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principi ambientali e disciplina degli ogm nell'unione europea

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Giuseppe Morgese<br />

PRINCIPI DI TUTELA AMBIENTALE E DISCIPLINA DEGLI<br />

ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI (OGM)<br />

NELL’UNIONE EUROPEA<br />

(dispensa finalizzata allo studio dell’esame di “Elementi di diritto<br />

dell’Unione <strong>europea</strong> per le biotecnologie”, Facoltà di Scienze<br />

biotecnologiche, Università <strong>degli</strong> Studi di Bari Aldo Moro)<br />

SOMMARIO: 1. Evoluzione e princìpi del diritto internazionale dell’ambiente. – 2.<br />

Evoluzione, obiettivi e princìpi <strong>ambientali</strong> nell’Unione <strong>europea</strong>. – 3.<br />

Evoluzione storica della <strong>disciplina</strong> UE sugli OGM. – 4. L’impiego confinato<br />

di microrganismi geneticamente modificati (MGM). – 5. L’emissione<br />

deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati (OGM) e la<br />

direttiva 2001/18/CE. – 6. (segue): La particolare procedura per alimenti e<br />

mangimi predisposta dal regolamento 1829/2003. – 7. Libera circolazione<br />

<strong>degli</strong> OGM, sistema di salvaguardia e coesistenza tra colture tradizionali e<br />

colture OGM.<br />

1. Evoluzione e princìpi del diritto internazionale dell’ambiente.<br />

Negli ultimi decenni la protezione dell’ambiente è divenuta<br />

un’esigenza sempre più sentita dalla comunità internazionale. Ci si è<br />

preoccupati di stabilire linee programmatiche da seguire per garantire la<br />

salvaguardia e arginare il deterioramento dell’ambiente. Davanti ai danni<br />

causati dall’inquinamento la sola legislazione nazionale si è infatti<br />

dimostrata ben presto insufficiente, e per questo motivo l’equilibrio<br />

ecologico del pianeta è divenuto oggetto di preoccupazione nei rapporti tra<br />

gli Stati. A livello internazionale, l’esigenza di fornire una risposta ai<br />

problemi <strong>ambientali</strong> è emersa soprattutto a partire dalla seconda metà del<br />

XX secolo, anche se in precedenza vi sono state convenzioni che<br />

<strong>disciplina</strong>vano specifici aspetti di carattere ambientale.<br />

Definizione di diritto internazionale dell’ambiente. Il diritto<br />

internazionale dell’ambiente è quel complesso di <strong>principi</strong> e norme che<br />

stabiliscono regole di comportamento per gli Stati al fine di realizzare la<br />

tutela dell’ambiente e l’uso equilibrato delle risorse naturali in un contesto<br />

di sviluppo economico e sociale. È un diritto che ha ormai assunto una<br />

1


vocazione globale in quanto diretto alla soluzione di problemi che<br />

interessano l’intera comunità internazionale.<br />

Evoluzione storica. Nella seconda metà del XIX secolo si hanno<br />

regolamentazioni internazionali dell’utilizzo delle risorse naturali<br />

soprattutto per finalità di navigazione (es. le Commissioni internazionali<br />

fluviali per il Reno, il Danubio, l’Oder e l’Elba, create per regolare la<br />

navigazione fluviale e ora diventate strumento di tutela ambientale). La<br />

Corte permanente di giustizia internazionale (CPJI), nella sentenza<br />

Giurisdizione territoriale della Commissione internazionale dell’Oder<br />

(1929) afferma l’esistenza di un diritto comune <strong>degli</strong> Stati rivieraschi alla<br />

navigazione del fiume a prescindere dalle frontiere politiche.<br />

Agli inizi del XX secolo troviamo i primi trattati bilaterali e<br />

multilaterali diretti a proteggere alcune specie faunistiche (es. i trattati<br />

bilaterali sulla protezione delle foche da pelliccia del 1911) nonché alcune<br />

convenzioni che istituiscono meccanismi di consultazione e facilitano la<br />

soluzione delle controversie tra Stati aventi ad oggetto l’uso delle risorse<br />

naturali condivise (es. il Trattato tra Stati Uniti e Regno Unito in favore del<br />

Canada sulle acque di frontiera del 1909, che intendeva regolare i livelli<br />

idrici e la navigabilità dei Grandi laghi e prevedeva anche un obbligo di non<br />

inquinare le acque in ciascuno dei due lati di frontiera).<br />

Nel periodo tra le due guerre mondiali vengono stipulate alcune<br />

convenzioni, quali quella di Londra per la protezione della fauna e della<br />

flora naturali in certe parti del mondo considerate a rischio di estinzione<br />

(1933) e quella di Washington sulla preservazione della fauna, della flora e<br />

delle bellezze panoramiche naturali nei Paesi americani (1940). Viene<br />

inoltre a consolidarsi la prassi che mette in luce gli effetti dannosi di un<br />

esercizio illimitato della sovranità statale sulle risorse naturali. Si veda ad<br />

es. la decisione arbitrale sul caso dei fumi inquinanti della fonderia canadese<br />

Smelter (1941) con conseguenze dannose nel territorio <strong>degli</strong> Stati Uniti: è la<br />

prima decisione ad affermare che nessuno Stato ha il diritto di utilizzare il<br />

proprio territorio in maniera tale da creare danni al territorio di altri Stati<br />

quando vi siano conseguenze serie e il danno sia accertato in modo chiaro e<br />

convincente.<br />

Lo Statuto delle Nazioni Unite non menziona la tutela dell’ambiente<br />

tra gli obiettivi dell’Organizzazione, né viene attribuita una competenza in<br />

materia a qualcuno dei suoi Istituti specializzati. Ciò deriva anche dal fatto<br />

che, in questa fase, il diritto internazionale era ancora influenzato dal<br />

<strong>principi</strong>o di illimitata sovranità territoriale sugli spazi territoriali e marittimi<br />

nazionali e dall’indifferenza per la tutela ambientale <strong>degli</strong> altri spazi (come<br />

l’alto mare).<br />

2


Negli anni ‘50 e ‘60 si hanno le prime manifestazioni di una<br />

“coscienza ambientale” <strong>degli</strong> Stati. Tuttavia gli strumenti di questo periodo<br />

continuano ad avere un approccio limitato. Ci si riferisce alla Convenzione<br />

di Londra sull’inquinamento delle acque marine da idrocarburi (1954); al<br />

Trattato di Washington sull’Antartide (1959), che si limita a proibire lo<br />

scarico di materiali radioattivi; al Trattato sui <strong>principi</strong> che regolano le<br />

attività <strong>degli</strong> Stati nell’esplorazione e uso dello spazio extra-atmosferico<br />

(1967), che fa un generico riferimento all’obbligo di evitare mutamenti<br />

<strong>ambientali</strong> derivanti dall’ingresso nell’atmosfera di oggetti spaziali e invece<br />

non si cura dell’ambiente cosmico, del fenomeno dei detriti spaziali e<br />

dell’uso di energia nucleare sugli oggetti spaziali. L’insufficiente attenzione<br />

alla tutela ambientale risente peraltro del processo di decolonizzazione,<br />

dell’enfasi, posta dai PVS, sul tradizionale <strong>principi</strong>o della piena sovranità<br />

territoriale sulle risorse nazionali e della scarsa attenzione a problematiche<br />

“collettive” come quelle ecologiche. La nota Dichiarazione dell’Assemblea<br />

generale ONU sulla sovranità permanente <strong>degli</strong> Stati sulle proprie risorse<br />

naturali (1962) afferma all’art. 1 che «Il diritto dei popoli e delle nazioni<br />

alla sovranità permanente sulle loro ricchezze e risorse naturali deve essere<br />

esercitato nell’interesse del loro sviluppo nazionale e del benessere delle<br />

popolazioni dello Stato interessato»: quindi, solo nell’interesse dello<br />

sviluppo e non dell’ambiente.<br />

La situazione cambia durante gli ultimi decenni del XX secolo. Si ha<br />

una prima fase del c.d. funzionalismo ambientale, inaugurata dalla<br />

Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente umano (1972) e caratterizzata<br />

dalla conclusione di numerosi accordi settoriali basati sul <strong>principi</strong>o della<br />

prevenzione del danno. In una seconda fase, detta del globalismo ambientale<br />

e avviata dalla nota Conferenza ONU di Rio de Janeiro su ambiente e<br />

sviluppo (1992), si ha invece l’estensione della cooperazione internazionale<br />

alle questioni <strong>ambientali</strong> globali e la conclusione di convenzioni globali<br />

fondate sul <strong>principi</strong>o di precauzione.<br />

Dalla Conferenza di Stoccolma (1972) alla Conferenza di Rio<br />

(1992). Negli anni ‘70, alcuni fattori conducono a una maggiore attenzione<br />

alle problematiche <strong>ambientali</strong> globali: l’estensione dei fenomeni di<br />

inquinamento; la nascita dei movimenti ecologisti; alcuni gravi incidenti<br />

<strong>ambientali</strong> (es. il caso della petroliera Torrey Canyon del 1967 che versa nel<br />

Canale della Manica 120.000 tonnellate di petrolio distruggendo gran parte<br />

delle risorse biologiche tra Regno Unito e Francia).<br />

Viene convocata la Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente<br />

umano (1972), cui prendono parte 113 Stati di cui 108 membri ONU. Si<br />

esplicita il pericolo del degrado ambientale e si evidenzia la necessità di<br />

un’azione condivisa a livello internazionale. La Conferenza di Stoccolma<br />

adotta una Dichiarazione sull’ambiente umano (che fissa 26 Principi e linee<br />

3


guida politiche cui gli Stati si impegnavano ad attenersi in materia<br />

ambientale tanto a livello nazionale quanto internazionale) e un Piano<br />

mondiale di azione ambientale (contenente 109 raccomandazioni operative<br />

per definire più dettagliatamente gli obiettivi della Dichiarazione).<br />

Tra i Principi della Dichiarazione ricordiamo il Principio 1: «L’uomo<br />

ha un diritto fondamentale alla libertà, all’eguaglianza e a condizioni di vita<br />

soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel<br />

benessere, ed è altamente responsabile della protezione e del miglioramento<br />

dell’ambiente davanti alle generazioni future»; il Principio 2: «Le risorse<br />

naturali della Terra, ivi incluse l’aria, l’acqua, la flora, la fauna e<br />

particolarmente il sistema ecologico naturale, devono essere salvaguardate a<br />

beneficio delle generazioni presenti e future, mediante una programmazione<br />

accurata o una appropriata amministrazione»; e l’importante Principio 21<br />

secondo cui «La Carta delle Nazioni Unite e i <strong>principi</strong> del diritto<br />

internazionale riconoscono agli Stati il diritto sovrano di sfruttare le risorse<br />

in loro possesso, secondo le loro politiche <strong>ambientali</strong>, ed il dovere di<br />

impedire che le attività svolte entro la propria giurisdizione o sotto il proprio<br />

controllo arrechino danni all’ambiente di altri Stati o a zone situate al di<br />

fuori dei limiti della loro giurisdizione nazionale».<br />

Nel 1972, subito dopo la Conferenza di Stoccolma, l’Assemblea<br />

generale ONU crea il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente<br />

(UNEP). Esso diviene organo sussidiario dell’ONU e ha compiti di studio e<br />

operativi, per la fornitura di assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo<br />

(PVS) soprattutto nella legislazione ambientale. L’UNEP può adottare atti<br />

non vincolanti oppure progetti di convenzioni in materia ambientale. In sede<br />

UNEP sono state negoziate la Convenzione di Vienna sulla protezione della<br />

fascia di ozono (1985) e il relativo Protocollo di Montreal sulle sostanze che<br />

impoveriscono l’ozonosfera (1987); è stato predisposto anche il Programma<br />

di Montevideo sullo sviluppo del diritto ambientale e il Programma sulla<br />

protezione dei mari regionali, che hanno dato origine alla Convenzione di<br />

Barcellona sulla tutela del Mar Mediterraneo dall’inquinamento (1976). Le<br />

funzioni dell’UNEP sono state ampliate con il c.d. Pacchetto di Cartagena<br />

adottato nel 2002. Attualmente, la proposta dell’UE di trasformare l’UNEP<br />

in una vera e propria organizzazione internazionale (Organizzazione ONU<br />

per l’ambiente) si scontra con l’opposizione di Brasile, India e USA.<br />

Nell’arco di un ventennio dopo la Conferenza di Stoccolma, si è avuta<br />

una moltiplicazione dei trattati <strong>ambientali</strong> “settoriali”, quali la Convenzione<br />

di Ramsar sulle zone umide di importanza internazionale (1971); la<br />

Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di<br />

fauna e flora selvatiche in via di estinzione (CITES) (1973); la Convenzione<br />

di Ginevra relativa al divieto di utilizzare tecniche di modificazione<br />

ambientale per scopi militari o altri scopi ostili (1977); la Convenzione di<br />

4


Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza<br />

(1979) diretta a prevenire le piogge acide; alcune convenzioni sulle risorse<br />

fitogenetiche negoziate in ambito FAO; la Convenzione di Bonn sulla<br />

conservazione delle specie migratrici appartenenti alla fauna selvatica<br />

(1979); due Convenzioni di Vienna sulla notifica tempestiva di incidenti<br />

nucleari e sull’assistenza in casi di incidenti nucleari o di emergenza<br />

radiologica (1986); e l’importante Convenzione di Montego Bay sul diritto<br />

del mare (1982) che contiene specifiche norme in materia di protezione<br />

dell’ambiente marino e di obblighi di istituire zone di preservazione <strong>degli</strong><br />

ecosistemi, delle specie faunistiche e floristiche, e della diversità biologica.<br />

Questi e altri trattati danno attuazione al <strong>principi</strong>o di cooperazione (inteso<br />

come azione di tutti gli Stati nell’esercitare in modo più responsabile la<br />

sovranità sulle risorse nazionali nell’interesse delle generazioni future) e<br />

pongono obblighi di risultato (norme non direttamente applicabili e che<br />

richiedono ulteriore attività normativa statale, non idonee pertanto a<br />

garantire uniformità tra le diverse legislazioni nazionali): es. la Convenzione<br />

UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale<br />

(1972) stabilisce che l’assistenza internazionale nella tutela del patrimonio<br />

naturale universale è complementare rispetto all’attività statale.<br />

La Conferenza di Rio (1992) e il <strong>principi</strong>o dello sviluppo<br />

sostenibile. La seconda fase del diritto internazionale ambientale viene<br />

anticipata dalla creazione di una commissione di esperti indipendenti,<br />

incaricati dalle Nazioni Unite: la c.d. Commissione Brundtland (dal nome<br />

del suo presidente) elabora il noto rapporto Our Common Future in cui<br />

viene esplicitato il concetto di sviluppo sostenibile.<br />

Lo sviluppo sostenibile è un modello di sviluppo che si propone di<br />

soddisfare i bisogni della generazione attuale senza compromettere la<br />

capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie.<br />

La Conferenza ONU di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo<br />

(UNCED), svoltasi dal 3 al 14 giugno 1992, avvia una fase diretta a rendere<br />

compatibili le esigenze dello sviluppo economico con quelle di tutela<br />

dell’ambiente e a orientare la cooperazione tra Stati alla soluzione dei<br />

problemi <strong>ambientali</strong> di natura globale (cambiamenti climatici, perdita della<br />

diversità biologica, deforestazione). La Conferenza di Rio ha adottato tre<br />

atti: la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo (contenente 27 Principi<br />

generali); l’Agenda 21 (documento programmatico non vincolante diretto<br />

all’individuazione <strong>degli</strong> interventi necessari a realizzare il <strong>principi</strong>o dello<br />

sviluppo sostenibile e a emanare appropriate raccomandazioni agli Stati); e<br />

la c.d. Dichiarazione dei <strong>principi</strong> per la gestione sostenibile delle foreste<br />

(documento anch’esso non vincolante che definisce diverse azioni per la<br />

salvaguardia del patrimonio forestale, attraverso uno sfruttamento<br />

sostenibile delle risorse forestali).<br />

5


(segue): La Dichiarazione su ambiente e sviluppo e i Principi<br />

generali rilevanti. Con la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo il<br />

diritto ambientale assume una più marcata connotazione per princìpi<br />

generali. In particolare, la Dichiarazione ha le caratteristiche di una c.d. lawdeveloping<br />

resolution: ha infatti contribuito alla formazione delle norme<br />

consuetudinarie in materia ambientale e ha costituito la base per la creazione<br />

dei successivi regimi convenzionali. La Dichiarazione non sancisce<br />

espressamente un diritto all’ambiente come diritto umano fondamentale, e<br />

ciò si pone in discontinuità con le affermazioni (perlomeno di <strong>principi</strong>o)<br />

contenute in alcuni trattati internazionali e costituzioni nazionali precedenti.<br />

In proposito, il Principio 10 si limita infatti ad affermare un più<br />

semplice diritto di accesso dei cittadini alla informazione ambientale: «Il<br />

modo migliore di trattare le questioni <strong>ambientali</strong> è quello di assicurare la<br />

partecipazione di tutti i cittadini interessati, ai diversi livelli. Al livello<br />

nazionale, ciascun individuo avrà adeguato accesso alle informazioni<br />

concernenti l’ambiente in possesso delle pubbliche autorità, comprese le<br />

informazioni relative alle sostanze ed attività pericolose nelle comunità, ed<br />

avrà la possibilità di partecipare ai processi decisionali. Gli Stati<br />

faciliteranno ed incoraggeranno la sensibilizzazione e la partecipazione del<br />

pubblico rendendo ampiamente disponibili le informazioni. Sarà assicurato<br />

un accesso effettivo ai procedimenti giudiziari ed amministrativi, compresi i<br />

mezzi di ricorso e di indennizzo». Ciò è peraltro in linea con alcune<br />

indicazioni operative di Agenda 21.<br />

Il Principio 2 afferma invece il diritto di sfruttamento e il dovere di<br />

non inquinare altri Stati: «Conformemente alla Carta delle Nazioni e ai<br />

<strong>principi</strong> del diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto sovrano di<br />

sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche <strong>ambientali</strong> e di sviluppo,<br />

ed hanno il dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro<br />

giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati<br />

o di zone situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale». Questo<br />

Principio 2 si pone dunque sulla falsariga del Principio 21 di Stoccolma, ma<br />

vi aggiunge il diritto <strong>degli</strong> Stati di sfruttare le proprie risorse anche secondo<br />

le loro politiche di sviluppo. Si ritiene d’altro canto che questo dirittodovere<br />

sia ormai una norma di diritto internazionale consuetudinario. Come<br />

si nota, il Principio 2 non impone però un obbligo assoluto di tutela<br />

dell’ambiente a prescindere dal divieto di inquinamento transfrontaliero<br />

(una proposta in tal senso era stata avanzata in sede di negoziato, ma poi<br />

non è stata accolta).<br />

Il Principio 4 specifica dal canto suo il concetto di sviluppo<br />

sostenibile: «Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela<br />

dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà<br />

essere considerata separatamente da questo». A tal proposito, si noti che la<br />

6


decisione di un Tribunale arbitrale nel caso Iron Rhine Railway (Belgio c.<br />

Paesi Bassi) del 2005 ha ricordato che, nel caso in cui lo sviluppo sia<br />

idoneo a provocare danni significativi all’ambiente, vi è un obbligo di<br />

prevenzione.<br />

Il Principio 3 è invece quello della solidarietà intergenerazionale: «Il<br />

diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare equamente<br />

le esigenze relative all’ambiente ed allo sviluppo delle generazioni presenti<br />

e future». Anche qui si nota però la mancanza di un diritto all’ambiente<br />

come diritto umano fondamentale.<br />

Due Principi sono dedicati allo sviluppo sostenibile a tutela dei diritti<br />

umani. Il Principio 1 afferma che «Gli esseri umani sono al centro delle<br />

preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una<br />

vita sana e produttiva in armonia con la natura». Secondo il Principio 5,<br />

invece, «Tutti gli Stati e tutti i popoli coopereranno al compito essenziale di<br />

eliminare la povertà, come requisito indispensabile per lo sviluppo<br />

sostenibile, al fine di ridurre le disparità tra i tenori di vita e soddisfare<br />

meglio i bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo».<br />

Una serie di Principi affermano poi la progressiva differenziazione tra<br />

obblighi <strong>ambientali</strong> dei Paesi industrializzati e dei PVS. Il Principio 6<br />

ricorda le speciali esigenze dei PVS: «Si accorderà speciale priorità alla<br />

situazione ed alle esigenze specifiche dei paesi in via di sviluppo, in<br />

particolare di quelli più vulnerabili sotto il profilo ambientale. Le azioni<br />

internazionali in materia di ambiente e di sviluppo dovranno anche prendere<br />

in considerazione gli interessi e le esigenze di tutti i paesi». Il Principio 7<br />

ribadisce invece l’importante criterio della responsabilità comune ma<br />

differenziata: «Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership globale<br />

per conservare, tutelare e ripristinare la salute e l’integrità dell’ecosistema<br />

terrestre. In considerazione del differente contributo al degrado ambientale<br />

globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I paesi<br />

sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro nel perseguimento<br />

internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società<br />

esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui<br />

dispongono». Il Principio 8 giudica in maniera negativa i modi di<br />

produzione e consumo non sostenibili: «Al fine di pervenire ad uno<br />

sviluppo sostenibile e ad una qualità di vita migliore per tutti i popoli, gli<br />

Stati dovranno ridurre ed eliminare i modi di produzione e consumo non<br />

sostenibili e promuovere politiche demografiche adeguate».<br />

Altri Principi contengono strumenti e procedure di politica ambientale<br />

e riflettono il contenuto di alcune convenzioni internazionali e ordinamenti<br />

interni dei Paesi industrializzati. Ci si riferisce al Principio 11 sulla necessità<br />

di una legislazione ambientale nazionale efficace e al Principio 12 sulle<br />

7


misure commerciali a finalità ecologica (c.d. Trade-Related Environmental<br />

Measures o TREMs). A tale ultimo proposito, anche l’Agenda 21 riconosce<br />

l’importanza di misure commerciali “ecologiche” per rendere più efficaci le<br />

azioni di politica ambientale, come quelle contenute nella Convenzione sul<br />

commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES) e<br />

nel Protocollo di Montreal per la riduzione della produzione e dell’uso delle<br />

sostanze che esauriscono lo strato di ozono. La loro compatibilità con la<br />

normativa commerciale multilaterale dell’OMC è tuttavia problematica.<br />

Molto importante è il Principio 15, che afferma il noto <strong>principi</strong>o di<br />

precauzione: «Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati applicheranno<br />

largamente, secondo le loro capacità, il <strong>principi</strong>o di precauzione. In caso di<br />

rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezza scientifica<br />

assoluta non deve servire da pretesto per differire l’adozione di misure<br />

adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il<br />

degrado ambientale». Esso si affianca al tradizionale <strong>principi</strong>o di<br />

prevenzione. Quest’ultimo intende evitare alla fonte un danno ambientale<br />

certo (di cui, cioè, si hanno prove scientifiche inoppugnabili) prima che si<br />

verifichi. Il <strong>principi</strong>o di precauzione è invece più avanzato e inverte l’ordine<br />

della prova: chi lamenta il rischio non deve dimostrare che certe attività<br />

danneggiano sicuramente l’ambiente (cioè, mediante prove scientifiche<br />

certe), ma al contrario spetta all’autore delle attività rischiose mostrare che<br />

esse sicuramente non causano danni irreversibili. Entrambi i <strong>principi</strong> di<br />

precauzione e di prevenzione mirano a evitare gli interventi di correzione<br />

successiva del danno. Il <strong>principi</strong>o di precauzione è stato accolto nelle due<br />

convenzioni stipulate a Rio nel 1992, la Convenzione sulla diversità<br />

biologica e la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (vedi più<br />

avanti). Ma è stato accolto anche anche altrove: negli emendamenti del 1990<br />

al Protocollo di Montreal 1987; nella Convenzione di Bamako (1990) sul<br />

divieto di importazione e il controllo del movimento transfrontaliero di<br />

residui pericolosi in Africa; nella Decisione UNEP n. 15/27 relativa<br />

all’ambiente marino; nel Protocollo di Cartagena (2000) sulla biosicurezza<br />

(strumento addizionale della Convenzione sulla diversità biologica); nella<br />

Convenzione di Stoccolma (2001) sugli inquinanti organici persistenti.<br />

Il Principio 16 concerne la c.d. internalizzazione dei costi <strong>ambientali</strong>:<br />

«Le autorità nazionali dovranno adoprarsi a promuovere la<br />

“internalizzazione” dei costi per la tutela ambientale e l’uso di strumenti<br />

economici, considerando che, in linea di <strong>principi</strong>o, è l’inquinatore a dover<br />

sostenere il costo dell’inquinamento, tenendo nel debito conto l’interesse<br />

pubblico e senza alterare il commercio e le finanze internazionali». Esso ha<br />

l’obiettivo di interrompere la prassi <strong>degli</strong> Stati di considerare l’ambiente un<br />

bene gratuito e di scaricare su altre fasce della società (contribuenti) e sulle<br />

generazioni future il costo dell’inquinamento. Rappresenta un’applicazione<br />

del generale <strong>principi</strong>o “chi inquina paga”.<br />

8


Il Principio 17 ribadisce invece il concetto della valutazione di<br />

impatto ambientale (VIA): «La valutazione d’impatto ambientale, come<br />

strumento nazionale, sarà effettuata nel caso di attività proposte che siano<br />

suscettibili di avere effetti negativi rilevanti sull’ambiente e dipendano dalla<br />

decisione di un’autorità nazionale competente». La VIA era stata già<br />

prevista e <strong>disciplina</strong>ta in precedenza (es. Decisione UNEP n. 14/25 del<br />

1987). Non indica una specifica procedura da seguire e quindi lascia ampia<br />

discrezionalità agli Stati. Anche la VIA concorre a stabilire se determinate<br />

attività comportano la violazione dell’obbligo di non inquinamento di altri<br />

Stati. La procedura VIA viene <strong>disciplina</strong>ta nella Convenzione di Espoo<br />

sull’impatto ambientale (1991).<br />

Altri Principi sottolineano gli obblighi <strong>degli</strong> Stati in caso di crisi<br />

<strong>ambientali</strong> e inquinamento transfrontaliero. Secondo il Principio 18 «Gli<br />

Stati notificheranno immediatamente agli altri Stati ogni catastrofe naturale<br />

o ogni altra situazione di emergenza che sia suscettibile di produrre effetti<br />

nocivi imprevisti sull’ambiente di tali Stati. La comunità internazionale<br />

compirà ogni sforzo per aiutare gli Stati così colpiti». Il dovere di notifica<br />

tiene in gran conto l’assenza di immediate informazioni durante i primi<br />

giorni del disastro nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986, a sèguito del<br />

quale era peraltro già stata predisposta una apposita Convenzione di Vienna<br />

1986 sulla notificazione rapida <strong>degli</strong> incidenti nucleari. Il dovere di<br />

assistenza invece è debole in quanto si riferisce genericamente alla comunità<br />

internazionale e non ai singoli Stati coinvolti. Il Principio 19 ricorda a sua<br />

volta che «Gli Stati invieranno notificazione previa e tempestiva agli Stati<br />

potenzialmente coinvolti e comunicheranno loro tutte le informazioni<br />

pertinenti sulle attività che possono avere effetti transfrontalieri seriamente<br />

negativi sull’ambiente ed avvieranno fin dall’inizio con tali Stati<br />

consultazioni in buona fede». Questo Principio contempla quindi l’obbligo<br />

di notificazione e informazione, da un lato, e l’obbligo di consultazioni in<br />

buona fede, dall’altro.<br />

(segue): Le convenzioni <strong>ambientali</strong> globali di Rio 1992. Durante la<br />

Conferenza di Rio sono state aperte alla firma la Convenzione quadro sui<br />

cambiamenti climatici e la Convenzione sulla diversità biologica.<br />

La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (CQCC) contiene<br />

norme-quadro e obblighi di risultato, mentre le forme e i mezzi vengono<br />

lasciati agli Stati parte. Essa fissa alcuni impegni generali in materia di<br />

limitazione delle emissioni di CO2, principale gas a effetto-serra. La CQCC<br />

attua il <strong>principi</strong>o della responsabilità comune ma differenziata creando un<br />

doppio regime giuridico. Il primo regime, per i Paesi industrializzati e<br />

apparentati, comporta che questi Paesi debbano limitare le emissioni nocive<br />

e proteggere le risorse, i processi e le attività che assorbono i gas-serra. Ai<br />

