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Giulia Clarkson, La città d'acqua - Sardegna Cultura

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GIULIA CLARKSON<br />

LA CITTÀ D’ACQUA<br />

IL MAESTRALE


NARRATIVA


Editing<br />

Giancarlo Porcu<br />

Grafica<br />

Nino Mele<br />

Imago multimedia<br />

© 2003, Edizioni Il Maestrale<br />

Via XX Settembre 46 - 08100 Nuoro<br />

Redazione: via Massimo D’Azeglio 8 - 08100 Nuoro<br />

Telefono e Fax 0784.31830<br />

E-mail: edizionimaestrale@tiscalinet.it<br />

Internet: www.edizionimaestrale.it<br />

ISBN 88-86109-66-0<br />

GIULIA CLARKSON<br />

<strong>La</strong> <strong>città</strong> d’acqua<br />

IL MAESTRALE


A Matteo Raffaele


Capitolo I<br />

Seguace del cadenzato scrosciare dell’acqua, rimuovo<br />

alghe centenarie dagli occhi di una muta testa di donna.<br />

Peso le dita grosse e maldestre cui le sedimentazioni del<br />

tempo, affezionate al volto d’argilla come fossili di un’unica<br />

materia, tentano di resistere. Incido e raschio via senza<br />

mai azzardare un movimento che non abbia la dovuta<br />

accortezza. Una lametta affilata, stretta con la lenza attorno<br />

al bastoncino di un ghiacciolo alla menta da trenta<br />

lire, è il mio strumento di precisione.<br />

Salvatore dice che è il volto di <strong>Giulia</strong>, prima moglie di<br />

Tigellio, il romano della villa dietro Corso Vittorio Emanuele.<br />

L’ha ritrovata lui, la testa. Come molte altre cose<br />

che non mostra a nessuno. Anfore, cocci di ceramica e persino<br />

ossa molto antiche. Tiene tutto dentro una cesta di<br />

vimini, sotto il lavandino. E i pezzi che non ci stanno, come<br />

quell’elica di aeroplano che non è un esemplare da<br />

museo ma tra breve lo diventerà, li ficca nel deposito degli<br />

attrezzi, in mezzo alle nasse, ai coppi e alle griglie.<br />

9


Questa Donna <strong>Giulia</strong> non è stata molto consumata dal<br />

tempo. Per essere millenaria si conserva più che bene; si<br />

direbbe che gli agenti della laguna le abbiano giovato.<br />

Gli occhi, lucenti intarsi di ceramica, mi obbligano alla<br />

maggiore fatica. Non voglio scalfire l’azzurro che l’acqua<br />

ha serbato così sgargiante, grazie ai vegetali tentacolari<br />

che lì hanno nidificato. <strong>La</strong> donna che amerò avrà gli occhi<br />

di questa medesima sfumatura simile a quella del cielo<br />

estivo di maestrale, quando l’acqua della laguna si abbassa<br />

e bisogna camminare a lungo, prima di arrivare a un<br />

metro di profondità.<br />

Dunque ti bacio, testa della nobiltà romana naufragata<br />

in un metro d’acqua paludoso tra il dolce e il salmastro,<br />

liminare della terra e antiporto del mare. Ti bacio<br />

perché ti faccia pellegrina del mio bacio per altrettanti<br />

millenni, fino a quando nella donna che amerò non sorgerà<br />

il desiderio del mio amore. Ti donerò a lei non appena<br />

sarai perfetta e talmente bella che non potrà non<br />

commuoversi guardandoti; e guardandoti penserà a me<br />

che ho smosso secoli di concrezioni per lei; lei che ad<br />

ogni nuova alba mi induce ad immergermi con la griglia<br />

e frugare sotto la sabbia affinché l’anello del nostro<br />

amore risalga dall’acqua, avvinto nei filamenti del setaccio.<br />

<strong>La</strong> pioggia precipita ora con maggiore intensità. Si eccita<br />

sui legnami del villaggio, pesta intontita e ottusa sui<br />

tetti di lamiera, si sgretola dimentica di sé e di chiunque<br />

abbia deciso di mettersi a lavoro.<br />

Ingialliti delle cerate fin sopra la testa, gli uomini si incamminano<br />

per la spiaggia fino alla battigia. Tempo di<br />

mormore, dicono quando piove, e una dopo l’altra distendono<br />

le lenze sull’acqua in un sibilo tagliente. Configgono<br />

le canne nella sabbia come pali dell’alta tensione e attendono,<br />

al riparo di un ombrellone, con lo sguardo lungo,<br />

sulla distesa grigia di cielo e mare. Nell’acuto silenzio<br />

in cui si fa percettibile il goccioloso mischiarsi delle acque,<br />

osservano il declinare lento della <strong>città</strong>, oltre il molo di ponente.<br />

Quasi volesse punirmi per le mie divagazioni, la testa<br />

della nobildonna romana mi scivola dalle mani. Si volta a<br />

guardare la terra. Per fortuna riesco ad afferrarla prima che<br />

la sporgenza del naso, già plasmata in una sagoma timida<br />

e rarefatta, rovini al suolo. <strong>La</strong> lama che ancora tengo tra le<br />

dita provoca una leggerissima incisione dietro l’orecchio,<br />

sul farsi del bel collo levigato e bruscamente interrotto.<br />

Abbozza una ferita minuscola che non muta Donna <strong>Giulia</strong><br />

in nessun rispetto, ma si abbatte su di me come una<br />

minaccia.<br />

* * *<br />

Dice Salvatore che quando aveva la mia età bastava<br />

scendere in acqua una volta sola, allo spuntare dell’alba,<br />

per farsi la giornata. <strong>La</strong> sabbia pullulava di arselle e ovunque<br />

si poggiassero i piedi se ne calpestavano di numerose.<br />

Quelle respiravano a piene branchie, senza paura di<br />

farsi scoprire: una colonia in più o in meno da un giorno<br />

all’altro non rischiava certo di impoverire la specie. Gli<br />

antichi le equiparavano a uno scrigno, per via delle valve<br />

dentro le quali racchiudono ogni ricchezza. Ma soprattutto<br />

piaceva loro pensarle imparentate alle Veneri del<br />

mare, esseri di femminea bellezza da cui ogni amore promana.<br />

Queste conchiglie ritrose si dischiudono a fogu ardenti e<br />

così, al calore del fuoco, rilasciano la sabbia trattenuta nel<br />

guscio.<br />

– Arselle buone e fresche, appena pescate. Di questa<br />

mattina, signora. Di Giorgino, signora. Certo che sono di<br />

Giorgino. Grazie signora, fanno settecentoventicinque lire<br />

e buon appetito; vedrà che delizia, gusterà ad ogni boccone<br />

il sapore del mare.<br />

Salvatore rifornisce da decenni anche i migliori risto-<br />

10 11


anti della <strong>città</strong>. Le signore fanno la fila e non hanno da<br />

lamentarsi. Per gustarle veraci le fanno scottare in un filo<br />

d’olio con uno spicchio d’aglio e le mischiano agli spaghetti,<br />

cospargendo tutto col prezzemolo. È un piatto rapido<br />

e saporito.<br />

In alternativa le mettono a cuocere nell’acqua che poi<br />

verrà colata, attraverso uno strofinaccio, nel bricco d’argilla<br />

dov’è un sugo di pomodori, cipolla, aglio, un pezzo<br />

di finocchio e infine prezzemolo. Si mescola lentamente,<br />

a fuoco lento questa volta, unendo la buccia grattata di un<br />

limone, un bicchiere di vino, sale e un pizzico di pepe.<br />

Per ultime si gettano le arselle. E via, la zuppa di còcciulas<br />

in bagna, è pronta. È un portento, quando le arselle sono<br />

grandi e satolle.<br />

Fino a non molto tempo fa vendevamo sia al mercato<br />

che per strada, su un banchetto velocemente montato di<br />

fianco all’apixedda, mezzo di trasporto indispensabile, per<br />

quanto lento e macchiato dalla ruggine. A me piace viaggiare<br />

sul cassone di dietro, con l’aria che mi scompiglia i<br />

capelli. Salvatore, grembiale verde-petrolio e capello di<br />

lana rimboccato sulle orecchie anche in agosto, si appostava<br />

ogni mattina di fronte all’ingresso della stazione,<br />

nella piazza attraversata da passanti e pendolari. “L’arsellaro<br />

col berretto”, lo chiamano quelli che vengono a cercarlo<br />

da oltre il ponte della Scaffa.<br />

– Ajò a traballai! – urla perché gli passi i secchi d’acqua<br />

ribollenti dei respiri delle conchiglie cornute che<br />

bisogna tenere lontano dal sole. Devono fare la loro bella<br />

figura sotto gli sguardi delle donne.<br />

– Còcciulas appena pescate, fresche e già spurgate…<br />

Grida come se fosse al mercato, scacciando con il piede<br />

i piccioni beccheggianti e con la mano le mosche attirate<br />

dall’odore dei frutti di mare.<br />

Oltre che per le arselle e la ciccìa arancione Salvatore<br />

è famoso per essere stato un abile cacciatore di anguille.<br />

Ho dieci anni e sono fiero di pescare con Salvatore. Co-<br />

nosce lo stagno talmente bene che sa come inoltrarsi anche<br />

nei canali interni, quelli dove l’acqua è più dolce e<br />

crescono alti i canneti.<br />

– Sono belle e ribelli come le code spezzate del diavolo,<br />

– dice tirando su il coppo che vibra delle scudisciate<br />

con cui le guizzanti serpi d’acqua, viscide e irrequiete tra<br />

le maglie della rete, sferzano i loro colpi.<br />

– Agitatevi pure, anime del demonio, – ghigna alle<br />

bestie senza più pace.<br />

Rovescia il coppo nel secchio. Quelle, con un’ultima<br />

frustata che fa schizzare l’acqua per tutto il ciu - la nostra<br />

barca dal fondo piatto - si placano, allungandosi in una<br />

circonferenza appena più stretta del recipiente in cui sono<br />

prigioniere. Nuotano in un inutile verso. Smaniano a brevi<br />

intervalli quando si scontrano tra loro, oppure quando<br />

percepiscono, per un intuito inspiegabile altrimenti che<br />

con un’intelligenza animale, che da quel secchio finiranno<br />

dritte in un pentolone d’acqua bollente o sulla griglia,<br />

trafitte da parte a parte.<br />

Ho dieci anni e sono molto magro; forse per questo sono<br />

sempre avido ed affamato.<br />

– Falli cuocere bene, – mi grida Salvatore vedendo che<br />

mi accingo a mordere uno degli spiedini che arrostisco<br />

sulla brace. – Non ti devi fidare. Hanno il veleno dentro,<br />

quelle figlie del diavolo. <strong>La</strong>sciale bruciare come all’inferno,<br />

prima di toglierle dal fuoco.<br />

Rimetto sulla griglia la lunga anguilla ritorta. Una fiammata<br />

vaporosa si alza dalla brace con un sibilo. Salvatore<br />

si avvicina, solleva lo spiedino e me lo sventola davanti, redarguendomi<br />

con tono biblico.<br />

– Guarda qui, – dice indicando, con l’amo su cui infilzo<br />

le pance dei rettili e dei topi, la parte della pelle<br />

immediatamente dietro la testa. Sulla linea più scura<br />

che l’attraversa Salvatore strofina su e giù, su e giù, su e<br />

giù… E man mano compaiono, come i delfini delle cinque<br />

lire sul foglio annerito dalla matita, i segni di un<br />

12 13


gioco esperto. Una miriade di trattini obliqui che si intersecano<br />

di continuo, in un dedalo di sconfinate possibilità.<br />

Il mio occhio insegue una traiettoria ed è subito<br />

dirottato; fugge lungo la direzione opposta per voltare<br />

presto a novanta gradi e risalire di un nuovo gradino alla<br />

volta della coda dell’animale.<br />

Inconsapevole del gioco del mio sguardo, Salvatore infila<br />

l’uncino sotto la pelle dell’anguilla fumante e, con<br />

uno scatto improvviso della mano, la strappa verso l’alto,<br />

lacerandola. Vuole di sicuro impressionarmi.<br />

– Vedi? Fosse stata cotta a dovere sarebbe venuta via<br />

come un pezzo di stoffa rinsecchito dal sale. Invece si<br />

strappa a brandelli, è ancora tutta molle.<br />

Ne ha straziato la pelle in un impeto d’odio. So che<br />

non ha mai perdonato alla specie la sua voracità: gli è<br />

costata una profonda ferita tra il pollice e l’indice della<br />

mano destra, una febbre di diversi giorni e la cicatrice<br />

che ancora oggi rivela l’appiglio delle piccole punte ferine.<br />

A me che non le ho mai pescate sembra sempre che sorridano,<br />

le anguille, con le labbra rigonfie e gli occhietti<br />

tondi e cretini.<br />

<strong>La</strong>scio che la loro anima si sciolga assieme al grasso e il<br />

sangue ribolla fino a sbiancare in un pallore candido. Il<br />

muco si asciuga, le squame si fanno ispide. Finalmente<br />

posso levarle dal fuoco. Ora che sono ben cotte le immergo<br />

nella vernaccia dei frati. Salvatore dice che è la<br />

migliore: non c’è chi superi quei religiosi, in fatto di vini<br />

e liquori. È fiero dell’intero ordine e non solo per la<br />

vernaccia. Gli piace da morire che quei frati camminano<br />

scalzi. Anche lui quando può si mette a piedi nudi come<br />

da bambino. Non si stanca di ripetere che abbiamo bisogno<br />

di mantenere il contatto con la terra, altrimenti la<br />

testa se ne va fra le nuvole e chissà se ritorna.<br />

– E pensare che molti babbei firmano cambiali, per<br />

potersi comprare calzature chiuse e pesanti. Credono di<br />

farsi signori, così, – borbotta, scontroso come al solito.<br />

Ogni domenica pomeriggio Salvatore attraversa il ponte<br />

per fare rifornimento. Alla sera torna al villaggio nell’euforia<br />

generale. Tutti attendono gli assaggi dei religiosi.<br />

– Versa, versa, nel nome del Signore, ché il sangue me<br />

lo devo aggiustare come posso e se è opera dei frati non<br />

è peccato ma bene di Dio.<br />

I frati scalzi barattano vernaccia, mirto e ceste di paglia<br />

con pesce fresco e arselle fino ai miei quindici anni. A<br />

una settimana esatta dalla quaresima del 1970 Salvatore<br />

apre le ultime bottiglie di loro produzione. Sono stati<br />

trasferiti in un’isola greca che si trova con difficoltà persino<br />

sulle carte geografiche, tant’è piccola e confusa negli<br />

arcipelaghi dell’Egeo.<br />

I tavolini del bar di Agostino sono tutti pieni. <strong>La</strong> fotografia<br />

con l’autografo di Gigi Riva troneggia sopra le<br />

bottiglie, in bella mostra dietro al bancone. Si beve per<br />

la vittoria che porterà a un altro scudetto. O per la sconfitta<br />

dalla quale bisogna ritemprarsi. Comunque sia si<br />

beve, davanti ai grigi televisivi.<br />

Ce n’è ben più d’una sorsata per tutti, anche per Agostino<br />

e per le donne che tengono lontani i bambini dagli<br />

orli dei bicchieri che, fieri, i padri avvicinano loro. Si festeggia<br />

in allegria, tra i ringraziamenti ai grandi rossoblù,<br />

al mitico Giggi e alla Madonnina dei pescatori.<br />

Più tardi, nella notte, l’euforia domenicale si placa e<br />

uno dopo l’altro si esce dal bar. Nel buio, smorzato appena<br />

dalla <strong>città</strong> che brilla in lontananza, ognuno cerca la<br />

sua ispirazione tra le stelle elargendo il solito, personalissimo,<br />

lascito all’acqua.<br />

Quando Salvatore rincasa, io sono a letto da un pezzo.<br />

Si porta dietro il sapore acre e dolciastro del mirto a cui è<br />

conferito l’onore dell’ultimo bicchiere. Se non è troppo<br />

freddo si sciacqua mani e ascelle nella tinozza dell’acqua<br />

dolce. Altrimenti si infila sotto le coperte appiccicandosi<br />

14 15


a me in cerca di calore. Io mi scosto, gli lascio l’angolino<br />

che ho faticato a rendere confortevole e mi raggomitolo<br />

sul margine del materasso. Se non riesco ad addormentarmi<br />

prima di lui, è capace di tenermi sveglio fino a tardi:<br />

precipita rapido nel sonno e russa come un maiale. Spesso<br />

basta l’ansia del suo grugnire, a tenermi sveglio. Allora,<br />

con gli occhi chiusi per la stanchezza e la testa gonfia,<br />

anche per via di qualche bicchierino che non mi viene<br />

mai lesinato, finisco per affidarmi a un ondeggiare magnetico<br />

di fili e reti scolorite dal sole, arancio e azzurrine,<br />

fagocitanti come sguardi silenziosi che chissà quali<br />

pensieri nascondono.<br />

Alle quattro del mattino Salvatore è già pronto a salire<br />

sul ciu. Le anguille abboccano soprattutto durante la notte.<br />

Sono ghiotte delle lucertole e dei topi che io catturo<br />

per loro. Sono capace di riempire anche tre sacchi interi<br />

di lucertole e un quarto di altri esserini di cui ignoro i nomi.<br />

Se ne trovano a carrettoni, sotto i cespugli che crescono<br />

sulla terra sabbiosa, lungo i percorsi che intersecano<br />

la laguna. Non è semplice afferrarli, bisogna prenderli<br />

di sorpresa ed essere più veloci di loro. Oppure usare le<br />

trappole; ma con quelle sono capaci tutti.<br />

A volte sto ad osservarli, dopo che li ho catturati. Mi fa<br />

sempre uno strano effetto constatare che, pur essendo di<br />

specie diverse, non si mangiano l’un l’altro. Soprattutto<br />

mi stupisce che attendano così pacificamente il momento<br />

della capitolazione: sono prede in punto di morte e se<br />

ne stanno immobili. Silenziose. Con gli occhi spalancati,<br />

anche quando richiudo il sacco e il buio si fa nero e gelido.<br />

Ora ho diciotto anni e so che Santa Gilla è una laguna,<br />

anche se a nessuno interessa sottolinearlo. Lo stagno di<br />

Cagliari o la laguna di Santa Gilla, dicono indifferentemente.<br />

Comunque la si voglia chiamare è certo che le anguille<br />

sono scomparse da parecchio. Con Salvatore scendiamo<br />

in <strong>città</strong> a vendere arselle solo il giovedì e il saba-<br />

to, perché non c’è più il tanto per ogni santo giorno della<br />

settimana.<br />

* * *<br />

Il lungo ponte della Scaffa separa il villaggio di Giorgino,<br />

chiamato in nostro onore “dei pescatori”, dal resto<br />

della <strong>città</strong>. Nel lontano passato le due rive erano unite solo<br />

da un susseguirsi di imbarcazioni, legate l’una all’altra<br />

con corde e legnami, su cui venivano carrettati uomini e<br />

animali. Funzionava bene nella bella stagione, ma bastava<br />

che arrivassero gli acquazzoni di settembre perché le<br />

assi fossero divelte e le corde si disfacessero. Ogni anno<br />

tutto doveva essere rimpiazzato.<br />

Ancora oggi, quando i temporali gonfiano i fiumi che<br />

si gettano nella laguna con i loro ingombranti carichi di<br />

terra e detriti, le bocche a mare non bastano a dar sfogo<br />

a tanto impeto: le strade e i terreni intorno sono inondati,<br />

qualche cavalcavia crolla e quintali di carciofi marciscono<br />

prima di essere maturi. Le sette peschiere costruite<br />

davanti alle altrettante aperture a mare si fanno<br />

traboccanti di pesce e se non si rischiasse di venir trascinati<br />

via ci sarebbe da farsi ricchi, con tutto quel ben<br />

di Dio.<br />

Molti anni fa l’acqua arrivò a travolgere il ponte appena<br />

costruito da uno dei più illustri, innovativi, stimati<br />

ingegneri del continente, chiamato da Napoli in tutta<br />

fretta ed onori. Salvatore me l’ha raccontato come a<br />

lui lo raccontò suo padre mentre, con le schiene curve,<br />

tiravamo i palamiti sulla barca. Da Castellammare di<br />

Stabia avevano attraversato il Tirreno le strutture predisposte<br />

alla realizzazione del primo sistema di ponti metallici<br />

ad arco. L’impianto poggiava su grossi basamenti<br />

ed era tenuto alle estremità da reticolati in lamiera, intagliati<br />

ad archetti. Era elegante, slanciato, robusto. Fu<br />

definito un gioiello dell’ingegneria civile e divenne su-<br />

16 17


ito il vanto della <strong>città</strong>. Sant’Efisio lo attraversò per primo<br />

in un clima smanioso ed eccitato, annaffiato da fiumi<br />

di vino ed orgoglio cittadino. Tuttavia sul finire dei<br />

festeggiamenti, come spesso avviene in occasione delle<br />

uscite del Santo, il cielo s’era intristito e la pioggia era<br />

scesa a sgualcire gli ariosi cappelli delle dame eleganti e<br />

i fazzoletti scuri delle popolane.<br />

Il temporale del disastro si era acceso nell’ora dell’Ave<br />

Maria e in poche ore era diventato di proporzioni disumane.<br />

Da un lato il mare ruggiva, gonfio delle onde di<br />

scirocco; dall’altro i fiumi in piena gorgogliavano, sovrastando<br />

la laguna. In <strong>città</strong>, nelle case della Marina e in<br />

più d’una bottega di Stampace, crollarono soffitti e muri.<br />

Molti incauti pescatori tentarono di fare incetta dei<br />

pesci che numerosi rimanevano intrappolati nelle peschiere.<br />

Il padre di Salvatore, che aveva già conosciuto<br />

l’impeto delle acque trascinate dai temporali, distolse<br />

per primo lo sguardo dalle ricchezze che affluivano come<br />

manna al margine della laguna. E ravvisò l’approssimarsi<br />

del disastro. Non c’era più il tempo neanche per<br />

raccogliere il pesce già catturato. <strong>La</strong> potenza dell’acqua<br />

avrebbe in un attimo ricoperto lo stretto istmo oltre il<br />

quale il mare ribolliva, plumbeo e crestato di bianco. Le<br />

acque dolci lievitavano, minacciavano di rendere gli<br />

avannotti al mare, di sommergere Sa Illetta, livellare i<br />

colli, inghiottire il Duomo, l’intero Castello e le torri<br />

pisane.<br />

Il padre di Salvatore cercò riparo al villaggio, sui tetti<br />

delle case, dove già le donne si erano rifugiate con i bambini.<br />

Da lì assistette sgomento alla discesa di una nuvola<br />

bianca trascinata dall’acqua: un intero gregge, rapito dal<br />

pascolo, veniva spinto con furia verso il mare. Di qualche<br />

pecora si sentivano i belati, gemiti simili alle grida di un<br />

neonato; di altre si vedeva ora la testa sparire, risucchiata<br />

di sotto, ora le zampe riemergere, volteggianti nella vana<br />

ricerca di un appiglio. L’acqua scardinava i basamenti del<br />

nuovo ponte che, arco dopo arco, cedeva, affondando nel<br />

fango della laguna.<br />

Nei giorni successivi si ebbe notizia di alcuni pastori<br />

messi in salvo da due ragazzi armati di corde e bastoni, i<br />

quali avevano rischiato la vita per trascinarli all’asciutto.<br />

Nelle acque ormai calme e al cospetto di un tramonto<br />

ammaliatore che rifletteva, nell’ultimo specchio tremulo<br />

della laguna, le sue sfumature rossastre, venne ritrovato,<br />

inviolato nella chiesetta di Giorgino, il cocchio di<br />

campagna che trasportava la statua di Sant’Efisio in processione.<br />

Da più parti si gridò all’ennesimo miracolo del<br />

Santo.<br />

<strong>La</strong> gente aveva pregato, mentre lo scrosciare ininterrotto<br />

dell’acqua sconvolgeva la <strong>città</strong> e i paesi limitrofi. Tuttavia<br />

non tutti furono graziati. In molti giurarono vendetta<br />

e pretesero il risarcimento delle ricchezze perdute,<br />

se non anche degli amici dispersi. In quei giorni, esasperati<br />

per rabbia e impotenza, alcuni pescatori ripresero a<br />

cospargere la superficie dell’acqua di una certa erba, ancora<br />

oggi ben conosciuta, chiamata lua. Vietata dalla legge<br />

ma sempre a disposizione di chi la sa riconoscere, la lua<br />

intossica i pesci che l’inghiottono e li fa risalire sul pelo<br />

dell’acqua già storditi o addirittura morti. A quel punto<br />

basta un semplice gesto del coppo per tirare in barca<br />

un facile guadagno. Naturalmente un imprecisato numero<br />

di persone, compresi alcuni tra gli stessi pescatori che<br />

non disdegnarono quei pesci, ne fece le spese, trascorrendo<br />

più di una la notte tra vomiti, coliche, brividi e diarree.<br />

Il primo maggio di quell’anno i lavori per il ripristino<br />

del ponte erano ben lontani dall’essere ultimati. Efisio il<br />

Santo dovette rassegnarsi a percorrere un più lungo itinerario,<br />

ritardando l’arrivo a Nora di un giorno. Erano almeno<br />

trecento anni che l’esile statua di Efisio incoronato<br />

attraversava la laguna, in seguito al voto resogli dalla cittadinanza<br />

salvata dalla peste. <strong>La</strong> piccola chiesa di Nora,<br />

18 19


là dove Efisio venne giustiziato, l’attendeva tutta infiocchettata,<br />

infiorata, profumata di festa. L’intero paese l’acclamava.<br />

<strong>La</strong> processione aggirò l’acqua e attraversò il paese<br />

di Assemini che, tra addobbi floreali e folle esultanti,<br />

la onorò con lordi porcetti e brodo di pecora. Ma gli animi<br />

di molti ribollivano in spocchiosi malumori e disaccordi.<br />

Fra i paesi di Uta, Assemini e Capoterra si era accesa,<br />

con sindaci, sacerdoti e farmacisti in testa, una competizione<br />

fiera ed accanita per aggiudicarsi il passaggio<br />

del Santo. Rancori e piccole vendette rimbalzarono da una<br />

famiglia all’altra, da un quartiere all’altro e persino tra i<br />

municipi. Sarebbero durati lunghi anni se, nel corso di<br />

una zuffa, un dito della statua del Santo non fosse schizzato<br />

via per il colpo di una lama netto e ben dato, sferrato<br />

da una leppa impugnata per giungere a tutt’altra destinazione.<br />

Qualcuno urlò che dal dito amputato della statua<br />

sgorgava del sangue. Ci fu un lungo coro di sgomento<br />

e nel silenzio che seguì tutti quanti, donne e uomini,<br />

si inginocchiarono ai piedi del Santo e supplicarono il suo<br />

perdono, pieni di timore. E così, finalmente, le ostilità si<br />

placarono.<br />

Molto tempo dopo sarebbe arrivato anche per la laguna<br />

il giorno del cemento. Un ponte a sei arcate, alte<br />

quanto era necessario perché le maone cariche di sale potessero<br />

passarvi di sotto, ricongiunse le baracche dei pescatori<br />

al resto della <strong>città</strong> e ripristinò la strada della processione.<br />

Con i fondi stanziati dalla Legge del miliardo<br />

cominciarono i pesanti lavori di industrializzazione. Le<br />

saline, rinnovate e ammodernate dalla gestione dei Conti<br />

Vecchi, ripresero a lavorare a pieno ritmo. In quei<br />

giorni diverse ciminiere si innalzarono attorno all’acqua.<br />

<strong>La</strong> laguna divenne protagonista privilegiata dello sviluppo<br />

cittadino e al suo interno fu creato l’idroscalo, da subito<br />

sede dei prestigiosi appuntamenti dell’aeronautica<br />

del tempo.<br />

Anche i pescatori di Giorgino, che vivevano ancora<br />

nelle baracche di legno, senza servizi né comodità, si sarebbero<br />

avvantaggiati dei benefici della grande nazione.<br />

Il villaggio fu ricostruito di pietre, calce e mattoni; le<br />

abitazioni innalzate a due piani, con tanto di stanze separate<br />

da muri e porte. Salvatore prese possesso della casa<br />

accanto alla chiesa, sovrastata da una Madonna magra<br />

e smunta. È la Madonna di Fatima, ma nessuno la chiama<br />

mai così.<br />

Il ponte di cemento è stato la strada della mia infanzia,<br />

l’unica che unisce Giorgino al resto della <strong>città</strong>.<br />

* * *<br />

Io e Salvatore abitiamo ancora di fianco alla chiesa. <strong>La</strong><br />

cucina dà sulla piazza in cui la gente si riversa la domenica<br />

a mezzogiorno, all’uscita dalla funzione. Per l’occasione<br />

mi affretto a tirare dentro i panni, anche se devono<br />

terminare di asciugare. Salvatore mi prende in giro ma io<br />

insisto: è indecente lasciare sotto gli occhi di tutti le nostre<br />

mutande. Passano le donne e le ragazze e, sebbene so<br />

che non accadrà mai, dato che vive di sicuro oltre il ponte,<br />

immagino sopraggiungere colei che sono destinato ad<br />

amare. Non posso certo rischiare di perdere la faccia per<br />

una simile sciocchezza. Come potrei rivolgerle la parola,<br />

dopo un imbarazzo del genere?<br />

Invece Salvatore se ne frega. Le donne non sembra neanche<br />

guardarle. È sempre lì a ripetere che quelle, di cose<br />

vergognose, ne fanno e ne pensano ben più di ciò che lasciano<br />

vedere. Figurarsi se arrossiscono per due paia di<br />

mutande di maschi stese al sole ad asciugare.<br />

Salvatore mi urta, mi provoca volutamente, lo so. Fa<br />

con me il gioco che faceva con gli esattori quando aveva<br />

la mia età. Non perché abbia delle idee politiche lui, ma<br />

perché ha bisogno di mettersi in competizione con qualcuno,<br />

quando non c’è il mare ad offrirgli la sfida. Dice<br />

che a quel tempo chiunque si sentiva in diritto di avan-<br />

20 21


zare pretese, anche se era l’ultimo arrivato. C’erano i pescatori<br />

della cooperativa appena costituita, per esempio,<br />

che pretendevano di fare i comodi loro, ignorando chi lavorava<br />

in laguna da generazioni e generazioni. Posso immaginarlo<br />

pestare loro i piedi e mordergli le orecchie, indifferente<br />

alle denuncie per atti di cannibalismo.<br />

Ancor oggi si vanta con soddisfazione della gesta eroiche<br />

di allora. Una volta fu portato davanti al potestà cittadino<br />

per aver reciso l’orecchio di tale Peppineddu Sanna,<br />

un furbastro che aveva capito come arricchirsi facilmente,<br />

poco importava con quali mezzi.<br />

– Si era fatto crescere i capelli per ricoprire l’insulto<br />

con cui l’avevo marchiato, quel maiale! Pretendeva un<br />

decimo delle mie anguille come quota per il mantenimento<br />

della cooperativa, la serpe. Come se io ci tenessi,<br />

a farne parte.<br />

<strong>La</strong> cooperativa era naturalmente quella fascista e non<br />

pretendeva alcun atto di formale adesione. Salvatore fu<br />

costretto a pagare come tutti, sebbene poi risarcisse il<br />

suo amor proprio con uomini come Peppineddu, il quale<br />

si sarebbe lasciato strappare anche l’altro orecchio pur<br />

di non dover denunciare l’insulto subìto. E infatti a portare<br />

Salvatore davanti al potestà, quella volta, era stato<br />

un collega di Peppineddu che voleva metterlo ben bene<br />

in ridicolo.<br />

<strong>La</strong> cooperativa godeva di numerosi simpatizzanti, al<br />

villaggio. Si faceva banditrice di convincenti discorsi sui<br />

vantaggi del progresso ed erano molte le ingiustizie quotidiane<br />

da cui dispensava. Il progresso era associato all’elettricità<br />

e l’elettricità a ghiacciaie sempre funzionanti,<br />

notte e giorno, estate e inverno; il che, si capisce, sollecitava<br />

la sensibilità di ogni pescatore che non avrebbe più<br />

dovuto trasportare sulle carriole o a spalla, avvolti nelle<br />

coperte che arrivavano zuppe, nelle giornate in cui il sole<br />

ne scioglieva più della metà durante il percorso, i blocchi<br />

di ghiaccio acquistati oltre la Scaffa. E significava an-<br />

che la luce nelle strade e un manto nuovo, splendente più<br />

delle stelle, per la Madonnina dei pescatori che vegliava<br />

dall’alto della chiesa. Simili novità erano state sperimentate<br />

con risultati grandiosi in altri porti e paesi: la gente<br />

non smetteva di genuflettersi al cospetto delle autorità<br />

per ringraziare degli inestimabili benefici, si diceva. Solo<br />

una politica decisa, come quella del partito, avrebbe<br />

provveduto a colmare lo svantaggio delle popolazioni più<br />

povere e portato ovunque le condizioni del progresso.<br />

Nel frattempo la cooperativa si beccava un decimo del<br />

pescato, come se non bastasse quello che già doveva essere<br />

pagato agli aguzzini che prelevavano le tasse della<br />

Quarta Regia.<br />

Ogni giorno due o tre controllori messi lì a bell’apposta,<br />

con gli occhi acuti come se si trattasse di difendere<br />

un bene già loro, pesavano quello che i pescatori avevano<br />

tirato via dal mare e dalle acque della laguna. Una simile<br />

imposizione, nonostante sopravvivesse da secoli,<br />

era difficile da dare a intendere a uno come Salvatore.<br />

Fin da ragazzino, quando l’istintività spronava maggiormente<br />

la sua passione per la sfida, Salvatore si è ingegnato<br />

ad inventare metodi per eludere la tassa. Il suo<br />

senso della giustizia è radicato secondo la legge dell’acqua,<br />

la quale stabilisce che ognuno è padrone di quanto<br />

la laguna gli offre. Non mancandogli fantasia né inventiva<br />

si mise all’opera per salvaguardare quanto riteneva<br />

spettargli. Una volta escogitò di legare con la lenza, all’angolo<br />

di poppa del ciu, una sacca traforata, tenuta da<br />

un piombo. <strong>La</strong> gettava in acqua prima di attraccare al<br />

pontile, piena della parte migliore del pescato; e lì la lasciava<br />

fino a quando gli esattori non se ne andavano.<br />

Erano talmente proni ai signori che servivano, che li<br />

trattavano con ogni riguardo: scartavano gli esemplari<br />

che non avrebbero fatto una bella figura sul piatto da<br />

portata ed infilavano in saccoccia spigole, orate e dentici,<br />

che per le loro carni bianche e polpose erano ricercati e<br />

22 23


già allora piuttosto rari. I muggini erano apprezzati solo<br />

se erano gonfi di uova. Nel qual caso i pidocchiosi ritornavano,<br />

qualche tempo dopo, per farsi dare la bottarga<br />

che questa volta non avrebbero consegnato ai padroni.<br />

L’esigevano secca al punto giusto, da poter tagliare a<br />

fette sottili e mangiare col pane civràxiu, condita con appena<br />

un filo d’olio.<br />

– No appu cumprèndiu poitta cussus mandronis dèppinti<br />

pappai a spesas nostras, – si lamentava Salvatore mal tollerando<br />

chi campava sulle spalle degli altri.<br />

Ma non tutti la pensavano come lui. <strong>La</strong> maggior parte<br />

non aveva il suo spirito né la sua creatività e subiva<br />

come inevitabile ciò che era definito un dovere.<br />

Celestino, un povero diavolo che non poteva che stare<br />

con i più forti, era fra quelli incaricati di riscuotere la<br />

Quarta Regia. Arrivava al villaggio regolarmente alticcio.<br />

Tanto più aveva bevuto tanto più era spocchioso e<br />

cercarogne. Aveva avuto la soffiata che certuni, tra i pescatori,<br />

baravano per non pagare il dovuto. E aveva pensato<br />

subito a Salvatore.<br />

– Inzàndusu, Salvatò, m’anti nau chi no sesi mera cuntentu,<br />

chi tenis cos’ ’e murrungiai.<br />

– Deu? – rispose quello, fingendo grande stupore.<br />

– Deu bollu scetti arrengraziaj sa Madonna po cussu chi mi<br />

dònara. Ti pare che mi lamenti?<br />

Scese dalla barca e, dopo aver legato frettolosamente il<br />

ciu al paletto del pontile, corse a inginocchiarsi davanti<br />

alla chiesa della piazza, tirandosi dietro Celestino che<br />

arrancava come poteva.<br />

– Viene, vieni con me: anche tu avrai ragioni per ringraziare<br />

la Madonna, no fìara berus?<br />

Lo obbligava a inginocchiarsi al suo fianco. <strong>La</strong> spavalderia<br />

