28.05.2013 Views

François, Jean-Luc e (affettuosamente) - Cineforum del Circolo

François, Jean-Luc e (affettuosamente) - Cineforum del Circolo

François, Jean-Luc e (affettuosamente) - Cineforum del Circolo

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

i quaderni <strong>del</strong> cineforum<br />

FRANÇOIS, JEAN-LUC<br />

E (AFFETTUOSAMENTE)<br />

GLI ALTRI<br />

a 50 anni dalla Nouvelle vague<br />

I protagonisti, le loro idee, la loro evoluzione, i loro maestri. Piccola storia di<br />

una stagione breve ma intensa che ha cambiato il modo di intendere il cinema<br />

di MARCELLO PERUCCA<br />

<strong>Circolo</strong> Familiare di Unità proletaria<br />

6


FRANÇOIS, JEAN-LUC E<br />

(AFFETTUOSAMENTE)<br />

GLI ALTRI<br />

a 50 anni dalla Nouvelle vague<br />

I protagonisti, le loro idee, la loro evoluzione, i loro maestri. Piccola storia di<br />

una stagione breve ma intensa che ha cambiato il modo di intendere il cinema<br />

a cura di MARCELLO PERUCCA<br />

Settembre - Ottobre 2009<br />

CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA<br />

Viale Monza, 140 - 20127 Milano<br />

www.cineforum<strong>del</strong>circolo.it<br />

info@cineforum<strong>del</strong>circolo.it


Un nuovo modo di fare il cinema e di vedere il cinema. Ecco come si potrebbe sintetizzare,<br />

in maniera magari un poco esasperata, la risposta alla domanda: “che cos’è la Nouvelle<br />

vague?”.<br />

Il movimento così chiamato (letteralmente tradotto in “nuova onda”) nasce in Francia verso la fine<br />

degli anni Cinquanta grazie all’entusiasmo di un gruppo di giovani ventenni, appassionati cinefili,<br />

assidui frequentatori di cineclub e feroci fustigatori di tutto ciò che il cinema a quel tempo proponeva,<br />

ma con uno sguardo sempre attento al cinema <strong>del</strong> passato.<br />

Chi non ha mai visto nella propria “carriera cinefila” un film di <strong>François</strong> Truffaut, <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard<br />

o Claude Chabrol? Chi non ha sentito parlare di Eric Rohmer e Jacques Rivette? Oggi i nomi dei<br />

protagonisti di quella stagione <strong>del</strong> cinema francese sono noti. Una stagione che può essere definita<br />

senza ombra di dubbio rivoluzionaria, tanto che ebbe notevoli influenze sulle cinematografie di altri<br />

paesi d’Europa (Germania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, ecc.), nelle Americhe (Stati uniti e<br />

Brasile innanzi tutti) e in Giappone dove i film <strong>del</strong> giovane Nagisa Oshima obbligheranno la critica<br />

giapponese e non a riconsiderare radicalmente il modo di concepire il cinema <strong>del</strong> Sol Levante.<br />

Forse, però, non tutti sanno che i nuovi protagonisti <strong>del</strong> cinema francese mossero i primi passi in<br />

veste di critici cinematografici, scrivendo i loro pezzi, feroci e provocatori, su quella che era ed è<br />

considerata a tutt’oggi una <strong>del</strong>le più autorevoli riviste di settore: i Cahiers du Cinéma.<br />

Questa rivista, infatti, fu la palestra nella quale si formarono Truffaut e soci, nonché il mezzo che<br />

questi giovani intraprendenti (venivano chiamati con l’appellativo di “giovani turchi”) utilizzarono<br />

per imporre la loro idea di cinema, slegata dai vecchi cliché, rivalutando alcuni autori <strong>del</strong> passato<br />

che vennero eletti a maestri e disprezzandone altri, soprattutto francesi, considerati la parte più <strong>del</strong>eteria<br />

di un modo vecchio, superato, di fare cinema. Quel cinema che chiamavano, sprezzantemente,<br />

le cinéma de papà.<br />

I CAHIERS DU CINÉMA<br />

La rivista nacque in Francia nel 1951; aveva gli<br />

uffici al numero 146 degli Champs-Elysé, nel<br />

cuore di Parigi e, soprattutto, nel cuore <strong>del</strong><br />

mondo cinematografico francese. Venne fondata<br />

da André Bazin, critico cinematografico che,<br />

seppur di giovane età, era già affermato e attivo<br />

da diversi anni su varie riviste di settore, in collaborazione<br />

con un’altra figura di spicco <strong>del</strong>l’ambiente<br />

cinematografico <strong>del</strong>l’epoca: Jacques<br />

Doniol-Valcroze, che divenne a sua volta cineasta<br />

realizzando alcuni film sull’onda trascinante<br />

<strong>del</strong>la Nouvelle vague.<br />

Il successo arrise da subito alla rivista e fu dalle<br />

sue pagine che, pochi anni dopo, nel 1954, il giovane<br />

<strong>François</strong> Truffaut, considerato da Bazin un<br />

- 3 -<br />

po’ come un figlioccio, si fece notare con un<br />

pezzo che ebbe un’eco dirompente in tutto il<br />

mondo <strong>del</strong> cinema francese. L’articolo, dal titolo<br />

Un certain tendence du cinéma français, rappresentò<br />

una vera e propria requisitoria contro il<br />

cinema francese <strong>del</strong> momento. Truffaut si<br />

scagliò con veemenza contro i più affermati registi<br />

attivi allora in Francia. Cineasti di fama<br />

internazionale quali Claude Autant-Lara, Yves<br />

Allegret, <strong>Jean</strong> Delannoy, René Clément venivano<br />

“fustigati” dal giovane critico che li contrapponeva<br />

ad altri registi considerati veri e propri<br />

“autori” di cinema: <strong>Jean</strong> Cocteau, Abel<br />

Gance, Max Ophüls, Robert Bresson, Jacques<br />

Becker, <strong>Jean</strong> Renoir.


L’articolo, come ben si può immaginare, fece<br />

scalpore, suscitando numerose polemiche nell’ambiente.<br />

Pare che lo stesso Bazin, rendendosi<br />

conto <strong>del</strong> putiferio che avrebbe scatenato la sua<br />

pubblicazione, ne ritardò di quasi un anno la<br />

pubblicazione.<br />

Ciò che auspicavano Truffaut e i suoi amici era,<br />

in poche parole, un cinema di qualità slegato dal<br />

sistema, realizzato con budget limitati (le grosse<br />

produzioni imbavagliavano la libertà di espressione),<br />

unendo di fatto l’etica all’estetica. Un<br />

cinema in cui doveva emergere la politica degli<br />

autori: il regista, cioè, doveva esprimere una propria<br />

personale visione <strong>del</strong> mondo non solo attraverso<br />

la sceneggiatura, bensì anche e soprattutto<br />

con lo stile. I registi diventavano così i veri<br />

autori <strong>del</strong> loro film.<br />

Truffaut, Godard e gli altri propugnavano,<br />

riprendendolo, il concetto di camera-stylo,<br />

introdotto nel 1948 dal critico Alexandre Astruc<br />

che, dalle pagine <strong>del</strong>la rivista Ecran Français,<br />

rivendicava al cinema “il suo carattere di linguaggio<br />

capace di esprimersi in qualunque settore<br />

<strong>del</strong> pensiero” e auspicava “un’emancipazione<br />

dalla letteratura e dal teatro poiché è<br />

giunto il momento in cui il cineasta si serva <strong>del</strong>la<br />

camera così come lo scrittore si serve <strong>del</strong>la<br />

penna” (Angelo Moscariello, Nouvelle Vague,<br />

A sinistra: la prima copertina dei Cahiers du Cinéma, aprile 1951.<br />

Sopra: André Bazin, fondatore dei Cahiers du Cinéma.<br />

- 4 -<br />

Audino ed., 2008). Quindi la macchina da presa<br />

doveva essere utilizzata dal regista nello stesso<br />

modo con cui lo scrittore utilizza la sua penna<br />

stilografica.<br />

Secondo i giovani turchi, il cinema doveva scendere<br />

nelle strade (concetto per altro già applicato<br />

in Italia nell’immediato dopoguerra dal<br />

Neorealismo. E non fu un caso che i registi neorealisti<br />

– Rossellini sopra tutti – furono considerati<br />

come dei maestri dai giovani <strong>del</strong>la<br />

Nouvelle vague), facendo uso di attrezzature leggere,<br />

attori poco noti e troupe composte da pochi<br />

elementi.<br />

In un articolo <strong>del</strong> 1958 dal titolo profetico: Seule<br />

la crise sauvera le cinéma français, Truffaut,<br />

facendo riferimento anche al film di Roger<br />

Vadim Piace a troppi (Et Dieu crea la femme,<br />

1956) che rivelò al mondo una giovane attrice<br />

bellissima e sensuale: Brigitte Bardot, stilò una<br />

sorta di decalogo <strong>del</strong> giovane cineasta. Scriveva<br />

Truffaut: “Bisogna filmare altro, con altro spirito.<br />

Bisogna abbandonare gli studi troppo costosi<br />

per invadere i posti al sole dove nessuno (tranne<br />

Vadim) ha osato piantare la sua macchina da<br />

presa (…) Bisogna girare per le strade e anche in<br />

veri appartamenti (…) Bisogna essere follemente<br />

ambiziosi e follemente sinceri perché<br />

l’entusiasmo <strong>del</strong>le riprese si comunichi alla<br />

proiezione e conquisti il pubblico (…)”. Truffaut


scrisse l’articolo, che continua sul medesimo<br />

tono, al mondo <strong>del</strong> cinema ma anche a se stesso:<br />

di lì a poco avrebbe iniziato le riprese <strong>del</strong> suo<br />

primo lungometraggio I quattrocento colpi (Le<br />

400 coups, 1959), facendo così il grande salto<br />

(sino ad allora aveva realizzato alcuni cortome-<br />

LA NOUVELLE VAGUE<br />

Il termine Nouvelle vague, utilizzato per indicare<br />

il movimento di cineasti sorto intorno ai<br />

Cahiers, in realtà fu preso a prestito da un’inchiesta<br />

sulla gioventù francese compresa fra i 18<br />

e i 30 anni condotta, nel 1957, dal settimanale<br />

L’Express e che aveva come titolo La Nouvelle<br />

vague arrive!<br />

Si trattava di un’inchiesta ad ampio respiro sulle<br />

abitudini, sui comportamenti, sul modo di pensare<br />

dei giovani i quali, probabilmente per la prima<br />

volta, venivano considerati come entità sociologicamente<br />

ben definita. Con i loro problemi, le<br />

loro speranze, le loro insoddisfazioni. Sino ad<br />

allora i giovani non erano considerati in quanto<br />

tali, bensì, semplicemente, come persone di giovane<br />

età, senza tener conto <strong>del</strong> fatto che, in quanto<br />

giovani, essi potessero nutrire esigenze particolari,<br />

diverse da quelle <strong>del</strong> mondo adulto, <strong>del</strong><br />

mondo dei loro genitori. I giovani, in quegli<br />

anni, cominciarono lentamente a prendere<br />

coscienza <strong>del</strong> loro essere, sino ad arrivare qualche<br />

anno più tardi, nel 1968, a urlare al mondo la<br />

- 5 -<br />

traggi) lasciando la scrivania dei Cahiers e passando<br />

dietro la macchina da presa per intraprendere<br />

una carriera che l’avrebbe reso uno dei più<br />

interessanti registi degli anni Sessanta-Settanta e<br />

che fu stroncata dalla morte avvenuta all’ètà di<br />

soli 51 anni, nel 1984, per un tumore inguaribile.<br />

loro rabbia e il loro essere diversi da un mondo e<br />

da un modo di vivere che non li rappresentava.<br />

Il cinema – un certo modo di fare cinema –<br />

diventava, sotto questo punto di vista, uno strumento<br />

estremamente importante per i giovani per<br />

affrancarsi dal mondo dei padri e per affermare il<br />

loro modo di essere. Fu soprattutto il movimento<br />

<strong>del</strong>la Nouvelle vague, proprio perché<br />

formato da loro coetanei, che seppe raccogliere<br />

e convogliare le aspettative e la voglia di cambiamento<br />

dei ragazzi nella Francia di quegli<br />

anni.<br />

I primi tentativi registici dei giovani turchi iniziarono<br />

verso la metà degli anni Cinquanta.<br />

Vennero realizzati alcuni cortometraggi con esiti<br />

discordanti, primi tentativi di porre in pratica le<br />

loro teorie.<br />

Truffaut, ad esempio, realizzerà, nel 1954 Une<br />

visite e nel 1958 Histoire d’eau insieme a<br />

Godard. Sempre nel 1958 gira Les Mistons,<br />

primo vero film anche se di breve durata.<br />

Due scene di A bout de souffle, primo lungometraggio<br />

di <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard, con <strong>Jean</strong>-Paul Belmondo e <strong>Jean</strong>


Godard realizza nel 1957 Une femme coquette e<br />

l’anno successivo Tous le garçon s’appelent<br />

Patrick, con un giovane <strong>Jean</strong>-Paul Belmondo<br />

come protagonista. Sempre Belmondo sarà il<br />

protagonista di un altro cortometraggio <strong>del</strong> regista<br />

di origine svizzera, dal titolo Charlotte et<br />

son Jules (1958).<br />

Del 1956 è, invece, il cortometraggio di Rivette<br />

Le coup du berger, che si avvale, nel cast, degli<br />

amici Godard, Truffaut e Chabrol.<br />

Anche Rohmer, il più vecchio <strong>del</strong> gruppo, prima<br />

di arrivare a realizzare il suo primo lungometraggio,<br />

realizza alcuni corti fra i quali, il più<br />

famoso, è Veronique et son cancre (1958).<br />

Rifacendosi alla teoria sul linguaggio cinematografico<br />

elaborata da André Bazin, i giovani registi<br />

<strong>del</strong>la Nouvelle vague portarono nel cinema<br />

francese una ventata di novità. Il linguaggio <strong>del</strong><br />

film non era più basato sul montaggio classico,<br />

bensì su un montaggio frammentario e discontinuo.<br />

Godard in Fino all’ultimo respiro,<br />

suo primo lungometraggio <strong>del</strong> 1960, estremizza<br />

le teorie di Bazin: “frantuma le regole fondamentali<br />

<strong>del</strong> montaggio contiguo arrivando al<br />

jump cut, al taglio di alcuni fotogrammi all’interno<br />

di una sequenza che viene così punteggiata<br />

da stridenti “salti” (David Bordwell, Kristine<br />

Thompson, Storia <strong>del</strong> cinema e dei film, Il<br />

Castoro ed., 1998). Fanno ampio uso <strong>del</strong> “piano<br />

sequenza” grazie anche all’utilizzo di macchine<br />

da presa leggere e maneggevoli. Intervengono in<br />

maniera spregiudicata sulla profondità di campo,<br />

sul sonoro, sui tagli <strong>del</strong>le immagini.<br />

Sintomatiche <strong>del</strong>la filosofia <strong>del</strong>la Nouvelle<br />

vague furono le parole che Godard scrisse in un<br />

articolo dal significativo titolo Le jeune cinéma<br />

a gagné (Il giovane cinema ha vinto). Scrive<br />

Godard: “(…) Noi non possiamo perdonarvi di<br />

non aver mai filmato le ragazze che amiamo, i<br />

giovani che incontriamo tutti i giorni, i genitori<br />

che disprezziamo o che ammiriamo, i bambini<br />

che ci stupiscono o che ci lasciano indifferenti,<br />

insomma, le cose così come sono”.<br />

Lo stile documentaristico sarà, in alcuni casi,<br />

una caratteristica pregnante <strong>del</strong> cinema <strong>del</strong>la<br />

Nouvelle vague. Basti pensare all’inizio de I<br />

quattrocento colpi, con la descrizione <strong>del</strong>la classe<br />

e <strong>del</strong> maestro, o a Questa è la mia vita, (Vivre<br />

sa vie, 1962) di Godard dove, in 12 capitoli,<br />

viene descritta la vita di una donna che diventa<br />

prostituta.<br />

La Nouvelle vague fu quindi un movimento rivoluzionario<br />

sotto tutti i punti di vista: stilistico<br />

ma non solo. Permise ai giovani di “impadronirsi”<br />

<strong>del</strong>la macchina da presa, sino a quel momento<br />

appannaggio dei vecchi registi. Prima <strong>del</strong>la<br />

Nouvelle vague era, infatti, quasi impensabile<br />

che un giovane sotto i quarant’anni potesse realizzare<br />

un film come regista. Lungo era il periodo<br />

di praticantato, prima come assistente, poi<br />

come aiuto regista. Con la “nuova onda” invece<br />

tutti potevano avvicinarsi, già in giovane età,<br />

alla macchina da presa e realizzare il proprio<br />

film, bello o brutto che fosse non aveva importanza.<br />

Furono centinaia i giovani che nei primi<br />

anni Sessanta realizzarono almeno un film, grazie<br />

anche alla politica dei budget ridotti all’osso.<br />

Certo, molti di questi si fermarono lì e la loro<br />

opera finì nel dimenticatoio; solo in pochi continuarono.<br />

Ma ciò che veramente importava era<br />

che, con la Nouvelle vague, ma sarebbe meglio<br />

parlare al plurale, considerate le influenze che il<br />

movimento ebbe sulle cinematografie di altri<br />

paesi, si era oltrepassato il punto di non ritorno.<br />

Il cinema, da quel momento, non sarebbe stato<br />

più lo stesso.<br />

Il giovane <strong>Jean</strong>-Pierre Leaud ne I quattrocento colpi<br />

- 6 -


CANNES 1959<br />

Il primo esponente <strong>del</strong>la Nouvelle vague a realizzare<br />

un lungometraggio fu Claude Chabrol<br />

che girò, nel 1958, Le beau Serge, storia di una<br />

tormentata amicizia fra due giovani e I cugini<br />

(Les cousins) che, analizzando il rapporto di<br />

rivalità fra due cugini, uno timido e studioso,<br />

l’altro smaliziato e amante <strong>del</strong>la bella vita, disegna<br />

un ritratto <strong>del</strong>la gioventù <strong>del</strong>l’epoca assai<br />

vicino a quanto rilevato dal sondaggio de<br />

L’Express.<br />

Sarà però solo l’anno successivo che la Nouvelle<br />

vague salirà alla ribalta <strong>del</strong>le cronache, con un<br />

successo di pubblico e di critica assolutamente<br />

inaspettato. È quindi il 1959 che viene normalmente<br />

assunto come anno di inizio <strong>del</strong> fenomeno<br />

Nouvelle vague.<br />

In quell’anno, infatti, uscirono sugli schermi<br />

alcuni film fondamentali. Al Festival <strong>del</strong> Cinema<br />

di Cannes, nel mese di maggio, furono presentati<br />

I quattrocento colpi di <strong>François</strong> Truffaut e<br />

Hiroshima mon amour di Alain Resnais, un regista<br />

che, come vedremo meglio più avanti, non<br />

faceva formalmente parte <strong>del</strong> gruppo dei<br />

Cahiers, ma che contribuì in maniera fondamentale<br />

al rinnovamento e allo svecchiamento <strong>del</strong><br />

cinema francese.<br />

Purtroppo la lavorazione de I quattrocento colpi<br />

venne funestata da un evento luttuoso che colpì i<br />

giovani registi dei Cahiers e, in modo particolare,<br />

Truffaut. Alle tre <strong>del</strong> mattino <strong>del</strong>l’11 novembre<br />

1958 André Bazin, da tempo malato di leucemia,<br />

muore, lasciando un vuoto immenso<br />

intorno a sé. Truffaut perde l’uomo da lui considerato<br />

come un padre. I Cahiers perdono la loro<br />

guida e il loro punto di riferimento.<br />

Possiamo quindi immaginare con quale stato<br />

d’animo il giovane <strong>François</strong>, la sera <strong>del</strong>la prima<br />

<strong>del</strong> suo film al Festival, entra nella sala accompagnato<br />

da un’eminenza <strong>del</strong>la letteratura, <strong>del</strong><br />

teatro e <strong>del</strong> cinema francese: <strong>Jean</strong> Cocteau. Non<br />