PVS invece si applica un secondo regime, più blando, in quanto questi Paesi<br />

9


contribuiscono meno alle emissioni dannose; essi tuttavia devono adottare<br />

misure interne per mitigare i cambiamenti climatici.<br />

Le misure di attuazione della CQCC sono contenute nel Protocollo di<br />

Kyoto del 1997, in cui i Paesi industrializzati si sono impegnati, nel periodo<br />

2008-2012, per una riduzione delle emissioni totali di gas-serra di almeno il<br />

5% rispetto ai livelli del 1990: pur se con una differenziazione tra Paesi UE<br />

(8%), Stati Uniti (7%) e Giappone (6%), mentre Russia, Nuova Zelanda e<br />

Ucraina hanno solo un obbligo di stabilizzazione e non di riduzione. Questi<br />

Paesi devono inoltre predisporre progetti di protezione di boschi, foreste,<br />

terreni agricoli che assorbono anidride carbonica. Il sistema prevede anche<br />

la possibilità di servirsi di un sistema di meccanismi flessibili per<br />

l’acquisizione di crediti di emissioni: 1) il Clean Development Mechanism<br />

(CDM) consente ai Paesi industrializzati di realizzare progetti nei Paesi in<br />

via di sviluppo, che producano benefici <strong>ambientali</strong> in termini di riduzione<br />

delle emissioni di gas-serra e di sviluppo economico e sociale dei Paesi<br />

ospiti e nello stesso tempo generino crediti di emissione (CER) per i Paesi<br />

che promuovono gli interventi; 2) il Joint Implementation (JI) consente a<br />

questi Paesi di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gasserra<br />

in un altro Paese dello stesso gruppo e di utilizzare i crediti derivanti,<br />

congiuntamente con il Paese ospite; 3) infine, l’Emissions Trading (ET)<br />

permette lo scambio di crediti di emissione tra Paesi industrializzati (nel<br />

senso che un Paese che abbia conseguito una diminuzione delle proprie<br />

emissioni di gas-serra superiore al proprio obiettivo può così cedere tali<br />

“crediti” a un Paese che, al contrario, non sia stato in grado di rispettare i<br />

propri impegni di riduzione delle emissioni di gas-serra). Al contrario, i<br />

PVS non hanno obblighi di riduzione o stabilizzazione. Il Protocollo di<br />

Kyoto è entrato in vigore nel febbraio 2005 a sèguito della ratifica della<br />

Russia nel 2004, mentre gli Stati Uniti non hanno ratificato. Il Protocollo<br />

scade alla fine del 2012 e, fino alla recente Conferenza di Durban, erano<br />

fallite tutte le Conferenze convocate per compiere passi avanti.<br />

La Convenzione sulla diversità biologica (CDB) si pone come<br />

obiettivi la tutela della diversità biologica (o biodiversità), l’utilizzazione<br />

durevole dei suoi elementi e l’equa ripartizione dei vantaggi derivanti dallo<br />

sfruttamento delle risorse genetiche. Ogni Parte contraente si impegna a<br />

cooperare con altre Parti contraenti per la conservazione e l’utilizzazione<br />

durevole della diversità biologica. Ogni Parte contraente 1) elabora<br />

strategie, piani o programmi nazionali volti a garantire la conservazione e<br />

l’utilizzazione durevole della diversità biologica oppure adatta a questo fine<br />

le strategie, i piani o i programmi esistenti; 2) integra, per quanto possibile e<br />

opportuno, la conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità<br />

biologica nei suoi piani, programmi e politiche settoriali o plurisettoriali<br />

pertinenti; 3) identifica gli elementi importanti della diversità biologica ai<br />

fini della conservazione e di un’utilizzazione durevole; 4) controlla,<br />

10


mediante campionamento ed altre tecniche, gli elementi costitutivi della<br />

diversità biologica identificati, prestando particolare attenzione a quegli<br />

elementi che richiedono urgenti misure di conservazione e a quelli che<br />

offrono maggiori possibilità di utilizzazione durevole; 5) identifica i<br />

processi e le categorie di attività che hanno o rischiano di avere gravi<br />

impatti negativi sulla conservazione e l’utilizzazione durevole della<br />

diversità biologica, e sorveglia i loro effetti prelevando campioni ed<br />

utilizzando altre tecniche; 6) conserva e gestisce, con qualsiasi mezzo, i dati<br />

derivati dalle attività di identificazione e di controllo conformemente ai<br />

punti sopra elencati; 7) adotta, per quanto possibile, misure<br />

economicamente e socialmente positive, che siano di stimolo alla<br />

conservazione e all’utilizzazione durevole <strong>degli</strong> elementi costitutivi della<br />

diversità biologica. La CDB contempla anche la preparazione e lo<br />

svolgimento di programmi di istruzione scientifica e tecnica e di formazione<br />

soprattutto nei PVS; la promozione della ricerca che contribuisce alla<br />

conservazione e all’utilizzazione durevole della diversità biologica, in<br />

particolare nei PVS; lo scambio di informazioni concernenti la<br />

conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica; il ruolo<br />

delle comunità locali e delle popolazioni autoctone in materia di<br />

conservazione della biodiversità (queste popolazioni vivono infatti in stretta<br />

dipendenza e sulle loro risorse biologiche sono fondate le loro tradizioni).<br />

La Conferenza di Johannesburg del 2003. Nel XXI secolo, la<br />

questione ambientale è divenuta sempre meno prioritaria per gli Stati. Tra le<br />

motivazioni di ciò si ricordano il peggioramento della situazione economica<br />

internazionale (i Paesi industrializzati temono che obblighi <strong>ambientali</strong> più<br />

stringenti comportino un costo aggiuntivo per le loro imprese, mentre i PVS<br />

guardano con diffidenza a impegni giuridici <strong>ambientali</strong> idonei a limitare il<br />

loro sviluppo economico) e la difficoltà a fornire risposte adeguate alle<br />

esigenze <strong>ambientali</strong> in chiave di sviluppo sostenibile. La Conferenza di<br />

Johannesburg (26 agosto - 4 settembre 2003) ha costituito l’occasione per<br />

fare una verifica a dieci anni di distanza da Rio. La Conferenza ha adottato<br />

anzitutto una Dichiarazione sullo sviluppo sostenibile, più generica di quella<br />

adottata a Rio e non idonea a sviluppare ulteriormente i Principi in materia<br />

ambientale. In questa Dichiarazione vengono riaffermati i pilastri<br />

interdipendenti dello sviluppo sostenibile (sviluppo economico, sviluppo<br />

sociale e protezione ambientale) e si esprime la volontà di raggiungere gli<br />

obiettivi fondamentali dello sradicamento della povertà, del cambiamento<br />

dei modelli di consumo e produzione insostenibili e della protezione e<br />

gestione delle risorse naturali. Vi è poi un Piano d’azione sullo sviluppo<br />

sostenibile articolato in 10 capitoli che si occupano di riproporre e<br />

attualizzare i programmi di Agenda 21: i punti più significativi riguardano<br />

la cooperazione (creazione di un fondo per la solidarietà che ammonta allo<br />

0,7% del prodotto interno lordo dei Paesi ricchi), le risorse idriche (impegno<br />

11


di dimezzare, entro il 2015, il numero di persone che non hanno accesso<br />

all’acqua potabile e ai servizi igienici), l’energia (gli Stati aderenti si sono<br />

impegnati genericamente ad un “sostanziale incremento” dell’uso di fonti<br />

rinnovabili di energia), la protezione della biodiversità (impegno a una<br />

significativa riduzione, entro il 2010, del ritmo di estinzione della varietà<br />

delle specie viventi, ed il mantenimento dell’abbondanza e della varietà<br />

delle specie ittiche, mediante messa al bando di tecniche di pesca devastanti<br />

ed imposizione del rispetto dei periodi di riproduzione), l’eliminazione delle<br />

sostanze chimiche tossiche e nocive entro il 2020, e il clima (vengono<br />

ribaditi gli impegni della CQCC con un appello per la ratifica del Protocollo<br />

di Kyoto a quei Paesi che ancora non lo avevano fatto). Nonostante ciò, la<br />

Conferenza di Johannesburg rappresenta un mancato passo in avanti, se non<br />

proprio un passo indietro. Essa infatti prende atto del profondo disaccordo<br />

tra Stati sulle principali tematiche <strong>ambientali</strong>: ad es. non raggiunge un<br />

accordo vincolante sull’incremento delle fonti di energia rinnovabili, mentre<br />

gli impegni sull’acqua potabile sono minimi e rinviati nel tempo.<br />

La Conferenza di Durban del 2011. La Conferenza di Durban sui<br />

cambiamenti climatici si è svolta in Sudafrica dal 27 novembre all’11<br />

dicembre 2011. La situazione all’apertura della Conferenza vedeva il<br />

Protocollo di Kyoto del 1997 in scadenza alla fine del 2012 senza che nelle<br />

due precedenti Conferenze di Copenaghen del 2009 e Cancùn del 2010<br />

fosse stata raggiunta una qualche intesa. Le opzioni sul tavolo a Durban<br />

erano prorogare il Protocollo, predisporre un nuovo strumento con obblighi<br />

più stringenti oppure lasciar perdere tutto. Il Canada (per via del petrolio da<br />

estrarre dalla sabbia bituminosa), il Giappone (per via della tragedia di<br />

Fukushima, che ha imposto il ritorno ai combustibili fossili) e la Russia non<br />

intendevano firmare un impegno per il periodo a partire dal 2013; gli Stati<br />

Uniti non avevano mai sottoscritto Kyoto; i Paesi di nuova<br />

industrializzazione (dal 2008 responsabili della maggior parte delle<br />

emissioni-serra) continuavano a ribadire il <strong>principi</strong>o delle “responsabilità<br />

comuni ma differenziate” per sottrarsi a impegni vincolanti; la Cina invece,<br />

per via del forte inquinamento, stava assumendo una posizione sempre più<br />

orientata alle tecnologie verdi. A causa dei veti incrociati, ci si aspettava un<br />

fallimento. Alla fine è stata invece raggiunta un’intesa, seppur scadenzata<br />

per tappe.<br />

(segue): Contenuto dell’intesa di Durban. Dal 2013 partirà una<br />

seconda fase <strong>degli</strong> impegni di Kyoto, aventi lo scopo di prorogare il<br />

Protocollo dal 2013 al 2020. A questa seconda fase però aderiscono solo<br />

l’Europa e una parte dei Paesi industrializzati, mentre Canada, Russia e<br />

Giappone hanno rifiutato e gli Stati Uniti continuano a rimanere fuori; si<br />

segnala invece la partecipazione delle nuove economie come Cina, Brasile e<br />

India. Entro il 2015, invece, si giungerà a definire uno strumento giuridico<br />

(“un protocollo, uno strumento legale o una soluzione concertata avente<br />

12


forza di legge”) applicabile a tutte le Parti della CQCC: quindi, non solo agli<br />

Stati ratificanti il Protocollo di Kyoto. Il processo è stato definito<br />

Piattaforma d’azione di Durban e i lavori saranno portati avanti da un<br />

gruppo di lavoro che inizierà a operare dal 2012. Il nuovo strumento<br />

giuridico avrà il compito di aumentare i livelli di riduzione delle emissioni<br />

di gas serra. Su richiesta dell’Unione <strong>europea</strong> e dell’Alleanza dei piccoli<br />

Stati insulari (AOSIS), i delegati di Durban hanno concordato di avviare un<br />

piano di lavoro per identificare le opzioni per colmare il divario tra<br />

l’impegno di riduzione delle emissioni per il 2020 e l’obiettivo di mantenere<br />

il riscaldamento globale sotto i 2 gradi. Tuttavia, non si è riusciti a estendere<br />

gli impegni di riduzione delle emissioni contenuti nei precedenti documenti<br />

di Copenaghen nel 2009 e di Cancun nel 2010. Dal 2020, infine, il nuovo<br />

strumento dovrebbe diventare esecutivo. Si è deciso inoltre di rendere<br />

operativo un Fondo verde da 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare i<br />

Paesi più poveri a sostenere il salto tecnologico necessario ad abbattere le<br />

emissioni-serra.<br />

2. Evoluzione, obiettivi e princìpi <strong>ambientali</strong> nell’Unione <strong>europea</strong>.<br />

Il diritto dell’ambiente negli Stati membri dell’Unione <strong>europea</strong><br />

presenta ormai, nel complesso, una sostanziale uniformità derivante dalla<br />

normativa UE. Da questo punto di vista, mentre il diritto internazionale<br />

ambientale è formato per la sua gran parte da <strong>principi</strong> e norme<br />

programmatiche, non vincolanti, e che quindi non impongono obblighi<br />

diretti per gli Stati, il diritto UE dell’ambiente invece recepisce le norme<br />

internazionali rilevanti e le rende vincolanti per i suoi Stati membri.<br />

Il diritto ambientale UE può essere definito come l’insieme delle<br />

norme sia primarie (Trattati) che secondarie (atti) che <strong>disciplina</strong>no l’azione<br />

dell’Unione <strong>europea</strong> in materia ambientale.<br />

Giova sottolineare che tale diritto, pur dotato di una certa specificità in<br />

ragione della materia trattata, non rappresenta un ordinamento a sé stante<br />

rispetto al più generale diritto UE, ma si colloca nel più ampio spettro di<br />

obiettivi cui tende l’Unione <strong>europea</strong>.<br />

Evoluzione storica. Nella fase precedente l’Atto Unico Europeo<br />

(AUE), le questioni <strong>ambientali</strong> nell’allora Comunità <strong>europea</strong> avevano un<br />

ruolo piuttosto limitato. La Politica comunitaria di carattere generale,<br />

inaugurata col Vertice di Parigi del 1972, aveva prodotto il Primo<br />

Programma di Azione per l’ambiente (1973), che aveva il “limitato”<br />

obiettivo di evitare che i diversi sistemi nazionali in materia di protezione<br />

dell’ambiente fossero idonei a falsare la concorrenza nel mercato comune. Il<br />