con cui Celestino aveva pronunciato le prime frasi<br />

cedeva in retroguardia, si avvolgeva su se stessa, rimpiccioliva,<br />

si disputava tra il diritto e l’uniforme, avanzava<br />

in uno sputo d’arroganza e scivolava supina davanti al-<br />

l’aggrinzirsi delle rughe attorno agli occhi di Salvatore.<br />

Era alto la metà Celestino, e assecondava, con la magrezza<br />

e la remissività del corpo, l’austerità di un randagio<br />

seviziato e balbuziente. Ubbidiva alla mano grossa di pescatore<br />

che Salvatore gli spalancava sulla nuca, premendo<br />

verso il basso.<br />

– Alla sempre buona Madre di Gesù che conservi i pescatori<br />

e il frutto del loro lavoro che dà da mangiare ai<br />

padroni e a tutti gli schiavi colleghi di Celestino! Prega<br />

Celestino, alza gli occhi al cielo e poi sprofondali nella<br />

terra, ché a vivere sul mare si capisce quali sono le leggi<br />

da rispettare e quali i bisogni dai quali non si può<br />

prescindere; mentre tu non sai neanche nuotare e ti tieni<br />

lontano dall’acqua perché intuisci che non ti risparmierebbe.<br />

Certo, non è colpa tua se non ti rimane che<br />

obbedire a ordini che non considerano la forza del vento<br />

né la sua direzione; che non si domandano se il mare<br />

monterà fino a inghiottire le barche, o sotto quali coste<br />

è bene cercare riparo per non finire sugli scogli. E il<br />

peggio è che ti sembra di far bene il tuo dovere di uomo,<br />

così conciato sotto una camicia con il collo rigido e<br />

dentro alti stivali perché quello che calpesti non ti sporchi<br />

i piedi. Puzzi di alcol, Celestino. Qui al villaggio il<br />

tuo odore si riconosce e si propaga, quando ti avvicini.<br />

E adesso manda un bacio alla Madonna, sollevati ma tieni<br />

la testa china, prendi il sacco pieno del pesce che anche<br />

oggi ci hai rubato e sparisci. Io pregherò per te, perché<br />

non sia tu a dover tornare, la prossima volta.<br />

Così Celestino si allontanava, proprio come Salvatore<br />

gli aveva comandato, con il capo basso, fino al bancone<br />

dove era stato scaricato e pesato il pesce. Tirava fuori la<br />

bottiglietta luccicante dalla tasca dei calzoni e affogava<br />

in una stilla di alcol per riemergere con un respiro a pieni<br />

polmoni. Sgranava gli occhi, scuoteva la testa, insaccava<br />

il dovuto e spariva rapido sulla vettura che non gli<br />

apparteneva.<br />

24 25


Il giorno dopo ritornava sulla stessa auto e con un nuovo<br />

sacco da riempire, a dispetto dell’augurio di Salvatore.<br />

Fino a che una mattina - il tenue sole di dicembre sfiorava<br />

appena l’acqua - Salvatore, di ritorno dalla pesca, non<br />

scese sul pontile e annodò come sempre la sagola di prua,<br />

dando volta con un mezzo collo. Celestino l’attendeva, nonostante<br />

fingesse di ignorarlo. Quando Salvatore gli fu di<br />

fronte con le ceste del pesce, Celestino esordì con una delle<br />

sue battute tristemente sarcastiche alla quale Salvatore<br />

non rispose. E proprio perché non rispose i due scivolarono,<br />

come in un buco, nella vertigine del silenzio.<br />

D’un tratto uno schizzo si levò rumoroso dalla poppa<br />

della barca. Gli sguardi si concentrarono in quell’angolo,<br />

tra la barca e l’acqua. Apparve niente più che una superficie<br />

lucente, scurita dalle erbe del basso fondale. Il<br />

silenzio esacerbava la tensione dell’attesa. Salvatore, sfidando<br />

il caso, non si improvvisò ad ingannarlo. I due uomini<br />

si scrutarono capovolgendo le posizioni di forza. Si<br />

andava ad insinuare un reato che non avviliva solo la<br />

legge, ma tradiva anni di odio sincero e sempre dichiarato,<br />

senza spilorcerie né ritegni, nell’appassionata verità<br />

del sentimento. Celestino arrivava ogni giorno, calzato<br />

e vestito, a bordo di una vettura, con le mani pronte<br />

ad insaccare quanto sbarcava dal ciu dei pescatori. Celestino<br />

arrivava dall’altra parte della laguna: oltrepassava<br />

il palazzo del municipio, il porto, il ponte. Ogni<br />

mattina era lì puntuale. Mai che si ammalasse, mai che<br />

chiedesse una sostituzione. Pretendeva il dovuto e lasciava<br />

che Salvatore lo umiliasse davanti alla Madonna,<br />

com’era in suo potere fare. <strong>La</strong>sciava che lo mortificasse<br />

davanti al mare, perché anche questo era in suo potere,<br />

in nome di una ragione che i più non avrebbero compreso<br />

e che non era necessario spiegare. Celestino guardava<br />

sempre in basso, dopo che Salvatore glielo imponeva.<br />

Non barava, così come non beveva davanti a lui,<br />

perché lo rispettava. Anche se gli portava via il pesce, lo<br />

rispettava, come si rispetta un uomo che ogni notte sfida<br />

il mare ed è capace di ripercorrere la via del ritorno.<br />

<strong>La</strong> coda di un pesce saltò fuori dall’acqua, sollevando<br />

un nuovo schizzo. Lo videro entrambi. Fu solo il principio<br />

di un battere, ormai inequivocabile, sempre sulla medesima<br />

superficie. Nel silenzio di un’ulteriore occhiata si<br />

espresse ogni commento. Un diverso codice si svelava, il<br />

quale si faceva beffa del precedente e significava una<br />

nuova divisa, niente più Madonna e mai più inginocchiarsi<br />

per pregare al cielo sotto la grande mano di Salvatore.<br />

Celestino montò di corsa sulla vettura e sparì. Sparì per<br />

sempre, chiese la sostituzione, si arruolò ed ebbe una bella<br />

camicia nera con i quattro mori sul cuore in campo tricolore.<br />

<strong>La</strong> notte prima di Natale andò in giro con i camerati<br />

ad occupare la cooperativa dei ferrovieri di via Cavour<br />

e pugnalò con due colpi allo stomaco un uomo che portava<br />

un distintivo rosso in bella vista sul petto e un bambino<br />

sulle braccia. Il giornale lo ritrasse in una grande fotografia<br />

di prima pagina dove si annunciava la brillante<br />

riuscita dell’operazione che liberava la <strong>città</strong> dai sovversivi<br />

di tutti i colori. Erano stati occupati l’ufficio del sindacato<br />

dei ferrovieri della <strong>Sardegna</strong>, la sala dei sardisti di via<br />

Torino e il circolo giovanile, la sede dei combattenti,<br />

quella dei repubblicani e quella dell’impiego privato in<br />

viale Regina Margherita. Per ragioni diverse dall’esigenza<br />

di verificare l’efficienza del sistema fognario cittadino<br />

furono somministrate numerose purghe di ricino che non<br />

vennero lesinate neppure al prefetto, incapace di mostrarsi<br />

in sintonia con le pretese dei più spavaldi.<br />

* * *<br />

– Fogu! – gridavano is piccioccheddus da terra. Facevano<br />

a gara per chi riusciva a contarne di più. Anche il padre<br />

di Salvatore aveva portato sulla testa per decenni quel<br />

26 27


errettone rosso con grande vanto, come tutti i pescatori<br />

della laguna. Fino a quando i cittadini non l’avevano<br />

preso di mira. Era l’ornamento della tenuta del Gremio<br />

di San Pietro, la corporazione dei pescatori esistente fin<br />

dai lontani tempi degli spagnoli.<br />

– Fogu! – si urlava nelle strade, al mercato e ovunque<br />

ne comparisse uno. Si racconta che fu fatta persino una<br />

petizione alla regina Maria Teresa, la quale ottenne la<br />

proprietà della laguna in cambio dell’impegno ad ammutolire<br />

chiunque avesse osato ancora gridare “al fuoco”<br />

all’apparire di un pescatore. Tuttavia le promesse dell’Austriaca<br />

non dovevano valere molto, poiché uno dopo<br />

l’altro i berrettoni vennero tinti di nero e poco dopo<br />

sparirono del tutto, come teste di fiammiferi consumate<br />

da una breve fiammata.<br />

Solo la buon’anima di Gioacchino, padre della signora<br />

Tina, guardiana delle galline di Giorgino, non aveva<br />

mai voluto rinunciare al lustro del berrettone.<br />

– Mi piga beni, mi dònara allirghia, – diceva spalancando<br />

un grande sorriso.<br />

C’è ancora una foto al bar, accanto a quella di Gigi Riva,<br />

che lo ritrae in piedi sulla prua del ciu poggiato alla<br />

trucchia, la vela a forma di trapezio che i pescatori issavano<br />

nei giorni di brezza per raggiungere le sponde più<br />

lontane della laguna. Ha addosso un corto giubbetto di<br />

panno e una sciarpa stretta in vita. “Su piscadori ’e stani<br />

porta fibbias de pratta”, si legge sotto l’immagine e davvero<br />

le fibbie, ben più larghe delle stesse scarpe, risplendono<br />

come l’argento. Era la piccola Tina a strofinarle<br />

con uno straccio di alpaca perché lui le trovasse sempre<br />

splendenti. Voleva che brillassero più di quelle di chiunque<br />

altro. Non era che una bambina ma già portava lo<br />

scialletto delle donne e la cuffia dello stesso colore quando,<br />

tutta vispa sul pontile, con gli occhi spalancati d’orgoglio<br />

e ammirazione, osservava il padre allontanarsi<br />

sull’acqua. Seduto al centro della barca, Gioacchino sol-<br />

levava coi remi, ad ogni falcata delle sue grosse braccia,<br />

mille gocce dai colori dell’arcobaleno; oppure diventava<br />

via via più piccolo, incurvandosi sulla pertica con cui<br />

spingeva sul fondale della laguna. <strong>La</strong> sua blusa scalpitava<br />

d’un turchino acceso come i profondi cieli delle sere<br />

di giugno, uguale a quella di tutti gli altri, se non fosse<br />

stato per il distintivo che, con amorevole dedizione,<br />

Tina gli aveva cucito sul petto.<br />

– Porta questo sul cuore e io sarò la tua bimbina per<br />

sempre, – gli aveva detto piena di emozione, porgendogli<br />

la blusa su cui aveva trascorso tutti i pomeriggi di<br />

un’intera settimana. Ma quelle parole, stampate e indelebili,<br />

spronarono la gelosia di Gioacchino il quale, arrogandosi<br />

il diritto di esigere il rispetto della promessa,<br />

prese ad osservarla con fare guardingo e sospettoso. Certo<br />

nessuno avrebbe potuto, a quel tempo, prevedere l’epilogo<br />

delle sempre più nutrite attenzioni paterne. Non<br />

erano ancora immaginabili le scenate che, qualche anno<br />

dopo, avrebbero animato il villaggio ogniqualvolta un<br />

uomo avesse rivolto alla ragazza uno sguardo o una parola,<br />

né le beffe che, di conseguenza, i due si sarebbero<br />

tirati addosso. Come diceva Salvatore alquanto ironico,<br />

Tina era sempre stata orgogliosa, di un padre così desideroso<br />

di lei. E pure lui, Gioacchino, era ben compiaciuto<br />

della sua unica bambina, tutta bellezza esuberante<br />

ai suoi piedi. Smaniava, quando arrivava il momento<br />

di farsi lucidare le fibbie delle scarpe, felice di quella<br />

boccuccia che baciava solo le sue guance e si strofinava<br />

sul braccino subito dopo per ripulirsi. Tuttavia con gli<br />

anni il suo sentimento divenne morboso ed ossessivo e i<br />

suoi impeti di gelosia non mancarono di richiamare qualche<br />

carabiniere di turno, di mandare moglie e figlia su<br />

tutte le furie e di trascinare la famiglia sull’orlo del ridicolo.<br />

Bastò che Tina entrasse nell’età dei rossori e degli sguardi<br />

accesi dal desiderio, perché anche la festa dei santi<br />

28 29


Simone e Giuda, il ventotto di ottobre, divenne il torneo<br />

durante il quale Gioacchino risolveva le sue personalissime<br />

questioni. Il combattimento sull’acqua era il momento<br />

più atteso di tutta la festa: gli eroi giocavano a disarcionarsi<br />

con le lance come nelle antiche giostre medievali.<br />

I cavalli, senza collo né criniera, erano i nostri ciu e le<br />

lance i lunghi bastoni usati per spingere le barche. Gioacchino<br />

scendeva sul campo di battaglia carico di rabbia.<br />

Non si accontentava di buttare in acqua l’avversario ma<br />

mirava a colpirlo pesantemente col bastone, per fargli passare<br />

una volta per tutte il sorrisino con cui aveva osato<br />

sfiorare la sua bambina innocente. Anche per questo motivo<br />

la festa fu sempre meno frequentata e presto venne<br />

abolita. Io stesso non ho mai assistito a nessuno di questi<br />

tornei i cui racconti hanno però ispirato i combattimenti<br />

della mia infanzia, quando di nascosto dai grandi, ci si sfidava<br />

sulle barche legate alla riva.<br />

Tina sussurrò a Maria la panettiera, la quale lo ripeté di<br />

filato a Ignazino suo marito, che aveva avuto l’impressione<br />

di fare l’amore con Gioacchino suo padre, quando accadde<br />

che quel gentiluomo di cui avrebbe preso il cognome,<br />

la portò a letto la prima volta come la regina delle<br />

spose. A sua volta lei lo fece sentire un grande condottiero<br />

e da allora compresero che la loro unione sarebbe stata<br />

felice. E così avvenne, fino a quando Bastiano - così si<br />

chiamava il marito della signora Tina - non fu colto da un<br />

attacco di epilessia e cadde dalla barca. Morì in quarantacinque<br />

centimetri d’acqua, dove persino le galline si sarebbero<br />

salvate.<br />

* * *<br />

In molti raccontano che, da tempi immemorabili, la<br />

Madonna appaia a taluni, in certe notti, con il manto luminoso<br />

tra le stelle. Peppino abita con i genitori a una decina<br />

di metri da noi, in una delle case che si affacciano<br />

sulla statale per Pula. Lui pesca in mare. A differenza del<br />

ciu che ha la pancia piatta adatta ai bassi fondali e alle acque<br />

pressoché immobili, la sua barca è dotata di chiglia e<br />

timone. <strong>La</strong> fece costruire suo padre - un omone oggi stanco<br />

e molto avanti negli anni - dal cantiere nautico sull’altra<br />

sponda della laguna, grazie all’ingente gruzzoletto<br />

sortito dal suo lieto matrimonio. Peppino, come il padre,<br />

ha sempre pescato soprattutto per mare e col motore. È<br />

stato salvato dalla Madonna quando aveva poco più di<br />

vent’anni e da allora si ritiene sotto la benevolenza del<br />

cielo. Se ogni tanto qualcuno non lo minacciasse con sufficiente<br />

serietà da incutergli più di un vago timore, ripeterebbe<br />

la sua storia di continuo.<br />

Quella notte si palesò come tante altre. <strong>La</strong> barca, armata<br />

di reti e nasse già in ordine per essere gettate, prese il<br />

largo. Il serbatoio era pieno e Peppino ben coperto contro<br />

l’umido della notte. Oltrepassato il ponte della Scaffa accese<br />

il motore. Procedeva verso il largo lasciandosi la laguna<br />

alle spalle, favorito da una leggera brezza. Ad est<br />

brillavano le luci di Sant’Elia, villaggio di pescatori rivali,<br />

borgata stanca, caparbia ed osteggiata, anch’essa con<br />

una vita propria che si trascina in disparte dal resto della<br />

<strong>città</strong>.<br />

Lentamente, una dopo l’altra, si accesero intorno decine<br />

di piccole luci barcollanti, campane solitarie alla volta del<br />

mare. A quell’ora ci si riconosce nonostante il buio e la<br />

distanza, madre della discrezione e di misteriose visioni.<br />

Dall’altro lato la fiamma inesauribile dell’industria petrolchimica<br />

della Saras lavora notte e giorno, senza riposo.<br />

In alto mare è un punto di riferimento rassicurante,<br />

al pari dell’opposto faro di Sant’Elia che si erge oltre il<br />

villaggio, sulla cima dell’omonimo capo. Alle sue spalle,<br />

nascosti fino all’ultimo, affiorano uno dopo l’altro i faraglioni<br />

della Sella del Diavolo, aguzzi scogli di roccia<br />

bianca nel bel mezzo del Golfo degli Angeli, postazioni<br />

di innumerevoli gabbiani e cormorani dal ciuffo.<br />

30 31


Sotto un cielo scuro e stellato, Peppino arrivò al largo<br />

per gettare le nasse. Credeva di aver individuato, piuttosto<br />

oltre Capo Sant’Elia, il punto di passaggio di una grande<br />

quantità di pesci: una secca dove le sue trappole notturne<br />

si sarebbero riempite fino a traboccare.<br />

Gettò l’ultima delle nasse, assicuratosi che il galleggiante<br />

fosse ben chiuso e visibile. In quel momento sentì<br />

il rumore del motore venir meno, ma non si preoccupò.<br />

Capitava spesso che, tenuto al minimo, il motore si spegnesse.<br />

Individuò e segnò mentalmente i riferimenti che<br />

il giorno dopo gli avrebbero permesso di giungere in quel<br />

punto senza doversi affannare a cercare tra le onde il groviglio<br />

di taniche vuote e bottiglie di plastica che reggevano<br />

le cime. Levò uno sguardo al cielo, unì i punti luminosi<br />

e lontani con quelli artificiali più in basso e, pensando<br />

che avrebbe finalmente guadagnato un bel bottino<br />

senza troppa fatica, passò a poppa per mettere in moto e<br />

tornarsene a dormire. Tirò una prima volta la sagola dell’accensione,<br />

poi una seconda con maggiore vigore e infine,<br />

una terza. Quella veniva via ad ogni tentativo più liscia<br />

e silenziosa, senza provocare neanche lo scoppio della<br />

candela. In quell’istante Peppino si accorse che era montato<br />

un forte vento di maestrale e, con insolita rapidità, si<br />

erano formate onde che salivano in alti muri d’acqua. In<br />

mezzo ad esse anche uno come lui avrebbe perso ogni<br />

equilibrio; le luci della <strong>città</strong> vacillavano ubriache e lo stomaco<br />

si ribellava, a quello scompiglio.<br />

Nonostante le nostre intimidazioni, Peppino continua<br />

a raccontare il fatto ogni volta che butta giù un bicchiere<br />

di troppo o se incontra qualcuno che potrebbe non sapere<br />

della sua epopea. Quando arriva a questo punto si<br />

eccita e non controlla più la salivazione. Sputacchiando<br />

tra una parola e l’altra, racconta che dovette mettersi in<br />

ginocchio sulla poppa, per poter afferrare di nuovo la leva<br />

dell’accensione senza cadere. <strong>La</strong> barca scricchiolava in<br />

balìa delle onde ed era difficile mantenere l’equilibrio.<br />

Peppino tentò per l’ennesima volta, nell’unica posizione<br />

possibile e con la forza della disperazione, di mettere in<br />

moto. Ma all’improvviso, un’onda più alta delle altre sollevò<br />

la prua della barca rivolgendola perfettamente a piombo<br />

sulle fauci del mare.<br />

In un attimo eterno Peppino gettò di nuovo gli occhi al<br />

cielo, memore del Signore e dei santi a cui ritenne di essere<br />

sul punto di unirsi, poiché “nel momento della morte”,<br />

va ormai dicendo dopo questa esperienza, “nessuno si<br />

considera meno eroico e meritevole di un santo”.<br />

Ma ecco che miracolosamente le stelle sopra la barca si<br />

ricomposero. Da tremule divennero fisse e da lontane si<br />

fecero vicine. Tanto vicine da prendere una forma precisa<br />

di dolcezza che somigliava… Sì, era proprio l’immagine<br />

della Madonna. Il suo volto gentile e la sua mano onnipotente<br />

s’allungarono verso di lui che affondava aggrappato<br />

agli scalmi, con le braccia aperte come un Cristo sulla<br />

croce, immerso nell’acqua fino alla vita. Con l’affetto di<br />

una madre quella mano misericordiosa lo trasse via dal<br />

mare assieme alla barca. Calmò le onde, fece sorgere il sole<br />

tiepido dell’alba e lo riconsegnò alla riva.<br />

Peppino racconta i particolari con un’enfasi divinatoria,<br />

rimarcando senza ammetterlo, la particolare amorevolezza<br />

del cielo nei suoi confronti.<br />

– E quando mi sono svegliato funzionava anche il motore,<br />

funzionava… – conclude attribuendo il senso più<br />

sorprendente del miracolo alle capacità tecnologiche<br />

della Madonna, infallibile persino in un ambito così<br />

stravagante.<br />

Anche Marc’Antonio, presidente della cooperativa che<br />

oggi riunisce gran parte dei pescatori di Giorgino, ha assistito<br />

all’apparizione della Madonna. Ma non lo racconta<br />

mai. È un uomo piuttosto taciturno e certo non chiacchiera<br />

quanto Peppino. Sorride poco, e mai se non c’è una<br />

ragione valida. Il suo aspetto serio, che alcuni scambiano<br />

per un broncio insoddisfatto, è quello di chi sempre vuole<br />

32 33


attribuire alle parole il peso della verità. Forse anche per<br />

questo è il presidente di tutti noi: la gente lo rispetta perché<br />

sente che è sincero.<br />

Nessuno però sa quello che gli è capitato: se la Madonna<br />

l’abbia tratto da qualche pericolo o se gli sia apparsa in<br />

sogno, svelandogli una verità inaspettata, come la tv spesso<br />

racconta che accade in qualche parte del mondo. Fatto<br />

sta che ogniqualvolta si nomina la Madonna lui ne assicura<br />

l’esistenza fra gli uomini.<br />

– Io dico che la Madonna ci guarda e sa. Ho le mie buone<br />

ragioni e basta.<br />

Così chiude ogni discorso. E poiché è un presidente - oltre<br />

che un pescatore - e possiede un cane, una famiglia numerosa<br />

a cui non fa mai mancare niente e figli che vanno<br />

tutti a scuola, nessuno osa replicare, ad eccezione di quelli<br />

della cooperativa di Assemini con i quali, si sa, non c’è<br />

mai stato un buon rapporto. Ma Assemini, per quanto antico<br />

e confinante con l’estremità settentrionale della laguna,<br />

non è un paese sul mare e non ha mai avuto dei veri<br />

pescatori. Restano dove le acque non sono agitate e la Madonna<br />

ha ben poco da fare. Invece noi, al villaggio di<br />

Giorgino, separato dal mare solo da una sottile striscia<br />

bianca, la salsedine ce la ritroviamo tra i denti. Nelle notti<br />

di libeccio penetra da sotto la porta e s’intrufola tra i<br />

cartoni con cui tappiamo gli spifferi scavati dall’umido,<br />

mentre la Madonna guarda dritta al mare dall’alto del<br />

portale della chiesa, nel bel mezzo di due palme che, con<br />

le loro foglie svolazzanti a misurare le distanze dall’infinito,<br />

la venerano e la custodiscono come il cuore del villaggio.<br />

* * *<br />

Donna <strong>Giulia</strong>, presunta moglie di Tigellio, presunto<br />

abitante della villa a lui dedicata lungo l’omonima via,<br />

risplende di una certa natura aristocratica di nascita e<br />

sentimenti. E questo nonostante abbia continuato a piovere<br />

tutta la notte, sia entrata acqua in casa e Salvatore<br />

manifesti tutto il suo disappunto quando mi trova con i<br />

piedi in una pozza d’acqua e le mani sul bel volto d’argilla.<br />

– Tortaneddarus priogosus che non sei altro!, – bofonchia<br />

contro la mia povertà, facendomi stizzire come sempre.<br />

– Vedrai che me lo compro il motore, vedrai. E diventerò<br />

ricco, – gli rispondo senza degnarlo di uno sguardo,<br />

dato che sono impegnato in quell’opera di pulizia che<br />

prelude all’incontro agognato con la donna a me destinata.<br />

Tanto lo so che io, motore o non motore, non mi avventurerò<br />

a pescare in mare. Le onde mi danno la nausea<br />

e il senso dell’inesausta profondità di ogni direzione mi<br />

stordisce.<br />

Lui insiste, seppure a voce bassa, in modo che io senta<br />

appena la metà di quel di cui si lagna e mi interroghi sul<br />

resto. Di sicuro non è gran cosa, poiché borbotta giusto<br />

per dar sfogo al suo orgoglio.<br />

– Certo che te lo comprerai, altrimenti finisce che non<br />

andrai mai ad abitare in una casa come si deve.<br />

– Non intendo mica finire alla tua età in un luridume<br />

come questo.<br />

Mi guarda, scontroso e arcigno, segnato dall’inclemenza<br />

del sole. Una pudica timidezza cala sulle sue parole,<br />

sottrae loro il respiro e le camuffa sotto volgarità insensate.<br />

Salvatore devia sempre, quando si accorge che potrebbe<br />

essere vicino a rivelare qualcosa che gli appartiene intimamente.<br />

– A ognuno la sua vita e la sua casa, Frantziscu. Deu pappu,<br />

buffu e mi nd’affuttu, come dice il nostro Nandino.<br />

Nandino è uno dei pochi esseri della <strong>città</strong> che mi diverte.<br />

In fondo lo conoscono tutti, nonostante lui non<br />

noti nessuno. Salvatore spesso lo cita, raccontando qualcuna<br />

delle sue trovate. A modo suo lo ritiene un filosofo.<br />

Un filosofo della strada e della pazzia.<br />

34 35


L’indomani un cielo terso si prende la sua rivincita. Il<br />

sole è ancora nascosto, ma una lucentezza opalina svela le<br />

intenzioni del giorno. Mi alzo prima di Salvatore e metto<br />

su la caffettiera. Il caffè tarda ad uscire.<br />

– Acqua ne hai messo?<br />

– Certo che ne ho messo, po chini mi ses pighendi?<br />

Mi guarda senza troppa fiducia, solleva il coperchio della<br />

caffettiera, controlla lo spruzzetto esagitato che fuoriesce<br />

dalla valvola con poca sostanza e molto vapore.<br />

– Mi sa che stiamo solo consumando gas, – dice girando<br />

la manopola del cucinino e decidendo la fine irrimediabile<br />

di quel sibilo.<br />

– Riempimi due sacchi di còcciulas e ti invito la colazione<br />

al Torino, – mi dice.<br />

– Al Torino sotto i portici?<br />

– Certo, altrimenti dove?<br />

È un caffè elegante il Torino, uno di quelli che hanno<br />

in bella mostra decine di paste con la crema, la panna e<br />

il cioccolato, belle gonfie e ondulate come pettinate dal<br />

vento. Tra i tavolini c’è un andirivieni continuo di ragazze,<br />

militari, altere signore con le buste degli acquisti e<br />

persino stranieri sbarcati dalla nave della Tirrenia che attracca<br />

proprio lì davanti. Arriva ogni mattina dal continente<br />

e ogni sera riparte.<br />

– Ne riempio anche tre di sacche se mi ci metto, itta<br />

te crettas, che non sono buono?<br />

– Inzà ajò a pigai còcciulas, – mi dice infilandosi i mutandoni<br />

da lavoro.<br />

Insisto per lasciar stare il lavoro in laguna e accompagnarlo<br />

subito in <strong>città</strong> con l’apixedda. Sono alcuni giorni<br />

che non passo il ponte, che non passeggio per una strada<br />

affollata e nel trambusto delle macchine.<br />

– Immoi traballa, – mi risponde lui che non si lascia<br />

mai accarezzare neanche da un briciolo di ironia, quando<br />

c’è da curvare la schiena.<br />

L’acqua si è raffreddata, con le piogge dei giorni scorsi.<br />

Il livello si è alzato, tanto che non è necessario camminare<br />

molto per trovarsi immersi fino all’ombelico. Prendiamo<br />

le distanze dagli altri che sono già lì con le loro griglie,<br />

cercatori di un oro che non arricchisce ma almeno<br />

permette di vivere. Poi, furtivo per non essere notato, mi<br />

allontano anche da Salvatore.<br />

Ogni tanto un ciu a remi o mosso dal bastone passa tra<br />

di noi; recupera una lenza, una rete, un palamito e si allontana.<br />

Introduco la griglia di sotto a forza, vincendo la resistenza<br />

dell’acqua, facendola sussultare in piccole bolle di<br />

ritorno. Quella scende dondolando, fin sulla sabbia. Scava<br />

ancora più in basso, incespica nel fondo terroso e già<br />

nerastro, si incastra per scardinare le sezioni da contenere,<br />

setacciare, limacciare, selezionare. Quando abbasso la<br />

testa immergendo la griglia, cerco quel respiro asettico<br />

che mi esime dalla zaffata malsana della superficie che sa<br />

di petrolio o di animale in putrefazione, a seconda del<br />

vento.<br />

L’acqua è sempre meno salata. Ricordo che da bambino<br />

il sale si seccava sul viso. Stirava la pelle come i tiranti<br />

di un tamburo. Ora non accade più, da diversi anni.<br />

L’acqua ha cambiato colore e sapore.<br />

Ogni tanto Salvatore domanda se ne sto trovando, di<br />

còcciulas.<br />

– Certo che sì, ho quasi riempito le sacche, tutt’e tre.<br />

Mento, naturalmente, ma so di avere ancora molto tempo<br />

a disposizione. Mi spettano tre paste, in cambio di tre<br />

sacche. In tutta solitudine decido che sia il giusto compenso.<br />

Le arselle boccheggiano fino a quando restano nell’acqua,<br />

singhiozzano tra le valve di conchiglia, fragili e tenaci.<br />

Poi si chiudono come pietre.<br />

Il sole si arrampica oltre il mare e la <strong>città</strong>. Definisce<br />

preciso i confini, si riflette nell’acqua mirando dritto sugli<br />

occhi che strizzo per respingerlo. Tiro su la griglia<br />

36 37


per la trecentesima volta e scopro che ancora l’anello del<br />

mio amore non è rimasto impigliato tra quei fili. Eppure<br />

so che accadrà come per magia, senza alcun mistero,<br />

per una disposizione delle acque e delle sabbie reflue,<br />

dei depositi del tempo che avranno sedimentato e percorso<br />

letti e valli, disceso pendici e cambiato direzione,<br />

corrente, moto sommerso e grado di salinità. Sarà un tesoro<br />

proveniente da un mondo senza lavoro, nascosto tra<br />

i secoli sovrapposti, ancora alla ricerca del proprio strato<br />

sulla terra e dunque del proprio rilievo, impercettibile<br />

a meno di una sensibilità che richiama, instancabile,<br />

allo stupore. Oppure attende di scivolare dal sommovimento<br />

della <strong>città</strong>, dalle dita di una studentessa di<br />

buona famiglia che si fa strada tra la folla dei cortei urlando,<br />

come la violenta percezione di sé le impone, alla<br />

libertà dell’amore; e con i suoi slogan fa rabbrividire la<br />

dura pietra che porta all’anulare. Io ne vedo il fremito e<br />

l’induco al movimento. Gli urlo: vai, anello dei miei desideri<br />

che hanno tutti il nome di quella ragazza! Scivola<br />

dal suo dito, percorri Sant’Avendrace e, nonostante il<br />

lieve pendio della salita, arriva fin sulle tombe dei Nostri<br />

che un tempo furono e che oggi dispaiono anche alle<br />

memorie; infilati nei neri antri di Tuvixeddu aperti<br />

solo agli impostori, ai preti e ai delatori; agli scienziati<br />

internazionali, ai barboni e alle cronache dei giornali.<br />

Scivola sulle feritoie che separano le grotte dei fondatori<br />

della <strong>città</strong>, luoghi di resurrezioni non conclamate, di<br />

dispersioni collettive, di sfollamenti disperati, di amanti<br />

solitari privi di un letto che li accolga. Scavalca le pareti<br />

di terra secca, attraversa l’asfalto sempre rotolando,<br />

senza mai esitare; saetta all’interno dei pneumatici delle<br />

vetture che non cercheranno di scartarti ma al contrario,<br />

tenteranno di urtarti. Scendi fino alle canne accarezzate<br />

dalla brezza, battute dal maestrale e affaticate dal<br />

libeccio, che sfiorano il ciglio rumoroso della strada.<br />

Approfitta della distrazione degli automobilisti, degli<br />

uccelli dalle lunghe zampe, delle folaghe bianche dai<br />

voli radenti sull’acqua, dei cavalieri d’Italia che nidificano<br />

una volta all’anno e per il tempo restante articolano<br />

le lunghe zampe, sovrastando ogni creatura senza accenno<br />

d’ali. Precipita in laguna, dentro il fango melmoso<br />

che ricopre la sabbia, là dove la <strong>città</strong> affonda i suoi rifiuti<br />

e devia gli sguardi sull’altro fronte, per alleggerire<br />

le coscienze di tanto disgustoso olezzo. Sprofonda sotto<br />

gli strati sabbiosi che, come rettili ammassati in strette<br />

vasche, strusciano sul dorso degli esseri di sotto in direzioni<br />

opposte annullando ogni moto. E finalmente, dopo<br />

tanto peregrinare, nonostante la precisione della meta,<br />

finalmente ti raccoglierò, anello del mio amore donato<br />

dalle acque, e ti consegnerò al dito che indica di lei<br />

il passaggio.<br />

E che Donna <strong>Giulia</strong> mi ascolti, in questo affannoso<br />

parlare del cuore.<br />

* * *<br />

Il caffè Torino tiene i tavolini sotto i portici tutto l’anno,<br />

ricoperti da tovaglie rosse e qualche bottiglia di birra<br />

Ichnusa. L’interno è un lungo corridoio con un bancone<br />

preceduto dalla luminosa cupola di vetro dove sono<br />

custodite le agognate, dolcissime ed effimere gioie<br />

del palato.<br />

– Due per il ragazzo, – dice Salvatore.<br />

– Tre, – ribatto io.<br />

Lui mi adocchia senza sapere però sostenere l’aria del<br />

rimprovero. Ho già vinto quando si rivolge nuovamente<br />

al barista al quale basta notare l’arcuarsi di un sopracciglio,<br />

per intendere.<br />

– Una allo zabaione, – dico puntando l’indice con l’acquolina<br />

in bocca, eccitata da quel velo amarognolo affogato<br />

nel dolce che confonde la percezione e stuzzica una<br />

perversione innocente.<br />

38 39


<strong>La</strong> seconda è alla crema, con scaglie di cioccolato duro<br />

e fondente da sgretolare tra i denti o far sciogliere in<br />

bocca. Per la terza attendo, pregustando quel tocco d’eccesso<br />

che mi farà sentire ricco.<br />

– Còcciulas anche domani, inzà.<br />

– Dammi quella alla panna, – dico ottenendo finalmente<br />

soddisfazione.<br />

– E caffè. Due, – precisa Salvatore.<br />

– Due, – confermo io.<br />

Salvatore non mi guarda, questa volta. Osserva, sullo<br />

specchio dietro il bancone, l’uomo che si sta aggiustando<br />

le punte del colletto della camicia. Mi dà una gomitata<br />

perché lo noti anch’io.<br />

– Càstia, Nandino.<br />

– Nandino biddio? – domando io, mettendo a fuoco su<br />

di lui.<br />

– Eja, issu.<br />

È un uomo sulla cinquantina, scuro e stempiato, con i<br />

capelli all’indietro, impomatati e rigidi. Ai piccoli occhi<br />

convergenti al centro fanno da contraltare le orecchie,<br />

grandi e spalancate come pale d’ascolto che contemplano,<br />

nella loro acutezza elefantina, i fatti della <strong>città</strong>. Eppure si<br />

muove dandosi un contegno di tutta riservatezza. Si aggiusta<br />

giacca e camicia allo specchio, si osserva di profilo,<br />

tasta con accuratezza la scatolina che emerge dalla tasca<br />

anteriore della camicia e, sfoderando un sorriso che gli disegna<br />

due lunghi tiranti tra mento ed orecchie, si porta le<br />

dita alla fronte. Saluta come sfiorando le falde di un cappello<br />

che non ha ed esce dal bar, senza aver chiesto nulla.<br />

– Niente di strano, fa sempre così: compare ogni giorno<br />

a quest’ora solo per riordinarsi. Poi torna in strada e<br />

canta le sue filastrocche, – dice il barista nient’affatto<br />

stupito.<br />

– Filastrocche?, – ripeto io che non sento pronunciare<br />

questa parola da non so quanto tempo e anzi mi domando<br />

se mai l’abbia sentita. Risuona come un nome attorci-<br />

gliato, interrotto a metà e ricucito alla meno peggio; uno<br />

strumento paragonabile a un frigorifero fuori uso da anni,<br />

con la spuma gialla dispersa per l’usura, che non raffredda<br />

più e nonostante ciò qualcuno si ostina ad attaccare<br />

la spina solo perché prima funzionava e non è proprio<br />

possibile farsi una ragione del contrario. <strong>La</strong> parola “filastrocche”<br />

sa di filo rotto, di filo tronco, di filo strocchio,<br />

che non avrà alcun significato per il resto del mondo ma<br />

per me va dritto a nominare quell’affanno che mi farebbe<br />

gettare qualche lacrima di disperazione, se solo mi mettessi<br />

alla sua ricerca: se cercassi di seguire il filo a ritroso,<br />

dal punto in cui si è interrotto, così lontano nel tempo<br />

che neanche ricordo, in un ignoto laggiù dove la sua origine<br />

si può solo supporre.<br />

– Ma tu mi hai mai raccontato delle filastrocche? – domando<br />

a Salvatore, il quale mi guarda attraverso lo specchio<br />

e muggisce con una smorfia che mi impone in tutta<br />

evidenza di lasciarlo perdere, per carità. Solo che non<br />

lo dice perché il silenzio è, nel sistema delle sue roccaforti,<br />

una delle difese più difficilmente espugnabili.<br />

– Eccolo, andate a sentirlo. Ha iniziato, – ci avvisa il<br />

ragazzo da dietro il bancone, con le orecchie tese verso<br />

l’uscita.<br />

Nandino sfila dalla tasca la scatoletta bianca e la poggia<br />

sul palmo della mano; con le dita tamburella un ritmo<br />

elementare; ha intorno gli sguardi dei signori ai tavoli<br />

e delle donne. Qualche passante rallenta apposta per<br />

osservarlo. Dà due colpetti più forti degli altri e poi comincia.<br />

– Sotto il parapà, sotto il parapì, sotto il parapiò -ggia<br />

- ggià - io riparo te, tu ripari me - e ci bagnam! Oh che<br />

passion, quando c’è amor…, biddio!<br />

Fa due passi di danza mentre la gente applaude e qualcuno<br />

gli urla: – Bravo, Nandinu!<br />

Lui non perde un attimo, si inchina, sorride e domanda:<br />

– Midda dònasa una sigarettedda?<br />

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L’uomo sfila una Nazionale dal pacchetto e gliela porge.<br />

