che<br />

dovevano cambiare stanza ogni volta con la<br />

compiacenza dell’infermiera <strong>di</strong> turno, che si<br />

dovevano vedere sempre dalle tre alle cinque,<br />

perché è l’orario aperto al pubblico e solo così si<br />

potevano mimetizzare.<br />

Ilaria si guardava intorno, e tutto era mimetizzato:<br />

sulle scale antincen<strong>di</strong>o le degenti, in vestaglia e<br />

zoccoli, fumavano con le infermiere, in càmice e<br />

zoccoli, e i me<strong>di</strong>ci davano le informazioni agli<br />

sportelli, come impiegati, e i parenti toglievano le<br />

flebo, come infermieri, e i volontari <strong>di</strong>stribuivano<br />

i pasti, come inservienti. E in mezzo c’erano loro,<br />

come visitatori.<br />

63


Ma adesso c’era, e avrebbe finalmente potuto<br />

sfidare Chiara su un piano <strong>di</strong> parità: incinta tutt’e<br />

due a settecento chilometri e un mese <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza.<br />

E lei era partita anche in anticipo.<br />

Ilaria finalmente si sentiva all’altezza <strong>di</strong><br />

competere con i racconti, con la rivalsa<br />

sotterranea <strong>di</strong> Chiara che si era dovuta strappare<br />

Napoli <strong>di</strong> dosso e ora, dopo essersi sentita nuda,<br />

si era ritrovata in abiti più como<strong>di</strong> dei suoi.<br />

Sorrideva sod<strong>di</strong>sfatta: era nell’unico corso<br />

preparto della provincia, segreto, sovversivo<br />

dell’or<strong>di</strong>ne costituito. C’erano donne che<br />

avrebbero partorito a Giugliano, a Marano, a<br />

Somma.<br />

Non c’era nulla <strong>di</strong> sistematico, piuttosto voci <strong>di</strong><br />

voci, passaparola <strong>di</strong> quartieri: si pescava nel<br />

mucchio della maternità, come un campione in<br />

una<br />

statistica.<br />

… piano, lasciare che l’aria attraversi le narici,<br />

poi la trachea. Visualizzare il respiro come una<br />

sfera incandescente che si poggia sul <strong>di</strong>aframma e<br />

lo abbassa consentendo l’allargamento della<br />

gabbia toracica e l’espansione dei polmoni… più<br />

o meno si stava concentrando sempre su questo<br />

64


punto, Ilaria, quando il dott. Falisco riusciva a<br />

liberarsi ed entrava trafelato nella stanza.<br />

Arrivava già in borghese, togliendosi càmice e<br />

occhiali lungo il corridoio e aggiustandosi i<br />

capelli nelle ascensori. A volte doveva fare tutto<br />

il giro del pa<strong>di</strong>glione esterno per liberarsi<br />

dell’amministratore Torella. Un giorno, prima <strong>di</strong><br />

salutarlo, alla macchina, gliel’aveva chiesto: per<br />

sfidarlo, o per capire se sapeva<br />

- Torella, ma poi, i finanziamenti per quel corso<br />

preparto?-<br />

- Gianni, ma ti sembrano tempi, questi?-<br />

Falisco si conquistava a fatica il suo ruolo nella<br />

stanza. Erano donne poco abituate a parlare <strong>di</strong> sè<br />

davanti agli uomini. E inclini alle tra<strong>di</strong>zioni orali<br />

<strong>di</strong> casa, piuttosto che alle promesse dello shiatsu.<br />

- prego, continuate -<br />

tentava Falisco, ma era impossibile continuare.<br />

Già era <strong>di</strong>fficile rilassarsi su quelle se<strong>di</strong>e così<br />

scomode. Quando arrivava lui, poi, bisognava<br />

chiedergli se è vero che il brodo fa fare più latte,<br />

che non si può lavare il pavimento. Che il<br />

prezzemolo fa abortire. Il prezzemolo non fa<br />

abortire, invece la respirazione <strong>di</strong>aframmatica da<br />

seduti faceva venire a tutte il singhiozzo: e Ilaria<br />

65


quando tornava a casa doveva aspettare sempre,<br />

prima <strong>di</strong> telefonare a sua cognata Chiara.<br />

Chiara le raccontava della ginnastica in acqua,<br />

della piscina messa a <strong>di</strong>sposizione dal comune, e<br />

lei allora si era inventata una storia: una piscina<br />

interna al Policlinico<br />

- parola mia - concludeva da là - non me lo<br />

ricordavo che al policlinico c’erano queste<br />

strutture<br />

A pezzi e intervalli, cambiando i giorni e i<br />

pa<strong>di</strong>glioni, ma rincontrandosi sempre, per il solo<br />

fatto <strong>di</strong> volerlo, avevano cominciato a conoscersi.<br />

Infondo, pensava Ilaria, non era quello il tempo<br />

per lo stretching, ma per non sentirsi sole.<br />

La sfera incandescente del respiro new age<br />

esplodeva nell’ansia <strong>di</strong> raccontarsi i nuovi<br />

cambiamenti scoperti sui corpi, quei corpi adulti<br />

che si pensava non sarebbero cambiati più.<br />

Falisco era <strong>di</strong>ventato una presenza tollerata anche<br />

nei <strong>di</strong>scorsi più intimi, le inseguiva, il dottore, in<br />

una caccia al tesoro allo smontare del turno.<br />

Arrivava, alla fine, ma le donne avevano già fatto<br />

da sole, avevano già rovesciato sul pavimento<br />

della stanza lo stupore e l’orrore e la gioia della<br />

loro con<strong>di</strong>zione.<br />

66


La città era in ritardo, ma le donne arrivavano in<br />

tempo, puntuali, alle tre.<br />

Poi un giovedì Ilaria arrivò prima. A pranzo le erano<br />

cominciate le contrazioni, e l’avevano portata<br />

all’accettazione per il ricovero. Alle tre si andava<br />

ancora bene: si era imposta <strong>di</strong> passeggiare, invece <strong>di</strong><br />

star stesa come avrebbe preteso un’infermiera, e così<br />

il tempo tra una contrazione e l’altra si era fatto più<br />

pieno.<br />

Chiara l’aveva chiamata da Linate: si era messa sul<br />

primo aereo.<br />

Alle tre si andava ancora bene, Ilaria percorreva il<br />

corridoio: seguiva la fuga delle mattonelle. Quando<br />

arrivava al battiscopa, ruotava sui talloni arrossati e<br />

ricominciava nel senso opposto; alla se<strong>di</strong>cesima volta<br />

si era girata e se le era trovate davanti, le amiche del<br />

corso.<br />

-ciao- si erano dette. E poi niente più. Si<br />

guardavano, ma i loro occhi andavano oltre la<br />

curiosità: le donne assorbivano il suo dolore,<br />

come un branco. Come compagne <strong>di</strong> scuola a un<br />

esame, impe<strong>di</strong>vano che la sua ansia <strong>di</strong>ventasse<br />

solitu<strong>di</strong>ne. Appena arrivava una contrazione<br />

respiravano per sincrono vitale tutte assieme.<br />

67


Erano rimaste così per quasi quattro ore. Il tempo<br />

per Chiara <strong>di</strong> atterrare a Capo<strong>di</strong>chino e spiegare<br />

al tassista che nella circumvallazione esterna<br />

vanno tutti in senso antiorario.<br />

Il pomeriggio aveva avuto la sua svolta decisiva<br />

all’arrivo <strong>di</strong> un me<strong>di</strong>co. La presenza <strong>di</strong> quella<br />

maestranza gli aveva fatto capire che c’era poco<br />

da scherzare, o da fare ritardo, da fumare sigarette<br />

o da pensare ad altro<br />

- dottò - aveva detto una - l’avete spento il<br />

cellulare?-<br />

Quello si era girato sorridendo perché pensava a<br />

una battuta. Ma gli sguar<strong>di</strong> che aveva incrociato<br />

erano serissimi, aggressivi e minacciosi.<br />

Esigevano rispetto, <strong>di</strong> più: deferenza e<br />

professionalità<br />

- sì- aveva risposto il me<strong>di</strong>co con un filo <strong>di</strong> voce.<br />

