ILIADE ---==*==--- LE FIGURE FEMMINILI E LA ... - Liceomorelli.It
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ILIADE
---==*==---
LE FIGURE FEMMINILI
E
LA FORZA DEI SENTIMENTI
INTRODUZIONE
Il primo documento storico che descrive nei particolari le condizioni di vita
della donna greca è dato dai poemi omerici, che, indipendentemente dalla
veridicità degli avvenimenti narrati e dei loro protagonisti, offrono all'
odierno lettore e offrivano all' antico ascoltatore di aedi e rapsodi uno
sguardo sulla storia, sui valori e sulle regole della società greca nei secoli
tra la fine della civiltà micenea e l' VIII secolo. Le situazioni che i cantori
descrivevano erano, dunque, se non vere, sicuramente verosimili, e i
personaggi, seppure frutto della loro fantasia, senz' altro aderenti alle regole
e alle convenzioni sociali reali. Risulta quindi possibile, a partire dai testi
omerici, fare alcune considerazioni sulle condizioni della donna greca di
quel periodo. La società descritta da Omero nell' "Iliade" è certamente ben
lontana da quella attuale. Si tratta di un ambiente in cui l'attività principale
è la guerra, dove necessariamente gli uomini detengono il predominio.
L'uomo omerico può innalzarsi sopra la propria natura, divenire eroe, anche
se si tratta di un destino già segnato alla nascita. Alla donna questa
opportunità non è consentita, la sua vicenda si gioca nell'ambito della vita
ordinaria prescritta ai mortali. Esiste in quanto compagna ed in riferimento
ad un compagno. In guerra le donne sono il bottino da conquistare, tanto
più preziose quanto di maggior rango sociale. Il rispetto dovutole è legato
alla parentela con un uomo: madri, spose, sorelle di eroi, quando questi
sono morti in campo, non hanno più difese da opporre ad un destino di
schiavitù. La virtù delle donne è tutta da svolgere all'interno dell'oikos, è
particolarmente incentrata su attività quali la filatura al telaio,la preghiera e
la protezione dei beni del padrone di casa, compresi i figli generati con lui.
Da vari passi si deduce che nelle corti esistevano locali in cui la regina si
riuniva con le ancelle per tessere. La qualità principale per una donna era la
bellezza, ed ella era solita attirare gli sguardi maschili adornandosi di vezzi,
orecchini gemmati, spille, fibbie e provvedendo con pettini a ravviarsi le
chiome. Il corpo delle donne è, al contrario di quello dell'eroe, poco
esaltato: al di là di generici riferimenti alle belle guance o agli occhi lucenti
- o alle belle braccia al massimo - non c'è alcuna descrizione puntuale di un
corpo femminile nell'epos, così che a stento distingueremmo le eroine una
dall'altra per proprie caratteristiche individuali. Le donne indossano il velo
come gli uomini la corazza, se ne ricoprono per uscire all'esterno. I colori
della bellezza sono chiari, luminosi, iridescenti.
Pudicizia, fedeltà, rispetto della divisione dei ruoli e obbedienza,
virtù proprie di una figura subalterna, sono le virtù richieste alla
donna, vittima in età omerica di un' ideologia misogina.
I poemi omerici mostrano una tipologia di donna che non ha il senso della
misura, e che non ha equilibrio. Anche le migliori tra loro, anche quelle che
hanno fatto buon uso dell’educazione ricevuta, possono essere pericolose.
Passate a nuove nozze, rischiano di dimenticare il marito scomparso e i
figli di primo letto. Ecco perché, sempre e comunque, vanno controllate. Le
virtù che le donne dovevano avere non ne facevano certo delle
protagoniste: tutt’altro. Le loro qualità erano tali da poter e dover essere
utilizzate solo all’interno della limitata cerchia delle attribuzione del loro
ruolo, senza minimamente proiettarsi nel mondo esterno. Una sola figura
femminile ha un ruolo diverso: Atena, la dea che consiglia Ulisse e
Telemaco in questioni tipicamente maschili, quali sono quelle legate al
potere, è l’unica donna che esercita un’influenza costante dalla quale viene
riconosciuto un ruolo di consigliera e protettrice, non è una vera donna.
Né consigliera, né consolatrice, la donna omerica era solo lo
strumento della riproduzione e della conservazione del gruppo
famigliare.
La sanzione che colpiva le mogli infedeli era il ripudio,
accompagnato dalla restituzione al marito della donna, vale a dire dei
beni che, al momento del matrimonio, egli aveva pagato all’avente
podestà sulla moglie, e anche varie pene corporee. Ma la moglie
omerica non doveva solo subire punizioni fisiche, doveva tollerare che
il marito avesse rapporti anche con altre donne. Le reali condizioni
delle donne omeriche erano dunque queste: esclusione totale del
potere politico e dalla partecipazione alla vita pubblica. Indiscussa
subordinazione. Al capofamiglia e sottomissione ai suoi poteri
punitivi. Infine segregazione ideologica se non fisica. Incapace di
pensare che alle cose domestiche, la donna è guardata con differenza e
sospetto. Le donne sono rappresentate sempre come subordinate
all'uomo, talora addirittura come oggetti di contesa, come valori di
scambio. Non a caso episodi centrali del poema sono il ratto di Elena,
strappata al marito Menelao dal principe troiano Paride, causa
principale dell'intera guerra di Troia, e la sottrazione della schiava
Briseide ad Achille da parte di Agamennone.
Secondo l' "Iliade", Achille aveva preso come schiava la bellissima
Briseide, tanto bella da essere paragonata da Omero nel libro XIX alla
"dorata Afrodite", a Lirnesso, dopo aver ucciso il marito di lei, Minete, e i
suoi tre fratelli, ed ella gli si era affezionata tanto da volerlo seguire
volentieri come moglie a Ftia. Già questa decisione di Briseide dimostra la
completa sottomissione della donna alla legge del più forte, nonché la
fedeltà indiscussa al nuovo padrone. Non bisogna comunque dimenticare
che Briseide è pur sempre una schiava di guerra.
Non mancano, tuttavia, nell'ambito del quadro complessivo tracciato nel
poema, figure femminili che emergono per nobiltà di sentimenti e per
condizione sociale. Tra queste spicca Andromaca.
Accanto agli esempi di spose fedeli non mancano quelli di
preoccupazione materna nei confronti degli eroi che combattono.
Madre premurosa ci appare Ecuba.Un'altra madre costantemente
preoccupata della sorte del figlio e premurosa nell'assisterlo è Teti,
che, pur essendo una dea e quindi consapevole del destino di Achille,
ci mostra tratti di umanità dolente e conserva gli aspetti materni propri
delle più grandi figure femminili. Ella, sebbene mantenga i caratteri
distintivi della divinità elevandosi al di sopra dell'umanità e della sua
condizione, conserva potenziandoli i tratti di una femminilità sapiente,
che si esplica tutta a vantaggio del figlio nel colloquio con Zeus nel
libro I ai versi 493 e seguenti. Qui, invece di parlare al dio da pari a
pari, preferisce umiliarsi di fronte a lui, ben sapendo per esperienza
personale che Zeus, amando soprattutto il potere, non tollera di
ricevere ordini o pressioni di sorta. E non accenna neanche per un
attimo al loro passato amore. Ella tiene, con questo atteggiamento, una
condotta del tutto opposta a quella di Era, che al contrario, impulsiva,
prepotente e litigiosa, spesso irrita il suo sposo costringendolo ad
opporsi a lei per non apparire sottomesso. E infatti Teti riesce ad
ottenere ciò che ha chiesto a Zeus: i Troiani saranno superiori in
battaglia agli Achei finché Achille starà lontano dalla guerra. Ella
dunque rappresenta una femminilità che vince piegandosi, laddove
quella di Era, che piegarsi non vuole, fallisce lo scopo.
Solo accennata nel poema appare la figura di Cassandra, esaltata
invece dalla tradizione posteriore e specialmente da Eschilo ed
Euripide come eroina trasgressiva, dotata del dono della profezia e
destinata a non essere creduta. Nell' "Iliade" compare solo qualche
breve accenno alla sua giovinezza e alla sua verginità, come ad
esempio nel libro XIII, mentre l'unica volta in cui ella appare
direttamente in scena è nel libro XXIV quando, scorto Priamo di
ritorno dal campo greco con la salma di Ettore, lo annuncia al popolo.
Qui si mostra appena qualche traccia dello spirito profetico di Cassandra,
che per prima ha una percezione quasi inconscia del ritorno del padre. Non
mancano, comunque, nell' "Iliade" figure femminili dalla personalità
complessa e, in questo senso, quasi moderna. Interessante è il personaggio
di Elena.
I veri attori dell’Iliade sono gli uomini e le donne,sia i vincitori sia i vinti,
che con le loro azioni e le loro passioni muovono un mondo complesso,
solo apparentemente lontano, ma in realtà molto vicino a quello di oggi.
Rivivono in ogni personaggio valori e sentimenti universali, che da sempre
fanno parte della natura umana: la pietà, l’odio, la compassione, la voglia di
pace, rappresentata dalle figure femminili di Andromaca, Ecuba, Elena.
Nell’Iliade i sentimenti non conoscono mezze misure e da tale integrità
scaturisce la struttura netta, decisa, a tinte forti della narrazione. Sullo
sfondo delle battaglie raccontate da Omero, necessariamente ridotte nella
loro ampia articolazione, si è voluto porre in primo piano soprattutto questi
grandi sentimenti dei personaggi umani, le loro virtù e le loro debolezze, le
loro passioni e le loro sofferenze che, ancora oggi, dopo migliaia di anni
toccano con le loro corde gli animi di tutti noi.
Elaborato da Rossella Romano
ANDROMACA
Andromaca, moglie di Ettore, figlia di Eezione e madre di Astianatte, è un
personaggio atemporale, privo di vincoli generazionali e di costume.
