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cittadinanza attiva - Archivio "Pace diritti umani"

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come era stata semplificata e insieme estesa a più ambiti dal trattato di Amsterdam, in attesa di ulteriori<br />

passi in avanti in occasione di un futuro trattato.<br />

Molto legato al tema di questa risoluzione era poi il tema della risoluzione del 16 settembre 1998<br />

“sulla revisione delle modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione<br />

– “comitatologia” (decisione del Consiglio del 13 luglio 1987)”. Il problema era dato dal<br />

fatto che la Commissione, da sempre detentrice sia dell’iniziativa legislativa, sia della funzione esecutiva,<br />

manteneva, pur nella sua nuova posizione di responsabilità anche di fronte al PE, una prassi<br />

tradizionale che tendeva a far passare atti di natura legislativa per atti esecutivi e quindi rientranti<br />

nelle proprie competenze, con il risultato di “vanificare” l’attività legislativa, basata ormai sulla<br />

procedura di codecisione Consiglio-PE. La produzione di questi atti pseudo-esecutivi trovava la sua<br />

origine nei cosiddetti “comitati”, inseriti all’interno della non trasparente e tanto meno democratica<br />

macchina burocratica della Commissione. Alla radice di questa paradossale situazione stava il problema<br />

generale, mai affrontato in modo idoneo dai trattati e posto ora con forza dal PE, “della definizione<br />

e della classificazione degli atti” comunitari. La strada indicata dal PE per sciogliere questo<br />

equivoco era allora quella della creazione almeno di una chiara distinzione fra atti legislativi e atti<br />

esecutivi, per mezzo della seguente definizione “provvisoria” degli atti esecutivi: “per misure di esecuzione<br />

si devono intendere , fra l’altro, tutte quelle misure che non modificano, completano o<br />

aggiornano gli aspetti essenziali delle norme di base [ossia degli atti legislativi] e che queste ultime<br />

non possono essere modificate nemmeno qualora il Consiglio si avvalga di una competenza esecutiva.”<br />

269<br />

Quanto alle prospettive a più lungo termine, il PE adottava poi la risoluzione del 22 ottobre 1998<br />

“sulla preparazione della riunione dei capi di Stato e di governo dell’ottobre 1998 riguardante il futuro<br />

politico dell’Unione Europea” (che si doveva tenere di lì a poco per un esame preliminare delle<br />

riforme istituzionali, che avrebbero dovuto essere adottate in un’apposita CIG da convocare dopo la<br />

ratifica del trattato di Amsterdam).<br />

A proposito del tema centrale della risoluzione il PE sottolineava: 1) la necessità della “riforma istituzionale”;<br />

2) la necessità di una riforma del finanziamento dell’UE 270 ; 3) l’effettivo coordinamento<br />

delle politiche economiche e il controllo democratico della politica economica e monetaria; 4) una<br />

rappresentanza unica degli Stati membri dell’UEM presso gli organismi internazionali come il G7;<br />

5) la coerenza in genere tra gli obiettivi e gli strumenti, istituzionali e finanziari, necessari a perseguirli;<br />

6) la necessità quindi una riforma istituzionale globale, basata sul rafforzamento della legittimità<br />

democratica dell’UE.<br />

Per quanto riguarda “il rispetto del principio di sussidiarietà” (sottolineato a Cardiff), il PE avvertiva<br />

in toni molto chiari e concreti:<br />

“10. mette in guardia il Consiglio europeo contro la tentazione di utilizzare la sussidiarietà come un alibi per la rinazionalizzazione<br />

delle politiche comunitarie; afferma che, se nell’attività delle istituzioni sono state rilevate violazioni del<br />

rispetto del principio di sussidiarietà, la responsabilità è dell’insieme degli Stati membri e delle istituzioni che partecipano<br />

al processo legislativo;<br />

11. sottolinea che i timori di una centralizzazione eccessiva nell’Unione Europea sono fortemente esagerati, considerando<br />

che l’Unione può agire solo nei settori definiti dai trattati e che, in ogni caso, agisce conformemente al principio<br />

di sussidiarietà e con la partecipazione al processo decisionale dei ministri nazionali; constata che tramite il bilancio UE<br />

viene data esecuzione solo al 3% della spesa pubblica [dell’intera UE] e che la Commissione dispone di un organico<br />

complessivamente inferiore a quello delle amministrazioni comunali della maggior parte delle grandi città;” 271<br />

269 In quest’ultima precisazione il PE lanciava in realtà un monito al Consiglio. Infatti era proprio il Consiglio, che, in<br />

quanto istituzione sia pienamente legislatrice, sia esecutiva, correva il rischio di “confondere” le due sfere di attività.<br />

270 A tal proposito, con evidente riferimento al Regno Unito, affermava: “condanna pertanto la teoria detta del giusto<br />

ritorno per quanto concerne le risorse proprie; ritiene in effetti che debba essere preso in considerazione l’insieme dei<br />

benefici di bilancio e non di bilancio ottenuti grazie alla partecipazione alla costruzione europea”.<br />

271 Queste espressioni erano risposte anticipate ai malumori popolari (alimentati dalla stessa condotta irresponsabile di<br />

certi Stati membri), che si sarebbero apertamente manifestati in occasione delle future prossime elezioni europee del<br />

giugno 1999 e avrebbero guadagnato sempre più forza nel corso degli anni successivi.

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