Programma non era vincolante, ma la sua importanza consisteva nella<br />

13


aderenza ai Principi della Dichiarazione di Stoccolma del 1972. Quanto agli<br />

atti approvati prima dell’AUE, si ricordano: alcune direttive, precedenti e<br />

successive al Programma d’Azione del 1973, che avevano l’obiettivo<br />

primario di migliorare il funzionamento del mercato interno e che nel far<br />

questo prevedevano obblighi in materia ambientale; la direttiva 79/409/CEE<br />

sulla conservazione dei volatili selvatici; la direttiva 85/337/CEE<br />

concernente la valutazione d’impatto ambientale di determinati progetti<br />

pubblici e privati (c.d. direttiva VIA); e la direttiva 75/442/CEE relativa ai<br />

rifiuti.<br />

La politica ambientale viene per la prima volta <strong>disciplina</strong>ta a livello di<br />

diritto primario nell’AUE del 1986. L’ambiente viene espressamente<br />

menzionato nell’art. 100A TCE (ora art. 114 TFUE sul mercato interno) e<br />

viene introdotto un nuovo Titolo VII dedicato all’ambiente (artt. 130R, 130<br />

S e 130T, ora artt. 191-193 TFUE). Tuttavia la protezione dell’ambiente non<br />

è ancora inclusa formalmente tra gli obiettivi della Comunità.<br />

Con il Trattato di Maastricht del 1992 veniva introdotto all’art. 2 TCE<br />

l’obiettivo di assicurare una crescita sostenibile che rispettasse l’ambiente;<br />

veniva previsto il <strong>principi</strong>o di precauzione accanto a quello di prevenzione;<br />

e si riconosceva la necessità di coordinare l’azione comunitaria a tutela<br />

dell’ambiente con quella a livello globale.<br />

Con il Trattato di Amsterdam del 1997 veniva inserito tra gli obiettivi<br />

dell’art. 2 TCE un vero e proprio riferimento alla tutela dell’ambiente: «La<br />

Comunità ha il compito di promuovere […] un elevato livello di protezione<br />

dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo». A sua<br />

volta, l’art. 6 TCE affermava che «Le esigenze connesse con la tutela<br />

dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione<br />

delle politiche e azioni comunitarie di cui all’articolo 3, in particolare nella<br />

prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile».<br />

Il Trattato di Nizza del 2001 non contiene invece modifiche di rilievo.<br />

Nel c.d. Trattato costituzionale del 2004, mai entrato in vigore, si hanno<br />

alcune innovazioni. Lo sviluppo sostenibile, basato tra l’altro sul<br />

miglioramento della qualità dell’ambiente, è compreso tra gli obiettivi<br />

dell’Unione (art. I-3, par. 3), come anche la sua promozione a livello<br />

globale (art. I-3, par. 4): esso diventa peraltro una materia di competenza<br />

concorrente (art. I-13). Inoltre, nel Preambolo della Carta dei Diritti<br />

Fondamentali dell’Unione, l’UE dichiara di promuovere uno sviluppo<br />

equilibrato e sostenibile; viene inoltre espressa la necessità di integrare la<br />

protezione dell’ambiente nelle politiche dell’Unione (art. II-37). Infine,<br />

nella Parte III, dedicata alle politiche ed al funzionamento dell’Unione, gli<br />

artt. III-129, III-130 e III-131 sono in linea di <strong>principi</strong>o identici ai precedenti<br />

artt. 174-176 TCE.<br />

14


Il <strong>principi</strong>o-obiettivo dello sviluppo sostenibile nella riforma di<br />

Lisbona. Quello dello sviluppo sostenibile è considerato ormai, a sèguito di<br />

tutte le modifiche introdotte nei Trattati, un <strong>principi</strong>o-obiettivo dell’Unione<br />

<strong>europea</strong>. Secondo l’art. 3, par. 3 TUE (obiettivi intra-UE), «L’Unione […]<br />

si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato […] su un elevato<br />

livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente». Nello<br />

stesso senso l’art. 3, par. 5 TUE (obiettivi extra-UE) secondo cui «Nelle<br />

relazioni con il resto del mondo l’Unione […] contribuisce […] allo<br />

sviluppo sostenibile della Terra». Lo sviluppo sostenibile deve essere tenuto<br />

presente nella generale azione esterna dell’Unione: l’art. 21, par. 2, lett. f)<br />

TUE ribadisce infatti che «L’Unione definisce e attua politiche comuni e<br />

azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i<br />

settori delle relazioni internazionali al fine di […] contribuire<br />

all’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la<br />

qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali<br />

mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile». Ciò posto, bisogna<br />

comunque sottolineare che il <strong>principi</strong>o-obiettivo dello sviluppo sostenibile<br />

nella politica ambientale UE tiene conto principalmente dell’equilibrio<br />

attuale tra sviluppo economico e protezione dell’ambiente, mentre sembra<br />

meno pressante sembra l’esigenza di salvaguardare gli interessi delle<br />

generazioni future.<br />

Gli altri obiettivi della politica ambientale UE. Secondo l’art. 191,<br />

par. 1 TFUE, «La politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a<br />

perseguire i seguenti obiettivi: salvaguardia, tutela e miglioramento della<br />

qualità dell’ambiente; protezione della salute umana; utilizzazione accorta e<br />

razionale delle risorse naturali; promozione sul piano internazionale di<br />

misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o<br />

mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici.<br />

(segue): Salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità<br />

dell’ambiente. La nozione di ambiente non viene definita nei Trattati. Il<br />

termine va inteso pertanto nel senso più ampio possibile, secondo quanto<br />

evidenziato in una Dichiarazione del Consiglio europeo del giugno 1990:<br />

l’ambiente comprende in particolare la qualità dell’aria, dei fiumi, dei laghi,<br />

delle acque costiere e marine, la qualità del cibo e dell’acqua potabile, la<br />

lotta all’erosione del suolo, la conservazione <strong>degli</strong> habitat, della flora, della<br />

fauna e del paesaggio. Da notare che il perseguimento di questo obiettivo ha<br />

condotto l’UE a adottare atti con efficacia anche al di fuori del territorio UE.<br />

Si pensi ad es. all’importazione ed esportazione di determinati prodotti<br />

nocivi; alla sorveglianza dei rifiuti provenienti dall’esterno o diretti verso<br />

l’esterno; alla protezione di fauna e flora selvatiche mediante il controllo del<br />

loro commercio.<br />

15


(segue): Protezione della salute umana. Qui basta sottolineare che le<br />

misure <strong>ambientali</strong> a tutela della salute devono essere coordinate con le altre<br />

misure a tutela della salute basate sul <strong>principi</strong>o dell’azione preventiva<br />

(prevenzione delle malattie ed eliminazione delle fonti di pericolo).<br />

(segue): Utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali.<br />

Attraverso questo terzo obiettivo, il diritto ambientale dell’Unione <strong>europea</strong><br />

condivide i medesimi obiettivi della Dichiarazione di Stoccolma del 1972 e<br />

della Carta mondiale della natura del 1982. In particolare, utilizzazione<br />

accorta e razionale significa uso sostenibile delle risorse, che l’UE ha<br />

concretizzato soprattutto con la politica a favore delle aree protette.<br />

(segue): Lotta globale ai problemi dell’ambiente, soprattutto ai<br />

cambiamenti climatici. L’Unione <strong>europea</strong> è l’unica “potenza” ad aver<br />

cercato di ridurre con un certo successo le emissioni di gas-serra in base al<br />

Protocollo di Kyoto. Questo quarto obiettivo ha una chiara valenza sul piano<br />

esterno: implica infatti un impegno delle istituzioni UE e <strong>degli</strong> Stati membri<br />

ad agire sullo scenario internazionale dando priorità e importanza<br />

soprattutto al tema dei cambiamenti climatici. Ma riveste anche una qualche<br />

valenza interna, espressa in alcuni atti quali il VI Programma d’Azione in<br />

materia ambientale (2001); i due Programmi europei per il cambiamento<br />

climatico (2000 e 2005); due Comunicazioni della Commissione del 2007;<br />

una serie di direttive finalizzate all’istituzione di sistemi di scambio di quote<br />

di emissioni di gas-serra all’interno dell’UE (direttive 2003/87/CE,<br />

2003/101/CE e 2009/29/CE); la decisione 406/2009/CE concernente gli<br />

sforzi <strong>degli</strong> Stati membri per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra al<br />

fine di adempiere agli impegni UE in materia di riduzione delle emissioni di<br />

gas a effetto serra entro il 2020; il regolamento UE 911/2010 relativo al<br />

programma europeo di monitoraggio della terra (GMES) e alla sua fase<br />

iniziale di operatività (2011-2013).<br />

Gli altri princìpi della politica ambientale UE. Ai sensi dell’art.<br />

191, par. 2 TFUE, «La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un<br />

elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle<br />

varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui <strong>principi</strong> della precauzione e<br />

dell’azione preventiva, sul <strong>principi</strong>o della correzione, in via prioritaria alla<br />

fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul <strong>principi</strong>o «chi inquina<br />

paga». La norma si limita a una semplice enunciazione dei <strong>principi</strong> senza<br />

definirli né riempirli di contenuto. Di ciò se ne sono occupate invece, seppur<br />

parzialmente, la dottrina e soprattutto la giurisprudenza della Corte di<br />

giustizia dell’Unione <strong>europea</strong>. Da notare che l’ordine dei <strong>principi</strong> non è<br />

cronologico (da quello introdotto per primo fino ad arrivare al più recente)<br />

bensì gerarchico (dal più “forte” al più “debole”). I due <strong>principi</strong> di<br />

prevenzione e precauzione sono infatti regole di natura preventiva, in grado<br />

di essere più efficaci rispetto agli altri due, di natura al contrario successiva<br />

16


e risarcitoria: viene quindi anche simbolicamente data preferenza alla tutela<br />

di carattere preventivo. Questi quattro <strong>principi</strong> riflettono tre diversi modelli<br />

di tutela dell’ambiente: 1) il curative model è basato sull’intervento<br />

successivo al verificarsi del danno ambientale e ha carattere meramente<br />

risarcitorio (ne fanno parte il <strong>principi</strong>o di correzione, in via prioritaria alla<br />

fonte, dei danni causati all’ambiente e quello “chi inquina paga”); 2) il<br />

preventive model è invece basato sull’intervento preventivo, che si verifica<br />

solo in presenza di dati scientifici certi sul nesso causale tra rischio e danno<br />

previsto (ne è espressione il <strong>principi</strong>o dell’azione preventiva); 3)<br />

l’anticipatory model, infine, è il più moderno e avanzato, ed è basato<br />

sull’intervento preventivo in presenza di rischi solo potenziali benché<br />

plausibili (<strong>principi</strong>o di precauzione).<br />

(segue): Il <strong>principi</strong>o di precauzione. È stato introdotto nel sistema<br />

UE con il Trattato di Maastricht del 1992, anche in ragione del suo<br />

contemporaneo inserimento nella Dichiarazione di Rio del 1992 (Principio<br />

15). Esso viene meglio definito nella Comunicazione della Commissione del<br />

2000 sul <strong>principi</strong>o di precauzione. Secondo questa Comunicazione, il<br />

ricorso al <strong>principi</strong>o di precauzione dovrebbe avvenire unicamente in<br />

un’ipotesi di rischio potenziale anche se questo rischio non può essere<br />

interamente dimostrato, o la sua portata quantificata o i suoi effetti<br />

determinati per l’insufficienza o il carattere non concludente dei dati<br />

scientifici. Pertanto, il ricorso al <strong>principi</strong>o di precauzione presuppone 1)<br />

l’identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un<br />

fenomeno, da un prodotto o da un procedimento; e 2) una valutazione<br />

scientifica del rischio che, per l’insufficienza dei dati, il loro carattere non<br />

concludente o la loro imprecisione, non consente di determinare con<br />

sufficiente certezza il rischio in questione. Però il rischio pur incerto deve<br />

essere sufficientemente documentato sulla base di dati scientifici noti,<br />

esaustivi ed affidabili: difatti, il <strong>principi</strong>o di precauzione si propone di<br />

evitare i rischi potenziali (sulla base di dati scientifici noti, esaustivi ed<br />

affidabili, benché non assolutamente certi) ma non quelli meramente<br />

eventuali (fondati su ipotesi scientifiche neanche sufficientemente provate<br />

oppure, addirittura, solo su vaghi timori).<br />

Dal punto di vista operativo, sono gli Stati membri a decidere quando<br />

utilizzare misure basate sul <strong>principi</strong>o di precauzione, ma questa<br />

discrezionalità non è assoluta. Le misure devono infatti essere proporzionali<br />

rispetto al livello prescelto di protezione (non devono cioè andare oltre<br />

quanto strettamente necessario per evitare il rischio ambientale); non<br />

discriminatorie nella loro applicazione; coerenti con eventuali misure<br />

analoghe già adottate; basate su un esame dei potenziali vantaggi e oneri<br />

dell’azione o dell’inazione (compresa, ove ciò sia possibile e adeguato,<br />

un’analisi economica costi/benefici); soggette a revisione alla luce dei nuovi<br />

dati scientifici; in grado di attribuire la responsabilità per la produzione<br />

17


delle prove scientifiche necessarie per una più completa valutazione del<br />

rischio (ad es. i Paesi UE che impongono il requisito della previa<br />

approvazione dei prodotti considerati a priori pericolosi devono prevedere<br />

l’inversione dell’onere della prova: tali prodotti verranno cioè considerati<br />

pericolosi almeno sino a quando gli operatori economici non abbiano<br />

compiuto le ricerche necessarie per dimostrare che sono sicuri).<br />

La Corte di giustizia ha spesso esaminato le misure nazionali di<br />

precauzione soprattutto alla luce del criterio di proporzionalità, fermo<br />

restando che il controllo del giudice sovranazionale si limita a un controllo<br />

sulla mancanza di errori manifesti, sull’assenza di sviamento di potere e sul<br />

rispetto dei limiti del potere discrezionale da parte delle autorità. Ad<br />

esempio, nel caso Mucca pazza (1997) il divieto precauzionale disposto<br />

dalla Commissione di esportazione dal Regno Unito le carni bovine<br />

sospettate di aver contratto il morbo della BSE (encefalopatia spongiforme)<br />