Infatti, la sua prerogativa è l’essere donna con tutte le debolezze e i
vantaggi che ciò comporta. In Omero Andromaca è un personaggio chiave,
dai nobili sentimenti e dalla grande forza morale. Andromaca è una moglie
appassionata e incredibilmente innamorata del suo sposo, l’eroe Ettore;
però è anche una madre attenta e giustamente preoccupata per il suo futuro
e per quello del figlio, appesi a un filo che verrà violentemente reciso con
la morte dell’eroe troiano. Non c’è amore, se non c’è sensibilità.
Non c’è poesia , se non c’è amore. Non c’è amore se non è presente lo
slancio generoso, la tensione spirituale, il desiderio di porgere all’amato
ancor prima dei propri limiti, le note più lucenti e generose dell’anima. Il
più grande omaggio all’amore lo fa Andromaca, rinunciando,per amore di
Ettore, persino ai sogni di ogni giovane sposa e madre.
Andromaca è forse una delle prime grandi figure della sposa dolorosa.
Conosce tutti i pericoli della guerra terribile che si sta combattendo intorno
a casa sua. E conosce altrettanto bene il rischio mortale che corre il marito,
finché lo vede morire atrocemente per mano di Achille in un ultimo duello
decisivo sotto le mura della città. Dopo la conquista, poi, Andromaca
diventerà il simbolo della donna separata dai suoi cari, umiliata, strappata
alla sua casa, alle sue origini, ridotta alla sorte di un qualsiasi bottino di
guerra spartito brutalmente tra i vincitori. Infatti, la giovane verrà condotta
schiava in Grecia dal figlio di Achille, Pirro, che la costringerà ad essere
sua sposa e a partorirgli tre figli, che poi abbandonerà crudelmente nelle
mani del suo schiavo Eleno, cognato di Andromaca. Ma Andromaca è
anche regina, abituata, pertanto, a essere circondata da schiave, al lusso e a
vivere da donna libera nella sua casa, non da serva come accadrà in seguito,
nella casa di un padrone sanguinario e irascibile. Inoltre, questo magnifico
personaggio femminile è anche esempio di donna capace di pensare, astuta
e saggia a contempo, capace cioè di sopravvivere in un società misogina
come quella greca. I sentimenti che
Giorgio De Chirico
“Ettore e Andromaca”
1917
però fanno di Andromaca un
personaggio di primo piano e che
esprimono fortemente il suo essere
donna, sono la disperazione e la
solitudine; infatti, Andromaca è
disperata per la perdita della sua
famiglia a causa di Achille e
quindi anche sola, per convincere
Ettore a non scendere in battaglia
dirà che lui per lei è “padre, madre,
fratello e marito”, il che fa
riflettere sulla condizione di questa
giovane sposa che ha visto e vede
cadere tutti gli affetti che la
circondano e che vorrebbe
disperatamente trattenere con se.
E’ proprio Nell'episodio del libro
VI, incentrato sul suo incontro con
Ettore alle porte Scee, nei versi 390 e seguenti, che traspaiono la sua
completa fedeltà all'eroe, il suo attaccamento alla famiglia, l'amore per il
piccolo Astianatte, l'orrore per la guerra che la getta in uno stato di perenne
angoscia, poiché proprio la guerra l'ha privata dei più importanti affetti
familiari.
Cavallucci, Antonio
Incontro di Ettore
e Andromaca alle
porte Scee.
olio su tela, 74x98 cm
Nel colloquio tra Ettore e Andromaca si ha il primo esempio di analisi della
sensibilità
femminile:
Andromaca,piangente, confessa ad Ettore la preoccupazione per la sua
sorte, proclama la sua insostituibilità, giacchè ella non ha più nessuno al
mondo, rivolge al marito una serie di richieste accurate :
“Tu, Ettore, dunque per me sei padre e madre adorata
e anche fratello, e sei il mio splendido sposo:abbi pietà, rimani qui sulla torre,
non fare orfano il figlio, vedova la sposa.”
(v 429-432 VI )
(Trad. Giovanni Cerri)
Ettore mostra piena comprensione per la sposa ma afferma anche di
provare vergogna.
Se Andromaca vive nel solo pensiero del marito, Ettore ha invece un giro
di pensieri diverso, in cui Andromaca occupa un posto subordinato. Infatti
Ettore si è recato in città perché indottovi da Eleno, ha parlato con Ecuba,
con Paride, con Elena; inoltre nell’incontro con la famiglia il suo primo
pensiero è per Astianatte ,e l’ultimo addio è ancora per Astianatte, con la
preghiera e l’augurio che possa essere migliore del padre.
( Fausto Codino)
Al termine del colloquio con Ettore, Andromaca torna alla propria dimora,
ma procede “ voltandosi indietro, versando molte lacrime”(v 496).
A casa la sposa di Ettore trova le ancelle e “ad esse tutte provocò il
pianto”(v 499). Si verifica così, paradossalmente, una sorta di lamento
funebre per Ettore mentre questi è ancora vivo.
Accanto a queste caratteristiche spiccatamente femminili, però, il
personaggio di Andromaca dimostra proprio in questo episodio
un'insospettabile competenza sulle tattiche di difesa da adottare in battaglia,
competenza che, nonostante le divergenze di alcuni critici, potrebbe far
presupporre che le donne appartenenti ai ceti sociali più elevati e spose di
guerrieri si occupassero, anche se indirettamente, dei problemi pratici della
guerra. Nel brano citato, Andromaca si atteggia a consigliera del marito
sulla migliore tattica da adottare per salvare l'onore ma nello stesso tempo
la vita. In questa sua preoccupazione dimostra nel contempo la sua fedeltà
assoluta ad Ettore, sposando il quale ella ha potuto ricostruire una nuova
famiglia dopo che quella d'origine le era stata completamente annientata
dai Greci.
Jacques-Louis David
"Compianto di Andromaca sul
corpo di Ettore"
(1783),
olio su tela(Musee du Louvre, Parigi)
Il dolore di Andromaca alla notizia della
morte di Ettore è espresso magistralmente
in tutta la parte finale del XXII libro. E’
particolarmente drammatico il passaggio
dalla quotidianità delle sue attività
femminili al terribile shock provocato in lei
dai gemiti provenienti dalle mura; l’infelice
corre fuori di casa “come una pazza”, priva
di ritegno e di autocontrollo; quando dal
bastione vede il cadavere di Ettore
trascinato dai cavalli di Achille, la donna
sviene. Allorché riprende i sensi, rivolge
allo sposo un commovente lamento;
“con violenti singhiozzi” :il pensiero di
Andromaca va al piccolo Astianatte, che
crescerà senza il padre, tra gli insulti e i
soprusi degli altri. Andromaca rivolge poi
un estremo pensiero al marito:
“Ora te fra le concavi navi, lontano dai genitori,
saltanti i vermi roderanno, quando saran sazi i cani,
nudo:e nella casa ci son le tue vesti
sottili e belle fatte da mani di donne.
Ma tutti le vogliono bruciare nel fuoco avvampante”.
( v 508-511 XXII).
(Trad. Giovanni Cerri)
L’intenzione di bruciare le vesti, in onore del marito ucciso, crea una forte
antitesi rispetto alla precedente condizione di Andromaca:
alla sua attività “creatrice”, quella della tessitura, che segnalava la sua
identità domestica, ella contrappone ora un’attività distruttrice, con cui
evidenzia la perdita del proprio ruolo di moglie; Andromaca assume qui il
codice del lutto, da moglie diventa vedova e come tale assume il ruolo
carismatico di corifea del lamento funebre. Andromaca ed Elena
compaiono ancora nell’ultimo libro del poema, nel corso dei riti funebri per
Ettore. L’eroe è stato restituito ai familiari da Achille, è stata proclamata
una tregua di undici giorni e sono iniziate le esequie. La sua dedizione
totale al marito torna a manifestarsi quindi nel libro XXIV durante il pianto
di Andromaca sulla salma di Ettore.
E’ Andromaca a iniziare il lamento, ripetendo in sostanza le espressioni
rivolte al marito da vivo, nel corso del colloquio del VI libro: ella si
rammarica per la precoce morte dello sposo prevede la fine della città e la
prigionia che attende lei e il suo bambino, ma mostra anche il timoredestinato
ad avverarsi- che il figlio sia scagliato giù dalle mura da qualche
Acheo. In questa occasione la prima parola che le viene alle labbra è
l'invocazione "aner", "sposo", come quella che riassume l'appassionato
rimpianto e la grande sventura della vedova. E non manca certo il pensiero
per il figlio ancora in tenera età, così debole da non potersi difendere, che
certamente andrà incontro a una triste sorte e alla morte stessa.
“Fra loro apriva il compianto Andromaca dalle bianche braccia,
stringendo tra le sue mani la testa di Ettore massacratore:
“marito mio, giovane hai perso la vita, mi lasci vedova
in casa; è così piccolo ancora il bambino
che abbiamo messo al mondo, io e tu sciagurati, e non credo
che giunga al fiore degli anni; sarà prima distrutta del tutto
la nostra città; perche sei morto tu ,il custode vigile,
che la proteggevi, difendevi le spose fedeli e i bambini,
che se ne andranno ormai sulle navi ricurve,
ed anche io con loro; e tu, figlio mio, verrai con me,
dove dovrai faticare in lavori non degni,
servendo un padrone crudele, o qualcuno degli Achei
ti getterà x il braccio giù da una torre, morte tremenda,
pieno di rancore perché Ettore forse gli uccise un fratello
oppure il padre, o anche un figlio perché moltissimi Achei
sotto i colpi di Ettore morsero il suolo spazioso.