Nandino la prende senza ringraziare, con la fretta di<br />

farla entrare dentro la scatola da riporre al più presto nel<br />

taschino della camicia. Fa il giro dei tavoli con le mani<br />

in movimento, chiede a tutti cinquanta francus da afferrare<br />

tra le dita corte e grosse e infilare nella tasca dei calzoni.<br />

– Cosa te ne fai, o Nandino, di tutti questi soldi?<br />

– Ci compro fiori a Ines che è la mia amorosa con le<br />

mutandine rosa. E deu chi le tengu zelesti candu mi cojo mi<br />

pongo una bella besti, biddio!<br />

Chiede un’altra sigarettedda per la nuova performance<br />

e si allontana, sostando sotto ognuno degli enormi lampadari<br />

ottagonali che pendono dalle volte. Leva gli occhi<br />

in alto, controlla con esattezza la posizione dei piedi<br />

e allarga le braccia come se recitasse un omaggio al<br />

sole. Ripete il medesimo rito per otto volte. Quando riparte<br />

chiede ai passanti, senza mai tendere la mano, i<br />

meritati cinquanta francus; e prosegue, li abbia intascati<br />

o meno, senza insistere né ringraziare.<br />

L’ottavo lampadario è davanti all’ingresso della Rinascente,<br />

altra sua meta abitudinaria.<br />

– Vado? – domando a Salvatore che dovrei accompagnare<br />

a vendere le arselle.<br />

– Movirì, – mi dice.<br />

Seguo Nandino dietro le porte di vetro. Oltrepassa il<br />

reparto abbigliamento, senza gettare neanche un’occhiata<br />

attorno; attraversa anche l’esposizione della biancheria<br />

intima, senza distrarsi. Sale tre scalini e si ferma davanti<br />

allo specchio della profumeria. Sorride alla propria<br />

immagine, la scruta attentamente, si aggiusta il colletto<br />

della camicia, con due dita umettate di saliva si liscia<br />

le sopracciglia, tira fuori i polsini dalle maniche della<br />

giacca e si fa serio.<br />

– Bellixeddu bellixeddu, ainci tottu allicchiriu, – commenta<br />

di sé con soddisfazione.<br />

Prosegue l’accurata ispezione fino a quando, contrariato<br />

da un ciuffo, non afferra il pettine che spunta tra due boccette<br />

di bagnoschiuma e si aggiusta i capelli, incastrandoli<br />

dietro le orecchie. <strong>La</strong> caporeparto lo segue da quando è<br />

entrato. Lo lascia fare. Recuperato il sorriso, Nandino ripone<br />

il pettine nell’esatta posizione di prima.<br />

– Tottu bellixeddas, innoi, biddio! – dice alla commessa,<br />

col sorriso bonario di chi sa apprezzare i favori della vita.<br />

E quella, che evidentemente lo conosce e sa che a lasciarlo<br />

fare non combinerà nulla di male, sostituito il<br />

pettine, gli sussurra come una complice: – Vai, vai, Nandino<br />

che sta entrando Nino Baulosu, ed è meglio se non<br />

vi incontrate, voi due.<br />

Non è vero, naturalmente, ma Nandino non perde tempo<br />

a verificarlo e, pur di non incontrare quel rivale alquanto<br />

manesco, infila la porta che ha di fronte ed esce su<br />

<strong>La</strong>rgo Carlo Felice.<br />

Raggiungo Salvatore pensando che il mio eroe continuerà<br />

a recitar filastrocche fino a sera, quando non salirà<br />

su a Castello, dove abita forse con una mamma anziana,<br />

forse con la sua fidanzata Ines dalle mutande rosa, chissà.<br />

* * *<br />

A ben cercare tra le rovine della villa di Tigellio, poco<br />

più di un ammasso di pietre in un recinto di selvaggia<br />

radura tra i palazzi, mi imbatto su una pietra levigata e<br />

liscia. È improprio chiamarla pietra, poiché rassomiglia<br />

al fianco di una statua di donna prosperosa e forse dagli<br />

occhi color del cielo. I medesimi della mia Donna <strong>Giulia</strong>,<br />

signora di questa villa in cui spighe, papaveri e gatti,<br />

che rantolano al sole allungando le loro code, troneggiano<br />

come gli unici padroni.<br />

Mi porge il fianco e mi seduce all’idea che attraversò il<br />

Tirreno per lasciarsi trastullare dalle mie mani, tra pensieri<br />

di dolci e fatali complicità. Mi prostro al suolo, co-<br />

42 43


me faccio solo davanti alle preghiere di Salvatore, fingendo<br />

la sua stessa devozione per non inguaiarne i pensieri, e<br />

accarezzo la pietra fremente. Quella sussulta sorpresa della<br />

mia carezza, incredula che, dopo secoli di nulla considerazione,<br />

qualcuno riprenda ad amarla di un sentimento<br />

puro e senza speculazioni. Casta e riservata, la mia signora<br />

cinge la tunica alla caviglia. I suoi piedi strusciano nudi<br />

sul pavimento della villa, tappeto di mosaici rilucenti<br />

degli stessi intarsi di cui furono disegnati gli occhi, protetti<br />

per secoli nell’acqua di terra e mare, dal fermento di<br />

prodigiosi micro-organismi, ovuli, embrioni e vibrioni.<br />

Stretto alla pietra che emana calore, mi addormento.<br />

Sono custodito da una schiera amica di felini, fedeli al richiamo<br />

del pesce di cui ho impregnati unghie e vestiti.<br />

Nonostante mi trovi in <strong>città</strong>, questo odore non solo non<br />

mi imbarazza, ma mi piace. Di solito invece mi infastidisce,<br />

poiché la gente arriccia il naso e si allontana. Colpa<br />

di quei pesci ingordi che si succhiano l’amo fino alle<br />

interiora e mi muoiono tra le mani mentre gli sfilo l’uncino<br />

dalla bocca, costringendomi a strappare organi e labbra,<br />

a confondermi nell’odore di quel liquame rosso e nauseabondo<br />

che l’acqua trasporta lontano e scolora fino all’annientamento.<br />

Faccio un sonno caldo, ammantato dal tepore rassicurante<br />

della pietra cui sono aggrappato. Persisto a possederla.<br />

<strong>La</strong> mano spalancata l’assorbe, vuole dialogare e<br />

ghermirla. Vuole ricoprirla di uno strato scivoloso della<br />

stessa sostanza delle lacrime. Il sole batte sulle mie palpebre<br />

chiuse, disegna immagini di luce che non assumono<br />

un’unica forma ma una miriade. Gioco con quei<br />

contorni ubbidendo incosciente al miagolare dei mici e<br />

al frusciare dell’aria che si scontra sugli alti palazzi, si rifugia<br />

in quell’unica radura abbandonata, stende al suolo<br />

il gambo del papavero peloso, rotea sulle erbacce e si<br />

posa sul mio volto, in sogni di piedi nudi e caviglie ingioiellate<br />

alla moda di un lontano oriente.<br />

Solo la voce grossa di un guardiano col berretto calato<br />

sugli occhi mi riporta sull’attenti.<br />

– Cosa stai facendo qui?<br />

– Non vede…? Dormivo.<br />

– Fuori, sciò, è tutto chiuso! Non sai che questa è proprietà<br />

archeologica della Sopraintendenza?<br />

– Non è la villa dell’antico Tigellio e quindi un luogo<br />

pubblico come i giardini, le spiagge e le scogliere?<br />

– Esattamente. Appunto per questo te ne devi andare.<br />

Spero che Donna <strong>Giulia</strong> non la prenda come una scortesia.<br />

Avrei ben continuato a deliziarmi della sua compagnia,<br />

se non fosse stato per questo uomo burbero che di<br />

sicuro non le parla mai e anche volendo non potrebbe farlo,<br />

non possedendo parole per una discussione raffinata<br />

come si conviene. <strong>La</strong> raffinatezza, caro il mio signor guardiano,<br />

è una questione di sensibilità e, dal modo in cui lei<br />

osa intromettersi nella conversazione tra due prossimi<br />

amanti, è evidente che non potrebbe mai essere un frequentatore<br />

di Donna <strong>Giulia</strong>, la quale offre i propri favori<br />

solo ai giovani di nobili pensieri e affettuose maniere.<br />

– Se vuoi restare devi pagare.<br />

– Non pago per entrare in un luogo che mi appartiene.<br />

Il custode sputa catarroso per terra, tra le erbe e le spine.<br />

– Allora, fuori di qui.<br />

Seguo il suo rozzo passo fino alla strada. Lo osservo sedersi<br />

su una vecchia sedia di paglia e abbassarsi la visiera<br />

sugli occhi.<br />

– Sta tutto il giorno così, lei?<br />

– Faccio il mio lavoro, fino a quando non arriva qualcuno<br />

a disturbarmi. Qualcuno come te, per esempio.<br />

– E quale sarebbe il suo lavoro, forse dormire?<br />

– A dormire me ne sto a casa.<br />

L’uomo, la cui fronte stretta e sporgente è coronata da<br />

un unico folto sopracciglio, mi rivolge un nuovo sguardo<br />

sospettoso.<br />

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– Sono un guardiano serio, di quelli come non se ne<br />

trovano più. Provengo da una famiglia di guardiani. Ho<br />

questo lavoro nel sangue, perciò non ho troppo bisogno<br />

degli occhi. A te - cosa ti credi? - t’ho visto non appena<br />

sei entrato. Ma volevo rendermi conto che intenzioni avevi,<br />

beccarti con le mani nel sacco. Ti è andata bene a lasciare<br />

in terra quello che volevi prendere. Se tentavi di<br />

portarlo via ti facevo finire ti prigione, ti facevo.<br />

Fingo di non capire solo perché non voglio che si avvicini<br />

alla mia signora, neanche con le parole. Spero che<br />

si zittisca. Invece continua a parlare. Conosce date, citazioni,<br />

eventi. Mi dice che Tigellio, signore della villa,<br />

era uno dei preferiti di Cesare.<br />

– Giulio Cesare, quello dell’anche tu Bruto… Eppure<br />

non era che un buffone questo Tigellio, uno che metteva<br />

in rima i guai degli altri e sfotteva chiunque, specie<br />

se c’era la corte intera ad ascoltarlo.<br />

Mi racconta che quando morì, nel quaranta prima di<br />

Cristo, il grande Cesare non poté darsi pace all’idea di<br />

aver perduto un amico così generoso.<br />

– Il poeta Orazio questo non lo racconta, però. Scrive<br />

invece di una genia di baiadere, ciarlatani, accattoni,<br />

mime e buffoni, tutti disperati per la morte del loro<br />

musico preferito. Ma chissà poi qual era la sua vera intenzione.<br />

Si prendeva gioco di tutti, si prendeva, – insinua<br />

greve il guardiano prima di sciorinare una pappardella<br />

bene impressa nella memoria:<br />

– “Quanto a te Tigellio, ti lascio a miagolare fra i divani<br />

delle tue scolare” scrive il poeta. Era geloso, Orazio.<br />

Geloso del nostro cantore, come una scimmia.<br />

Il custode sale goffamente sulla sedia, i piedi uniti come<br />

un soldato sull’attenti e il berretto in una mano. Recita<br />

con una cadenza tale che non so trattenermi dal ridere.<br />

– “E che altro è possibile raccontare? Di tutti i cantanti<br />

questo è il difetto: tra amici, quando li inviti a cantare,<br />

non si riesce a convincerli, se li ignori non la smettono<br />

più. Anche il sardo Tigellio ne era affetto. Se gli andava a<br />

genio era capace d’intonare un inno bacchico dall’inizio<br />

alla fine della cena, ora nel registro più acuto, ora in quello<br />

che più basso vibra dal tetracordo”.<br />

Il custode abbassa il mento senza degnarmi di uno<br />

sguardo, come se avesse recitato per un pubblico ben più<br />

ampio, là oltre le gradinate, che ancora lo acclama. Inconsapevole<br />

del valore proprio e di quello da spartire col<br />

poeta, scende dalla seggiola e si schiaccia il berretto sulla<br />

testa.<br />

– Aspetti, mi dica, e di sua moglie non sa niente?<br />

– <strong>La</strong> moglie di Tigellio? Tigellio era sposato? Mai sentita<br />

una sciocchezza simile. Certo forse potrei, sforzandomi<br />

molto, risalire a qualche sua amante, alla sua preferita<br />

cantante o concubina. Ma in questo momento ho molto<br />

da lavorare, non ho tempo da perdere.<br />

– Ma la prego, due parole, un accenno, un indizio…<br />

– Non approfittare della mia disponibilità, ragazzo.<br />

So quando posso prendermi una distrazione e quando<br />

invece è fuori luogo, dunque per favore, smamma.<br />

Obbedisco come se la richiesta arrivasse da lei in persona,<br />

la bella signora della villa davanti alla quale abbasso<br />

il capo con umiltà.<br />

Quando rientro in casa e trovo il suo bel volto segnato<br />

dai lasciti del tempo, lo cullo tra le braccia e domando<br />

perdono per non averlo ritoccato come avrei dovuto,<br />

in questi ultimi giorni. Lei mi conforta. Il suo torrido<br />

sorriso d’argilla risplende tra le mie mani.<br />

* * *<br />

Per preparare le anguille Salvatore usa una lama arcuata<br />

e sottile. <strong>La</strong> affonda al centro della pancia dell’animale<br />

e la fa scivolare senza una sbavatura fino a che la carne<br />

non si apre mollemente. Un ostacolo più resistente è il<br />

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segno che la lama è giunta a destinazione. A quel punto<br />

infila l’indice nell’incisione, proprio accanto alla testa affusolata,<br />

e lo fa scorrere all’interno, sotto la grossa spina<br />

centrale. Le interiora, tra la dorsale e la pelle, schizzano<br />

via. Estrae la grossa spina centrale e richiude le due parti.<br />

Sotto un forte getto d’acqua scioglie il sale con cui ha<br />

rivestito in precedenza la lunga bestia, per ammorbidirne<br />

la pelle. Il coltellaccio scende rapido e imprime il suo<br />

colpo netto. Parte la testa. È la prima di una serie di sferzate<br />

che riduce l’animale in eleganti rondelle bianche<br />

cerchiate di un rilievo nero e lucido.<br />

– Stai attento, – diceva approfittando dell’ingenuità<br />

dei miei otto anni. – Bada che da ognuna di queste trance<br />

possono nascere una nuova testa e una nuova coda, e<br />

stai pure sicuro che se succede verranno a morderti, perché<br />

saranno più affamate e cattive di prima. Non muoiono<br />

mai gli esseri del demonio, ricordalo.<br />

In un recipiente taglia quattro pomodori secchi e li<br />

pesta con il prezzemolo e l’aglio, li ammorbidisce con<br />

un cucchiaio d’olio di oliva e li fa scivolare, aiutandosi<br />

con la lama del coltello, sopra i pezzi delle anguille che<br />

io, dopo dieci anni, fingo ancora di temere.<br />

– Va’ a vedere se la moglie di Ignazino ha preparato la<br />

crosta, vai spiritoso!<br />

<strong>La</strong> moglie di Ignazino, Maria, è la panettiera di Giorgino.<br />

Salvatore dice che nessun’altra donna del villaggio<br />

fa la pasta buona come la sua. È da anni che prepariamo<br />

assieme la panada. Un tempo era consuetudine che Salvatore,<br />

tornando dalla pesca con i secchi colmi, si fermasse<br />

davanti alla loro casa e, senza neanche spostare la tenda<br />

che riparava l’ingresso della cucina da sole e vento, urlasse:<br />

– O Maria, appu agattau anguiddas; crasi panada.<br />

Aspettava la solita risposta di lei, breve e consenziente:<br />

– B’anda beni, Salvatore.<br />

Maria impastava farina, strutto e acqua per la sfoglia e<br />

così il pranzo era organizzato.<br />

Allora catturava le anguille con le mani nude, Salvatore:<br />

scavava dei buchi nel fondo dei canali e attendeva che<br />

quelle si avvicinassero per frugare nella melma. Quando<br />

si erano infilate per benino, le stanava con tre dita afferrandole<br />

per il collo. Una volta una lo morsicò. Per diversi<br />

giorni ebbe la febbre alta e l’arto immobilizzato. Poi<br />

guarì e gli rimase solo la cicatrice che si vede ancora adesso,<br />

ma smise di rischiare le dita. Così ho iniziato a cacciare<br />

le piccole bestie che utilizzava come esca.<br />

Adesso capita ben di rado di mangiare le panadas, perché<br />

le anguille bisogna comprarle o barattarle in cambio<br />

delle arselle con quelli degli allevamenti. Oggi ci sono<br />

costate ottocentotrenta lire, un prezzo di favore perché<br />

ci conoscono e ci trattano bene.<br />

Rientro con la pasta avvolta dentro uno dei canovacci inconfondibili<br />

di Maria. Nessuna cucina della zona vanta simili<br />

opere di sottile e meticoloso ricamo all’uncinetto.<br />

Quando lo apro sul tavolo compare una palla di pasta dalla<br />

superficie talmente ricca e intarsiata di fiorami, che è un<br />

incanto stare a guardarla. Anche Salvatore indugia parecchio<br />

prima di afferrarla tra le sue manone per dividerla in<br />

due pezzi non uguali. Segue con il dito qualche arzigogolo,<br />

scelto con la sensibilità dell’occhio. Si perde nella consistenza<br />

morbida e liscia della pasta che lo sottrae per qualche<br />

momento alla realtà della cucina e della mia presenza,<br />

facendolo atterrare altrove. Più volte mi sono domandato<br />

se condividere con Maria quel lavoro non riveli una sorta<br />

di nascosto rito amoroso, vissuto nell’unica forma che non<br />

desta imbarazzi né timori. Scoperto che il passaggio della<br />

mano su una pietra, che voglio immaginare appartenere al<br />

corpo della donna amata, può corrispondere al piacere di<br />

toccare, con gli occhi socchiusi e la testa leggera, la donna<br />

che desidero, mi domando se il peregrinare di Salvatore<br />

sugli arabeschi irraggiungibili della pasta non equivalga<br />

alle carezze con cui, potendo, avvolgerebbe il corpo di<br />

Maria. Donna prosperosa e dal grande seno accogliente,<br />

48 49


nonostante i primi capelli grigi. Potrebbe ancora avvincere<br />

l’indomito Salvatore. Uomo scontroso invece, riservato<br />

al punto che appare immune da qualsiasi fascinamento<br />

verso l’altro sesso. Il solo pensiero che possa essere<br />

stato marito o fidanzato o amante sembra ai miei occhi<br />

un’ipotesi così ridicola che si sgretola da sé. Eppure a volte<br />

mi pare di scorgere in lui gesti e accenni che, per quanto<br />

fugaci e fantasiosi, suggeriscono un moto vivo, sotto<br />

quel largo torace scorbutico.<br />

<strong>La</strong> palla giallognola di pasta sfoglia cede sotto la morsa<br />

tra il pollice e l’indice di Salvatore che stringe e strappa.<br />

Il pezzo piccolo è di mia responsabilità; lui si lavora<br />

il grande. Ci trattiamo da provetti pizzaioli; a sfregio ci<br />

passiamo una bottiglia senza etichetta che potrebbe sostituire<br />

un mattarello.<br />

– Non ne ho bisogno, faccio senza.<br />

– Prendi, prendi tu che hai le mani delicate, – mi dice<br />

canzonatorio.<br />

– Sono mani di pescatore le mie, itta ti crèttasa?<br />

Per dargli una dimostrazione chiara delle capacità che si<br />

ostina a non riconoscermi, allungo la pasta a forma di disco<br />

e decido di esibirmi in un numero eccezionale, mai<br />

tentato prima, cui ho assistito l’altra sera alla televisione<br />

del bar. Mi preparo con rumori appositi e gesti inusuali.<br />

Non appena, sbirciando con la coda dell’occhio, mi accorgo<br />

che Salvatore mi osserva, prendo la pasta sulla mano<br />

e faccio scattare il polso. Il disco sale, gira come una<br />

ruota. Lui, che non era da Agostino, non deve avere mai<br />

visto una cosa simile. Lo fanno a Napoli e Salvatore non è<br />

mai stato fuori dall’isola. <strong>La</strong> pasta ha roteato sbilenca e<br />

adesso inizia la discesa. Trovare il momento in cui afferrarla<br />

è l’impresa più difficile. È questione di un attimo -<br />

sufficiente a dubitare di saperla riprendere. Mi pento del<br />

misero tentativo di cui Salvatore non smetterà di deridermi<br />

per il resto della vita. L’immagino uscire di casa contorcendosi<br />

in risate talmente sonore che tutti gli si avvi-<br />

cineranno trascurando cibo, tavole e famiglie. Sarebbe un<br />

evento, vedere il sobrio e fosco Salvatore che se la ride a<br />

crepapelle. E lui di certo non si farà sfuggire un’occasione<br />

tanto ghiotta per prendersi gioco di me. “L’acrobata<br />

voleva fare… Il saltimbanco, poveretto”, rivelerà davanti<br />

alla mia faccia avvilita. È così veloce il pensiero di tutto<br />

questo che mi basta allungare appena le mani perché il<br />

disco, come attratto per magia, ci finisca nel mezzo, perfettamente<br />

modellato.<br />

Lo poggio sul tavolo, pronto. Lui lo vede. Il suo, tre volte<br />

più grande, è affianco, pronto anch’esso. Ho la canottiera<br />

intrisa di sudore.<br />

– Bene, – dice senza alcun riferimento alla mia prodezza,<br />

– passami la padella.<br />

Dovrebbe dire la tortiera ma non lo dice perché gli<br />

sembra un nome che utilizzano le femmine, quello. Comunque<br />

sia gli passo il recipiente che imburra appena e<br />

sul quale distende il disco più grande. Lo schiaccia sul<br />

fondo e ne stira per bene la pasta, in modo che aderisca<br />

fin sui bordi. Con una delicatezza che non parrebbe appartenergli,<br />

vi dispone, a partire dal centro, parte delle<br />

anguille già tagliate e condite, sovrapponendole in diversi<br />

strati che annaffia con abbondanza d’olio. Ricoprire il<br />

tutto è uno dei lavori più impegnativi e spetta a me. Devo<br />

sollevare il disco più piccolo facendo attenzione che<br />

non si rompa, posarlo sulle anguille in modo che i centri<br />

corrispondano e richiuderlo sul bordo della pasta che contorna<br />

la teglia. Plasmo con le dita una grossa linea. Una<br />

volta cotta, sembrerà un cordone intrecciato attorno al<br />

tortino rigonfio.<br />

Maria ha acceso il forno già da mezzora e ci aspetta. Mi<br />

dico che questa deve essere la parte del rituale dove si<br />

compie l’unione agognata. Lui entra, trionfante, preceduto<br />

dall’opera compiuta. Lei l’accoglie davanti all’imboccatura<br />

rotonda del forno, già caldo di fuoco e brace, con<br />

un bicchiere di vino dei frati - che non sono più quelli<br />

50 51


scalzi di un tempo ma altri che vendono, oltre al vino, un<br />

delizioso mirto bianco. Nell’altra mano tiene la pala in<br />

ferro su cui sforna chili di pane tutte le mattine dei giorni<br />

dispari. Rimaniamo in quella casa fino a quando la panada<br />

non è cotta, a sorseggiare vino, seduti intorno al tavolo,<br />

su sedie di paglia identiche a quelle che avevamo in<br />

casa prima che marcissero e fossero sostituite da moderne<br />

sedie in plastica e ferro, col sedile anatomico sempre freddo<br />

e duro.<br />

Ignazino versa dell’altro vino, porta su un cestino il pane<br />

del giorno prima, ancora soffice e odoroso, e del carasau<br />

che cosparge di olio, sale e pepe e mette a scaldare nel<br />

forno. Pochi minuti e su pani guttiau è croccante al punto<br />

giusto.<br />

Ignazino non è di famiglia di pescatori. Suo padre, che<br />

è morto alcuni anni fa, è stato uno dei primi stagionali ad<br />

essere assunto alle saline, dopo che vennero rilevate dall’ingegnere<br />

Conti Vecchi. Ancora adesso, quando ne parla,<br />

Ignazino non trattiene il confuso imbarazzo di sentimenti<br />

che sembrerebbe derivare da un rancore mai sopito<br />

o da un affetto mai abbastanza appagato, nei confronti<br />

di quell’uomo che tutti chiamavano su pallitteri contentu<br />

per una deformazione del labbro superiore, allungato come<br />

in un sorriso. Is Pallitteris erano i lavoratori più giovani,<br />

i ragazzini che sul finire dell’estate, sugli argini di<br />

cristallizzazione, separavano con le mani il sale, raggrumato<br />

in bianchi sentieri abbaglianti e disordinati, dai residui<br />

di fango. Era un lavoro fra i più umili, da eseguire<br />

con la schiena piegata e sotto i raggi del vicino sole di settembre,<br />

dal quale si era esonerati solo dopo aver dimostrato<br />

la propria fedele dedizione all’opera del Conti Vecchi,<br />

soprannominato su Generali dagli stessi uomini dell’amministrazione.<br />

– E tu in salina non hai mai lavorato?<br />

– Deu seu piscatori, – mi risponde Ignazino con stizza,<br />

senza mezzi termini.<br />

Quando la panada si fa dorata Maria allunga nel forno<br />

la pala di ferro; con uno scatto dell’avambraccio la infila<br />

sotto la tortiera, poi la tira fuori e la adagia sul legno del<br />

tavolo. Libera la pala dalla pasta fumante con un nuovo<br />

scatto nella direzione opposta e la ripone, verticale, a lato<br />

del forno.<br />

– Marieddu, Fisieddu! – urla.<br />

<strong>La</strong> tenda che separa la cucina dalla camera da letto si<br />

agita e si gonfia. Compaiono da sotto, strisciando come<br />

serpentelli, due bambini alquanto simili, entrambi con<br />

la bocca segnata da grosse labbra leggermente irregolari,<br />

ognuna a suo modo. Hanno cinque e sette anni, lunghi<br />

piedi tutti neri, gambette sottili e le ginocchia sbucciate.<br />

Si gettano sul pane guttiau, affrontandosi nella gara di<br />

sempre per chi morsica con il crocchio più fragoroso. Il<br />

più grande ha tra i capelli venature d’oro, frutto del sole.<br />

L’altro ha capelli neri come la pece e occhi grandi, segnati<br />

da lunghe ciglia schiarite anch’esse dal sole. Mi<br />

viene tra le gambe e allunga le braccia per esser preso su.<br />

– È vero che la tua fidanzata è una bambola di pietra?<br />

– mi domanda non appena i nostri occhi sono alla stessa<br />

altezza.<br />

Qualcuno ride, sussurra divertito per la sfrontatezza<br />

del piccolo.<br />

– Non ho nessuna fidanzata, – rispondo pieno di un<br />

calore liquido che rimbalza dalle ginocchia alla testa e<br />

potrebbe innaffiare tutti quanti loro e tingerli di porpora,<br />

o affogarli nell’attimo di imbarazzante silenzio che si<br />

spalanca subito dopo.<br />

– Allora taglio la panada, – interrompe Maria afferrando<br />

una lama da macellaio capace di scorticare un<br />

bue.<br />

Che tagli pure, penso io, ma non si dimentichi delle<br />

lingue degli innocenti che sono un ottimo condimento.<br />

– E dov’è la tua fidanzata di pietra? – continua il piccolo.<br />

52 53


– Marieddu, Fisieddu, ora basta fare domande. Oberei sa<br />

bucca po pappai e silenzio!<br />

– Ma Frantziscu dice le bugie… – continua il bambino,<br />

concedendosi a un piagnisteo moderato. <strong>La</strong> lagna del<br />

piccolo mi suscita un risolino di compiacimento. Il padre<br />

la incoraggia con poche battute, secche ed incisive.<br />

– Guai a chi parla di Frantziscu! Mangiate e state zitti.<br />

E non toccatevi le dita dei piedi quando siete a tavola.<br />

Intanto la festa è rovinata. <strong>La</strong> mia Donna <strong>Giulia</strong> è stata<br />

profanata senza ragione; neanche si fosse trattato di fare<br />

razzia di preziosi gioielli, maschere d’oro o anelli votivi.<br />

Torno a casa più povero di prima. Salvatore, che non ha<br />

detto una parola per tutto il tempo, ha osservato ogni<br />

movimento dell’unica donna lì presente, assai indaffarata<br />

a mettere il cibo in bocca ai bambini mentre il padre intimava<br />

il silenzio come corretta abitudine al lavoro, poiché<br />

il vociare non va per niente d’accordo con il mestiere<br />

che si accingono ad imparare. Il più grande, bisogna riconoscerlo,<br />

non ha quasi fiatato. <strong>La</strong> sua maggiore responsabilità<br />

si nota per aver sollevato la testa bruciacchiata<br />

verso il fratellino che tenevo sulle ginocchia, quando quest’ultimo<br />

ripeteva la sua domanda inopportuna. Chiaramente<br />

pregustava la punizione che gli avrebbe inferto<br />

una volta sceso a terra, dietro la tenda dove i rapporti tra<br />

bambini si ripristinano come natura vuole, secondo la<br />

legge del più forte.<br />

– O Salvatore, ma ci fai l’amore, con Maria? – gli domando<br />

non appena usciamo da quella casa, con la mezza<br />

panada che ci spetta tra le mani, davanti alla Madonnina<br />

che dall’alto ascolta le nostre parole e attende anch’essa<br />

la rivelazione.<br />

Salvatore continua a camminare come se non mi avesse<br />

sentito. Scosta la tenda della cucina ed entra in casa<br />

precedendomi. Poggia quanto ha in mano e prima che<br />

anch’io possa entrare è già fuori di nuovo, con il canovaccio<br />

ricamato che pende come una bandiera morta.<br />

– Riportaglielo tu, per favore.<br />

– Se non mi vuoi rispondere non fa niente, tanto io lo<br />

so che è così.<br />

Intuisco di colpo quanto possa essere oscena l’esasperazione<br />

di una passione repressa. È esattamente la forza<br />

della manata di Salvatore, aperta oltre le cinque dita,<br />

pesante più della sua intera corporatura, che mi si spiaccica<br />

addosso facendomi retrocedere di tre passi e rivoluzionando<br />

i miei pensieri d’una tal misura che smetto di<br />

credere di non avere il suo stesso nome.<br />

Padre!, penso. E forse lo dico anche, prima che mi arrivi<br />

un secondo ceffone, sulla stessa guancia, dalla stessa<br />

mano miracolosa. Non ho più dubbi. Il primo punisce,<br />

il secondo conferma l’appartenenza. Padre, ti ho trovato.<br />

Perdo sangue dal naso o forse è il labbro, ad essersi spaccato.<br />

Sangue del suo sangue, può pretenderlo senza riserve.<br />

Ecco, te lo rendo. Accetta questo mio gesto di sottomissione.<br />

Egli è il padre, non ha bisogno di mostrarsi<br />

misericordioso.<br />

Mi strappa il canovaccio dalle mani prima che lo usi<br />

per ripulirmi dal sangue di cui sento forte l’odore, volta<br />

le spalle e va ad infilare un braccio in casa di Maria.<br />

Il canovaccio sventola oltre quella porta.<br />

* * *<br />

Mi accosto al compimento dei miei diciotto anni preceduto<br />

dal rimorso di una sopravvivenza pervicace. Se<br />

morrò, penso, che ne sarà di Donna <strong>Giulia</strong>? Esiste un’unica<br />

risposta ed è che non posso ancora morire, nonostante<br />

tutto quello che ho già vissuto. Ora che ho scoperto<br />

qual è l’aspetto del padre che mi lega all’universalità<br />

degli uomini, posso anche riconoscere il carattere effimero<br />

del mio nome, smosso non meno di un branco di<br />

anguille in calore.<br />

C’è chi sostiene che i pesci non soffrono, quando cre-<br />

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pano. Noi che li tiriamo fuori dall’acqua sappiamo che<br />

non è così, ma preferiamo non farci caso. Notiamo però<br />

che hanno bisogno di un certo tempo, più o meno lungo<br />

a seconda della specie e dell’esemplare, per morire; e che<br />

non se ne vanno mai in un unico istante. Neanche quando<br />

si dimenano e si sbattono sul fondo della barca facendoci<br />

perdere la pazienza, tanto che alla fine li colpiamo<br />

col remo. <strong>La</strong> sofferenza preferiamo riservarla a noi stessi,<br />

che ne abbiamo coscienza. Specie intorno ai diciotto anni,<br />

quando riconoscere il padre equivale a perderlo e verificare<br />

la sua esperienza significa tradirlo.<br />

Il padre di cui non porto il nome è quello che mi ha<br />

cresciuto e introdotto alla laguna. Mi ha presentato alle<br />

anguille fin dalla più tenera età perché imparassi il loro<br />

linguaggio, senza poter prevedere che, quando avessi<br />

raggiunto la capacità di pescarle, a bratzu o con le esche,<br />

sarebbero scomparse da queste acque, bruciate dal miracolo<br />

industriale.<br />

<strong>La</strong> nuova centrale dell’Enel costruita sul bordo dell’acqua,<br />

due alte ciminiere coronate da bande rosse e impianti<br />

inscatolati nel cemento armato, immette tanti di<br />

quei liquami che surriscalda le acque intorno. Certi giorni<br />

non si può infilare un dito senza ritirarlo gonfio per<br />

via del calore. I muggini che si avvicinano alle condotte<br />

di scarico vengono raccolti già lessi, galleggianti e con la<br />

pancia al cielo. Qualcuno racconta di averne afferrato<br />

uno con il coppo, una volta, e di averlo addentato, preso<br />

dalla fame. Era cotto a puntino, non c’era neanche più<br />

traccia dei filamenti rossi che altrimenti avrebbero colorato<br />

la lisca.<br />

Dice Salvatore che non c’è da preoccuparsi. Eventi come<br />

questi non fanno che annunciare l’apocalisse che comunque<br />

verrà. Dice che la fine infernale della laguna è<br />

decisa da tempo. Ogni aumento della temperatura lo<br />

conferma.<br />

D’altronde se neanche le anguille, che sono dei demo-<br />

ni inferiori, hanno avuto la capacità di resistere all’andamento<br />

dei tempi, nessuna eccezione, ben si comprende,<br />

può ammettersi per esseri che anelano, seppure inconsapevoli,<br />

all’angelico.<br />

Donna <strong>Giulia</strong> ritorna in prima linea nel mio pensiero,<br />

divaricando le sue belle labbra saporite ed indigeste. E la<br />

sua testa, ancora mancante della vivezza di un occhio, diventa<br />

immagine raccapricciante. Le donne che risiedono<br />

al villaggio, comprese quelle che fanno il pane per l’intera<br />

collettività e lo vendono man mano che esce dal forno,<br />

nascono già esperte e sufficienti in tutto. Non c’è niente<br />

che io possa insegnare loro, neanche se hanno quindici o<br />

tredici anni. Per questo la mia donna dovrà venire da lontano:<br />

sarà una di quelle fanciulle cresciute all’asciutto,<br />

come dice Salvatore, tra le belle colonne di una villa.<br />

Lui ha conosciuto mia madre. Sa che è una di quelle che<br />

lavoravano da queste parti. Lo dice senza cattiveria e senza<br />

malizia, sapendo bene che capisco ciò che intende, poiché<br />

solo un tipo di lavoro è ammesso presso la laguna, per<br />

chi non è figlia né moglie di pescatore. Mi trovò una<br />

mattina sulla porta di una delle barraccas vicino a un canale<br />

d’acqua dolce, dove ancora sguazzavano le anguille.<br />

– Devi ringraziare il Signore se non ti hanno agguantato<br />

prima loro. Con quelle guance grasse che avevi da<br />

neonato… – mi dice ogni tanto perché non mi illuda di<br />

poter pretendere altro da lui che senza alcun obbligo mi<br />

ha allevato, infischiandosene della legge.<br />

Al Comune risulto nato da madre ignota - prostituta<br />

di cui Salvatore mantiene l’anonimato - e padre altrettanto<br />

ignoto. È così solo dal compimento dei miei quattordici<br />

anni, allorquando un ufficiale giudiziario pretese<br />

di far luce sulla mia esistenza non documentata. Prima<br />

di quel momento il mondo oltre il ponte mi ignorava,<br />

nella assoluta indifferenza mia e del villaggio. Alla scuola<br />

di Giorgino mi conoscevano tutti e nessuno chiedeva<br />

certificati. – Frantziscu di Salvatore, – rispondevo io. E<br />

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quelli dicevano: – Sezzirì Frantziscu. – Io mi sedevo e la<br />