Ilaria ci pensa spesso ora che tutte hanno<br />

partorito, e recuperato il sonno, e riconquistato la<br />

voglia <strong>di</strong> truccarsi e uscire, e che ognuna è stata<br />

risucchiata dalla sua vita, dal suo basso, o dal suo<br />

quartino al terzo piano, dal marito, dal lavoro, dai<br />

servizi e dalla spesa. Ora che non hanno più nulla<br />

in comune pensa spesso a quel momento quando,<br />

seguendo il me<strong>di</strong>co, si era voltata a guardare le<br />

68


sue compagne prima <strong>di</strong> entrare in sala parto, e<br />

aveva avuto do<strong>di</strong>ci cuori, e ventiquattro polmoni<br />

e decine <strong>di</strong> mani e un unico respiro da soffiare a<br />

suo figlio.<br />

Chiara era riuscita a salutarla con la mano da <strong>di</strong>etro le teste delle<br />

altre, poi doveva essersi gettata su una se<strong>di</strong>olina a esaminare le<br />

salopette che la circondavano:<br />

- voi siete le amiche del corso pre-parto?-<br />

- sshhh- avevano risposto loro serie.<br />

A Chiara doveva esser sembrato assurdo: con<br />

cinque parti in contemporanea, e un continuo<br />

passeggio <strong>di</strong> gente nel corridoio, e le sirene<br />

dell’ambulanza che pure ci arrivavano fin lì, a<br />

Chiara doveva parere davvero che non ci fosse<br />

bisogno <strong>di</strong> abbassare la voce. Ma non aveva<br />

voluto essere da meno, e quasi sussurrando aveva<br />

ripreso:<br />

- e la piscina, dov’è?-<br />

Il mare magnum delle possibilità<br />

<strong>di</strong> Antonio Pascale<br />

Da una decina <strong>di</strong> minuti mi stavo aggirando, da solo, in un<br />

pa<strong>di</strong>glione d’ospedale, al buio. Cercavo <strong>di</strong> raggiungere la<br />

stanzetta del dottore <strong>di</strong> turno. Camminavo per raggiungere<br />

la stanzetta in fondo al corridoio che m’avevano detto, si<br />

<strong>di</strong>stingueva dalle altre, perché era illuminata.<br />

Effettivamente c’era una luce, ma molto fioca.<br />

69


Cercavo <strong>di</strong> raggiungere la stanzetta del dottore <strong>di</strong> turno,<br />

perché mi faceva male il braccio. La gentilissima<br />

infermiera, capelli rossi, corpo massiccio, che cantava<br />

canzoni napoletane, ma senza strascicare le parole né<br />

calcando la voce nei momenti topici, l’infermiera, <strong>di</strong>cevo,<br />

prima <strong>di</strong> rimboccarmi le coperte, m’aveva rassicurato: “se ti<br />

fa male il braccio vai dal dottore e ti fai fare l’iniezione”.<br />

Solo due giorni prima stavo giocando a impennare con la<br />

bicicletta. Tutta la strada, più <strong>di</strong> cento metri, su una ruota<br />

sola. Avevo 13 anni, era giugno, fra pochi giorni avrei fatto<br />

l’esame <strong>di</strong> terza me<strong>di</strong>a, e poi mare, finalmente il mare.<br />

Non m’ero fatto male perché impennavo. Appena sceso<br />

dalla bicicletta, nemmeno messo piede sul marciapiede, una<br />

moto m’aveva travolto. Il centauro stava cercando <strong>di</strong><br />

imitarmi, andava anche lui su una ruota, però sul<br />

marciapiede. Che poi è un vecchio vizio del sud, occupare i<br />

marciapie<strong>di</strong>.<br />

Il tizio su una ruota, Gianluca Citarella, mi ha visto alla fine,<br />

troppo tar<strong>di</strong>. Ho messo le mani avanti per ripararmi e ho<br />

fatto male, subito il braccio sinistro aveva ceduto con una<br />

specie <strong>di</strong> rumore che adesso non saprei definire. Un brutto<br />

rumore, comunque.<br />

La <strong>di</strong>agnosi: ra<strong>di</strong>o e urna rotti. Si trattava <strong>di</strong> una frattura<br />

scomposta ed esposta, in quando, non solo le ossa avevano<br />

ceduto in più punti, ma un pezzo d’urna aveva bucato<br />

l’avambraccio ed era uscito fuori. La visione del fenomeno<br />

(la fuoriuscita dell’osso) aveva causato lo svenimento<br />

dell’impennatore, il suddetto Gianluca Citarella, 15 anni, e<br />

<strong>di</strong> Matteo u’chioz, così detto, perché aveva la tendenza a<br />

incantarsi davanti a qualcosa <strong>di</strong> sconosciuto e ciondolare la<br />

testa avanti e in<strong>di</strong>etro con la bocca aperta. Soprannome<br />

volgare, devo ammetterlo.<br />

Matteo, dopo un lungo momento <strong>di</strong> ciondolamento, anche<br />

lui <strong>di</strong> fronte al fenomeno inatteso era svenuto, battuto la<br />

testa e si era ritrovato con me al pronto soccorso.<br />

Se mi ricordo bene: cinque punti.<br />

70


Quando mi tirarono il braccio per sistemarlo, gridai con<br />

tutto il fiato. Non ricordo però il dolore, ma solo il grido,<br />

prolungato, alla fine del quale toccò a mia madre svenire, e<br />

Matteo appena me<strong>di</strong>cato, ebbe un conato <strong>di</strong> vomito.<br />

Comunque, causa dolore intenso, non fu possibile<br />

sistemarmi il braccio, dunque, subii la mia prima operazione<br />

(ne ho avute tre) e la mia prima anestesia. Per inciso, un<br />

brutto momento il risveglio, non mi riuscivo a riprendere,<br />

tutto il pomeriggio a cercare <strong>di</strong> capire cosa mai mi era<br />

successo, perché vedevo i contorni delle cose sfocate e<br />

perché mai sentivo un peso sul torace.<br />

Eppure m’avevano preparato a dovere. L’infermiera il<br />

giorno prima m’aveva rasato il braccio cantando, poi sorriso<br />

e detto: non ti preoccupare è cosa ’e niente.<br />

L’anestetista, la mattina presto, m’aveva stor<strong>di</strong>to con<br />

un’iniezione preparatoria e poi ero entrato in sala operatoria,<br />

sotto questa grande lampada che, prima del buio, ricordo si<br />

muoveva come un <strong>di</strong>sco volante che prende ora ora il volo.<br />

Ma la suggestione era personale, in quel periodo ero fissato<br />

con gli u.f.o.<br />

Adesso, <strong>di</strong> notte, dopo l’operazione, camminavo da solo:<br />

siccome volevo essere un ragazzino coraggioso, non avevo<br />

permesso a nessuno <strong>di</strong> rimanere: tanto ce la faccio<br />

benissimo; <strong>di</strong> notte, <strong>di</strong>cevo, il braccio mi faceva così male<br />

che m’ero alzato e stavo cercando, lungo il pa<strong>di</strong>glione buio,<br />

questo sprazzo <strong>di</strong> luce che mi restituisse un po’ <strong>di</strong> pace.<br />