Non era dolce tuo padre nella battaglia crudele:
anche per questo la gente lo piange nella città,
e hai dato ai tuoi genitore lamento e lutto tremendo,
Ettore; ma soprattutto per me resterà un dolore struggente.
Perché, mentre morivi, non mi hai teso le braccia dal letto,
né mi hai detto una parola forte, che potessi poi sempre
ricordare di notte e di giorno, bagnando gli occhi di lacrime.”
(723-745 XXIV)
(Trad. Giovanni Cerri)
Le parole di Andromaca sono piene sia di un dolore assoluto,un senso di
disperata solitudine che di soave tenerezza materna, impareggiabili per
sentimento. Accanto alle note tristi e dolorose, però, sono presenti le note
di orgoglio per un così valoroso marito, e qui tutta si manifesta la fierezza
di Andromaca.
Dagli episodi che riguardano Ettore e Andromaca, considerati spesso come
la celebrazione di un marito esemplarmente tenero, appare invece
soprattutto chiaro il primato che in Omero ha la vita sociale, la
caratterizzazione quasi esclusivamente del personaggi. Sappiamo che
l’unico principio che ispira la condotta degli eroi omerici è quello
dell’onore; quest’onore non è un ideale astratto né una norma della
coscienza, ma il riconoscimento immediato della vox populi. Infatti alle
esortazioni di Andromaca Ettore risponde con chiarezza:
“donna, anch’io, si, penso a tutto questo;ma ho troppo
rossore dei Teucri,delle Troiane lungo peplo,
se resto come un vile lontano dalla guerra.
ne lo vuole il mio cuore,perché ho appreso a esser forte
sempre, a combattere in mezzo ai primi troiani,
al padre procurando grande gloria e a me stesso”.
( vv. 441-446).
(Trad. Giovanni Cerri)
Da questi versi si può notare che se Ettore morirà, ciò che importa è che
gli altri dicano di Andromaca : “Ecco la sposa d’Ettore, che era il più
forte a combattere tra i Troiani…” (vv.460); e di Astianatte : “E’ molto più
forte del padre!”(vv.479)
( Fausto Codino)
Ella tornerà ad abitare la poesia - da Virgilio a Racine, per fare soltanto
qualche nome. In Virgilio Andromaca assume ancora una volta il ruolo
della donna disperata, ma ha un’altra connotazione, infatti, sembra vivere
nel mezzo tra presente e passato, sembra non riuscire a superare il muro
che le scierebbe condurre la sua nuova vita da regina di Caonia, mettendo
in secondo piano la figura del marito defunto Ettore che continua a vivere
in lei e la straziante immagine del figlio Astianatte che viene ucciso da
Pirro sulle porte Scee. Questo personaggio femminile ci appare anche come
donna pia, che fa libagioni ai cari morti, testimone insieme ad Enea degli
antichi costumi che inconsciamente adopera, e che Virgilio utilizza per
cantare le abitudini romane. Ma è forse Baudelaire il poeta che grida il suo
nome più forte e più alto di tutti, in una meravigliosa poesia di Les fleurs
du mal intitolata Le Cygne - il cigno.. In Baudelaire Andromaca conserva
quei sentimenti già espressi in Virgilio e si fa simbolo di chi ha perso ciò
che di più caro aveva al mondo, ad esempio la famiglia. Il poeta, infatti,
utilizza questo personaggio per esternare il suo stato d’animo nel vedere i
luoghi che frequentava de ragazzo completamente stravolti dalla nuova
urbanistica, e nel constatare quanto l’aspetto di una città cambi più
facilmente che i sentimenti di un uomo. Ma utilizzando il personaggio di
Andromaca Baudelaire ne sottolinea la costante attualità e la capacità che
questa figura ha di conservare nel tempo le sue connotazioni fondamentali,
che nei secoli si arricchiscono di aspetti nuovi ed interessanti, capaci di
suscitare forti emozioni nel lettore.
La figura di Andromaca in esilio folgora l' immaginazione del poeta.
«Andromaque, je pense à vous!». «È a te che penso, Andromaca!» così
incomincia Le Cygne - mentre il poeta ha davanti agli occhi un povero
cigno scappato dalla sua gabbia, e intento a cercare disperatamente un
corso d' acqua degno del suo corpo maestoso tra gli sporchi rigagnoli che
scorrono tra le rovine delle demolizioni. Nell' antichità, Andromaca era
modello dell' amore coniugale. Di lei si ricorderà anche Jean Racine, in una
tragedia del 1667. Per tutti, Andromaca resterà sempre l' ideale della sposa
fedele alla memoria del marito, se pur costretta a nuove nozze. La sua
fragile forza colpirà anche Heinrich Schliemann - l' archeologo che riportò
Troia alla luce - che col suo nome chiamerà la propria figlia.
Elaborato da Sarah Sibiriu
ECUBA
Ecuba, detta anche Ecabe dai greci (greco: κάβη; latino: Hecuba) era la
seconda moglie di Priamo. Figlia di Dimante, re di Frigia o figlia di Cisseo, re
di Tracia e di Telecleia.
Ecuba, accompagnata dal marito Priamo
e dal primogenito Ettore,
da una ricostruzione di un vaso
Il re di Troia Priamo sposò in
seconde nozze Ecuba, che allora
era molto giovane. Essa generò al
marito diciannove figli, sebbene
Priamo ebbe in totale cinquanta
figli, generati con altre concubine
e altre mogli. Ma ciò è smentito
da Euripide, che portava a
cinquanta il numero dei figli e li
considerava tutti procreati dalla
sola Ecuba. Tra i figli ricordiamo:
Ettore, celebre difensore di Troia;
Paride, rapitore della bellissima
Elena e quindi causa della guerra
di Troia; e infine Cassandra,
profetessa che però non veniva
mai creduta. Alcuni dei figli si
rivelarono prodigiosi a causa di
doni o benefici concessi loro dagli
dèi stessi.
Più volte la regina troiana si trovò
ad essere la testimone di questi
eccezionali doni, o addirittura
l'intermediaria tra la divinità e la
sua progenie, attraverso sogni,
visioni, o incubi notturni.
Dopo la nascita del primogenito
Ettore, la regina si trovò incinta di
un secondo bambino, ed era ormai sul punto di darlo alla luce.
Una notte, tuttavia, Ecuba sognò di partorire dal suo ventre una fascina di
legna, ricolma di serpenti; contemporaneamente vedeva una torcia accesa,
che nasceva sempre dal suo ventre , appiccando fuoco alla roccaforte di
Troia e all'intera foresta del monte Ida.
La regina si svegliò urlando l'orrenda visione , il che spaventò Priamo che
ordinò immediatamente di condurre i migliori indovini a corte. Il primo ad
essere consultato fu suo figlio Esaco. Nacque quindi Paride vero distruttore
di Troia.
Giulio Romano e aiuti
Il sogno di Ecuba
Affresco Mantova,Palazzo
Ducale,Sala di Troia
Euripide
Il matrimonio con Priamo permise ad
Ecuba di affiancarlo nel governo
della città e nelle esigenze dei loro
sudditi. La regina, alternando alla
politica l'allevamento e l'educazione
dei suoi figli, si rivelò un'abile donna,
anche capace di dare consigli utili al
marito e alla sua numerosa prole.
Durante questo periodo, Ecuba si
rivelò fedele a Priamo nei suoi doveri
coniugali, sebbene alcuni autori
raccontino delle sue avventure
erotiche con il dio Apollo.
Oltre all’Iliade, Ecuba assume un
ruolo di primo piano in due tragedie
di Euripide: Le Troiane e Ecuba. Nella
prima Ecuba viene destinata
come schiava ad Ulisse e le tocca
di assistere alla morte del nipote
Astianatte, divenendo il personaggio che più di ogni altro
“tiene le fila” del dramma. Nessun
altro dei tragici
anteriori a Euripide aveva fatto di
Ecuba la protagonista di una
Santo Paolo Guccione
Ecuba piange le
spoglie di
tragedia, né il dolore di una vecchia madre il motivo
principale di essa. Tragedia del dolore, questa Ecuba
euripidea, del dolore “assoluto” di una regina senza più
patria, di una madre senza più figli.
Giuseppe Maria Crespi
Ecuba acceca Polimestore
Nella seconda, dramma
personale, si esalta l'orgoglio e
l'amore di una regina che vede i
suoi figli perire uno ad uno.
Ecuba, che ha perduto tutto e
che è resa schiava dopo la
sconfitta dei troiani, ha perso tutte
le persone a lei care: le uniche
che le sono rimaste sono l'amata
figlia Polissena e il figlio Polidoro,
che ha trovato un rifugio al di là
del mare, presso un amico di
famiglia. Ma il dramma ha inizio
quando gli Achei trionfatori
vogliono omaggiare la tomba
dell'eroe Achille, e decidono di
perpetrare un mirabile sacrificio umano, condannando a
morte Polissena.
La madre, già disperata per l'uccisione della dolce fanciulla, è
completamente soggiogata dal dolore quando impara la
morte anche del caro figlio, ucciso dall'ospite infido cui
l'aveva lasciato.
La regina ferita diventa furia vendicatrice dei suoi figli
assassinati e nel suo progetto di vendetta contro il traditore
Polimestore riesce ad ottenere persino il sostegno di
Agamennone.
Da queste basi, non può non nascere in Ecuba il desiderio
incoercibile della vendetta.Il tema della colpa che si
tramanda di generazione in generazione è una delle possibili
chiavi di lettura di quest'opera: la colpa di Ecuba, caduta dai
fasti della corte troiana nella misera schiavitù, che non ha
saputo salvare la figlia, e che ha cercato di salvare il figlio ma
ha miseramente fallito; la colpa di Polimestore, che ha tradito
il sacro vincolo dell'ospitalità uccidendo l'erede di Ecuba, e
che per questo non solo subirà l'aspra vendetta di Ecuba, ma
condannerà la sua progenie alla morte, e se stesso ad
un'esistenza di dolore. Inoltre la vecchia regina troiana in
questa tragedia si esprime contro i sacrifici umani, ella accusa
la disumanità dei demagoghi:
“Forse il dovere li spinse a immolare un essere umano
presso una tomba, dove sarebbe più giusto ammazzare un bue?”