è difficile pensare alle contrastanti sensazioni <strong>del</strong><br />

giovane regista, visto da molti come un fanatico,<br />

con il pensiero rivolto al suo mentore Bazin e<br />

con la tensione per la proiezione di un film chiaramente<br />

autobiografico che raccontava, senza<br />

- 7 -<br />

molti giri di parole, l’infanzia e l’adolescenza<br />

tormentate <strong>del</strong> regista stesso.<br />

L’entusiasmo <strong>del</strong>la critica e <strong>del</strong> pubblico per i<br />

film di Truffaut e di Resnais è grande.<br />

Nonostante questo a vincere quell’edizione <strong>del</strong><br />

Festival fu un film che, visto oggi ci appare piuttosto<br />

convenzionale e di maniera: Orfeo negro di<br />

Marcel Camus, tratto da un racconto di Vinicius<br />

de Moraes.<br />

Ma poco importò ai giovani dei Cahiers di non<br />

aver vinto ufficialmente a Cannes. Fu comunque<br />

una vittoria, considerato il successo ottenuto,<br />

senza contare che i giovani turchi avevano già<br />

vinto la loro battaglia il giorno stesso <strong>del</strong>la selezione<br />

dei loro film alla rassegna, come trionfalmente<br />

scrisse <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard, che aveva collaborato<br />

alla realizzazione <strong>del</strong> film di Truffaut,<br />

proclamando la vittoria in un articolo apparso sul<br />

settimanale Arts.<br />

Una vittoria che si consolidò l’anno successivo,<br />

il 1960, quando Godard, a sua volta, realizzò il<br />

suo primo lungometraggio, Fino all’ultimo<br />

respiro (A bout de souffle).<br />

Film di estrema rottura, soprattutto dal punto di<br />

vista stilistico, l’opera prima di Godard richiama<br />

nelle sale 259.000 spettatori, circa duemila in<br />

meno de I quattrocento colpi <strong>del</strong>l’amico<br />

Truffaut. Tuttavia è con questo film che la<br />

Nouvelle vague ottiene una definitiva consacrazione.<br />

Il 1960 è anche l’anno di realizzazione de Il<br />

segno <strong>del</strong> leone (Le signe du lion), il primo lungometraggio<br />

di Eric Rohmer, che però uscirà<br />

sugli schermi solamente due anni dopo. Prodotto<br />

dalla casa di produzione fondata da Chabrol, la<br />

A.J.Y.M. (dalle iniziali <strong>del</strong>la moglie e dei suoi<br />

primi due figli), il film di Rohmer si rivelò un<br />

fiasco al botteghino. L’entusiasmo per la<br />

Nouvelle vague si stava già affievolendo? Certo<br />

è che, dopo il successo iniziale, gli autori iniziarono<br />

ad avere problemi con la distribuzione,<br />

come afferma lo stesso Truffaut quando scrive:<br />

“Non sono certo un perseguitato e non voglio<br />

parlare di complotto, ma diventa evidente che i<br />

film dei giovani, di coloro che prendono un po’


le distanze dalla norma, in questo momento si<br />

scontrano con uno sbarramento opposto dagli<br />

esercenti” (<strong>François</strong> Truffaut, Autoritratto,<br />

Einaudi, 1989).<br />

Gli anni immediatamente successivi al 1960<br />

vedranno l’insuccesso di pubblico di molti dei<br />

film dei giovani registi. Tirate sul pianista (Tirez<br />

sur le pianiste,1961) di Truffaut, interpretato<br />

dallo chansonnier-attore di origine armena<br />

Charles Aznavour; La donna è donna (Une<br />

femme est une femme, 1962) di Godard; Le go<strong>del</strong>ureux<br />

(1960), L’oeil du matin (1961) e Ophelia<br />

(1962), tutti di Chabrol; il primo lungometraggio<br />

di Jacques Rivette Paris nous appartient (1960);<br />

La morta stagione <strong>del</strong>l’amore (1960), di Pierre<br />

Kast si riveleranno tutti dei sonori fiaschi al botteghino.<br />

La crisi in cui, in così breve tempo, sprofonda la<br />

Nouvelle vague pare irreversibile; messa all’angolo<br />

dallo spirito di sopravvivenza <strong>del</strong> cinema<br />

tradizionale francese, pare, ormai, un fenomeno<br />

in via di estinzione. Alcuni film costano uno<br />

sproposito e rappresentano un discreto flop al<br />

botteghino; è il caso, ad esempio, di Desideri nel<br />

sole (Adieu Philippine, 1963) di Jacques Rozier.<br />

Realizzare film, per i giovani registi, tornò a<br />

essere difficoltoso quasi come prima <strong>del</strong>l’avvento<br />

<strong>del</strong>la Nouvelle vague.<br />

- 8 -<br />

Tuttavia, anche se la spinta <strong>del</strong> movimento si<br />

stava affievolendo, non per questo i vari<br />

Truffaut, Godard, Chabrol e gli altri smetteranno<br />

di fare film. Ognuno continuerà nella sua attività,<br />

affinando, col tempo, la propria cifra stilistica<br />

e diventando, a sua volta, un classico.<br />

Truffaut nel 1962 realizza uno dei film più belli<br />

e appassionati <strong>del</strong> cinema francese di tutti i tempi<br />

Jules e Jim (1962), un’opera tratta dal romanzo<br />

di Henry Roché, uno scrittore esordiente di… 74<br />

anni! Godard col tempo diventerà sempre più<br />

sperimentatore avviandosi verso una carriera<br />

decisamente fuori dal coro e realizzando, fra gli<br />

altri, due ottimi lungometraggi, entrambi <strong>del</strong><br />

1965: Il bandito <strong>del</strong>le 11 (Pierrot le fou) e<br />

Agente Lemmy Caution: missione Alphaville<br />

(Alphaville, une étrange aventure de Lemmy<br />

Caution) per poi dedicarsi sempre più a un cinema<br />

politico e di rottura. Chabrol utilizzò il noir<br />

per descrivere, con la passione e la minuzia di<br />

un entomologo, la psicologia dei comportamenti<br />

umani che possono esplodere, improvvisamente,<br />

nella violenza e nella follia. Rohmer, dopo l’insuccesso<br />

<strong>del</strong>la sua opera prima, iniziò una serie<br />

di sei film compresi nel ciclo dei “Racconti<br />

morali”, dove uomini e donne vengono colti nell’atto<br />

di destreggiarsi fra la razionalità derivante<br />

dall’intelligenza e gli impulsi emotivi ed erotici.<br />

Un’intensa scena di<br />

Hiroshima mon amour,<br />

di Alain resnai, presentato<br />

a l Festival <strong>del</strong> cinema<br />

di Cannes 1959


I REGISTI DELLA RIVE GAUCHE<br />

La definizione venne coniata dal critico Richard<br />

Roud. Più anziani di qualche anno rispetto ai<br />

colleghi <strong>del</strong>la Nouvelle vague, meno cinefili di<br />

questi e, in generale, più politicizzati, i registi<br />

cosiddetti <strong>del</strong>la Rive gauche (<strong>del</strong>la Riva sinistra,<br />

in quanto, oltre a ritrovarsi normalmente in quella<br />

ben caratterizzata zona parigina, erano politicamente<br />

impegnati e avevano, come linea comune<br />

di pensiero, la lotta alla censura, il dissenso<br />

verso le guerre coloniali, un certo intellettualismo<br />

di sinistra vicino a filosofi quali Sartre,<br />

Alain Robbe-Grillet, ecc.) iniziano la loro attività<br />

verso la metà degli anni Cinquanta. Alain<br />

Resnais, Agnès Varda, Jacques Demy e altri,<br />

realizzano un cinema, comunque di impronta<br />

moderna, che tende ad affrancarsi dal vecchio<br />

modo di fare cinema, senza però raggiungere il<br />

furore intransigente dei critici dei Cahiers.<br />

È sicuramente Alain Resnais il principale esponente<br />

di questo gruppo di cineasti. Nel 1956 gira<br />

un breve documentario di grande impatto emotivo:<br />

Notte e nebbia (Nuit et brouillard).<br />

Commissionato dal Comité d’histoire <strong>del</strong>la seconda<br />

guerra mondiale, Resnais realizza un documento<br />

sui campi di sterminio unendo vari<br />

spezzoni di filmati tratti dagli archivi storici<br />

<strong>del</strong>le Forze alleate a sequenze a colori girate sui<br />

luoghi <strong>del</strong>le deportazioni. È un film che svela al<br />

mondo l’orrore <strong>del</strong>l’olocausto al quale il regista<br />

farà seguire, nel 1959, il già citato Hiroshima<br />

mon amour, con la sceneggiatura <strong>del</strong>la scrittrice<br />

Marguerite Duras. Un’attrice francese si trova a<br />

- 9 -<br />

Hiroshima per realizzare un film contro la guerra.<br />

Intrattiene una relazione con un uomo giapponese<br />

e a lui rammenta il proprio passato<br />

durante la guerra, quando venne accusata di collaborazionismo<br />

con i tedeschi. Il tutto intrecciato<br />

al doloroso presente di una città e di un popolo<br />

distrutto dalla bomba atomica. Il cinema di<br />

Resnais spesso gioca con salti temporali di questo<br />

genere, dove al presente, spesso doloroso, si<br />

intreccia un passato altrettanto doloroso.<br />

Spesso Alain Resnais si affida ai nuovi scrittori<br />

emergenti per la sceneggiatura dei propri film,<br />

stabilendo di fatto un rapporto fra nuovo cinema<br />

e nuova letteratura. Oltre alla Duras, che sceneggiò<br />

anche L’inverno ti farà tornare (1961), film<br />

d’esordio <strong>del</strong> montatore di Resnais Henri Colpi,<br />

ricordiamo <strong>Jean</strong> Cayrol per Notte e nebbia e per<br />

Muriel, il tempo di un ritorno (1963) (film<br />

messo al bando dalla censura francese, al pari di<br />

Le petit soldat (1960) di Godard per i suoi espliciti<br />

riferimenti alla guerra d’Algeria); Raymond<br />

Queneau per Le chant du Styrène (1958); Alain<br />

Robbe-Grillet per L’anno scorso a Marienbad<br />

(L’année dernière à Marienbad, 1961); lo scrittore<br />

di origine catalana Jorge Semprun per La<br />

guerra è finita (La guerre est finie, 1966) e per<br />

Stavisky (1974).<br />

Impegnato politicamente, come testimoniano le<br />

sue opere filmiche, Resnais nel 1961 aderisce,<br />

insieme a numerosi altri intellettuali francesi, al<br />

“Manifesto dei 121”, una dichiarazione sul diritto<br />

all’insubordinazione dei francesi nei confron-<br />

Agnès Varda e Alain Resnais


ti <strong>del</strong>la Guerra d’Algeria. Collabora inoltre, con<br />

l’amico regista Chris Marker, altro esponente di<br />

spicco <strong>del</strong> gruppo <strong>del</strong>la Rive gauche, alla realizzazione<br />

<strong>del</strong> cortometraggio Les statues meurent<br />

aussi (1950-1953) sulla distruzione sistematica<br />

<strong>del</strong>le statue e, in generale, <strong>del</strong>l’arte africana da<br />

parte <strong>del</strong> colonialismo.<br />

Chris Marker (uno dei tanti pseudonimi di<br />

Christian <strong>François</strong> Bouche-Villeneuve), regista,<br />

fotografo, scrittore, ha sempre rifuggito, al pari<br />

di Resnais, la ribalta. Questo suo essere schivo,<br />

poco incline all’apparire, lo ha un po’ emarginato<br />

nei confronti <strong>del</strong> pubblico e <strong>del</strong>la critica<br />

internazionale che non ha saputo cogliere appieno<br />

la potenza <strong>del</strong>le immagini, come appaiono<br />

ad esempio nel bellissimo La jetée (1963), sorta<br />

di “cineromanzo” fatto con immagini fisse che<br />

raccontano un mondo post-atomico.<br />

Anche Louis Malle è, oggi, un po’ dimenticato<br />

dal grande pubblico. Eppure ha firmato opere<br />

che hanno lasciato il segno. Come poter dimenticare,<br />

ad esempio, la camminata nella notte di<br />

una giovane <strong>Jean</strong>ne Moreau alla ricerca <strong>del</strong> suo<br />

amante rimasto intrappolato in un ascensore<br />

IL CINEMA E IL ‘68<br />

Il cinema in Francia fu profondamente coinvolto<br />

nella protesta che sfociò nella rivolta studentesca<br />

<strong>del</strong> maggio ’68. In qualche modo ne fu l’anticipatore.<br />

L’allora ministro per gli Affari culturali <strong>del</strong> governo<br />

De Gaulle André Malraux, letterato e<br />

intellettuale francese, chiede e ottiene la non<br />

riconferma alla direzione <strong>del</strong>la Cinémathèque<br />

française, storica istituzione nella quale generazioni<br />

di cinefili hanno potuto soddisfare la propria<br />

passione e conoscere le opere cinematografiche<br />

di ogni tempo, <strong>del</strong> suo direttore Henry<br />

Langlois, apprezzato e stimato da molti registi.<br />

Il 9 febbraio 1968 il consiglio di amministrazione<br />

liquida Langlois, da anni alla guida<br />

<strong>del</strong>la Cinémathèque, proponendo al suo posto<br />

Pierre Barbin, direttore dei Festival di Tours e<br />

Annecy. Otto consiglieri, fra i quali Truffaut, per<br />

- 10 -<br />

dopo aver ucciso il marito <strong>del</strong>la donna, in<br />

Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l’échafaud,<br />

1957), con la splendida colonna sonora<br />

realizzata dal trombettista jazz Miles Davis.<br />

Oppure la ragazzina scatenata di Zazie nel metro<br />

(Zazie dans le métro, 1960), film che racconta,<br />

con uno stile “alla Nouvelle vague”, le peripezie<br />

di una bambina a Parigi in una giornata di sciopero<br />

<strong>del</strong>la metropolitana. O ancora <strong>Jean</strong>ne<br />

Moreau in Les amants (1958), dove interpreta<br />

una sensuale e appassionata amante che decide<br />

di abbandonare il marito sfidando ogni convenzione<br />

sociale. Fra l’altro, il tema <strong>del</strong> film di<br />

Malle scatenò le ire <strong>del</strong>l’Osservatore romano.<br />

Questi e altri registi (Agnès Varda, Claude<br />

Sautet, Jacques Demy, Michel Deville, George<br />

Franju, Alain Cavalier), spesso accomunati alla<br />

Nouvelle vague, ma discostandosi da questa per<br />

ragioni anagrafiche e formali, hanno contribuito<br />

a “rinfrescare” il cinema francese senza per<br />

altro, al contrario dei giovani turchi, rifiutare<br />

completamente la generazione di cineasti che li<br />

aveva preceduti, bensì inserendovi contenuti<br />

innovatori in un percorso di classicità.<br />

questo motivo danno le dimissioni.<br />

Subito si scatena la rivolta. Vari registi, fra i<br />

quali lo stesso Truffaut, Rivette, Resnais,<br />

Godard, Bresson, Chabrol coordinano le contestazioni.<br />

Il 14 febbraio circa 3000 fra registi,<br />

intellettuali, semplici cittadini marciano in corteo<br />

attraverso il giardino <strong>del</strong> Trocadero verso il<br />

Palais de Chaillot, sede <strong>del</strong>la seconda sala <strong>del</strong>la<br />

Cinémathèque. Davanti allo sbarramento <strong>del</strong>la<br />

polizia il corteo cambia rotta, ma subisce<br />

comunque la carica <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine che<br />

iniziano a picchiare con i manganelli i dimostranti.<br />

Molti, fra cui anche personaggi celebri<br />

come il regista Bertrand Tavernier, restano feriti<br />

negli scontri.<br />

Le cariche <strong>del</strong>la polizia vengono filmate dalla<br />

televisione francese - che, per altro, non le manderà<br />

in onda - e dalle televisioni di altri paesi


europei. L’indignazione è massima. Alla fine,<br />

dopo due mesi di proteste e manifestazioni, il<br />

governo gaullista sarà costretto a fare marcia<br />

indietro e a reintegrare Langlois alla direzione<br />

<strong>del</strong>la Cinémathèque.<br />

Le manifestazioni a favore di Henry Langlois<br />

saranno l’anteprima <strong>del</strong>la protesta studentesca<br />

che si scatenerà nel mese di maggio di quell’anno,<br />

dando l’avvio a quello che rimarrà nella<br />

memoria collettiva come il “maggio ‘68”.<br />

Il 3 maggio, il giorno successivo al reinsediamento<br />

di Langlois alla direzione <strong>del</strong>la<br />

Cinémathèque, scoppia la rivolta, con la polizia<br />

che entra alla Sorbona e gli scontri nel Quartiere<br />

latino.<br />

Il mondo <strong>del</strong> cinema non può rimanere indifferente<br />

a quanto sta accadendo. La settimana successiva,<br />

il 10 maggio, si inaugura il Festival di<br />

Cannes. Godard e Truffaut si schierano a capo di<br />

un tentativo di boicottaggio <strong>del</strong> Festival. In una<br />

conferenza stampa Truffaut legge un comunicato<br />

con il quale chiede che, a fronte di quanto sta<br />

accadendo nel paese, dove “tutto ciò che è minimamente<br />

degno e importante si ferma in<br />

Francia” anche il Festival deve fermarsi.<br />

La Grande Salle viene occupata allo scopo di<br />

impedire la proiezione <strong>del</strong> film in programma,<br />

Peppermint Frappé di Carlos Saura con<br />

Geraldine Chaplin. Il direttore <strong>del</strong> Festival,<br />

Robert Fabre-Levret, non accetta e fa partire le<br />

immagini <strong>del</strong> film ma, a seguito <strong>del</strong> caos che si<br />

scatena in sala (gli stessi Saura e Geraldine<br />

Chaplin sono favorevoli alla sospensione <strong>del</strong><br />

Festival) è costretto a interrompere la proiezione.<br />

Il Festival a quel punto viene sospeso.<br />

L’azione dimostrativa compiuta a Cannes portò<br />

alla creazione degli Stati Generali <strong>del</strong> Cinema<br />

allo scopo di creare un sistema alternativo di<br />

produzione, distribuzione dei film e gestione<br />

<strong>del</strong>la sale cinematografiche. Si auspicava che<br />

l’industria cinematografica diventasse di<br />

proprietà pubblica e che fossero i lavoratori <strong>del</strong><br />

settore a controllare direttamente la produzione.<br />

Furono in molti ad aderire agli Stati Generali.<br />

Ovviamente registi come Truffaut, Godard,<br />

Malle, Resnais e altri importanti figure, ma<br />

anche semplici lavoratori <strong>del</strong>l’industria cinematografica.<br />

Venne creata una cooperativa che iniziò<br />

a realizzare opere alternative, secondo la<br />

linea politica decisa collettivamente. Almeno<br />

sino a quando De Gaulle ritornò al potere ristabilendo<br />

l’ordine precedente alla protesta.<br />

A sinistra: manifestazione durante il maggio ‘68; a destra: manifesti <strong>del</strong>la rivolta <strong>del</strong> maggio ‘68<br />

- 11 -


VEDERE OGGI LA NOUVELLE VAGUE<br />

Come detto la Nouvelle vague ebbe durata effimera,<br />

ma pochi anni furono sufficienti per gridare<br />

al miracolo. Tuttavia, col tempo, è andata<br />

affermandosi in molti la tendenza a ridimensionare<br />

il fenomeno. Molti registi, soprattutto francesi,<br />

nel corso degli anni hanno sottolineato<br />

come, tutto sommato, la Nouvelle vague non<br />

abbia introdotto nulla di innovativo, lasciando al<br />

Neorealismo italiano il merito di aver cambiato<br />

radicalmente il modo di fare cinema. Lo pensa,<br />

ad esempio, Georges Franju che, in un’intervista<br />

realizzata in occasione di una ampia retrospettiva<br />

sulla Nouvelle vague tenuta a Firenze nel 2004,<br />

dichiara, in maniera feroce, che: “Della Nouvelle<br />

vague si è fatto un mito, mentre era solo un buffo<br />

scherzo. Il cinema francese <strong>del</strong> 1930 e il<br />

Neorealismo italiano hanno realmente cambiato<br />

il cinema, la Nouvelle vague è stata il trionfo <strong>del</strong><br />

dilettantismo, un fenomeno di costume”. Anche<br />

Michel Deville, nella medesima occasione, sottolineò<br />

come “I neorealisti avevano fatto prima e<br />

meglio, quella era una vera rivoluzione, sono i<br />

precursori assoluti <strong>del</strong>la Nouvelle vague”. Sono<br />

parole pesanti, tendenti a demolire un fenomeno<br />

che avrà avuto certamente dei difetti, ma ha<br />

anche avuto molti meriti. Primo fra tutti quello di<br />

tentare di superare lo sbarramento imposto dal sistema<br />

ai giovani che volevano cimentarsi nell’arte<br />

<strong>del</strong> cinema. Che poi, dei “160 nuovi cineasti<br />

francesi” inclusi nel dizionario <strong>del</strong> numero 138<br />

dei Cahiers du cinéma <strong>del</strong> dicembre 1962, circa i<br />

due terzi non andarono oltre il loro primo film, e<br />

che dei rimanenti furono solo una ventina quelli<br />

definibili in senso stretto “nouvellevaghisti”, non<br />

deve sminuire il senso profondo <strong>del</strong>la “rivoluzione<br />

Nouvelle vague”.<br />

Certamente alcune prese di posizione dei giovani<br />

turchi sul cosiddetto cinéma de papà, lette oggi<br />

appaiono inutilmente feroci, come hanno stigmatizzato<br />

in molti. Ad esempio Louise Malle disse<br />

che “Contro Clouzot, Autant-Lara (…) i Cahiers<br />

du cinéma hanno scritto cose terribili, li hanno<br />

trascinati davvero nella polvere, è stata una cosa<br />

indegna”. Oppure Cluade Miller: “A me piacevano<br />

molto i film di Clouzot e Clément che la<br />

Nouvelle vague ha trattato da vecchi rimbecilliti.<br />

- 12 -<br />

Li hanno trattati come terrroristi”. O Costa-<br />

Gavras che ricorda come “Clair, Clément e soci<br />

erano sconvolti davanti agli insulti ricevuti”.<br />

Parole dure, solo mitigate da altri giudizi meno<br />

tranchant, come quello di Barbet Schroeder che<br />

evidenzia l’impegno morale dei registi <strong>del</strong> gruppo<br />

dei Cahiers, sottolineando il merito di aver<br />

introdotto la “dialettica morale” nel fare cinema.<br />

Aldo Tassone, nel suo saggio dal titolo:<br />

Un’autentica rivoluzione? Identificazione di un<br />

movimento (In La Nouvelle vague 45 anni dopo.<br />

France Cinema 2002. Incontri di Firenze. A cura<br />

di A. Tassone. Ed. Il Castoro), scrive che la<br />

Nouvelle vague è stata “una grande rivoluzione<br />

tecnica e produttiva. Le aspirazioni a diventare<br />

anche una grande rivoluzione “estetica” si sono<br />

avverate forse solo per il trio Godard-Resnais-<br />

Marker. La rivoluzione tecnica era però stata preparata<br />

da certi fermenti che non si riducono solo<br />

all’attività critico-teorica dei Cahiers: essenziale<br />

si è rivelato l’apporto <strong>del</strong> “gruppo dei trenta”<br />

documentaristi creato nel 1953 intorno a Resnais<br />

e Franju. La Nouvelle vague inoltre ha largamente<br />

approfittato <strong>del</strong>le conquiste dei neorealisti italiani<br />

(non solo di Rossellini). (…)<br />

In ogni caso “il cinema francese anni Sessanta<br />

non si riduce alla sola Nouvelle vague, che ne è<br />

una parte, sostanziale per alcuni, non così importante<br />

per altri (…). Quel cinema etichettato “tradizionale”<br />

(…) rappresenta una parte sostanziosa<br />

<strong>del</strong>la produzione francese anni Sessanta, più<br />

importante di quanto i Cahiers e alcuni storici<br />

<strong>del</strong>la Vague ci hanno lasciato intendere”.<br />

Resta, in ogni caso, l’idea di fondo di un gruppo<br />

di giovani che volevano fare un cinema “giusto”,<br />

libero e indipendente. Giovani che con il loro cinema,<br />

con le loro storie “vere”, volevano guardare<br />

negli occhi la società per smascherarla di<br />

ogni ambiguità e falsità, alla ricerca di una libertà<br />

forse inesistente. Un po’ come fa Antoine Doinel,<br />

il giovane protagonista <strong>del</strong> primo lungometraggio<br />

di Truffaut, quando, nel fermo immagine conclusivo<br />

<strong>del</strong> film, volge lo sguardo verso la macchina<br />

da presa e, di conseguenza, verso di noi, interrogandoci<br />

e facendo scattare in noi un profondo<br />

senso di colpa e di disagio.