lezione cominciava. Il mio nome sul registro di classe era<br />

segnato proprio così: Frantziscu di Salvatore.<br />

– Tu sai chi è mia madre? – gli domando ogni volta<br />

che mi sento affaticato.<br />

E lui risponde: – Lo immagino.<br />

Allora mi sbilancio: – E se ti chiedessi di farmela conoscere?<br />

– Se vuoi ti ci porto, – mi dice lui.<br />

Sì, lo voglio, vorrei dire. <strong>La</strong> lingua freme sul sibilo<br />

dell’affermazione. Tuttavia giro la testa in silenzio, vinto<br />

dalla scelta che fu la sua, diciotto anni fa.<br />

– Abita di qua o di là dal ponte? – domando solamente.<br />

– Oltre il ponte, – risponde.<br />

So bene che va alla bidonville solo per lavorare qualche<br />

ora, giorno o notte che sia, forse in compagnia di<br />

qualche magnaccia.<br />

– Dove se li prende i clienti, per la strada?, – domando<br />

con cattiveria.<br />

E subito dopo, senza dargli il tempo di rispondere, aggiungo:<br />

– Scommetto che anche tu sei uno di quelli che<br />

vanno a fottersela, di tanto in tanto.<br />

Tipica frase detta tanto per concludere nella rabbia una<br />

discussione che non conosce altra risoluzione. Salvatore<br />

si adira. Non mi pesta perché è consuetudine che io mi<br />

inviperisca contro di lei. So fare anche di meglio e subito<br />

mi metto all’opera.<br />

– E quanto vorrà per succhiarmelo, eh? Quanto mi<br />

chiederà secondo te? Oppure quelli della mia età non li<br />

prende apposta? Ma no, non si mette certo di questi<br />

scrupoli, lei… O c’è un cartello all’ingresso della baracca<br />

che dice “vietato a quelli che potrebbero avere l’età di<br />

mio figlio”?<br />

Non sempre Salvatore mi lascia arrivare fino a questo<br />

punto. Più spesso mi impone di stare zitto, mi minaccia<br />

con la sua mano pesante. Un tempo si era inventato una<br />

storia, per placare la mia rabbia. Mi raccontava della madre<br />

del piccolo Tonio, la quale si nascondeva per non essere<br />

vista dal figlio. Infatti sapeva che allorquando avesse<br />

ceduto alle richieste del bambino e si fosse fatta trovare,<br />

egli sarebbe morto. Resisteva con grande fatica, all’enorme<br />

tentazione delle lacrime del bimbetto. Il piccolo ne<br />

sentiva la voce durante la notte, quando era buio, e a volte<br />

anche di giorno, come se lei fosse alle sue spalle. Sempre<br />

però, quando si voltava, sua madre era già scomparsa.<br />

Allora il bimbo piangeva lacrime che scintillavano come<br />

stelle. E per ognuna che rotolava per terra una pozza rotonda<br />

si formava, nella quale prima una foglia d’alga, poi<br />

qualche rana, poi i pesci e infine le anguille, cominciavano<br />

a vivere.<br />

Da bambino, quando Salvatore mi raccontava questa<br />

storia, immaginavo un bimbetto paffuto, con in testa un<br />

cappellino blu dalla visiera corta come quello del mio<br />

amico Ermellino, il quale dice di averlo avuto da suo nonno<br />

cui l’avrebbe regalato un marinaio del Mare del Nord.<br />

Il vero nome di Ermellino è Vincenzo, ma nessuno lo<br />

chiama così. Ha il mento molto sporgente e gli incisivi<br />

larghi. Quando vogliamo prenderlo in giro gli diciamo<br />

che nel mezzo dei suoi denti potrebbe passare un branco<br />

di tonni e lui neanche se ne accorgerebbe.<br />

Ora basta che Salvatore faccia un piccolo accenno a Tonio<br />

perché io intenda il resto e mi calmi nella commozione<br />

di quel ricordo infantile. Una calma che dura appena<br />

l’attimo di una riflessione: troppa energia mi attraversa,<br />

di fronte all’oscura realtà legata alle mie origini.<br />

Ho però anch’io le mie armi: se chiamo “mamma” Salvatore,<br />

so di farlo incollerire fino a sentirmi soddisfatto e<br />

risarcito.<br />

Così gli urlo: – Mamma, mamma, vieni fuori, ho un<br />

regalino per te…<br />

Una manata mi ricorda che la madre del piccolo Tonio,<br />

58 59


dopo essersi avvicinata alle sue spalle per consigliarlo sulla<br />

scelta della fanciulla da sposare, nella fretta di fuggire<br />

prima che egli si rigirasse, inciampò su una pietra e ruzzolò<br />

nel fango. Tonio si era nel frattempo voltato ma aveva<br />

visto solamente una donna disperata che cercava di<br />

rialzarsi da terra, tutta affannata, sporca e con le vesti lacere.<br />

Pensò che quella meschina non poteva di certo essere<br />

sua madre e distolse lo sguardo, mentre la donna, sgomenta,<br />

scappava in lacrime. Il piccolo Tonio credette che<br />

anche quella volta fosse stata l’anima di sua madre a parlargli.<br />

Scelse la moglie che gli aveva consigliato la voce di<br />

cui ormai si fidava, una fanciulla dai capelli d’oro come i<br />

suoi e un carattere gentile, ma non intese mai più la voce<br />

della madre.<br />

* * *<br />

Omero, accovacciato davanti al cancello di ferro sulla<br />

solita seggiola vecchia e sgangherata, protegge i ruderi<br />

della villa. Si cala il berretto sugli occhi, non appena mi<br />

vede arrivare. Ma si alza, quando gli sono davanti; e pungolato<br />

da una barcarola di tic nervosi attende, come una<br />

gallina a passeggio sul tappeto di un fachiro, che mi avvicini.<br />

Parecchie altre volte sono tornato alla villa di Tigellio,<br />

ed ho avuto modo di osservarlo da vicino. I suoi<br />

sussulti si annunciano in serie. <strong>La</strong> prima scossa parte dalle<br />

spalle, le attraversa da destra a sinistra; la seconda lo<br />

induce a flettere la testa su di un lato, a storcere la bocca<br />

e strizzare gli occhi. Poi solleva anche la mano, di scatto,<br />

come ad indicare la chiusura dello show.<br />

– “Non diede mai prova di coerenza. Spesso correva<br />

come se avesse il nemico alle spalle, ma più spesso incedeva<br />

come se portasse gli arredi sacri di Giunone; a volte<br />

aveva dieci servi, altre volte duecento; ora non aveva<br />

in bocca che re, tetrarchi e simili magnificenze”.<br />

Così recita, invece di salutarmi. Poi si zittisce di colpo.<br />

Forse vuole degli applausi. Accenno, sbagliando, a un<br />

battito di mani. Lo vedo gonfiare il petto e grugnire. Recupero<br />

la sua benevolenza con un’amichevole pacca sulla<br />

spalla, poiché sono ormai amante della donna che fu di<br />

Tigellio, amico del grande Cesare e frequentatore della<br />

corte dell’impero.<br />

– Cosa mi dici, Omero delle donne di Tigellio?<br />

Mi scruta diffidente e risponde a modo suo:<br />

– “Mi basta un tavolo a tre piedi, un cucchiaio di sale<br />

fino e una toga, sia pure rozza, per potermi difendere dal<br />

freddo”.<br />

– Sono parole di Donna <strong>Giulia</strong>?<br />

– È il Poeta, che parla.<br />

<strong>La</strong> verità è che Omero ignora del tutto la moglie di Tigellio.<br />

Neanche sa se sia mai esistita. Ma ho imparato che<br />

quando non conosce qualcosa per non doverlo confessare<br />

afferra al volo le frasi, di chissà quale provenienza, che gli<br />

balzano in testa.<br />

Noto che mantiene lo sguardo sulle mie mani. Attende<br />

qualcosa. Grugnisce di un verso pensieroso, forse medita<br />

sull’amicizia che ci unisce da quando mi sorprese a<br />

lisciare il fianco di Donna <strong>Giulia</strong>. Magari siamo stati<br />

amanti della stessa donna, abbiamo accarezzato la stessa<br />

porzione di quel corpo con pari intensità. E tale condivisione<br />

svelerebbe un’identica intuizione, o addirittura<br />

una fratellanza, intessuta di un afflato reciproco.<br />

I nostri sguardi si incontrano e lui è di nuovo preda di<br />

una scarica di minuscoli gesti che lo tirano, lo rattrappiscono,<br />

lo allungano e lo accartocciano in lampi e smorfie,<br />

come a voler camuffare l’imbarazzo di essere stato<br />

sorpreso in un’operazione proibita. Poi, di un’espressione<br />

tutta seria, con la visiera di nuovo calata fino al naso,<br />

attacca come il nastro di un registratore:<br />

– Ore dodici e quarantasette del giorno del Signore<br />

giovedì dell’anno del Signore 1973, mese di settembre.<br />

Il custode non può assentarsi dal luogo di lavoro fino al<br />

60 61


termine dell’orario mattutino stabilito nelle ore tredici in<br />

punto. Alle ore tredici meno due minuti il suddetto custode<br />

può peraltro cominciare a prepararsi per l’abbandono<br />

del luogo di cui sopra trasferendo la sedia, sulla quale<br />

svolge la più parte delle funzioni ad esso assegnate, all’interno<br />

del recinto oggetto della custodia e richiudendo<br />

con sicuro lucchetto di comprovata saldezza il cancello<br />

della vetusta abitazione del cantastorie Tigellio Ermogene<br />

il sardo.<br />

Facendo perno sulle sue qualità di fedele guardiano, ottengo<br />

l’assenso ad attendere i pochi minuti che mancano<br />

al termine del suo compito all’interno della villa, tra i<br />

gatti, i papaveri ballerini e le erbe spinose dagli acuti fiori<br />

violacei.<br />

Ritrovo il fianco dolcissimo della signora della villa.<br />

Pare non conosca altri pretendenti a parte me e chissà,<br />

forse, il vecchio Omero, che non ho però mai visto avvicinarsi<br />

a lei se non quella prima volta in cui mi sorprese,<br />

pressoché assopito, tra le rovine. Ma da allora è passato<br />

molto tempo.<br />

All’ora stabilita una sveglia strepita sonora dalla tasca<br />

dei calzoni di Omero che vedo agitarsi oltre le sbarre del<br />

cancello. Mi urla di uscire perché deve chiudere. Lo raggiungo<br />

e attendo che faccia scattare sulle maglie della catena<br />

il lucchetto semi arrugginito. Ignorandomi, accende<br />

con una sola pedalata il Garelli color grigio topo e<br />

sparisce dietro una nuvola di fumo puzzolente.<br />

Raggiungo Salvatore nella piazza di fronte alla stazione,<br />

dietro i secchi ormai quasi del tutto vuoti.<br />

* * *<br />

Da tempi immemorabili la parte della laguna nei pressi<br />

di Sant’Avendrace, usata come discarica dell’intero<br />

quartiere, è puzzolente e pestifera.<br />

Già tre secoli or sono, la popolazione residente tra la<br />

laguna e la necropoli di Tuvixeddu lamentava l’orrido<br />

fetore, l’incubo delle febbri impietose e i disastri che seguivano<br />

alle alluvioni. Fu così che pretese e ottenne<br />

udienza presso i governanti della <strong>città</strong> i quali, dapprima<br />

la liquidarono rapidamente ma poi, dopo molto insistere<br />

e protestare, interpellarono un esperto il quale risolse<br />

che c’era un unico modo per debellare i pericoli delle laguna.<br />

Tutto ebbe inizio allorquando, in seguito alle piogge<br />

dell’autunno, i fiumi si gonfiarono, i terreni intorno alla<br />

laguna vennero allagati e il ponte, nient’altro che un susseguirsi<br />

di tavole e barche, fu danneggiato gravemente.<br />

In seguito ai disordini che seguirono, la Segreteria di<br />

Stato rinnovò al governo del viceré la richiesta di dieci<br />

costose feluche coralline per sopperire ai danni dell’ennesima<br />

alluvione, fino a quando non fu stanziata la somma<br />

occorrente. Ebbero allora contemporaneamente inizio<br />

anche i lavori di risanamento della laguna, tanto richiesti<br />

dai cittadini. – <strong>La</strong> terra deve prendere il sopravvento<br />

sulle acque, – disse Mastro Porcu, che di mestiere<br />

serviva i potenti e chiunque avesse abbastanza denari per<br />

pagare le sue opere dell’ingegno civile.<br />

Con una potente squadra di intrepidi operai - uomini<br />

ben armati di vanghe, picconi e grande disperazione - il<br />

Porcu, stimato Mastro cittadino, venne incaricato dall’amministrazione<br />

civica del 1776 di terrapianare quel<br />

tratto di laguna troppo olezzoso e troppo ricco di rettili,<br />

uccelli e insetti d’ogni misura, capaci di ingrassare a volontà<br />

tra le erbe e le canne palustri.<br />

Mastro Porcu ispezionò l’area, rafforzò la squadra e prese<br />

a studiare sulle carte le linee di conformazione della<br />

costa. Subito valutò quelle indicazioni approssimative e<br />

mai troppo chiare, non solo per l’imprecisione dei disegnatori,<br />

ma pure perché i confini tra terra e acqua erano<br />

di natura molto instabili. A tale variabilità e indeterminatezza<br />

egli decise di contribuire personalmente e pieno<br />

62 63


di trasporto, con apporti adeguati di intelligenza, capitali<br />

e uomini.<br />

Non privo di un notevole ingegno - che gli era valso il<br />

titolo di Mastro di cui portò vanto per tutta la sua non<br />

lunga ma intensa e laboriosa vita - il Porcu inventò un impianto<br />

di pompe capace di risucchiare le acque, in grado<br />

di autoalimentarsi dopo una prima spinta. Il procedimento,<br />

semplice in linea di principio, sfruttava la caduta dell’acqua<br />

man mano estratta tramite un aspiratore che, immerso<br />

nella laguna, ingurgitava i liquidi e li rilasciava dall’alto.<br />

Quelli, ricadendo in grandi secchi, mettevano in<br />

moto una ruota dentata collegata a un dispositivo che generava<br />

la pressione necessaria perché il grosso tubo sul fondo<br />

inghiottisse tanta acqua quanto la sua capacità permetteva.<br />

<strong>La</strong> macchina aspirante funzionava alla perfezione, fino<br />

a quando non si inceppava per via del fango che spesso<br />

risaliva assieme all’acqua, intasando la condotta. Ogni<br />

tanto veniva risucchiato pure qualche pesce, il sistema si<br />

arrestava e c’era bisogno di un braccio che desse nuovamente<br />

la spinta dell’avvio. Il Porcu in persona si occupava<br />

della messa in moto della pompa. Erano inconvenienti che<br />

rientravano nelle regole della tecnologia del tempo, così<br />

altamente artigianale e imprecisa. Gli uomini ubbidivano<br />

e si affaccendavano al meglio delle loro capacità, speranzosi<br />

che il lavoro, a rendersi efficienti e indispensabili agli<br />

occhi del capo, sempre vigile e pignolo, non sarebbe mancato<br />

neanche in futuro.<br />

L’inizio dei lavori fu definito fenomenale. Nelle prime<br />

settimane, la quantità delle acque risucchiate e delle terre<br />

gettate sul fondo prospiciente al quartiere di Sant’Avendrace<br />

superò di gran lunga le migliori previsioni.<br />

Niente di meno che il segretario personale del viceré, in<br />

ispezione nella zona dei lavori, ebbe a congratularsi col<br />

Porcu per la sagacia del suo spirito e la destrezza dimostrata<br />

nell’esecuzione dell’opera. <strong>La</strong> sua fama si accrebbe<br />

tanto che gli furono proposti anche altri lavori, tra cui<br />

una bonifica ai piedi del colle di Bonaria, alquanto invitante<br />

per il compenso con cui sarebbe stata retribuita e<br />

l’inventiva che avrebbe richiesto. Tuttavia il Porcu, sedotto<br />

dalle acque di Santa Gilla, rifiutò ogni altro incarico.<br />

Infatti, allorché aveva cominciato a lavorare in laguna,<br />

una strana sensazione si era impossessata di lui.<br />

Ben presto quel prosciugamento sarebbe diventato<br />

un’ossessione tale da rapirgli il sonno.<br />

Ogni sera, al ritorno alla casa di Stampace, accendeva le<br />

otto candele dritte sulla cassapanca intagliata da quel<br />

brav’uomo del cognato molti anni addietro, quando era<br />

ancora in vita sua moglie. Distendeva un foglio largo come<br />

un lenzuolo e riproduceva col carboncino il breve tratto<br />

di costa interna, segnando i cambiamenti che quella<br />

andava subendo per effetto dell’opera sua e dei suoi uomini.<br />

Li appuntava usando una minuzia equiparabile solo<br />

al rigore con cui, di giorno, verificava che gli operai rispettassero<br />

nel dettaglio le misure indicate. In breve, il<br />

bisogno dell’assoluta precisione si fece spasmodico ed angosciante.<br />

Ogni spazio ed ogni movimento dovevano essere<br />

riprodotti, istante dopo istante, con assoluta esattezza.<br />

<strong>La</strong> notte Mastro Porcu si sentiva costretto a trascurare<br />

le necessità del riposo per rimanere sempre più a lungo al<br />

ruvido tavolo di legno col carboncino in mano, e così ritardava<br />

via via l’ora in cui dare l’addio alla veglia. Contava,<br />

sui millimetri della superficie, gli anfratti sottratti all’acqua<br />

e alle zanzare. Si gloriava della diminuzione delle<br />

uova di quegli insetti che si sarebbero proporzionalmente<br />

dischiuse. Egli era certo che le zanzare fossero la causa<br />

della malattia che in poco meno di due mesi si era portata<br />

via sua moglie. Dunque continuò a contare e misurare,<br />

fino a quando l’angoscia e la conseguente spossatezza non<br />

lo condussero nel nero baratro della morte. L’effluvio vendicativo<br />

delle acque aveva cominciato ad agire sul suo<br />

corpo e sulla sua volontà e avrebbe continuato a tramare,<br />

cesellare e rifinire, fino a renderlo schiavo dell’abitudine,<br />

64 65


aggirando il più comune buon senso. Mastro Porcu non<br />

pose mai termine al suo lavoro poiché rovinò con esso, intrappolato<br />

nella medesima opera di prosciugamento, solerte<br />

e inesorabile. Solo in punto di morte, quando la riflessione<br />

definitiva era ormai matura e irrevocabile, il Porcu<br />

intese di essere caduto sotto il potere micidiale e misterioso<br />

delle acque le quali, rapitagli la cognizione del<br />

tempo comune, l’avevano incanalato verso la folle meta<br />

dell’eternità.<br />

<strong>La</strong> terra che quotidianamente veniva scaricata sui fanghi<br />

d’un tratto denudati e prosciugati, si faceva calpestabile<br />

in misure crescenti ora dopo ora. Contemporaneamente<br />

Mastro Porcu perdeva anche l’abitudine al solo distendersi<br />

sul letto. Infiniti erano gli accorgimenti che dovevano<br />

essere registrati sulle mappe che andava disegnando<br />

con i suoi carboncini, così che non venisse trascurato<br />

un solo istante del mutare delle proporzioni tra la parte<br />

dura e la parte molle della laguna.<br />

Da mesi non chiudeva occhio per l’attenzione che sentiva<br />

di dover prestare a quell’opera certosina di meticolosa<br />

resocontazione, allorquando fu trovato, all’alba di una<br />

mattina dei primi di ottobre, da una popolana ai bordi<br />

della laguna. Incuriosita dalla torva figura di difficile definizione<br />

- da principio aveva pensato che fosse un animale<br />

- la donna si era avvicinata, fino a quando non l’aveva<br />

riconosciuto. Stava riverso nella riva fangosa, accanto<br />

alla macchina di sua invenzione.<br />

Fu sparsa in giro la voce che fosse inciampato e avesse<br />

battuto la fronte, soffocando nella pozza d’acqua in cui<br />

era caduto. Grazie al diffondersi di quella versione, venne<br />

seppellito in terra consacrata. In realtà il Porcu aveva<br />

i polmoni talmente straripanti d’acqua che in più d’uno<br />

lo dissero morto per il desiderio di contribuire, con il suo<br />

personale apporto, al prosciugamento della laguna. Nella<br />

sua casa furono ritrovate migliaia di carte, tutte datate,<br />

ben ripiegate e riposte con ordine all’interno della<br />

cassapanca. L’ultima era completamente annerita: il suo<br />

desiderio aveva preceduto di gran lunga l’esito dei lavori,<br />

segnando l’annientamento dell’intera laguna.<br />

Per un curioso caso della sorte, quello stesso giorno, su<br />

commissione del viceré, cominciarono i lavori per aprire<br />

cinque nuovi sbocchi a mare. Si sarebbe in tal modo migliorata<br />

la qualità delle acque nella parte restante della<br />

laguna e, nei giorni di tempesta, gli ingombranti carichi<br />

trascinati dalle piene dei fiumi avrebbero avuto più facile<br />

sfogo, così da non compromettere ponti e argini. Ammontarono<br />

a sette le bocche a mare dotate di ampie peschiere<br />

che si facevano traboccanti di pesce, quando arrivava<br />

la stagione torrenziale.<br />

* * *<br />

Partiamo alla volta di Assemini dove abita la madre di<br />

Omero, guardiano della villa che fu del cantore Tigellio.<br />

Sono dietro di lui, a cavalcioni della sella lunga e stretta<br />

del Garelli che, nonostante le apparenze, accelera nel traffico<br />

deciso, con fin troppo impeto. L’effetto dei tic sul manubrio<br />

mi fa raggelare.<br />

Con una mano mi tengo saldo alla vita del mio amico,<br />

nell’altra ho stretta la busta da dare alla signora Pilloni.<br />

So che non si approfitta dell’ospitalità della gente<br />

arrivando a mani vuote, dunque ho raggiunto Salvatore<br />

in tempo per racimolare, dal fondo del secchio, un ultimo<br />

sacchetto di arselle.<br />

– Non tornare tardi che c’è da lavorare, – mi ha detto<br />

sospettoso, senza però darmi la soddisfazione di chiedere<br />

dove stessi andando.<br />

Oltrepassiamo il bivio per l’aeroporto e il paese di Elmas,<br />

superiamo da destra per tre volte le stesse macchine<br />

agli altrettanti semafori che scartiamo aggirando gli incroci,<br />

tagliamo le linee continue che segnano il divieto.<br />

Omero svolta per entrare in paese.<br />

66 67


Marta Pilloni è seduta sotto la lolla, davanti a un grosso<br />

tavolo di legno massiccio. Agita appena una mano<br />

quando sente il motore spegnersi e intuisce l’avvicinarsi<br />

del figlio.<br />

– Chini ci fìara? – domanda sentendo i miei passi e il<br />

mio respiro.<br />

– S’amighixeddu miu, mammai.<br />

<strong>La</strong> donna è immobile. Sembra una cera rappresentativa<br />

della prima generazione di cernie secolari, paragonabile<br />

alle querce, alle tartarughe e alle iscrizioni cartaginesi.<br />

Non vede più e perciò non si preoccupa di scostare la testa.<br />

I suoi unici punti di riferimento sono una discreta<br />

frangia di olfatto, un udito limitato all’orecchio destro e<br />

un intuito maturato nell’annosa esperienza della vita del<br />

paese. È scarno, rarefatto e pungente verso oggetti e persone<br />

del circondario; assai fine, invece, nei confronti di<br />

chi le passa lontano o la sfiora appena con lo sguardo.<br />

All’indice della mano destra porta un anello di dimensioni<br />

esagerate.<br />

– Itta tenis, còcciulas? – domanda mentre accenno a ringraziarla<br />

per l’invito.<br />

Non ne vuole neanche sapere di convenevoli. Ha fretta<br />

di ricevere la busta con le arselle, va ripetendo tra le<br />

rughe che le pesano come scogliere sulle labbra bianche.<br />

– In bagna da sas bollu pappai, in bagna.<br />

Allora le porgo la busta, dico che è poca cosa, solo quello<br />

che rimaneva, in quell’ora tarda della mattina, ma fatte<br />

in bagna saranno buonissime. Allunga il braccio minacciandomi<br />

con l’ovale di pietra massiccia, curiosamente<br />

scanalato. Mi strappa la busta di mano. Sorreggendola<br />

nel pugno, come per volerne intuirne la quantità, impartisce<br />

ordini ad Omero che non indugia ad assecondarla.<br />

Lui si volta, apre la grande porta al centro della lolla e in<br />

tre passi è già davanti ai fornelli di una vecchia cucina di<br />

smalto bianco e ruggine. <strong>La</strong> bombola del gas fa capolino<br />

da sotto un canovaccio a strisce colorate. In alto, sul mu-<br />

ro, sono appesi padelle di rame e pentole di alluminio,<br />

grandi mestoli e forconi.<br />

– È l’unico che mi dà retta, ormai. Che vuole, sono orfana<br />

di padre e di madre; e pure cieca e mezzo sorda, per<br />

cui se vuole parlarmi gridi forte.<br />

Dalla cucina rimbomba il rumore di una pentola che<br />

cade e rotola sul pavimento.<br />

– Ecco, come sempre devo fare tutto io: lui non è capace,<br />

poverino, – aggiunge poi scuotendo la testa.<br />

Poco dopo Omero è di nuovo con noi, sotto la lolla. È<br />

corso per rassicurare la madre di non aver rotto niente.<br />

– T’appu intendiu, Omero, t’appu intendiu, – dice la vecchia<br />

con inflessibile e rassegnato rimprovero.<br />

– Mancu màlisi mammai, se no voleva dire ch’ero morto,<br />

– replica Omero ammiccando con fare complice.<br />

– O ero morta io… – sospira Marta Pilloni.<br />

– O cussu giovanetteddu bellixeddu e gratziosu, – conclude<br />

Omero trascinandomi nel bieco battibecco sostenuto<br />

dallo sguardo cieco ma sensibile di Marta Pilloni.<br />

– Non in cucina, ché non sei capace, fillu miu, ma alla<br />

villa del romano, devi tornare. Quello sì, è un posto di responsabilità,<br />

dove c’è la storia importante; sembra fatto<br />

apposta per te che hai studiato e conosci la poesia dei romani.<br />

Omero, – dice poi rivolgendosi a me, – è uno che<br />

a scuola ci è sempre andato. Sa i versi a memoria, da<br />

quando era bambino.<br />

Madido di un umore tutto salivare colante da ghiandole<br />

impazzite e sovreccitate, traballante nei suoi schizzi<br />

nervosi, Omero si leva il berretto dal capo e si curva<br />

sulla madre come per baciarla sulla fronte, facendo però<br />

attenzione a non sfiorarla. Poi si ritira in cucina chiudendo<br />

la porta.<br />

Marta Pilloni cambia voce d’improvviso, ringiovanisce<br />

di cent’anni e, dimenandosi sulla sedia, mi stringe<br />

alle sue ginocchia tremolanti e risolute.<br />

– Mio marito lo voleva chiamare Omar per via di uno<br />

68 69


che aveva conosciuto quando stava in trincea, ma io non<br />

ho voluto. Quando mai un nome così strano per mio figlio.<br />

Ce lo siamo giocato alle carte, quel nome. “O Gioanneddu,”<br />

d’appu nau, “tòccara à giogai, e chini dèppiri perdi,<br />

pèrdara”. Ho imbrogliato solo per il bene della creatura<br />

che portavo nel ventre, cosa crede? Una sant’anima era<br />

Gioanneddu miu, e per farlo contento ho imposto solo una<br />

piccola modifica al suo nome. Era contento anche lui alla<br />

fine, ma cussu dimoniu maladittu mi d’ari ammalariau subitu:<br />

la notte stessa, dopo aver registrato la nascita dal bambino<br />

al Comune, Gioanneddu si è addormentato con la<br />

febbre alta e pochi giorni dopo già mi lasciava, obbligandomi<br />

a cercare un altro marito. Mancu malisi che era così<br />

buono che me l’ha portato al suo funerale, il mio nuovo<br />

fidanzato. Augustino mi ha tenuto sotto il braccio per<br />

tutto il tempo, mentre ricevevo le condoglianze del paese.<br />

Era stato già mio tante di quelle volte che pensai che<br />

Omero fosse figlio suo e non di quella pover’anima di<br />

Gioanneddu. Fino a quando non fui assolutamente certa<br />

che era così. Si chiamava Pilloni anche lui, ma non era parente<br />

dell’altro. Anzi, si davano del lei.<br />

L’espressione di Marta Pilloni è andata addolcendosi<br />

man mano; anche le rughe adesso sembrano pesarle di<br />

meno e dal suo volto trapela persino l’idea di un sorriso.<br />

Pilloni Augustino, nato ad Assemini il tre marzo 1907<br />

aveva conosciuto Marta Pilloni nata Sanna, allo stabilimento<br />

balneare “<strong>La</strong> Plaia” di Giorgino, nel luglio del<br />

ventisette. Si trovarono, intorno alle dodici di una calda<br />

mattina, imbarazzantemente avvinghiati sulla sabbia dove<br />

si erano gettati per sfuggire alla minaccia di un idrovolante<br />

che pareva avere puntato contro lo stabilimento<br />

e i suoi frequentatori, piuttosto che all’idroscalo di Elmas<br />

parecchio più addentro nella laguna.<br />

– Signorina mi perdoni, – fece lui scostandosi da sopra<br />

la sua spalla e allontanando le labbra dal giovane<br />

volto della donna.<br />

– Signora prego, – precisò lei con sdegno, inciampando<br />

in un lampo di desiderio.<br />

– Rinnovo le scuse e oso offrirle una bevanda per farmi<br />

perdonare.<br />

L’audacia dell’uomo fu assai apprezzata dalla signora<br />

Pilloni la quale, sebbene fresca fresca di matrimonio,<br />

continuava a nutrire un debole per la gentilezza e il garbo<br />

maschile.<br />

Proprio quando mi preparo a ricevere la descrizione del<br />

primo incontro in cui l’educazione cede il posto all’impeto<br />

della passione, l’anziana Marta Pilloni interrompe il<br />

racconto.<br />

– No, no, piccioccheddu, dice quella agitando tutt’e due<br />

le mani. – Tu queste cose le conosci fin troppo bene, non<br />

crederai di sentirne anche da me. I tempi erano esattamente<br />

come adesso, senza i vestiti in dosso… E per ritornare<br />

ad Omero, evidentemente era scritto che dovesse<br />

venir su commenti un’istrangiu. Evitargli quel nome non è<br />

servito a niente.<br />

Come prevedendo l’ingresso del figlio, la vecchia riacquista,<br />

appena un istante prima che la porta si apra, l’espressione<br />

antica con cui l’ho incontrata. Le rughe si sono<br />

ispessite sul viso, le labbra assottigliate, la parola svanita.<br />

Omero ha acceso il fuoco sotto la pentola piena d’acqua.<br />

In una casseruola ha già preparato la salsa. Le arselle<br />

hanno un nuovo sapore, cucinate da lui. Dopo pranzo,<br />

con la pancia piena, decidiamo di ritornare alla Villa.<br />

Omero, di spalle, mette in moto. Sua madre mi porge la<br />

mano perché la riverisca come una dama. Noto ancora<br />

una volta l’anello che incornicia una pietra nera come il<br />

sangue indurito; al mutare dell’angolazione della luce si<br />

tinge di un rossastro striato e a tratti vivace.<br />

– È così bello, – le dico.<br />

– Eja, fìasta bellixeddu. Gioanneddu d’ari accattau a Santa<br />

Gilla, pischendi, – dice lei, passando la mano sulla pietra<br />

mentre io la avvicino alle labbra.<br />

70 71


* * *<br />

Dall’acqua esala un odore pestifero, questa mattina.<br />

Lo stesso sole che fa la fortuna dei padroni delle saline,<br />

quasi prosciuga la laguna. L’acqua è insofferente, evapora<br />

come su un fornello acceso. Con il caldo le arselle si<br />

rintanano in profondità sotto la sabbia e diventa quasi<br />

impossibile scovarle.<br />

Salvatore mi ha svegliato preso da un forte attacco di<br />

tosse, come se una spina gli si fosse incastrata in gola. Si<br />

è vestito bestemmiando contro i macellai, che non hanno<br />

a che fare con le stagioni né coi vizi del tempo, ed è<br />

uscito. Invecchia in maniera schifosa, ho pensato abbracciato<br />

al cuscino, certo di non potermi fare carico del<br />

declinare dei suoi prossimi anni.<br />

<strong>La</strong> porta si richiude cigolando, le ruote del carrello su<br />

cui trasporta il motore da issare sullo specchio di poppa<br />

della barca squittiscono come topi. Saranno le quattro<br />

del mattino, quando esce per mare.<br />

Ora il sole è alto. Lui non è ancora tornato. Devo iniziare<br />

a prevedere l’eventualità che si addormenti con la<br />

testa tra le ginocchia dopo aver gettato le reti e che la corrente<br />

lo trascini per chissà quante miglia fuori dal golfo.<br />

Lo vedo più stanco e debole del solito, nonostante continui<br />

ad atteggiarsi a grande padrone delle acque. Immagino<br />

che l’unica possibilità di scrollarmelo di dosso sia che<br />

Ignazino muoia e Maria la panettiera se lo prenda come<br />

nuovo marito. Ignazino potrebbe rimanerci come ogni tanto<br />

capita, a quelli che vanno per mare. “Santu Perdu d’ogni<br />

annu ndi tira unu oppuru tres”, si dice da queste parti. O<br />

più semplicemente potrebbe beccarsi un infarto e lasciare<br />

il mondo nel sonno, comodo e serafico. Basta che una<br />

mattina non si risvegli. È il modo più semplice di morire.<br />

Maria ne resterebbe addolorata per uno, due mesi,<br />

sconvolta soprattutto dall’idea di aver dormito affianco a<br />

un cadavere: sognava beata lei, mentre suo marito ci la-<br />

sciava le penne. Tuttavia dovrebbe pensare subito ai ragazzini<br />

che sono ancora piccoli e hanno bisogno di un padre<br />

che porti i soldi a casa. Nonostante la differenza d’età<br />

Salvatore si farebbe avanti ed avrebbe successo. Una donna<br />

non può fare la schizzinosa davanti a un secondo matrimonio,<br />

specie se l’età non l’aiuta. E se ha dei figli, tanto<br />

peggio per lei. Sì, i figli sono sempre un grosso impiccio.<br />

A sposare Salvatore ne godrebbe tutti i vantaggi, e<br />

anche lui avrebbe tutto da guadagnarci: ringiovanirebbe<br />

per il primo periodo, coronando il sogno inconfessato della<br />

sua vita. Dimostrerebbe spirito, fervore e carattere. <strong>La</strong><br />

sera si darebbe da fare per dedicarsi all’amore e ciò arresterebbe<br />

la rapidità del suo tramonto, ormai rimesso alle<br />

cure della dedita e riconoscente Maria.<br />

Continuando a concedermi legittime rassicurazioni<br />

sulla libertà dei miei prossimi anni, mi infilo il costume<br />

da bagno, senza mancare di felicitarmi della benevolenza<br />

della natura nei miei confronti. Donna <strong>Giulia</strong>, la cui pulizia<br />

ho ultimamente trascurato, mi guarda, felicitandosi<br />

anch’essa, orba d’un occhio e di una pazienza secolare.<br />

Abbiamo appena di che immergerci, le dico alludendo a<br />

noi arsellari che dissotterriamo conchiglie e qualche volta<br />

teste di belle donne rimaste infangate nel tempo. Più<br />

di rado ci occupiamo degli esseri di mezzo, ormai quasi<br />

solamente muggini scivolosi che si trastullano abbondanti<br />

in queste acque. Trascuriamo invece sempre un numero<br />

infinito di altre specie solo perché non si possono vendere<br />

al mercato. Chi comprerebbe una biscia d’acqua dolce<br />

o un rospo smeraldino? A chi verrebbe in mente di assaggiare<br />

un’insalata di quelle larghe foglie meravigliose<br />

che nella parte più interna della laguna ricoprono la superficie<br />

di uno strato limaccioso e verdissimo, di una consistenza,<br />

prima che il remo vada ad infrangerla, che ricorda<br />

il dorso di un delfino? O i molluschi di cui gli uccelli<br />

sono particolarmente ghiotti, tanto da azzuffarsi a colpi<br />

di becco?<br />

72 73


L’acqua della laguna si confonde a tal punto che spesso<br />

non so come guardarla. A volte scompare a causa di un<br />

tappeto schiumoso di foglie, aperto a dipingere astrazioni<br />

imperfette e intarsi preziosi, a nascondere insetti e piccoli<br />

anfibi che con uno strusciare quasi impercettibile,<br />

piegando appena un lembo di foglia, risalgono all’aria e<br />

mormorano inni altisonanti alla luce. Oppure è macchiata<br />

da imponenti ciuffi di un giallo vivace e poi smorto, a<br />

seconda delle stagioni, che sfuma e si riaccende in un verde<br />

acuto, punteggiato di piccoli fiori violacei. Poco oltre,<br />

dove la terra si sottrae per la maggior parte del tempo all’invadenza<br />

dell’acqua e lunghi fili d’un erba puntigliosa<br />

si ergono verso il cielo, si possono distinguere i nidi degli<br />

uccelli. Un tempo, racconta Salvatore, si incontravano facilmente<br />

quelli dei fenicotteri. Apparivano come un susseguirsi<br />

di fortini perfettamente rotondi, dalle mura glabre<br />

di un compatto materiale sabbioso, esiti di una geometria<br />

accuratamente prediletta, affinata al termine di<br />

ogni volo ad ali spiegate. Creavano nell’insieme una bassa<br />

<strong>città</strong> fortificata che poteva essere scambiata per il gioco<br />