è stato ritenuto proporzionato alla necessità di tutelare la salute pubblica. In<br />

altri casi, invece, la Corte ha sanzionato misure nazionali solo<br />

apparentemente motivate da ragioni di precauzione e che invece<br />

perseguivano interessi protezionistici. Come si vede, oggi come oggi il<br />

<strong>principi</strong>o di precauzione nell’Unione <strong>europea</strong> investe settori non solamente<br />

<strong>ambientali</strong> (soprattutto quello alimentare anche alla luce della <strong>disciplina</strong> del<br />

commercio <strong>degli</strong> OGM).<br />

(segue): Il <strong>principi</strong>o dell’azione preventiva. Le misure adottate in<br />

base al <strong>principi</strong>o di prevenzione sono di natura anticipatoria come quelle<br />

basate sulla precauzione. Tuttavia, nel caso che ci interessa il rischio che<br />

presuppone la misura deve essere sufficientemente provato e, pertanto, la<br />

misura preventiva si deve basare sulla certezza scientifica del verificarsi di<br />

un evento dannoso. Qui il danno è certo e imminente, mentre nella<br />

precauzione il danno è solo incerto e potenziale, ancorché probabile. Il<br />

<strong>principi</strong>o di prevenzione ha ricevuto applicazione soprattutto<br />

nell’accertamento preventivo connesso con la <strong>disciplina</strong> di valutazione di<br />

impatto ambientale (VIA).<br />

(segue): Il <strong>principi</strong>o di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei<br />

danni causati all’ambiente. È stato introdotto con l’Atto Unico Europeo<br />

del 1986. Questo <strong>principi</strong>o è diretto a evitare che un danno ambientale, già<br />

prodottosi, possa amplificarsi. È espressione di una tutela successiva al<br />

verificarsi del danno, e impone che quest’ultimo sia arginato il più possibile<br />

vicino alla sua fonte di produzione. Per la sua applicazione rilevano i<br />

<strong>principi</strong> di sussidiarietà e di prossimità: ad es. nel settore dei rifiuti la Corte<br />

di giustizia ha detto che spetta a ciascuna regione, comune o altra entità<br />

locale adottare le misure adeguate al fine di garantire l’accoglimento, il<br />

trattamento e lo smaltimento dei propri rifiuti, in quanto devono essere<br />

smaltiti quanto più possibile nel luogo di produzione.<br />

18


(segue): Il <strong>principi</strong>o “chi inquina paga”. Era previsto già nel Primo<br />

Programma d’Azione del 1973. È un <strong>principi</strong>o di natura economica che ha<br />

l’obiettivo di addebitare ai responsabili i costi delle misure dirette a evitare<br />

(se imminenti) o a riparare (se successive) il danno ambientale. Ha una<br />

chiara funzione dissuasiva delle violazioni delle norme <strong>ambientali</strong>. Da<br />

questo punto di vista, il <strong>principi</strong>o “chi inquina paga” ha una duplice<br />

declinazione quale criterio di efficienza economica (il costo sociale del<br />

danno ambientale, per la parte monetizzabile, grava direttamente sui suoi<br />

responsabili) e criterio di responsabilità civile (riconosce il diritto al<br />

risarcimento del danno derivante dall’attività inquinante). C’è da dire<br />

tuttavia che il criterio di efficienza economica è quello prevalente<br />

nell’ambito della legislazione dell’Unione, mentre quello di responsabilità<br />

civile riceve meno attenzione. Il <strong>principi</strong>o è stato attuato con la direttiva<br />

2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e<br />

riparazione del danno ambientale. I danni <strong>ambientali</strong> sono definiti come<br />

danni, diretti o indiretti, arrecati all’ambiente acquatico; danni, diretti o<br />

indiretti, arrecati alle specie e agli habitat naturali; contaminazione, diretta o<br />

indiretta, dei terreni che crea un rischio significativo per la salute umana.<br />

Sono sottoposte obbligatoriamente al regime di responsabilità le attività<br />

definite nell’Allegato III della direttiva (e cioè le attività agricole; industriali<br />

sottoposte ad autorizzazione ambientale; che comportano il rilascio di<br />

sostanze nocive nell’aria e nelle acque; relative alla gestione dei rifiuti, alla<br />

produzione di sostanze chimiche pericolose o OGM).<br />

3. Evoluzione storica della <strong>disciplina</strong> UE sugli OGM.<br />

La regolamentazione giuridica del rilascio di OGM nell’ambiente<br />

deriva dalla ormai diffusa opinione per cui essi non sono intrinsecamente<br />

pericolosi ma che, prima di commercializzarli, se ne deve valutare caso per<br />

caso la sicurezza per l’ambiente, la salute umana e la salute animale. Simile<br />

necessità è storicamente derivata dalle prime sperimentazioni<br />

dell’ingegneria genetica nel settore farmaceutico e agricolo. L’applicazione<br />

delle tecniche di modificazione biotecnologica, infatti, portava con sé<br />

considerazioni meta-scientifiche (economiche, politiche, etiche e<br />

giuridiche). Nel 1986 l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo<br />

sviluppo economico) pubblicava un rapporto sulla sicurezza dell’impiego<br />

del DNA ricombinante. Vi si evidenziava che la valutazione dei rischi<br />

derivanti dall’impiego <strong>degli</strong> OGM si era sviluppata soprattutto negli<br />

impieghi industriali (e meno in quelli <strong>ambientali</strong> o agricoli). Questo<br />

rapporto ha rappresentato il punto di partenza per le regolamentazioni in<br />

materia di rilascio di OGM.<br />

19


Nella prima metà <strong>degli</strong> anni ‘80 vengono alla luce una serie di<br />

normative nazionali che regolavano il fenomeno con soluzioni differenti tra<br />

di loro. Per questo motivo, nel novembre 1986 la Commissione <strong>europea</strong><br />

predispone una Comunicazione al Consiglio dal titolo Un quadro<br />

comunitario per la regolamentazione della biotecnologia. Vi si adottava un<br />

approccio più restrittivo di quello richiesto dalle industrie del settore<br />

biotecnologico e dagli Stati membri più interessati. La Comunicazione del<br />

1986 ha rappresentato la base per una <strong>disciplina</strong> comunitaria sull’impiego<br />

dell’ingegneria genetica a fini scientifici e commerciali che riguardava sia<br />

l’impiego confinato dei microrganismi geneticamente modificati (MGM) sia<br />

l’emissione nell’ambiente e l’immissione in commercio <strong>degli</strong> OGM.<br />

Nel 1990 vengono quindi adottate due direttive: la direttiva<br />

90/219/CEE sull’impiego confinato di microrganismi geneticamente<br />

modificati (che è stata sostituita dalla direttiva 2009/41/CE sull’impiego<br />

confinato di microrganismi geneticamente modificati); e la direttiva<br />

90/220/CEE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi<br />

geneticamente modificati (successivamente sostituita dalla direttiva<br />

2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi<br />

geneticamente modificati). La direttiva 2001/18 è stata poi parzialmente<br />

modificata per venire incontro agli specifici problemi dell’alimentazione<br />

umana e animale dal regolamento 1829/2003 relativo agli alimenti e ai<br />

mangimi geneticamente modificati e dal regolamento 1830/2003<br />

concernente la tracciabilità e l’etichettatura di organismi geneticamente<br />

modificati e la tracciabilità di alimenti e mangimi ottenuti da organismi<br />

geneticamente modificati.<br />

4. L’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati<br />

(MGM).<br />

La direttiva 2009/41 ha l’obiettivo di far sì che gli Stati UE adottino<br />

tutte le misure necessarie per impedire che l’impiego confinato di MGM<br />

determini conseguenze negative sulla salute umana e sull’ambiente. Ciò<br />

perché gli sviluppi in campo biomedico (genomica, neuroscienze, oncologia<br />

molecolare, ecc.) e l’innovazione tecnologica (diagnostica medica,<br />

biotecnologie, informatica sanitaria, ecc.) indirizzano sempre più la<br />

sperimentazione e le sue applicazioni terapeutiche verso l’utilizzo dei<br />

MGM.<br />

Definizioni. Per microorganismo geneticamente modificato si intende<br />

un microrganismo il cui materiale genetico è stato modificato in un modo<br />

non naturale mediante moltiplicazione e/o ricombinazione naturale. Per<br />

impiego confinato ci si riferisce invece a ogni attività nella quale i<br />

20


microrganismi sono modificati geneticamente o nella quale tali MGM sono<br />

messi in coltura, conservati, trasportati, distrutti, smaltiti o altrimenti<br />

utilizzati, e per la quale vengono usate misure specifiche di contenimento al<br />

fine di limitare il contatto <strong>degli</strong> stessi con la popolazione e con l’ambiente e<br />

per garantire a questi ultimi un livello elevato di sicurezza.<br />

Valutazione <strong>degli</strong> impieghi, classificazione del rischio e misure di<br />

contenimento. Ogni utilizzatore di MGM deve procedere a una valutazione<br />

<strong>degli</strong> impieghi confinati di MGM. Questa valutazione si ottiene dalla<br />

classificazione del rischio in quattro classi e le relative misure di<br />

contenimento da applicare sono pertanto classificate in quattro livelli: la<br />

classe 1 presuppone un rischio nullo o trascurabile; la classe 2 implica un<br />

basso rischio; la classe 3 indica invece un rischio moderato; e infine la<br />

classe 4 prevede un alto rischio. Qualora sussista un dubbio su quale classe<br />

sia appropriata per l’impiego confinato proposto, devono applicarsi le<br />

misure di protezione più rigorose (cioè della classe immediatamente<br />

superiore), a meno che vi sia prova sufficiente che giustifichi l’applicazione<br />

di misure meno rigorose. L’impiego confinato di MGM richiede una<br />

verifica delle misure di contenimento e di protezione adottate per prevenire<br />

la diffusione. Gli Stati membri devono designare l’autorità o le autorità<br />

competenti che hanno il compito di esaminare la conformità delle notifiche;<br />

l’accuratezza e la completezza delle informazioni fornite; la correttezza<br />

della valutazione dei rischi e dell’attribuzione della classe di impiego<br />

confinato; l’adeguatezza delle misure di contenimento e delle altre misure di<br />

protezione, della gestione dei rifiuti e delle misure relative alle situazioni di<br />

emergenza.<br />

Procedura. Quanto alla procedura applicabile, esiste anzitutto una<br />

regola di sicurezza per tutti i tipi di impiego. Quando si procede per la prima<br />

volta in un determinato impianto a un impiego confinato, l’utilizzatore è<br />

tenuto a sottoporre alle autorità competenti, prima di iniziare tale impiego,<br />

una notifica contenente almeno una serie di informazioni relative<br />

all’impianto (elencate nell’Allegato V della direttiva). Dopo la notifica<br />

appena ricordata, gli impieghi di classe 1 (rischio nullo o trascurabile)<br />

possono avere luogo senza ulteriori notifiche; tuttavia gli utilizzatori devono<br />

redigere un verbale relativo a ciascuna valutazione e presentare tale verbale<br />

alle competenti autorità a loro richiesta. Quanto alla classe 2 (rischio basso),<br />

se si tratta di primo impiego in quell’impianto appena notificato, l’impiego<br />

confinato può avere luogo, in assenza di indicazioni contrarie da parte<br />

dell’autorità competente, 45 giorni dopo la presentazione della notifica; il<br />

richiedente può comunque chiedere all’autorità competente una decisione<br />

sulla concessione di un’autorizzazione formale, che deve essere presa entro<br />

e non oltre 45 giorni dalla notifica. Se invece si tratta di successivi impieghi<br />

di classe 2 in quell’impianto già notificato, e sono stati rispettati eventuali<br />

obblighi previsti dall’autorizzazione formale, l’impiego confinato può aver<br />

21


luogo subito dopo la notifica relativa a ogni successivo impiego. Per quanto<br />

riguarda infine le classi 3 e 4, qualunque impiego confinato che comporta<br />

un rischio moderato o alto non può aver luogo senza l’approvazione<br />

dell’autorità competente, che essa ha l’obbligo di comunicare per iscritto.<br />

Ciò posto, se si tratta di primo impiego di classe 3 o 4 in quell’impianto<br />

appena notificato, la decisione scritta deve essere comunicata entro e non<br />

oltre 90 giorni dalla presentazione della notifica; se invece si tratta di<br />

successivi impieghi di classe 3 o 4 in quell’impianto già notificato e sono<br />

stati rispettati eventuali obblighi previsti dall’autorizzazione formale, la<br />

comunicazione deve avvenire entro e non oltre 45 giorni dalla presentazione<br />

di ogni nuova notifica.<br />

Piano di emergenza e procedura in caso di incidenti. Prima che un<br />

impiego confinato abbia inizio, gli Stati membri devono assicurare che sia<br />

elaborato un piano di emergenza per rispondere in modo efficace in caso di<br />

incidente. Si intende per incidente ogni evento imprevisto che comporti una<br />

diffusione significativa e non intenzionale di MGM nel corso del loro<br />

impiego confinato e che possa presentare un pericolo, immediato o differito,<br />

per la salute dell’uomo o per l’ambiente. Inoltre, le persone che potrebbero<br />

essere coinvolte in un incidente devono essere informate su tutti gli aspetti<br />

relativi alla loro sicurezza. In caso di incidente, l’utilizzatore deve informare<br />

immediatamente l’autorità competente e fornire tutte le informazioni<br />

necessarie a valutare le conseguenze e ad adottare le misure appropriate; dal<br />

canto suo, lo Stato membro interessato deve informare la Commissione e<br />

qualsiasi altro Stato membro che possa essere coinvolto nell’incidente. La<br />

Commissione <strong>europea</strong> mantiene un registro <strong>degli</strong> incidenti, che contiene<br />

un’analisi delle cause di tali incidenti, informazioni circa l’esperienza<br />

acquisita nonché le misure adottate per evitare simili incidenti in futuro.<br />

5. L’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente<br />

modificati (OGM) e la direttiva 2001/18/CE.<br />

Introduzione. In base alla direttiva 90/220, nei primi anni erano stati<br />

autorizzati al rilascio deliberato nell’ambiente 17 organismi diversi, tra cui<br />

14 piante (varietà di mais, colza e soia). Inoltre, un certo numero di prodotti<br />

derivati da OGM ma non contenenti OGM (in altre parole, ricavati da piante<br />

geneticamente modificate ma non contenenti i semi modificati) erano entrati<br />

nel mercato europeo a seguito di una procedura di autorizzazione<br />

semplificata basata sul <strong>principi</strong>o di sostanziale equivalenza: venivano<br />

autorizzati in via semplificata tutti quei prodotti che non presentavano<br />

alcuna differenza dal punto di vista nutrizionale, organolettico e<br />

tossicologico rispetto ai rispettivi prodotti “convenzionali”. Tra il 1990 e il<br />