I PROTAGONISTI<br />

FRANÇOIS TRUFFAUT<br />

Nasce a Parigi il 6 febbraio 1932. La madre<br />

Janine de Monferrand, di origini aristocratiche,<br />

rimane incinta di <strong>François</strong> a diciott’anni.<br />

Vorrebbe abortire, ma la famiglia si oppone.<br />

Dopo la nascita <strong>del</strong> figlio, Janine viene internata<br />

in un convitto per “traviate” e il piccolo <strong>François</strong><br />

mandato in campagna a vivere con la nonna.<br />

Non vedrà la madre per cinque anni.<br />

Del padre, <strong>François</strong> non ha notizie, sino al 1968<br />

quando, girando il suo film Baci rubati, decide<br />

di commissionare una indagine a un detective<br />

privato, il quale viene a scoprire che il padre è un<br />

dentista ebreo divorziato. La colpa <strong>del</strong>la mancata<br />

presenza <strong>del</strong> padre è da imputare alla famiglia<br />

materna, che non aveva voluto un ebreo in casa,<br />

causando, di conseguenza, danni irreparabili alla<br />

crescita <strong>del</strong> piccolo <strong>François</strong>.<br />

La madre, che nel frattempo si era legata a<br />

Roland Truffaut - che decide di adottare<br />

<strong>François</strong> - non sarà tenera con il figlio. <strong>François</strong><br />

la descrive come una donna acida, egoista, che<br />

avrebbe desiderato una vita più brillante. Il bambino<br />

cresce con la nonna materna sino alla<br />

morte di questa; sarà lei ad appassionarlo alla<br />

letteratura, passione che Truffaut coltiverà per<br />

tutta la vita.<br />

Il rapporto <strong>del</strong> ragazzo con la scuola è pessimo.<br />

Espulso da vari istituti per comportamento indisciplinato,<br />

avrà un rendimento estremamente<br />

scarso e tutto ciò contribuirà a peggiorare i rapporti<br />

familiari, già pessimi. Come racconta<br />

Robert Lachenay, suo miglior amico sin dai<br />

tempi <strong>del</strong>la scuola, a salvarlo da una vita balorda<br />

sarà l’amore per i libri e per il cinema.<br />

L’infanzia difficile caratterizzerà profondamente<br />

i suoi film, a partire dal primo lungometraggio I<br />

quattrocento colpi, profondamente autobiografico.<br />

L’incontro con il cinema avviene per Truffaut<br />

nella Parigi occupata dai tedeschi. Vede ogni<br />

sorta di film, limitatamente, considerato il periodo,<br />

alle pellicole francesi e tedesche. Il cinema<br />

- 13 -<br />

americano lo scoprirà a guerra finita e sarà un<br />

colpo di fulmine. Scopre i principali registi d’oltre<br />

oceano, da John Ford a Orson Welles, da<br />

Mankiewitz a Cukor. Conosce soprattutto<br />

Hitchcock, che diventerà un suo idolo per tutta la<br />

vita. Arriverà anche a intervistarlo nel corso<br />

<strong>del</strong>la sua carriera di critico cinematografico.<br />

Impara ad amare attori come Humphrey Bogart<br />

e Cary Grant, James Stewart e Spencer Tracy.<br />

Scopre anche i grandi francesi censurati durante<br />

il periodo <strong>del</strong>l’occupazione; si innamorerà di<br />

<strong>Jean</strong> Vigo e Renoir.<br />

La vita <strong>del</strong> giovane Truffaut trascorrre tra le<br />

fughe dalla scuola e i piccoli furti compiuti<br />

insieme all’amico Lachenay. Tutto ciò lo condurrà<br />

a trascorrere parte <strong>del</strong>la sua adolescenza<br />

rinchiuso in riformatorio. Da questo luogo di<br />

reclusione uscirà grazie all’interessamento di<br />

André Bazinche <strong>François</strong> aveva conosciuto tempo<br />

prima e con il quale aveva stretto amicizia.<br />

I rapporti fra Truffaut e Bazin diverranno sempre<br />

più stretti, tanto che Bazin considererà il futuro<br />

regista un po’ come il suo figlioccio. Finalmente<br />

<strong>François</strong> può colmare il vuoto derivante dalla<br />

mancanza <strong>del</strong>la figura paterna.<br />

Sarà Bazin a credere nelle potenzialità di quel<br />

giovane, dandogli credito come opinionista nei


Cahiers du Cinéma.<br />

Come critico cinematografico Truffaut sarà ferocissimo,<br />

prendendo di mira un certo cinema<br />

francese che lui considera vecchio e asservito al<br />

potere <strong>del</strong>le case di produzione, e intraprendendo<br />

una battaglia a favore di un nuovo cinema<br />

d’autore. Nei suoi scritti Truffaut sparerà a zero<br />

soprattutto su alcuni registi di fama quali<br />

Henry-Georges Clouzot, Yves Allegret, <strong>Jean</strong><br />

Delannoy, René Clément, Claude Autant-Lara;<br />

su alcuni sceneggiatori, in particolare l’accoppiata<br />

Aurenche e Bost, esaltando, per contro,<br />

altri personaggi che considererà come maestri:<br />

<strong>Jean</strong> Renoir, Robert Bresson, <strong>Jean</strong> Cocteau, Abel<br />

Gance, <strong>Jean</strong> Vigo, Max Ophüls, Jacques Becker<br />

per quanto riguarda i francesi; Rossellini (e in<br />

generale tutto il Neorealismo italiano); Orson<br />

Welles, William Wyler, Alfred Hitchcok per<br />

quanto riguarda i registi di altri paesi.<br />

In particolare Hitchock sarà oggetto di una vera<br />

e propria venerazione da parte di Truffaut e degli<br />

altri giovani critici dei Cahiers che, analogamente<br />

al giovane <strong>François</strong>, diventeranno a loro<br />

volta cineasti di fama: Claude Chabrol, <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong><br />

Godard, Jacques Rivette, Eric Rohmer (quest’ultimo<br />

di qualche anno più vecchio rispetto ai colleghi).<br />

Considerato sino ad allora un regista<br />

esclusivamente commerciale, Hitchock viene<br />

elevato ad autore a tutto tondo dai giovani dei<br />

Cahiers.<br />

Sarà in particolare l’articolo comparso nel primo<br />

numero dei Cahiers <strong>del</strong> 1954, dal titolo Une certain<br />

tendence du cinéma français a rivelare il talento<br />

e la ferocia critica di <strong>François</strong> Truffaut.<br />

L’articolo, <strong>del</strong> quale Bazin aveva ritardato in<br />

tutti i modi la pubblicazione rendendosi conto<br />

<strong>del</strong>lo scalpore che avrebbe suscitato nell’ambiente,<br />

fu un vero e proprio atto di accusa nei<br />

confronti di coloro che Truffaut considerava i<br />

“nemici” <strong>del</strong> cinema francese, che venivano<br />

accusati in maniera sistematica dei peggiori<br />

“misfatti”.<br />

Ovviamente chi venne così profondamente<br />

attaccato da Truffaut reagì. Autant-Lara accuserà<br />

Truffaut definendolo « giovane canaglia <strong>del</strong> cinema<br />

francese », trascinandolo in tribunale. Il<br />

risentimento <strong>del</strong> vecchio regista non si placherà<br />

neanche dopo la morte di Truffaut, avvenuta a<br />

soli 51 anni a causa di un tumore.<br />

Dopo tanto scrivere di cinema, l’esigenza di pas-<br />

- 14 -<br />

sare dietro la macchina da presa per il giovane<br />

Truffaut – così come per gli altri giovani critici -<br />

sarà una cosa naturale.<br />

Truffaut, dopo i primi cortometraggi (Une visite,<br />

1954; Historie d’eau, 1958; Les Mistons, 1958),<br />

realizzerà, insieme a <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard, il suo<br />

lungometraggio d’esordio, I quattrocento colpi<br />

(Les 400 coups) nel 1959. Considerato a tutti gli<br />

effetti il punto di partenza <strong>del</strong>la Nouvelle vague<br />

(anche se l’anno prima Chabrol aveva già realizzato<br />

il suo primo film), I quattrocento colpi è<br />

chiaramente un film autobiografico; sarà il<br />

primo di una serie di episodi con protagonista<br />

Antoine Doinel, alter ego <strong>del</strong> regista.<br />

Truffaut, nel corso <strong>del</strong>la sua carriera, ha realizzato<br />

in totale, 21 lungometraggi, 3 cortometraggi<br />

e un episodio di un film realizzato da più registi.<br />

Ha inoltre partecipato come attore a una<br />

decina di film e prodotto numerose opere con la<br />

casa di produzione da lui fondata e denominata<br />

Les films du Carrosse, in omaggio al film di <strong>Jean</strong><br />

Renoir La carrozza d’oro, interpretato da Anna<br />

Magnani.<br />

Molti dei film che Truffaut ha realizzato sono<br />

tratti da opere letterarie, a testimonianza <strong>del</strong> suo<br />

amore sconfinato per la letteratura, sin da Jules e<br />

Jim (Jules et Jim, 1962), film con il quale riesce<br />

a emergere dal clima di riflusso e di crisi in cui<br />

sembrava essere sprofondata la Nouvelle vague<br />

a pochi anni dalla nascita. Jules e Jim, che ebbe<br />

un buon successo di pubblico, è uno dei più bei<br />

film <strong>del</strong>la Nouvelle vague e, in generale, <strong>del</strong>la<br />

cinematografia francese di tutti i tempi, tratto<br />

dall’omonimo romanzo di Henri-Pierre Roché.<br />

Degna di nota è anche la serie con protagonista<br />

Antoine Doinel, ispirata alla vita <strong>del</strong> regista stesso.<br />

Sono quattro, più l’episodio <strong>del</strong> film collettivo<br />

cui si accennava prima, i film in cui compare<br />

la figura di Doinel, sempre interpretato da <strong>Jean</strong>-<br />

Pierre Léaud, che divenne l’attore feticcio <strong>del</strong><br />

regista.<br />

La carriera di Truffaut continuerà anche oltre la<br />

fine <strong>del</strong>la Nouvelle vague. Molti sono i film di<br />

successo realizzati con attori di fama: <strong>Jean</strong>ne<br />

Moreau (Jules e Jim; La sposa in nero, 1968),<br />

Catherine Deneuve (La mia droga si chiama<br />

Julie, 1969;), Gérard Depardieu, con il quale<br />

strinse una profonda amicizia che durò sino alla<br />

morte <strong>del</strong> regista (L’ultimo metro, 1980; La<br />

signora <strong>del</strong>la porta accanto, 1981); Fanny


Ardant, che divenne la sua compagna negli ultimi<br />

anni di vita (La signora <strong>del</strong>la porta accanto,<br />

1981; Finalmente domenica!, 1983).<br />

Il 15 agosto 1983, a pochi giorni dall’uscita nelle<br />

sale di Finalmente domenica!, con <strong>Jean</strong>-Luis<br />

Trintignant e la Ardant, Truffaut viene colpito da<br />

un’emorragia cerebrale mentre si trova nella sua<br />

Filmografia di F. Truffaut<br />

casa di Honfleur, in Normandia. Ben presto gli<br />

verrà diagnosticato un tumore che lo ucciderà<br />

l’anno successivo, il 21 ottobre 1984.<br />

Omaggiato da Wim Wenders ne Il cielo sopra<br />

Berlino, Truffaut sarà, insieme a Tarkovskij e<br />

Ozu, uno dei tre “angeli” a cui il regista tedesco<br />

dedicherà il suo film.<br />

Une visite (1954) (cortometraggio)<br />

Historie d’eau (1958) (cortometraggio)<br />

Les Mistons (1958) (cortometraggio)<br />

I quattrocento colpi (Les 400 coups, 1959)<br />

Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, 1960)<br />

Jules e Jim (Jules et Jim, 1962)<br />

Antoine e Colette (Antoine et Colette, 1962) (Episodio di L’amour à vingt ans, film collettivo realizzato da Truffaut,<br />

Renzo Rossellini, Marcel Ophuls, Andrzej Wajda, Shintaro Ishishara)<br />

La calda amante (La peau douce, 1964)<br />

Fahrenheit 451 (id., 1966)<br />

La sposa in nero (La mariée était en noir, 1967)<br />

Baci rubati (Baisers volés, 1968)<br />

La mia droga si chiama Julie (La Syrène du Mississippi, 1969)<br />

Il ragazzo selvaggio (L’Enfant sauvage, 1970)<br />

Non drammatizziamo… è solo questione di corna (Domicile conjugal, 1970)<br />

Le due inglesi (Les deux Anglaises et le Continent, 1971)<br />

Mica scema la ragazza! (Une belle fille comme moi, 1972)<br />

Effetto notte (La nuit américaine, 1973)<br />

A<strong>del</strong>e H. – Una storia d’amore (L’Historie d’Adèle H., 1975)<br />

Gli anni in tasca (L’argent de poche, 1976)<br />

L’uomo che amava le donne (L’homme qui amait les femmes, 1977)<br />

La camera verde (La chambre verte, 1978)<br />

L’amore fugge (L’amour en fuite, 1979)<br />

L’ultimo metrò (Le dernier métro, 1980)<br />

La signora <strong>del</strong>la porta accanto (La Femme d’à côté, 1981)<br />

Finalmente domenica (Vivement dimanche!, 1983)<br />

I FILM DELLA RASSEGNA:<br />

Les Mistons<br />

I quattrocento colpi<br />

Tirate sul pianista<br />

Antoine e Colette<br />

Da vedere, inoltre:<br />

Jules e Jim<br />

La sposa in nero<br />

Baci rubati<br />

Il ragazzo selvaggio<br />

Effetto notte<br />

L'uomo che amava le donne<br />

- 15 -


I QUATTROCENTO COLPI<br />

(Les 400 coups, 1959)<br />

Regia: <strong>François</strong> Truffaut<br />

Sceneggiatura: <strong>François</strong> Truffaut<br />

Musica : <strong>Jean</strong> Constantin<br />

Direttore fotografia : Henry Decaë<br />

Durata: 93'<br />

Interpreti: <strong>Jean</strong>-Pierre Léaud, Albert Rémy, Claire Maurier,<br />

Patrick Auffay, Georges Flamant<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Parigi. In una scuola di Pigalle, durante una lezione di francese, gli scolari tra i dodici e i tredici anni si passano la<br />

fotografia di una pin-up in costune da bagno: il professore pizzica Antoine Doinel e lo mette in castigo dietro la lavagna.<br />

Antoine scrive sul muro qualche frase di protesta e viene nuovamente punito. Tornato a casa, in un appartamento piccolo<br />

e modesto, accende la stufa, ruba dei soldi e comincia a fare i compiti. Torna la madre, stanca e nervosa, e lo aggredisce<br />

perché si è dimenticato di acquistare la farina. Antoine esce a comprarla e, al rientro, incontra il padre sulle scale.<br />

Tra marito e moglie c’è tensione. Dopo una cena frugale Antoine va a letto su una branda con un sacco a pelo sistemato<br />

nell’ingresso.<br />

Il mattino seguente Antoine decide di marinare la scuola insieme a René, compagno di classe e suo unico amico.<br />

Nascoste le cartelle in un portone, i due van no al cinema, giocano a flipper in un bistrò, entrano nel baraccone di un<br />

luna park: Antoine prova l’ebbrezza <strong>del</strong> rotore, ma all’uscita vede – visto a sua volta – la madre abbracciata a uno<br />

sconosciuto. Il mattino successivo, appena Antoine è uscito di casa, Mauricet, un compagno di classe, fa la spia ai genitori<br />

circa le assenze <strong>del</strong> figlio. Scoperto l’inganno, il signor Doinel trascina la moglie a scuola, dove Antoine – per giustificarsi<br />

<strong>del</strong> giorno precedente – ha appena raccontato al professore che sua madre è morta. Finite le lezioni, Antoine<br />

decide di fuggire di casa e con l’aiuto di René si sistema in una tipografia. Svegliato all’alba dall’arrivo degli operai,<br />

vaga da solo per Parigi e per sfamarsi ruba una bottiglia di latte. Il giorno dopo, la madre lo raggiunge di nuovo a scuola,<br />

questa volta spaventata e premurosa. A casa promette al figlio mille franchi se otterrà un buon voto nel tema di<br />

francese, poi convince il marito a portarli al cinema Gaumont Palace a vedere Paris nous appartient. L’indomani,<br />

Antoine scrive un componimento sulla morte <strong>del</strong> nonno ispirandosi al finale <strong>del</strong>la Ricerca <strong>del</strong>l’assoluto di Balzac. A casa<br />

allestisce allo scrittore una specie di altarino, con tanto di ritratto e can<strong>del</strong>a accesa, ma la tenda dietro cui l’ha nascosto<br />

prende fuoco. Il tema va male: il professore accusa Antoine di plagio e gli assegna zero. Fuggito dalla scuola, Antoine<br />

viene raggiunto da René, che lo ospita clandestinamente a casa sua. A corto di denaro, i due decidono di rubare una<br />

macchina da scrivere nell’ufficio <strong>del</strong> padre di Antoine. Non riuscendo a venderla, Antoine la riporta indietro ma viene<br />

scoperto dal custode. Il signor Doinel denuncia il figlio e lo fa rinchiudere in riformatorio. Dopo una notte passata in<br />

cella insieme a <strong>del</strong>inquenti comuni e prostitute, Antoine viene trasferito in un centro d’osservazione, dove racconta alla<br />

psicologa la sua infanzia in solitudine. L’amico René va a trovarlo ma non gli viene concesso l’ingresso. Entra invece la<br />

madre: furiosa per la lettera che Antoine ha scritto al padre, informandolo <strong>del</strong>la sua infe<strong>del</strong>tà, avverte il figlio che nessuno<br />

si interesserà più alla sua sorte. Un giorno, durante una partita di calcio, Antoine riesce a scappare dal riformatorio.<br />

Dopo una lunga corsa arriva al mare. Fatto qualche passo nell’acqua, si volta indietro, verso la macchina da presa.<br />

(Da: Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)<br />

Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

“Follemente ambizioso e follemente sincero” come il giovane turco si augurava “fosse<br />

il film di domani”, I quattrocento colpi è uno degli esordi più folgoranti e originali<br />

<strong>del</strong>l’intera storia <strong>del</strong> cinema: per l’immediato riconoscimento ottenuto in diversi ambiti<br />

(vincitore <strong>del</strong> premio per la miglior regia al festival di Cannes1959, è uno dei film<br />

che hanno dato ufficialmente il via alla Nouvelle Vague), per la sua peculiarità produttiva<br />

(è un film indipendente, coprodotto da Les Films du Carrosse e da Ignace<br />

- 16 -


Morgenstern, suocero di Truffaut) e soprattutto per la sua importanza basilare nella filmografia <strong>del</strong>l’autore,<br />

di cui costituisce le fondamenta imprescindibili. (…).<br />

Truffaut, che nei Mistons aveva cercato di portare sullo schermo una verità infantile quasi sempre<br />

negata, adesso prosegue in un’altra direzione: non più il gruppetto di guastafeste curiosi e impertinenti,<br />

ma un solo ragazzino, introverso e sottomesso; non più il confronto alla pari, in tempo di spazio<br />

e tempi cinematografici, tra i bambini e la coppia di adulti, ma una distribuzione <strong>del</strong>le inquadrature<br />

totalmente a favore <strong>del</strong> giovanissimo protagonista, unico personaggio a tutto tondo in un mondo<br />

di adulti ostili, a cui il regista dedica pochi e significativi tratti. Ma la vera novità dei Quattrocento<br />

colpi è la sua genesi autobiografica: mentre nei Mistons l’interessa per il “mondo dei ragazzini” era<br />

stato mediato da un racconto di Maurice Pons, adesso Truffaut preferisce ispirarsi direttamente alla<br />

propria esperienza esistenziale, consapevole, però, che la tentazione <strong>del</strong>l’autobiografia può essere<br />

fatale per un regista alle prime armi. (…)<br />

Sul grande schermo, per <strong>François</strong> Truffaut, solo <strong>Jean</strong> Vigo e Roberto Rossellini avevano raapresentato<br />

i bambini come personaggi specifici, dotati di dignità e compiutezza, mentre sul versante letterario,<br />

<strong>Jean</strong> Cocteau aveva individuato un universo infantile autonomo, disperato e inventivo in Les<br />

enfants terribles (…). Truffaut nei Quattrocento colpi segue le loro tracce: i momenti più vivaci in<br />

classe e le baruffe nel cortile <strong>del</strong>la scuola ricordano Zero in condotta, la cru<strong>del</strong>tà degli adulti, soprattutto<br />

quella <strong>del</strong> maestro, e le scene a casa di René sono “alla Cocteau” (il tema <strong>del</strong> furto invece è più<br />

autobiografico), mentre nei confronti di Rossellini il debito cinematografico è maggiore: il bambino<br />

solo , al centro <strong>del</strong> film, che vagabonda dolorosamente per la città, rimanda a Germania anno zero,<br />