di un bambino sulla sabbia. Erano facilmente riconoscibili;<br />

troppo riconoscibili.<br />

Forse perché non erano allegri, forse perché non si lasciavano<br />

accarezzare e non discutevano animosamente,<br />

ma erano pittoreschi per il loro piumaggio e le zampe<br />

secche e dinoccolate, i fenicotteri divennero preda della<br />

mira di certi signori professionisti, cacciatori dilettanti<br />

che presero ad arrivare da oltre il ponte sempre più numerosi,<br />

specie alla domenica e nei giorni di festa. Armati<br />

di costosi fucili misuravano la loro alta precisione sugli<br />

uccelli, puntando proprio al centro fra le ali, dove il<br />

piumaggio rosa svanisce nel bianco, dove un colpo ben<br />

piazzato basta a determinare un tonfo rapido sull’acqua<br />

che schizza lontano in piccole gocce. Il lungo collo dell’animale<br />

geme nell’ultimo sussulto, pesta come lo<br />

schiocco di una frusta che si allunga sull’acqua e genera<br />

cerchi concentrici sulla superficie. Un attimo dopo è tutto<br />

silente ed immobile. Solo il fedele cane zampetta fiero<br />

fin sulla preda. Divarica le mascelle, la afferra e la trascina<br />

via.<br />

Legati per le zampe coronate da un’unghia appuntita e<br />

nera come il becco, quegli uccelli di lontane origini hanno<br />

lasciato la laguna nel cofano di qualche berlina e sono<br />

finiti, impagliati e imbalsamati, a fare bella mostra di<br />

sé in chissà quanti salotti.<br />

Tuttavia non è stata solo la passione domenicale dei<br />

cacciatori - tutti di buon’ora riuniti al bar Torino per alimentare<br />

e sostenere con caffè e cornetti le loro abilità - a<br />

segnare la scomparsa dei fenicotteri. Il colpo di grazia è<br />

giunto da dove mai nessuno avrebbe immaginato.<br />

Essendo ghiotti di un piccolo crostaceo che vive nello<br />

zone più salate dello stagno, essi da sempre avevano convissuto<br />

pacificamente con i pescatori, godendo di ambiti<br />

di caccia distinti e territori ben separati. Alcuni gruppi<br />

addirittura vivevano dentro le saline, dove non c’è vita<br />

possibile per i pesci. Tuttavia il pesce più prelibato della<br />

laguna diminuiva in proporzioni allarmanti. Nonostante<br />

le continue proteste, gli esattori continuavano a pretendere<br />

il pagamento dell’antica imposta, esigendo un quarto<br />

del pescato, così che il malcontento tra i pescatori cresceva<br />

sempre di più. Come se ciò non bastasse, verso la<br />

fine dell’estate ci fu un’alluvione imponente, di quelle<br />

che ancora oggi scardinano gli argini e provocano danni<br />

per milioni. Un grande numero di barche venne spazzato<br />

via e le peschiere furono trascinate dall’impeto dei fiumi<br />

in piena; molte case furono danneggiate o distrutte.<br />

Non furono pochi coloro che dovettero adattarsi ad essere<br />

ospiti in case altrui, condividendo gli stretti locali, o<br />

coloro che si trasferirono in <strong>città</strong>, nel quartiere della Marina,<br />

di fronte al porto. Nonostante le promesse delle autorità,<br />

gli aiuti tardavano. Il malessere fomentava agitate<br />

discussioni nella sede della cooperativa e spesso veni-<br />

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vano approvate, con risoluzioni tempestive e senza discernimento,<br />

drastiche decisioni. Iniziò così a diffondersi<br />

tra i pescatori la convinzione che i fenicotteri, con quei<br />

neri becchi sempre immersi nell’acqua, avrebbero rapidamente<br />

fatto sparire i pochi pesci rimasti.<br />

Nessuno sembrò nutrire dubbi o ripensamenti, su quanto<br />

fosse necessario fare. I preparativi si allestirono in tutta<br />

fretta e la retata venne tesa in una delle ultime notti di<br />

ottobre. Cinque barche, ognuna con più uomini sopra -<br />

tra di essi anche Salvatore - si avvicinarono silenziose alla<br />

colonia degli uccelli immobili e con il collo affondato<br />

nell’acqua, le zampe dritte e le ali chiuse, strette sul corpo.<br />

Le barche si spinsero a circondare il gruppo più grosso,<br />

senza i remi, spingendo sui bastoni. Da una barca, come<br />

previsto, venne lanciato il segnale. Nessun grido,<br />

niente che potesse spaventare le bestie, nell’imperfetto<br />

silenzio della laguna. Il fiammifero che scoccò la scintilla,<br />

visibile a tutti nello stesso istante, non turbò gli uccelli.<br />

Le vecchie reti dei pescatori piovvero su di loro da<br />

tutte le direzioni e in un attimo li fecero prigionieri.<br />

Ognuno afferrò un bastone o un remo e con quello pestò<br />

a casaccio, con tutta la forza che aveva in corpo. Le bestie<br />

prese in trappola cercavano di divincolarsi, contorcendosi<br />

e spalancando le ali, ma finivano sempre più asserragliate<br />

fra le maglie delle reti. Le barche dei pescatori si<br />

accostavano man mano, stringendo i fenicotteri in un cerchio<br />

sempre più piccolo e soffocante. Quelli, che non abbandonavano<br />

i tentativi di prendere il volo, sotto i colpi<br />

dei bastoni perdevano l’equilibrio e si rovesciavano l’uno<br />

sull’altro, ferendosi ulteriormente. Schiamazzavano striduli<br />

e assordanti. Le loro grida disperate e acute erano più<br />

che umane: erano strazianti, erano sciabolate che ferivano<br />

il cervello, canti di morte che si imprimevano nell’anima<br />

dei pescatori e così facendo richiamavano il conto<br />

che anch’essi, con la morte, avrebbero dovuto regolare. Si<br />

insinuavano proprio là, nella parte della coscienza più<br />

nuda e sensibile all’onnipresente minaccia. Persino coloro<br />

che partecipavano alla mattanza dei tonni, già avvezzi<br />

a pestare in un lago di sangue fino a che nulla più si fosse<br />

mosso, raccontarono poi il disagio, la ferita che rimase<br />

a lungo nella loro testa, per via di quelle grida furibonde.<br />

Erano tutti abituati alla grazia del silenzio che accompagna<br />

la morte dei pesci.<br />

Il lavoro non fu ultimato. Una dopo l’altra le barche si<br />

allontanarono, lasciando i fenicotteri stremati, feriti e<br />

ancora vivi. Solo da due barche si cercò di tirare via le reti,<br />

ma senza successo. Quelle rimasero a imprigionare gli<br />

uccelli che non avrebbero più avuto la capacità di levarsi.<br />

Per molti fu una lenta notte di agonia; altri erano già<br />

unicamente cibo per gli animali della laguna.<br />

Salvatore non riuscì a prendere sonno per due notti<br />

dopo quella e non fu fra coloro che ritornarono, alle prime<br />

luci della mattina, a trascinare in alto mare l’ammasso<br />

di piume e carcasse rimasto impigliato nelle reti.<br />

Evitò di pescare per lungo tempo perché, disse, gli sembrava<br />

che l’acqua avesse una puzza insopportabile di carogna.<br />

Fu allora che trovò dei soldi in prestito per acquistare<br />

un motore e spingersi in mare dove, solo una<br />

volta, il verso stridulo di un gabbiano lo riportò allo<br />

sconforto della notte in cui si era compiuta la strage dei<br />

fenicotteri.<br />

* * *<br />

Alla villa di Tigellio i gatti evitano il sole. Solo le lucertole<br />

stanno ad abbrustolirsi sulla pietra, gravi come radici<br />

assetate. Al mio passaggio una cavalletta schizza via,<br />

come l’acqua da una tubatura scoppiata all’improvviso.<br />

Ho scavalcato il cancello laterale, alle spalle di Omero, e<br />

avanzo fra le erbacce per sorprenderlo alle spalle quando<br />

meno se lo aspetta. L’afferro ed egli sobbalza, ridendo come<br />

un demente.<br />

76 77


– Ajò chi mammai è abettendisì, – mi dice invitandomi<br />

sulla sua motoretta.<br />

Ripercorriamo la strada che circonda la laguna ed entriamo<br />

in paese. Scendo davanti al portone di legno che<br />

spalanco perché Omero entri nel cortile col motore acceso,<br />

e lo seguo a piedi per pochi metri. <strong>La</strong>ncia un saluto alla<br />

madre simile a un grugnito. Un ultima nuvola di fumo<br />

mi avvolge, prima che Omero spenga il motore. Tuttavia<br />

non fa a tempo a mettere il Garelli sul cavalletto che l’anziana<br />

donna lo spedisce al forno a comprare il pane.<br />

– Ma lasciami Frantziscu, che mi fa compagnia, – dice.<br />

Omero parte, sparisce smanettando sull’acceleratore.<br />

– Benni innoi, piccioccheddu. – Marta Pilloni mi chiama<br />

a sé.<br />

Si aggrappa al mio braccio e si solleva dalla sedia, scoprendo<br />

una fila di tre cuscini. Entriamo in casa avvinghiati<br />

come due scimmie. Attraversiamo la cucina e il<br />

soggiorno. Di fronte alla credenza di un legno scuro abitato<br />

dal tempo, innalzata su vetrinette che custodiscono<br />

bicchieri colorati, cestelli smaltati, porta-tovaglioli d’osso<br />

e palle che sembrano gli addobbi dell’albero di Natale<br />

che compare tra i negozi di via Manno a dicembre, la<br />

donna si sbilancia all’indietro. Indica qualcosa su in alto.<br />

– Prendi quello rosa, – mi dice.<br />

Di poco spostato rispetto al punto che addita, ma ben<br />

riconoscibile per via del colore, spunta, tra un vaso verdolino<br />

e un pescetto di vetro, la costa di un libro piuttosto<br />

malandato.<br />

– Piga cussu, – sollecita spingendomi addosso una sedia.<br />

Vi salgo sopra con i piedi, facendo attenzione a non calpestare<br />

il logoro paglino. È mezzo marcio, ci sprofonderei<br />

dentro di sicuro. Le porgo il libro, ma qualcosa tra le<br />

pagine scivola via e plana sul pavimento.<br />

– Raccoglila! – ordina lei, e dal tono già sembra sapere<br />

di cosa si tratta.<br />

A quattro zampe sul pavimento infilo la mano sotto la<br />

credenza. <strong>La</strong> tiro via sfondando sodalizi di ragnatele bavose<br />

e sfilacciate. È una vecchia fotografia nella quale, in<br />

primo piano, c’è Marta Pilloni da ragazza, con lunghi capelli<br />

corvini e un sorriso lucente e pulito. Me la strappa<br />

di mano come per guardarla, ingiungendomi di fare presto<br />

perché non c’è molto tempo.<br />

– Omero non tarderà. È sempre puntuale.<br />

– Ma è appena andato via… – ribatto inutilmente.<br />

Torniamo al tavolo sotto la lolla e ci sediamo davanti<br />

all’album rosa della giovinezza di Marta Pilloni, perché<br />

così lei vuole. Lo tiene dritto davanti a sé, mi costringe<br />

a sporgermi per vedere le foto. Apre piano la prima delle<br />

grosse pagine separate da una carta velina a fiorami<br />

che sembra lavorata col cotone, per consistenza e morbidezza.<br />

– Era molto bella da ragazza, – mi scappa di dirle.<br />

– Eja, mera bellixedda. E non è per niente vero che tutti<br />

sono belli, da giovani.<br />

Sono d’accordo con lei.<br />

– Pilloni mio marito era anche lui bello e pure Pilloni<br />

Augustino. Ecco, guarda da te, – dice rigirando veloce tre<br />

pagine d’album e mettendomi di fronte a due fotografie<br />

“formato gabinetto”, com’è scritto nell’angolo superiore<br />

sinistro, che ritraggono gli uomini a mezzo busto. Affascinanti<br />

entrambi, eppure ben differenti. L’uno col piglio<br />

scapigliato dell’avventuriero, i baffetti sottili ben torniti,<br />

i capelli agitati e lo sguardo profuso da ammaliatore; l’altro<br />

dimesso, scuro e duro come se il solo suo fiatare potesse<br />

provocare il crollo di una montagna.<br />

– Pilloni Augustino, Pilloni Giovanni, – dice la vecchia<br />

puntando le due foto con l’indice tremulo, coperto dal solito<br />

anello che mi tiene incantato ad osservarlo.<br />

– Avrei dovuto metterli nell’ordine opposto, lo so. Ma<br />

questo mi è rimasto vicino più a lungo, mentre Gioanneddu<br />

se n’è andato veloce. Non avrebbe dovuto farlo. Di<br />

sicuro è colpa sua se Omero è venuto su così com’è. Ma si<br />

78 79


fa voler bene, non è vero? Conosce tante di quelle cose a<br />

memoria… È intelligente, sai. Ha fatto anche le scuole,<br />

che ti credi?<br />

– Sì, me l’ha detto.<br />

– Anche del suo maestro?<br />

Scuoto la testa e poi, ricordandomi che non avrebbe<br />

potuto vedermi: – No, no, – mi affretto a dire.<br />

– Non essere imbarazzato, – fa lei imputando il mio<br />

disagio a ben altre cause. – Sono cose che capitano nella<br />

vita, a chiunque e a qualsiasi età. Tu quanti anni hai?<br />

– Diciotto.<br />

– Diciotto. Beh, non significa nulla, un’età non vuol dire<br />

niente. Anche ventitré avresti potuto averne, anche<br />

trentaquattro. Che cambia? È solo quello che ti capita,<br />

che fa la differenza. Omero ha conosciuto quel maestro<br />

quando aveva sette anni. L’ha avuto fino ai tredici. Poi ha<br />

dovuto cambiare scuola perché era troppo grande per stare<br />

dov’era. Ma non voleva rimanere lontano da lui. Ogni<br />

giorno tornava in classe e lo aspettava solo per domandargli:<br />

“Oggi mi porti a casa tua?”. Per anni gliel’ha domandato.<br />

E quello ogni tanto rispondeva sì, ogni tanto<br />

diceva di no. Ma qualunque fosse la risposta Omero non<br />

tornava mai qui, a casa da me. Se ne andava a camminare<br />

lungo i fiumi. Arrivava fino alla laguna, quando quello<br />

non lo prendeva con sé. Poi, un giorno, il maestro non gli<br />

permise più neanche di aspettarlo fuori dalla scuola. Da<br />

allora Omero ha smesso di parlare per molti anni. Non<br />

raccontava più le poesie che conosceva, non diceva buongiorno<br />

né ripeteva il Padre Nostro durante la messa. Nessuno<br />

ne immaginava la ragione, fino a quando il prete,<br />

con le minacce del diavolo e dell’inferno, non è riuscito a<br />

farsi rivelare ogni cosa. Allora ha ripreso a parlare, altro<br />

che. Ma non usava più parole sue. Ripeteva a memoria le<br />

cose lette, le poesie specialmente, o altre cose che nessuno<br />

capisce.<br />

Marta Pilloni cambia sguardo, nonostante la cecità,<br />

assumendone uno piagnucoloso, languido e infantile.<br />

Sembra sul punto di voler piangere sulla mia spalla. <strong>La</strong><br />

guardo imbarazzato, pieno di disagio.<br />

– Forse è meglio che vada.<br />

Mi afferra conficcandomi le unghie nel braccio.<br />

– Le lascio le arselle in cucina…<br />

Mi tiene ancora più stretto; non sopporto più né la sua<br />

voce lamentevole né quelle mani da vecchia strega che<br />

mi stanno addosso. Decido di andarmene senza neanche<br />

aspettare Omero. Scappo via. Esco dal portone e corro fino<br />

alla strada provinciale. Lì, dopo parecchio aspettare<br />

con il pollice sollevato, scosso dal peso opprimente di<br />

quella vecchia che chissà cosa si aspetta da me, salgo su<br />

un’auto che si ferma per caricarmi. L’automobilista si chiama<br />

Pietro. È un uomo di mezza età, coi capelli brizzolati;<br />

un operaio del nuovo stabilimento industriale della<br />

Rumianca, la fabbrica produttrice di materiali plastici.<br />

Guida una seicento grigia che puzza di sigaretta. Mi accompagna<br />

all’ingresso del villaggio, ma non vuole restare<br />

a cena con me e Salvatore; dice che ha moglie e figli<br />

che lo attendono dall’altra parte della <strong>città</strong>.<br />

– Aspettami qui, – gli dico.<br />

Corro a frugare nella ghiacciaia e torno indietro con un<br />

bel sacco di arselle.<br />

– Le puoi fare con la fregola, unendoci prezzemolo e<br />

aglio; o in zuppa, come le cucina Marta Pilloni di Assemini<br />

filtrando l’acqua della cottura delle arselle attraverso<br />

un fazzoletto umido e unendola alla salsa di pomodoro.<br />

– Mia moglie sarà contenta, per una volta porto io la<br />

cena, – fa lui adocchiando la busta che ho nel frattempo<br />

poggiato sul sedile.<br />

– Ma mi raccomando, – aggiungo perché lui è operaio<br />

ed è naturale che certe cose non le sappia, – quelle che<br />

non si aprono non mangiarle. Buttale via, vuol dire che<br />

non sono buone.<br />

80 81


* * *<br />

Esiste nello stagno un particolare uccello che di giorno<br />

non si incontra mai. È un’anima della notte che lascia<br />

i canneti nel buio e si incammina solitario nell’acqua.<br />

<strong>La</strong>ncia gridi lugubri e tristi simili a quelli del corvo.<br />

Se intuisce la presenza di un altro animale, sentendosi<br />

minacciato, schizza via fino a quando non trova un<br />

tronco o un ramo. E su quello imprime il suo corpo filiforme<br />

ed ossuto per mimetizzarsi. L’ho scoperto per caso<br />

una notte mentre andavo, di nascosto da Salvatore, a<br />

pescare in uno dei canali interni dove un tempo abboccavano<br />

le anguille, convinto che dopo anni di abbandono,<br />

anni in cui nessuno si avventurava più da quelle parti<br />

per dar loro la caccia, fossero comparse di nuovo. In<br />

molti parlavano del pescato eccezionale dei tempi passati<br />

con un entusiasmo tale che mi intestardii a voler dimostrare<br />

anche la bontà dei miei giorni. Attendevo l’attimo<br />

giusto, ed esso si presentò allorquando mi capitò per<br />

le mani un boccone gustosissimo, una prelibatezza davanti<br />

alla quale, se fosse esistita anche solo un’unica anguilla<br />

in tutta la laguna, arrivata per caso da chissà quale<br />

deviazione delle acque, non avrebbe resistito alla tentazione<br />

di ingozzarsi, cadendo nella mia trappola.<br />

<strong>La</strong> preda aveva un nome, si chiamava Uffi Bau, ed era<br />

il piccolo cane di Albertino, ultimo figlio di Marc’Antonio,<br />

taciturno presidente della cooperativa. Albertino<br />

l’aveva trovato quand’era ancora un cucciolo lungo la<br />

strada oltre il ponte, e da allora l’aveva tenuto sempre<br />

con sé. Lo accudiva con attenzione, raccattava per lui i<br />

resti del cibo nelle diverse case del villaggio e d’estate lo<br />

portava a nuotare al largo. Ma lo scorso anno, durante<br />

l’abituale processione del primo di maggio, il povero cane<br />

finì schiacciato dalle ruote del carro su cui Sant’Efisio<br />

era giunto alla chiesa di Sa Illetta, per essere cambiato<br />

d’abito. Abbandonati i gioielli e indossate le vesti<br />

più umili di campagna, il Santo sarebbe ripartito alla volta<br />

di Nora, lungo l’antica strada romana.<br />

Infiorati come ballerine russe, resi inoffensivi da due<br />

arance sanguigne infilzate sulle corna, legati al giogo e<br />

avulsi da uno stretto paraocchi, i buoi tirarono innanzi il<br />

carro con la teca del Santo lasciandosi alle spalle il povero<br />

bastardino. Il cane venne schiacciato prima dalla ruota<br />

anteriore e poi da quella di dietro. Da principio nessuno<br />

se ne accorse, perché i suoi guaiti si dispersero nella<br />

confusione. E così non in pochi inciamparono sulla bestiola<br />

ferita: il marasma era tale che non si riusciva a vedere<br />

dove mettere i piedi. Albertino lo trovò disteso, gemente<br />

accanto a due orride donne che rimettevano ogni<br />

ben di dio per il disgusto, avvolto in un lamento secco e<br />

asmatico che non pareva affatto appartenere a un cane. Il<br />

piccolo di Marc’Antonio urlava perché chiunque si allontanasse.<br />

Trovata una tavola di legno, incurante delle macchie<br />

che inguaiavano il vestito della festa, prese il bastardino<br />

sulle braccia e lo portò a casa sull’improvvisata<br />

barella. Sempre al suo fianco, assopendosi solo quando anche<br />

l’animale, tra un fibroso guaito e l’altro, cadeva addormentato,<br />

attese in lacrime che le sorelle per prime e i<br />

genitori più tardi, ritornassero dalla processione.<br />

Il veterinario fu disponibile solo il giorno successivo.<br />

Arrivò in mattinata, rivelando la prognosi lontano dalle<br />

orecchie del piccolo Albertino, il quale non aveva smesso<br />

di piangere malgrado la stanchezza. Tra una lacrima<br />

e un singhiozzo bestemmiava contro il Santo Efisio. <strong>La</strong><br />

madre, temendo le ritorsioni dell’offeso contro l’intera<br />

famiglia, era arrivata a minacciarlo di botte nonostante<br />

non lo avesse mai colpito neanche con uno scapaccione,<br />

ma a lui non importava. Efisio, essendo il salvatore della<br />

<strong>città</strong>, era follemente amato e protetto da tutti: la povera<br />

donna aveva di certo le sue ragioni nel cercare di<br />

quietare l’ira di Albertino. Egli tuttavia, per tutta la<br />

settimana, continuò ad inveire contro il Santo assassino.<br />

82 83


Era colpa sua se le ruote del carro, spinto dai buoi e da<br />

quei fanatici della confraternita, avevano calpestato Uffi<br />

Bau, non c’era alcun dubbio.<br />

Il settimo giorno di maggio Marc’Antonio, nonostante<br />

le resistenze del figlio e i sermoni di don Melis, dopo<br />

un’agitata discussione che coinvolse l’intero villaggio,<br />

fece rimbombare il colpo di fucile che mise fine a quella<br />

sofferenza. Una delle guardie del carcere minorile - sulla<br />

strada poco oltre il villaggio - aveva ceduto l’arma a patto<br />

che gliela si restituisse subito dopo, poiché l’avrebbe<br />

dovuto mostrare al successivo appello. Quanto al proiettile,<br />

si sarebbe arrangiata per procurarsene un altro.<br />

<strong>La</strong> povera bestia soffriva chissà quali pene, nonostante<br />

le iniezioni che la maggiore delle sorelle di Albertino gli<br />

faceva due volte al giorno. Piuttosto scettico, dopo averlo<br />

operato e richiuso con una ventina di punti di sutura, il<br />

veterinario aveva detto che se non fosse migliorato nel<br />

giro di pochi giorni non ci sarebbe stato niente da fare.<br />

Era una crudeltà inutile tenerlo in vita. Aveva i polmoni<br />

pressoché fuori uso e le zampe anteriori malamente<br />

fratturate.<br />

Passarono ben sette di giorni, prima che Marc’Antonio<br />

trovasse il coraggio di seguire il consiglio del veterinario,<br />

anche perché il cane inscenò una vera e propria<br />

pantomima nel tentativo di persuadere tutti che sarebbe<br />

guarito: tentava di sollevarsi sulle quattro zampe, di<br />

abbaiare come nel pieno del suo vigore, di sorridere persino<br />

- o così almeno diceva Albertino.<br />

Il pallettone risuonò nell’intero villaggio coprendo gli<br />

strilli del mesto ragazzino, che urlava come se stessero tirando<br />

il suo giovane collo. Il prete disegnò nell’aria il segno<br />

della croce e la guardia, fiduciosa nella risolutezza<br />

del presidente della cooperativa, riafferrò il fucile e tornò<br />

di sentinella davanti all’appuntito cancello del carcere.<br />

Io mi offrii di eliminare il cadavere del cane e fui incaricato<br />

del compito, con grande sollievo di tutti. Certo<br />

non potevano immaginare cosa mi balenava in mente,<br />

altrimenti mi avrebbero ben esentato dall’operazione. Il<br />

silenzio mi era complice.<br />

Ancora per qualche minuto la bestia sarebbe rimasta al<br />

centro dell’attenzione dei presenti. Poi, man mano, tutti<br />

si allontanarono. Marc’Antonio e il mio amico Ermellino<br />

mi aiutarono a sollevare il cane sul grande foglio di<br />

cellophane che usavo di solito per ricoprire gli attrezzi da<br />

lavoro. Invero il loro aiuto non sarebbe stato necessario,<br />

data la mole minuta di Uffi Bau. Ma per Marc’Antonio<br />

essere presidente equivale, tra le altre cose, al dovere di<br />

esprimersi con utilità quando una circostanza lo richiede,<br />

mentre Ermellino fa volentieri qualsiasi cosa, quando<br />

non si tratta di raccogliere arselle.<br />

Uffi Bau fu avvolto, rigirato e imballato con il nastro<br />

da pacchi.<br />

Lo portai nella palafitta vicino a Sa Illetta e lo nascosi<br />

in un angolo dietro alle nasse. Mi sporcai mani e vestiti<br />

di terra, persi tempo a passeggiare nel mandorleto nei<br />

pressi della chiesa e ritornai a casa con molta calma. A<br />

Salvatore dissi di averlo seppellito vicino all’acqua, gli<br />

raccontai alcuni particolari ben architettati sulla fatica<br />

dello scavare la terra; di una pietraia in cui mi ero imbattuto<br />

e che mi aveva costretto a cambiare il luogo della<br />

sepoltura di vari metri ricominciando a scavare da capo,<br />

di un fossile di conchiglia che mi era capitato tra le<br />

mani. Glielo mostrai anche. L’avevo trovato sulla riva diversi<br />

giorni prima senza alcun bisogno di scavare, riemerso<br />

in seguito a chissà quale movimento delle acque.<br />

<strong>La</strong> notte attesi che Salvatore si addormentasse e mi allontanai<br />

non appena sentii il suo primo russare, eccitato<br />

dalla sfida che mi proponevo. Arrivai a Sa Illetta in<br />

barca, spingendo col bastone sul fondo a tratti più melmoso<br />

e molle. Entrai nella palafitta dove avevo nascosto<br />

il corpo del cane. Trascinai fin sulla barca il cadavere del<br />

bastardino ancora avvolto nel cellophane e, poggiato il<br />

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astone sul fondo del ciu, feci cadere le pale dei remi nell’acqua.<br />

Mi allontanai verso i canali più dolci, accompagnato<br />

da una luna felice e paonazza che mi permetteva<br />

di riconoscere i canneti e le imboccature dei passaggi interni.<br />

Remavo con vigore. In pochi minuti arrivai dove<br />

avevo premeditato, verso le foci dei fiumi. In quell’ora<br />

notturna la <strong>città</strong> scivolava su un unico bordo merlato, in<br />

una pendenza obliqua e priva di altre forme riconoscibili.<br />

Tirai all’interno i remi facendoli scorrere sugli scalmi<br />

e accesi lo stoppino delle lampade a petrolio. Una fiamma<br />

rischiarava la prua, l’altra il pozzetto del ciu.<br />

<strong>La</strong> lama del coltellino scattò d’un soffio e brandì il nastro<br />

che teneva chiuso l’involucro. Il cellophane si spalancò<br />

invadendo l’aria di un fetore ripugnante. Legai la<br />

lenza più grossa a un ago, lungo più del palmo della mia<br />

mano aperta, e con la perizia di un cerusico la condussi<br />

attraverso il collo dell’animale per sfilarla dalla parte opposta.<br />

Puntai l’ago di nuovo, spingendo perché oltrepassasse<br />

la vertebra e, girandoci intorno, ne assicurasse la<br />

presa. Fermai tutto con più giri ed annodai. Condussi<br />

questa parte dell’operazione con tale precisione e professionale<br />

freddezza che mi complimentai con me stesso.<br />

Mentre mi accingevo a scegliere la lama con la quale<br />

sventrare l’animale, un grido di cui non compresi la provenienza<br />

mi fece sobbalzare. Si era levato come l’eco di<br />

un corno che mugghia in lontananza, facendomi pensare<br />

a una petroliera che avverte della sua prossimità. <strong>La</strong> pelle<br />

si drizzò irta, trascinandomi in una sensazione di imbarazzante<br />

irrealtà. Il verso si ripeté. Notai che assomigliava<br />

al richiamo di un corvo, sebbene pregno di una<br />

malinconia raggelante. Mi girai da una parte e dall’altra<br />

ma, non incontrando l’uccello di un simile verso, continuai<br />

il mio lavoro. Sollevai Uffi Bau sul bordo della barca,<br />

facendo attenzione che il sangue che ancora aveva in<br />

corpo non macchiasse il fondo del ciu. Lo sventrai e con<br />

una debole spinta lo buttai in acqua. <strong>La</strong> bestia cadde con<br />

un tonfo sordo che si diffuse ovunque e, con altrettanta<br />

velocità, si rattrappì fino a scomparire. Mentre legavo<br />

l’altro capo della lenza al palo della riva, il verso dell’uccello<br />

nuovamente si levò minaccioso nell’aria, sollecitandomi<br />

a terminare il lavoro. Spensi entrambe le due anime<br />

che esalarono il loro ultimo bagliore in una fumata<br />

puzzolente. Buttai i remi nel pozzetto e afferrai il bastone<br />

per fare avanzare la barca in silenzio, curioso di incontrare<br />

l’uccello che signoreggiava con i suoi richiami<br />

nella notte.<br />

Uscii dal canale e mi avvicinai della fonte del grido inquietante.<br />

Sollevai anche il bastone dall’acqua, per non<br />

fare il benché minimo rumore. Arrivai così vicino all’uccello<br />

che lo sfiorai con la fiancata della barca. Mi parve<br />

quasi di vederlo, nonostante la scarsità della luce. Non<br />

appena egli percepì la mia presenza, scivolò via sulla superficie<br />

dell’acqua. Allargò le spioventi ali scure, si alzò<br />

in volo strisciando contro il sorriso della luna e, mostrata<br />

la sua ombra bruna, sparì.<br />

Tornai a casa con quella visione nella mente.<br />

Mi rimisi in barca alcune ore dopo, nell’ultimo buio<br />

della notte, alle spalle di Salvatore che si allontanava a<br />

motore per mare, all’oscuro di tutto. Mi spinsi verso il<br />

centro della laguna e aspettai inutilmente il grido malinconico<br />

dell’uccello. Remavo in direzione del canale, dove<br />

avrei recuperato la carcassa di Uffi Bau che immaginavo<br />

invasa di viscide anguille. Quando la tirai su vidi che era<br />

stata mangiucchiata appena dalle piccole bestie della laguna,<br />

ma non c’era alcuna anguilla attaccata alla sua carne,<br />

come avevo sperato. Se neanche l’offerta di un piatto<br />

tanto ghiotto riusciva a stanarle, significava che la loro<br />

fine era stata davvero irrevocabile.<br />

Recuperai quel che restava di Uffi Bau. A parte i danni<br />

da me prodotti non ce n’erano stati molti altri. <strong>La</strong> bestia<br />

era ormai senz’occhi, ma era il minimo che potesse<br />

succedere nel corso di una nottata. Questa volta arrivai<br />

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davvero a Sa Illetta e, come avevo annunciato, lo sotterrai,<br />

dispiaciuto dell’inutilità di quella morte. Sollevai un<br />

monticello di terra e nel mezzo vi infilai una croce fatta<br />

sul momento, intrecciando due ramoscelli di mandorlo.<br />

Nei giorni successivi vi accompagnai più volte Albertino,<br />

perché deponesse i fiori e facesse le sue preghiere. Poi<br />

arrivò il caldo estivo, la fine della scuola, l’inizio delle<br />

gare di nuoto e dei tuffi. Anche Albertino si dimenticò<br />

di quel luogo. <strong>La</strong> croce scivolò e nessuno pensò di risollevarla.<br />

* * *<br />

Donna <strong>Giulia</strong> è il mio oceano di onde e salsedine. Le<br />

mie nuvole di acqua dolce. <strong>La</strong> mia laguna invasa e sedimentata,<br />

sfruttata, oltraggiata e derisa. <strong>La</strong> perlustro per i<br />

limacciosi canali interni accuratamente, senza tralasciare<br />

un solo filo d’erba. Mi basta pensarla perché il furetto che<br />

ho tra le gambe si gonfi e mi trascini ovunque, sfuggendo<br />

ogni controllo. Non sa ancora comportarsi con galanteria.<br />

S’insinua con la permalosa complessità dei labirinti,<br />

incosciente e sollecito, circospetto e senza diplomazia.<br />

Non bussa, non aspetta il mio ritmo più modesto. Cerca<br />

la sua strada tra quelle gambe che immagina abbronzate<br />

e di un odore fruttato e morbido. Non vuole scappare ma<br />

affondare. Sono terrorizzato. Di commettere imprudenze,<br />

di non sapere uscire al momento giusto, di essere troppo<br />

grosso per lei - che non si chiama <strong>Giulia</strong>, ma che importa,<br />

tanto ho già scordato il nome con cui si è presentata -<br />

di non avere le mani abbastanza pulite per toccarla. Lui<br />

invece ispeziona, spinge. Tutto gli è permesso. Scende nel<br />

fondo più buio, assorbito da un calore di cui non si domanda<br />

la provenienza. E mentre si concede spazi insondabili<br />

e le più ampie schiarite, io percepisco per la prima<br />

volta un respiro che non è il mio. Un respiro bruciante e<br />

sonoro che si poggia sulla mia guancia, mi inumidisce<br />

l’orecchio. Cerco di accodarmi a quel fiato. Apro gli occhi<br />

e la trovo lì. A una spanna dalle mie labbra. È viva, gemente,<br />

pulsa. Pulsa della passione che le ho contagiato.<br />

Delle spinte del mio sesso che la scuotono da dentro.<br />

– Vivi? – urlo a denti stretti.<br />

Non credo che mi intenda. Non sento la sua voce. In<br />

gola mi risuona il nome della prima delle donne emerse<br />

dall’acqua.<br />

<strong>La</strong> donna su cui mi risveglio, dall’odore acre e penetrante,<br />

si leva rapida e un poco indispettita, mi chiede<br />

cinquecento lire, si tira giù la gonna e con un “ciao bellino”<br />

vuoto di emozione si libera da me e si allontana.<br />

Così profonda è la disparità tra lei che ha ricevuto e me<br />

che ho versato, che mi lascia sgomento.<br />

* * *<br />

Appeso alla porta di Maria la panettiera c’è un cartello:<br />

“Oggi niente pane”. Le tende sono tirate, le finestre chiuse<br />

nonostante il caldo. Una donna passa, legge, bussa senza<br />

ricevere risposta, si lamenta un poco e prosegue fino<br />

alla chiesa per genuflettersi davanti alla Madonna. Compiute<br />

le evoluzioni di rito si rialza e, scorgendomi mentre<br />

riordino il pesce nella ghiacciaia, non esita a soddisfare<br />

la sua curiosità.<br />

– Tifo, signora Tina. Il bambino piccolo, – la precedo.<br />

– Fisieddu! O Maria Santissima madre di Dio buono e<br />

giusto! – esclama lei segnandosi come un attimo prima,<br />

ma con una frenesia assai maggiore, incapace di trattenere<br />

un accenno di genuflessione davanti a me che mi<br />

impongo di non mutare la serietà dell’espressione.<br />

Il suo sguardo si rivolge misericordioso verso la casa<br />

della sciagura. È evidentemente combattuta tra la curiosità<br />

di saperne di più, che le fa allungare il collo verso<br />

la porta, e l’impulso di conservazione, che le fa compiere<br />

tre passi indietro.<br />

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– Ma come è potuto… È morto? – domanda in un improvviso<br />

tono da circostanza.<br />

– No, fino a mezzora fa, no. C’è dentro il medico.<br />

– O Maria Santissima madre di Dio buono e giusto! Il<br />

Signore vede e provvede, – dice con un’altra genuflessione<br />

alla quale rispondo con mezzo inchino che mi riesce<br />

a dir poco principesco. Piego persino il capo e lo<br />

mantengo basso fino a quando lei non si allontana. Ne<br />

seguo allora i passi piccoli e veloci, simili a quelli delle<br />

tredici galline che tiene imprigionate nel recinto sul retro<br />

della casa.<br />

– Non dimentichi le uova, signora Tina, – le urlo.<br />

– Che?<br />

– Le uova fresche per il piccolo malato.<br />

– Certo, certo. Dio vede e provvede, – mi risponde senza<br />

fermarsi, con l’affanno della responsabilità della divulgazione<br />

sulla lingua e la salivazione abbondante.<br />

<strong>La</strong> storia di Tina e le galline nacque in seguito all’infatuazione<br />

che la donna si prese per la guardia del carcere<br />

minorile - la stessa che parecchio tempo dopo avrebbe<br />

prestato il fucile a Marc’Antonio per abbattere il bastardino<br />

dai polmoni schiacciati. Certo allora correvano ben<br />

altri tempi, Tina era gaia e prestante e, nonostante fosse<br />

braccata dal padre e da una zia materna che di lui era<br />

stretta alleata, godeva di una reputazione esagerata. Le<br />

voci più maliziose anche quella volta non ebbero remore<br />

nel sostenere che non si trattava affatto di innamoramento<br />

nel senso sublime della parola, quando invece di<br />

una passioncella fugace e assai carnale, per la quale più<br />

volte la giovane Tina, sguisciata nella gabbiola notturna<br />

della sentinella, gli concedeva il conforto della sua compagnia<br />

nelle notti di veglia.<br />

Tutto sarebbe probabilmente filato liscio se una notte,<br />

sotto l’ultimo bagliore del tramonto di una luna calante,<br />

una mano impertinente non avesse spinto una gallina, tutta<br />

starnazzi e strepiti, dentro la casa del rude Gioacchino.<br />

L’uomo, svegliato dall’inconsueto scompiglio, da un solo<br />

sguardo al letto della figlia comprese tutto. In realtà<br />

aspettava da tempo di sorprenderla in flagrante e, presagendo<br />

un avvenimento fuori dal normale non appena il<br />

verso querulo della gallina - che sarebbe in seguito diventata<br />

la preferita di Tina - gli risuonò nel sogno, saltò giù<br />

dal letto e si precipitò a levar via la coperta ben tirata sulla<br />

finta sagoma della figlia. Inferocito per l’affronto e confuso<br />

dalle proprie urla, mentre cercava di afferrare la gallina<br />

con la schiena china, sbatté la testa sullo lo spigolo<br />

del tavolo. Inutile dire che la sua furia crebbe a dismisura.<br />

Braccata e afferrata per le zampe, l’ambasciatrice senza<br />

colpa fu cacciata di malo modo dalla finestra. <strong>La</strong> luna<br />

si andava nascondendo mentre Gioacchino, nei suoi mutandoni<br />

da notte, senza neanche indossare una maglia,<br />

spalancò la porta di casa e si precipitò fuori. <strong>La</strong> scarsa luminosità<br />