(vv. 254-261).
Poco più avanti, Ecuba supplica Odisseo di non ammazzare la figlia
Polissena con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore
della vita:
“non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti”
(v. 278).
In queste due tragedie ritornano alcune connotazioni proprie
della tradizione: la vecchiaia, la maternità ferita, le sventure
che, dopo una vita fortunata, si succedono fino a quella
suprema della schiavitù. Fulcro drammatico di entrambe le
tragedie, il personaggio presenta dall’una all’altra una
differenza fondamentale: nell’Ecuba agisce, nelle Troiane si
lamenta. Sempre però è peculiare la tensione, la
contraddittorietà tra mater dolorosa, la vecchia che piange i
propri morti, e l’abilissima argomentatrice dialettica: si
ricordino nell’Ecuba il discorso sui rapporti tra divinità e legge,
nelle Troiane l’agguerrita discussione con Elena. Alla critica,
questa vecchia in lutto, ripiegata sul proprio dolore, che
improvvisamente si trasforma in accorta parlatrice, è sempre
apparsa come una figura poco coerente e di conseguenza
drammaticamente poco riuscita.
Da queste due tragedie si può inoltre comprendere che
mentre la maggior parte delle donne si sottomette
docilmente, alcune eroine come Ecuba, per raggiungere i
propri fini, acquistano tratti del sesso dominante. Tale
fenomeno è stato definito dallo psicanalista Adler "protesta
mascolina".
Iliade
Ecuba, nell’Iliade è madre e, come per Andromaca, il suo
destino ruota attorno a quello di Ettore. Ecuba è la donna che
parla con maggiore frequenza nell'Iliade. Rappresenta inoltre la
voglia di pace assieme alle altre figure femminili di Andromaca ed Elena.
Ella accolse subito con calore e simpatia Elena, nonostante
sogni premonitori e profezie avrebbero dovuto spingerla a
diffidarne.
La donna può farsi eccezionalmente di natura più nobile
dell'usuale, soprattutto quando riveste il ruolo materno. Ettore
non può fare a meno di incontrarsi a più riprese con Ecuba. In
questi incontri è la fisicità il linguaggio della comunicazione:
un esempio si ha quando Ecuba supplica Ettore di non
scontrarsi con il tremendo Achille, mostrandogli il seno che lo
nutrì da piccolo.
Ma Omero ce la presenta non solo come madre ma anche
come donna e regina. Omero quindi è il primo che ci ha dato
l’idea di quale sia il ruolo di una donna, non solo all’interno
della famiglia, ma in particolare all’interno della società,
considerata quindi come individuo.Infatti il consiglio degli
anziani presieduto da Priamo ha una controparte nel consiglio
delle anziane guidato da Ecuba, con funzioni di custodi dei
rapporti con la divinità Atena.
Ecuba regina e al contempo madre
Nel pieno della battaglia nel sesto libro l'ottimo fra gli indovini,
Eleno, si rivolse ad Ettore, invitandolo a salire alla città, e di
parlare con la loro madre, dicendole di recarsi con le altre
anziane al tempio di Atena occhio azzurro, che si trovava in
cima alla rocca, e di offrirle il peplo più bello e più grande che
possedeva, di prometterle che avrebbe sacrificato dodici
vacche di un anno, se avesse avuto compassione della città,
delle spose dei Teucri, dei figli definiti balbettanti e se avesse
allontanato da Ilio sacra Diomede, il combattente più
selvaggio, il duro maestro di rotta.
Giunto al palazzo di Priamo incontrò la madre, che gli
chiese per quale motivo avesse abbandonato la
battaglia,e gli offre del vino, affinché possa riprendersi.
Qui giunto Ettore, ad incontrarlo corse
l'inclita madre che a trovar sen gìa
Laodice, la più delle sue figlie
avvenente e gentil. Chiamollo a nome,
e strettolo per mano:” O figlio”, disse,
”perché, lasciato il guerreggiar, qua vieni?
Ohimè! per certo i detestati Achei
son già sotto alle mura, e te qui spinge
religioso zelo ad innalzare
là su la rocca le pie mani a Giove.
Ma deh! rimanti alquanto, ond'io d'un dolce
vino la spuma da libar ti rechi
primamente al gran Giove e agli altri Eterni,
indi a rifar le tue, se ne berai,
esauste forze. Di guerrier già stanco
rinfranca Bacco il core, e te pugnante
per la tua patria la fatica oppresse.”
(v.251-262)
(Trad. Vincenzo Monti)
Ettore rifiuta il vino, per evitare di dimenticare il valore,e la
esorta ad andare al tempio di Atena Predatrice e compiere
ciò che aveva detto il fratello indovino. Continua esprimendo
la volontà di andare a cercare Paride, malvisto, tant'è che
ricorda come alla sua morte non vi saranno pianti.
Così Ecuba raduna le anziane e sceglie il peplo più bello,
quello che di ricami era il più vago e il più grande, splendeva
come una stella. Così giunte al tempio, Teano Cisseìde, la
sposa di Antenore, aprì loro le porte, e pose sulle ginocchia di
Atena il peplo, invocandola. Chiese ciò che desideravano,
ma Pallade Atena fece cenno di no.
Quando giunsero al tempio d’Atena sull’alto della rocca,
aprì loro la porta Teano dalle belle gote,
figlia di Cisse, sposa di Antenore domatori di cavalli:
i Troiani l’avevano scelta sacerdotessa di Atena.
Tutte, nel grido sacro,tesero ad Atena le braccia;
e, preso nelle sue mani il peplo, Teano dalle belle gote
lo pose sulle ginocchia di Atena dalla bella chioma
e pregando implorava la figlia del grande Zeus:
“Atena veneranda, difesa della città, divina fra le dee,
spezza la lancia a Diomede, ed anche lui stesso
fa che cada riverso davanti alle porte Scee,
che subito dodici giovenche d’ un anno,non ancora domate,
per te scanniamo nel tempio, se avrai compassione
della città, delle spose troiane, dei figli bambini”.
Così diceva pregando, ma Pallade Atena scosse la testa a diniego.
sEttore giovinetto si arma tra
Priamo ed Ecuba. Anfora attica a
figure rosse di Eutimide
Monaco, Staatliche
Antikensammulungen
Prima la morte di Ettore
(v.297-311)
(Trad. Giovanni Cerri)
Ecuba quindi si mostra
come madre affettuosa
che si preoccupa per la
sua dolce creatura ma
soprattutto come regina
di fronte al grande
protettore della città che
governa. Si ha perciò una
conversazione piena di
amore materno ma fatta
anche di una certa
istituzionalità data la
posizione sociale della
donna e quella di difensore
dell’uomo.
Priamo ed Ecuba, nel XXII libro, vengono messi in risalto e
coprono la scena precedente la morte di Ettore: la morte
di un figlio, sangue del proprio sangue, la massima
realizzazione di un genitore, la speranza di lasciare
qualcosa nel mondo al momento della propria morte è
ciò che caratterizza questo momento.
Una vita di sofferenza quella di Ecuba, nella quale la
morte e il dolore hanno predominato. In dieci anni di
guerra la perdita di molte dei figli per causa di un altro
figlio, Paride, che l'ha fatta scoppiare, le figlie condotte
schiave e i bimbi sbattuti a terra, quelli dei Troiani, perchè
ormai la
guerra sta per finire e la vittoria da parte dei Greci è
preannunciata. Un altro dolore lo attende e lei, con tutta
la sua pietà, non riesce a fermare il figlio e a convincerlo a
tornare in città. Temi importanti, certamente, ma Ettore è
un guerriero, un campione, non può più tirarsi indietro. Ma
Priamo ,nel suo discorso, non tocca argomenti così
pungenti come quelli di Ecuba. Lei la madre di Ettore,
sollevando la poppa, trasmette un richiamo naturale alla
maternità.
Desolata accorse
d'altra parte la madre, e lagrimando
e nudandosi il seno, la materna
poppa scoperse, e,“A questa abbi rispetto”,
singhiozzante esclamava,” a questa, o figlio,
che calmò, lo ricorda, i tuoi vagiti.
Rïentra, Ettore mio, fuggi cotesto
sterminatore, non istargli a petto,
sciaurato! Non io, s'egli t'uccide,
non io darti potrò, caro germoglio
delle viscere mie, su la funèbre
bara il mio pianto, né il potrà l'illustre
tua consorte: e tu lungi appo le navi
giacerai degli Achivi, esca alle belve.
Questi preghi di lagrime interrotti
porgono al figlio i dolorosi, e nulla
persuadon l'eroe che fermo attende
lo smisurato già vicino Achille”
(v.79-89)
(Trad. Vicenzo Monti)
L'espressione "a questa abbi rispetto", riferita al seno, è
qualcosa di più di una semplice supplica, lei si affida al
seno, per mezzo del quale lo ha cresciuto e, nei momenti
dell'allattamento, fatto scordar le pene. Gli chiede
d'affrontare il nemico dalle mura e di salvarsi poiché
sennò non l'avrebbe potuto piangere né lei né la moglie
Andromaca.Ma nessuno dei due genitori persuase
"l'animo d'Ettore". Ai nostri occhi di uomini del ventunesimo
secolo non è facile recepire il perchè di ciò. Ettore è
guerriero, padre e figlio ma la virtù e il valore ( ρετή), cioè
l'essere guerriero, va al di sopra di tutto il resto.