Doinel dietro le sbarre e le figlie <strong>del</strong> guardiano <strong>del</strong> riformatorio, chiuse in gabbia, rievocano i bambini<br />

che dietro al filo spinato assistono alla fucilazione <strong>del</strong> prete in Roma città aperta, ma soprattutto<br />

il taglio cronachistico, le carrellate, le panoramiche, lo sguardo “obiettivo” che fissa dritto in faccia<br />

la realtà e quello intriso di tenerezza con cui Truffaut riprende Antoine sono il cinema rosselliniano<br />

assimilato nel profondo, anche se quattro anni dopo il regista cinefilo rivendicherà un’altra<br />

influenza fondamentale: “Mi rendo conto che I quattrocento colpi è hitchcockiano. Perché? Perché<br />

dalla prima immagine all’ultima ci si identifica con il ragazzino”, che poi nel cinema di Hitchcock<br />

avrebbe l’equivalente nell’innocente braccato. (…)<br />

Truffaut (…) sia nel ciclo di Antoine Doinel, sia negli altri film dedicati all’infanzia, non raggiungerà<br />

più l’intensità, la nuda verità, il “lirismo da scorticato vivo” dei Quattrocento colpi, lucida opera<br />

prima allo sbaraglio emotivo, incontro unico e irripetibile di un regista e di un attore simili, che nel<br />

raccontare una storia per immagini registrano inconsapevolmente e inevitabilmente anche l’emozione<br />

<strong>del</strong> loro incontro, il disorientamento e la felicità <strong>del</strong>la condivisione di sentimenti comuni. Certo,<br />

anche in Baci rubati ci saranno gli elementi autobiografici, la gioia <strong>del</strong>la fiction, lo stesso interprete<br />

diventato adulto, ma non più la misteriosa indefinibile magia di due sguardi, dolorosamente maturi<br />

e tuttavia staordinariamente puri, che per la prima volta si cercano, si trovano e si parlano sulla pellicola<br />

impressionata.<br />

I quattrocento colpi è davvero il film come “atto d’amore” auspicato dai critici dei Cahiers, e celebra<br />

contemporaneamente più nascite: di Truffaut come autore, di Léaud come interprete, di Doinel<br />

come personaggio, <strong>del</strong>la Nouvelle vague come nuova visione <strong>del</strong> mondo e <strong>del</strong> cinema. Ma è anche<br />

un film fondamentale <strong>del</strong>l’opera truffautiana (coerente come pochissime sul piano tematico), il luogo<br />

di eterno ritorno per tutti i personaggi e le storie a venire. Antoine Doinel, così realistico e calato nel<br />

quotidiano, diventerà nella filmografia <strong>del</strong> regista anche una figura archetipica, capace di ricomparire<br />

quando meno ce la si aspetta, di reincarnarsi sotto spoglie impensate, di manifestarsi con una<br />

complessità insospettabile nella sua prima apparizione sul grande schermo: non c’è film di Truffaut<br />

che in qualche modo non rimandi ai Quattrocento colpi, e non c’è protagonista – bambino o adulto,<br />

maschile o femminile – che non abbia legami con Antoine Doinel, che non sviluppi un tratto <strong>del</strong> suo<br />

carattere o <strong>del</strong>la sua storia, che non dia voce e volto a una sua angoscia o non proietti, con rivendicativa<br />

onnipotenza, un suo sogno irrealizzabile.<br />

(Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)<br />

- 17 -


Straordinario primo lungometraggio di F. Truffaut che, premiato per la regia a Cannes,<br />

contribuì al lancio <strong>del</strong>la Nouvelle Vague francese. Primo film <strong>del</strong>la serie Antoine<br />

Doinel che – caso unico nella storia <strong>del</strong> cinema – segue un personaggio dall’adolescenza<br />

alla maturità. Uno dei film più teneri e lucidi sull’infanzia incompresa, tema<br />

che attraversa tutta l’opera <strong>del</strong> regista. Cinepresa mobilissima, fotografia in Dyalscope<br />

e bianconero di Henri Decaë. Faire les 400 coups = fare una vita agitata, dissipata.<br />

(Laura, Luisa, Morando Morandini. Il Morandini - Dizionario dei film)<br />

L’eretico è entrato nel tempio. Il giornalista <strong>François</strong> Truffaut, nemico irriducibile <strong>del</strong><br />

Festival di Cannes, che un anno fa sembrava disposto a incendiare il Palazzo <strong>del</strong><br />

Cinema, non solo metaforicamente, è divenuto regista e col suo primo film di lungometraggio<br />

Les quatre cents coups, presentato stasera, ha affermato il suo diritto a essere<br />

ascoltato. Probabilmente, aveva torto quando blaterava ingenerosamente contro<br />

tutti, non è vero che gli altri siano, in blocco, idioti e che egli solo abbia ingegno. Ma<br />

ingegno ne ha, e anche ha qualcosa da dire.<br />

Il cinema francese, lo si è già detto, è rappresentato stavolta a Cannes da questo suo spietato avversario.<br />

Egli non riconosce meriti che al regista Renoir, forse perché Renoir tace da un pezzo e vive<br />

<strong>del</strong>la reputazione acquisita. Ha un carattere pessimo, permaloso e rissoso. All’origine <strong>del</strong>la sua controversia<br />

con il Festival era, l’anno scorso, la circostanza che era stato rifiutato un suo documentario,<br />

Les mistons. Si trattava di una rappresaglia ingiusta. Ma un’opera non va giudicata sull’indole<br />

<strong>del</strong> suo autore; chiunque lo abbia diretto, Les quatre cents coups è un film di rilievo, alimentato di<br />

verità, al quale non poteva essere negato un esame serio. Dal principio alla fine, si avvertono i pregi<br />

e i difetti di un lavoro giovanile, e cioè si apprezzano le esuberanze e spiacciono gli eccessi: ma se<br />

lafunzione <strong>del</strong> Festival è anche quella di rivelare il nuovo, Truffaut non ha scroccato il suo ingresso.<br />

Bisogna ricondursi, per trovare un’analogia di ispirazione e di trattazione, a <strong>Jean</strong> Vigo, il regista<br />

morto a ventinove anni. Figlio <strong>del</strong>l’anarchico Almereyda, giustiziato nella prima guerra mondiale<br />

per tradimento, Vigo ebbe un’infanzia infelice, trascorsa in un tetro collegio. Di questa infanzia fu<br />

un riflesso il film Zero in condotta, venerato dai frequentatori dei cine-clubs. Lo stesso accade ora a<br />

Truffaut: ebbe anch’egli anni difficili, da ragazzo, e fu ospite di un riformatorio. Les quatre cents<br />

coups, narrando la storia di un tredicenne Antoine, che è poi il regista stesso, costituisce un documento<br />

autobiografico. Antoine è un discolo: marina la scuola, si ribella agli insegnanti, rubacchia in<br />

casa e fuori. Il contegno dei suoi genitori non lo incoraggia al bene: che faceva, sua madre, quel giorno<br />

in cui egli la sorprese per strada, fra le braccia di uno sconosciuto? Se egli è in colpa, anche la<br />

mamma è in colpa. E qui si pone la responsabilità dei genitori: ma non come atto d’accusa, al modo<br />

dei film di Cayatte, bensì come fredda constatazione.<br />

Il film è tutto di constatazione. Carenza d’affetto, intolleranza di controllo, ansietà di indipendenza.<br />

Ecco Antoine che ruba una macchina per scrivere, con un compagno, eccolo trascinato davanti al<br />

giudice dei minorenni, e poi nelle guardine <strong>del</strong>la polizia, accanto a donne di malaffare, e poi nell’istituto<br />

dei corrigendi e quindi in fuga alla scoperta <strong>del</strong> mare. La vicenda è fragile, praticamente inesistente:<br />

fra l’altro questa evasione verso il mare si rintraccia, come motivo retorico, in tutti i racconti<br />

sull’adolescenza. Ma non c’è notazione che non sia suggerita dall’amore <strong>del</strong> vero: lo squallore<br />

<strong>del</strong>la casa di Antoine, ad esempio, la inimicizia <strong>del</strong>le strade e <strong>del</strong>la folla di Parigi, una Parigi prodigiosamente<br />

esatta, con la lusinga dei richiami e l’impenetrabilità <strong>del</strong>l’indifferenza. Il piccolo<br />

malandrino è troppo solo nella grande città troppo gremita: solo fra le mura screpolate <strong>del</strong>la sua casa,<br />

solo nell’aula ammuffita <strong>del</strong>la scuola.<br />

Questa materia, lo si indovina, Truffaut l’ha macerata per molti anni dentro di sé. Saprà dire altre<br />

parole importanti, dopo aver raccontato se stesso? Tutti sanno scrivere il primo atto di una commedia:<br />

e gli atti successivi? A Les quatre cents coups va rimproverato il troppo sangue : è una felice<br />

colpa dei giovani, non saper rinunciare a qualcosa. A molte sequenze avrebbero giovato i tagli: anche<br />

- 18 -


a quella, mirabile, <strong>del</strong>l’interrogatorio nella casa di pena, anche a quella <strong>del</strong>la fuga. Il piccolo <strong>Jean</strong>-<br />

Pierre Léaud, il tredicenne figlio <strong>del</strong>l’attrice Jacqueline Pierreux, è un protagonista sensibile, spontaneo,<br />

attendibile in ogni atteggiamento.<br />

Arturo Lanocita, 5 maggio 1959 (da Cannes)<br />

I quattrocento colpi sarà il film più orgoglioso, più testardo, più ostinato, in due parole,<br />

per finire, il film più libero <strong>del</strong> mondo. Moralmente parlando. E anche esteticamente.<br />

Gli obiettivi dialiscopici regolati da Henry Decaë ce ne riempiranno gli occhi<br />

come quelli <strong>del</strong> Trapezio <strong>del</strong>la vita (…). Per riassumerci, che dire? Questo: I quattrocento<br />

colpi sarà un film firmato Franchezza, Rapidità, Arte, Novità, Cinematografo,<br />

Originalità, Impertinenza, Serietà, Tragicità, Refrigerio, Ubu-Roi, Fantastique,<br />

Ferocia, Amicizia, Universalità, Tenerezza.<br />

(<strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard , Cahiers du Cinéma, n. 92, 1959)<br />

Che sia chiaro : questo film è personale, autobiografico, ma mai impudico (…)<br />

Dialoghi e messa in scena, al termine di un’ascesa discreta, sfociano infine nel vero<br />

<strong>del</strong>la diretta: il cinema qui reinveste la televisione e questa, a sua volta, lo consacra<br />

cinema; c’è posto ormai solo per le tre stupende inquadrature finali, inquadrature <strong>del</strong>la<br />

durata pura, <strong>del</strong>la perfetta liberazione. Tutto il film cresce verso questo istante e si<br />

priva a poco a poco <strong>del</strong> tempo per raggiungere la durata (…). C’è adesso fra noi non<br />

più un debuttante dotato e promettente, ma un vero cineasta francese, che è all’altezza dei più grandi,<br />

e che si chiama <strong>François</strong> Truffaut.<br />

(Jacques Rivette, Cahiers du Cinéma, n. 95, maggio 1959)<br />

Due parole su I quattrocento colpi. Forse vi ho già confidato,una volta, che l’autore di<br />

questo film <strong>del</strong>la “Nouvelle vague”, essendo critico cinematografico di Arts quando a<br />

Parigi venne presentato L’oro di Napoli, mi squartò con le unghie e con i denti. Vergine<br />

<strong>del</strong>l’Aiuto! Disse che il mio libro era folcloristico e scemo, piagnucoloso e mammista,<br />

una vergogna e che, insomma, avevo rovinato De Sica. Ammetto di averne un po’ sofferto,<br />

non tanto per la opinabilissima arte mia, quanto perché il Truffaut ironizzava<br />

con gallica impertinenza su mia madre, la quale era ed è polvere. A me, per molto meno, il regista<br />

dei film I tartassati, cioè Steno, mi ha dato querela. Io non fiatai. Potrebbe essere questa, ecco l’ora<br />

<strong>del</strong>la mia vendetta. Il contenuto <strong>del</strong>l’opera di Truffaut lo conoscete, non c’è giornale che non lo abbia<br />

riferito. (…) Beh, pensate quanto mi sarebbe agevole beffare una materia simile, ricordando al<br />

Truffaut che il suo Antoine, dove non è un aggiornato e inurbato Pel di Carota, è un aggiornato<br />

Gavroche… e che tutto nel film trasuda malizia, parzialità (odiosa la famiglia, odiosa la scuola, odioso<br />

il Riformatorio, odiosi cielo e terra, affinché il ragazzo ci espugni), nonché quintali e quintali di<br />

elementi soavi, patetici. Ah quanto mi sarebbe facile sibilare a monsieur Truffaut: “Ehi tu, che vedi<br />

L’oro di Napoli nell’occhio altrui e non vedi I quattrocento colpi nel tuo!” Ma non sibilo un accidente.<br />

Anzi, do volentieri il benvenuto in Italia a <strong>François</strong> Truffaut, con una piccola riserva per mia<br />

madre che non ebbe colpa se fu molto diversa dalla sua. Dico bravo a Truffaut perché nonostante<br />

egli abbia gettato in un solo piatto <strong>del</strong>la bilancia tutti i pesi che aveva, e nonostante i capitoli sottratti<br />

a Jules Rénard, il suo film ha i connotati <strong>del</strong> grande cinema. Vi splende una Parigi memorabile, davvero<br />

interpretata. E c’è un rigore, c’è un’essenzialità di racconto dinanzi alla quali Rosi dovrebbe<br />

fare gli esercizi spirituali per un decennio. L’interrogatorio di Antoine al Riformatorio, quelle sue<br />

risposte dolenti e semplici, tremende e puerili, non le dimenticherete, uscendo, alla prima voce di<br />

juke box. Il ragazzino è <strong>Jean</strong>-Pierre Leaud, i genitori sono Claire Maurier e Albert Rémy. A chi mi<br />

fece pensare la scena finale? Ah sì, a Fellini.<br />

(Da: Giuseppe Marotta, Visti e perduti, Bompiani, 1960)<br />

- 19 -


(…) I quattrocento colpi, come i film che seguiranno, è decisamente più rispettoso<br />

<strong>del</strong>le regole classiche <strong>del</strong>la narrazione cinematografica; racconta una storia semplice,<br />

quella di un ragazzo che sta a disagio nella sua pelle, come dovette certamente accadere<br />

anche a Truffaut, ma di cui si esorcizzano allo stesso tempo le aspirazioni e i blocchi<br />

affettivi; lo spirito di ribellione cede il passo al bisogno di tenerezza, e la volontà<br />

di costruire una vita – di riuscire ad avere una vita degna di essere vissuta – esclude<br />

ogni furia suicida. Le strade di Godard e di Truffaut divergeranno assai presto, e la carriera <strong>del</strong><br />

secondo sarà quella di un autore responsabile, che saprà integrarsi nel “sistema”) senza mai rinunciare<br />

alla sincerità. Truffaut si è mosso nella linea dei grandi registi dei sentimenti.<br />

(Da: Claude Beylie, I capolavori <strong>del</strong> cinema, Vallardi, 1990)<br />

TIRATE SUL PIANISTA<br />

(Tirez sur le pianiste, 1960)<br />

Regia: <strong>François</strong> Truffaut<br />

Sceneggiatura: <strong>François</strong> Truffaut e Marcel Moussy<br />

Musica : Georges Delerue<br />

Direttore fotografia : Raoul Coutard<br />

Durata: 85'<br />

Interpreti: Charles Aznavour, Marie Dubois, Nicole Berger,<br />

Michèle Mercier, Albert Rémy, Boby Lapointe<br />

Tratto dal romanzo Down There, di David Goodis<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Chico, reduce da una rapina e inseguito dai complici con i quali ha litigato, si rifugia nel locale dove il fratello Charlie<br />

lavora come pianista, e scappa dal retro. Alla chiusura <strong>del</strong> bistrot, Léna, la cameriera, chiede a Charlie di riaccompagnarla<br />

a casa: è innamorata di lui, ma il pianista, che pure è interessato alla ragazza, non riesce a vincere la sua timidezza.<br />

Intanto Momo ed Ernest, i complici di Chico, pensano di rintracciarlo attraverso i suoi fratelli per recuperare il<br />

bottino. Il giorno dopo pedinano il minore, Fido, fino all’ingresso <strong>del</strong>la scuola, poi costringono Charlie a salire sulla loro<br />

macchina e, caricata anche Léna, cercano di farsi guidare da Chico: La ragazza, approfittando di un momento di distrazione<br />

di Ernest, preme il piede sull’acceleratore provocando l’intervento degli agenti. Léna e Charlie scappano. A casa<br />

Léna rivela a Charlie di conoscere la sua vera identità: un tempo si chiamava Edouard Saroyan ed era un promettente<br />

concertista classico. Charlie completa il racconto: sposato con Thérésa, una cameriera, un giorno viene convocato dall’impresario<br />

Lars Schmeel per un’audizione. Superata la prova, diventa un concertista famoso, ma il rapporto con la<br />

moglie peggiora sempre più, finché la donna, durante una tournée, gli rivela di essere andata a letto con Schmeel per<br />

favorirlo. Edouard lascia la stanza, Thérésa si suicida buttandosi dalla finestra: da quel giorno Edouard Saroyan è diventato<br />

Charlie Kohler. Léna, sinceramente innamorata, cerca di convincerlo a risalire la china. I due fanno l’amore e decidono<br />

di abbandonare il bistrot.<br />

Ma gli eventi precipitano: Momo ed Ernest rapiscono Fido e al bistrot, dove Charlie e Léna sono andati per licenziarsi,<br />

la ragazza insulta Plyne, il proprietario che ha un debole per lei, perché ha dato ai gangster i loro indirizzi. Plyne l’aggredisce,<br />

Charlie interviene: scoppia una lite violenta in cui Charlie uccide Plyne con una coltellata. Mentre Léna va a<br />

cercare Fido, Charlie rimane nascosto nella cantina <strong>del</strong> locale. All’arrivo <strong>del</strong>la polizia, Mammy, la donna di Plyne,<br />

dichiara che Charlie ha agito per legittima difesa. Léna si procura una macchina e accompagna Charlie in montagna,<br />

nella casa d’origine <strong>del</strong>la famiglia Saroyan. L’uomo, anche se lo vorrebbe, non ha il coraggio di trattenerla. Quando Léna<br />

torna per informarlo che è stato assolto, arrivano alla baita anche Momo ed Ernest, guidati da Fido. Nella sparatoria che<br />

segue, Léna è colpita a morte.<br />

Nel bistrot di Mammy, dove ha appena preso servizio la nuova cameriera, Charlie si siede al piano e comincia a suonare<br />

meccanicamente.<br />

(Da: Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)<br />

- 20 -


Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

I romanzi <strong>del</strong>la Série noir, inaugurata da Marcel Duhamel per le edizioni Gallimard<br />

nel 1945, hanno accompagnato l’adolescenza dei giovani turchi (Godard, in La donna<br />

è donna, 1962, non a caso fa dialogare Anna Karina e <strong>Jean</strong>-Claude Brialy a colpi di<br />

titoli <strong>del</strong>la collana) come pure i film americani tratti da essi o ispirati al loro universo<br />

disperato, considerati non tanto tributi al genere quanto autentiche prove d’autore,<br />

capaci di scatenare forti emozioni proprio laddove si confermano più obbedienti alle<br />

regole narrative.<br />

È dunque naturale, e solo apparentemente in contraddizione con la “rivoluzione <strong>del</strong>la sincerità” auspicata<br />

da Truffaut e compagni, che alcuni registi <strong>del</strong>la Nouvelle vague, dopo opere prime più o<br />

meno autobiografiche, attingano agli scrittori noir e pratichino un cinema che è insieme di generi e<br />

di autore. Claude Chabrol trae il suo terzo film, A doppia mandata, da un romanzo di Stanley Ellis.<br />

Truffaut, che già nei Quattrocento colpi aveva fatto vedere di sfuggita un volumetto <strong>del</strong>la serie tra<br />

le mani di Antoine Doimel, adesso porta sullo schermo un romanzo di David Goodis, Down There<br />

(Non sparate sul pianista). Il risultato è un film complesso e, per certi versi, sconcertante, il prezzo<br />

un pesante fallimento commerciale. Eppure Tirate sul pianista è il miglior noir di Truffaut fino a<br />

Finalmente domenica! E la sua sensibilità è così in sintonia con quella di Goodis da consentirgli di<br />

fare un film <strong>del</strong> tutto personale attenendosi fe<strong>del</strong>mente alla pagina scritta, a parte qualche sporadico<br />

intervento che tuttavia va nella medesima direzione <strong>del</strong>lo scrittore, appena qualche passo più in là.<br />

(…).<br />

È evidente che per Truffaut Tirate sul pianista è anche un’occasione per sperimentare le potenzialità<br />

<strong>del</strong>la finzione (ma si tratta sempre di una finzione che aspira a rivelare maggiormente la realtà, alla<br />

Bazin) e la sua confidenza con il mezzo cinematografico. La vitalità <strong>del</strong> film è infatti tutta nel caleidoscopio<br />

di invenzioni rese possibili dalla fiction “fiabesca”: Truffaut, al giuramento di circostanza<br />

di uno dei rapinatori (“possa morire mia madre, se non è vero”), fa seguire in una cornice ovale d’altri<br />

tempi la mamma stecchita sul pavimento, e dopo aver risolto un doppio sequestro con un malizioso<br />

piedino premuto sull’acceleratore, ne orchestra un altro, di un bambino (assente nel romanzo<br />

di Goodis e dunque tanto più significativo), che assomiglia a un’allegra scampagnata in compagnia<br />

di due zii un po’ tocchi. Ma quella stessa vitalità è esaltata anche dalla intrinseca forza <strong>del</strong>la messa<br />

in scena: le mani di Charlie che esitano a sfiorare Léna, le dissolvenze incrociate <strong>del</strong>la loro prima<br />

notte d’amore, il dito di Edouard che indugia sul campanello e si ritrae, la violinista sfiorata per un<br />

attimo nello spazio di un’inquadratura, di un incontro potenziale sfumato per sempre. Eppure, rielaborazione<br />

cinematografica a parte, Tirate sul pianista è di una malinconia luttuosa rara, comune sia<br />

al romanzo di Goodis che alla poetica <strong>del</strong> regista. (…).<br />

Tragedia di una caduta senza arresto, il Pianista è lontanissimo dai Quattrocento colpi per quanto<br />

riguarda la messa in scena, ma gli si riavvicina molto sul piano <strong>del</strong>l’immaginario tramite il protagonista<br />

e il suo mondo fatto di timidezza, solitudine, sconfitta affettiva, rifugio nell’arte come tentativo<br />