non bastava a distinguere un grigio da un nero<br />

profondo, tuttavia era ancora sufficiente per seguire l’ombra<br />

dell’animale che s’incamminava, ondeggiante e goffo,<br />

lungo la pista disseminata di miglio che, guarda caso, arrivava<br />

proprio all’ingresso del carcere.<br />

<strong>La</strong> guardia levò le mani, svuotate all’improvviso dei<br />

prosperi segreti di Tina e, senza turbamenti, dichiarò al<br />

padre della donna, il quale proponeva la soluzione più ovvia<br />

ai due amanti smascherati nell’atto dell’amore, che<br />

non era affatto sua intenzione sposare una giovane di così<br />

facili costumi. E ciò, nonostante il fatto che egli del tesoro<br />

più prezioso di Tina non aveva conosciuto nulla.<br />

– Diglielo, – lo supplicava lei.<br />

Ma quello, che per tutta la vita aveva temuto di trovarsi<br />

con il membro smorto e pendulo non appena si fosse<br />

insinuato nelle vicinanze del bene anelato, insistette del<br />

contrario per salvare la reputazione della propria prodiga<br />

virilità.<br />

Tina aveva a quel tempo diciassette anni e non solo non<br />

aveva fatto l’amore con la guardia, ma non l’aveva mai<br />

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fatto in vita sua, nonostante non avesse mancato di ricercarne<br />

le occasioni. Incassò le botte del padre e tenne pure<br />

la gallina, la prima di un allevamento che di lì a poco<br />

sarebbe diventato conveniente e produttivo. Occupò<br />

la casa che era appartenuta a uno zio morto per tutt’altre<br />

cause che l’onore della famiglia e con il suo pollaio,<br />

che in poche settimane contava già dieci esemplari, prese<br />

a rifornire di uova il villaggio. Qualche mese dopo incontrò<br />

anche l’uomo che poi avrebbe sposato, nonostante<br />

l’allusivo riferimento che don Melis fece nell’omelia<br />

della domenica successiva, a “certi comportamenti tipicamente<br />

femminili che la Madonna mai avrebbe approvato<br />

né, se ne fosse stato al corrente, il suo figliuolo il<br />

buon Gesù”.<br />

Ma questo accadeva molti anni or sono, sebbene la vicenda<br />

continui a vantare narratori e buoni intenditori<br />

nell’intero villaggio.<br />

Don Melis fa capolino dalla sacrestia appropinquandosi<br />

anch’egli alla casa di Ignazino e quando incontra signora<br />

Tina le fa un inchino rispettoso, perché è convinto<br />

che se ora la donna porta la fede al dito, nonostante<br />

la vedovanza, è di sicuro per opera di quella predica proprio<br />

ben detta, con tanto di riferimenti alle parabole del<br />

vangelo - almeno tre, ne aveva sciorinato per l’occasione<br />

- e del catechismo supplementare cui Gioacchino, su suo<br />

suggerimento, la costrinse. Lei l’intraprese controvoglia<br />

da principio, ma sempre più calorosamente man mano<br />

che altri ragazzi si aggiungevano a scaldare i banchi, accorsi<br />

alla notizia di poter sedere accanto a colei che scappava<br />

di casa per compiacere alle bramosie di chi non dedicava<br />

la notte al sonno.<br />

– O Maria Santissima madre di Dio buono e giusto! –<br />

esclama la signora Tina vedendo avvicinarsi don Melis e<br />

ritornando di corsa sui suoi passi. – È già stato mandato<br />

a chiamare?<br />

– Vengo a prendere il pane che questa mattina Maria<br />

non mi ha portato, – le risponde il sacerdote guardando<br />

però verso di me, con aria interrogativa.<br />

– Allora non sa niente, ancora? – domanda incredula<br />

Tina, afferrando la veste dell’uomo di chiesa.<br />

– Il piccolo di Maria e Ignazino s’è beccato il tifo, –<br />

gli comunico io per tagliare corto.<br />

Il prete sobbalza, guarda il cielo traendone il dovuto<br />

conforto, decide per lo sfondamento e irrompe in casa<br />

dell’ammalato, dimenticandosi di noi. Ne esce subito dopo<br />

con le parole terminali della benedizione ancora fra i<br />

denti.<br />

– È vivo, è vivo? – domanda Tina tirandolo nuovamente<br />

per la veste.<br />

– Certo che è vivo, ha la febbre molto alta, però.<br />

– O Maria Santissima madre di Dio buono e giusto!<br />

– Non riempitevi la bocca inutilmente, inginocchiatevi<br />

e pregate, – fa il prete cercando di coinvolgermi, nonostante<br />

mi affanni a mostrare di dover lavorare.<br />

– Non mi piace farlo in compagnia, lo farò da solo.<br />

– <strong>La</strong> chiesa è compagnia, Frantziscu.<br />

– Non per me.<br />

– Non essere così ostile, inginocchiati a pregare con<br />

noi per il piccolo ammalato.<br />

– Spero di non dover pregare mai per nessuno, in vita<br />

mia.<br />

Don Melis sbava come un neonato. Trattiene a stento<br />

un odio che traluce da sotto la tunica. Balbetta un poco,<br />

poi riesce a riconquistare la dignità della parola e fa appello<br />

a forze ulteriori.<br />

– Bisogna che parli con Salvatore, è in casa?<br />

– È al mercato.<br />

– Grave, grave, non si può trascurare in questa maniera<br />

l’educazione dei giovani. Tornerò a parlargli più<br />

tardi. E lei, signora Tina, venga in chiesa a pregare per<br />

questo infausto accadimento.<br />

– Ho pregato, don Melis, ho pregato anche per questo<br />

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giovane che è così ribelle verso il Signore. Ora devo andare<br />

a dar da mangiare alle galline. Sa, ero già sulla strada<br />

quando l’ho vista e sono tornata indietro… Ma lei vada<br />

pure, la sua preghiera è la più importante di tutte, don<br />

Melis. Vada e preghi anche per noi, che Dio l’ascolta.<br />

Il sacerdote riacquista disarmato la direzione della<br />

chiesa mentre dall’alto l’azzurra Madonnina gli concede<br />

uno sguardo di commiserazione.<br />

Non pregherò mai più, mi sono detto quando avevo<br />

otto anni e una spina mi finì in gola e quasi mi soffocò.<br />

Perché dovrei invocare un dio che agisce con tanta superficialità,<br />

o forse - nessuno mai ha saputo convincermi<br />

del contrario - addirittura con cattiveria? Prendersela<br />

con un bambinetto per fargli rimettere qualche brandello<br />

di risentimento. Non posso condividere quel suo<br />

modo di non andare mai diretto a colpire, di non fare intendere<br />

quando è il momento di espiare e quando quello<br />

di rallegrarsi. Dunque non ho niente da chiedergli,<br />

niente per cui pregare.<br />

Il medico della mutua esce dicendo che Fisieddu non<br />

riesce a parlare, al massimo delira con fraseggi incomprensibili<br />

di sillabe tronche e per lo più vaga in un sonno<br />

di torpore. Percepisce appena i suoni dell’esterno. Si rigira<br />

a scatti sul letto, suda. Ha quaranta di febbre. Sono i<br />

sintomi normali dell’infezione. Non ci si aspettano miglioramenti<br />

per questa settimana, ma nel corso della prossima<br />

ci si augura di poterli constatare. Questo dice il medico<br />

fresco di specializzazione, mentre si leva gli occhialini<br />

tondi di metallo che usa per difendersi dalla povertà<br />

delle nostre case. L’ho sentito lamentarsi della pochezza<br />

delle nostre condizioni igieniche, mentre gli indicavo la<br />

casa di Ignazino. Ha strizzato gli occhi e tirato indietro il<br />

collo come un punto interrogativo. Noi le chiamiamo case<br />

perché le abitiamo; e poi chi dice che una casa deve avere<br />

un ingresso e un soggiorno e più camere da letto e servizi<br />

collegati a un sistema fognario che funziona?<br />

– E dove scaricate? – domanda ad Ignazino che l’accompagna<br />

all’auto.<br />

– C’è tanta acqua, qui.<br />

– È un problema, è un problema, – sussurra pensieroso<br />

il giovane medico, rigirandosi gli occhiali tra le dita.<br />

Ignazino deve montare il motore sulla poppa dell’imbarcazione<br />

per prendere il mare con una busta in cui sono<br />

racchiuse le feci del malato.<br />

– Le vieto assolutamente di farle finire nello stagno, –<br />

dice il medico. – Bisogna prendere precauzioni rigorose,<br />

se non si vuole finire tutti contagiati. In <strong>città</strong> è già il settimo<br />

malato che visito, solo questa settimana, state attenti.<br />

Usate asciugamani diversi, non bevete dallo stesso<br />

bicchiere, non mangiate con la stessa forchetta. Bisogna<br />

isolare il bambino e mi raccomando, che il fratello dorma<br />

lontano e non si avvicini.<br />

Poi accenna a un saluto, richiude la portiera della cinquecento<br />

blu, mette in moto e s’incammina verso il ponte.<br />

– Pregate per il piccolo Fisieddu, – va predicando don<br />

Melis di casa in casa, nell’attesa che ritorni Salvatore e<br />

possa elargirgli una lunga paternale sulla mia scarsa educazione<br />

religiosa.<br />

Salvatore si annuncia con la sua apixedda scoppiettante.<br />

Scende sbattendo la portiera che altrimenti non si<br />

chiude e si appresta a scaricare secchi e ceste. Il prete, uomo<br />

di orecchio fino, guizza fuori dalla casa di Peppino,<br />

dondola arrancando nella nera tunica e gli si para alle costole.<br />

Non lo mollerà per un pezzo, nonostante sbavi e si<br />

impappini con le dure considerazioni da buon cristiano<br />

incaricato di predicare. Davanti all’indifferenza di Salvatore<br />

si confonde tra la pecora e l’agnello, tra le pietre che<br />

edificano e le croci che affliggono e sbaglia, rimettendosi<br />

alla bontà divina piuttosto che armarsi di strumenti<br />

per ricucire da sé i buchi nelle reti che da sé dovrebbe<br />

gettare e da sé ritirare a secco con grande dolore dei reni<br />

e di tutta la colonna vertebrale.<br />

94 95


– Che vuole che le risponda, don Melis. Cussu piccioccheddu<br />

est aicci. Dio l’ha voluto un po’ ribelle. Magari con<br />

gli anni…<br />

Sbaglia anche Salvatore ad usare la parola “ribelle”. Non<br />

solo perché non mi corrisponde, ma anche perché è sempre<br />

stata utilizzata a designare quanto di peggio si possa<br />

concepire, in questo villaggio.<br />

Dunque, impressionato e timoroso per la mia sorte perigliosa<br />

e vicina alla dannazione, il prete tenta di convincere<br />

Salvatore a farmi frequentare uno di quei corsi<br />

di recupero organizzati dalla parrocchia di Bonaria, dall’altra<br />

parte della <strong>città</strong>.<br />

– C’è gente in gamba lì, gente che sa come trattare con<br />

i ragazzi difficili. Dammi retta, Salvatò, per il suo bene.<br />

Salvatore gli riempie le mani delle ceste che scarica<br />

dall’apixedda perché le poggi davanti all’uscio, sperando<br />

che il lavoro lo induca a risparmiare fiato. Quando il pianale<br />

rimane vuoto lo saluta, impedendogli efficacemente<br />

di seguirlo dentro casa.<br />

Lo bacerei, lo chiamerei padre della mia carne, gli laverei<br />

i piedi. Salvatore, come dice il nome, grazie. Tu sì<br />

che mi capisci e mi vuoi veramente il bene di un padre.<br />

Anche se magari avrai pagato mia madre più volte. L’avrai<br />

fatto volendole bene, perché non sai farlo tu, di non<br />

voler bene alla gente.<br />

Salvatore mi precede ricacciandomi una ad una le parole<br />

in bocca, fastidiose come denti cariati.<br />

– È tempo di mettersi a lavorare seriamente, ragazzino.<br />

D’ora in poi uscirai in mare al posto mio, – dice adirato.<br />

Non vuole sentire repliche, solo vedermi lavorare. Ma<br />

non sa lui che il mare è infinitamente senza confini, ondoso,<br />

senza fondo, e che devo terminare di pulire il volto<br />

della nobildonna romana prima di poter anche solo<br />

lontanamente concepire di mettermi a pescare in quelle<br />

acque pericolose?<br />

Sebbene Donna <strong>Giulia</strong> abbia potuto credere di essere<br />

stata trascurata, negli ultimi tempi, non è esattamente<br />

così; il fatto è che medito su quegli occhi belli e non posso<br />

scrostarne i sedimenti che di un millesimo alla volta,<br />

con una lentezza che non è pigrizia o incapacità, ma la<br />

sola forma possibile perché lo svelamento conservi la sua<br />

magia.<br />

Guarda come sono cresciuto io millimetro dopo millimetro,<br />

avrei voluto dire a Salvatore; guarda come l’afflato<br />

del tempo si nasconde dietro mutamenti impercettibili;<br />

e guarda ancora tutto quello che mi resta da ripulire,<br />

scrostare, grattare, levigare, spolverare. Non posso<br />

ancora dedicarmi al mare. Il mare attenderà.<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> mattina successiva l’aria è fresca. Nella parte più<br />

bassa della laguna, dove l’acqua arriva appena a coprire<br />

le ginocchia, scoppiettano sul fondo come bolle allegre,<br />

uno dietro l’altro, i forellini che rivelano la presenza delle<br />

arselle. Quando risalgono così in superficie basta spolverare<br />

un velo di sabbia per trovarle, completamente indifese,<br />

alla portata del mio coppo. Ne tiro su qualche decina,<br />

belle cicciute dentro i gusci di conchiglia ermeticamente<br />

chiusi. Mi piace immaginarle mentre si divaricano<br />

man mano, scottate dal calore vivace che ne svela<br />

l’essenza, molle come un cuore, mischiata alle esalazioni<br />

dell’aglio e del prezzemolo. Non c’è il tanto per portarle<br />

al mercato, ma è abbastanza per confezionare un regalo e<br />

fare una bella figura. Marta Pilloni sa come non perdere<br />

nulla della fragranza del mare ed eliminare nel contempo<br />

quelle fastidiose sedimentazioni sabbiose che l’animale<br />

si trascina nel guscio, a volte anche dopo essere stato<br />

spurgato in acqua e sale.<br />

– O piccioccheddu, mancu màlisi chi ses benniu, – mi dice<br />

Omero senza la minima alterazione, come se mi stesse<br />

aspettando.<br />

96 97


Vedo la sua nuca rugosa avvizzita dal sole, la pelle increspata<br />

e rossiccia segnata da lunghi peli bianchi. Nonostante<br />

lo acchiappi per le spalle, egli non si volta. Gli<br />

giro intorno per guardarlo in faccia. Anche così tiene il<br />

capo basso. Nasconde gli occhi.<br />

– Commenti andara?<br />

– Tristi, Frantziscu. Mamma mia non c’è più.<br />

Marta Pilloni è morta due notti fa soffocata dal vomito,<br />

distesa sul letto a pancia in giù, con i piedi a terra,<br />

forse nel tentativo di scendere. O come se vi fosse rovinata<br />

sopra, ancor prima di potersi sdraiare. Omero dormiva<br />

e non si è accorto di niente. L’ha trovata così solo<br />

alla mattina, avvolta in una puzza pestilenziale e con le<br />

mosche che ronzavano attorno.<br />

È uscito in silenzio, trattenendo il pianto fino alla strada,<br />

dove ha chiamato le donne del vicinato.<br />

– Solo loro sanno cosa fare in questi casi, – dice.<br />

Le donne hanno aperto le finestre e spruzzato l’essenza<br />

di acqua di rose per l’aria. Hanno spogliato Marta Pilloni,<br />

l’hanno lavata dopo aver riempito la vasca da bagno<br />

di acqua fredda e hanno rifatto il suo letto con la biancheria<br />

pulita. Sopra hanno disteso il corpo esanime della<br />

vegliarda con le mani incrociate sul petto. Quando<br />

tutto è stato rimesso in ordine e il mondo dei vivi ben<br />

disinfestato dall’odore dei morti, hanno chiamato Omero<br />

che se ne stava da solo nel cortile a rigirarsi sulla lingua,<br />

come un rosario tra le dita, i versi del suo poeta preferito.<br />

– Ora sono solo al mondo, – mi dice immobile, come<br />

se non avesse parlato. – Orfano di padre e di madre.<br />

– È così che va la vita, Omero. Bisogna rassegnarsi. Anzi,<br />

tua mamma è vissuta così a lungo…<br />

– Troppo a lungo e non abbastanza.<br />

– Ora dovrai imparare a cavartela da te.<br />

– Sono capace a fare ogni cosa, ma non credo di averne<br />

voglia.<br />

– Continuerai a lavorare?<br />

– Non ti lascerò libero di venire a rubare le cose antiche<br />

solo perché mamma non c’è più.<br />

– Non lo credo, Omero. Lo so che sei un buon custode.<br />

Omero si commuove. Solleva il capo e si lascia prendere<br />

dalla lunga serie dei suoi tic nervosi. Scorgo solo allora<br />

che ha due occhi azzurri, lucenti e scemi. Di una scemenza<br />

amplificata dal dolore. Le sue pupille scavano buchi<br />

profondi. E quando credo di aver afferrato un attimo<br />

di impalpabile, malinconica evasione, lo scorgo tirare<br />

fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto della grandezza<br />

di un pugno, avvolto in fazzoletti di carta bianchi<br />

e giallini.<br />

– L’aveva preparato per te, – mi dice con la mano tesa.<br />

Pieno di sorpresa, lo prendo. I nostri sguardi si incontrano<br />

e subito scappano per traiettorie diverse, per camuffare<br />

l’imbarazzo di chissà quale colpevolezza. Omero<br />

combatte senza speranza contro trenta secondi di smorfie<br />

erompenti che lo attraversano dall’interno.<br />

Levo una ad una le carte sovrapposte che nascondono<br />

il dono: fazzolettini da naso, un ritaglio di busta per il<br />

pane, una carta velina. Scopro finalmente, prezioso e duro,<br />

l’anello che avevo ammirato al dito di Marta Pilloni,<br />

quella pietra cangiante tra il colore del sangue e quello<br />

del tramonto.<br />

– Grazie Omero, è davvero bello!<br />

– “<strong>La</strong> notte vegliava sino al mattino, di giorno poi russava.<br />

Nessuno mai fu così incoerente” – dice ancora con<br />

un’espressione perplessa, rigirando tutt’intorno all’anello<br />

che non sembra riconoscere.<br />

– Di chi parli, Omero?<br />

– Di Tigellio, certo.<br />

– Avrei davvero voluto ringraziare tua madre per questo<br />

bel regalo, – dico.<br />

Omero me lo strappa di mano e dopo aver sollevato la<br />

visiera del berretto, se lo piazza davanti all’occhio sini-<br />

98 99


stro. Lo gira e lo rigira come se vi cercasse qualcosa,<br />

commentando con le smorfie della bocca la sua inutilità.<br />

Infine me lo rende, alzando le spalle.<br />

– Diceva che è il maestro che mi ha fatto scemo, a me.<br />

Ma non è vero. Il maestro mi chiamava: “Omero, nostro<br />

poeta, cosa ci racconti, oggi?” Voleva una poesia sempre<br />

diversa. E io gliela recitavo, così poi lui mi passava la mano<br />

fra i capelli. “Bravo!” diceva. E un calore mi prendeva<br />

tutto e mi dipingeva di rosso. Nessuno era capace di diventare<br />

rosso come me. “Gamberetto” mi chiamava qualche<br />

volta, quando voleva che lo stringevo forte. Lo facevo<br />

perché me lo chiedeva. A dirgli di no mi veniva la tristezza.<br />

Ma mamma mia non l’ha mai capito. È esplosa perché<br />

non poteva capirlo.<br />

Nel cielo si mietono vapori e nubi coralline. Si dispiegano<br />

pallidi sentieri sotto i quali Omero si assottiglia con<br />

l’ottusità di un vecchio nano.<br />

– Vuoi che te la stringa? – mi domanda imberbe e languido<br />

mentre i decenni gli si sciolgono addosso, trasportando<br />

macchie di sudore e l’umidità rappresa sugli occhi.<br />

Supplica riesumazioni di cui solo può godere una vuota<br />

eredità fatta di infinita tristezza. L’immobile nostalgia<br />

di cui è circondato, nonostante le mani grosse dentro le<br />

tasche dei calzoni, lo tiene prigioniero in un angolo angusto<br />

la cui unica fessura è oscurata.<br />

Corruga la fronte, pare voglia dire qualcosa che gli fa fatica.<br />

Si agita appena e con inquietudine, come se picchiasse<br />

la testa su una parete per farla sanguinare di parole;<br />

così inafferrabili e nascoste devono apparirgli; o talmente<br />

spudorate da non poterle tirare fuori, dove svanirebbero<br />

nello spazio di un respiro.<br />

– Vuoi che te la stringa? – ripete.<br />

È tutto quello che sa domandare, contro l’annichilente<br />

deserto della perdita: ogni tentativo di sopravvivere ha il<br />

nome della gratificazione di allora. Nei suoi occhi azzurri<br />

è sprofondata l’ecatombe del vuoto.<br />

Nonostante il disagio e il forte senso di repulsione, mi<br />

lascio condurre tra le più basse rovine della villa, visitabili<br />

solo ai gatti e alle cavallette brulicanti. Chiudo gli<br />

occhi per evitare di incontrare la pienezza spodestante e<br />

bugiarda che batte sul trascorrere di un tempo intollerabile.<br />

Chiudo i polmoni per non partecipare del godimento<br />

sonoro che gli porta le lacrime agli occhi, le bave sulle<br />

labbra violacee e insudiciate, i fremiti nella mano con<br />

cui mi stringe il sesso fino a farmi venire. Vengo nella casa<br />

di Tigellio, schizzando sul fianco dissotterrato di Donna<br />

<strong>Giulia</strong>, rendendole il calore e l’umidità di una vita della<br />

quale non si gioverà. Non le basterà il tepore di un’unica<br />

volta.<br />

Omero cade sulle ginocchia davanti al mio sesso rattrappito<br />

che subito castigo dentro le mutande. <strong>La</strong> sua follia<br />

muta mi spaventa. Lo abbandono spossato tra le rovine<br />

ingiallite.<br />

A casa cerco di frenare il tremore delle mani che lavorano<br />

imbarazzate sulla testa di Donna <strong>Giulia</strong>. Contro<br />

ogni disposizione del tempo, rosico i secoli a colpi di lametta.<br />

Quando viene la notte vado nella palude in cerca<br />

dell’uccello dal verso lunare. Quando rispunta il giorno<br />

scovo il sole sulla sommità di un’increspatura dell’acqua<br />

che si contorce e si placa su se stessa. Dalle maglie<br />

della rete afferro un muggine ancora vivo e guizzante<br />

per sentire la pelle viscida sulle mani. Lo tengo<br />

stretto per placare la sua ansia d’acqua e lo osservo affogare<br />

nell’aria, morire lentamente tra le scosse della coda<br />

e i sobbalzi della testa. Cerco il suo verso lamentoso giurando<br />

di ucciderlo se non me lo farà ascoltare. Cerco gli<br />

occhi senza palpebre, tondi come cerchi di una geometria<br />

talmente perfetta da apparire innaturale. Giuro che<br />

se non piange almeno una lacrima di disperazione, se<br />

non grida aiuto in tre lingue diverse, se non sbraita e tira<br />

pugni, giuro di mangiarlo vivo, di infilargli i denti<br />

nella pancia e strappargli le interiora a morsi. Ma lui<br />

100 101


non mi risponde. Si dibatte a colpi di coda, muto. E asciuga<br />

le mie energie.<br />

* * *<br />

Ho accompagnato Salvatore all’Ospedale Civile. Gli<br />

hanno levato il berretto arancione e l’hanno fatto molto<br />

adirare. Ma era troppo sfinito per potersi ribellare. È stato<br />

trasportato a capo scoperto in un ambulatorio da cui è<br />

uscito ancora più indiavolato e stremato, su una barella.<br />

Aveva a mala pena la forza di sollevare la testa.<br />

– Dì a questi stronzi bianchi che mi rimandino a casa,<br />

– ha detto.<br />

Poi ha riabbassato la testa e chiuso gli occhi.<br />

Gli ho portato un asciugamano, un pigiama chiesto in<br />

prestito a don Melis il quale, oltre ad avere la sua stessa<br />

corporatura, è l’unico a possederne più d’uno nel cassetto,<br />

spazzolino e carta igienica. Anche delle riviste, così<br />

per passarci il tempo. Ma non credo che avrà voglia di<br />

sfogliarle. Sta con gli occhi chiusi per la maggior parte<br />

del tempo e quando li apre è quasi assente.<br />

Non appena hanno detto che si tratta di colera si è scatenato<br />

un putiferio. Sono arrivati persino i carabinieri, al<br />

villaggio. Il mercato è stato chiuso per la disinfestazione,<br />

i giornali titolano a grandi pagine: “Arselle al colera. In<br />

fin di vita l’arsellaro di Giorgino” - “Divieto assoluto di<br />

pesca nella laguna di Santa Gilla” - “Allarme alla popolazione:<br />

non mangiate cozze né arselle di Giorgino”. Viene<br />

ordinata un’inchiesta, gli ispettori arrivano all’ospedale,<br />

credendo di poter ottenere risposte da Salvatore che si sta<br />

consumando a velocità spasmodica. E a noi vietano di pescare.<br />

L’ingiunzione del prefetto è diramata a viva voce.<br />

Ha il timbro dell’autorità e le sirene delle forze dell’ordine.<br />

Convocano Marc’Antonio, il presidente della cooperativa,<br />

che a sua volta convocherà noi facendo precedere le<br />

sue comunicazioni da un mio rapporto sulla salute di Sal-<br />

vatore. Quando è certo che tutti siamo ben bene costernati<br />

e abbiamo realizzato nella profondità dei nostri pensieri<br />

che la disgrazia occorsa a Salvatore non è casuale ed<br />

è del tutto ovvio il rischio di un’epidemia, Marc’Antonio<br />

annuncia l’oggetto del decreto.<br />

– Divieto assoluto di pesca di qualsiasi genere, – dice<br />

accolto dallo sgomento di un centinaio di bocche che si<br />

spalancano esterrefatte. – È tassativamente vietato raccogliere<br />

in laguna ogni specie di pesci, mitili, arselle, molluschi,<br />

ricci, polpi e ogni essere, erba o animale, vivo o<br />

morto che sia.<br />

In quello stesso momento, solo come un cane perché<br />

all’ospedale non è orario di visite, Salvatore lascia questo<br />

mondo divorato dal vibrione colerico che nel frattempo<br />

è stato rinvenuto, oltre che nel suo intestino, nella laguna,<br />

assieme a pesanti dosi di mercurio, regalo delle fabbriche<br />

dei dintorni.<br />

Fisieddu invece, il figlio piccolo di Maria e Ignazino che<br />

una volta offese, forse ingenuamente, forse con la consapevole<br />

perfidia dei bambini, il mio amore per Donna<br />

<strong>Giulia</strong>, si è rimesso veloce. Nonostante i sette chili perduti<br />

durante la malattia, accompagna in prima fila, poco<br />

lontano da me, la bara dell’ultimo arsellaro di Giorgino<br />

che va ad incastrarsi in un buco tra i tanti, scavati nella<br />

tetra parete di un poligono chiuso da cancelli a doppia<br />

mandata.<br />

102 103


Capitolo II<br />

Lo scarno assegno che sostituisce il lavoro è arrivato<br />

puntuale, il terzo giovedì del mese. E mentre gli arnesi<br />

arrugginiscono a causa dell’umido, coperti dalla vergogna<br />

dell’inutilità, qualcuno di cui si tace nome e cognome,<br />

la notte scorsa, è sceso a pescare in laguna nonostante<br />

il divieto, tirando via diversi chili di muggini.<br />

<strong>La</strong> <strong>città</strong> ha deciso della sua vocazione commerciale: che<br />

navi enormi sventrino la laguna al loro passaggio e rimettano<br />

ingombranti carichi sulla banchina di cemento,<br />

disseminata di mastodontiche gru articolate, maneggevoli,<br />

ad alta precisione. Nuovi sbocchi d’asfalto attraverseranno<br />

Santa Gilla e condurranno al futuristico porto polifunzionale<br />

e ultra moderno, nel centro del Mediterraneo.<br />

Squadre di scaricatori, manovratori, imballatori, trasportatori,<br />

ai quali si unirà la restante parte degli ori del<br />

mondo - truffatori, rapinatori, delatori, imprenditori - invaderanno<br />

la <strong>città</strong>. Nuove costruzioni, basse e fatiscenti<br />

dapprincipio, poi sempre più alte e diffuse, confortevoli e<br />

inamovibili, ospiteranno le attività che arricchiranno i<br />

rampanti dei prossimi decenni, facendo concorrenza alle<br />

105


più modeste professioni liberali su cui da secoli prospera<br />

la <strong>città</strong> di pietra, irta e solida sul calcare. Navi e mercantili<br />

provenienti dalle antiche vie delle Indie e dalle<br />

Americhe; da Spagna, Turchia, Egitto e Libia, da Amsterdam,<br />

Ostende e persino dai minuscoli porti custoditi<br />

nelle profondità dei fiordi norvegesi, passeranno accanto<br />

alle nostre case; si arresteranno sotto una delle grandi<br />

gru che li aiuterà a sgravarsi dei container da destinare<br />

ai consumi più immediati e ripartiranno con le pance<br />

sprofondate sotto la linea di galleggiamento, ingombre<br />

di chissà quali altre merci indirizzate ai mercati d’oltremare.<br />

Gli ordini delle autorità sono chiari. Vogliono che<br />

sgombriamo per favorire i lavori ormai approvati, finanziati,<br />

sostenuti e aggiudicati. Una nuova strada ben più<br />

agevole, lunga, solida, a quattro corsie, sostituirà il ponte<br />

che ci collega all’altra sponda, là dove si annuncia la<br />

<strong>città</strong>.<br />

Chiude il carcere minorile, decretato insalubre a causa<br />

delle pareti gonfie di umido, delle zanzare che ingrassano<br />

col sangue dei giovani delinquenti, della precarietà<br />

dei servizi. Chiudono la scuola elementare e il panificio<br />

di Maria, le baracche al margine dell’acqua e, voglia il<br />

cielo solo per ultime, le nostre bocche.<br />

Alle otto del mattino le ruspe fanno tremare le mura<br />

delle case senza fondamenta. <strong>La</strong> lamiera sbraita, i vetri e i<br />

piatti cantano la loro umile materia. I molti oggetti di<br />

Salvatore, conservati nella cesta sotto il lavabo che non ho<br />

avuto il coraggio di svuotare né ordinare, non sapendo a<br />

quale principio di organizzazione render conto, sembrano<br />

pronti alla dipartita. Scossa dalle vibrazioni della frenesia<br />

di questi giorni, l’elica del bimotore è in procinto di involarsi<br />

oltre il tetto della casa, nel suo frullo vorticoso.<br />

Trascinerà quanto è con essa confuso, a cominciare dalla<br />

lastra in pietra su cui è scolpito il disegno di antiche barche<br />

fenicie i cui nomi richiamano dee solari e feconde, di<br />

106<br />

esotiche colonizzazioni. Frammenti di ceramiche dell’antica<br />

fabbrica punica la seguiranno, e così l’elmo di un soldato<br />

deceduto in laguna, in quella storica battaglia che<br />

segnò la conquista dei pisani e l’erezione delle fortificazioni.<br />

I pugnali arcuati, venuti via dalle mani dei saraceni<br />

le cui navi si incagliarono nei bassi fondali, danzeranno<br />

elettrizzati. Ma soprattutto, cosa a me assai cara, la<br />

glabra percezione del mondo che intimamente apparteneva<br />

a mio padre Salvatore fremerà di un nuovo sentimento.<br />

L’ha accompagnato fino al termine del labirintico<br />

intarsio della vita, e adesso è tornata a impregnare l’aria<br />

di sé. Si aggira negli spifferi del vento, quando il mare è<br />

così infuriato che nessuno si azzarda ad uscire per tirare su<br />

le reti; vestita come sempre lui era, con il berretto di lana<br />

in testa per proteggersi dall’umido. – Rovina ossa e le<br />

articolazioni, l’umido, – avrebbe detto Salvatore. – Penetra<br />

con prepotenza, nega al corpo la sua libertà.<br />

Non poteva indovinare, allora, che la sua voce avrebbe<br />

continuato a vagare come un’anima senza quiete tra gli<br />

oggetti che gli appartennero. Davanti al suo spettro sibilante<br />

mi sorprendo ad anelare l’esistenza di nuovi mondi,<br />

tempi ulteriori e inesplorati, prospettive che oltrepassano<br />

la laguna e questa striscia di terra che mi tiene incollato a<br />

sé. Prego per l’emergere di differenti strati d’orizzonte che,<br />

come gradini, si offrano ai miei piedi e mi conducano lontano.<br />

Quando il mare ghigna sulle brezze molli del tramonto,<br />

il mio collo si storce, fa reclinare la testa e i pensieri,<br />

ne contesta l’esistenza fino a costringerli a un fremito<br />

d’immobilità. Questo mare indigesto, su cui vogliono<br />

costringermi ad inoltrarmi contro ogni mia predisposizione,<br />

mi tortura nel delirio dell’ondeggiare monotono e allucinogeno<br />

del suo ripetersi. A noi che per secoli abbiamo<br />

pescato con le mani, gli ami e le reti, ora parlano di crescita,<br />

trasformazione, progresso. Eppure il mio mestiere,<br />

che rivela soluzioni peculiari e multiple, sdrucciolevoli tra<br />

il vivere e il morire, non si capacita di nuove definizioni.<br />

107


Con angoscia mi riconosco uguale ai tanti animali morti<br />

perché non hanno saputo trasformarsi con rapidità. I pesci<br />

che tiro fuori dall’acqua allargano le branchie per respirare,<br />

ma è uno sforzo inutile. Ogni evoluzione richiede millenni<br />

di preparativi.<br />

Salvatore conosceva tutto questo. Avrebbe dovuto prevenirmi,<br />

invece di andarsene a miglior vita proprio quando<br />

una mente glaciale, molto più articolata e programmata<br />

delle nostre, si imponeva a dettar legge. <strong>La</strong> ruspa poggia<br />

la vanga dentata sul terreno e la lenta forza imperturbabile<br />

della sua meccanica sventra il suolo, si impadronisce<br />

della terra, la solleva, la rigira e la lascia precipitare sul<br />

fondo di un camion che la dissiperà fra mattoncini e cementi<br />

destinati a trattenere chissà quali vite lontane.<br />

Brandelli di ceramiche ancora sgargianti, cocci di maschere<br />

dell’arte punica, retaggi di quel grande impero che fu il<br />

romano - i cui resti vennero rinvenuti nella necropoli poco<br />

oltre - fanno adesso macerie indistinte, deportate in<br />

campi senza nome per ulteriori riduzioni.<br />

* * *<br />

Apro gli occhi su un mare arrabbiato. Sventrato dalla<br />

cavità della terra, precipitoso ed irruento, grugnisce dal<br />

suo letto in artigli candidi e schiumosi. Il libeccio trascina<br />

con sé una polvere ambrata e desertica che ricopre man<br />

mano le mura che guardano l’Africa lontana e le strade<br />

della <strong>città</strong>. Scompaiono da un giorno all’altro i panni stesi<br />

ad asciugare sui fili dei balconi; gli uccelli, chissà perché,<br />

tacciono anch’essi, forse nel presagio di un malaugurato<br />

evento. Soffia ormai da sei giorni senza interruzione,<br />

affievolendosi appena nelle ore notturne per rimontare<br />

gagliardo alle prime luci della mattina.<br />

<strong>La</strong> situazione diventa di interesse nazionale. Inviati romani<br />