22


1997, tuttavia, il crescente movimento anti-OGM rese sempre più<br />

impopolari all’opinione pubblica gli alimenti transgenici.<br />

Nel 1997 alcuni Stati membri rifiutarono l’autorizzazione all’uso di<br />

OGM nei propri confini nazionali appellandosi alla “clausola di<br />

salvaguardia” dell’art. 16 della direttiva 90/220. Questa clausola affermava<br />

che «Se uno Stato membro ha un motivo valido di ritenere che un prodotto<br />

che è stato opportunamente notificato e ha ricevuto un consenso scritto ai<br />

sensi della presente direttiva costituisce un rischio per la salute umana o per<br />

l’ambiente, esso può limitarne o proibirne provvisoriamente l’uso e/o la<br />

vendita sul proprio territorio». L’art. 16 della direttiva 90/220 non<br />

menzionava alcuna condizione particolare, la qual cosa aveva consentito<br />

agli Stati di vietare le immissioni precedentemente autorizzate pur in<br />

mancanza di nuove prove scientifiche relative alla loro pericolosità. A<br />

seguito delle dichiarazioni anti-OGM di 12 <strong>degli</strong> allora 15 Stati membri, la<br />

Commissione inoltre provvide a bloccare la procedura di autorizzazione dei<br />

nuovi OGM. La c.d. moratoria “di fatto” è durata dal 1998 al 2004, quando<br />

infine la Commissione ha autorizzato la commercializzazione (e di<br />

conseguenza l’importazione) nel mercato europeo del mais dolce Bt11,<br />

fresco o in scatola, sulla base dell’attestazione che esso non fosse nocivo per<br />

la salute umana e per l’ambiente.<br />

Nel periodo di vigenza, la moratoria di fatto ha comportato la reazione<br />

dei principali partners commerciali dell’UE (soprattutto di Stati Uniti,<br />

Canada e Argentina, che nel 2003 hanno proposto un ricorso agli organi di<br />

risoluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio)<br />

e una notevole riduzione delle attività di ricerca biotecnologica in Europa (le<br />

prove sperimentali sono diminuite da alcune centinaia l’anno a poche<br />

decine). Per tutti questi motivi, le istituzioni UE hanno deciso di avviare una<br />

nuova fase legislativa che ha portato alla sostituzione della direttiva 90/220<br />

con la nuova direttiva attualmente in vigore. La direttiva 2001/18 contiene<br />

la più importante <strong>disciplina</strong> in materia di OGM nell’Unione <strong>europea</strong>. Essa è<br />

suddivisa in quattro parti concernenti le disposizioni di carattere generale; le<br />

emissioni nell’ambiente; le immissioni nel mercato; e le disposizioni finali.<br />

Scopo della direttiva (art. 1). La direttiva, nel rispetto del <strong>principi</strong>o<br />

precauzionale, mira al ravvicinamento delle disposizioni legislative,<br />

regolamentari e amministrative <strong>degli</strong> Stati membri e alla tutela della salute<br />

umana e dell’ambiente quando si emettono deliberatamente nell’ambiente<br />

OGM a scopo diverso dall’immissione in commercio all’interno dell’UE<br />

oppure quando si immettono in commercio all’interno dell’UE OGM come<br />

tali o contenuti in prodotti.<br />

Definizioni (art. 2). Si intende per organismo qualsiasi entità<br />

biologica capace di riprodursi o di trasferire materiale genetico. Per<br />

23


organismo geneticamente modificato (OGM), invece, un organismo, diverso<br />

da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo<br />

diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la<br />

ricombinazione genetica naturale. L’emissione deliberata è poi qualsiasi<br />

introduzione intenzionale nell’ambiente di un OGM o una combinazione di<br />

OGM per la quale non vengono usate misure specifiche di confinamento, al<br />

fine di limitare il contatto con la popolazione e con l’ambiente e per<br />

garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi (es.<br />

sperimentazioni sul terreno oppure coltivazione di piante OGM).<br />

L’immissione in commercio riguarda infine la messa a disposizione di terzi,<br />

dietro compenso o gratuitamente. A tal proposito, però, non rappresentano<br />

immissione in commercio le attività di impiego confinato di MGM (in<br />

quanto sottoposte alla direttiva 2009/41); la messa a disposizione di OGM<br />

(diversi dai MGM) per attività in cui si attuano misure rigorose e specifiche<br />

di confinamento atte a limitare il contatto con la popolazione e con<br />

l’ambiente e a garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi<br />

(questi impieghi però si dovrebbero basare sulle regole di sicurezza della<br />

direttiva 2009/41); e la messa a disposizione di OGM da utilizzarsi<br />

esclusivamente per emissioni deliberate nell’ambiente.<br />

Esclusioni dall’applicazione della direttiva (art. 3). In generale, le<br />

regole della direttiva 2001/18 non si applicano agli organismi ottenuti<br />

attraverso la mutagenesi e la fusione cellulare (inclusa la fusione di<br />

protoplasti) di cellule vegetali di organismi che possono scambiare<br />

materiale genetico anche con metodi di riproduzione tradizionali. Stesso<br />

discorso per le attività di trasporto di OGM per ferrovia, su strada, per vie<br />

navigabili interne, per mare o per via aerea.<br />

Obblighi generali <strong>degli</strong> Stati membri (art. 4). Nel rispetto del<br />

<strong>principi</strong>o di precauzione, gli Stati membri UE devono adottate tutte le<br />

misure atte ad evitare effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente che<br />

potrebbero derivare dall’emissione deliberata o dall’immissione in<br />

commercio di OGM. In particolare, anzitutto possono consentire gli<br />

impieghi solo <strong>degli</strong> OGM precedentemente autorizzati in base alle diverse<br />

procedure della direttiva 2001/18. In secondo luogo, devono valutare caso<br />

per caso (così come la Commissione, qualora chiamata in causa) gli effetti<br />

negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e sull’ambiente,<br />

eventualmente provocati dal trasferimento di un gene dall’OGM ad un altro<br />

organismo: si deve soprattutto tener conto dell’impatto ambientale in<br />

funzione del tipo di organismo introdotto e dell’ambiente ospite. Ancora, gli<br />

Stati devono adoperarsi per eliminare entro la fine del 2008 gli OGM<br />

contenenti marcatori di resistenza agli antibiotici a causa della loro<br />

particolare pericolosità per la salute umana. Grande importanza ha l’obbligo<br />

di designare apposite autorità competenti che hanno le principali<br />

responsabilità a livello nazionale (esaminano le notifiche <strong>degli</strong> impieghi di<br />

24


OGM; compiono ispezioni; adottano altre misure di controllo per garantire<br />

l’osservanza della direttiva). Infine, devono assicurarsi che siano adottate<br />

tutte le misure necessarie per fronteggiare eventuali emissioni o immissioni<br />

di OGM non autorizzate.<br />

Tracciabilità ed etichettatura <strong>degli</strong> OGM. Prima della direttiva<br />

2001/18, la normativa UE si era occupata della sola etichettatura dei<br />

prodotti contenenti OGM. La direttiva 2001/18 introduce invece obblighi<br />

generali di etichettatura e tracciabilità per tutte le immissioni in commercio<br />

di organismi transgenici. Quanto all’etichettatura, i prodotti contenenti o<br />

costituiti da OGM devono indicare con chiarezza sull’etichetta la presenza<br />

di un OGM (in particolare, sull’etichetta o nel documento che accompagna<br />

il prodotto o altri prodotti contenenti OGM deve apparire la dicitura “questo<br />

prodotto contiene organismi geneticamente modificati”). Per quanto<br />

riguarda invece la tracciabilità, l’art. 4, par. 6 affermava genericamente che<br />

gli Stati membri dovessero adottare misure volte a garantire la tracciabilità<br />

in tutte le fasi dell’immissione in commercio di OGM autorizzati. Nel<br />

timore che gli Stati membri godessero di eccessiva discrezionalità, l’UE ha<br />

emanato soprattutto il regolamento 1830/2003 che ha abrogato l’art. 4, par.<br />

6 della direttiva 2001/18.<br />

(segue): La <strong>disciplina</strong> del regolamento 1830/2003. Questo<br />

regolamento intende garantire la tracciabilità <strong>degli</strong> OGM lungo tutta la<br />

catena alimentare, anche per quanto riguarda i prodotti trasformati nei quali<br />

il processo di fabbricazione ha distrutto o alterato il DNA geneticamente<br />

modificato (ad es. gli olii). Tutti i prodotti <strong>disciplina</strong>ti dal regolamento sono<br />

soggetti all’obbligo di etichettatura e di tracciabilità: da questo punto di<br />

vista, il regolamento 1830/2003 si applica a tutti i prodotti contenenti o<br />

consistenti in OGM nonché ai prodotti alimentari e ai mangimi ottenuti da<br />

OGM ma non contenenti o consistenti in OGM. Per quanto riguarda i<br />

prodotti contenenti o consistenti in OGM, le disposizioni sulla tracciabilità<br />

obbligano tutti gli operatori della filiera a trasmettersi l’un l’altro per iscritto<br />

specifiche informazioni concernenti l’indicazione che i prodotti sono OGM<br />

o ne contengono e l’identificatore unico (tipo codice a barre) assegnato a tali<br />

OGM (le informazioni devono essere conservate per 5 anni); quanto<br />

all’etichettatura dei prodotti preconfezionati, sull’etichetta deve figurare<br />

l’indicazione “Questo prodotto contiene organismi geneticamente<br />

modificati” o “Questo prodotto contiene (nome dell’organismo)”; infine,<br />

l’etichettatura dei prodotti non confezionati comporta per l’operatore<br />

l’obbligo di trasmettere le pertinenti informazioni unitamente al prodotto<br />

(es. documenti di accompagnamento). La <strong>disciplina</strong> per i prodotti alimentari<br />

e ai mangimi ottenuti da OGM ma non contenenti o consistenti in OGM<br />

comporta invece che, in ogni passaggio della catena distributiva, gli<br />

operatori commerciali si debbano trasmettere una serie di informazioni<br />

(quali l’indicazione di ogni ingrediente alimentare prodotto utilizzando<br />

25


OGM e l’indicazione di ogni materia prima o additivo per alimenti per<br />

animali prodotti utilizzando OGM); se non vi è un elenco di ingredienti, sul<br />

prodotto si deve indicare che è stato elaborato utilizzando OGM; anche tali<br />

informazioni devono essere conservate per 5 anni. L’importante questione<br />

della presenza accidentale di OGM viene risolta stabilendo che, per i<br />

prodotti contenenti tracce di OGM non eccedenti lo 0,9%, non si applicano<br />

gli obblighi di tracciabilità ed etichettatura, purché tuttavia la loro presenza<br />

sia involontaria e tecnicamente inevitabile.<br />

OGM e <strong>principi</strong>o di precauzione. Come si è già detto, il <strong>principi</strong>o di<br />

precauzione consente di sospendere un trattamento o la diffusione di un<br />

prodotto se vi è un rischio per l’ambiente anche in assenza di dati scientifici<br />

certi sulla pericolosità. Ci si trova in presenza di un’inversione dell’onere<br />

della prova: per poter prendere una misura basata su questo <strong>principi</strong>o, è<br />

necessaria e sufficiente l’assenza di prove scientifiche sulla nonpericolosità.<br />

Il <strong>principi</strong>o opera dunque come una specie di clausola di<br />

salvaguardia, qualora non vi siano elementi certi sulla non-pericolosità di un<br />

trattamento o prodotto. La direttiva 2001/18 si basa sul <strong>principi</strong>o di<br />

precauzione: secondo l’art. 1, gli obiettivi della direttiva devono essere<br />

raggiunti «Nel rispetto del <strong>principi</strong>o precauzionale»; stesso discorso per le<br />

misure dell’art. 4, par. 1, da adottare «nel rispetto del <strong>principi</strong>o<br />

precauzionale». Peraltro, come si è già detto, il <strong>principi</strong>o di precauzione<br />

viene ribadito a livello di diritto primario nell’art. 191, par. 2 TFUE secondo<br />

cui «La politica dell’Unione in materia ambientale […] è fondata sui<br />

<strong>principi</strong> della precauzione […]».<br />

Inoltre, i giudici UE hanno ribadito da tempo che il <strong>principi</strong>o di<br />

precauzione è <strong>principi</strong>o generale di diritto UE che estende la sua efficacia in<br />

ogni ambito in cui è possibile che vi siano danni per l’ambiente, compresi<br />

gli OGM. Ad esempio, nel caso Mucca pazza (1997), la Corte di giustizia ha<br />

affermato che «Si deve ammettere che, quando sussistono incertezze<br />

riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le<br />

istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che<br />

siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Questa<br />

considerazione è corroborata dall’art. [191, par. 1, TFUE], secondo il quale<br />

la protezione della salute umana rientra tra gli obiettivi della politica della<br />

Comunità in materia ambientale. Il n. 2 del medesimo articolo dispone che<br />

questa politica, che mira ad un elevato livello di tutela, è fondato<br />

segnatamente sui <strong>principi</strong> della precauzione e dell’azione preventiva […]».<br />

Nella sentenza Bergaderm (1998), il Tribunale ha riconosciuto la legittimità<br />

della direttiva 95/34/CEE che permetteva agli Stati membri di adottare<br />

misure restrittive sui cosmetici anche in assenza di dati scientifici unanimi<br />

sul rischio di melanoma della pelle. Nella sentenza Greenpeace France<br />

(2000), infine, la Corte ha riconosciuto lo specifico ruolo del <strong>principi</strong>o di<br />

precauzione in materia di OGM.<br />

26


La già ricordata Comunicazione della Commissione del 2000 sul<br />

<strong>principi</strong>o di precauzione ha messo in luce requisiti ed elementi sui quali<br />

basarsi per una valutazione del rischio alla luce del <strong>principi</strong>o stesso.<br />

Peraltro, nel caso Alpharma (2002) il Tribunale ha ricordato che, poiché la<br />