(vano) di allontanarsi dalla famiglia e di esorcizzare la sofferenza (il film è racchiuso fra due<br />

sequenze musicali: si apre su un pianoforte a tutto schermo i cui tasti, nell’eseguire il valzer di<br />

Delerue, sembrano toccati da mani fantasma, e si chiude con il musicista che suona meccanicamente<br />

nel solito bistrot, con lo sguardo perso nel vuoto). (…).<br />

A distanza di svariati decenni, Tirate sul pianista non appare come il capolavoro incompreso che non<br />

è mai stato, ma nemmeno come una semplice tappa evolutiva, necessaria per comprendere il percorso<br />

<strong>del</strong> regista: è in sé un film di grande e ambiguo fascino, ironicamente e disperatamente vitalistico,<br />

dove il gioco <strong>del</strong>la finzione, cioè le immagini e i suoni <strong>del</strong> cinema, cercano in ogni modo di<br />

contrastare – invano per i personaggi ma con notevole piacere per lo spettatore – la “condanna” <strong>del</strong>la<br />

vita alla sofferenza e alla morte.<br />

(Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)<br />

- 21 -


(…) Sconvolto dal successo internazionale di pubblico <strong>del</strong> suo esordio, Truffaut fa un<br />

secondo film <strong>del</strong>iberatamente molto diverso, ispirato all’eccentrico romanzo noir di<br />

David Goodis Down There (1956 – poi Shoot the Piano Player – in italiano Non sparate<br />

sul pianista e nel 1989 Profondo nero). Nel film, sostanzialmente fe<strong>del</strong>e al libro<br />

(con l’aggiunta di Fido, il fratellino di Charlie), Truffaut pratica – seguendo la lezione<br />

di <strong>Jean</strong> Renoir, e quando non era ancora di moda – la mescolanza dei generi e dei toni<br />

con digressioni, spostamenti a sorpresa, sfasamento tra banda visiva e banda sonora, ricorso alla<br />

voce over con i pensieri di Charlie, dissolvenze incrociate, espedienti <strong>del</strong> cinema muto. Ne consegue<br />

un intreccio troppo complicato che allontanò il pubblico e spiazzò il più dei critici. Già il romanzo<br />

di Goodis non rispettava le regole <strong>del</strong> genere criminale. Truffaut gli fa fare qualche passo avanti,<br />

ma non dimentica mai il suo vero nucleo: l’amore legato alla morte. (…)<br />

(Morando Morandini. Dizionario dei film)<br />

ANTOINE E COLETTE<br />

(Antoine et Colette, 1962)<br />

Prima parte <strong>del</strong> film a episodi L'amore a vent'anni)<br />

Regia: <strong>François</strong> Truffaut<br />

Sceneggiatura: <strong>François</strong> Truffaut<br />

Musica George Delerue<br />

Fotografia: Raoul Coutard<br />

Durata: 29'<br />

Interpreti: <strong>Jean</strong>-Pierre Léaud, Marie-France Pisier, Patrick<br />

Auffay, Rosy Varte, <strong>François</strong> Darbon, <strong>Jean</strong>-<strong>François</strong> Adam<br />

La trama<br />

(attenzione: viene svelato il finale <strong>del</strong> film)<br />

Antoine Doinel vive in un modesto albergo di Place Clichy e lavora come classificatore di dischi alla Philips. È ancora<br />

amico di René Bigey, che a sua volta ha trovato un impiego presso un agente di cambio ed è innamorato di sua cugina.<br />

Appassionato di musica classica, la sera Antoine va spesso a concerti organizzati dalla Jeunesse musicales de France. A<br />

uno di questi, nella Sala Pleyel, dove si esegue la Symphonie Fantastique di Berlioz, nota tra il pubblico una ragazza,<br />

Colette e se ne innamora immediatamente. Durante la settimana la tiene d'occhio ad altri concerti, senza osare avvicinarla,<br />

finché una sera si fa coraggio e si siede accanto a lei: è una studentessa che sta preparando la maturità, e fa volentieri<br />

amicizia con Antoine. I due cominciano a frequentarsi prestandosi libri e dischi. Colette lo considera un buon<br />

amico, ma niente di più. Doinel, innamorato timido e tenace, arriva a dichiararle il suo amore per lettera e a traslocare<br />

nell'hotel di fronte a casa sua. Conosce i genitori, che lo traovano simpatico e lo invitano spesso a cena.<br />

Trasferito dal magazzino al reparto fabbricazione, Antoine fabbrica il suo primo disco, che la sera, al cinema, regala a<br />

Colette. Durante il film, cerca di baciarla: respinto, abbandona la sala. René, nel frattempo, ha avuto successo con la cugina.<br />

Il giorno dopo Colette invita Antoine a cena dai suoi. Lui esita, ma poi si presenta con due biglietti per un concerto. Ma<br />

Colette non è libera dopo cena, ed esce con Albert Tazzi. Antoine rimane a casa con i genitori a seguire il concerto in<br />

diretta televisiva.<br />

(Da: Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)<br />

- 22 -


Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

(…) Rispetto ai Quattrocento colpi, Doinel trova una famiglia accogliente: è la prima<br />

nel cinema <strong>del</strong> regista, e una <strong>del</strong>le poche. (…) Antoine è contento di non essere più<br />

bambino, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedergli un parere, dimenticare<br />

o rifiutare con cru<strong>del</strong>tà, ma il suo bisogno d’affetto smisurato ha fatto di lui un adolescente<br />

in bilico fra timidezza e audacia, silenzio e impulsività, slancio e frustrazione.<br />

Nella tenacia ossessiva con cui Doinel cerca di ottenere l’amore di Colette si riscontra<br />

un tratto comune a molti caratteri truffautiani, sia maschili che femminili (e massimamente sviluppato<br />

in A<strong>del</strong>e H. e L’uomo che amava le donne). E nell’opposizione tra lui e Colette, sebbene<br />

Truffaut ammiri la fierezza, la sicurezza, l’indipendenza e la vitalità <strong>del</strong> personaggio femminile, si<br />

scorge la frattura originaria tra Doinel e la madre: non a caso la visione ha luogo nell’atmosfera piena<br />

di musica <strong>del</strong>la Sala Pleyel, dove l’attrazione per Doinel scatta alla vista di un corpo a frammenti:<br />

nuca, viso, mani, bocca, gambe accavallate – elementi che si ritrovano in quasi tutti i film di<br />

Truffaut.<br />

Ciò che invece in Antoine e Colette emerge con la massima evidenza, mentre in seguito diventerà<br />

più sfumato e rarefatto (senza mai venire meno, però), è la potenza <strong>del</strong>la musica, che assume un’importanza<br />

pari a quella dei libri in altri film. (…) Se prima e dopo Doinel ha soprattutto il culto <strong>del</strong>la<br />

parola scritta, qui ha la venerazione <strong>del</strong> suono armonico: nel Ragazzo selvaggio il dottor Itard, interpretato<br />

dallo stesso regista, dirà che “la parola è anche musica”, stabilendo un rapporto diretto tra<br />

l’infanzia, i suoni, il linguaggio. È il rapporto fondamentale, primario, costitutivo: non a caso nella<br />

scena già citata <strong>del</strong>l’innamoramento di Antoine il montaggio lega, in un’unità inscindibile, immagini,<br />

musica ed emozioni, e non a caso le donne importanti nella vita di Doinel avranno sempre a che<br />

vedere con la musica.<br />

(Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Edizioni Baldini Castoldi Dalai, 2008)<br />

- 23 -


JEAN-LUC GODARD<br />

Svizzero, nato nel 1930 da una famiglia di banchieri<br />

appassionati di libri, coltiva la passione di<br />

famiglia e il desiderio di pubblicare un libro.<br />

Forte di questa passione, attraverso Jacques<br />

Doniol-Valcroze, figlio di un’amica <strong>del</strong>la madre<br />

di Godard, il giovane <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> inizia a proporre<br />

articoli di cinema alla rivista che sta per essere<br />

editata presso i tipi <strong>del</strong>la Gallimard. I suoi articoli<br />

compaiono su La Gazette du Cinéma, poi su<br />

Arts e, infine, sui Cahiers du Cinéma, la rivista<br />

presso la quale incontra dapprima Bazin, fondatore<br />

insieme a Doniol-Valcroze, poi i vari<br />

Truffaut, Rivette, Chabrol e Rohmer.<br />

Così come è avvenuto o avverrà per i suoi amici,<br />

anche per Godard il trasferirsi dietro la macchina<br />

da presa sarà un passo necessario nonché<br />

naturale. Collabora con Truffaut alla stesura dei<br />

Quattrocento colpi e, l’anno successivo all’uscita<br />

<strong>del</strong> film realizzerà a sua volta il primo lungometraggio:<br />

Fino all’ultimo respiro (A bout de<br />

souffle, 1960), dopo aver precedentemente girato<br />

alcuni cortometraggi.<br />

La passione per la letteratura nei film di Godard,<br />

così come d’altra parte in quelli di molti autori<br />

<strong>del</strong>la Nouvelle vague, si avverte spesso. La letteratura<br />

americana, Faulkner ad esempio, in Fino<br />

all’ultimo respiro; gli adattamenti di alcuni film<br />

da romanzi più o meno famosi, come Il disprezzo<br />

(Le mépris, 1963) da Alberto Moravia; In<br />

effetti, resosi conto che quello <strong>del</strong>lo scrittore non<br />

sarebbe stato il suo futuro, Godard traspose questo<br />

suo amore nella redazione di articoli di critica<br />

cinematografica prima, e nella realizzazione<br />

di film poi. Fu lo stesso regista a dichiarare al<br />

documentarista <strong>François</strong> Reichenbach: “Mi<br />

servo di una cinepresa perché non sono un<br />

romanziere. Ma vorrei al tempo stesso servirmene<br />

come il pittore di un album di schizzi e come<br />

l’inviato di un grande giornale di reportage”. Ciò<br />

che ama Godard è spesso il “lato documentaristico”<br />

di molti registi di fama: Alfred Hitchcock,<br />

Anthony Mann, John Ford, nonché la capacità<br />

come vero realizzatore di documentari di un altro<br />

regista legato alla Nouvelle vague: <strong>Jean</strong> Rouch.<br />

Il grande interesse che Godard manifesta per lo<br />

stile <strong>del</strong> documentario gli farà utilizzare spesso<br />

questa forma per narrare <strong>del</strong>le storie. Accade, ad<br />

- 24 -<br />

esempio, in Questa è la mia vita, dove viene raccontata,<br />

attraverso 12 episodi-quadri che appaiono<br />

come altrettanti frammenti di un reportage, la<br />

vita di una prostituta. Per Godard la passione per<br />

il film-documentario deriva, d’altronde, direttamente<br />

dal suo amore verso il cinema <strong>del</strong>le origini,<br />

quello dei Lumiére, ad esempio. Cosa che lo<br />

indurrà ad utilizzare spesso nelle sue opere<br />

accorgimenti che riconducono direttamente a<br />

quell’epoca: usare l’immagine accelerata,<br />

costruire il film per quadri, far ricordare le comiche<br />

di Stan Laurel e Oliver Hardy.<br />

Più degli altri registi <strong>del</strong>la Nouvelle vague, <strong>Jean</strong>-<br />

<strong>Luc</strong> Godard è stato un innovatore. Ha sovvertito<br />

le normali regole <strong>del</strong> linguaggio cinematografico;<br />

ad esempio non dando peso ai normali “raccordi”<br />

fra le varie sequenze ma, anzi, utilizzando<br />

dei “falsi raccordi” che interrompono, volutamente,<br />

la fluidità narrativa, generando un senso<br />

di stupore e di incomprensione nello spettatore.<br />

Oppure utilizzando lo sguardo fisso in macchina<br />

dei personaggi o, ancora, gli stessi che interrompono<br />

la scena e, voltandosi verso la macchina da<br />

presa, si rivolgono direttamente al pubblico recitando<br />

alcune frasi. Tutto ciò è presente sin dal<br />

suo primo film, Fino all’ultimo respiro, unitamente<br />

ai lunghi piani sequenza che seguono il<br />

peregrinare <strong>del</strong> protagonista <strong>Jean</strong>-Paul<br />

Belmondo lungo i viali di Parigi.<br />

Questa capacità di sperimentare tecniche e linguaggi<br />

nuovi, ha accompagnato Godard per tutta<br />

la sua carriera, che dura ancora oggi nonostante


sia arrivato alla soglia degli ottant’anni. Forse è<br />

proprio questa la prova migliore che testimonia il<br />

Filmografia di J.-L. Godard<br />

profondo amore di questo artista nei confronti<br />

<strong>del</strong> cinema.<br />

Operation béton (1954) (cortometraggio)<br />

Charlotte et son Jules (1958) (cortometraggio)<br />

Tous les garçon s’appellent Patrick (1958) (cortometraggio)<br />

Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle, 1960)<br />

Le petit soldat (1960)<br />

La donna è donna (La femme est une femme, 1961)<br />

La paresse (1962) episodio <strong>del</strong> film collettivo I sette peccati capitali (Les septe pechés capitaux)<br />

Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962)<br />

Il disprezzo (Le mépris, 1963)<br />

I carabinieri (Les carabiniers, 1963)<br />

Le noveau monde (Il mondo nuovo, 1963) episodio <strong>del</strong> film collettivo Ro.Go.Pa.G.<br />

Le grand ecrot (1963) episodio di Les plus belle escroquieres du monde<br />

Una donna sposata (Une femme mariée, 1964)<br />

Montparnasse-Levallois (1964) episodio di Paris vu par<br />

Bande à part (1964)<br />

Il bandito <strong>del</strong>le 11 (Pierrot le fou, 1965)<br />

Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution,<br />

1965)<br />

Due o tre cose che so di lei (Deux ou trois choses que je sais d’elle, 1966)<br />

Il maschio e la femmina (Masculin féminin, 1966)<br />

Una storia americana (Made in Usa, 1966)<br />

La cinese (La chinoise, 1967)<br />

Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica (Week-End, 1967)<br />

Anticipation (1967) episodio <strong>del</strong> film collettivo L’amore attraverso i secoli (Le plus vieux métier du<br />

monde)<br />

Camera Eye (1967) episodio <strong>del</strong> film collettivo Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam)<br />

La gaia scienza (Le gai savoir, 1968)<br />

Vento <strong>del</strong>l’est (Vent de l’est, 1969) (con <strong>Jean</strong>-Pierre Gorin e Gérard Martin)<br />

L’amore (1969) episodio <strong>del</strong> film collettivo Amore e rabbia<br />

Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, 1972)<br />

Si salvi chi può (La vita) (Sauve qui peut (la vie), 1980)<br />

Passion (1982)<br />

Prénom Carmen (1983)<br />

Je vous salue, Marie (1984)<br />

Detective (Détetective, 1985)<br />

Cura la tua destra… (Soigne ta droite, 1987)<br />

Re Lear (King Lear, 1987)<br />

Histoire(s) du cinéma (1988-98)<br />

Armida (1988) episodio <strong>del</strong> film collettivo Aria<br />

Nouvelle Vague (1990)<br />

Germania anno 90 nove zero (Allemagne année 90 neuf zero, 1991)<br />

Les enfants jouent à la Russie (1993)<br />

Je vous salue, Sarajevo (1993)<br />

- 25 -


Peggio per me (Hélas pour moi, 1993)<br />

The Old Place (1998)<br />

Eloge de l’amour (2001)<br />

Liberté et patrie (2002)<br />

Ten Minutes Older: The Cello (2002)<br />

Notre musique (2004)<br />

Vrai faux passeprot (2006)<br />

Une catastrophe (2008)<br />

I FILM DELLA RASSEGNA:<br />

Charlotte et son Jules<br />

Questa è la mia vita<br />

Da vedere, inoltre:<br />

Fino all'ultimo respiro<br />

Le petit soldat<br />

La donna è donna<br />

Il disprezzo (in versione originale)<br />

Bande à part<br />

Agente Lemmy Caution: missione Alphaville<br />

La cinese<br />

Crepa padrone, tutto va bene<br />

QUESTA È LA MIA VITA<br />

(Vivre sa vie, 1962)<br />

Regia <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard<br />

Sceneggiatura: <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard<br />

Durata: 85'<br />

Interpreti: Anna Karina, Sady Rebbot, André S. Labarthe,<br />

Guylaine Schlumberger, Brice Parain<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Storia in 12 "quadri" di Nanà, giovane commessa in un negozio di dischi: sogna la vita<br />

nel cinema e diventa prostituta.<br />

I quadro: in un bistrot Nanà vuole abbandonare Paul. Giocano una partita a flipper.<br />

II quadro: nel negozio di dischi. Nanà chiede in prestito a una collega 2000 franchi: senza successo.<br />

III quadro: Nanà non ha i soldi per pagare l'affitto. Viene sfrattata. Nanà va al cinema e si commuove vedendo La passione<br />

di Giovanna d'Arco, di Dreyer. In un bar incontra un uomo che la illude di poter entrare nel mondo <strong>del</strong> cinema.<br />

IV quadro: Nanà viene interrogata dalla polizia per un tentativo di furto.<br />

V quadro. Nanà inizia a prostituirsi. Il primo incontro sul viale. Nella camera d'albergo Nanà rifiuta il rapporto.<br />

VI quadro. Incontro con Yvette che, in un bar, le presenta Raoul. Fuori dal bar c'è una sparatoria. Raoul fugge.<br />

VII quadro Nanà scrive una lettera alla tenutaria di un bor<strong>del</strong>lo. In realtà arriva Raoul che le offre di diventare il suo protettore.<br />

VIII quadro: Raoul illustra a Nanà diritti e doveri di una prostituta.<br />

IX quadro: giorno di riposo. Nanà va al cinema, poi balla in un bar al suono di un juke-box.<br />

- 26 -


X quadro: Nanà batte il marciapiede. Incontro con un uomo in una camera.<br />

XI quadro. Nanà cammina per Parigi. Si ferma in un bistrot dove conosce un filosofo. Nanà fa <strong>del</strong>la filosofia.<br />

XII quadro Raoul vuol vendere Nanà a una organizzazione concorrente. Disaccordo sul prezzo di vendita. Scontro a<br />

fuoco. Nanà muore e Raoul scappa.<br />

Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

Che ciascuno viva la sua vita purché gli vada sempre meglio. La Nouvelle vague?<br />

Pierre dice bene di Georges che <strong>del</strong>ira per Julien che fa il supervisore di Popaul che fa<br />

una coproduzione con Marcel di cui Claude ha fatto l’elogio.<br />

Ebbene, è di <strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> che oggi canto le lodi, Godard che gira pellicole, esattamente<br />

come me, ma con una frequenza doppia.<br />

Quando facevo il critico cinematografico, volevo a tutti i costi convincere, probabilmente<br />

perché ignoravoi veri problemi che si pongono al cineasta e cercavo istintivamente di convincere<br />

anzitutto me stesso che quel film era buono e quell’altro non lo era.<br />

La gioia fisica e il dolore fisico che procurano certi momenti di A bout de souffle e di Vivre sa vie,<br />

non mi proverò nemmeno a comunicarli con la scrittura a che non li prova.<br />

L’irrealtà totale, voluta o meno, di certi stili cinematografici è seducente, ma determina un certo<br />

malessere. La realtà più cruda ci seduce per un momento ma può alla fin fine lasciarci insoddisfatti.<br />

Un film come Vivre sa vie ci intrattiene costantemente ai limiti <strong>del</strong>l’astratto, poi al limite <strong>del</strong> concreto<br />

ed è senza dubbio questa oscillazione che crea l’emozione.<br />

Il cinema eccitante, ecco ciò che ci interessa, che appassiona, sia che questa emozione venga creata<br />

scientificamente, come in Hitchcock e Bresson, o che nasca semplicemente dalla capacità <strong>del</strong>l’artista<br />

di comunicare le sue emozioni come in Rossellini o in Godard.<br />

Ci sono dei film che ammiriamo e che ci scoraggiano: a che scopo continuare dopo di lui? Ecc. Non<br />

sono i migliori, perché i migliori danno l’impressione di aprire nuove strade e che il cinema cominci<br />

o ricominci con loro. Vivre sa vie è di questi. (1962)<br />

(<strong>François</strong> Truffaut. I film <strong>del</strong>la mia vita. Marsilio, 1978)<br />

Quarto lungometraggio di J.-L. Godard (e il terzo con la danese Karina, nome d’arte<br />

di Ann Karin Bayer), è considerato da alcuni l’opera meno invecchiata e più adulta <strong>del</strong><br />

suo primo periodo, quella in cui le invenzioni appaiono più congeniali e integrate a un<br />

progetto che non è soltanto cinematografico. I 12 quadri – nei quali Nanà vive la sua<br />

vita, rivelandone casuali frammenti – hanno registri diversi (sociologico, documentario,<br />

letterario, cinematografico: quello in cui al cinema Nanà piange vedendo la morte<br />

<strong>del</strong>la Giovanna d’Arco di Dreyer) con linguaggi diversi, non uniti da una logica narrativa, ma giustapposti,<br />

forse ricombinabili: “vivere la propria vita”, accettarla com’è, mostrarla nella sua mescolanza<br />

di realtà e di finzione (rappresentazione), ma anche aiutarne una comprensione, aprire a un<br />

possibile giudizio. Affrontato altrove in modi obliqui, allusivi, episodici, qui il tema <strong>del</strong>la prostituzione<br />

diventa centrale. Lo spunto è quello di un’inchiesta giornalistica (Où en est avec la prostitution?<br />

di Marcel Sacotte), ma “le domande e le risposte vere vengono da ben più lontano, come rivela<br />

la citazione da Montaigne che apre il film: ‘Bisogna prestarsi agli altri e donarsi a sé stessi’”<br />

(A. Farassino). Premio speciale <strong>del</strong>la giuria a Venezia.<br />

(Laura, Luisa, Morando Morandini. Il Morandini - Dizionario dei film)<br />

Questa è la mia vita è a tutt’oggi lo sforzo più consistente <strong>del</strong>l’autore di Fino all’ultimo<br />

respiro : lo dice egli stesso, <strong>del</strong> resto, ponendo il suo film fra i dieci migliori <strong>del</strong>l’anno<br />

secondo i “Cahiers du Cinéma”. Più significativa, anche se meno divertente,<br />

l’intervista concessa dal regista a “Sight and Sound”, dove in sostanza Godard affer-<br />