“E’ cosa <strong>di</strong> niente”, aveva detto il dottore, “una puntura e<br />

passa la paura” Infatti mi sentii meglio.<br />

Ora, io, alla fine dei conti, non posso rimproverare niente ai<br />

dottori, sono stati bravi e gentili, tranne una cosa. Dicevano<br />

sempre così: “ non da retta, è cosa ’e niente ”, e invece,<br />

almeno per me, non era cosa <strong>di</strong> niente. Insomma m’aveva<br />

detto che dopo l’operazione, tempo due giorni e stavo a<br />

casa, che avrei tolto il gesso tempo 30 giorni, e dunque, ad<br />

agosto avrei fatto i bagni e la vita sarebbe ricominciata.<br />

Non era così, i dottori lo sapevano già da prima come<br />

davvero sarebbero andate le cose. Me ne accorsi solo alla<br />

fine: intorno a me, era stato costruito un castello <strong>di</strong><br />

menzogne.<br />

71


Non potevo lasciare subito l’ospedale, dovevo starci un’altra<br />

settimana. Lo sapeva anche mio padre e non me l’aveva<br />

detto. Non potevo togliere il gesso dopo 30 giorni, avrei<br />

dovuto portarne un altro, <strong>di</strong> quelli a mezzo braccio, per altri<br />

15. Dunque, niente bagni. In più, avrei dovuto fare<br />

fisioterapia da subito, e allora: niente vacanze.<br />

Quando me lo <strong>di</strong>ssero, io me ne stavo nel letto a leggere i<br />

fantastici quattro, la puntata dove fa la sua prima<br />

apparizione Silver Surfer, l’araldo dell’imbattibile Galactus<br />

che vuole <strong>di</strong>struggere la terra. Mi piacque subito Silver<br />

Surfer, e ancora adesso ho un ricordo vivissimo delle sue<br />

gesta. La parte del fumetto quando capisce che gli abitanti<br />

della terra non sono misere formiche da uccidere solo per<br />

dare energia a Galactus, ma, al contrario, essere umani che<br />

soffrono, gioiscono e, soprattutto, sono capaci <strong>di</strong> emozioni<br />

irriducibili, quella parte, mi dava un senso <strong>di</strong> commozione e<br />

<strong>di</strong> incanto che allora non sapevo spiegarle.<br />

Tutto questo precedette l’affermazione del me<strong>di</strong>co. Un’altra<br />

settimana in ospedale, poi ve<strong>di</strong>amo come va. Guardai mio<br />

padre per chiedere conferma alle parole del dottore e mio<br />

padre <strong>di</strong>sse: “sì, è così”, lui già lo sapeva.<br />

Quello che seguì da parte mia, fu il pianto più lungo, più<br />

sincero e pieno, addolorato della mia vita, almeno fino a<br />

questo momento.<br />

Non ricordo <strong>di</strong> aver mai più pianto in quel modo. Né ricordo<br />

una sola volta in cui mi sia sentito tanto solo, incompreso,<br />

mai più, nemmeno dopo le prime cotte o i primi abbandoni.<br />

Mai ricordo un dolore così siderale, nemmeno Silver Surfer,<br />

così sensibile al sentimento della razza umana, avrebbe<br />

potuto coglierlo.<br />

Perché mi avevano mentito? cosa c’era sotto? Cosa c’era<br />

dentro il mio gesso che non andava? E se m’avevano<br />

mentito una volta, come potevo fidarmi adesso?<br />

Se pochi giorni prima, percorrendo il corridoio buio, da<br />

solo, pensavo <strong>di</strong> essere già un uomo capace a tre<strong>di</strong>ci anni <strong>di</strong><br />

affrontare non solo la strada in bilico su una ruota, ma anche<br />

<strong>di</strong> non farsi influenzare dai troppi lamenti dei pazienti,<br />

andare <strong>di</strong>ritto a chiedere un analgesico, sicuro <strong>di</strong> me,<br />

72


in<strong>di</strong>pendente, all’improvviso, mi rendevo, labilmente, conto,<br />

che <strong>di</strong>pendevo non solo dagli altri, ma dalle loro bugie.<br />

E così, il dolore che non ricordo <strong>di</strong> aver sentito quando<br />

tentavano <strong>di</strong> sistemarmi il braccio, mi tornava adesso<br />

in<strong>di</strong>etro, in maniera inqualificabile. Non potevo sopportarlo,<br />

perché non potevo capirlo. Ero un bambino costretto a<br />

rimangiarsi il proprio muco.<br />

Piansi per molto tempo, se adesso chiudo gli occhi, ricordo<br />

bene il silenzio dei colleghi <strong>di</strong> camera, tutti più gran<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

me. Signori anziani che da tre giorni scherzavano con me, si<br />

voltarono dall’altra parte, dovevo apparirgli inconsolabile.<br />

Ma c’è un’altra cosa ricordo, il risveglio del giorno dopo, <strong>di</strong><br />

pomeriggio, appena passata la controra. Accanto al letto,<br />

c’era ancora mio padre, mi sorrise e <strong>di</strong>sse: “ adesso ce ne<br />

an<strong>di</strong>amo. Ce ne an<strong>di</strong>amo a casa, mi prendo io la<br />

responsabilità ”.<br />

Fu un gesto impulsivo il suo, come spesso faceva. Mio<br />

padre o rimuoveva per anni il dolore, o l’affrontava con<br />

grande impeto. Forse per questo non ricordo aver visto mio<br />

padre piangere, o il dolore era nascosto e non c’era modo <strong>di</strong><br />

farlo venire a galla (se non traslato dalla nevrosi), o doveva<br />

affrontarlo <strong>di</strong> botto, e allora non c’era tempo <strong>di</strong> piangere.<br />

Da quel giorno sono anche io così.<br />

Però, fu il risveglio più bello della mia vita. Mentre mi<br />

vestivo, non ci credevo, e infatti, rinunciai a vestirmi del<br />

tutto, rimasi con il pantalone del pigiama. Mentre andavo in<br />

macchina verso casa, non ci credevo, e guardai con un senso<br />

<strong>di</strong> incantamento, simile a quello <strong>di</strong> Matteo o’chionz, tutto<br />

quello che mi sfilava davanti: pure, anzi soprattutto, le cave<br />

<strong>di</strong> Caserta.<br />

“ La nostra pelle è la nostra storia, non possiamo cancellare<br />

le rughe”. “Il dolore è una costruzione necessaria della<br />

coscienza. Mica ce ne possiamo liberare ”. “ Possiamo<br />

portare il dolore, in uno spazio più umano, sopportabile,<br />

verso un grado <strong>di</strong> sofferenza che si sposa bene con il senso<br />

della infelicità comune. Allora avremmo un’attrezzatura<br />

73


mentale necessaria per sostenerlo. ” Sono alcune frasi che<br />

ho sentito in ospedale, adesso non sono così filologico, le<br />

ricostruisco a memoria.<br />

Non ricordo neanche bene chi le ha pronunciate, credo<br />

sinceramente che siano piccole lezioni <strong>di</strong> vita, molto<br />

sensate: forse, il nucleo attorno al quale si dovrebbe<br />

muovere il concetto (lato) <strong>di</strong> sanità (igienica, mentale,<br />

ospedaliera).<br />

L’ospedale è in fondo un po’ come l’amore, ti fa toccare<br />

cose primor<strong>di</strong>ali, ma (l’ospedale) in più legittima, ed<br />

accoglie e rende sensate, anche quelle brutture umane che la<br />

società ha, invece, messo da parte. Cosa ti chiedono in<br />

fondo i me<strong>di</strong>ci per accertare il tuo recupero fisico dopo<br />

un’operazione: hai fatto l’aria? Sei andato <strong>di</strong> corpo? Detto<br />

da un me<strong>di</strong>co a un malato, l’aria del tuo intestino non ha<br />

nulla <strong>di</strong> ironico, non c’è goliar<strong>di</strong>a spicciola, né aria<br />

barzellettiera. Anzi, al contrario, c’è attesa <strong>di</strong> vita, come<br />

quando ero neo papà e stavo attento ad ogni soffio d’aria <strong>di</strong><br />

mio figlio.<br />

O come quella volta, nella mia seconda esperienza<br />

ospedaliera, quando mi trovai a soccorrere il mio vicino <strong>di</strong><br />

letto che <strong>di</strong> notte era caduto, sbattendo la testa. Alle quattro<br />