Comunicazione contiene regole di condotta stabilite dalla Commissione,<br />

quest’ultima è tenuta ad applicarle. Secondo il giudice UE, infatti, la<br />

Comunicazione del 2000 può essere considerata come una codificazione<br />

dello stato del diritto UE sul <strong>principi</strong>o di precauzione e la Commissione non<br />

può prendere decisioni di divieto non basate su dati scientifici noti, esaustivi<br />

ed affidabili, benché non assolutamente certi: in altri termini, l’assenza di<br />

qualsivoglia dato scientifico non consente provvedimenti precauzionali. Due<br />

aspetti della Comunicazione devono essere presi in considerazione in<br />

rapporto alla direttiva 2001/18. Anzitutto, si è già detto che vi deve essere<br />

proporzionalità tra danno da scongiurare e misura adottata. In questo, la<br />

direttiva 2001/18 sembra conforme: secondo l’art. 4, par. 3 «Gli Stati<br />

membri e, ove opportuno, la Commissione assicurano che i potenziali effetti<br />

negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e sull’ambiente,<br />

eventualmente provocati dal trasferimento di un gene dall’OGM ad un altro<br />

organismo, siano attentamente valutati caso per caso. Tale valutazione è<br />

effettuata a norma dell’allegato II, tenendo conto dell’impatto ambientale in<br />

funzione del tipo di organismo introdotto e dell’ambiente ospite». Così<br />

anche il Tribunale nel caso Land Oberösterreich (2005), secondo cui il<br />

<strong>principi</strong>o di precauzione non autorizza una interdizione generalizzata di una<br />

specifica immissione in commercio di OGM, in quanto ogni restrizione<br />

deve essere esaminata individualmente e in base alla finalità dell’impiego.<br />

In secondo luogo, con riguardo alla revisione delle misure precauzionali alla<br />

luce di nuovi dati scientifici, la Comunicazione afferma che gli effetti di tali<br />

misure sono necessariamente limitati nel tempo e cessano alla luce dei<br />

nuovi dati scientifici che confermano o smentiscono definitivamente il<br />

provvedimento di divieto di emissione o immissione. Anche in questo caso<br />

la direttiva 2001/18 pare conforme, in quanto prevede piani di<br />

monitoraggio, autorizzazioni a termine per le immissioni di OGM in<br />

commercio e aggiornamento <strong>degli</strong> allegati tecnici.<br />

OGM e <strong>principi</strong>o della valutazione del rischio ambientale. La<br />

direttiva 90/220 stabiliva l’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure<br />

idonee a prevenire gli eventuali effetti dannosi di un impiego di OGM ma<br />

non specificava i criteri per la valutazione del rischio. La direttiva 2001/18<br />

ha invece colmato la lacuna. Ai sensi dell’art. 4, par. 3, appena ricordato,<br />

«Gli Stati membri e, ove opportuno, la Commissione assicurano che i<br />

potenziali effetti negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e<br />

sull’ambiente, eventualmente provocati dal trasferimento di un gene<br />

dall’OGM ad un altro organismo, siano attentamente valutati caso per caso.<br />

Tale valutazione è effettuata a norma dell’allegato II, tenendo conto<br />

27


dell’impatto ambientale in funzione del tipo di organismo introdotto e<br />

dell’ambiente ospite».<br />

L’Allegato II contiene i <strong>principi</strong> per la valutazione del rischio<br />

ambientale. L’obiettivo di una valutazione del rischio ambientale è, caso per<br />

caso, quello di individuare e valutare gli effetti potenzialmente negativi<br />

dell’OMG, sia diretti sia indiretti, immediati o differiti, sulla salute umana e<br />

sull’ambiente, provocati dall’emissione deliberata o dall’immissione sul<br />

mercato di OGM. La valutazione del rischio ambientale deve essere<br />

effettuata al fine di determinare se è necessario procedere ad una gestione<br />

del rischio e, in caso affermativo, reperire i metodi più appropriati da<br />

impiegare. I <strong>principi</strong> generali di tale valutazione sono 1) il confronto tra<br />

OGM potenzialmente negativo e organismo non modificato da cui l’OGM<br />

viene ricavato; 2) l’esame condotto in maniera scientificamente valida e<br />

trasparente, sulla base dei dati scientifici e tecnici disponibili; 3) la<br />

valutazione del rischio ambientale effettuata caso per caso; 4) la successiva<br />

rivalutazione del rischio ambientale in presenza di nuove informazioni.<br />

Quanto alle fasi della valutazione del rischio ambientale, esse comprendono<br />

l’identificazione delle caratteristiche che possono causare effetti negativi; la<br />

valutazione delle potenziali conseguenze di ogni eventuale effetto negativo;<br />

la valutazione della possibilità del verificarsi di ogni potenziale effetto<br />

negativo identificato; la stima del rischio collegato a ciascuna caratteristica<br />

identificata dell’OGM o <strong>degli</strong> OGM; l’applicazione di strategie di gestione<br />

dei rischi derivanti dall’emissione deliberata nell’ambiente o dalla<br />

immissione in commercio di OGM; e la determinazione del rischio generale<br />

dell’OGM o <strong>degli</strong> OGM. L’Allegato II contiene solo un elenco<br />

esemplificativo dei tipi di effetti ritenuti dannosi in relazione a) agli OGM<br />

diversi dalle piante e b) alle piante superiori geneticamente modificate<br />

(PSGM). L’unico divieto assoluto è invece contenuto, come detto, nell’art.<br />

4, par. 2 relativamente agli OGM contenenti marcatori di resistenza agli<br />

antibiotici.<br />

La procedura di autorizzazione per l’emissione deliberata<br />

nell’ambiente per qualsiasi fine diverso dal commercio. La direttiva<br />

2001/18 prevede diverse procedure di autorizzazione a seconda che si tratti<br />

di emissione deliberata nell’ambiente (Parte B) o di immissione in<br />

commercio (Parte C) di un OGM. Con riferimento all’emissione deliberata<br />

per fini non commerciali, la Parte B contempla una procedura normale, una<br />

procedura differenziata e una procedura sul trattamento delle modifiche e<br />

delle nuove informazioni. La procedura normale (art. 6) prevede che<br />

chiunque voglia effettuare un’emissione deliberata di un OGM<br />

nell’ambiente debba presentare una notifica all’autorità nazionale. Questa<br />

notifica deve contenere, tra l’altro, la valutazione del rischio ambientale e un<br />

piano di monitoraggio e di controllo dell’OGM che si intende introdurre<br />

nell’ambiente (il piano di monitoraggio deve seguire le indicazioni<br />

28


contenute nell’Allegato VII, che hanno l’obiettivo di effettuare una<br />

valutazione dei potenziali effetti a lungo termine derivanti dall’interazione<br />

dell’OGM con altri organismi o con l’ambiente). Ricevuta la notifica,<br />

l’autorità nazionale ne dà comunicazione alla Commissione e agli altri Stati<br />

membri, con possibilità di presentare osservazioni. Entro 90 giorni dalla<br />

notifica, l’autorità nazionale si pronuncia in forma scritta accogliendo o<br />

respingendo la notifica. Il notificante, di conseguenza, può procedere<br />

all’emissione solamente dopo l’autorizzazione scritta e rispettando tutte le<br />

condizioni in essa precisate.<br />

La procedura differenziata (art. 7) può essere invece utilizzata se si<br />

dispone di sufficiente esperienza riguardo alle emissioni di taluni OGM in<br />

determinati ecosistemi e se questi OGM soddisfano i criteri enunciati<br />

nell’Allegato V. Infine, la procedura sul trattamento delle modifiche e delle<br />

nuove informazioni (art. 8) viene utilizzata: 1) quando, dopo<br />

l’autorizzazione scritta dell’autorità nazionale, si verifica una modifica o<br />

variazione non intenzionale dell’emissione deliberata con possibili<br />

conseguenze sui rischi per la salute umana e per l’ambiente; e 2) qualora si<br />

rendano disponibili nuove informazioni sui rischi mentre l’autorità<br />

nazionale sta esaminando la notifica o ha già rilasciato l’autorizzazione<br />

scritta. In questi casi il notificante deve adottare le misure necessarie per la<br />

tutela della salute umana e dell’ambiente, informare immediatamente<br />

l’autorità nazionale e riesaminare le misure già proposte nella notifica. In<br />

presenza di modifiche o nuove informazioni, inoltre, l’autorità nazionale<br />

può imporre al notificante di modificare le modalità dell’emissione, di<br />

sospenderla o di interromperla definitivamente informandone il pubblico.<br />

L’immissione in commercio di OGM o di prodotti contenenti<br />

OGM. La procedura di autorizzazione della direttiva 2001/18.<br />

Attualmente, la <strong>disciplina</strong> sull’autorizzazione per l’immissione in<br />

commercio di OGM è ripartita tra la Parte C della direttiva 2001/18<br />

(procedure per i prodotti commercializzati a fini di coltivazione, come le<br />

sementi) e il regolamento 1829/2003 (che contiene le procedure per gli<br />

OGM relativi ad alimenti umani e mangimi animali). Quanto alla procedura<br />

della Parte C della direttiva 2001/18, essa si compone di una fase nazionale<br />

preponderante rispetto a quella sovranazionale.<br />

Partendo dalla fase nazionale, chiunque voglia effettuare<br />

un’immissione di OGM in commercio deve presentare una notifica<br />

all’autorità nazionale. Ricevuta la notifica, quest’autorità elabora una<br />

valutazione del rischio per l’ambiente della proposta di immissione: se la<br />

valutazione è negativa, la notifica viene respinta già in questa fase; se invece<br />

è positiva, si apre la fase sovranazionale. In questo caso, l’autorità nazionale<br />

trasmette alla Commissione e alle altre autorità competenti la sintesi del<br />

fascicolo di notifica e la relazione di valutazione del rischio per l’ambiente.<br />

29


La Commissione può chiedere ulteriori informazioni, mentre le altre autorità<br />

possono formulare obiezioni e chiedere ulteriori informazioni. In mancanza<br />

di obiezioni da parte delle altre autorità, l’autorità nazionale che ha ricevuto<br />

la notifica concede l’autorizzazione all’immissione in commercio. In caso di<br />

obiezioni, invece, la Commissione e le autorità nazionali cercano di trovare<br />

un accordo sull’immissione. Se le obiezioni vengono ritirate, l’autorità<br />

nazionale procede all’autorizzazione. Se esse al contrario vengono<br />

mantenute, la Commissione chiede il parere scientifico dell’Autorità<br />

<strong>europea</strong> per la sicurezza alimentare (EFSA, e in particolare dell’apposito<br />

Gruppo OGM): si noti che in questa procedura l’EFSA si limita a<br />

concentrare la propria analisi soprattutto sui punti scientifici divergenti.<br />

Qualora le obiezioni vengano mantenute anche dopo il parere<br />

dell’EFSA, si apre la fase della procedura “comunitarizzata” per le<br />

obiezioni. La Commissione ha 4 mesi per adottare un progetto di decisione,<br />

che viene sottoposto all’approvazione, in primo grado, del Comitato<br />

permanente per la catena alimentare e la salute <strong>degli</strong> animali (SCFCAH),<br />

composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri UE. In mancanza di<br />

accordo, si procede in appello davanti a un apposito Comitato d’appello,<br />

anch’esso composto da rappresentanti <strong>degli</strong> Stati membri ma a un livello più<br />

elevato. In caso di mancato raggiungimento della maggioranza qualificata in<br />

seno ai due Comitati, la decisione finale sull’autorizzazione all’immissione<br />

in commercio spetta tuttavia alla Commissione.<br />

6. (segue): La particolare procedura per alimenti e mangimi<br />

predisposta dal regolamento 1829/2003.<br />

Il regolamento 1829/2003 ha l’obiettivo di far sì che alimenti e<br />

mangimi geneticamente modificati siano autorizzati ai fini dell’immissione<br />

sul mercato soltanto dopo una valutazione scientifica del più alto livello<br />

possibile (da effettuarsi sotto la responsabilità dell’EFSA) dei rischi che essi<br />

eventualmente presentino per la salute umana e animale o per l’ambiente.<br />

Esso si divide in due sezioni rispettivamente dedicate agli alimenti e ai<br />

mangimi. In proposito, giova sottolineare che uno <strong>degli</strong> elementi<br />

maggiormente innovativi rispetto alle regolamentazioni precedenti è proprio<br />

relativa ai mangimi, che fino a quel momento non erano in alcun modo<br />

<strong>disciplina</strong>ti né nella direttiva 2001/18 né altrove. Il regolamento 1829/2003<br />

si applica al posto della direttiva 2001/18 in presenza di 1) OGM destinati<br />

all’alimentazione umana o animale oppure OGM che possono essere<br />

utilizzati come alimento o come materiale di base per la produzione di<br />

alimenti o mangimi; 2) alimenti e ai mangimi contenenti o costituenti OGM;<br />

3) alimenti o mangimi prodotti a partire da o che contengono ingredienti<br />

prodotti a partire da OGM ma che non consistono o contengono OGM.<br />

30


A differenza della direttiva 2001/18, la procedura di autorizzazione<br />

del regolamento 1829/2003 è sostanzialmente centralizzata a livello UE, in<br />

quanto la valutazione del rischio è condotta dall’EFSA (e non dall’autorità<br />

nazionale) e il provvedimento di autorizzazione è sovranazionale e non<br />

nazionale. La fase nazionale, abbastanza marginale, prevede che il<br />

richiedente presenti la sua domanda per qualsiasi prodotto alimentare o<br />

mangime contenente OGM all’autorità nazionale competente. Da notare che<br />

si può presentare un’unica domanda per gli utilizzi alimentari e per la<br />

coltivazione: la domanda così presentata assorbe quella della direttiva<br />

2001/18; tuttavia, nel caso di utilizzazione anche per coltivazione si devono<br />

rispettare anche le disposizioni della direttiva 2001/18 (ciò significa che<br />

l’OGM che ha ottenuto un’autorizzazione può essere utilizzato sia<br />

nell’alimentazione sia per la coltivazione o l’emissione deliberata<br />

nell’ambiente). Alla domanda di autorizzazione va allegato un dossier che<br />

riporti tutte le informazioni scientifiche disponibili al fine di consentire la<br />

valutazione della sicurezza per la salute umana, animale e dell’ambiente.<br />

L’autorità nazionale informa l’EFSA e le trasmette la domanda con le<br />

eventuali informazioni supplementari fornite dal richiedente.<br />

A questo punto si apre la fase sovranazionale, di gran lunga più<br />

importante. L’EFSA, ricevuto l’incartamento, informa la Commissione e le<br />

altre autorità nazionali; rende accessibile al pubblico una sintesi del dossier;<br />

predispone un parere scientifico sull’autorizzazione conducendo una<br />

valutazione del rischio ambientale; può chiedere all’autorità nazionale di<br />

predisporre la propria valutazione del rischio ambientale (in caso di OGM<br />

notificati per coltivazione ai sensi anche della direttiva 2001/18, la<br />

valutazione nazionale deve essere chiesta); e trasmette il suo parere alla<br />

Commissione, alle altre autorità nazionali e al richiedente (allegando una<br />

relazione in cui descrive la sua valutazione dell’alimento e comunica i<br />

motivi del parere e le informazioni su cui esso si basa, compresi i pareri<br />

delle autorità competenti consultate). La Commissione <strong>europea</strong>, sulla base<br />

del parere dell’EFSA, propone di accogliere o rifiutare la domanda. Il già<br />

ricordato Comitato permanente per la catena alimentare e la salute <strong>degli</strong><br />

animali decide se concedere o meno l’autorizzazione. Se non vi si raggiunge<br />

il consenso, la decisione viene rimandata in seconda istanza al Comitato<br />

d’appello. In mancanza di consenso, la decisione finale spetta alla<br />

Commissione.<br />

7. Libera circolazione <strong>degli</strong> OGM, sistema di salvaguardia e coesistenza<br />

tra colture tradizionali e colture OGM.<br />

Libera circolazione <strong>degli</strong> OGM autorizzati. Una volta ottenuta<br />

l’autorizzazione all’immissione in commercio, all’OGM o al prodotto che<br />

31


consiste o lo contiene deve essere garantito il più ampio accesso al territorio<br />