Sicuramente le suppliche dei genitori e della moglie lo
provano molto ma, come lui stesso dice nel sesto libro, ha
troppo rispetto dei Troiani.
Quel gesto è l’esempio più impressionante del confronto fra il
materno spirito femminile e la virilità eroica. I greci
conoscevano il pericolo dell’odio e della gelosia contro i figli
che si annida nello stesso cuore delle madri. Ma era l’inganno
ordito da qualche malignità divina, un tradimento del più
grande amore, proverbiale nemico della guerra:la guerra
invisa alle madri.
Ancora una volta, (quando Ecuba mostra il seno a
Ettore)Omero dimostra di essere poeta supremo, e spiega, in
tempi nei quali la psicologia era scienza tutta da inventare,
con maestria, i pensieri tormentosi di Ettore, da un lato colpito
dalla paura della quasi certa vittoria di Achille e delle
conseguenze terribili che ciò comporterà alla sua Città;
dall’altro la sua volontà di dimostrare a sé ed ai concittadini
ciò che il padre stesso gli aveva detto, e l’amore materno
troppo grande per poter accettare la
morte di un figlio.
Così da qui si può notare che gli eroi non sono altro che
bambini cresciuti per le loro madri, ma questo rapporto non
svilisce la loro natura guerriera, ma ne esalta l'umanità e
mette in risalto la fragilità del bene più prezioso, la vita, che
essi devono sacrificare.
Alla fine del libro si vede la morte del grande eroe e anche la
disperazione delle due figure femminili più legate ad Ettore:
Ecuba e Andromaca. Come un muro della città che cade
conquistata crolla a terra il velo dal capo di Andromaca alla
notizia della morte di Ettore, con tutti i componenti della
complessa acconciatura quali pietre rotolanti giù dai bastioni,
prima ancora che l'infelice cada a terra soggiogata dal
colpo; Ecuba - con gesto più maschio - getta via il suo
d'impulso, alla tremenda notizia della disfatta.
Ecuba intanto fra le Troiane apriva il compianto accorato:
“Figlio! Me sciagurata! Perché campo in tanta disgrazia,
ora che tu sei morto? Tu che morte e giorno per me
eri orgoglio nella città ed eri difesa per tutti
i Troiani e le Troiane, che come un dio
ti salutavano: grande gloria eri anche per loro
finché fosti vivo; ma ora t’ha vinto la morte e il destino”.
(v.430-436)
(Trad. Giovanni Cerri)
Già in questo passo si ha l’anticipazione del lamento funebre
della regina di fronte al corpo del figlio: quindi la celebrazione
dell’eroe come il migliore dei figli e come unico difensore di
Troia.
Compianto di Ettore
Ritroviamo Ecuba nel XXIV libro, quando con Elena e
Andromaca, piange la morte di Ettore e ne rievoca la vita
chiamandolo “il più caro dei figli”.
Mentre la consorte loda il valore dell’eroe suo sposo, la
vecchia madre, devota come tutti i vecchi, ne loda la pietà
religiosa e trova in quel pensiero un conforto. Il segno della
protezione divina è visibile in questo: mentre altri figli di Ecuba
furono presi schiavi e venduti da Achille e il mare come una
barriera insormontabile li separa dall’affetto materno, Ettore,
pur morto è ancora lì, innanzi alla madre, bello anche nella
morte come un fiore appena reciso. Ecuba quindi giudica più
dolorosa la lontananza e la schiavitù dei figli in confronto alla
loro morte e reputa più fortunato Ettore che è morto ma non è
stato condotto schiavo.
Accompagnâr co’ gemiti le donne
d’Andròmaca i lamenti, e li seguiva
il compianto d’Ecùba in questa voce:
”O de’ miei figli, Ettorre, il più diletto!
Fosti caro agli Dei mentre vivevi,
e il sei, qui morto, ancora. Il crudo Achille
di Samo e d’Imbro e dell’infida Lenno
su le remote tempestose rive
quanti a man gli venìan, tutti vendeva
gli altri miei figli; e tu dal suo spietato
ferro trafitto, e tante volte intorno
strascinato alla tomba dell’amico
che gli prostrasti (né per questo in vita
lo ritornò), tu fresco e rugiadoso
or mi giaci davanti, e fior somigli
dai dolci strali della luce ucciso”.
(v.955-970)
(Trad. Vincenzo Monti)
Inoltre la regina ricorda il rispetto che gli dèi hanno avuto per il
corpo del figlio: infatti, nonostante Achille lo abbia trascinato
legato al suo carro, il cadavere di Ettore appare intatto e
fresco come se fosse stato colpito da una freccia di Apollo.
Quindi il lamento disperato oltre ad essere sfogo di un dolore
profondo è anche motivo di celebrazione del coraggioso
eroe scomparso: ella piange un uomo valoroso che ha
rappresentato un modello per tutti e che ora lascia un grande
vuoto.
Fausto Codino nel suo libro “Introduzione a Omero” afferma
che la vita intima per la donna è quasi tutta realtà. Inoltre,
separate dall’esistenza sociale e ridotta alla contemplazione,
le figure femminili omeriche si costruiscono un sistema dei
sentimenti privati che gli uomini non conoscono ancora.
Mentre le passioni maschili hanno uno sfogo nell’assemblea o
sul campo di battaglia, sorgono improvvise e scompaiono
nell’azione, sono sempre accompagnate dal ragionamento,
hanno uno scopo, le passioni femminili, derivanti da una
predestinazione sociale, diventano permanenti e quindi
irrazionali, monomaniache. Che questa unilateralità passi nel
patologico è ben dimostrato nell’Iliade dallo stesso
personaggio di Ecuba, che è presentata distrutta dal dolore
nel XXII libro.
Ecuba quindi si rivela come una donna molto abile e dalle
mille sfaccettature: è regina in primo luogo, una regina che si
dimostra tale anche di fronte al figlio più caro in cerca di
aiuto; ma è soprattutto una madre che non può sopportare il
dolore di vedere morire uno ad uno i suoi diciannove figli e
che per questo si strugge dal dolore.
Anche Dante riprende nella Divina Commedia questi temi
e recita così:
“…Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane”
( Inferno,Canto XXX )
ELENA
Elaborato da Federica Giofrè
interpretazione
Chi si accosta alla lettura dei passi
dell’Iliade e dell’Odissea nei quali
compare il personaggio di Elena non può
fare a meno di rimanere sconcertato. La
posizione di Omero nei
confronti di Elena è
infatti decisamente
ambigua tra una
negativa del personaggio, in quanto colpevole
della guerra di Troia con la sua scandalosa
condotta, e la particolare considerazione in cui ella è
tenuta come figura superiore, non solo per la sua divina
bellezza, ma anche per il possesso da parte sua di qualità
in qualche modo sovrumane.
Chi è dunque Elena? E quale mentalità quale “cultura” si
rivela dietro la sua figura?
Elena è famosa da millenni come simbolo di bellezza, oltre
che memento del terribile potere che la bellezza
può esercitare. In seguito al
suo doppio matrimonio, il
primo con il re greco
Menelao e il secondo con il
principe troiano Paride,
Elena fu incolpata
dell’eterna inimicizia tra
Oriente e Occidente. Secondo la più antica
delle antiche fonti greche sopravvissute, fu posta
sulla terra per liberare il mondo dalla
popolazione superflua. Per quasi tremila anni Elena è stata
considerata alla stregua di un delizioso agente di
sterminio.
Non appena gli occidentali cominciarono a scrivere,
fecero di Elena il loro argomento preferito. La poetessa
Saffo la descrive come “colei che superava di molto tutti i
mortali per bellezza”. Il nome di Elena è ancora oggi
famoso, e lei è ancora considerata la misura aurea della
perfezione fisica.
I sotterranei dei musei di tutto il mondo hanno scaffali
pieni di vasi che mostrano Elena in varie fasi della sua vita
della sua evoluzione come idolo – Elena ragazza, Elena
regina, Elena semidea, Elena meretrice – ma tutte senza
eccezione, sono immagini inventate, non rivelano chi
fosse Elena, ma come gli uomini volevano che fosse.
Per quanto Elena sia passata alla storia
per l’aurea della sua bellezza, è molto più
che un viso grazioso. Rappresenta
qualcosa di molto più potente, complesso
e carismatico che l’autore più eccelso del
mondo antico compose un capolavoro
letterario incardinato su di lei, l’Iliade.
Omero narrò al mondo che cosa una donna come Elena può
far fare agli uomini, diede all’occidente
la sua prima e più influente opera letteraria, propagandò
Elena come icona fascinosa e inquietante.
L’Iliade, che descrive la lotta tra gli achei e i troiani per il
possesso di Elena, al suo livello più complesso è
un’esplorazione del rapporto tra dei e mortali, uomini e
donne, sesso e violenza, dovere e desiderio, piacere e
morte.
Per la prima volta in occidente, nell’Iliade e nell’Odissea
vediamo messe alla prova nozioni di moralità individuale.
Elena è parte vitale di quest’indagine, perché costituisce
un paradosso. Una regina affascinante e infedele,
un’ipocrita rovina famiglie che provoca anni e anni di
sofferenze eppure ne esce indenne; un misto
imperscrutabile di ostinazione e suggestionabilità ,
intelletto e istinto, fragilità e potere. Creata in un’epoca in
cui bene e male non erano ancora percepiti come due
entità distinte , Elena abbraccia entrambi. E’ fisicamente
perfetta, eppure la sua perfezione genera disastri. Pur
essendo chiaramente pericolosa, gli uomini non riescono
a smettere di amarla. E’ passata alla storia come una
donna che esige lo scontro.
La figura di Elena non si esaurisce
però nell’opera di Omero. L’Iliade e
l’Odissea trattano soltanto una frazione della sua vicenda.