trasmettono sul primo canale il fenomeno di un’automobile<br />

bianca che nel giro di pochi minuti diventa gial-<br />

108<br />

lognola e argillosa fino a scomparire completamente sotto<br />

uno spesso strato di terriccio rosso. Così per lo meno dicono<br />

i cronisti, commentando il sovrapporsi di gradazioni di<br />

grigi sempre più scuri, man mano che scorrono le immagini<br />

televisive. Sono eventi prodotti dalle tempeste del deserto.<br />

Anche i giornali li riportano in prima pagina. Al bar<br />

di Agostino, che abbasserà le serrande tra un mese esatto,<br />

il gazzettino sconsiglia di uscire di casa senza un fazzoletto<br />

sulla bocca e un berretto che copra le orecchie. Si diffonde<br />

la notizia che il forte vento può provocare un’onda capace<br />

di sommergere l’entroterra per chilometri e chilometri,<br />

dopo essersi schiantata sulle coste del Golfo degli Angeli<br />

che con ingenuità tende le sue braccia a sud. Restiamo<br />

sgomenti davanti ai filmati che mostrano paesi del Pacifico<br />

sconquassati dalla forza dell’acqua: carri e macchine<br />

ribaltati in capriole senza fine, case scoperchiate o trascinate<br />

via assieme a buoi, cavalli e frigoriferi per i campi disastrati,<br />

a velocità inconcepibili. Le immagini si interrompono<br />

bruscamente, lasciando intuire che l’operatore,<br />

sorpreso dalla furia della natura, ha dovuto abbandonare la<br />

ripresa. Subito dopo lo strazio ricomincia, concentrandosi<br />

sulla desolazione che succede al disastro. Il villaggio è<br />

scomparso. L’unico sopravvissuto è un vecchio con la vanga<br />

in mano, un cappello di paglia che chissà come è rimasto<br />

sulla testa e i piedi nudi, intento a scavare nell’irrecuperabile,<br />

quando ormai l’acqua ha mangiato la terra, divorato<br />

i campi, sepolto il lavoro dell’uomo e delle bestie. Il<br />

vecchio zappa con pervicacia titanica, levando sulla vanga<br />

zolle di terra gocciolante che ributta accanto, in un deserto<br />

di fango in cui nulla è distinguibile. Solo la sua ostinazione<br />

testimonia che una volta esisteva un mondo e allo<br />

stesso tempo ammonisce, commentandosi senza parole,<br />

della futilità di ogni sforzo.<br />

Durante la sesta notte il vento si placa. Il mare grugnisce<br />

trascinandosi con pigro imperio, arrancando sulla<br />

sabbia granosa, scavata e ricomposta, fertile di inver-<br />

109


tebrati millenari. Si ritira sdegnoso sul fruscio della risacca,<br />

come un amante vuoto di coerenza o una carezza<br />

estorta alla mano dell’amata. Le barche legate al pontile<br />

della laguna scalpitano ancora tribolanti, di una irrequietezza<br />

che a stento si trattiene sotto il bordo frastagliato<br />

dell’acqua.<br />

Ci si dimentica presto del panico di una probabile onda<br />

gigantesca e irrefrenabile che minaccia la costa. Gli<br />

elefantiaci macchinari dell’impresa, relitti di mammut<br />

senza padrone né pretendente, si appropinquano alla loro<br />

consueta attività, imbrattati di polveri desertiche.<br />

L’argilla sui ferri cede al primo sobbalzo con cui trema<br />

l’intera laguna; il piccolo uomo dall’elmetto giallo smuove<br />

il braccio meccanico della ruspa: non è che un minuscolo<br />

prolungamento del corpo che da ben lungi ne ha<br />

decretato l’agonia. Arriva come misura speciale, un soccorso<br />

urgente. Ma è una finzione, investire la laguna di<br />

preoccupazioni. Quel che si vuole salvare è la sopravvivenza<br />

della <strong>città</strong> di pietra a spese della <strong>città</strong> d’acqua dichiarata<br />

infetta, pestifera, putrescente. Scavi e dragaggi,<br />

canali e depuratori filtrano i residui della <strong>città</strong> sovrastante,<br />

rilasciati da sempre e senza pentimenti, per consentire<br />

di perpetrare uno sfruttamento legalmente ineccepibile.<br />

Nuovi prototipi di ddt, al pari di quelli sperimentati<br />

sull’isola nei trascorsi decenni, saranno spruzzati<br />

per debellare le giovani zanzare geneticamente più robuste<br />

delle precedenti. Disinfettanti, deodoranti, igienizzanti<br />

saranno gettati nelle acque sempre più pulite, cristalline<br />

e diuretiche. Sulle ali degli insetti portatori di<br />

malattie saranno graffettate placche a numerazione progressiva<br />

per compiere controlli, verifiche e speculazioni<br />

di laboratorio. Anche i più fini corpuscoli dell’acqua verranno<br />

catturati e messi sotto lenti di galileiana memoria,<br />

nella certezza di un’ineccepibile classificazione. Nomi ed<br />

attributi, comportamenti e tendenze, descrizioni e similitudini<br />

tenderanno a collocare, sull’unidimensionalità del<br />

110<br />

foglio, rapporti di sfaccettate possibilità e mutamenti.<br />

Lunghi libri raccomanderanno i metodi e le azioni più opportune;<br />

parleranno di salvaguardia, sostenibilità e sensibilità<br />

e, tentando di sventare possibili sospetti, confonderanno<br />

ammonizioni, diffide e prescrizioni.<br />

L’acqua della laguna è ingravidata e fiorente, dispensa<br />

esseri che subiscono e non si affliggono delle patologie<br />

della pelle, degli organi e quant’altro. Ogni nascita ghermisce<br />

le risorse per la propria sopravvivenza, accumula e<br />

spigola con inesausta sollecitudine; traccia i segni del suo<br />

passaggio lasciando decadere le ombre e innalzando monumenti<br />

che non affermano né eccepiscono il sacro. <strong>La</strong><br />

laguna contiene senza spiegarsi: è anfora del riprodursi<br />

delle potenzialità, enorme ovaia in cui pulsano follicoli<br />

pronti ad ingoiare ed espellere, come bocche affamate,<br />

nuove razze sempre più ricche e minacciose.<br />

Riprende la lenta processione delle ruspe, giunte da oltre<br />

il ponte della Scaffa, a sfibrare anche le vene più<br />

profonde della <strong>città</strong> d’acqua, già decrepita per i lunghi secoli<br />

di assedio. Uomini in divisa si aggirano nei bassi fondali,<br />

riempiono provette, catturano esemplari, acchiappano<br />

insetti per l’aria, scavano nei nidi degli uccelli e rubano<br />

loro le uova.<br />

<strong>La</strong> maggior parte dei pescatori ha già abbandonato il<br />

villaggio per un appartamento nel quartiere popolare del<br />

Cep: palazzi in mattoncini rossi sul lato opposto della<br />

<strong>città</strong> che vantavano numerosi pretendenti già prima di essere<br />

terminati. Dai piani più alti ci si affaccia su un altro<br />

stagno, lo si abbraccia per tutto il perimetro, lo si confonde<br />

con le saline. Visto da lì è piccolo e senza misteri, abitato<br />

solo da alcuni uccelli che ne colorano la superficie. È<br />

inconcepibile l’idea di affondarci con le gambe; tanta distanza<br />

rende estraneo persino il mare, che pure si allarga<br />

all’infinito oltre quello.<br />

Il carcere è stato trasferito da tutt’altra parte assieme ai<br />

suoi giovani di malaffare, per noi poco più che ombre del-<br />

111


le cui disavventure raramente, il vociare dei sorveglianti,<br />

ci portava notizia. Conoscevamo bene il cellulare blu dentro<br />

cui arrivavano e le auto della pula che attraversavano<br />

la strada davanti alle nostre case con le sirene spiegate. Il<br />

cancello è come sempre impenetrabile, il filo spinato rigira<br />

vanamente sui muri. Le guardiole delle sentinelle sono<br />

sparite, ma è rimasto il cartello col nome del carcere,<br />

troppo arrugginito per qualsiasi riutilizzo.<br />

<strong>La</strong> signora Tina ha trovato ospitalità presso una cognata<br />

che però non vuole saperne delle sue galline.<br />

– Che importa, tanto mi stanno impazzendo. Sussultano<br />

ad ogni colpo di ruspa e non fanno più uova, – dice<br />

con un cupo sorriso di rassegnazione.<br />

Ieri mattina è entrata nel pollaio, ha scelto con amore le<br />

più grasse e dopo averle baciate sulla cresta, aver spazzolato<br />

le alucce e legato le zampe, ha tirato loro il collo. <strong>La</strong><br />

sera ha apparecchiato una lunga tavola con la tovaglia pulita<br />

e ha offerto a tutti una cena in grande stile con primo,<br />

secondo e contorno.<br />

C’era anche don Melis, in attesa di nuova destinazione<br />

e insofferente, nonostante gli sia stato assicurato, da più<br />

alti prelati, che la sua chiesetta non sarà profanata.<br />

Questo pomeriggio ho accompagnato con l’apixedda carica<br />

di buste, ceste e scatoloni, la signora Tina al paese di<br />

Uta.<br />

– Come vivrà adesso, signora Tina? – le domando.<br />

– Io mi so arrangiare, l’ho sempre fatto. Ma a te, ragazzo,<br />

chi ti starà vicino?<br />

– Verrò a trovarla, ogni tanto.<br />

– Maria Santissima, sei gentile, Frantziscu… Il Signore<br />

vede tutto, vede e provvede.<br />

* * *<br />

I preparativi incalzano da qualche mese. L’assegno non<br />

basta a nessuno, per tirare avanti. Affollate e intermina-<br />

112<br />

bili riunioni, due, tre, persino quattro volte alla settimana,<br />

fomentano all’azione i soci della cooperativa. L’ordine<br />

del giorno è sempre identico. In molti arrivano dall’altra<br />

parte della <strong>città</strong> per gonfiarsi le vene del collo in discussioni;<br />

sono stati sistemati dentro gli alti appartamenti di<br />

mattoni rossi del Cep che guardano su Molentargius, lo<br />

stagno senza pesci. Alcuni sono partiti a nord, nelle fabbriche.<br />

Torino, Milano, Genova e dintorni. Altri continuano<br />

a pescare dalle parti della Tunisia, dove le acque<br />

sono più calde e le correnti richiamano il passaggio dei<br />

pesci. Vivono in Sicilia, adesso, a disposizione di qualche<br />

grossa flotta di pescherecci, in cambio di un assegno a fine<br />

mese. Altri ancora bivaccano qua e là, non avendo trovato<br />

ingaggio sui pescherecci di Su Siccu e Marina Piccola<br />

ed essendo stati rifiutati dalle industrie petrolchimiche<br />

della Saras e della Rumianca. Di un sacco di gente<br />

non so più nulla.<br />

Maria e Ignazino, avendo bambini, sono stati tra i privilegiati<br />

a cui è spettata una casa al quartiere popolare di<br />

Sant’Elia. Dentro quei palazzacci grigi neanche terminati<br />

hanno stipato gente che proviene da mezza isola, unita<br />

solo dalla medesima povertà. Contadini che hanno perso<br />

la terra, pastori rimasti senza gregge, operai con stipendi<br />

da fame e infine, ultimi arrivati, pescatori senza pesce né<br />

arselle. Ma non tutti lì ci vogliono stare. Qualcuno è già<br />

tornato al villaggio per rioccupare la casa lasciata con<br />

troppa fretta. Dicono che è una sistemazione provvisoria,<br />

che la laguna è la loro vera casa.<br />

I pescatori di Sant’Elia sono gente diversa, ignorano la<br />

laguna e sono abituati al mare. Hanno barche incrostate<br />

dal sale, motori veloci e figli delinquenti. Lo sanno tutti,<br />

questo. Non ci si può mischiare a loro. <strong>La</strong> nostra acqua è<br />

appena salata, a tratti dolce, dolcissima quando piove.<br />

Non conosce le onde e per questo i ciu hanno il fondo<br />

piatto; scivolano su uno strato sottile d’acqua.<br />

Marc’Antonio ha una brutta cicatrice sulla guancia ma<br />

113


non ne parla. Anche per lui il sussidio si dissolve più rapido<br />

giorno dopo giorno, ogni volta che le bilance del<br />

mercato contano decine di lire in più al chilo, o le pompe<br />

dei rifornitori riempiono il serbatoio a prezzi sempre<br />

più impossibili. Dice che c’è una guerra in corso, che i<br />

produttori di petrolio ci ricattano. Il telegiornale lo conferma.<br />

Marc’Antonio conosce ciò che accade nel mondo,<br />

per questo continuiamo a fidarci di lui. Ci avverte che è<br />

meglio prepararci all’idea di andare a pescare per mare,<br />

dopo aver modificato il fondo delle barche e issato i motori<br />

sulla poppa.<br />

Non sono il solo ad essere terrorizzato dall’idea del mare,<br />

coi remi o col motore, con la chiglia o senza. Tra breve<br />

arrivano le giornate buie dell’inverno, le sciroccate che<br />

sollevano onde immense, le maestralate che sferzano sul<br />

viso le loro fruste di ghiaccio. Soffrire il mare è arrendersi<br />

alla sua potenza, confessare l’incapacità di reagire. Io<br />

ammetto tutte le mie debolezze, al suo cospetto.<br />

Marc’Antonio non ha dubbi: – Dobbiamo marciare al<br />

palazzo della Regione, – ripete.<br />

– Sarà una marcia inutile, come quelle che fanno gli<br />

studenti, – dico io.<br />

– Gli studenti saranno con noi, e i sindacati anche.<br />

Pure il partito sfilerà nel nostro interesse, – rincalza<br />

Marc’Antonio.<br />

Li ho visti spesso protestare, gli studenti, dietro bandiere<br />

e striscioni lungo via Roma, davanti al porto. Sono<br />

ben vestiti, hanno i cappotti alla moda e le ragazze<br />

mostrano a chiunque le cosce, offendendosi se poi glielo<br />

fai notare. Aveva ragione Salvatore, a pensare quel che<br />

pensava delle donne.<br />

Ora che non ho quasi più niente da fare passo un sacco<br />

tempo alla televisione che Agostino tiene sempre accesa.<br />

Oppure attraverso il ponte e giro per la <strong>città</strong>, tra la gente,<br />

le vetrine e le macchine. Quando arrivo in via Roma getto<br />

uno sguardo alla nave della Tirrenia ormeggiata in ban-<br />

114<br />

china. Quella no, non è cambiata affatto, a parte le macchie<br />

di ruggine sempre più lunghe sulla fiancata. Penso<br />

che basta poco per salirci sopra, un biglietto che posso<br />

comprarmi con il prossimo sussidio. Ma poi che farò, una<br />

volta arrivato nel continente? <strong>La</strong> solitudine che vivo al villaggio<br />

mi fa desistere dall’idea di allontanarmi, come se<br />

non ci fosse alcuna possibilità di vita, lontano dalla laguna.<br />

Così rientro nella casa di sempre che un tempo dividevo<br />

con Salvatore e oggi abito assieme alla minaccia di<br />

doverla abbandonare.<br />

<strong>La</strong> riunione termina solo dopo aver fissato la data della<br />

nuova manifestazione. Parteciperò anch’io, pur sapendo<br />

che non servirà a far riprendere la pesca. Le ruspe<br />

tracciano impronte indelebili giorno dopo giorno, rivelando<br />

ben altre intenzioni.<br />

<strong>La</strong> mia Donna <strong>Giulia</strong>, ancora solo in parte ripulita dagli<br />

ammassi del tempo, mi guarda pensierosa, dal tavolo<br />

su cui troneggia la sua antica maschera. Dice di annoiarsi<br />

a non essere più considerata come una volta. <strong>La</strong> ricercata<br />

padrona della villa, rinata nel bel mezzo della corruzione<br />

del resto, perduti i suoi servi e quell’insulare abbellimento<br />

che una volta risaliva dall’acqua, mi prega<br />

perché le faccia la grazia di renderla mia ancella, così che<br />

il suo stare nella mia casa acquisti una parvenza di dignità.<br />

L’ho osservata a lungo per capire. Ho visto le sue<br />

rughe scivolare dalla forma della risoluta spensieratezza<br />

a quella del rammarico, grave di un cruccio intollerabile.<br />

Come un fluido opaco andavano a incanalarsi in anfratti<br />

millesimali, tracciati accuratamente, spolverati con<br />

premura, rifiniti con la precisione di un artigiano sapiente<br />

e appassionato. Ho notato il leggero deformarsi<br />

dell’angolo delle labbra, altrove così sensuale e adesso indurito<br />

da un ghigno risoluto: un sorriso di biscia ingannatrice<br />

che gioca la sua ultima arma, prima di desistere<br />

ai morsi di un più avido nemico. Quasi commosso, immolato<br />

al languido spossamento del suo viso, la cullo fra<br />

115


le braccia per comprendere, in ritardo, che con le mie<br />

premure accresco la sua grande pena. Preso dal rimorso<br />

limo la base del collo, fino a quando non si fa liscia. In<br />

un gesto istintivo la rendo alla terra e, come per rivelazione,<br />

capisco che è l’unica cosa che avrei dovuto fare fin<br />

dall’inizio. Il suo sorriso di biscia subito si dilata, smorzato<br />

della minaccia, invaghito della terra sorella. Rotola<br />

via al nuovo sussulto che le ruspe, poco oltre, hanno inferto<br />

al suolo. Si sciupa appena, confondendo il suo primo<br />

rivestimento con la polvere del terreno, sbriciolando<br />

le asperità: naso, zigomi, mento. Tutto quanto era stato<br />

preservato dal tempo si assottiglia ulteriormente di qualche<br />

millimetro, in maniera irrecuperabile. Quando infine<br />

quel goffo rotolare si scontra con la porta sbarrata della<br />

casa, sorge evidente l’inopportunità di quattro travi<br />

imbullonate e chiuse da una serratura. Per quanto lieve,<br />

l’urto mi rende chiaro che è infecondo tentare di arrestare<br />

la fuga di quella millenaria memoria; mi pento d’un<br />

tratto di abitare ancora fra queste mura, di avere staccato<br />

i piedi dalla terra fangosa cui ero avvezzo, di avere costretto<br />

lei, la nobildonna signora della villa, a rivedere la<br />

luce ed esserne raggirata.<br />

Basta un attimo perché il rimorso si avvinghi alla pelle<br />

come una malattia incurabile, macchia di una dignità<br />

deflorata. Si espande rapido, divora cellule e tessuti; si<br />

insinua tanto più a fondo quanto più mi accorgo che la<br />

pena a cui costringo la mia Donna <strong>Giulia</strong> avrebbe potuto<br />

essere elusa.<br />

* * *<br />

Ho parcheggio l’apixedda piuttosto lontano, per evitare<br />

che pure lei debba pagare le spese del malumore che<br />

circola in questi giorni. Ora non chiedo il permesso a<br />

nessuno per guidare, non ho orari da rispettare, né serve<br />

che vada presto a dormire. Non corro più il rischio di<br />

116<br />

ritrovarmi, disfatto dalla stanchezza, a boccheggiare sul<br />

margine dell’acqua.<br />

Mi unisco al gruppo che si agita in piazza Matteotti,<br />

tra la stazione e il municipio, dove avrò venduto quintali<br />

di arselle, assieme al più famoso arsellaro di Giorgino.<br />

Peppino ha in mano i bastoni su cui è arrotolato uno<br />

striscione con la scritta decisa qualche giorno fa. Un altro<br />

lenzuolo è appeso fra i rami di due grossi alberi che<br />

svettano sulla piazza, davanti alle torrette del Comune.<br />

Marc’Antonio ha un altoparlante in mano; accanto a lui<br />

c’è uno con la barba, di sicuro fa parte del sindacato.<br />

Ogni tanto lanciano le nostre rivendicazioni al vento.<br />

Partiamo con un’ora di ritardo verso il palazzo della Regione.<br />

Attraversiamo via Roma scortati da polizia e carabinieri.<br />

Man mano altri gruppi di lavoratori si uniscono a<br />

noi. Agitano striscioni che non c’entrano niente con i nostri<br />

e nonostante tutto approfittano e si mischiano a noi.<br />

Hanno tute blu ed elmetti sulla testa, le mani sporche di<br />

nero. Poco più tardi arrivano anche i giovani, gli studenti<br />

per i quali ogni manifestazione è buona per gridare.<br />

Peppino srotola lo striscione e solleva il bastone; è in testa<br />

al corteo assieme a Marieddu, il figlio maggiore di<br />

Ignazino, che tiene alto l’altro capo dello striscione. Ha<br />

perso le venature d’oro che aveva in testa, i capelli si sono<br />

scuriti ed è cresciuto in altezza, mi arriva oltre la spalla.<br />

Mi unisco ai cori e agli slogan, urlo con gli altri, e così facendo<br />

mi libero e mi ricarico.<br />

Decido di farmi largo verso le prime file, quando d’un<br />

tratto, la vedo.<br />

È apparsa miracolosamente, così come l’avevo immaginata,<br />

con lunghi capelli arruffati, gonfi sui lati, trattenuti<br />

in punta da lenti lacci di stoffa color arancio. È<br />

lei, non ho dubbi. Nota che la guardo, mi sorride e si allontana.<br />

<strong>Giulia</strong>! Faccio per chiamarla. Ma un freddo silenzioso<br />

mi fa scomparire. <strong>La</strong> vedo ridere. Mentre io svanisco, lei<br />

117


ide. Che fa qui, tra questa gente che pesta i piedi sulla<br />

strada? Lei non appartiene a questo popolo, lei è la regina<br />

di altri tempi.<br />

– Aspettami, – urlo quando vedo che si volge altrove,<br />

inseguendo qualcosa che rotola per terra. È luminoso e veloce.<br />

Si intrufola nelle feritoie del marciapiede, rimbalza<br />

sull’asfalto e risale nell’alito della sua risata. Intuisco di<br />

che si tratta prima di lei che l’acchiappa, lo tiene caldo nel<br />

cuore della mano e mi inganna. Lo sgomento della morte<br />

mi acceca, quando vedo un essere nero e viscido sbucarle<br />

tra le dita. L’essere diabolico sguscia fuori, respira la nostra<br />

stessa aria. Allarga la bocca nel suo ferale riso di voracità,<br />

risoluto più della mancanza dell’acqua. Vuole beffarsi di<br />

me. Non sto sognando: la folla, agitata e ondivaga, mi<br />

conduce nei luoghi predisposti alla dimenticanza, dove si<br />

agitano ombre minacciose. Donna <strong>Giulia</strong> e Salvatore, mimetizzati<br />

in pelle limacciosa d’anguilla, risorgono per<br />

mettermi in guardia, senza concedermi il tempo di munirmi<br />

della dovuta distanza. Mi lasciano attonito e muto.<br />

Marc’Antonio mi scuote per una spalla, mi distoglie<br />

da quel loro apparire incomprensibile.<br />

– Non dare retta a nessuno, – mi dice. – Non abbiamo<br />

altri amici, non credere alle voci che mettono in giro.<br />

Di che parla? A chi si riferisce? Mi distrae mentre la<br />

mia donna si dilegua, non so in quale direzione. Facce<br />

sconosciute circolano tra di noi che ci ritroviamo, in alcuni<br />

casi, dopo lungo tempo. Nessuno sta troppo a domandarsi<br />

chi siano. Polizia in borghese, minatori in cassa<br />

integrazione, studenti ormai avvezzi alle manifestazioni,<br />

politici pronti a ricavare un vantaggio per le prossime<br />

elezioni. Li ignoriamo dopo uno sguardo che li definisce<br />

degli intrusi.<br />

– Non preoccuparti, non mi faccio fregare.<br />

Arriviamo sotto il palazzo degli assessori. Agitiamo le<br />

nostre bandiere, alziamo le voci. Una fila di poliziotti<br />

protegge l’ingresso del palazzo; si nascondono dietro scu-<br />

118<br />

di trasparenti, con i manganelli nel pugno. Qualcuno dall’alto<br />

si affaccia alla finestra e urla: – Andate a casa, lasciateci<br />

lavorare.<br />

Un boato dal basso sommerge quella voce. Vorremmo<br />

poter lavorare anche noi, invece di occupare la strada sotto<br />

il sole, fino a quando non si fa l’ora del pranzo e le pance<br />

ci intimano di liberare la via.<br />

– Tanto a che serve rimanere ancora? – dico a Marc’Antonio<br />

abbracciando con lo sguardo il gruppo che si è già<br />

ridotto da sé.<br />

Non mi levo dalla testa il volto di quella ragazza che è<br />

fuggita chissà dove. È di sicuro una studentessa. Veste<br />

come tutti loro, ha i capelli vaporosi e lo sguardo brillante<br />

di una curiosa delle cose del mondo.<br />

* * *<br />

Ormai è deciso. Non basta più marciare, lo fanno tutti.<br />

Ci vuole la fantasia, per farsi notare.<br />

– A pappai a sa Reggioni, – ha detto Marc’Antonio e tutti<br />

abbiamo applaudito: – A pappai, ajò.<br />

Prepareremo un gran banchetto. Abbiamo mangiato i<br />

muggini di Santa Gilla per decenni e nessuno mai è stato<br />

male. Questo divieto totale è ingiustificato, devono levarlo,<br />

devono ascoltarci. Decidiamo che pescheremo tutta<br />

la notte in laguna. All’alba arriveremo davanti al palazzo<br />

della Regione e lì accenderemo i fuochi. Nella brace<br />

arrostiremo i nostri muggini. Qualcuno pretenderà anche<br />

di camminare sui tizzoni ardenti, cangianti alla luce<br />

della mattina, e nessuno glielo impedirà. Forse due poliziotti,<br />

scettici e infedeli, tenteranno di sollevarlo da terra<br />

tirandolo per le braccia, ma i loro sforzi coroneranno un<br />

insuccesso. Il dono del santo spirito si diffonderà come la<br />

nebbia, e a centinaia si precipiteranno a dare dimostrazione<br />

della propria sacralità.<br />

Scendere la notte in laguna induce a ricalcare le orme<br />

119


dolorose che imploravano la grazia del farsi del tempo.<br />

D’un colpo è il retrocedere lungo il lento cammino del<br />

passato. I preparativi smuovono gesti abbandonati. Atti<br />

rituali, allora testardamente assopiti nella ripetizione quotidiana,<br />

trasmettono di colpo la consapevolezza di quel<br />

che per noi è insostituibile. Con le schiene curve facciamo<br />

scorrere sulle mani le maglie della rete, le riacchiappiamo<br />

incrociando le braccia, verifichiamo che nessun topo ne<br />

abbia roso la trama e le ributtiamo a terra, dalla parte opposta.<br />

In due le carichiamo sulla barca, sul banco di prua.<br />

Chiudiamo i galleggianti, stringiamo i nodi alle cime, ci<br />

accertiamo che gli scalmi siano bene infissi.<br />

Ripercorriamo con stupore le azioni che in tutta semplicità<br />

ci sono sempre appartenute.<br />

Io che non ho ancora lasciato il villaggio soffro meno<br />

di altri a recuperare gli attrezzi del lavoro. Ignazino lo fa<br />

con gli occhi umidi. <strong>La</strong> sua casa, appena oltre la mia, è<br />

stata una delle prime ad essere fagocitate dal progetto<br />

del porto commerciale. Domani sarà anche lui in strada,<br />

a manifestare con i due bambini. Carichiamo le barche<br />

dei paranchi, delle lampade, delle reti e dei secchi. Vi saliamo<br />

silenziosi, appena rischiarati dalla tenue luce lunare.<br />

Siamo ombre che si agitano pigre e compresse, a ripetere<br />

nella clandestinità i versi di sempre. Le mani hanno<br />

perso la protezione callosa che ci impediva di ferirci,<br />

gli occhi non sono più abituati agli spazi scuri della notte<br />

e la pelle fatica, a tollerare l’umido che sale dall’acqua.<br />

I muggini ci accolgono festosi, sbraitano, saltano nelle<br />

nostre barche. Si attorcigliano impazienti tra le maglie<br />

delle reti, abboccano ad ogni tipo di esca. Questi grandi<br />

netturbini dell’acqua si sacrificano solleciti e ingrassati a<br />

dovere. In poco tempo abbiamo così tanto pesce da poter<br />

riempire i banchi del mercato.<br />

I più ritornano a terra, con la stessa silenziosità con cui<br />

sono entrati in laguna. Hanno il pensiero vigile sull’effetto<br />

dell’indomani. Annotano quanto è necessario per-<br />

120<br />

ché tutto fili come deve e nessuno dimentichi il carbone<br />

da bruciare, le griglie su cui arrostire, i piatti, i megafoni<br />

e gli striscioni.<br />

Accendo la lanterna sulla prua per respirare ancora una<br />

volta la zaffata bianca del petrolio che brucia. Remo nella<br />

direzione opposta a quella degli altri, alla ricerca del canale<br />

d’acqua dolce che era uno dei segreti di Salvatore.<br />

Oltrepasso l’ingresso delle saline, mi addentro nelle strettoie<br />

dove erbe pervicaci, sul pelo dell’acqua, trattengono<br />

l’incedere della prua della barca; stento a credere di essere<br />

capitato nel luogo che ricordavo. Continuo a remare<br />

inebetito dalla piattezza dello spazio, là dove serpentine e<br />

cunicoli, anfratti d’acqua e lingue di terra arruffate in<br />

chiome selvagge, si attorcigliavano fra le evoluzioni del<br />

bambù danzante. Per quanto esplori e mi spinga innanzi,<br />

riesco solo a scorgere gli impianti della <strong>città</strong> industriale.<br />

Mi suggeriscono che quel che cerco vive da tempo solo<br />

nella mia memoria. Assaggio l’acqua con la punta della<br />

lingua, nell’estremo tentativo di addurre testimonianze<br />

che smentiscano lo sfacelo che incontro. Ma niente è più<br />

decisivo del sapore oleoso e caldo di quella: mi avvolge<br />

come l’odore del gasolio bruciato che mi ha nauseato fin<br />

da bambino, quando Salvatore mi portava con sé nelle sue<br />

uscite sul mare piatto di bonaccia e mi costringeva a gettare<br />

la rete da poppa, col motore proprio sotto il naso. Lo<br />

stesso malessere dello stomaco, la stessa debolezza che rivelava,<br />

proprio come adesso, la vera essenza dei miei organi,<br />

la loro consistenza e facile deperibilità.<br />

Non ho più alcun dubbio, ritornando a terra, che la protesta<br />

davanti alla Regione abbia la sua improrogabile necessità.<br />

* * *<br />

I fuochi vengono accesi intorno a mezzogiorno. Abbiamo<br />

occupato il parcheggio delle auto fin dalle prime ore<br />

121


dell’alba, scontrandoci con gli impiegati della Regione e<br />

con i professori del Liceo Siotto, che reclamavano il diritto<br />

al posto per le loro macchine.<br />

– Chini arriba prima, pisca prima, – abbiamo risposto a<br />

tutti quanti, spiegando poi le ragioni della nostra rabbia<br />

perché, dice Marc’Antonio, della gente di <strong>città</strong> è<br />

meglio essere amici, in questo momento.<br />

L’atmosfera è distesa. Si lavora come per i preparativi<br />

di una festa. C’è un passaggio di muggini e griglie,<br />

piatti, cifràxiu e vino in abbondanza.<br />

Prima dell’una arrivano le camionette blu. Vomitano<br />

dallo sportello posteriore qualche decina di uomini in<br />

uniforme con scudi trasparenti, manganelli e caschi, proprio<br />

mentre noi gettiamo i primi muggini sulle griglie<br />

arroventate. L’ordine pubblico si compone a squadra, si<br />

barda per la guerra davanti all’alto palazzo. Nello spiazzo<br />

del parcheggio uomini e donne cucinano, distribuiscono<br />

il pesce sui piatti di plastica a chi passa per la strada.<br />

Si urla, stretti a catena, di fronte alle guardie, contro<br />

le finestre sbarrate, senza attendere risposte. Ignazino si<br />

avvicina alla schiera dei poliziotti. Nelle mani ha due<br />

piatti col pesce. Una manganellata dal basso fa volare gli<br />

arrosti per aria, provocando il primo dei disordini della<br />

giornata.<br />

– Figlio bastardo della campagna, che la Madonna ti<br />

abbandoni! – urla Peppino alle sue spalle, scaraventandosi<br />

contro l’uniforme che ha appena gettato il pesce per<br />

terra. Non gli passa per la mente che dietro lo scudo c’è<br />

un uomo. Le uniformi riducono a macchine da combattimento<br />

e sollecitano noi a reagire con la rabbia della disperazione.<br />

Il loro anonimato impedisce ogni rispetto.<br />

Sono l’immediato affronto, la sopraffazione, la forza che<br />

non dirime ma minaccia.<br />

Peppino viene sbattuto a terra, pestato di calci e spinto<br />

dentro il cellulare. Il fatto è ripreso da un cameraman accorso<br />

sul posto e da un fotografo subito contattato dal re-<br />

120<br />

sponsabile lì presente delle forze dell’ordine. Nonostante<br />

l’abito borghese, la sua appartenenza non ammette dubbi.<br />

Tre di noi scattano, non appena vedono Peppino per<br />

terra. Gettano via muggini e piatti e si avventano contro<br />

i poliziotti ad occhi chiusi, stringendo i denti, senza altri<br />

pensieri che quel sentimento di rabbia incontrollabile che<br />

attraversa i nervi e moltiplica forze disordinate. Sui tre si<br />

gettano in dieci, almeno. Levano i manganelli, le punte<br />

degli anfibi, i cazzotti, li costringono a piegare la fronte a<br />

terra. Li risollevano per condurli a tenere compagnia a<br />

Peppino. Solo allora riconosco il mio amico Ermellino.<br />

Sputa via qualcosa con una brutta smorfia, si copre la bocca<br />

con la mano. Gli hanno spaccato un incisivo. Adesso,<br />

fra i suoi denti, potrebbe passare un branco di balene, accanto<br />

a quello dei tonni.<br />

Le disposizioni di Marc’Antonio sono state chiare:<br />

nessuna violenza. <strong>La</strong> maggior parte, come è stabilito, offre<br />

solo piatti fumanti. Non tutti riescono a trattenersi:<br />

quando la disperazione irrompe nell’ira alcuni danno<br />

addosso ai poliziotti. Anche il presidente si sfrega le<br />

mani. Vorrebbe adoperarsi così da finire anche lui dentro<br />

il cellulare ma si frena, com’è abituato a fare, per responsabilità<br />

verso le decine di noi che controllano la<br />

cottura del pesce.<br />

Per un attimo la testa di Peppino passa dietro al vetro<br />

brunito del furgoncino blindato, poi sparisce. <strong>La</strong> gente<br />

urla; gli studenti che escono da scuola si uniscono a noi.<br />

Chissà se sanno per quale ragione siamo lì. Sono molti,<br />

coloro che si fermano. Accettano i nostri piatti, si frappongono<br />

tra noi e i poliziotti, appollaiandosi a terra con<br />

le gambe incrociate.<br />

Ma chi sono? Ci sarà da fidarsi, faccio per domandare<br />

a Marc’Antonio, quand’ecco che mi appare. Lei. È viva,<br />

si muove, ha quello sguardo serico che mi era parso brillante<br />

e che adesso riconosco colmo d’ira.<br />

– <strong>Giulia</strong>, sei tu? – le domando.<br />

123


– Il mio nome è Bonaria, – mi risponde.<br />

Anche la Madonna dei pescatori si chiama Bonaria.<br />

Questa semplice coincidenza dimostra ancora una volta<br />

che questa ragazza mi è destinata.<br />

Quando mi avvicino con un muggine dorato, scelto appositamente<br />

tra i tanti sulla griglia per essere il più appetitoso,<br />

lei abbassa il capo, da bravo soldato ubbidiente,<br />

e passa il piatto al compagno accanto. Costui, un capellone<br />

tutto disordinato, non esita ad abbandonare la prima<br />

linea per aggirarsi nelle retrovie alla ricerca di una forchetta.<br />

– Pranzi con me? – le domando.<br />

– Pranzo con voi tutti, – mi risponde.<br />

– Ti porterò a conoscere i segreti della laguna.<br />

– Se vuoi puoi portarci tutti quanti. Ragazzi, – urla poi<br />

rivola agli amici, – ci portano a fare un giro in barca.<br />

– Aspetta, non urlare… Io parlavo di noi due.<br />

– Noi due? Ma chi ti conosce?<br />

Bonaria se ne va. Mi lascia solo, come un imbecille.<br />

Anche i compagni se ne accorgono. Qualcuno mi urla:<br />

– Itta ti pìgara, Frantziscu, chi pàrisi un arrocali?<br />

– Bellixeddu tui, chi pàrisi unu pisci alluau, – rispondo al<br />

volo, neanche so a chi. Comunque sia, penso, sarà sempre<br />

qualcuno più scemunito di me.<br />

<strong>La</strong> vedo avanzare con un grande striscione che appartiene<br />

a noi; lo tiene alto, lo fa svettare oltre il muso dei poliziotti,<br />

mena slogan da agitatrice. Vorrei fermarla, pregarla<br />

perché non si intrometta. Che ne sa lei della nostra<br />

vita? Crede davvero di essere simile a noi?<br />

Provo ad allontanarmi dal suo peso mastodontico che<br />

mi attrae come il polo opposto della calamita. È la pelle<br />

a trascinarmi verso di lei, il pulsare degli organi interni,<br />

già schiavi del suo alito.<br />

– Mi chiamo Frantziscu. Vorrei solo parlarti.<br />

– Non è il momento di parlare, Frantziscu. Dobbiamo<br />

lottare. Resistere. Opporci.<br />

124<br />

Così mi lascia sgomento, nel silenzio di un ultimo pensiero<br />

che, affinandosi, ammette il dovere di rischiare la vita<br />

per osare avvicinarmi a lei. Ma subito prende le distanze,<br />

chiamata dai compagni che innalzano uno striscione<br />

che appartiene a loro, studenti solidali alle proteste<br />

di chiunque reclama una vita migliore.<br />

Bonaria si allontana, offre il pesce ai passanti con un<br />

sorriso accattivante, chiacchiera con i pescatori delle altre<br />

cooperative e mastica a bocca spalancata, davanti ai poliziotti<br />

bardati nelle loro protezioni. A uno fa l’occhietto<br />

provocatorio, al suo vicino offre tra i denti un bel pezzo<br />

di polpa, bianco e carnoso. A un terzo fa ondeggiare, davanti<br />

al naso, la lisca ripulita, tenendola per la coda. E<br />

chissà cos’altro è sul punto di inventarsi quando viene<br />

spinta all’indietro da una manata di cui neanche comprende<br />

la provenienza. Ringrazio di non aver distolto lo<br />

sguardo neanche un solo momento da lei. Ho fatto in<br />

tempo a prenderla tra le braccia, impedendole di cadere.<br />

– Ti proteggerò sempre da chiunque, – le sussurro<br />

quando ancora è intontita per l’accaduto. <strong>La</strong> trattengo<br />

non appena sento che si irrigidisce nello scatto di chi<br />

tenta di liberarsi.<br />

– Ferma, le dico. O pesteranno anche te.<br />

– <strong>La</strong>sciami andare.<br />

<strong>La</strong> stringo più forte. Lei cerca di svincolarsi. Godo infinitamente<br />