<strong>di</strong> notte non c’era nessuno, tranne un infermiere, nemmeno<br />

tanto esperto che gli fece il massaggio car<strong>di</strong>aco, mentre io,<br />

non so perché, tenevo la mano al moribondo. Se ne stava<br />

andando, la mano era fredda e la faccia bianca, finché il<br />

moribondo non si riprese e cominciò a vomitare. Il vomito<br />

era una specie <strong>di</strong> sbuffo vitale <strong>di</strong> un vulcano. Mi macchiò<br />

anche, ma per la prima volta in vita mia non ne fui scosso né<br />

<strong>di</strong>sgustato.<br />

Ero entrato in una <strong>di</strong>mensione nuova: sarà amore? Una<br />

sottospecie? Una sopraspecie?<br />

Adesso, questo paragone, tra ospedale e amore, mi rendo<br />

conto, fatto da una persona sana, può essere fasti<strong>di</strong>oso,<br />

soprattutto verso chi invece ora è in uno stato <strong>di</strong><br />

prostrazione. Ma provo a insistere e argomentare<br />

In alcuni momenti della mia vita (sana), non<br />

necessariamente durante momenti <strong>di</strong> tristezza, ma,<br />

74


purtroppo, soprattutto, durante quelli belli (è questo il<br />

guaio), tutte le volte in cui ho pensato all’amore mi sono<br />

posto la seguente domanda: ma adesso che sono toccato<br />

dall’amore, sono guarito dai miei mali, grazie alla nobiltà<br />

del sentimento (basta la parola?), oppure ho appena iniziato<br />

una dura e lunga convalescenza? Mi sono liberato delle<br />

piccole cose brutali o da queste devo partire per liberarmene<br />

poi in un futuro?<br />

L’amore per me è come quella camminata che da bambino<br />

feci al buio nel pa<strong>di</strong>glione. Ecco, mi rivedo: sono ancora lì,<br />

nel corridoio, oppure ho visto la luce?<br />

Non so ancora rispondere, anche se provo (più o meno) ad<br />

amare, mi porto <strong>di</strong>etro una fissazione, e su questa ritorno<br />

spesso: come sarebbe stata la mia vita, se i dottori mi<br />

avessero detto la verità sul mio braccio? Non era cosa <strong>di</strong><br />

niente, che c’era da penare un po’ <strong>di</strong> più. Se me l’avessero<br />

detto, quanto avrai pianto?<br />

Certo che avrei pianto, ma sicuramente <strong>di</strong> meno, in maniera<br />

più sommessa, controllata, soprattutto perché non avrei<br />

messo in conto il concetto <strong>di</strong> improvvisa menzogna che ti<br />

sorprende e ti inganna.<br />

Me lo chiedo anche perché con il tempo devo avere<br />

introiettato questo concetto. Faccio come mio padre, per non<br />

riconoscere la piccola sofferenza <strong>di</strong>vento impulsivo. So<br />

portare, se l’occasione lo richiede, chiunque lontano da una<br />

situazione dolorosa, ma solo dopo che questa situazione, si è<br />

appunto manifestata. Ho paura <strong>di</strong> soffrire tanto e allora mi<br />

<strong>di</strong>co: tanto è cosa ’e niente? Lasciamo correre, poi <strong>di</strong>o<br />

pensa. Rifaccio l’errore che i dottori fecero a suo tempo con<br />

me. Mi avranno mica marchiato?<br />

“E’ cosa ’e niente”, tipica espressione meri<strong>di</strong>onale, in fin<br />

dei conti, una frase che nella vita può passare inosservata,<br />

ma in ospedale, bè, la situazione è più <strong>di</strong>fficile. Qui, <strong>di</strong><br />

certo, non funziona, forse perché una malattia non è cosa <strong>di</strong><br />

niente, impone un lutto, una riflessione, e bisogna sapere<br />

vivere il proprio lutto, bisogna sapere accettare il periodo <strong>di</strong><br />

maggese. E la con<strong>di</strong>zione necessaria è il riconoscimento<br />

della malattia.<br />

75


Inten<strong>di</strong>amoci, non è così tragica, virata a nero, cupa, in<br />

ospedale si ride anche, ma l’ironia va sotto un co<strong>di</strong>ce<br />

particolare, da malato a malato, non sopporta intrusioni<br />

esterne, queste, quando ci sono, hanno il sapore delle cose<br />

succedanee.<br />

Durante la mia seconda esperienza ospedaliera ho capito<br />

meglio questo concetto <strong>di</strong>, chiamiamolo così: è cosa ‘e<br />

niente, <strong>di</strong>o pensa, anche perché al suddetto concetto se ne è<br />

aggiunto un altro: e dai, ri<strong>di</strong>amoci su.<br />

Mi sono rotto il naso e uno zigomo cadendo dalla moto.<br />

Adolescenza passata ncopp’ a na rota, su motorini truccati, e<br />

poi vado a cadere, in piena tranquilla maturità, scivolando<br />

da cretino perché come un principiante, tiro il freno<br />

anteriore sul bagnato.<br />

Tra l’altro, l’unica volta in cui non portavo il casco.<br />

Operazione <strong>di</strong> tre ore, e fasciatura stretta su tutta la faccia.<br />

Ecco, il momento più deprimente è stato al risveglio, dopo<br />

l’operazione, ma non tanto per lo stato <strong>di</strong> prostrazione ma<br />

perché si sono avvicinati al mio capezzale alcuni volontari<br />

incaricati <strong>di</strong> portare opera <strong>di</strong> conforto ai malati.<br />

Responsabile <strong>di</strong> questo attentato alla mia salute spirituale,<br />

l’ho saputo dopo, sono state le teorie <strong>di</strong> Pack Adams. Un<br />

inciso, so davvero poco su lui, magari è una teoria sensata,<br />

magari è vero che l’ironia è un metodo <strong>di</strong> cura come gli<br />

altri.<br />

Cioè, io adesso non so che i miei assistenti fossero cattivi<br />

<strong>di</strong>scepoli, poco preparati o ancora, cattivi comici, ma ho<br />

vissuto i loro sforzi per farmi ridere con dolore.<br />

Per loro e per me.<br />

Avevano un sorriso stampato sul volto assolutamente<br />

innaturale e con questo ghigno si avvicinavano al mio letto<br />

per consolarmi. Ho tentato <strong>di</strong> non farli avvicinare, ma<br />

siccome avevo la faccia fasciata, mi risultava <strong>di</strong>fficile<br />

parlare, o esprimere un <strong>di</strong>ssenso visibile, e allora un<br />

volontario, il più spregiu<strong>di</strong>cato <strong>di</strong> tutti, ha attaccato<br />