Quando Omero nomina Elena per la prima volta, nel
secondo libro dell’Iliade, lo fa senza alcuna introduzione,
dimostrando così di presumere che il pubblico avesse
familiarità con i coloriti antefatti della storia.
Malgrado la presenza di Elena aleggi sull’intero poema,
nascosta dietro le quinte, sono moltissime le cose che
Omero non dice di lei.
Dai vasi dipinti e dai frammenti di storie che emergono
dalle opere teatrali, dai poemi e dalle discussioni
filosofiche dell’antichità sappiamo che gli uomini e le
donne di quell’epoca conoscevano molti altri dettagli
intimi di quella storia straordinaria.
Altri poemi epici proseguivano dove
Omero si era interrotto. Molti sono ormai
perduti da tempo; di alcuni possiamo
ricostruire qualche frammento, di altri
sopravvive soltanto il nome: opere come
la piccola Iliade, la Distruzione di Ilio, i
Ritorni e i Canti cipri.
La figura di Elena aveva un rilievo
particolare nei Canti cipri, un ciclo di
poemi composto subito dopo la morte di Omero.
Originariamente parte di un ciclo epico che trattava delle
origini del mondo e giungeva fino all’età degli eroi,
sembra che quella raccolta si concentrasse sui primi anni
di Elena. Sarebbe stata una delle fonti migliori sulla vita di
Elena, ma ne restano solo pochi frammenti disorganici.
Nel presente lavoro seguirò le fortune di Elena così come
sono narrate da Omero, ma esplorerò anche le
testimonianze riportate in queste fonti letterarie meno
note o in quelle tratte dall’archeologia, mettendo insieme
i momenti della vita di Elena dal suo concepimento fino
alla sua morte. Seguirò la sua evoluzione come
personaggio umano della tarda età del bronzo, come
potenza spirituale e come incomparabile icona di
bellezza e simbolo dell’amore erotico, e ne seguirò i passi
attraverso il Mediterraneo orientale.
Dacchè esistono fonti scritte, gli uomini hanno creduto in
Elena. Hanno creduto in lei sia come figura storica reale
sia come archetipo della bellezza, della femminilità, della
sensualità e del rischio.
Gli ammiratori di Elena, e i suoi detrattori, sono stati molti e
vari. Nell’Inghilterra rinascimentale gli spiriti ribelli
chiamavano le proprie figlie Elena, nell’Europa del XVII
secolo agli artisti si dava l’incarico di decorare i palazzi
con scene gigantesche del ratto di Elena. Durante il
successo del neoclassico registrato fra la fine del XVIII
secolo e l’inizio del XIX, uomini come il filosofo Friedrich
Schiller si servirono del nome di Elena come di un termine
ingiurioso, per designare una civetta, una sgualdrina, una
donna di facili costumi.
Oggi esistono siti internet che
la invocano come maga
potente, altri che la salutano
come primo modello femminile
documentato.
La storia è al tempo stesso
sconcertata e ammaliata da
Elena; per quasi tre millenni si sono susseguiti
atteggiamenti ambigui nei suoi confronti.
Non a caso caratterizzarla è difficile: un’indagine di Elena
attraverso il tempo restituisce tre effigi diverse, eppure
interconnesse. Quando parliamo di lei, stiamo di fatto
descrivendo una trinità. La Elena più familiare è la fulgida
bellezza regale dell’epica, in particolare la Elena di
Omero: la principessa spartana dal padre divino contesa
dagli eroi greci e poi vinta dalla
ricchezza di Menelao.
La regina che, guidata dalla dea
dell’amore Afrodite, accolse nel proprio
letto un principe troiano mentre il marito
era assente. L’aristocratica caparbia e
capricciosa che abbandonò i greci e
attraversò l’Egeo per languire a Troia, odiata da tutti
coloro che la circondavano. L’esule che vide gli eroi
agonizzare in suo nome. L’adultera che, dopo dieci anni
tristi, punitivi e sleali a Troia, era ancora così affascinante
che il marito ingannato, Menelao, non ebbe cuore di
ucciderla. La figura enigmatica che veleggiò di nuovo
verso Sparta mentre il corpo di Paride bruciava sulla piana
di Ilio. Ma Elena non è soltanto un personaggio finemente
cesellato dall’epica greca. E’
stata anche una semidea,
un’eroina, venerata e onorata
in diversi santuari nell’area del
Meditteraneo orientale.
Percepita come parte
integrante del paesaggio
spirituale, uomini e donne officiavano riti propiziatori per
ingraziarsi il suo potere.
Infine c’e la “cagna infedele”, la “meretrice”, la creatura
affascinante irresistibile per gli uomini, la Elena bionda e
procace, ornamento delle gallerie d’arte europee,
immagine dell’erotismo, idolo di
L’Iliade narra di una vasta serie di rapporti problematici:
tra Elena e Paride, tra Paride e Menelao, tra
Agamennone ed Achille. Ma tra tutti il più complicato è
quello tra Zeus e gli esseri umani.
Zeus regna ma è un dio imperfetto
e volubile, tratta gli uomini come
soldatini di latta e, proprio come un
bambino viziato, è impossibile
sapere quando, stanco del gioco,
prenderà a calci le sue falangi
sparpagliandole sul pavimento.
La seduzione di Elena da parte di Paride nel palazzo di
Sparta è stata fonte di ispirazione per tre millenni. Fù quel
momento di passione goduto da Paride ed Elena, un
momento non di violenza ma di “accecamento o
illusione”, che condusse alla morte di migliaia di uomini,
donne e bambini e impegnò i greci in una guerra lunga e
senza scopo. Una debolezza che assume proporzioni
epiche, un peccatuccio che crebbe nell’immaginario
popolare finchè un uomo come Erodoto potè scrivere
nelle Storie: “a grandi colpe rispondono, da parte degli
dei, grandi castighi”.
La tradizione
giudaico-cristiana è
spesso accusata di
aver fatto del piacere
sessuale un peccato
femminile. Ma non è
difficile vedere in
Elena l’equivalente di Eva. Uno studioso ha affermato che
“su di lei si concentrano tutti i problemi che gli uomini
percepiscono riguardo alla sessualità femminile, ovvero
come il loro desiderio per le donne si tramuti in un
problema di cui incolpare le donne stesse”.
E’ certo che Paride non sottomise la spartana. Stando ad
Omero, una volta che Elena si unì al principe troiano, non
è mai descritta come una sgualdrina, né come una
moglie asservita, ma esclusivamente come una
compagna legittima e di pari grado.
La poetessa Saffo, che scrisse un centinaio d’anni dopo
Omero, era certa che la regina di Sparta avesse sedotto
Paride o che, quantomeno, l’avesse seguito deliberatamente,
certa che Elena ispirata dalla passione di Afrodite, non fosse
stata rapita ma fosse partita di sua spontanea volontà.
A trovare maggior favore tra scrittori e artisti, nel corso dei
secoli, furono le figure di Elena vittima di un ratto o
seduttrice astuta e pronta a ghermire la preda.
Nel comune sentire di oggi Elena è vista come la donna
più bella del mondo ma anche come una nullità,
un’inetta. Una celebre attrice che
aveva da poco finito di girare un
cameo nel film di Troy, l’ha definita solo
una marionetta. E in effetti la Elena di
questo Kolossal holliwudiano dei nostri
giorni ha una preoccupante
somiglianza con le Elene vacue e
sottomesse che predominano nell’arte
occidentale. Ci siamo abituati a
pensarla come un trofeo passivo, ma è solo in età
relativamente recente che Elena si è guadagnata questa
reputazione. Per due millenni e mezzo una tradizione
alternativa la riconosceva come un’eroina piuttosto
energica. Non un fantoccio di paglia, ma una
protagonista dinamica, una ricca regina. E anche una
protagonista della scena politiche, con l’aiuto di Afrodite,
controllava gli uomini intorno a sé.
Quando Elena appare come patner attiva, protagonista
invece che preda, nel corso del tempo e dello spazio gli
uomini si affrettano ad etichettarla come una sgualdrina.
E dopo il II secolo d.C., in un mondo sempre più
cristianizzato, la nozione di “Elena la lubrica” si radica
stabilmente. Diventa lo stereotipo non solo della ribelle,
ma della donna di facili costumi. Per gli scrittori cristiani il
fatto che Paride avesse portato doni alla corte di Sparta
era un’ulteriore prova che la fuga di Elena non era altro
che un malcelato atto di prostituzione.
La Elena omerica era stata creata prima che il bene e il
male fossero considerate due forze imponenti,
magnetiche e contrarie, intente a risucchiare il genere
umano verso di sé.
Per i Greci, dell’età de bronzo, le cose erano meno nette
e gli dei stessi erano in parte buoni , in parte cattivi. Elena
è il perfetto esempio di archetipo greco, una donna
ambigua , un’esempio di chiaroscuro.
Quando nel terzo libro dell’Iliade
incontriamo Elena di persona, è
chiamata a contemplare gli uomini
che combattono per lei sulla piana
di Troia. Priamo , il grande re sta per
vedere l’orgoglio della Grecia
dilagare sulle sue terre, sterminare i
suoi uomini e rendere schiave le sue
donne, la invita a guardare: “vieni
qui, figlia mia, siedi vicino a me [ ….]
non certo tu sei colpevole davanti a me”. Ecco Elena,
bella, fascinosa e desiderata. Un trofeo tanto per i troiani
quanto per i greci. Il bisogno di possedere la suprema
ellezza spingerà greci e troiani verso un odio
implacabile. Paride e Menelao si sfidano a duello.
Troppe vite stanno andando sprecate. Menelao è il
guerriero più forte e con più esperienza; è chiaro che
vincerà. Afferra Paride per il sottogola dell’elmo e lo
trascina verso le punte delle spade greche.