- 27 -


ma di aver lavorato, fino a Questa è la mia vita, sulle sue esperienze di patito <strong>del</strong> cinema, quasi senza<br />

conoscere la lealtà. In questo film, costruito in capitoli staccati con titoli alla Brecht, Godard fa invece<br />

uno sforzo per rompere il diaframma fra cinema e vita: non è più la storia di Belmondo, gangster<br />

alla Bogart in una Parigi da romanzo <strong>del</strong>la serie nera, ma l’esistenza autentica di una creatura sperduta<br />

nel grande frastuono di una moderna metropoli. Tant’è vero che l’invenzione narrativa<br />

approfondisce ben presto le sue indicazioni più originali in una specie di inchiesta sul motivo <strong>del</strong><br />

vizio, tentando la dimensione <strong>del</strong> saggio. I dodici momenti <strong>del</strong>la vita di Nanà sono fissati con la spregiudicatezza,<br />

a volte sorniona e a volte disarmata, tipica <strong>del</strong>l’atteggiamento di Godard. C’è anche<br />

una componente autobiografica, il rapporto con Anna Karina-Nanà, che il regista illustra facendo<br />

leggere a un personaggio (ma la voce nell’edizione francese è la sua) il brano di Poe in cui un marito<br />

pittore causa la morte <strong>del</strong>la moglie per trasferirne la vitalità a un ritratto che sta dipingendo. Con<br />

una parafrasi da Poe si potrebbe dunque spiegare l’episodio meno convincente <strong>del</strong> film, la morte<br />

finale di Nanà in una sparatoria fra protettori: ma <strong>del</strong>la conclusione tragica, che sconcerta il pubblico<br />

pur appartenendo alla cronaca insensata di tutti i giorni, si fa garante Brice Parain, il filosofo che<br />

dialoga con Nanà nel sottofinale. Come Porthos in Vent‘anni dopo, anche Nanà è perduta quando<br />

scopre il pensiero, cioè il dovere di considerare la sua vita e le sue azioni da un punto di vista razionale.<br />

Una creatura abbandonata a se stessa può sopravvivere solo affidandosi al ritmo oscuro <strong>del</strong>l’esistenza:<br />

perciò Questa è la mia vita, con la sua insistenza parascientifica sugli aspetti più turpi <strong>del</strong><br />

sottobosco amoroso di Parigi, si risolve in un appello a una visione più concreta e coerente <strong>del</strong><br />

mondo, insomma con un richiamo alla coscienza. Godard ci risparmia la lezioncina, perde tutte le<br />

occasioni di trasformarsi in un pedante: e offre ad Anna Karina la possibilità di mostrarsi vispa, simpatica,<br />

vitale. Ma non c’è vita né salvezza all’infuori <strong>del</strong>la ragione e accorgersene all’ultimo momento<br />

è peggio che mai.<br />

(Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962-1967, Edizioni Il Formichiere)<br />

- 28 -


CLAUDE CHABROL<br />

Nato a Parigi nel 1930 da una famiglia di farmacisti<br />

<strong>del</strong>la quale non ne ripercorrerà le orme,<br />

Claude Chabrol si appassiona al cinema sin da<br />

bambino quando, a Sardent, paesino <strong>del</strong>la<br />

Francia centrale dove era stato mandato dai genitori<br />

durante l'occupazione tedesca - e nel quale<br />

girerà il suo primo film, Le beau Serge (1958) -<br />

assiste alle proiezioni organizzate da un amico di<br />

qualche anno più grande.<br />

Tornato dopo la Liberazione a Parigi, inizia a frequentare<br />

vari cineclub, dove conoscerà prima<br />

Paul Gegauff, che sarà lo sceneggiatore dei suoi<br />

primi film, poi Maurice Schérer, un professore di<br />

lettere che, più tardi, diventerà famoso con lo<br />

pseudonimo di Eric Rohmer.<br />

Chabrol comincerà a scrivere le sue prime recensioni<br />

cinematografiche su la Revue du Cinéma,<br />

per poi entrare a far parte <strong>del</strong>la redazione dei<br />

Cahiers, ove si metterà in evidenza per alcune<br />

recensioni estremamente interessanti di alcuni<br />

film di Alfred Hitchcock: Rebecca la prima<br />

moglie, La finestra sul cortile e Caccia al ladro.<br />

Diventerà in poco tempo un profondo conoscitore<br />

<strong>del</strong> regista britannico tanto che, nel 1957, con<br />

l'amico Rohmer, pubblicherà una monografia sul<br />

maestro.<br />

Chabrol, insieme agli amici <strong>del</strong>la futura<br />

Nouvelle vague, conosce il regista italiano<br />

Roberto Rossellini apprendendo da questi l'arte<br />

di realizzare film con scarsi mezzi e budget<br />

ridotti al minimo. Fu anche grazie a questo che i<br />

giovani turchi iniziano a cimentarsi nella realizzazione<br />

dapprima di cortometraggi e poi dei<br />

primi lungometraggi.<br />

Chabrol, ad esempio, collabora con Truffaut alla<br />

realizzazione <strong>del</strong> film di Godard A bout de souffle,<br />

dopo aver realizzato, nel 1958, i suoi primi<br />

due film: Le beau Serge e I cugini (Les cousins),<br />

film che mostra numerose influenze hitchcockiane<br />

e che fu vincitore <strong>del</strong>l'Orso d'oro al Festival<br />

cinematografico di Berlino.<br />

Per realizzare i propri film Chabrol aveva fondato<br />

una propria casa di produzione chiamandola<br />

A.J.Y.M. dalle iniziali <strong>del</strong>la moglie e dei suoi<br />

due primi figli. Sarà grazie alla piccola casa di<br />

- 29 -<br />

produzione di Chabrol che nel periodo 1958-61<br />

verranno prodotti L'américain di Alain Cavalier,<br />

il cortometraggio di Jacques Rivette Veronique et<br />

son cancre e, in coproduzione con la casa di<br />

Truffaut, il primo lungometraggio <strong>del</strong>lo stesso<br />

Rivette Paris nous appartient; Le signe du lion,<br />

esordio di Rohmer; i primi due lungometraggi di<br />

Philippe De Broca Le jeux de l'amour e Le farceur.<br />

Il fallimento <strong>del</strong>la A.J.Y.M. e i disastri al botteghino<br />

di alcuni suoi film mandano quasi in rovina,<br />

sia economicamente sia sul piano artistico,<br />

Chabrol che, per risollevarsi, farà buon viso a<br />

cattiva sorte accettando di realizzare alcuni film<br />

di spionaggio, genere commerciale di successo<br />

durante gli anni Sessanta.<br />

Con gli anni Chabrol ha iniziato a realizzare film<br />

dichiaratamente noir, genere che lo ha portato<br />

lontano dalla sperimentazione e dalla anticonvenzionalità<br />

caratteristica <strong>del</strong>la Nouvelle vague,<br />

perseguita sempre e comunque, ad esempio, da<br />

Godard.<br />

Tuttavia con i suoi film Chabrol è riuscito a analizzare<br />

in maniera perfetta - si potrebbe dire da<br />

fine entomologo - i comportamenti umani che,<br />

apparentemente normali, possono virare improvvisamente<br />

e inaspettatamente verso la follia o<br />

verso il <strong>del</strong>itto a causa, spesso, di un piccolo<br />

imprevisto.


Filmografia di C. Chabrol<br />

Le beau Serge (1958)<br />

I cugini (Les cousins, 1958)<br />

A doppia mandata (A double tour, 1959)<br />

Donne facili (Les bonnes femmes, 1960)<br />

L’avarice (1962) Episodio <strong>del</strong> film collettivo I sette peccati capitali (Les septe pechés capitaux)<br />

Ophélia (1963)<br />

Landru (1963)<br />

L’homme qui vendit la Tour Eiffel (1963) Episodio <strong>del</strong> film collettivo Le più belle truffe <strong>del</strong> mondo<br />

(Les plus belles escroqueries du monde)<br />

La tigre ama la carne fresca (Le tigre aime la chair fraîche, 1964)<br />

La tigre profumata alla dinamite (Le tigre se parfume à la dynamite, 1965)<br />

Marie Chantal contro il dr. Kha (Marie Chantal contre Dr. Kha, 1965)<br />

Lo scandalo - Delitti e... champagne (Le scandale, 1967)<br />

Criminal Story (La route de Corinthe, 1967)<br />

Les biches – Le cerbiatte (Les biches, 1968)<br />

Stéphane, una moglie infe<strong>del</strong>e (La femme infidèle, 1968)<br />

Il tagliagole (Le boucher, 1969)<br />

Ucciderò un uomo (Que la bête meure, 1969)<br />

All’ombra <strong>del</strong> <strong>del</strong>itto (La rupture, 1970)<br />

Dieci incredibili giorni (La décade prodigieuse, 1971)<br />

Trappola per un lupo (Docteur Popaul, 1972)<br />

L’amico di famiglia - Le nozze rosse (Les noces rouges, 1973)<br />

Una gita di piacere (Une partie de plaisir, 1974)<br />

Sterminate “Gruppo Zero” (Nada, 1974)<br />

Gli innocenti dalle mani sporche (Les innocents aux mains sales, 1975)<br />

Pazzi borghesi (Folies bourgeoises, 1976)<br />

Profezia di un <strong>del</strong>itto (Les magiciens, 1976)<br />

Rosso nel buio (Les liens de sang, 1977)<br />

Violette Nozière (1978)<br />

I fantasmi <strong>del</strong> cappellaio (Les fantômes du chapelier, 1982)<br />

Il sangue degli altri (Le sang des autres, 1983)<br />

Una morte di troppo (Poulet au vinaigre, 1984)<br />

L’ispettore Lavardin (Inspecteur Lavardin, 1986)<br />

Il grido <strong>del</strong> gufo (Le cri du Hibou, 1987)<br />

Volto segreto (Masques, 1987)<br />

Un affare di donne (Une affaire de femmes, 1988)<br />

Doctor M (Dr. M, 1990)<br />

Giorni felici a Clichy (Jours tranquilles à Clichy, 1990)<br />

Madame Bovary (1991)<br />

Betty (1992)<br />

L’inferno (L’enfer, 1993)<br />

Il buio nella mente (La cérémonie, 1995)<br />

Rien ne va plus (1997)<br />

Il colore <strong>del</strong>la menzogna (Au coeur du mensonge, 1999)<br />

Grazie per la cioccolata (Merci pour le chocolat, 2000)<br />

Il fiore <strong>del</strong> male (Le fleur du mal, 2002)<br />

La damigella d’onore (La Demoiselle d’honneur, 2004)<br />

La commedia <strong>del</strong> potere (L’ivresse du pouvoir, 2006)<br />

L’innocenza <strong>del</strong> peccato (La fille coupée en deux, 2007)<br />

- 30 -


IL FILM DELLA RASSEGNA:<br />

Stephane, una moglie infe<strong>del</strong>e<br />

Da vedere, inoltre:<br />

Le beau Serge<br />

I cugini<br />

Donne facili<br />

Landru<br />

Les biches - Le cerbiatte<br />

Il tagliagole<br />

STEPHANE, UNA MOGLIE INFEDELE<br />

(La femme infidéle, 1968)<br />

Regia: Claude Chabrol<br />

Sceneggiatura: Claude Chabrol<br />

Fotografia: <strong>Jean</strong> Rabier<br />

Musica: Pierre Jansen<br />

Durata : 98'<br />

Interpreti: Michel Bouquet, Stéphane Audran, Maurice Ronet,<br />

Michel Duchaussoy, Guy Marly, Donatella Turri<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Charles, agiato assicuratore, scopre che la moglie Hélène (nell'originale), madre <strong>del</strong> piccolo Michel, lo tradisce con un<br />

giornalista. Va a trovarlo, lo uccide, cancella le tracce <strong>del</strong> suo passaggio e si sbarazza <strong>del</strong> suo cadavere. Tace con la<br />

moglie che, però, scopre da sola la verità e interpreta come un grande atto d'amore il <strong>del</strong>itto <strong>del</strong> marito che viene arrestato.<br />

(Da: Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Ddizionario dei film)<br />

Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

(…) Attraverso uno stile lucido e controllato, Chabrol infonde nel racconto una<br />

suspense dal timbro hitchcockiano, mettendo al centro <strong>del</strong>la scena un uomo comune<br />

che, spinto dalle circostanze, si trasforma in un assassino.<br />

La narrazione filmica, nella sua apparente semplicità, ci regala alcune scene magistrali<br />

– come quella in cui Michel ripulisce meticolosamente l’appartamento <strong>del</strong>la sua vittima<br />

mentre nel frattempo, a casa, si festeggia il compleanno <strong>del</strong> figlio. Bravissimi i due protagonisti,<br />

Bouquet e la Audran, e splendida la sequenza conclusiva, con una formidabile carrellata all’indietro<br />

che pare voler sottolineare l’ambiguità <strong>del</strong> finale. Nel 2002 Adrian Lyne ne ha fatto un remake<br />

a Hollywood, L’amore infe<strong>del</strong>e, con Diane Lane e Richard Gere.<br />

(Stefano Lo Verme)<br />

- 31 -


(…) Il gioco di allusioni e reticenze dovrebbe diventare una più generale metafora <strong>del</strong><br />

vivere borghese: ma importa soprattutto la compattezza <strong>del</strong>la messinscena e l’acutezza<br />

nella descrizione dei tre personaggi: Bellissimo il finale. Decisamente uno dei<br />

migliori Chabrola (anche autore <strong>del</strong>la sceneggiatura) <strong>del</strong> periodo, nel filone che comprende<br />

anche L’amico di famiglia e Gli innocenti dalle mani sporche.<br />

(Paolo Mereghetti: Il Mereghetti. Dizionario dei film)<br />

(…) È uno dei migliori film di Chabrol che prosegue sulla via narrativa e stilistica di<br />

Les Biches (1967) all’insegna <strong>del</strong>la lezione di Hitchcock: “La complessità <strong>del</strong> suo<br />

cinema non sta in ciò che racconta, ma nel modo con cui viene messa in scena anche<br />

la situazione più quotidiana e banale” (A. Viganò). Un borghese viola con un omicidio<br />

la legge per riaffermare i diritti sui propri beni patrimoniali che comprendono anche<br />

gli affetti, l’armonia di una normalità coniugale. E la moglie, nonostante l’infe<strong>del</strong>tà,<br />

gli è solidale, come mostra la sequenza finale con il suo contraddittorio movimento di carrello indietro<br />

e zoom in avanti.<br />

(Laura, Luisa, Morando Morandini. Il Morandini – Dizionario dei film)<br />

- 32 -


ERIC ROHMER<br />

Di tutti i cineasti <strong>del</strong>la Nouvelle vague Eric<br />

Rohmer, all’anagrafe <strong>Jean</strong>-Marie Maurice<br />

Schérer, è il più anziano. Nato a Tulle da una<br />

famiglia di origine alsaziana, Rohmer appartiene<br />

più che alla generazione dei vari Truffaut,<br />

Godard, Rivette, ecc. a quella di André Bazin,<br />

nato nel 1918 e di Jacques Doniol-Valcroze, coetaneo<br />

<strong>del</strong>lo stesso Rohmer. A differenziare ulteriormente<br />

Rohmer dal gruppo degli “hitchcockhawksiani”,<br />

termine coniato da Bazin per<br />

indicare i giovani turchi dei Cahiers, tenendo<br />

conto <strong>del</strong>le loro passioni cinefile, è il fatto di<br />

essere stato l’unico ad aver compiuto studi classici,<br />

arrivando alla laurea, e ad avere un’occupazione<br />

extra cinematografica, essendo stato professore<br />

di lettere presso vari licei francesi.<br />

Rohmer si avvicina al cinema durante l’occupazione<br />

tedesca, assistendo alla proiezione di<br />

numerosi film, per lo più francesi, essendo gli<br />

unici permessi a quel tempo nel paese.<br />

Successivamente, attraverso la frequentazione<br />

<strong>del</strong>la Cinématheque e di vari cineclub, entrerà in<br />

contatto con i giovani, futuri, redattori dei<br />

Cahiers du Cinéma e futuri registi <strong>del</strong>la “nuova<br />

onda” francese.<br />

La sua età, ma anche il suo rigore morale e la sua<br />

levatura intellettuale, ne faranno una sorta di<br />

capofila che, a differenza <strong>del</strong>la maggior parte dei<br />

colleghi, manterrà rigorosamente separate la vita<br />

privata da quella pubblica.<br />

All’interno <strong>del</strong>la rivista Rohmer acquisirà via via<br />

una posizione di prestigio e responsabilità, assumendo<br />

la guida dei Cahiers nel momento in cui<br />

Bazin si ammalerà e sino all’avvento di Jacques<br />

Rivette alla guida <strong>del</strong> giornale.<br />

Come cineasta, la sua carriera inizierà, rispetto<br />

agli amici, relativamente tardi. Dopo un primo<br />

cortometraggio girato nel 1951 dal titolo Journal<br />

d’un scélérat, su soggetto <strong>del</strong>l’amico sceneggiatore<br />

Paul Gegauff e dopo aver collaborato alla<br />

realizzazione di alcuni corti di Godard, firmerà<br />

il suo primo lungometraggio nel 1959. Il segno<br />

- 33 -<br />

<strong>del</strong> leone, sfortunatamente, uscirà nelle sale solo<br />

nel 1962, in un momento di stanca e di riflusso<br />

<strong>del</strong>la Nouvelle vague. Questo fatto, nonché la<br />

“difficoltà” <strong>del</strong> soggetto <strong>del</strong> film (un uomo alla<br />

deriva vaga da solo per le strade di Parigi) sarà la<br />

causa <strong>del</strong>l’inevitabile flop al botteghino.<br />

Tuttavia, lungi dal perdersi d’animo, Rohmer<br />

continuerà a perseguire la sua idea di cinema,<br />

realizzando una serie di opere incentrate tutte su<br />

minime variazione di un tema centrale e mediate<br />

da una voce fuori campo. Nasceranno così i sei<br />

“Racconti morali”, iniziati nel 1962 con La boulangerie<br />

du Monceau e proseguiti con La carrière<br />

de Suzanne (1963), La collectioneuse (1967),<br />

Ma nuit chez Maud (1969), Il ginocchio di Claire<br />

(Le genou de Claire, 1970) e L’amore il pomeriggio<br />

(L’amour l’après midi, 1972).<br />

Nella sua carriera Rohmer ha avuto il merito di<br />

non rinnegare quella che è stata la sua filosofia<br />

iniziale, cioè realizzare film il cui costo non realizzasse<br />

più di quello che, realisticamente, avrebbero<br />

potuto incassare. È sempre stato un regista<br />

molto attento alla parola. Le sue opere, che trattano<br />

apparentemente argomenti frivoli, come le<br />

discussioni futili fra adolescenti, celano una<br />

riflessione profonda su ciò che rappresenta il<br />

senso <strong>del</strong>la vita, l’etica e la morale.