UE. Vige infatti la regola della libera circolazione di cui all’art. 22 della<br />

direttiva 2001/18, secondo il quale «gli Stati membri non possono vietare,<br />

limitare o impedire l’immissione in commercio di OGM, come tali o<br />

contenuti in prodotti, conformi ai requisiti della presente direttiva».<br />

Tuttavia, vi sono delle eccezioni a tale regola, contenute nei sistemi di<br />

salvaguardia della direttiva 2001/18 e del regolamento 1829/2003.<br />

Il sistema di salvaguardia della direttiva 2001/18. Ai sensi dell’art.<br />

23 della direttiva 2001/18: «1. Qualora uno Stato membro, sulla base di<br />

nuove o ulteriori informazioni divenute disponibili dopo la data<br />

dell’autorizzazione e che riguardino la valutazione di rischi <strong>ambientali</strong> o una<br />

nuova valutazione delle informazioni esistenti basata su nuove o<br />

supplementari conoscenze scientifiche, abbia fondati motivi di ritenere che<br />

un OGM come tale o contenuto in un prodotto debitamente notificato e<br />

autorizzato per iscritto in base alla presente direttiva rappresenti un rischio<br />

per la salute umana o l’ambiente, può temporaneamente limitarne o vietarne<br />

l’uso o la vendita sul proprio territorio. Lo Stato membro provvede affinché,<br />

in caso di grave rischio, siano attuate misure di emergenza, quali la<br />

sospensione o la cessazione dell’immissione in commercio, e<br />

l’informazione del pubblico. Lo Stato membro informa immediatamente la<br />

Commissione e gli altri Stati membri circa le azioni adottate a norma del<br />

presente articolo e motiva la propria decisione, fornendo un nuovo giudizio<br />

sulla valutazione di rischi <strong>ambientali</strong>, indicando se e come le condizioni<br />

poste dall’autorizzazione debbano essere modificate o l’autorizzazione<br />

debba essere revocata e, se necessario, le nuove o ulteriori informazioni su<br />

cui è basata la decisione».<br />

A differenza dell’art. 16 della precedente direttiva 90/220, dunque, la<br />

nuova clausola di salvaguardia non può essere utilizzata in maniera<br />

assolutamente discrezionale ma solo in presenza di «nuove o ulteriori<br />

informazioni divenute disponibili dopo la data dell’autorizzazione e che<br />

riguardino la valutazione di rischi <strong>ambientali</strong> o una nuova valutazione delle<br />

informazioni esistenti basata su nuove o supplementari conoscenze<br />

scientifiche». Lo Stato membro continua tuttavia a godere di una<br />

significativa discrezionalità in quanto 1) può prendere una misura di<br />

salvaguardia di propria iniziativa e direttamente, senza previa notifica e<br />

autorizzazione della Commissione; b) può anche decidere di non prendere la<br />

misura di salvaguardia pur in presenza di «fondati motivi di ritenere che un<br />

OGM come tale o contenuto in un prodotto debitamente notificato e<br />

autorizzato per iscritto in base alla presente direttiva rappresenti un rischio<br />

per la salute umana o l’ambiente». Lo Stato membro ha solo l’obbligo di<br />

informare immediatamente la Commissione e gli altri Stati membri delle<br />

misure intraprese, e deve inoltre indicare se e come le condizioni poste<br />

dall’autorizzazione debbano essere modificate oppure l’autorizzazione<br />

32


essere revocata. La decisione definitiva sulla modifica o sulla revoca<br />

dell’autorizzazione viene presa attraverso lo stesso procedimento previsto<br />

per il rilascio dell’autorizzazione, passando dunque per il Comitato<br />

permanente per la catena alimentare e la salute <strong>degli</strong> animali,<br />

eventualmente per il Comitato d’appello, o infine anche da una decisione<br />

della Commissione.<br />

Il sistema di salvaguardia del regolamento 1829/2003. Nel sistema<br />

del regolamento 1829/2003, invece, gli Stati membri conservano poteri di<br />

vigilanza sulle condizioni e restrizioni imposte dall’autorizzazione UE e<br />

possono richiedere la modifica, sospensione o revoca di un’autorizzazione.<br />

Tuttavia, il potere di adottare misure di salvaguardia è molto ridotto rispetto<br />

alle corrispondenti previsioni della direttiva 2001/18. Secondo l’art. 34 del<br />

regolamento, infatti, «Quando sia manifesto che prodotti autorizzati dal<br />

presente regolamento o conformemente allo stesso possono comportare un<br />

grave rischio per la salute umana, per la salute <strong>degli</strong> animali o per<br />

l’ambiente ovvero qualora, alla luce di un parere [dell’EFSA], sorga la<br />

necessità di sospendere o modificare urgentemente un’autorizzazione, sono<br />

adottate misure conformemente alle procedure previste agli articoli 53 e 54<br />

del regolamento (CE) n. 178/2002». Il regolamento 178/2002 è quello sulla<br />

sicurezza alimentare: ciò significa che, a differenza del sistema della<br />

direttiva 2001/18, gli Stati membri in questo caso non hanno poteri<br />

unilaterali di restrizione o limitazione delle autorizzazioni emesse dalla<br />

Commissione. Solo la Commissione può adottare misure di salvaguardia,<br />

mentre gli Stati membri devono informare ufficialmente la Commissione<br />

della necessità di adottare misure di salvaguardia e possono intervenire<br />

autonomamente solo in caso di inerzia della Commissione (però tali misure,<br />

una volta adottate, devono essere notificate immediatamente alla<br />

Commissione e agli altri Stati membri).<br />

Nel recente caso Monsanto SAS (2011), la Corte di giustizia si è<br />

espressa in una causa avente ad oggetto le misure di salvaguardia francesi<br />

dirette a sospendere la cessione e l’utilizzo di sementi di mais MON 810 e<br />

poi a vietare la coltivazione delle medesime sementi. La Corte ha affermato<br />

che uno Stato membro non può utilizzare la clausola di salvaguardia<br />

prevista dalla direttiva 2001/18 al fine di adottare misure che sospendano e,<br />

in un secondo momento, vietino provvisoriamente l’utilizzo o l’immissione<br />

in commercio di un OGM autorizzato in base al regolamento 1829/2003.<br />

Nella richiesta di misure alla Commissione, gli Stati membri devono<br />

dimostrare l’urgenza e l’esistenza di un rischio manifesto per la salute<br />

umana, la salute <strong>degli</strong> animali o l’ambiente. Inoltre, nonostante il loro<br />

carattere provvisorio e preventivo, tali misure possono essere adottate<br />

solamente se fondate su una valutazione dei rischi quanto più possibile<br />

completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, che<br />

dimostrino che tali misure sono necessarie.<br />

33


La coesistenza tra colture tradizionali e OGM. L’utilizzo di OGM,<br />

com’è ampiamente noto, è suscettibile di porre problemi particolari nel<br />

settore agroalimentare con riferimento alla scelta tra prodotti derivanti da<br />

colture tradizionali/biologiche e colture OGM. La raccomandazione della<br />

Commissione 2003/556/CE mette in evidenza il <strong>principi</strong>o della coesistenza<br />

tra le diverse colture. Essa ha fissato orientamenti generali (pur se non<br />

vincolanti) per definire regolamentazioni e prassi nazionali idonee a<br />

garantire la coesistenza: in sostanza, contempla misure idonee a garantire la<br />

possibilità di utilizzo <strong>degli</strong> OGM autorizzati per tutti quegli operatori<br />

economici che lo desiderino. Il termine coesistenza indica per l’appunto la<br />

«possibilità di scelta <strong>degli</strong> agricoltori tra colture convenzionali, organiche e<br />

geneticamente modificate nel rispetto delle obbligazioni legali riguardanti<br />

gli standards di purezza e di etichettatura».<br />

In proposito, la direttiva 2001/18 lascia ampia discrezionalità agli<br />

Stati membri. Secondo l’art. 26-bis, «1. Gli Stati membri possono adottare<br />

tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in<br />

altri prodotti. 2. La Commissione raccoglie e coordina le informazioni<br />

basate su studi condotti a livello comunitario e nazionale, osserva gli<br />

sviluppi quanto alla coesistenza negli Stati membri e, sulla base delle<br />

informazioni e delle osservazioni, sviluppa orientamenti sulla coesistenza di<br />

colture geneticamente modificate, convenzionali e organiche». Si assiste<br />

pertanto a una riespansione della competenza <strong>degli</strong> Stati membri e delle<br />

autorità pubbliche locali o regionali, con possibilità di stabilire misure<br />

specifiche di coesistenza. In particolare, agli Stati membri (e alle loro<br />

articolazioni interne) spetta in base al <strong>principi</strong>o di sussidiarietà il compito di<br />

stabilire misure di dettaglio che impongano il divieto di coltura di OGM in<br />

determinate aree, giustificato da caratteristiche intrinseche, morfologiche e<br />

naturali delle medesime; stabilire misure di regolamentazione di<br />

sconfinamento delle aree interessate dalla produzione OGM; introdurre<br />

sistemi di responsabilità civile da danni conseguenti allo sconfinamento di<br />

prodotti OGM. Alla Commissione spetta invece un limitato compito di<br />

raccolta e coordinamento delle informazioni sulle misure nazionali esistenti;<br />

e di produzione di indirizzi di soft law quali raccomandazioni e linee guida.<br />

Alcuni Stati membri hanno introdotto normative nazionali<br />

particolarmente restrittive che in alcuni casi giungono a dichiarare intere<br />

zone di territorio libere da coltivazioni OGM. In Italia il sistema deriva dalla<br />

legge n. 5/2005. Le Regioni devono introdurre specifici piani di coesistenza<br />

delle diverse colture. La violazione dei piani di coesistenza regionali<br />

comporta apposite sanzioni amministrative e penali, e inoltre fino<br />

all’adozione dei piani di coesistenza la legge ha introdotto un bando per le<br />

colture transgeniche. Attualmente, anche a seguito di una sentenza della<br />

Corte costituzionale del 2006, il quadro in Italia è questo: a) nessuna<br />

Regione può vietare in linea di <strong>principi</strong>o la coltivazione di OGM (ciò<br />

34


contravverrebbe alla normativa UE); b) tuttavia l’imposizione di norme di<br />

coesistenza più o meno rigide rende di fatto difficile l’instaurarsi di colture<br />

OGM sul territorio. Peraltro, anche se attualmente non ci sono colture OGM<br />

in Italia (se non a livello sperimentale), la gran parte dei mangimi utilizzati<br />

negli allevamenti italiani (esclusi gli allevamenti biologici) è prodotta a<br />

partire da soia e mais geneticamente modificati importati da Stati Uniti,<br />

Canada e America Latina.<br />

(segue): Il problema della contaminazione accidentale. La Corte di<br />

giustizia, nel recente caso Bablok (2011), ha trattato la questione delle<br />

conseguenze della contaminazione accidentale. Il sig. Bablok, apicoltore<br />

amatoriale, aveva fatto causa al Land Baviera perché nel 2005 nei suoi<br />

prodotti apistici (posti a una distanza di 500 metri da terreni pubblici<br />

coltivati a mais OGM) era stata riscontrata la presenza di polline di mais il<br />

cui DNA era riconducibile al mais MON 810 e ad altre proteine<br />

transgeniche. Tuttavia il polline di mais OGM aveva perso capacità di<br />

fecondazione. La Corte, da un lato, ha affermato che non rientra più nella<br />

nozione di OGM una sostanza quale il polline derivante da una varietà di<br />

mais geneticamente modificato, la quale abbia perso la sua capacità<br />

riproduttiva e che sia priva di ogni capacità di trasferire il materiale genetico<br />

da essa contenuto. Dall’altro, però, ha ricordato che prodotti come il miele<br />

contenenti siffatto polline costituiscono alimenti che contengono ingredienti<br />

prodotti a partire da OGM ai sensi del regolamento 1829/2003. In altri<br />

termini, il polline di mais non è un corpo estraneo né una semplice impurità<br />

rispetto al miele, bensì un suo normale componente, e dev’essere<br />

effettivamente qualificato come “ingrediente”. Se ciò è vero, il polline<br />

rientra nell’ambito di applicazione del regolamento e dev’essere<br />

assoggettato al regime di autorizzazione da questo previsto per poter essere<br />

immesso in commercio. Di conseguenza, anche il miele contenente polline<br />

di mais prodotto a partire da OGM deve essere soggetto alla procedura di<br />

autorizzazione del regolamento 1829/2003 nonostante la contaminazione<br />

accidentale.<br />

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