Afrodite non sopporta di vedere annientare il suo bel
principe. Si nasconde in una nuvola di nebbia e si
precipita giù per sottrarre Paride al campo di battaglia,
appoggiandolo languido “nel talamo odoroso di
balsami”. La dea si reca poi da Elena sotto le spoglie di
una vecchia e le ordina di recarsi a servire il suo secondo
marito. Elena è furibonda, sia con Afrodite “che gli fornì
l’affanosa lussuria” sia con quel debole fallito del suo
amante presuntuoso. Cerca di resistere sia alla dea che al
suo giocattolo divino, ma Afrodite la gela minacciandola
di distruggere la sua bellezza, la sola sicurezza che
possiede.
Per quanto la donna più bella del mondo fosse, agli occhi
dei greci, una causa sufficiente per innescare la guerra di
tutte le guerre, gli eroi che combatterono a Troia non lo
fecero soltanto per una donna, ma per l’onore e la gloria
che la morte poteva portare.
L’Iliade articola un codice per la società greca maschile
e aristocratica: un sistema di valori incarnato dal guerriero
supremo, Achille. Il vero eroe amava tanto una vita
gloriosa quanto una morte gloriosa.
La memoria di Elena risuonò con particolare eco non
tanto a Sparta, sua città natale, ma nell’Atene classica.
Nel V secolo a.C., grazie alla nuova arte del teatro, oltre
che ai dialoghi dei filosofi e retori, la storia di Elena prende
una piega interessante. Era già venerata nei luoghi di
culto sparsi nel Peloponneso, cantata nelle grandi dimore,
il suo viso era inciso nel metallo e dipinto sui vasi, ma
adesso si accingeva a diventare un animale politico.
Dopo che la regina di Sparta fece la sua comparsa sulla
scena teatrale ateniese, l’idea stessa di Elena divenne
centrale nell’esperienza democratica ateniese e quindi
fondamentale per il modello della società occidentale.
Per una polis ambiziosa come quella ateniese la storia di
Elena comprendeva temi avvincenti: la morte e il senso
del dovere, la responsabilità civica e l’ambizione
individuale, il rapporto tra estraneo e familiare, il fine della
guerra, il fine delle donne, l’imperfezione umana. E con
Elena a incarnare una forza primitiva (l’energia
dell’amore) ci si interrogava come l’imperfetto, lo
spontaneo, l’animale potesse entrare a far parte del
corpo sociale, politico.
La Elena omerica è sempre ambigua, sempre
affascinante. Ma è sul palcoscenico ateniese che si fa
paradosso: una creatura di una polarità esemplare, o
totalmente priva di difetto o
decisamente abietta. E’ qui che
comincia davvero il fervido
dibattito su Elena . Qual è il suo
significato? come trattarla?
Anche quando in un’opera ha
solo un ruolo da comparsa,
eclissa gli altri personaggi e la sua presenza supera le
scene in cui compare. La lingua usata dai tragediografi
greci aveva l’obiettivo di lasciare gli spettatori a bocca
aperta. E assistendo ai lavori di Eschilo, Sofocle e
soprattutto Euripide dovevano davvero rimanere senza
fiato a vedere Elena.
Era a teatro, alla presenza di un vasto pubblico, che i
greci (che amavano analizzare le cose) potevano
chiedersi chi erano, che cosa dovevano pensare e come
dovevano vivere. Elena era al centro di questi
interrogativi.
Quindi era al tempio di Dioniso che gli uomini del V secolo
si recavano per assistere all’esame della storia di Elena ,
narrata in forma particolarmente chiara in Euripide.
Nella sua lingua semplice, colloquiale, carismatica,
Euripide fece di Elena una figura centrale della scena
tragica. E nel ritratto complesso e combattuto che ne
diede compendiò splendidamente l’atteggiamento degli
uomini che la volevano al tempo stesso creatura perfetta
e perfetto capro espiatorio.
Nelle sue tragedie era chiaro che la Elena pre-storica era
diventata una qualunque donna greca classica, che
c’era una Elena in qualsiasi fanciulla, vergine, moglie o
prostituta che abitasse il mondo greco.
Nelle Troiane Elena e la sua ex suocera
Ecuba, vedova del re Priamo e madre
dei defunti Paride ed Ettore,
combattono una guerra di parole.
Menelao è sul punto di uccidere la
moglie adultera, ma Elena insiste che
non è lei la responsabile di tutte quelle
morti e della distruzione di Troia e non
merita di morire. La regina di Troia
controbatte addossandole
interamente la colpa. E’ un agone oratorio. Ecuba
enfatizza con astuzia gli interessi e i gusti orientali,
barbarici di Elena; ricorda così a Menelao che Elena ha
trascorso dieci anni in un letto Troiano.
L’anziana donna argomenta disperata, consapevole che
ancora una volta la bellezza, il carisma, l’eloquenza di
Elena farà crollare l’uomo che ha di fronte.
Gli ateniesi del V secolo a.C. odiavano Elena proprio
perché era una donna attiva, che sembrava aver
prodotto un cambiamento significativo nello status quo.
La sua storia segna la fine dell’età degli eroi e della civiltà
micenea. Ma in un certo senso il crimine più grave di
Elena è la sua notorietà. La donna ateniese ideale, nel V
secolo a.C., era quella che non si vedeva, non si sentiva e
di cui non si parlava. Considerate queste premesse, Elena
non era soltanto una donna dissoluta, ma una parodia
della femminilità, una nemica dell’uomo civile.
Gli uomini la sottraggono alla fortezza di Sparta per
intrappolarla nel santuario, palazzo, bordello, paradiso o
inferno che meglio si addice alla loro epoca.
Cercano di continuo, senza alcun successo, di definire
una volta per tutte la sua bellezza sia mentalmente sia
fisicamente, creando sempre nuove Elene.
Con deplorevole parzialità si assiste ancora sui passaggi
meno nobili, invece che sulle glorie della sua vicenda. Per
secoli si è scelto di uniformarsi alla visione del mondo postomerica,
misogina, codificata in città come Atene dal V
secolo in poi. Ma Elena è frutto di un epoca precedente.
Dalla nascita della storia il suo nome non è stato più
dimenticato e tale longevità è una prova del suo valore.
E’ speciale perché è una presenza femminile che è
rimasta coerente, sia in ambito sacro sia profano, per tre
millenni. Il mondo è cambiato, le civiltà si sono
avvicendate, le sensibilità sociali, culturali e politiche sono
mutate, i poeti hanno cantato e sono stati ridotti al
silenzio, ma Elena ha resistito a tutto questo.
Ci chiediamo che ne sia stato di quell’elusiva Elena prestorica,
la regina dell’età del bronzo che risiedeva tra i
blocchi calcarei del palazzo di Sparta. L’aristocratica che
controllava gli uomini attorno a sé. La signora ieratica
proprietaria di terre. La donna che avanzava splendente,
profumata di olio d’oliva e di rosa, e che di notte lasciava
il palazzo per officiare rituali inebrianti. La regina che
viveva in un palazzo decorato da immagini di
sacerdotesse e fanciulle-dee, che preparava narcotici e
camminava mano nella mano con gli spiriti della sua
terra. Una donna dotata di una posizione preminente:
potente, ricca e rispettata.
Tracce di questa donna sono radicate nel paesaggio del
Peloponneso edell’Anatolia.
Ci ha lasciato molti indizi, ma non un corpo.
Per quanto le condizioni in cui versa la cittadella di Sparta
lascino pensare che i resti di Elena siano definitivamente
sfuggiti alla testimonianza storica, la mia personale
fantasia è che un giorno se ne ritrovi la salma. Perché solo
se Elena di Troia diventasse un mucchietto di ossa secche,
un anello ossidato e una mano ridotta a un artiglio
scheletrico, la lascerebbero finalmente riposare in pace.
Solo allora cesseremmo di darle la caccia, solo allora
smetteremmo di incolparla di essere la più bella delle
donne.
Anche la filosofia si è occupata di Elena, tra i vari autori
ricordiamo Gorgia con la sua retorica.
La retorica, intesa come “arte del dire”, cioè come
capacità di formulare discorsi ben costruiti e convincenti,
è d’altra parte strettamente connessa a tutto lo sviluppo
della civiltà greca: già gli eroi di Omero sono presentati
come abili parlatori. Il testo presentato come Encomio di
Elena ci mostra l’abilità di Gorgia nell’esprimersi in una
prosa capace insieme di musicalità e di ritmo, di metafore
audaci e di un sapiente parallelismo di frasi antitetiche.
L’intento di Gorgia è quello di dimostrare che la concorde
testimonianza dei poeti sulla colpevolezza di Elena si basa
sull’ignoranza dei veri motivi che hanno guidato la sua
azione. Vengono quindi presentate quattro ipotesi
alternative che possono fornire una spiegazione del suo
comportamento: la volontà divina, la violenza, la forza
persuasiva della parola e l’amore.
Innanzitutto si analizzano le conseguenze che
scaturiscono dalle prime due ipotesi e si mostra come in
entrambi i casi si debba giungere ad ammettere
l’innocenza di Elena.
L’ipotesi che attribuisce alla potenza della parola la
causa del comportamento di Elena e insieme il motivo per
cui ella deve essere giustificata è il nucleo centrale
intorno al quale si sviluppa il pensiero di Gorgia. La parola
viene ad assumere in questo testo un’importanza
assoluta, in quanto è ritenuta capace di muovere
profondamente l’animo umano.
Gorgia è certamente consapevole che assimilare la forza
della persuasione a quella della violenza sia una tesi
ardita e sconcertante, e tuttavia la
presenta nel modo più naturale,
facendola scaturire come logica
conseguenza delle affermazioni
precedenti. Colui che è stato
persuaso dalla potenza della parola
a compiere azioni disdicevoli deve essere quindi
considerato come una vittima e discolpato dall’accusa.