Filmografia di Eric Rohmer<br />

Journal d’un scélérat (1951) (cortometraggio)<br />

Il segno <strong>del</strong> leone (Le signe du Lion, 1959)<br />

La boulangerie de Monceau (1962) (cortometraggio)<br />

La carrière de Suzanne (1963)<br />

La collezionista (La collectioneuse, 1967)<br />

La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud, 1969)<br />

Il ginocchio di Claire (Le genou de Claire, 1970)<br />

L’amore il pomeriggio (L’amour l’après midi, 1972)<br />

La marchesa von... (La marquise d’O..., 1976)<br />

Perceval le gallois (1978)<br />

La femme de l’aviateur - La moglie <strong>del</strong>l’aviatore (La femme de l’aviateur, 1981)<br />

Il bel matrimonio (Le beau mariage, 1982)<br />

Pauline alla spiaggia (Pauline à la plage, 1983)<br />

Le notti <strong>del</strong>la luna piena (Les nuits de la pleine lune, 1984)<br />

Il raggio verde (Le rayon vert, 1986)<br />

L’amico <strong>del</strong>la mia amica (L’ami de mon amie, 1987)<br />

Reinette e Mirabelle (Quatre aventures de Reinette et Mirabelle, 1987)<br />

L’albero, il sindaco e la mediateca (L’arbre, le maire et la médiathèque, 1993)<br />

Incontri a Parigi (Les rendez-vous de Paris, 1995)<br />

Un ragazzo, tre ragazze... (Conte d’été, 1996)<br />

Racconto d’autunno (Conte d’automne, 1988)<br />

Racconto di primavera (Conte de printemps, 1990)<br />

Racconto d’inverno (Conte d’hiver, 1991)<br />

La nobildonna e il duca (L’Anglaise et le duc, 2001)<br />

Triple Agent - Agente speciale (Triple Agent, 2004)<br />

Le canapé rouge (2005)<br />

Gli amori di Astrea e Celadon (Les amours d’Astrée et de Céladon, 2007)<br />

IL FILM DELLA RASSEGNA:<br />

La mia notte con Maud<br />

Da vedere, inoltre:<br />

Il segno <strong>del</strong> leone<br />

La collezionista<br />

Il ginocchio di Claire<br />

- 34 -


LA MIA NOTTE CON MAUD<br />

(Ma nuit chez Maud, 1969)<br />

Regia : Eric Rohmer<br />

Sceneggiatura: Eric Rohmer<br />

Fotografia : Nestor Almendros<br />

Durata: 110'<br />

Interpreti: <strong>Jean</strong>-Louis Trintignant, <strong>François</strong>e Fabian,<br />

Antoine Vitez, Marie-Christine Barrault<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Clermont-Ferrand. Durante una messa nella basilica di Notre Dame du Port, un ingegnere si innamora di una dolce<br />

ragazza bionda, <strong>François</strong>e. Giorni dopo incontra un compagno di liceo, Vidal, di stretta osservanza marxista, che lo invita<br />

a passare il Natale da Maud, una sua amica, separata dal marito. I dialoghi filosofici tra i due continuano, così davanti<br />

alla signora molto affascinante che, rimasti soli, tenterà invano di sedurre l'ingegnere. Questi il mattino dopo ritrova<br />

la ragazza bionda, la ferma e le strappa un appuntamento. Una nevicata li costringerà a passare la notte insieme.<br />

L'ingegnere allora le si dichiara. Cinque anni dopo, ormai sposati con bambino, incontrano sulla spiaggia Maud: le due<br />

donne sembrano conoscersi. L'ingegnere, che è anche il narratore di tutta la vicenda, scopre che l'ex marito di Maud è<br />

stato amante <strong>del</strong>la moglie. Forse anche per questo, allora, decide di "confessare"a <strong>François</strong>e la sua notte passata con<br />

Maud.<br />

(Da: Flavio Vergerio e Giancarlo Zippoli: Eric Rohmer - La parola vista, Morett&Vitali, 1996)<br />

Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

Eric Rohmer è uno dei giovani critici francesi passati al cinema militante sulla scia<br />

<strong>del</strong>la Nouvelle Vague. I suoi «racconti morali» non hanno avuto finora particolare successo<br />

a eccezione di La collezionista, di cui fu apprezzata la solare sensualità mediterranea.<br />

Forse per amore dei contrasti il nuovo film di Rohmcr ci porta sotto le feste<br />

di Natale in una Clermont-Ferrand battuta dalla pioggia e dalla neve. Dietro la vicenda<br />

privata di <strong>Jean</strong>-Louis, ingegnere alle officine Michelin che respinge timidamente la<br />

bruna Maud e altrettanto timidamente sposa la bionda <strong>François</strong>e, c’è la teoria <strong>del</strong>la scommessa di<br />

Blaise Pascal: in una vita dominata dal caso bisogna scommettere in base alla speranza matematica<br />

<strong>del</strong>l’incontro giusto. Nel gioco alla Marivaux il regista ce la mette tutta per tirar fuori le simmetrie<br />

di racconto e di significato: a ogni passo rischia però di spezzare la suggestione con inviti troppo<br />

pressanti a individuare significati etici e religiosi sotto il velame. In base a queste allusioni <strong>François</strong>e<br />

potrebbe anche rappresentare la grazia, ultima posta <strong>del</strong>la scommessa pascaliana; o, al contrario, la<br />

<strong>del</strong>usione di chi ha puntato sulla carta perdente, se si prende alla lettera l’amara, per quanto prevedibile,<br />

rivelazione finale. Ne deriva un film ambiguo: attraente sulle prime, alla lunga inflazionato<br />

di chiacchiere.<br />

(Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere)<br />

(…) Terzo dei “racconti morali” di E. Rohmer, fa perno su un dilemma, fondato sulla<br />

fe<strong>del</strong>tà alla scelta più che alla persona. Il protagonista-narratore respinge la seconda<br />

donna (Maud) in virtù <strong>del</strong>la sua scelta iniziale (<strong>François</strong>e): ha scelto quel che non ha<br />

o addirittura, come qui, quel che non conosce. Optando per <strong>François</strong>e, donna sognata,<br />

- 35 -


contro Maud, donna conosciuta, sceglie l’idealità <strong>del</strong>l’archetipo contro la pericolosità <strong>del</strong> reale.<br />

Geometrica precisione <strong>del</strong>l’intreccio, giustezza di dialoghi, fluidità <strong>del</strong>la scrittura (fotografia di<br />

Nestor Almendros), verità dei personaggi.<br />

(Laura, Luisa e Morando Morandini: Dizionario dei film)<br />

(…) Il terzo (anche se girato come quarto) è uno dei più belli dei racconti morali di<br />

Rohmer. Il narratore Michel esordisce dicendo che “non dirà tutto <strong>del</strong>la storia”, scommette<br />

pascalianamente col caso, si districa tra menzogna e verità (farà credere a<br />

<strong>François</strong>e di essere stato l’amante di Maud), ma alla fine rimane sconfitto. Su un<br />

intreccio di apparenti simmetrie che ha la perfezione di un labirinto, si dipanano lunghi<br />

dialoghini cui i personaggi mettono alla prova le convinzioni loro e degli spettatori.<br />

Rohmer fa cinema con la parola senza adagiarsi nella teatralità, e il gioco intellettuale cela seduzioni<br />

e tensioni che il cinema riesce di rado a rappresentare con tanto acume e tanta forza.<br />

(Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film)<br />

La mia notte con Maud è l’esatto opposto di un grido per la rivoluzione. Ci tocca con<br />

le qualità più classiche: analisi psicologica, acutezza, sensibilità, precisione. Una nota<br />

pura e chiara che penetra la cacofonia circostante, questa cadenza mozartiana “tiene”<br />

ancora. Sia che stia mostrando una tranquilla vita provinciale, o il valzer <strong>del</strong>l’esitazione<br />

di un ingegnere diviso tra il suo cristianesimo, il suo gusto per la matematica, i suoi<br />

problemi amorosi e la sua avversione per Pascal, Rohmer dimostra in modo abbagliante<br />

a quali altezze può giungere un regista quando le regole vengono dettate dall’intelligenza.<br />

Moltiplicando le trappole, il modo migliore per evitarle, il film contiene la scena più pericolosa <strong>del</strong><br />

cinema francese: essa vede insieme in una camera/soggiorno una coppia che non si è mai incontrata<br />

prima: <strong>Jean</strong>-Louis, l’ingegnere, e una giovane donna medico, bella, divorziata. Cenano. L’amico<br />

che li ha fatti incontrare se ne va. <strong>Jean</strong>-Louis vuole andare a casa ma abita lontano e sta nevicando.<br />

Maud riesce a farlo restare. La notte passerà… senza che nulla accada, tranne che discussioni e confidenze<br />

sempre più intime. Al mattino, contrariamente ai suoi desideri, l’agnellino smarrito non sarà<br />

stato mangiato dal lupo. Potete immaginare a quale oscena farsa avrebbe potuto portare questo<br />

incontro. Qui, comunque, <strong>del</strong>icatezza, spontaneità e proprietà di tono trionfano. Quello che Rohmer<br />

ha tirato fuori d <strong>Jean</strong>-Louis Trintignant e, specialmente, da <strong>François</strong>e Fabian è così miracoloso che<br />

uno vorrebbe che la notte con Maud durasse per sempre.<br />

(Gilles Jacob, Nouvelles littéraires, n. 22, maggio 1969)<br />

- 36 -


JACQUES RIVETTE<br />

Nato a Rouen nel 1928, divenne critico dei<br />

Cahiers du Cinéma, rivista <strong>del</strong>la quale assunse la<br />

direzione dopo la morte di Bazin e il breve periodo<br />

di direzione di Eric Rohmer.<br />

Il suo esordi dietro la macchina da presa avviene<br />

nel 1956 con il cortometraggio Le coup du<br />

berger a cui fa seguito, dopo varie traversie, il<br />

suo primo lungometraggio Paris nous appartient<br />

(1958-60), scritto insieme a <strong>Jean</strong> Groualt e prodotto<br />

dalle case di produzione di <strong>François</strong><br />

Truffaut e Claude Chabrol. Di questo film lo<br />

stesso Truffaut ne mostrerà alcune sequenze nel<br />

suo I quattrocento colpi, facendo assistere la<br />

famiglia Doinel alla proiezione.<br />

Paris nous appartient resterà un film emblematico<br />

<strong>del</strong>le tematiche di Rivette: l’intrigo poliziesco<br />

che rimane insoluto; la continua mescolanza fra<br />

realtà e immaginazione, spesso irriconoscibili;<br />

l’incrocio fra palcoscenico e vita quotidiana.<br />

Il successo internazionale verrà raggiunto da<br />

Rivette nel 1966 con Suzanne Simonin, la religiosa<br />

(Suzanne Simonin, la religieuse de<br />

Diderot) che narra le esperienze drammatiche di<br />

una giovane <strong>del</strong> diciottesimo secolo obbligata ad<br />

Filmografia di Jacques Rivette<br />

entrare in convento e poi sospettata di essere<br />

indemoniata.<br />

Spesso nei suoi film Rivette “fa un cinema basato<br />

sul gioco e sull’improvvisazione, che invade<br />

gli spazi reali rispettando i tempi <strong>del</strong>la realtà” (P.<br />

Mereghetti). Di qui la durata spesso esagerata<br />

dei suoi film, che tocca il suo massimo in Out 1<br />

(Out 1: Noli me tangere, 1971) lungo ben 760<br />

minuti.<br />

Le coup du berger (1956) (cortometraggio)<br />

Paris nous appartient (1958-60)<br />

Susanne Simonin, la religiosa (La religieuse (Suzanne Simonin, la religieuse de Diderot), 1966)<br />

Out 1 (Out 1: Noli me tangere, 1971)<br />

Noroît (Scènes de la vie parallèle : 3 – Noroît (une vengeances), 1978)<br />

Merry-Go-Round (1977-83)<br />

L’amore in pezzi (L’Amour par terre, 1983)<br />

Una recita a quattro (La bande des quatre, 1984)<br />

La bella scontrosa (La belle noiseuse, 1991)<br />

Giovanna d’Arco - Parte I: Le battaglie / Giovanna d’Arco - Parte II: Le prigioni (<strong>Jean</strong>ne la<br />

Pucelle. Les batailles / <strong>Jean</strong>ne la Pucelle. Les prisons, 1994)<br />

Alto basso fragile (Haut, bas, fragile, 1995)<br />

Chi lo sa? (Va savoir, 2001)<br />

Storia di Marie et Julien (Histoire de Marie et Julien, 2003)<br />

La duchessa di Langeais (Ne touchez pas la hache, 2007)<br />

Da vedere:<br />

Paris nous appartient<br />

Susanne Simonin, la religiosa<br />

- 37 -


QUELLI DELLA RIVE GAUCHE:<br />

ALAIN RESNAIS<br />

Nato a Vannes nel 1922 si trasferisce da giovane<br />

a Parigi dove inizia a studiare recitazione, diplomandosi<br />

in fotografia e montaggio.<br />

Dopo alcune pellicole a carattere pubblicitario e<br />

alcuni cortometraggi, realizza, nel 1956, Notte e<br />

nebbia, straordinario mediometraggio di denuncia<br />

dei campi di concentramento nazisti, in cui<br />

mescola materiale di repertorio e scene riprese al<br />

presente. Sarà Hiroshima mon amour (1959) a<br />

consacrarlo definitivamente a livello internazionale.<br />

Scritto da Marguerite Duras è la straziante<br />

storia d’amore fra una donna francese e un uomo<br />

giapponese a Hiroshima, ripercorrendo la tragedia<br />

<strong>del</strong>la bomba atomica, con flash back sul<br />

passato durante l’occupazione nazista in Francia.<br />

Pur non appartenendo al gruppo <strong>del</strong>la Nouvelle<br />

vague, Resnais vi viene affiancato proprio grazie<br />

a questo film che venne acclamato al festival di<br />

Cannes <strong>del</strong> 1959, insieme a I quattrocento colpi<br />

di Truffaut, per la sua forza innovatrice <strong>del</strong> cinema<br />

francese.<br />

Il successo di Resnais si consolidò successiva-<br />

Filmografia di Alain Resnais<br />

mente con L’anno scorso a Marienbad, con cui<br />

vinse il Leone d’oro a Venezia nel 1961, e con<br />

Muriel, il tempo di un ritorno (1963).<br />

Con La guerrà è finita, realizzato nel 1966 su un<br />

soggetto <strong>del</strong>lo scrittore catalano in esilio Jorge<br />

Semprun, Resnais analizza la crisi <strong>del</strong>le ideologia<br />

che colpisce un gruppo di fuoriusciti spagnoli<br />

a Parigi durante il franchismo.<br />

Guernica (1950) (cortometraggio)<br />

Gauguin (1950) (cortometraggio)<br />

Anche le statue muoiono (Les statues meurent aussi, 1951-53) (cortometraggio realizzato insieme a<br />

Chris Marker)<br />

Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1956)<br />

Le Chant du Styrène (1958) (cortometraggio)<br />

Hiroshima mon amour (1959)<br />

L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad, 1961)<br />

Muriel, il tempo di un ritorno (Muriel ou le temps d’un retour, 1963)<br />

La guerra è finita (La guerre est finie, 1966)<br />

Claude Ridder (1967) episodio <strong>del</strong> film collettivo Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam)<br />

Je t’aime, je t’aime - Anatomia di un suicidio (Je t’aime, je t’aime, 1968)<br />

Stavisky il grande truffatore (Stavisky, 1974)<br />

Providence (1977)<br />

Mon oncle d’Amérique (1980)<br />

La vita è un romanzo (La vie est un roman, 1983)<br />

L’amour à mort (1984)<br />

Melò (Mélo, 1986)<br />

- 38 -


Voglio tornare a casa! (I Want To Go Home, 1989)<br />

Smoking; No Smoking (1993)<br />

Parole, parole, parole... (On connait la chanson, 1997)<br />

Pas sur la bouche (2003)<br />

Cuori (Cœurs, 2006)<br />

Les herbes folles (2009)<br />

IL FILM DELLA RASSEGNA:<br />

La guerra è finita<br />

Da vedere, inoltre:<br />

Notte e nebbia<br />

Hiroshima mon amour<br />

L'anno scorso a Marienbad<br />

Muriel, il tempo di un ritorno<br />

Providence<br />

- 39 -


LA GUERRA È FINITA<br />

(La guerres est finie, 1966)<br />

Regia : Alain Resnais<br />

Sceneggiatura : Jorge Semprun<br />

Fotografia: Sacha Vierny<br />

Musica: Giovanni Fusco<br />

Durata: 120'<br />

Interpreti: Yves Montand, Ingrid Thulin, Geneviève Bujold,<br />

<strong>Jean</strong> Bouise, Michel Piccoli, Dominique Rozan<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Protagonista <strong>del</strong> film è un comunista, Diego, uno dei molti fuorusciti che traversando più volte la frontiera tra Francia e<br />

Spagna tiene i contatti con i compagni rimasti in patria. Siamo nei giorni di Pasqua <strong>del</strong> 1965: dopo sei mesi di permanenza<br />

clandestina a Madrid, Diego rientra precipitosamente a Parigi per mettere in guardia l'amico Juan dal recarsi in<br />

Spagna, dove la polizia franchista sta compiendo nuovi arresti. Ma Diego questa volta ha avuto noie alla frontiera: viaggiava<br />

col passaporto di un altro, e soltanto la prontezza di spirito di Nadine, una studentessa parigina alla quale la polizia<br />

ha telefonato per un controllo, ha potuto salvarlo. Giunto a Parigi, Diego non riesce a rintracciare Juan, che ormai è<br />

già partito, e invano contesta ai capi <strong>del</strong> partito l'opportunità di proclamare uno sciopero generale progettato per il 1°<br />

maggio, a suo avviso destinato a fallire. Dopo aver conosciuto Nadine, e avuto con lei un rapido incontro d'amore, Diego<br />

rientra a casa, dove lo attende Marianne, una straniera che lo ama profondamente ma è stanca di averlo tanto spesso lontano,<br />

e vorrebbe almeno un figlio da lui. L'indomani, a una riunione di partito, Diego si sente rimproverare di aver lasciato<br />

senza ordine Madrid, viene accusato di debolezza ideologica, e sospeso dall'attività. Analoghi rimbrotti riceve il terzo<br />

giorno da un gruppo di giovani comunisti francesi amici di Nadine, che rischiano di implicarlo in una azione di terrorismo<br />

da cui egli tenta di distoglierli.<br />

Già Diego progetta di rientrare per proprio conto in Spagna insieme a Marianne, a proseguire in patria una lotta che<br />

ormai gli sembra assurda diretta da lontano, da vecchi combattenti prigionieri <strong>del</strong>la mitologia insurrezionale o da giovani<br />

avventati, quando la morte di un compagno e la consapevolezza di sentirsi vivo soltanto nel rischio <strong>del</strong>l'azione lo<br />

spingono a riprendere il suo posto e a ripartire subito per Barcellona, nella speranza di fare ancora in tempo a impedire<br />

a Juan di raggiungere Madrid. Ma Diego non sa che la polizia gli è da tempo alle calcagna (o forse lo sospetta, e ha compiuto<br />

la sua scelta per una volontà di coerenza). Per avvertirlo a sua volta, il partito chiede a Marianne di giungere in<br />

volo a Madrid prima di lui.<br />

Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

(…) È il film più politicamente impegnato di A. Resnais. Scritto dallo spagnolo (allora<br />

in esilio) Jorge Semprun, è un film sull’azione, sull’ostinazione, l’allegria e la stanchezza<br />

<strong>del</strong>l’azione: il flusso <strong>del</strong>la coscienza riguarda il contrario <strong>del</strong>la memoria, l’avvenire<br />

invece <strong>del</strong> passato. La pazienza e l’ironia sono le due virtù <strong>del</strong> rivoluzionario,<br />

dice Diego Mora. Nel corso labirintico <strong>del</strong> racconto affiora il motivo conduttore di un<br />

omaggio all’uomo e alla sua integrità, in coincidenza tra livello pubblico e livello privato,<br />

continuamente intrecciati.<br />

( Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)<br />

La guerra è finita, coproduzione franco-svedese, giunge in Italia con un’etichetta di<br />

film audace che proprio non merita. Anche senza le brevi sforbiciate <strong>del</strong>la censura,<br />

quest’ultimo di Alain Resnais è uno dei film più casti che si conosca, e contiene due<br />

grandi scene d’amore fra le più struggenti di tutto il cinema francese. Il motivo <strong>del</strong>le<br />

difficoltà che ha incontrato sono altrove: per i fascisti, nel celebrare la lotta clandesti-<br />

- 40 -


na combattuta a prezzo di sangue contro il regime di Franco; per una parte dei comunisti, nel mostrare<br />

i cedimenti di cui possono soffrire, dopo il lungo esilio, i fuorusciti, e come siano superati, anzi<br />

dannosi, certi schematismi dottrinari non adeguati alla nuova realtà <strong>del</strong>la Spagna. (…)<br />

La guerra è finita è un bel film, forse la prova più ricca di Resnais, che abbandonati i giochi intellettualistici<br />

si dedica a dipingere, con grande rispetto <strong>del</strong> vero, nella cornice d’un ambiente molto<br />

emotivo, il ritratto d’un uomo nel quale si riflettono insieme la crisi <strong>del</strong>le ideologie e le crisi private<br />

dei quarant’anni, sullo sfondo d’un carattere segnato dall’amarezza <strong>del</strong>l’esilio, dalla stanchezza<br />

per un trentennale rinvio, dai lividi <strong>del</strong>le <strong>del</strong>usioni e d’un’esistenza raminga. Realizzato con classica<br />

semplicità e compostezza (l’unico difetto è un certo languore nel ritmo), il film, animato da personaggi<br />

tanto più autentici di quelli di Marienbad e Muriel, supera ogni pure interessante significazione<br />

politica e morale con una poesia intrisa di malinconia fortissima, che tuttavia non raggiunge<br />

l’angoscia esistenziale, e perciò serba grazia. Essa risalta appunto nelle scene d’amore: nell’incontro<br />

con Nadine, dove l’uomo quasi estraneo alla realtà ritrova il calore <strong>del</strong>la vita nella fresca e graziosa<br />

ragazza, e in quello con Marianne, la donna non più giovane che teneramente lo supplica di<br />

riempire la sua solitudine. Da questi nodi supremi la tristezza si spande lungo tutto il racconto, nei<br />

luoghi, nei volti e nelle situazioni, e ogni volta torna a condensarsi nella figura di Diego, inquietato<br />

da un’ambiguità e da un’incertezza che gli turbano la coscienza col sospetto <strong>del</strong>la menzogna e <strong>del</strong><br />

tradimento. Ma non è soltanto nella penetrazione psicologica <strong>del</strong> complesso protagonista che<br />

Resnais dà prova di eccezionale intelligenza e sensibilità: il ritratto di Marianne, dove i motivi <strong>del</strong>la<br />

sensualità s’intrecciano a quelli <strong>del</strong>la desolazione e, di rimbalzo, d’una nascente coscienza politica;<br />

e il profilo rapido e tenero di Nadine, così sicura <strong>del</strong>la sua giovinezza in confronto ai dubbi <strong>del</strong> quarantenne,<br />

sono compiuti con rara precisione di tocco. Lo stesso accade ai personaggi di contorno,<br />

tutti colti dal vero, gli umili operai e i politici dogmatici, in un armonico concertato realistico cui fa<br />

da ideale contrappunto la Spagna invisibile.<br />

(Giovanni Grazzini, Il Corriere <strong>del</strong>la Sera, 30 marzo 1967)<br />

Lo straordinario fascino <strong>del</strong> film di Resnais sta (…) nel proporci un personaggio ormai<br />

canonico <strong>del</strong> cinema contemporaneo, un “uomo, a metà” appunto, la cui crisi appare<br />

finalmente rappresentata nelle sue concrete motivazioni politiche e morali, e non dilatata<br />

surrettiziamente a emblematico referto di un malessere esistenziale. Diego Mora<br />

non è un segno, una “persona” o una metafora, è un uomo, un militante <strong>del</strong>la classe<br />

operaia europea colto e rappresentato in un’alternativa, tutt’altro che privata, fra<br />

abbandono e fe<strong>del</strong>tà a una causa rivoluzionaria. La <strong>del</strong>usione e l’amarezza che ne frenano l’azione<br />

non rimandano ad equivoche stagioni <strong>del</strong> nostro amore declamate con colpevole morbidezza, ma ad<br />

un aspro e sgradevole capitolo <strong>del</strong> presente limpidamente individualizzato in un personaggio che non<br />

sa più come volere ciò che vuole. Diego non è un’ombra, una <strong>del</strong>le tante, troppe, <strong>del</strong> cinema “moderno”,<br />

ma non è neppure, non può essere per fortuna, l’eroe positivo” di un cattivo cinema programmatico.<br />

La crisi politica e quella sentimentale risultano, pertanto, perfettamente compenetrate:<br />

l’incontro con Nadine e i rapporti difficili con Marianne non sono un’altra storia, giustapposta o dilatata<br />

rispetto a quella politica, ma la stessa storia, verificata e sofferta a un altro livello.<br />