<strong>di</strong>scorso, e ha cominciato a fare lo spiritoso, per raccontarmi<br />

cose comiche e leggere, o altre storie sulla vita fuori<br />

l’ospedale, una vita che dovevo assolutamente riconquistare,<br />

guarendo al più presto.<br />

76


Soprattutto grazie alla loro ironia.<br />

Invece, a me, a parte il fatto che non potevo ridere, fasciato<br />

com’ero, è venuto quasi da piangere. Non per la<br />

commozione, ma per la rabbia.<br />

Perché chi è sventurato fa del tutto per non ricordarsi le<br />

cause della sua sventura o meglio vuole (cerca <strong>di</strong>) riscattarsi<br />

dalla sventura, e non avrà voglia <strong>di</strong> ridere; almeno fino a<br />

quando non riuscirà a pensare <strong>di</strong> farcela da solo, anche<br />

imponendosi un periodo <strong>di</strong> lutto riflessivo. Insomma, non è<br />

cosa ’e niente e <strong>di</strong>o pensa ecc, e ricordare ad un infermo<br />

che fuori la vita è bella, significa fargli sentire ancora più<br />

duramente la sua con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> infermo.<br />

Senza considerare la fatica che feci per sopportare questo <strong>di</strong><br />

fronte a me che stava benissimo, tanto da ridere sulla<br />

bellezza della vita fuori dall’ospedale: è come se ci fossero<br />

due atteggiamenti <strong>di</strong>versi, quella dei miei comici che grazie<br />

alla loro salute mi spronavano, certo a fin <strong>di</strong> bene, a ridere e<br />

a tornare ad essere produttivo, e quella <strong>di</strong> me paziente che<br />

mi dovevo sforzare per ridere.<br />

Questi due atteggiamenti non si incontrano né si<br />

seducevano, restavano <strong>di</strong>stanti e facevano male al più<br />

debole. Guarda caso a me.<br />

Insomma, ebbi il sospetto è che si stava sviluppando una<br />

sorta <strong>di</strong> terapia dell’ironia. Grazie alla quale si rideva cose<br />

superficiali e innocue per scacciare in maniera altrettanto<br />

superficiale lo stress della malattia, e infine tornare al più<br />

presto a produrre.<br />

Ma non ce l’ho con quei volontari, in alcuni momenti, io<br />

non sono tanto <strong>di</strong>verso da loro. Quelli trattavano il dolore<br />

come una cosa risolvibile con una battuta e in questo<br />

rientravano nella categoria: italiani tipici, e io, in maniera<br />

speculare, rispondevo al dolore quando solo questo<br />

<strong>di</strong>ventava eccezionale, patologico, con un soprappiù<br />

d’energia, una <strong>di</strong>sponibilità d’amore che mi sorprende e mi<br />

affatica (in questo sono o non sono tipicamente italiano?).<br />

E’ la vecchia storia, quella frase che ho sentito una volta in<br />

ospedale: “ non possiamo liberarci da dolore, perché non<br />

possiamo liberarci della nostra coscienza, della nostra storia,<br />

77


meglio allora portarlo in una <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> comune<br />

infelicità ”.<br />

Ma per far questo, mi sono chiesto, una volta uscito<br />

dall’ospedale, non sarebbe meglio che queste scariche<br />

passionali, invece che accumularsi, fossero <strong>di</strong>luite nel tempo<br />

Forse uno sguardo più attento e vigile, un processo relazione<br />

tra me<strong>di</strong>co e paziente, un umile protocollo delle cose<br />

quoti<strong>di</strong>ane del paziente, tutte queste cose, potrebbero<br />

rendere più accettabile il dolore.<br />

C’è un’ultima cosa da riferire, e riguarda la mia terza<br />

esperienza ospedaliera. Un anno fa, a settembre, ho preso<br />

un’orticaria, abbastanza violenta ma repentina. Due ore e<br />

tutto era già passato.<br />

“La causa?” Avevo chiesto al dermatologo dell’ospedale.<br />

“Siamo nel mare magnum delle possibilità”, m’aveva<br />

risposto.<br />

Essere nel mare magnum non è una cosa che fa sentire bene,<br />

non sai, appunto, che pesci pigliare, ma non solo: a quale<br />

scoglio aggrapparsi. Fatto sta, mi sono spaventato, e forse<br />

per questo, dopo una settimana, si sono manifestati degli<br />

eczemi sulla schiena.<br />

Di nuovo da un dermatologo, un altro.<br />

Mi ha chiesto, con voce severa, <strong>di</strong> spiegargli i motivi della<br />

mia visita: ho cominciato a parlare e gli ho detto cos’era<br />

successo, ma mi ha subito interrotto: “ mi faccia vedere,<br />

altrimenti non capisco niente ”. Mi ha visitato: “ io sono<br />

noto perché parlo chiaro, sono eczemi con tendenza<br />

psioritica, è colpa dello stress! Lei è stressato, se non si<br />

calma, io le <strong>di</strong>co che si riempirà <strong>di</strong> bolle dalla testa ai pie<strong>di</strong>”<br />

E con il <strong>di</strong>to in<strong>di</strong>ce ha in<strong>di</strong>cato il mio cuoio capelluto ed è<br />

sceso fino ai pie<strong>di</strong>. Vari prodotti al cortisione, niente più<br />

caffè, tutto vestito <strong>di</strong> cotone bianco e via a casa: “ ci<br />

ve<strong>di</strong>amo fra 15 giorni ”.<br />

Ho pensato: questo parla chiaro o è solo una persona<br />

insensibile. Se è colpa dello stress, questo colloquio mi ha<br />

stressato alquanto.<br />

Adesso, non voglio farla lunga, sono peggiorato, pensavo<br />

sempre a quello che m’aveva detto il dermatologo: lei si<br />

riempirà <strong>di</strong> bolle dalla testa ai pie<strong>di</strong>, e tempo 15 giorni, mi<br />

78


sono riempito <strong>di</strong> bolle dalla testa ai pie<strong>di</strong> e mi sono davvero<br />

riempito <strong>di</strong> eczemi e dermatiti (io che mai, neppure i<br />

brufoli). Quello che è peggio è che il mio dermatologo, non<br />

faceva altro che offendermi: “ lei non vuole starmi a sentire,<br />

deve stare calmo, altrimenti non guarisce mai più, qui non<br />

facciamo i miracoli, quelli li chieda a padre pio ”.<br />

Per tutta la vita avevo pensato alla menzogna e alle bugie<br />

dei me<strong>di</strong>ci, adesso mi ritrovavo davanti a uno senza dubbi e<br />

solo certezze, ma come non navighiamo nel mare magnum<br />

delle possibilità?. Come fa a essere così sicuro.<br />

A inizio <strong>di</strong>cembre ero ricoperto per l’80% del corpo da<br />

dermatiti ed eczemi, dunque ricovero, e cortisone in dosi<br />

abbondanti.<br />

Alla fine della cura, ho cambiato dermatologo. Stavo già<br />

lentamente migliorando. Mi ha chiesto cose è successo, l’ho<br />

spiegato e, fatto strano, non mi ha interrotto. Mi ha visitato,<br />

m’ha detto: “ la nostra pelle è la nostra storia, non possiamo<br />

cancellarla. Lei è in via <strong>di</strong> guarigione, in via significa che si<br />