Il riconoscimento della forza persuasiva delle parole
deriva dalla considerazione della conduzione umana
come intrinsecamente caratterizzata dall’errore rispetto
alla conoscenza della verità: non esistendo più (come ha
dimostrato Gorgia nella sua stringente dissertazione sulla
non esistenza dell’essere e sull’impossibilità della
comunicazione) alcuna certezza su che cosa sia la verità
(e il caso di Elena né è un esempio evidente), lo spazio
occupato dalla parola diventa assoluto, perché la verità
viene a coincidere con il discorso più persuasivo.
La retorica, allora, assume il ruolo di uno strumento
potentissimo e fondamentale, capace di assecondare il
carattere fluido e cangiante della realtà e di convincere
chi legge o ascolta della bontà dell’argomentazione
proposta.
Una delle cose sorprendenti dell’Iliade è la forza, direi la
compassione, con cui vi sono tramandate le ragioni dei
vinti. È una storia scritta dai vincitori, eppure nella
memoria rimangono anche, se non soprattutto le figure
umane dei troiani. Priamo, Ettore, Andromaca, perfino
piccoli personaggi come Pandaro o Sarpedonte. Questa
capacità, sovrannaturale, di essere voce dell’umanità
tutta e non solo di se stessi, l’ho ritrovata leggendo il testo
e scoprendo come i Greci, nell’Iliade, abbiano
tramandato, tra le righe di un monumento alla guerra, la
memoria di un amore ostinato per la pace.
A prima vista non te ne accorgi,
accecato dai bagliori delle
armi e degli eroi. Ma nella
penombra della riflessione viene
fuori un Iliade che non ti aspetti.
Vorrei dire: il lato femminile
dell’Iliade. Sono spesso le donne a pronunciare, senza
mediazioni, il desiderio di pace. Relegate ai margini del
combattimento, incarnano l’ipotesi ostinata e quasi
clandestina di una società alternativa, libera dal dovere
della guerra. Sono convinte che si potrebbe vivere in un
mondo diverso, e lo dicono. Nel modo più chiaro lo
dicono nel VI libro, piccolo capolavoro di geometria
sentimentale. In un tempo sospeso, vuoto, rubato alla
battaglia, Ettore entra in città e incontra tre donne: ed è
come un viaggio nell’altra parte del mondo.
A ben vedere tutt’e tre pronunciano una stessa supplica,
pace, ma ognuna con la
propria tonalità
sentimentale. La madre lo
invita a pregare. Elena lo
invita al suo fianco, a
riposarsi. Andromaca, alla
fine, gli chiede di essere
padre e marito prima che
eroe e combattente. Soprattutto in questo ultimo dialogo,
la sintesi è di un chiarore quasi didascalico:due mondi
possibili stanno uno di fronte all’altro, e ognuno ha le sue
ragioni.
Più legnose, cieche, quelle di Ettore: moderne, tanto più
umane, quelle di Andromaca.
Non è mirabile che una società maschilista e guerriera
come quella dei greci abbia scelto di tramandare, per
sempre, la voce delle donne e il loro desiderio di pace?
Lo si impara dalla loro voce, il lato femminile dell’Iliade:
ma una volta imparato, lo si ritrova, poi, dappertutto.
Sfumato, impercettibile, ma incredibilmente tenace. Io lo
vedo fortissimo nelle innumerevoli zone dell’Iliade in cui gli
eroi, invece che combattere, parlano. Sono assemblee
che non finiscono mai, dibattiti interminabili, e uno smette
di odiarli solo quando inizia a capire cosa effettivamente
sono: sono il loro modo di rinviare il più possibile la
battaglia. La parola è l’arma con cui congelano la
guerra. Poi,quando in battaglia ci vanno davvero, si
trasformano in eroi ciechi, dimentichi di qualsiasi
scappatoia, fanaticamente votati al dovere. Ma prima:
prima è un lungo tempo, femminile, di lentezze sapienti, e
sguardi all’indietro, da bambini. Nel modo più alto e
accecante,questa sorta di ritrosia dell’eroe si
coagula,come è giusto in Achille. È lui quello che ci mette
più tempo,nell’Iliade,a scendere in battaglia. È lui
che,come una donna,assiste da lontano alla
guerra,suonando una cetra e rimanendo al fianco di
quelli che ama. Proprio lui, che della guerra è
l’incarnazione più feroce e fanatica, letteralmente
sovraumana. La geometria dell’Iliade è, in questo, di una
precisione vertiginosa. Dove più forte è il trionfo della
cultura guerriera, più tenace e prolungata è l’inclinazione,
femminile, alla pace.
Alla fine è in Achille che l’inconfessabile di tutti gli eroi
erompe in superficie nella chiarezza senza mediazioni di
un parlare esplicito e definitivo.
Quel che lui dice davanti all’ambasceria mandatagli da
Agamennone,nel IX libro, è forse il più violento e
indiscutibile grido di pace che i nostri padri ci abbiano
tramandato:
“Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio fiorente
possedeva prima,
in tempo di pace, prima che giungessero i figli dei Danai;non le ricchezze
che, dietro la soglia di pietra, racchiude il tempo di apollo signore dei
dardi, a Pito rocciosa; si possono rubare buoi, e pecore pingui, si possono
acquistare tripodi e cavalli dalle fulve criniere ;ma la vita dell’uomo non
ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando ha passato la
barriera dei denti.”
Sono parole da Andromaca: ma nell’Iliade le pronuncia
Achille, che è il sommo
sacerdote della religione della
guerra: e per questo esse
risuonano con un’autorevolezza
senza pari.
In quella voce-che, sepolta sotto
un monumento alla guerra, dice addio alla guerra,
scegliendo la vita- l’Iliade lascia intravedere una civiltà di
cui i greci non furono capaci, e che tuttavia avevano
intuito, e conoscevano, e persino custodivano in un
angolo segreto e protetto del loro sentire. Portare a
compimento quell’intuizione forse è quanto nell’Iliade ci è
proposto come eredità, e compito, e dovere. Come
svolgere quel compito? Cosa dobbiamo fare per indurre il
mondo a seguire la propria inclinazione per la pace?
Anche su questo l’Iliade ha, mi sembra, qualcosa da
insegnare. E lo fa nel suo tratto più evidente e scandaloso:
il suo tratto guerriero e maschile. È indubbio che quella
storia presenti la guerra come uno sbocco quasi naturale
della convivenza civile. Ma non si limita a questo: fa
qualcosa di assai più importante e, se vogliamo,
intollerabile: canta la bellezza della guerra, e lo fa con
una forza e una passione memorabili. In questo omaggio
alla bellezza della guerra, l’Iliade ci costringe a ricordare
qualcosa di fastidioso ma inesorabilmente vero: per
millenni la guerra è stata per gli uomini, la circostanza in
cui l’intensità-la bellezza-della vita si sprigionava in tutta la
sua potenza e verità. Era quasi l’unica possibilità per
cambiare il proprio destino, per trovare la verità di se
stessi, per assurgere a una alta consapevolezza etica. Di
contro alle anemiche emozioni della vita e alla mediocre
statura morale della quotidianità, la guerra rimetteva in
movimento il mondo e gettava gli individui al da là dei
consueti confini, in un luogo dell’anima che doveva
sembrar loro, finalmente, l’approdo di ogni ricerca e
desiderio.
Quel che forse suggerisce l’Iliade è che nessun pacifismo,
oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come
se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è
un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto
suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un
inferno: ma bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come
falene attratte dalla luce mortale del fuoco. Non c’è
paura, o orrore di sé, che sia riuscito a tenerli lontani dalle
fiamme: perche in esse hanno sempre trovato l’unico
riscatto possibile dalla penombra della vita.
Per questo, oggi, il compito di un vero pacifismo
dovrebbe essere non tanto demonizzare all’eccesso la
guerra, quanto capire che solo quando saremo capaci di
un’altra bellezza potremo fare a meno da quella che la
guerra da sempre ci offre.
Costruire un’altra bellezza è forse l’unica strada verso una
pace vera. Dimostrare di essere capaci di rischiare la
penombra dell’esistenza, senza ricorrere al fuoco della
guerra. Dare un senso, forte, alle cose senza doverle
portare sotto la luce, accecante, della morte. Poter
cambiare il proprio destino senza doversi impossessare di
quello di un altro; riuscire a mettere in movimento il
denaro e la ricchezza senza dover ricorrere alla violenza;
trovare una dimensione etica, anche altissima, senza
doverla andare cercare ai margini della morte; incontrare
se stessi nell’intensità di luoghi e momenti che non siano
una trincea; conoscere l’emozione, anche la più
vertiginosa, senza dover ricorrere al doping della guerra o
al metadone delle piccole violenze
quotidiane.
Oggi la pace è poco più che una
convenienza politica: non è certo
un sistema di pensiero e un modo di sentire veramente
diffusi. Si considera la guerra un male da evitare, certo,
ma si è ben lontani da considerarla un male assoluto: alla
prima occasione; foderata di begli ideali, scender in
battaglia ridiventa velocemente un’opzione realizzabile.
Una reale, profetica e coraggiosa ambizione alla pace io
la vedo soltanto nel lavoro paziente e nascosto di milioni
di artigiani che ogni giorno lavorano per suscitare un’altra
bellezza,e il chiarore di luci, limpide che non uccidono. E’
un impresa utopica, che presuppone una vertiginosa
fiducia nell’uomo. Riusciremo, prima o poi, a portar via
Achille da quella micidiale guerra. E non saranno la paura
né l’orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche,
diversa,bellezza,più accecante della sua,e infinitamente
più mite.
Elaborato da Roberta Dinatolo