Di qui un risultato di una limpidezza di significati e di segni sorprendente, ma tutt’altro che semplicistica,<br />

fondata anzi su un’analisi rigorosa di rapporti e di interferenze assai complesse, che si irradiano<br />

e convergono sempre intorno all’asse centrale <strong>del</strong> discorso, la crisi di Diego e il processo concreto,<br />

fatto di incontri, discussioni, e dei loro risvolti e prolungamenti interni, attraverso il quale egli<br />

esce dal labirinto, ritrovando l’ottimismo <strong>del</strong>la volontà nel pessimismo <strong>del</strong>l’intelligenza. Della<br />

“maniera” di Resnais, che non a caso risulta contestata e illimpidita dallo sforzo conoscitivo <strong>del</strong> regista<br />

e dalla revisione che esso comporta di certo avanguardismo tutto formale e pretestuoso, persistono<br />

certo gusto <strong>del</strong>l’incastro e <strong>del</strong>la complicazione degli accadimenti e talune concessioni nel<br />

visualizzare timori, sospetti e incertezze <strong>del</strong> protagonista di fronte al momento <strong>del</strong>la scelta, rispetto<br />

- 41 -


alla quale, però, trovano quasi sempre una giustificazione interna, come “ipotesi” e “possibilità” che<br />

è necessario si ponga continuamente chi non vuole accettare, appunto, le cose e gli uomini come<br />

sono ora. È ne La guerra è finita dunque che, per tornare a Goldmann, l’avanguardia <strong>del</strong>l’assenza,<br />

di cui Resnais fu acceso neofita in Hiroshima e severo adepto in Marienbad, diventa avanguardia<br />

<strong>del</strong>la presenza: senza verità da sbandierare ma con amara e ostinata volontà di ritrovarle.<br />

(A<strong>del</strong>io Ferrero, Recensioni e saggi 1956-1977, Edizioni Falsopiano, 2005)<br />

- 42 -


QUELLI DELLA RIVE GAUCHE:<br />

CHRIS MARKER<br />

Regista, fotografo, scrittore. Chris Marker è il<br />

nome d’arte di Christian <strong>François</strong> Bouche-<br />

Villeneuve, nato nel 1921 a Neully-sur-Seine.<br />

Studia filosofia con <strong>Jean</strong>-Paul Sartre.<br />

Durante la guerra si unisce alla resistenza come<br />

paracadutista. Successivamente entra a lavorare<br />

all’Unesco. Inizia a viaggiare e a filmare tutto<br />

ciò che vede in giro per il mondo.<br />

Nel 1953 realizza il cortometraggio Les statues<br />

meurent aussi in coppia con Alain Resnais e, nel<br />

1963, La jetée, film costruito mediante fotogrammi<br />

fissi che raccontano di un mondo dopo<br />

la catastrofe nucleare.<br />

A La jetée si è ispirato Terry Gilliam per realizzare<br />

il suo film fantascientifico L’esercito <strong>del</strong>le dodici scimmie (1995).<br />

LA JETÉE<br />

(1963)<br />

Regia di Chris Marker<br />

Fotografia: <strong>Jean</strong> Chabaut<br />

Musiche: Trevor Duncan<br />

Voce over: <strong>Jean</strong> Negroni<br />

Durata: 29'<br />

Interpreti: Davos Hanich, Hélène Chatelain, Jacques Ledoux<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Sulla piattaforma <strong>del</strong>l'aeroporto di Orly la morte di un uomo di cui all'inizio non sappiamo l'identità è associata allo scoppio<br />

<strong>del</strong>la Terza guerra mondiale. I superstiti <strong>del</strong>la catastrofe nucleare sono nei rifugi sotterranei. Si inviano emissari<br />

affinché il passato e il futuro soccorrano il presente. Durante i suoi lunghi e penosi viaggi l'uomo ritrova l'immagine che<br />

l'ossessiona: quando all'aeroporto di Orly corre verso la donna amata comprende il significato <strong>del</strong>l'evento iniziale.<br />

(Da: Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)<br />

Hanno detto <strong>del</strong> film:<br />

(…) Cortometraggio in bianconero a foto fisse e ferme - se si toglie uno zoom all'inizio<br />

e due o tre altri in un momento in cui la storia va nel futuro - in cui si afferma "una<br />

identità tra il grande e il piccolo, l'individuale e l'universale ... introduce un tema che<br />

sarà tipico <strong>del</strong>la fantascienza francese nouvellevaguista, quello <strong>del</strong> viaggio nel tempo"<br />

(A. Farassino). Allucinato, vertiginoso, originale. Vincitore <strong>del</strong> primo Festival di fantascienza<br />

di Trieste nel 1963. (…)<br />

(Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)<br />

- 43 -


(…) Marker costruisce in pochi minuti un intero universo, esplora paradossi temporali<br />

su cui giocherà la fantascienza, riflette sulla natura <strong>del</strong>l'immagine e <strong>del</strong> cinema, e<br />

soprattutto trasmette una suggestione irripetibile. (…)<br />

(Paolo Mereghetti, Il Mereghetti - Dizionario dei film)<br />

(…) Quello che è bello, qui, è che abbiamo a che fare con un film sentimentale fatto<br />

da un intellettuale: i sentimenti sono presenti in secondo piano. Avveniristico o no, è<br />

un film d'amore sui ricordi e un film di ricordi sull'amore. La parte <strong>del</strong> ricordo è la<br />

fotografia, questi frammenti fissi che sono sopravvissuti (Cortazar, al quale si pensa<br />

quando si vede La jetée, scriveva: "Un modo tra i molti di combattere il nulla, è quello<br />

di fare <strong>del</strong>le fotografie"). La parte <strong>del</strong>l'amore, è la bellezza di un viso e <strong>del</strong>le sue<br />

espressioni, si guarda con tale attenzione questo volto che questo si scosta bruscamente : gli occhi,<br />

la bocca si muovono: E se gli animali di un museo di storia naturale sembrano rivivere, i piccioni su<br />

una piazza sembrano impagliati. La morte e la vita sono là, come per sbaglio. La bellezza così commovente<br />

degli incontri <strong>del</strong>l'uomo e <strong>del</strong>la donna, nel punto di intersezione <strong>del</strong>la memoria e <strong>del</strong> sogno,<br />

è il punto centrale <strong>del</strong> film. E mi piace che questa bellezza sia controllata da un inquietante saggio.<br />

(F.W., Cahiers du Cinéma, 146, 1963)<br />

GLI ALTRI:<br />

Henri Colpi (Briga, Svizzera, 1921 - Mentone, 2006)<br />

Jacques Demy (Pont Chateaux, 1931 - Parigi, 1990)<br />

George Franju (Fougères, 1912 - Parigi, 1987)<br />

Louis Malle (Thumeries, 1932 - Los Angeles, 1998)<br />

<strong>Jean</strong> Rouch (Parigi, 1917 - Birni N'Konni, Nigeria, 2007)<br />

Jacques Rozier (Parigi, 1926)<br />

Agnes Varda (Bruxelles, 1928)<br />

Da vedere:<br />

Ascensore per il patibolo (Louis Malle, 1958)<br />

Les amants (Louis Malle, 1958)<br />

Zazie nel metro (Louis Malle, 1959)<br />

Moi, un noir (<strong>Jean</strong> Rouch, 1959)<br />

L’inverno ti farà tornare (Henri Colpi, 1960)<br />

Lola, donna di vita (Jacques Demy, 1960)<br />

Occhi senza volto (George Franju, 1960)<br />

Cléo dalle 5 alle 7 (Agnes Varda, 1962)<br />

Desideri nel sole (Jacques Rozier, 1963)<br />

Les parapluies de Cherbourg (Jacques Demy, 1964)<br />

- 44 -


I “MAESTRI”:<br />

JACQUES BECKER<br />

Nato a Parigi nel 1906 e morto nella stessa città<br />

nel 1960.<br />

Dopo aver diretto con Jacques Prévert due<br />

mediometraggi nel 1935, esordisce nel lungometraggio<br />

con Dernier atout (Ultima possibilità,<br />

1942); lo stesso anno ottiene un discreto successo<br />

con La casa degli incubi, interessante opera<br />

corale ambientata nella Francia occupata. Segue,<br />

nel 1952, Casco d’oro con Simone Signoret,<br />

cruda storia di amore e violenza in un sobborgo<br />

parigino. Nel 1954 dirige il cupo e introspettivo<br />

Grisbi, storia di un’amicia fra due gangster che<br />

F. Truffaut ha definito “il miglior film noir di<br />

sempre”. Dopo Le avventure di Arsenio Lupin<br />

(1957), nel 1958 dirige Montparnasse, biografia<br />

<strong>del</strong> pittore A. Modigliani sceneggiata da M.<br />

Ophüls poco prima di morire. Il suo ultimo film<br />

è Il buco (1960), memorabile racconto di un tentativo<br />

d’evasione: è forse il punto più alto <strong>del</strong>la<br />

sua carriera, un film girato con asciuttezza e rigore,<br />

capace di restituire un’intensa umanità ai<br />

protagonisti e alla loro estenuante ricerca di libertà.<br />

La sua opera, scabra, prontamente umana,<br />

<strong>François</strong> Truffaut:<br />

JACQUES BECKER, UN ANNO DOPO LA SUA MORTE<br />

impregnata di una psicologia penetrante, rappresenta<br />

uno dei principali raccordi fra il cinema<br />

francese classico e la Nouvelle vague: la capacità<br />

di leggere una realtà scomoda e mai elegiaca si<br />

unisce a un linguaggio cinematografico semplice<br />

e diretto che coglie l’intima essenza <strong>del</strong>la dimensione<br />

esistenziale – spesso violenta e controversa<br />

– dei suoi personaggi.<br />

(Da: Le Garzantine – Cinema)<br />

Aveva inventato un suo proprio ritmo. Amava la velocità in auto, i pranzi molto lunghi, girava film<br />

di due ore su soggetti da quindici minuti, parlava per <strong>del</strong>le ore al telefono.<br />

Era scrupoloso e riflessivo, di una <strong>del</strong>icatezza infinita. Amava filmare minuziosamente le cose insignificanti,<br />

un biglietto di lotteria o un gilet smarrito, ma ha superato i suoi limiti volontariamente e<br />

coraggiosamente molte volte alla fine di Casque d’or, in Montparnasse 19 e in Le trou.<br />

Attento a tutti i nuovi film, ai nuovi cineasti, facile all’ammirazione e sempre affettuoso, quest’uomo<br />

non conosceva la gelosia professionale. Ammetteva tranquillamente che si potesse fare il suo<br />

stesso mestiere e tuttavia quali inquietudini lo tormentarono verso la fine <strong>del</strong>la sua vita!<br />

Siccome era abbastanza lento e pensava a voce alta, superava spesso i preventivi e, in questi ultimi<br />

tre film, le interruzioni causate dalla malattia aggravarono le cose e compromisero i suoi rapporti<br />

con i produttori.<br />

Negli ultimi tempi il suo viso stupendo era diventato grigio acciaio, o più esattamente <strong>del</strong> colore di<br />

un’automobile metallizzata.<br />

Dopo l’uscita <strong>del</strong> mio primo film, lo incontro proprio quando terminava Le trou e mi dice: “E<br />

soprattutto mi dia retta, metta da parte un po’ di denaro”.<br />

Non ho mai osato raccontare prima d’ora raccontare la mia ultima conversazione con lui al telefono,<br />

due settimane prima <strong>del</strong>la sua morte. Fu <strong>François</strong> Fabian a rispondermi. Le ho chiesto notizie<br />

e mi sono offerto di fare commissioni o qualunque altra cosa. Lei mi disse: “È troppo malato per<br />

- 45 -


parlarle”. Sentii che domandava: “Chi è?” poi prese il microfono. Si esprimeva a fatica e mi disse:<br />

“Va male ma non bisogna che lo sappiano. Quelli non mi farebbero più lavorare”.<br />

Ho esitato prima di raccontarlo, ma mi sono deciso per mostrare la cru<strong>del</strong>tà <strong>del</strong> nostro mestiere e<br />

più generalmente quella di tutti i mestieri <strong>del</strong>lo spettacolo.<br />

(1961)<br />

Filmografia di Jacques Becker<br />

Ultima possibilità (Dernier atout, 1942)<br />

La casa degli incubi (Goupi - Mains – Rouges, 1942)<br />

Falbalas (1944)<br />

Amore e fortuna (Antoine et Antoinette, 1946)<br />

Le sedicenni (Rendez-vous de juillet, 1949<br />

Edoardo e Carolina (Edouard et Caroline, 1951)<br />

Casco d’oro (Casque d’or, 1952)<br />

Alì Babà (Ali Baba et les quarante voleur, 1954)<br />

Grisbi (Touchez pas au grisbi, 1954)<br />

Le avventure di Arsenio Lupin (Les aventures d’Arsène Lupin, 1957)<br />

Montparnasse (Montparnasse 19, 1958)<br />

Il buco (Le trou, 1959)<br />

IL FILM DELLA RASSEGNA:<br />

Il buco<br />

Da vedere, inoltre:<br />

Casco d’oro<br />

Grisbi<br />

IL BUCO<br />

(Le trou, 1959)<br />

Regia: Jacques Becker<br />

Durata : 145'<br />

Intrepreti : Michael Constantine, <strong>Jean</strong> Keraudy, Philippe Leroy,<br />

Raymond Meunier, Marc Michel, Catherine Spaak<br />

La trama<br />

(attenzione : viene svelata la fine <strong>del</strong> film)<br />

Il giovane Gaspard, detenuto in attesa di giudizio, viene trasferito in un'altra ala <strong>del</strong> carcere.<br />

Deve dividere la cella con quattro "anziani", tutti prossimi alla condanna definitiva<br />

per reati vari e gravi. Sono il simpatico e loquace Monsignore, il silenzioso Geo,<br />

L'irascibile e sospettoso Manu e il più saggio Roland. I galeotti diffidano <strong>del</strong> nuovo arrivato, sulla cui testa pesa però<br />

un'accusa di tentato omicidio <strong>del</strong>la moglie. Tradotto in soldoni significa dieci anni. È uno di loro. Lo si può dunque coinvolgere<br />

nel progetto di evasione. I quattro, infatti, vogliono perforare il pavimento di cemento e scavare un buco verso<br />

la libertà. È una cosa fattibile, occorre pazienza e costanza, oltre a una rigorosa organizzazione dei turni di guardia e di<br />

scavo. Gaspard accetta di essere <strong>del</strong>la partita, ma durante un colloquio con il direttore, che lo ha preso in simpatia, viene<br />

a sapere che la moglie sta per ritirare la denuncia. Il giovane, prossimo alla libertà, denuncia i compagni, che la notte<br />

<strong>del</strong>l'evasione vengono bloccati dalle guardie e portati in isolamento.<br />

(Da: Mauro Gervasini, Cinema poliziesco francese, Le Mani, 2003)<br />

- 46 -


Hanno detto <strong>del</strong> film<br />

I film di Jacques Becker mi richiamano sempre alla mente una frase di Valéry: “Il<br />

gusto è fatto di mille disgusti”. D’altronde quando Becker parlava <strong>del</strong> prossimo film<br />

che avrebbe girato la parola che ripeteva più spesso era diffidenza. Al telefono, or non<br />

è molto: “Sto per fare I tre moschettieri ma diffidate, il film si fermerà al ritorno dei<br />

ferretti, e saranno già due ore…”.<br />

In questa frase c’è tutto Becker: la diffidenza e la preoccupazione <strong>del</strong>la durata.<br />

Le trou è un film superbo, superbamente concepito, scritto, realizzato, montato, sonorizzato. È , per<br />

fortuna, il miglior film di Jacques Becker, per fortuna perché i critici che saranno all’occorrenza dei<br />

notai, potranno aprire un buon testamento.<br />

È infatti di un testamento che si tratta e sono pochi i film attraverso i quali si intuiscono a tal punto<br />

le riflessioni <strong>del</strong>l’artista lungo questo doppio cammino.<br />

Becker fu il cineasta più riflessivo <strong>del</strong>la sua generazione, il più scrupoloso, quello che si poneva più<br />

problemi. Se la critica non poteva insegnargli niente, è che aveva nella sua testa passato e ripassato<br />

tutti i problemi. (…)<br />

Concependo Le trou, poi girandolo e montandolo, Becker doveva stranamente diffidare; ciò si avverte<br />

a ogni immagine: Di cosa diffidava quest’uomo per il quale un film in lavorazione era innanzi<br />

tutto una sorta di “percorso di guerra” allestito in piena giungla, cioè non solo irto di ostacoli, ma<br />

minato a ogni passo, ventiquattro volte al secondo? Diffidava prima di tutto <strong>del</strong> versante “piccolo<br />

gruppo di uomini imprigionati”, trappola che era stata fatale a non pochi suoi colleghi. Seconda trappola:<br />

“la solidarietà dei duri” che porta agli scambi di sguardi commossi e al sentimentalismo di<br />

ritorno. Terza trappola, una <strong>del</strong>le più difficili da evitare: il lessico da prigione e il gergo poetico.<br />

Becker ha evitato tutte queste trappole e mi sembra che Le trou sia inattaccabile sia nei particolari<br />

che nell’insieme. Alcuni deploreranno forse i limiti <strong>del</strong>l’impresa ma questo rimprovero è inutile in<br />

quanto Becker è stato un cineasta limitato, che ha voluto limitarsi conoscendo i suoi limiti, imponendosi<br />

dei limiti, sforzandosi a sua volta di superarli, a volte di rispettarli ma giocando a scontrarsi<br />

con essi e dandoci così i momenti migliori <strong>del</strong>la sua opera (…).<br />

( <strong>François</strong> Truffaut. I film <strong>del</strong>la mia vita. Marsilio, 1978)<br />

(…) Tesissimo, angosciato, costruito con inquadrature di rigorosa geometria, scandito<br />

non dalla musica ma dai rumori ossessivi <strong>del</strong>la vita carceraria, è la ricostruzione<br />

pedante e minuziosa di una disperata voglia di libertà, testamento e metafora di un pessimismo<br />

cupo e totale.<br />

(Paolo Mereghetti: Il Mereghetti. Dizionario dei film)<br />

Da un romanzo (1957) di José Giovanni. Nel 1947 nel carcere <strong>del</strong>la Santé di Parigi cinque<br />

detenuti tentano di evadere scavando una galleria. Uno di loro tradirà. Ultimo film<br />

di J. Becker e con Casco d’oro uno dei suoi capolavori, ormai considerato un “classico”<br />

<strong>del</strong> cinema francese, opera che fa da cerniera tra i film cosiddetti “di qualità” e<br />

quelli <strong>del</strong>la Nouvelle Vague. Racconta un gruppo di criminali con la loro dignità di<br />

uomini. Un inno alla libertà, ma anche alla pazienza, all’amicizia, alla solidarietà.<br />

Un’epopea alla Bresson, senza enfasi oratoria né messaggi umanitari.<br />

(Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film)<br />

(…) Il buco è un film aspro, coriaceo, dalla messa in scena geometrica che non può<br />

non ricordare, per brutale asciuttezza, quella di Un condannato a morte è fuggito di<br />

Robert Bresson. Il mo<strong>del</strong>lo è alto, ma il lavoro sul rapporto tra iconografia e rumore<br />

è molto simile, tanto che entrambi i film sembrano dispiegare sullo schermo una plumbea<br />

estetica <strong>del</strong> cemento, <strong>del</strong> ferro, degli oggetti. (…)<br />

Becker non è Bresson, è attento alle esigenze <strong>del</strong>la narrativa popolare. In Il buco si<br />

- 47 -


itrovanmo tutte le situazioni tipiche <strong>del</strong> prison movie, soprattutto è realistica la descrizione <strong>del</strong>la vita<br />

quotidiana di chi sta in carcere. (…) Senza mai andare sopra le righe con gli stereotipi, perché anche<br />

la violenza <strong>del</strong> luogo deve essere soprattutto di tipo psicologico, più intuita che vista.<br />

Già, il luogo. La grandezza <strong>del</strong> film sta nel rendere il carcere un corpo mostruoso e cupo ma con un<br />

suo linguaggio, una sua morale. (…)<br />

Tremendo capolavoro e film testamento. Jacques Becker, affetto da una rara e implacabile malattia<br />

<strong>del</strong> sangue, termina le riprese di Il buco ben sapendo che non rivedrà più un set. Ma la sua opera permette<br />

al polar di fare un salto di qualità: non più storie “letterarie” di regolamenti di conti per strada<br />

ma stile visivo, durezza di linguaggio, regole di messa in scena, ispirazione narrativa. Un noir<br />

d’autore che infatti, caso più unico che raro, viene esaltato anche dai Cahiers e dalla critica engagée.<br />

(Mauro Gervasini, Cinema poliziesco francese, Le mani, 2003)<br />

- 48 -


Sommario<br />

Introduzione.................................................pag. 3<br />

I Cahier du Cinéma...................................... “ 3<br />

La Nouvelle Vague....................................... “ 5<br />

Cannes 1959................................................. “ 7<br />

I registi <strong>del</strong>la Rive gauche............................ “ 9<br />

Il cinema e il ‘68.......................................... “ 10<br />

Vedere oggi la Nouvelle Vague................... “ 11<br />

I protagonisti............................................... “ 13<br />

<strong>François</strong> Truffaut......................................... “ 13<br />

I quattrocento colpi......................... “ 16<br />

Tirate sul pianista........................... “ 20<br />

Antoine e Colette............................. “ 22<br />

<strong>Jean</strong>-<strong>Luc</strong> Godard......................................... “ 24<br />

Questa è la mia vita........................ “ 26<br />

Claude Chabrol........................................... “ 29<br />

Stephane, una moglie infe<strong>del</strong>e........ “ 31<br />

Eric Rohmer................................................ “ 33<br />

La mia notte con Maud................... “ 35<br />

Jacques Rivette........................................... “ 37<br />

Quelli <strong>del</strong>la Rive gauche: Alain Resnais.... “ 38<br />

La guerra è finita............................ “ 40<br />

Quelli <strong>del</strong>la Rive gauche: Chris Marker..... “ 43<br />

La jetée............................................ “ 43<br />

I “Maestri”: Jacques Becker........................ “ 45<br />

Il buco............................................. “ 47

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!