è incamminato su una strada non <strong>di</strong>fficile, ma con qualche<br />

tranello. Ma vede è inutile gridare quando si finisce in un<br />

tranello, dobbiamo evitare le buche, io e lei, insieme,<br />

possiamo farcela, magari lei mi in<strong>di</strong>ca le buche dove è solito<br />

cadere, così io le posso tracciare una rotta più precisa”.<br />

La sua voce calma, il suo tono cadenzato, il suo sguardo<br />

soffice, mi sembrava sincero, non corteggiava né la<br />

menzogna né imponeva la sua verità. E’ vero, proprio<br />

perché stavamo nel mare magnum delle possibilità, mi stava<br />

suggerendo la soluzione.<br />

La mia pelle è tornata normale.<br />

Ps. Finalmente guarito, con la pelle ambrata e forte, il 18<br />

d’agosto, stavo solo a Roma, per le strade non si vedeva<br />

nessuno, sono sceso e mi sono detto: “ è vero, ci vuole<br />

equilibrio e coraggio, per navigare nel mare magnum delle<br />

possibilità, che si fa, si rimuove o si affronta? ”.<br />

Nel dubbio, ho acceso la moto, prima, seconda, colpo <strong>di</strong><br />

frizione ed eccomi, dopo tanti anni, su una ruota, a<br />

percorrere, adesso in terza, la mia strada, viale dei 4° venti,<br />

nome mai così appropriato, me li sentivo, infatti, tutti<br />

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addosso. Non impennavo da 15 anni e da quel 18 d’agosto,<br />

adesso, sono sicuro, non impennerò mai più.<br />

COSE CHE VORREI RACCONTARE<br />

(INTORNO AGLI OSPE<strong>DA</strong>LI)<br />

<strong>di</strong> Francesco Piccolo<br />

Gli uomini in pigiama nei corridoi, che guardano giù, verso la strada,<br />

e giorno dopo giorno la malinconia la perdono, invece <strong>di</strong> farla<br />

lievitare. Il fatto che negli ospedali capita spesso <strong>di</strong> finire ai piani più<br />

alti, chissà perché. Le donne con delle vestaglie imbottite che hanno<br />

visi palli<strong>di</strong> e occhi sfuggenti. Il suono strascicato delle pantofole. Le<br />

mani sui fianchi perché fa male la schiena.<br />

Il rumore <strong>di</strong> stoviglie, a tutte le ore, che non si capisce da dove arriva.<br />

Le scarpette bianche e le calze bianche. Le porte dei reparti che si<br />

aprono e si chiudono rapidamente. Il campanello che suona<br />

inutilmente.<br />

I carrelli con le me<strong>di</strong>cine spinti attraverso i corridoi. Le schede con la<br />

temperatura ai pie<strong>di</strong> del letto. I letti che si alzano e si abbassano con<br />

un meccanismo semplice quando lo hai capito, ma che ci metti un<br />

sacco <strong>di</strong> tempo per capirlo.<br />

Un infermiere che da quando era giovane, decenni fa, continua a dare<br />

fiale <strong>di</strong> voltaren per i dolori muscolari, e si chiede se in questo<br />

ospedale, in questo reparto, in questa sua vita soltanto, il tempo si è<br />

fermato o se ci sono cose per cui il progresso scientifico non esiste,<br />

come per i dolori muscolari appunto. O per l’acne sul viso, visto che<br />

da generazioni gli adolescenti continuano a spalmarsi la faccia <strong>di</strong><br />

topexan e a sentire nelle narici odore <strong>di</strong> zolfo per molti anni. Il<br />

pensiero dell’infermiere quando <strong>di</strong>ce: devo chiedere a qualche collega<br />

<strong>di</strong> qualche altro ospedale. E poi si <strong>di</strong>mentica <strong>di</strong> farlo.<br />

Sonny, il ragazzo de L’ultimo spettacolo <strong>di</strong> Peter Bogdanovich, che<br />

finisce in ospedale dopo una scazzottata con il suo amico, a causa <strong>di</strong><br />

una ragazza, e quando l’infermiera gli porta il bigliettino della sua<br />

amante quarantenne, Ruth, che chiede <strong>di</strong> entrare un solo momento,<br />

Sonny la prega <strong>di</strong> <strong>di</strong>rle che lui sta dormendo. Lo sguardo<br />

dell’infermiera che ha capito tutto, e le <strong>di</strong>spiace, ma poi si gira e va a<br />

<strong>di</strong>re quel che deve <strong>di</strong>re.<br />

Un uomo che accompagna la sua donna fino davanti alla porta e se ne<br />

stanno lì zitti e poi fanno entrare lei e lui deve aspettare fuori e va a<br />

prendere un caffè al bar e poi a passeggiare nel parcheggio assolato.<br />

Poi torna e se ne sta lì fermo, insieme ad altri tre uomini e nessuno ha<br />

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voglia <strong>di</strong> parlare all’altro. Stanno tutti zitti e bevono acqua da piccole<br />

bottiglie. E poi l’infermiera esce e <strong>di</strong>ce all’uomo che sua moglie vuole<br />

vederla. L’uomo pensa alla donna, e si chiede se davvero ha detto<br />

chissà così. Poi l’uomo entra in una stanza <strong>di</strong> sei letti e c’è solo la<br />

donna nel letto. Le prende la mano e le chiede se sta bene. Lei <strong>di</strong>ce sì<br />

e piange. Piange anche l’uomo. E la donna <strong>di</strong>ce: scusami. Piange e<br />

<strong>di</strong>ce scusami, e lui le mette due <strong>di</strong>ta sulle labbra per <strong>di</strong>rle <strong>di</strong> smettere.<br />

Un’infermiera che <strong>di</strong>ce che non le fa affatto impressione che le<br />

tocchino il culo, ma vorrebbe soltanto decidere da chi farselo toccare.<br />

Tutte le volte che sono entrato in ospedale. Le in<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> tutti i<br />

reparti e le frecce. Il ragionamento che bisogna fare, per un attimo, per<br />

mettere in relazione una parte del corpo o un organo interno e il nome<br />

del reparto a cui corrisponde.<br />

Una lista <strong>di</strong> tutti gli ospedali dove sono entrato. Il più lontano è stato<br />

in Sardegna, forse, dopo un incidente in moto. Per il resto, sempre<br />

vicino casa. Questo è tutto quel che mi ricordo: chissà se sono entrato<br />

in qualche altro ospedale più lontano che si è perso nella memoria – e<br />

chissà se lo ritroverò più. In Australia, su un’isola, sono stato in<br />

infermeria – non c’era altro.<br />

Quando ho portato un bambino <strong>di</strong> otto anni che era caduto in palestra<br />

e che voleva che gli tenessi la mano mentre gli mettevano i punti<br />

sull’arcata sopracciliare. Del coraggio che in quel momento mi sono<br />

imposto e <strong>di</strong> come ho guardato tutto senza che mi facesse impressione<br />

solo per il fatto che lui contava sul mio coraggio. Quante volte, poi, mi<br />

è sembrato <strong>di</strong> averlo perduto e quante volte <strong>di</strong> averlo riconquistato.<br />

Quando è nata mia figlia – ma questo non vorrei raccontarlo, forse:<br />

troppo pudore; oppure perché farei come quelli che non sanno scrivere<br />

i racconti e non fanno altro che <strong>di</strong>re che era così emozionante, era<br />

bellissimo, era indescrivibile. Forse scriverei: non potete capire.<br />

Quando in una clinica mi hanno detto che potevo pagare soltanto in<br />

contanti, non con carta <strong>di</strong> cre<strong>di</strong>to né bancomat né assegno, una roba <strong>di</strong><br />

parecchie centinaia <strong>di</strong> euro, come se la gente uscisse <strong>di</strong> casa con<br />

pacchi <strong>di</strong> sol<strong>di</strong> come i benzinai. E quell’intervento chirurgico, il<br />

primario me lo faceva a un prezzo se al nero e a un altro se con<br />

fattura. Questo, detto nello stesso momento in cui mi ha detto che<br />

bisognava operare.<br />

Quella poesia <strong>di</strong> Carver in cui il dottore gli <strong>di</strong>ce che non c’è più niente<br />

da fare, e lui ricorda che gli stringe la mano e poi scrive cercando <strong>di</strong><br />

ricordare: “mi sa che l’ho pure ringraziato”.<br />

L’anestesia locale per un intervento al setto nasale, peraltro mal<br />

riuscito a tal punto che forse ora sto peggio <strong>di</strong> prima. Il ricordo<br />

perfetto che ho <strong>di</strong> qualcosa che mi raschiava l’osso o premeva con<br />

forza. Del sangue che qualcuno mi tamponava ogni tanto – per me<br />

solo un liquido buio che scorreva, perché non ho mai aperto gli occhi.<br />

La camera mortuaria, sul retro dell’ospedale <strong>di</strong> Caserta, dove sono<br />

stato almeno tre volte. Quell’entrata anonima. E quel che bisogna<br />

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capire si capisce soltanto grazie ai vestiti eleganti lì fuori, e alla<br />

<strong>di</strong>fferenza tra i visi palli<strong>di</strong> e i vestiti scuri.<br />

La piccola camera dove abbiamo aspettato ore che mio zio morisse,<br />

non che si salvasse, ma che morisse. Il silenzio che c’era. La nostalgia<br />

che provavo ogni volta che me ne andavo per tornare a casa. Ero<br />

aggrappato a quella piccola camera con morbosità e tutto quel che<br />

m’importava era tornarci presto.<br />

Quell’ospedale dove Nicolas Cage porta i malati con la sua ambulanza<br />

nel film <strong>di</strong> Scorsese.<br />

Quell’ospedale <strong>di</strong> Battipaglia dove sono finito per una rissa su un<br />

campo <strong>di</strong> basket, con il me<strong>di</strong>co che mi me<strong>di</strong>cava e i tifosi della<br />

squadra avversaria che mi aspettavano fuori. E io che avrei voluto<br />

rimanere lì dentro anche per tutta la vita.<br />

Quel momento in cui metti la testa nelle camere in cerca della persona<br />

che cerchi, e i malati e i parenti si voltano a guardarti, senza fasti<strong>di</strong>o,<br />

perché ti capiscono, è successo anche a loro, poco prima o in passato.<br />

Il vecchio che si gira e rigira nel letto e sbuffa per far capire al vicino<br />

e ai suoi parenti che stanno parlando ad alta voce, e che lui non sta<br />

bene e vuole starsene in pace. E che intanto pensa anche che beato lui<br />

che ha tutta quella gente intorno.<br />

Il modo <strong>di</strong> parlare a bassa voce da parte <strong>di</strong> chiunque.<br />

Quella volta che hai visto un tuo amico nel letto, pieno <strong>di</strong> fili, che<br />

aveva avuto l’infarto e lui ha fatto esattamente quel che tu ti aspettavi:<br />

si è messo a scherzare sulla morte e su quanto l’avesse sfiorata. Ma tu<br />

e lui sapevate che non era uno scherzo e tu e lui sapevate che tutto<br />

questo non riguardava soltanto lui ma anche te, e tutti, che<br />

all’improvviso dovevate pensare a quel che avevate evitato <strong>di</strong> pensare.<br />

Il momento in cui qualcuno finalmente acconsentirà a spostare l’orario<br />

della cena un po’ più tar<strong>di</strong>, un momento che sarà epocale e toglierà dal<br />

capo <strong>di</strong> tutti i ricoverati in questo paese una grande percentuale <strong>di</strong><br />

malinconia indefinibile, collocata tra le sette e le <strong>di</strong>eci <strong>di</strong> sera. Un<br />

tempo troppo lungo per la malinconia.<br />

Un anestesista che addormenta la ragazza che bisogna operare e si<br />

guarda intorno e ha un minuto <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne, un minuto <strong>di</strong> potenza<br />

totale e se la scopa velocemente <strong>di</strong> nascosto, appena davanti alla sala<br />

operatoria. Lei non lo saprà mai chiaramente, ma un po’ lo saprà<br />

sempre, in qualche parte del suo corpo lo sentirà.<br />

Un me<strong>di</strong>co che non è mai stato me<strong>di</strong>co ma è comunque bravo.<br />

Tutti i ferri <strong>di</strong>menticati dentro e <strong>di</strong> tutti gli esseri umani salvati in<br />

tempo.<br />

Le barelle negli ascensori.<br />

Guido Tersilli.<br />

La commozione che ti prende quando qualcuno che ami esce<br />

addormentato dalla sala operatoria. Quando la donna che amo,<br />

uscendo, ha chiesto nella confusione del risveglio io dov’ero.<br />

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Come ti senti e se ti fanno male i punti. Dopodomani sicuro me ne<br />

mandano, ma io vorrei chiedere al dottore se mi manda a casa domani,<br />

tanto sto bene.<br />

Una volontaria che scende dall’autobus ed entra in ospedale. Infila il<br />

camice bianco e si siede accanto al primo letto per chiacchierare con il<br />

primo malato; poi col secondo. Più che chiacchierare, ascolta, ascolta<br />

tutti i guai con aria comprensiva e dona una parola <strong>di</strong> conforto, che ha<br />

imparato col tempo a non sentire inutile, anche quando è sempre la<br />

stessa, perché altre non ne ha. Ma sa che si depositerà accanto a quel<br />

letto con soli<strong>di</strong>tà e qualcuno, qualche ora dopo, vi si aggrapperà come<br />

alla cosa migliore della giornata. E poi alla fine del suo turno si toglie<br />

il camice e prende <strong>di</strong> nuovo l’autobus e mentre se ne sta seduta a<br />

guardare fuori, si chiede se troverà qualcuno adesso che ascolterà quel<br />

che ha da <strong>di</strong>re lei, perché <strong>di</strong> cose da <strong>di</strong>re ne ha molte, almeno quante<br />

ne ha ascoltate.<br />

Il momento in cui un malato capisce che da quest’ospedale non se ne<br />

andrà più.<br />

Il conforto tutto meri<strong>di</strong>onale che si prova quando qualcuno ci <strong>di</strong>ce che<br />

in ospedale c’è il cugino della nuora <strong>di</strong> Antonietta, o la sorella<br />

dell’amica <strong>di</strong> zio Giuliano. E come corriamo a cercare quella persona<br />

che ci dovrebbe garantire, grazie a parentele lontane o ad amicizie <strong>di</strong><br />

amicizie, quella attenzione che altrimenti siamo sicuri che non<br />

avremmo.<br />

Il nido e tutti quelli che alitano contro il vetro e in<strong>di</strong>cano il proprio<br />

figlio, il nipote, la sorellina. La capacità umana in quel momento <strong>di</strong><br />

sentirsi tutti insieme e <strong>di</strong> preoccuparsi <strong>di</strong> tutti i neonati, non solo del<br />

proprio.<br />

Il pavimento appena lavato.<br />

Tutti quelli che andavano a trovare Elsa Morante durante tutto il<br />

tempo della malattia.<br />

Fuori la sala parto, un uomo che aspetta prende per nervosismo una<br />

rivista dal tavolo e comincia a leggere con <strong>di</strong>strazione la storia <strong>di</strong> una<br />

tribù dell’Australia del nord che si ciba solo <strong>di</strong> serpenti. E si <strong>di</strong>strae. E<br />

il tempo passa. E quando lo chiamano, lui quasi s’era <strong>di</strong>menticato <strong>di</strong><br />

essere lì.<br />

L’odore d’antisettico e il sangue lavato e il vomito lavato.<br />

Carlo Emilio Gadda quando scrisse Anastomosi (che all’inizio doveva<br />

intitolarsi Ablazione del duodeno per ulcera) continuava ad andare<br />

nelle ore più impensate nel pa<strong>di</strong>glione <strong>di</strong> chirurgia dell’Ospedale<br />

Maggiore, dove aveva conosciuto suor Umile, e verificava<br />

maniacalmente i nomi tecnici <strong>di</strong> quell’intervento chirurgico: forbici,<br />

bisturi, aghi, pinze <strong>di</strong> Kocher.<br />

Quando passa l’ambulanza poi, ci si ferma sempre un attimo a<br />

ripensare ad “aznalubma”, e se pure si sa bene cosa significhi, si resta<br />

lì a controllare se anche su questa ambulanza è scritto correttamente.<br />

In ogni caso continua a sembrarti assurdo che lo abbiano scritto al<br />

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contrario, perché tu in fondo te la trovi <strong>di</strong> fronte, e perché in ogni caso<br />

non capisci la vera utilità. Anche se sai a cosa serve, ti sembra<br />

sbagliato.<br />

Un carrello assurdo e coloratissimo percorre la corsia <strong>di</strong> un ospedale,<br />

lo spinge una donna, contro la porta a vetri del reparto <strong>di</strong> neurologia<br />

infantile. Entra nelle stanze riservate ai giochi dove i bambini malati<br />

vengono <strong>di</strong>stratti per alcune ore. Quando la vedono, i piccoli le vanno<br />

incontro. La donna apre il suo carrello magico e tira fuori pennelli,<br />

colori, creta, pongo, fogli, pupazzi. I bambini la assaltano. Tutti<br />

eccetto uno che rimane in <strong>di</strong>sparte vicino alla finestra, osserva <strong>di</strong><br />

sottecchi i suoi coetanei giocare mentre finge <strong>di</strong> interessarsi al<br />

paesaggio. Fuori fa freddo e sta nevicando. La donna raggiunge il<br />

piccoletto, che ha nove anni.“Tu non giochi?” Il bambino scuote la<br />

testa. “Dai fammi un <strong>di</strong>segno.” Lascia le cose lì. Ora una giovane<br />

mamma preoccupata sta parlando con lei. Dice che da tre mesi il figlio<br />

è strano. E’ sempre stato un bambino un po’ particolare, ma adesso è<br />

<strong>di</strong>verso, spesso resta immobile a fissare il vuoto, altre volte si agita e<br />

comincia a camminare avanti e in<strong>di</strong>etro, si porta le mani alle orecchie,<br />

cade preda <strong>di</strong> convulsioni, come è successo oggi, per questo è qui. La<br />

donna torna a vedere cosa ha combinato il bambino. Apre la porta e si<br />

ritrova davanti a una scena incre<strong>di</strong>bile. Il bambino sta colorando con<br />

tutti i pastelli che ha delle strisce articolate, come delle ramificazioni,<br />

su tutto il pavimento e sui muri fin dove riesce ad arrivare, anche in<br />

alto aiutandosi con una se<strong>di</strong>a. Il bambino si volta e la guarda con uno<br />

sguardo terrorizzato.<br />

Il grande ospedale <strong>di</strong> Avola, sulla strada venendo da Cassibile, sorto<br />

nel luogo dove nei famosi scontri <strong>di</strong> più <strong>di</strong> trent’anni fa morirono<br />

Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia. Resistono ancora i carrubi sul<br />

ciglio della strada e molti metri <strong>di</strong> quel muretto fatto <strong>di</strong> pietre da dove<br />

i braccianti strapparono le più grosse per spargerle sulla strada mentre<br />

battevano in ritirata, così che le camio<strong>net</strong>te della polizia non potevano<br />

inseguirli. Anzi, quelle pietre enormi stanno ancora lì, buttate accanto<br />

ai muretti dalla parte dei campi. Accanto alla cancellata dell’ospedale,<br />

ben nascosta ormai da piante che sembrano crescere man mano che la<br />

memoria della trage<strong>di</strong>a si allontana, c’è una sorta <strong>di</strong> piccolo<br />

monumento ai due caduti. Dei campi <strong>di</strong> mandorli che c’erano<br />

tutt’intorno, qui non c’è traccia.<br />

La prima raccomandazione. Involontaria. Con la madre che parla con<br />

conoscenti per avere la camera singola o al massimo doppia in<br />

ospedale o in clinica oppure si raccomanda alle infermiere per avere il<br />

neonato un po’ <strong>di</strong> più tra le braccia.<br />

Il me<strong>di</strong>co tedesco che punta il <strong>di</strong>to contro Massimo Troisi e gli <strong>di</strong>ce:<br />

“Il suo amico è pletorico”.<br />

Philip Roth che scrive a proposito della sua solitu<strong>di</strong>ne: “Se mi sveglio<br />

alle due <strong>di</strong> notte e mi viene in mente un’idea, accendo la luce e scrivo<br />

in camera da letto. Lavoro, sono sempre reperibile. Sono come un<br />

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dottore <strong>di</strong> un reparto <strong>di</strong> me<strong>di</strong>cina d’urgenza. E sono anche il caso<br />

urgente.”<br />

Un uomo giovane e forte che finisce in ospedale. In pieno agosto. E si<br />

rende conto soltanto in quel momento <strong>di</strong> quanto si possa essere soli.<br />

L’avvocato in aereo ne Il dolce domani <strong>di</strong> Atom Egoyan, quando<br />

racconta <strong>di</strong> sua figlia Zoe che a tre anni era stata morsa da una vedova<br />

nera e si gonfiava e mentre la portava in ospedale aveva un coltellino<br />

ed era pronto a fare un taglio alla gola, per farla respirare, come aveva<br />

detto il me<strong>di</strong>co.<br />

Il sollievo <strong>di</strong> un malato, dopotutto, <strong>di</strong> sentirsi in un luogo dove tutti si<br />

occupano <strong>di</strong> quel che a lui più importa: la malattia. La possibilità <strong>di</strong><br />

parlare della malattia propria e <strong>di</strong> quella degli altri.<br />

Il freddo della macchina che si posa sulla pelle nuda per farti la<br />

ra<strong>di</strong>ografia. Il rumore silenzioso dell’attimo in cui l’interno del tuo<br />

corpo viene svelato.<br />

Tutte quelle auto parcheggiate al sole o sotto la pioggia. Tutta quella<br />

gente che entra negli orari <strong>di</strong> visita. Tutte le scatole <strong>di</strong> cioccolatini,<br />

tutte le pagine <strong>di</strong> libri letti, tutti i giornali sfogliati e tutti i caffè tirati<br />

fuori dalle macchi<strong>net</strong>te automatiche. Tutte le notti, anche. Con quelli<br />

che rimangono a far compagnia e si addormentano vestiti sul letto<br />

rimasto libero. Tutti quelli che vengono ricoverati, nel momento in cui<br />

glielo <strong>di</strong>cono – tutti quelli che possono andarsene, nel momento in cui<br />

glielo <strong>di</strong>cono. Tutti quelli che rimangono soli alla fine delle visite.<br />

Tutti quelli che non mangiano. Tutti quelli che soffrono. La quantità<br />

<strong>di</strong> dolore fisico che si accumula, ogni giorno. Tutti i minuti <strong>di</strong> pace.<br />

Tutti i sonni agitati. Tutti i risvegli improvvisi e quell’attimo prima <strong>di</strong><br />

accorgersi <strong>di</strong> essere davvero qui, in ospedale.<br />

E poi un giorno, un solo giorno, in cui possa succedere il miracolo <strong>di</strong><br />

un ospedale che si svuota completamente, in cui non c’è neanche un<br />

malato, se ne attende qualcuno per domani, pare, ma oggi no. I me<strong>di</strong>ci<br />

che si guardano increduli, indecisi sul da farsi – come i professori a<br />

scuola in un giorno <strong>di</strong> sciopero degli studenti; oppure come un<br />

programma ra<strong>di</strong>ofonico senza nemmeno un ascoltatore. Un giorno<br />

così. E qualcuno che <strong>di</strong>ca qualcosa, su questo. Ma ancora non so cosa.<br />

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