del nuovo slancio con il quale vorrebbe guizzare<br />

via. Mi permette di forzare la presa e allentarla solo<br />

quando la sento accondiscendere, dopo aver speso ogni<br />

tentativo per districarsi dalla rete nella quale l’ho avvinta.<br />

– Sei mia, dolcissima Bonaria.<br />

– Non sono dolce e tanto meno tua, – ribatte con occhi<br />

di fuoco, reagendo come al peggiore degli insulti.<br />

– Mia per nascita, come desiderano le stelle.<br />

Mi guarda senza più parole, scaraventandomi contro<br />

la luce millenaria degli astri che ho citato. E resuscitan-<br />

125


do, come gli struzzi dalla terra, si allontana con uno<br />

strattone che mi fa vacillare.<br />

* * *<br />

Capita spesso che i miei sogni risuonino dell’ululato di<br />

quell’uccello della notte incontrato una sola volta, tanto<br />

solitario e vergognoso da sfuggire alla vista di chiunque.<br />

Non in pochi però l’hanno inteso. Ai più piccoli raccontano<br />

che si tratta di un corvo disobbediente le cui zampe,<br />

per punizione, sono incatenate nel fondo della laguna.<br />

Al primo apparire della luce del sole, si trasforma nel<br />

ramo di un albero che galleggia sul filo dell’acqua, così<br />

che nessuno può riconoscerlo. Ma col farsi del buio, dopo<br />

il tramonto, riprende le sue sembianze nere di uccello,<br />

immobilizzato sulla superficie liquida. Agita le ali<br />

verso la luna, tentando invano di liberarsi. Per questo le<br />

sue zampe sono lunghe e filiformi. Non sa che passerà<br />

tutta la vita, lunga quanto quella della laguna, nell’impossibilità<br />

del volo, incapace di fuggire dall’acqua.<br />

I bambini restavano con le bocche spalancate, intendendo<br />

la storia del povero uccello. Si chiedevano quale<br />

cattiveria avesse commesso, per meritare una pena così<br />

severa, e niente sembrava mai abbastanza grave da convincerli.<br />

Alla fine qualcuno decideva che doveva trattarsi<br />

di quelle cose segrete di cui solo gli adulti sanno e così,<br />

finalmente appagati, i bambini ritornavano a giochi<br />

più movimentati.<br />

Io stesso mi sono adeguato a questo finale, per parecchi<br />

anni. Poi ho dimenticato la fiaba e quando mi è tornata<br />

in mente ero grande abbastanza da capire che il povero<br />

corvo non ha alcuna colpa da scontare, ma un compito<br />

da svolgere: le grida della notte fungono da monito<br />

per la maggioranza degli esseri liberi che di giorno si dedicano<br />

alle loro occupazioni senza grossi disturbi e la<br />

notte meditano sul tremendo destino che incombe su chi<br />

126<br />

osa discostarsi dalle regole su cui è edificato il benessere<br />

dei regni.<br />

Da quando ci hanno impedito di pescare in laguna, trovare<br />

le ragioni con cui giustificare la lontananza dal lavoro<br />

è una necessità quotidiana. Dall’acqua dipende gran<br />

parte del mio umore, per la sua liquidità. Il risveglio s’intristisce<br />

dell’umido caldo e appiccicoso di un dormiveglia<br />

che si prolunga ormai ben oltre le prime ore della mattina<br />

e arriva non di rado anche oltre mezzogiorno. Le particelle<br />

infiltrate nei muri delle stanze pesano sbilenche<br />

come lame di una nostalgia irriducibile, legata a un agire<br />

fatto di pratiche, movimenti, spazi e tempi che d’improvviso<br />

mi sono stati sottratti. Il corpo è in stato d’abbandono.<br />

I muscoli appassiscono al pari del pensiero, la<br />

cui unica urgenza è quella di trovare un’occupazione.<br />

Agostino mi offre da bere, ogni volta che entro da lui, e<br />

questo mi aiuta a far passare le ore. Non ha pressoché più<br />

clienti, e deve esaurire le scorte, prima del trasferimento.<br />

Esco barcollante dal locale e tre passi dopo rischio di inciampare<br />

su un grosso filo di acciaio disteso sulla strada.<br />

Vado a finire col naso su uno dei volantini che annunciano<br />

l’ennesima manifestazione davanti al palazzo della Regione.<br />

Mi rianimo in un baleno: non mancherei per niente<br />

al mondo là dove penso di poter incontrare la mia Bonaria.<br />

Un sorriso inebetito mi fa brillare come una cicala<br />

innamorata.<br />

Ho provato ad attenderla fuori dalla scuola, durante la<br />

settimana. Da mezzogiorno all’una e quaranta. Seduto<br />

sulla recinzione, con le gambe incrociate per non cascare<br />

all’indietro. Ma lei non è apparsa. Sono calate le masse,<br />

classi intere sbraitanti come se avessero appena ritrovato<br />

il suono, presto disperse in piccoli gruppi; hanno riempito<br />

gli autobus, acceso le motorette, i Ciao, i Benelli, i Garelli<br />

e i Califfoni, e si sono allontanati lasciando il vuoto<br />

davanti ai cancelli.<br />

Rimanevo solo. E Bonaria? Starà poco bene, avrà par-<br />

127


tecipato alla manifestazione dei minatori, dei ferrotranvieri,<br />

dei petrolchimici? L’ho attesa inutilmente a lungo,<br />

più volte, senza mai sapere a chi chiedere sue notizie.<br />

D’altronde, chissà che faccia hanno i suoi amici. Chi li<br />

vede gli altri, quando appare lei?<br />

– A su mancu ses benniu, – rimbrotta Marc’Antonio<br />

quando è quasi mezzogiorno.<br />

Che rispondergli? Che la mia presenza è legata a un<br />

desiderio che lui non può capire?<br />

– Siamo in molti, oggi. Credi che servirà a qualcosa?<br />

– Intanto alcuni di noi sono già stati assunti per partecipare<br />

al risanamento di Santa Gilla, hanno uno stipendio<br />

e una casa decente.<br />

È vero, mi è capitato di riconoscere qualcuno, dentro la<br />

tuta verde con la targhetta dell’assessorato, allungarsi a<br />

scortare qualche bellimbusto tutta conoscenza e diplomi<br />

universitari per i canali della laguna, con provette e bottiglie<br />

in mano.<br />

– Deu bollu torrai a circai còcciulas, – affermo deciso.<br />

Non ho alcuna intenzione di barattare il mio lavoro.<br />

Eccola, finalmente. Sono in tre, questa volta. Lei è al<br />

centro, un poco più pallida di quel che ricordavo. Mi vede,<br />

mi saluta.<br />

– Sei venuta anche questa volta…<br />

– Certo, è per una giusta causa. Devono smetterla di<br />

dettare legge sulle vite degli altri.<br />

– Infatti, è proprio così.<br />

Cerco di allontanarla dalle amiche, ma sembrano strette<br />

a spago.<br />

– Puoi avvicinarti solo un attimo? Voglio farti vedere<br />

una cosa.<br />

Arrivano tutt’e tre, come volevasi dimostrare. Peggio<br />

per lei, penso. Se vuole che sia così, sarà accontentata. Tiro<br />

fuori di tasca l’anello dai colori della vita: fuoco che<br />

trasforma, sangue che nutre, sole che riscalda.<br />

– È molto prezioso, trattalo con amore.<br />

128<br />

– Con amore? – ripete lei ironica, mentre le amiche<br />

sguazzano in risatine stupide e occhietti di disprezzo.<br />

Fa per rendermelo, ma già sono scappato via. Sono corso<br />

lontano come il vento per non essere divorato dal suo<br />

sguardo, dalla sua esitazione, dal suo rifiuto. Con un solo<br />

passo ho attraversato montagne di persone e il ponte,<br />

in un soffio. Ho afferrato velocemente una bottiglia di<br />

cui Agostino non noterà la mancanza e mi sono rifugiato<br />

in laguna, tra i canneti ormai bassi e l’acqua dagli<br />

oleosi riflessi arcobaleno.<br />

* * *<br />

Mi sveglio nel mio letto madido di sudore. Ha soffiato<br />

il levante per tutta la notte. Il rumore delle onde si è rivoltato<br />

contro la casa e ha animato i miei sogni di bocche<br />

spalancate e ruggiti bestiali. Fatico ad aprire gli occhi, mi<br />

fa male sollevare la testa. L’orologio appeso alla parete segna<br />

le quattro meno diciotto da chissà quanti giorni. Mi<br />

lascio andare sul cuscino nonostante i rumori dell’esterno.<br />

Avverto il trascorrere di una dimensione temporale che<br />

non è fatta dei secondi che conosco; non è neanche divisibile<br />

in unità, tanto si presenta compatta e priva d’angoli.<br />

Devo tenere gli occhi chiusi e osservarla, perché esista.<br />

Altrimenti si dilata verso tutte le direzioni e non è orientabile<br />

in nessuna, rischia di scomparire in una misteriosa<br />

permanenza. Gioca, non si sa come, a non farsi più scorgere,<br />

ma poiché sento che mi riguarda internamente, mi<br />

dimeno, in questo dormiveglia post-alcolico, per trattenerla<br />

contemporaneamente dentro e fuori dalla mia mente.<br />

È una rincorsa che procede con lentezza estrema, una<br />

caccia in cui volontà e delirio si scindono e si riacchiappano<br />

tra la luce e il nero, sollevano scampoli di cose passate<br />

e, ritagliandoli ulteriormente, li sezionano senza ammettere<br />

conclusioni.<br />

Apro finalmente gli occhi. Una tenue luminosità affon-<br />

129


da la casa nello spettro del pallido sole invernale. Mi inducono<br />

ad abbandonare il letto appena un attimo prima<br />

che la porta venga spalancata dall’esterno.<br />

– Ci sei, Frantziscu? – urla la voce di una donna che<br />

tardo a riconoscere.<br />

Non riesco a rispondere per sopraggiunta incapacità ad<br />

organizzare il linguaggio. Come mi sollevo dal letto una<br />

fitta insopportabile mi prende alla testa. Resto immobile,<br />

assente per un tempo incalcolabile. Indosso i pantaloni<br />

che ho raccolto da terra. Barcollo fino al lavandino per<br />

sciacquarmi il viso.<br />

Maria mi chiama di nuovo, dall’altra parte.<br />

– Arrivo, – gracido.<br />

Il soffitto mi pare più basso di almeno un metro. Mi<br />

inumidisco occhi e capelli con le mani bagnate, mi illudo<br />

di recuperare un aspetto decente.<br />

<strong>La</strong> trovo seduta di fronte al letto, nell’unica sedia che<br />

c’è. Mi sorprendo di trovarla assai bella, nella profondità<br />

dello sguardo che l’età le concede e non trattengo le parole,<br />

che ora si fanno da sole. Lei le riceve senza compiacimento<br />

né imbarazzo. Parla di me, delle voci che ha sentito<br />

circa il mio malessere, della sua affezione verso la nostra<br />

casa. Così dice: “la vostra casa”, alludendo a quella<br />

mia e di Salvatore, in memoria del quale evidentemente<br />

sente di dovermi una speciale considerazione.<br />

– Sono di ottimo umore, Maria, – le dico senza mentire,<br />

poiché la sua presenza mi eccita come non mi capita<br />

da mesi. Mi accorgo d’improvviso di desiderare metterla<br />

distesa sul letto e montarla per due giorni senza sosta,<br />

prenderla con i denti, adagiarmi dentro di lei e scalpitare<br />

come un puledro in libertà. So che non oserò, che Maria<br />

è troppo in alto per il fatto di essere stata amata da<br />

Salvatore. Lo so, tutto questo. Mi dico che è giusto accontentarmi<br />

della passione che mi solletica il cervello e<br />

la superficie della pelle, tutta squame come ai tempi dell’acqua,<br />

tutta irta di desiderio.<br />

130<br />

– Abbiamo aperto un forno, in <strong>città</strong>, – mi dice. – Immagino<br />

che tu abbia bisogno di lavorare. I miei figli sono<br />

ancora piccoli e Ignazino già mi aiuta alle macchine.<br />

C’è bisogno di qualcuno che porti il pane a domicilio.<br />

– Sono pescatore, io.<br />

– Lo so. Anche Ignazino lo è. Ma fino a quando non<br />

verranno tempi migliori…<br />

– Non ce ne sono di migliori, in programma. Il villaggio<br />

è abbandonato. Puzza.<br />

– Non è una buona ragione per lasciarsi andare.<br />

– Ma che vuoi saperne, tu?<br />

<strong>La</strong> offendo, vedo la sua espressione mutare, me ne dispiaccio.<br />

Slabbriamo i nostri sentimenti nel silenzio, per qualche<br />

istante. Basta uno sguardo perché rimbalzino dall’uno all’altra.<br />

– Maria, ma tu e Salvatore eravate innamorati? – le chiedo<br />

poi senza impertinenza né civetteria, con una nuova<br />

voce.<br />

Lei mi risponde seria, sollevando lo sguardo come per<br />

aver scorto la ragione profonda della mia domanda.<br />

– Lo siamo stati. Salvatore era una persona speciale, ricco<br />

di sentimenti e attenzioni. Generoso, nonostante quell’aria<br />

da orso che mostrava al mondo intero.<br />

Attendo. Aspetto dell’altro.<br />

– No, non mai abbiamo mai fatto l’amore, se è questo<br />

che vuoi sapere.<br />

– E con me lo faresti, adesso?<br />

– Ma che ti viene in mente, Frantziscu?<br />

– Lo desidero più di ogni altra cosa, davvero…<br />

Non mento e non esito ad prenderla tra le braccia, scoprendo<br />

un corpo irrobustito e illanguidito dagli anni, di<br />

una tenerezza così viscerale che non posso fare altro che<br />

tenermi stretto al suo ventre.<br />

Il desiderio avanza tanto più irrefrenabile quanto più lei<br />

mi appare docile e fragile. In verità non lo è affatto, così<br />

131


come io non sono in grado di dare sostanza al sentimento<br />

di protezione di cui vorrei cingerla. Il suo corpo, ogni piccola<br />

mossa del viso, di una mano, persino il modo che ha<br />

di guardarmi, mi riportano a sensazioni inspiegabili, di<br />

una tenerezza ancestrale. Piango su di lei, che mi accoglie<br />

come un figlio. E con gli occhi ancora umidi cerco il sapore<br />

della sua pelle, odoro il sudore di cui ha impregnate<br />

le pieghe del collo e quelle del seno, infilo le dita nelle sue<br />

cavità e frugo in ogni insenatura, nel tentativo disperato<br />

di raggiungerla. D’improvviso si scosta, in un brivido<br />

esplicito come un sigillo. Cado in occhi acquosi che mi<br />

rendono a me stesso. Mi spingo in lei e la trovo, pronta a<br />

ricevermi.<br />

* * *<br />

A mattina inoltrata, davanti al palazzo della Regione, ci<br />

sono solo poche decine di colleghi, quasi tutti della cooperativa<br />

di Assemini. Mancano gli studenti, non c’è Bonaria,<br />

non c’è più neanche il nostro presidente Marc’Antonio.<br />

– Ha uno dei ragazzi con la febbre alta e con la moglie<br />

che va a fare le pulizie negli uffici, ddus dèppiri castiai issu<br />

a is piccioccheddus, – mi dice un vecchio che invece è lì dalle<br />

otto, è stato intervistato al telegiornale regionale e resiste<br />

grazie all’effetto di un imprecisato numero di caffè.<br />

Anche quel lunedì ci rimandano a casa con un pacco di<br />

promesse inconsistenti.<br />

– Allora, non ti muovi? – domando al vecchio che si è<br />

seduto sul gradino del marciapiede.<br />

– Oh, seu becciu deu, no deppu andai a nisciunu logu.<br />

Non stento a credere che per uno della sua età sia indifferente<br />

dove passare la giornata. Guardo quel viso scuro<br />

e rugoso con disprezzo e mi allontano.<br />

Per la promessa che ho fatto a Maria decido di cercare<br />

un imbarco al porticciolo di Marina Piccola. Le ho detto<br />

132<br />

che non andrò mai a lavorare nella sua bottega del pane:<br />

la mia vita è sull’acqua e lì deve restare.<br />

Esco di notte sulla Santa Barbara, un peschereccio che<br />

porta una mezza dozzina di pescatori. Mi hanno ingaggiato<br />

per un giorno di prova grazie al fatto che uno dei<br />

soci ha saputo che sono il figlio di Salvatore.<br />

– Non proprio il figlio, – tento di correggerlo io.<br />

– Ti ha allevato ed insegnato il mestiere?<br />

– Sì.<br />

– Allora sei il figlio di Salvatore.<br />

Sostituisco uno dei ragazzi che è andato a fare il barista<br />

in piazza Repubblica, al bar Europa.<br />

L’uscita dal porticciolo è quanto di più serafico si possa<br />

immaginare, nonostante le forti raffiche non lascino dubbi<br />

su quel che ci attende. <strong>La</strong> lunga spiaggia del Poetto da<br />

un lato, che cinge l’entroterra con il suo eroico braccio ricurvo<br />

di luci, e il crinale scuro della Sella del Diavolo, appena<br />

un’ombra sul lato opposto, mantengono basso il mare<br />

di maestrale e accompagnano quel breve tragitto con<br />

dolcezza. Ma non appena il peschereccio lascia a dritta i<br />

faraglioni, perdendo il favore dell’imponente promontorio<br />

roccioso, le onde si fanno alte e il vento ancora più violento.<br />

Fredde raffiche spingono a bordo il tanfo di nafta<br />

del motore. Un primo senso di nausea mi assale, con<br />

un’orrenda sensazione di crampi allo stomaco. Tremo dalla<br />

paura, soggiogato dal crescente e irresistibile desiderio<br />

di bere. Non ho neanche una bottiglia, con me. Cerco di<br />

contenermi. So di essere sotto l’occhio di tutti, dei più<br />

giovani che ben conoscono l’unica ragione per la quale sono<br />

stato scelto, e dei più anziani che mi hanno osservato<br />

scettici fin dalla partenza. Mi lascio sfuggire la rete dalle<br />

mani più di una volta. Barcollo sospinto dalle onde. Il<br />

senso dell’equilibrio si beffa di me trattandomi da pivellino.<br />

<strong>La</strong> nausea mi stringe al collo. Poi un tremore, dalle<br />

tempie fino alle mani e giù per le gambe. Mi sento prosciugato<br />

come una zucchina svuotata. Pochi secondi e mi<br />

133


accascio, riverso sul fondo dell’imbarcazione, rantolando<br />

nel mio stesso vomito.<br />

– Chini tìmiri s’acqua non b’àndiri a piscai, – sento dire<br />

da uno che mi afferra per i capelli e mi versa una manciata<br />

d’acqua dolce sul viso.<br />

– Piga, pappa, – mi dice un altro infilandomi tra le labbra<br />

un pezzo di pane bagnato nell’acqua di mare.<br />

Mi danno un asciugamano e una coperta, mi tengono<br />

sdraiato al riparo dal vento fino ai chiarori dell’alba quando<br />

finalmente, ritirate le reti, la prua vira verso il porto.<br />

Scendo alle spalle del ragazzo che dà volta con la cima<br />

alla bitta. Seduto sul molo frangiflutti, mentre quelli scaricano<br />

le reti in banchina, tento di riacquistare il senso<br />

dell’equilibrio. Tuttavia ovunque guardi, sia il molo, la<br />

strada o la criniera rocciosa della Sella del Diavolo, il<br />

mondo mi appare sbilenco. <strong>La</strong> terra intera partecipa dell’ondosa<br />

monotonia del mare. Mi sdraio avvolto nella coperta<br />

intrisa di salsedine e chiudo gli occhi, nell’attesa<br />

che la palla infuocata del sole venga fuori dai monti oltre<br />

il mare. Allora piango qualche lacrima senza altri sentimenti<br />

se non un fugace senso di compassione per la miseria<br />

di questo mio corpo. Sollevo la coperta fin sulle<br />

orecchie, per attutire i rumori degli uomini che lavorano<br />

alle mie spalle e quello della lacera spinta del vento che<br />

non conosce sosta. Allungo lo sguardo di sotto al sole finalmente<br />

emerso dai monti, sempre più chiaro e inguardabile.<br />

L’acqua ribolle sui macigni di pietra aguzza che<br />

proteggono l’insenatura. Precipito in quella nota sfera<br />

bianca priva della dimensione del tempo, o talmente in<br />

sintonia con esso da non distinguersene. Mi abbaglia più<br />

di quanto il sole non possa. Allo stremo delle forze, dopo<br />

che ho rimesso anche l’ultimo e più essenziale dei succhi<br />

dello stomaco, decido di alzarmi e andarmene.<br />

Mi ritrovo in tasca un gettone telefonico.<br />

– Non ce l’ho fatta, – dico a Maria.<br />

Attraverso i palazzi grigi di Sant’Elia ancora in costru-<br />

134<br />

zione, che impongono anche a lei di convivere con operai,<br />

gru, trapani e colpi di martello. Salgo al quarto piano<br />

senza fidarmi a prendere l’ascensore. Il mio stato è talmente<br />

precario da non sopportare il pensiero di montare<br />

su qualcosa che potrebbe appena distaccarsi da terra.<br />

Abita in un appartamento luminoso, con più stanze, dove<br />

è ancora vivo l’odore della calce. Dice che sono troppo<br />

pallido. Con quel fare materno che ha appreso negli<br />

anni mi dà biscotti e una tazza di tè. Dice che sono troppo<br />

triste e prende ad accarezzarmi il viso accrescendo la<br />

mia malinconia, fino a quando le sue carezze non ricoprono<br />

ogni angolo del corpo e allora anche l’ultimo filo<br />

di tristezza si prosciuga, liberando un sorriso.<br />

– Sei come un uccello senz’ali, – mi accenna di quella<br />

stessa dolcezza che ho già conosciuto una volta. – Ma non<br />

arrenderti adesso. Se il mare non fa per te troverai qualcosa<br />

di meglio.<br />

– Tienimi qui.<br />

– Farò tutto quello che posso. Ma lo sai, ho Ignazino, i<br />

bambini e la panetteria. Se vuoi puoi lavorare con noi.<br />

– Sono arsellaro io, non panettiere.<br />

– Come vuoi. Certo che non si può dire che non hai tutta<br />

la testardaggine di Salvatore, tu.<br />

Forse somiglio di più a un’anguilla in letargo, penso<br />

invece, richiudendo alle spalle la porta dell’appartamento.<br />

Un’anguilla che non si vuole svegliare.<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> domenica per fortuna c’è la partita. È una grande<br />

squadra, la nostra. Ci ritroviamo tutti o quasi, allo stadio<br />

Amsicora. Tifiamo assieme, in curva ovest, con quelli<br />

che ora abitano a Sant’Elia. Loro arrivano a piedi, non devono<br />

perder tempo a cercare parcheggio. Si urla, si ride,<br />

ci si arrabbia per davvero e soprattutto il pomeriggio si<br />

festeggia come una volta, a casa di qualcuno, col vino. Se<br />

135


ha vinto, perché è la squadra più forte di tutte; se ha perso<br />

bisogna scaldare i tristi cuori rossoblù, dunque si beve:<br />

– Alla salute di Giggirriva, che è sempre il migliore!<br />

– Versa, versa. Anche se non è il vino dei frati, fa sempre<br />

buon sangue.<br />

– Vacci piano, Frantziscu, che hai già l’occhio balordo.<br />

– Avrò il diritto di festeggiare anch’io, no? E poi è<br />

tutto gratis, che problema c’è?<br />

Nessuno se ne va fino a quando i fondi non sono stati<br />

spremuti a dovere. Il pomeriggio si è spento e il piazzale<br />

è rischiarato appena dalle luci dei palazzi, non c’è<br />

neanche un lampione. Fatico a ritrovare l’apixedda, stordito<br />

da una pretesa lucidità che utilizzo per mentire a me<br />

stesso.<br />

– Finalmente eccoti, farabutta. Ora portami a casa o ti<br />

smonto bullone dopo bullone, – le dico incespicando sulle<br />

parole.<br />

Il motore che frulla sembra un canto celestiale, non<br />

vedo l’ora di crollare sul letto, addormentarmi e cancellare<br />

così un altro giorno.<br />

– Tu non dirglielo a Bonaria che sono pesto come un<br />

caprone, altrimenti non ne vuole più sapere, di me.<br />

Estorco questa promessa alla mia fedele compagna di<br />

strada che, per tutta risposta inizia ad annaspare. Singulta,<br />

incespica e nell’arco di pochi metri si ferma definitivamente.<br />

Da quanto tempo era in riserva? Almeno<br />

quattro giorni. Non serve stare a domandarsi cosa sia accaduto.<br />

Non ho neanche trecento lire da mettere in miscela.<br />

Scendo, senza false speranze, e la spingo fino a un<br />

parcheggio. Non so da dove mi vengano fuori, le forze<br />

necessarie. Però emergono, almeno fino a quando non<br />

tiro il freno a mano. Poi mi accascio, con la testa sul manubrio.<br />

L’asfalto emana i suoi umori pestiferi, la mattina, rende<br />

i passi pesanti. <strong>La</strong> via di alti palazzi e vecchie trattorie si<br />

apre su un vicolo più stretto, che termina sui canneti.<br />

136<br />

Sento l’odore delle acque. Attraverso di nuovo, mi inoltro<br />

fin dove finisce la strada. Sono sudato, ho il collo umidiccio<br />

e gli angoli delle labbra salmastri. Giungo al termine<br />

di una discesa, bordata da catapecchie di lamiera e<br />

brandelli di manifesti pubblicitari. Una macchina gialla<br />

è ferma lì in basso. Faccio qualche passo lungo la stradina<br />

sdrucciolevole, tra scarni alberi e cespugli che nascondono<br />

lo squallido accampamento. L’abbaiare di un cane<br />

mi fa retrocedere. Si avvicina di corsa venendo fuori dalle<br />

baracche e si ferma, non appena valico a ritroso il limite<br />

della discesa bianca e polverosa; non smette di abbaiare.<br />

Viene fuori un uomo, ghermendo innanzi un pezzo di lamiera.<br />

– Cosa vuoi? – urla con voce grossa. – Chi sei?<br />

– Cerco una donna.<br />

– Smamma ragazzino, qui non c’è nessuno.<br />

L’uomo, in canottiera e calzoni corti, mi viene incontro<br />

richiamando il cane. L’enorme bestia ubbidisce ma non<br />

smette di fissarmi, dritto sulle quattro zampe, accanto ai<br />

piedi del padrone. Tento qualche passo in avanti prima<br />

che quello riprenda ad abbaiare e, vedendo che non osa<br />

più muoversi, mi avvicino.<br />

– Ero amico di Salvatore del villaggio dei pescatori, lo<br />

conoscevi?<br />

Continuo a scendere, molto lentamente.<br />

L’uomo fa un grugnito che forse significa qualcosa.<br />

– Dici l’arsellaro col berretto in testa? L’amico dei frati?<br />

– Lui dei frati amava soprattutto il liquore.<br />

– E tu saresti amico suo?<br />

– Veramente mi ha cresciuto, Salvatore.<br />

L’uomo straluna gli occhi, mi scruta da capo a piedi.<br />

Fa una smorfia incredula, poi con un comando allontana<br />

il cane e con un ghigno un poco fesso, mi tende la mano.<br />

– Vieni, vieni con me, – mi dice invitandomi a raggiungerlo<br />

davanti alla sua casa.<br />

137


– E itta bòlisi innoi? Non sarai venuto qui per parlarmi<br />

di lui.<br />

– Sto cercando mia madre.<br />

Questa volta la sua smorfia mi pare molto sconveniente.<br />

Lui nota la mia indisposizione; con una pacca sulla<br />

spalla mi dice che non è il caso di fare il permaloso: non<br />

ha alcuna intenzione di prendermi in giro.<br />

– Ascoltami bene ragazzo: non troverai tua madre qui.<br />

Nessuna femmina ci viene più, neanche quelle che venivano<br />

a fare quello che dovevano e se ne andavano subito<br />

dopo. Ci capiamo, non è vero? Devono ringraziare se è<br />

così, ché qui la notte è un rifugio di banditi e violenti.<br />

– E di giorno?<br />

– Quello non ti riguarda, ragazzo. <strong>La</strong>scia perdere, di<br />

donne non se ne vedono più. Lo so bene io, le conoscevo<br />

tutte. E ti dico anche che è meglio che te ne vada subito,<br />

prima che arrivino i guai.<br />

– Non voglio mettermi nei guai, però so che lei veniva<br />

a lavorare da queste parti.<br />

– Molti anni fa, forse. Ma adesso, te lo ripeto: non viene<br />

più nessuna qui, è troppo pericoloso. Vattene ora, e<br />

non tornare.<br />

<strong>La</strong>scio il luogo accompagnato dall’abbaiare di quel brutto<br />

cane e torno a piedi al villaggio.<br />

Agostino ha abbassato la serranda del bar per l’ultima<br />

volta.<br />

– Tanto non è rimasto niente, dentro. Tie’, ti regalo<br />

l’ultima bottiglia.<br />

– E la foto di Giggirriva?<br />

– Quella me la porto via, itta ti crèisi, picciocheddu?<br />

È stato chiamato a Macchiareddu, dove aprono un bar<br />

per gli operai delle fabbriche.<br />

– E tra poco aprono anche la mensa. Vedrai che questa<br />

è la volta buona che mi sistemo, si fanno le cose in grande<br />

laggiù, – dice sparendo sul furgoncino carico di tavoli,<br />

sedie e tv.<br />

138<br />

Vago come l’ultimo abitante di un villaggio fantasma.<br />

Convivo con gli scheletri immobili delle ruspe, coi ruderi<br />

delle case, le betoniere, gli spaccasassi e le gettate di<br />

cemento.<br />

Dentro casa c’è ancora Donna <strong>Giulia</strong>, ma non mi conforta<br />

più. In verità ho il terrore di avvicinarmi a lei perché<br />

non so come fermare il tremore delle mani. Stappo la<br />

bottiglia che Agostino mi ha regalato e annego nel fil’e<br />

ferru le mie incapacità. Mi sento riscaldato, confortato<br />

tanto da volere ritornare in <strong>città</strong>, dove la gente vive.<br />

Via Roma accoglie chiunque. Ora che ho la mia stanza<br />

d’albergo parcheggiata in una stradina vicino al porto, resto<br />

in giro anche tutta la notte. C’è movimento, e tra la<br />

gente che passa a volte mi capita di incontrare due tipi ai<br />

quali servono dei servizi veloci. Mi pagano quel che mi serve<br />

per poter continuare a bere fino al successivo incarico.<br />

Il pavimento sotto i portici è di mattonelle lisce, basta<br />

un pezzo di cartone per non gelarsi il didietro. Mi<br />

siedo a contemplare lo spettacolo delle persone che mi<br />

passano davanti. Incontro spesso anche quel Nandino<br />

biddio, che ancora chiede sigaretteddas e perde tempo a<br />

fare il suo solito show tra i miei piedi. Ma non lo seguo<br />

più, non mi diverte affatto. Anzi, mi vien voglia di dargli<br />

uno spintone e farlo finire lontano.<br />

Sono cullato dal chiasso cittadino, dal rumore delle<br />

macchine, dal doppio fischio del vigile: un primo secco e<br />

breve, poi uno lungo e disteso. Ormai mi conosce, a volte<br />

quando mi trova troppo sfatto, mi scuote per una spalla:<br />

– Via di qui o passi dei guai, – intima con l’indice<br />

puntato verso la periferia. Mi sollevo a fatica.<br />

Arrivo fino a Piazza del Carmine e risalgo per la stretta<br />

via Maddalena, una ripida salita che mi toglie il fiato.<br />

Sotto l’arco del Corso Vittorio Emanuele devo schiacciarmi<br />

come una sogliola per far passare una macchina pronta<br />

a mettermi sotto. <strong>La</strong> pietra su cui struscio mi ricopre<br />

di polvere.<br />

139


Capisco di avere una direzione precisa, nonostante finga<br />

di voler preservare la solitudine. Con le ultime monete<br />

che ho in tasca, compro una bottiglia di vino, mortadella<br />

e due rosette. Svolto per la Villa di Tigellio. Salgo<br />

ancora, sfiorando con una mano la recinzione. Sbircio<br />

per incontrare, sotto il berretto calato sugli occhi, il mio<br />

vecchio amico Omero.<br />

Il cancello laterale è chiuso, come al solito, con lucchetto<br />

e catena. All’interno una gatta si lascia prendere<br />

d’assalto dai suoi cuccioli. L’erba è alta tanto da ricoprire<br />

la pietra. Scorgo solo il rudere di una colonna che spicca<br />

tra i lunghi steli delle erbacce. <strong>La</strong> gatta, quasi sotto la<br />

recinzione, si scrolla di dosso i suoi piccoli; miagola e si<br />

leva sulle quattro zampe puntandomi gli occhi giallognoli.<br />

I mici le vanno dietro, silenziosi e guardinghi.<br />

Sul marciapiede riconosco il motorino mezzo arrugginito<br />

di Omero. Ha dei fili di spago legati intorno alla<br />

sella e un adesivo con il volto della Madonna appiccicato<br />

sul serbatoio. Omero è seduto come sempre davanti al<br />

cancello principale.<br />

– Omero!<br />

– Chini sesi? Itta bolisi? – domanda senza sollevare lo<br />

sguardo.<br />

– Seu Frantziscu, Omero, il tuo amico Frantziscu.<br />

– Non tengu amigus, deu.<br />

– Lo so, è da molto che non ci vediamo. Ma ti ho portato<br />

la merenda, Omero. Ti piace la mortadella? Ho anche<br />

del vino.<br />

Solleva lo sguardo e chissà se mi riconosce. È passato<br />

almeno un anno dall’ultima volta.<br />

– Deu no pappu e no buffu, a-i cust’ora.<br />

– Va bene, se non ne vuoi non te ne do. Mi fai entrare<br />

a passeggiare nella villa?<br />

– È chiuso.<br />

– Lo so. Ma una volta potevo entrare.<br />

– Non può entrare nessuno, è chiuso.<br />

140<br />

– Ma tu sei il custode, puoi farmi entrare, se vuoi.<br />

Omero si mette in piedi e solleva la visiera del berretto,<br />

guardandomi in faccia per la prima volta.<br />

– Posso, ma non lo faccio. E immoi spesa, picciocheddu.<br />

Il suo viso è scuro, ancora più rugoso di quello che ricordavo.<br />

Anche lui mi caccia di malo modo.<br />

– Ma Donna <strong>Giulia</strong>, la moglie di Tigellio mi aspetta…<br />

Sulla bocca di Omero si disegna una smorfia che assomiglia<br />

a uno sberleffo.<br />

– Questo campo era di proprietà del contadino Saba, che<br />

usava ararlo con i buoi fino a quando, una mattina, una<br />

delle bestie non precipitò con una zampa nella casa poi<br />

detta del musico Tigellio. Allora il contadino Saba scese<br />

con le ginocchia sulla terra e con le sue stesse mani cominciò<br />

a scavare. Scava e scava, ha aperto il soffitto sotto<br />

il quale si nascondevano le tre stanze della villa. Una col<br />

pavimento di marmo e due con i mosaici colorati. Il contadino<br />

Saba ha venduto i mosaici ai frati della chiesa di<br />

San Michele. Duemila e cinquecento lire a pezzo. E si è<br />

comprato la televisione.<br />

– E Donna <strong>Giulia</strong>, la moglie di Tigellio?<br />

– Tigellio era cantore del tempo di Cicerone. Al suo<br />

funerale era pieno di prostitute, ladri e gente di mal’affare.<br />

Quando morì questa villa non era neanche stata costruita.<br />

– Vuoi dire che questa casa non era la sua?<br />

– Io non voglio dire niente, e non voglio la tua merenda<br />

né il tuo vino.<br />

– Guarda che è buono, – dico io svolgendo il pane dalla<br />

busta di cartone. – Castia, rosette e mortadella affettata<br />

ora ora, sei sicuro di non volerne?<br />

– Nudda, no bollu nudda. Quando torno a casa mia,<br />

mangio.<br />

– Vorrei solo ritrovare quella pietra, ti ricordi Omero,<br />

quel pezzo della statua di Donna <strong>Giulia</strong>?<br />

– Spesa, appu nau.<br />

141


Si rimette seduto con una complessità di lenti movimenti<br />

che non lascia dubbi sul malo stato del suo fisico,<br />

e termina calandosi il solito berretto sugli occhi.<br />

Decido di andarmene. Sbircio un’ultima volta all’interno.<br />

I ruderi sono sepolti dalle erbacce. <strong>La</strong> colonna più<br />

alta si scorge appena, mentre svanisce in me il desiderio<br />

di scavalcare la recinzione e ritrovare il fianco della statua<br />

che una volta mi era parsa morbida e amorevole.<br />

Ripercorro la strada senza voltarmi, pervaso dal senso di<br />

un’inutilità che mi affonda ad ogni passo. Ogni tanto mi<br />

attacco al collo della bottiglia. Sono l’uccello della strada,<br />

dal becco di vetro. Ho ali corte, non mi permettono di volare,<br />

ma so come dribblare i passanti troppo sobri e seriosi.<br />

Mi siedo a mangiare un panino sotto quel brutto muso<br />

di Carlo Felice, attorno a cui girano le macchine. Sulle<br />

spalle del verdognolo regnante che sovrasta il porto e<br />

sottostà all’ingresso alla <strong>città</strong> antica è rimasto lo striscione<br />

rosso di un sindacato, da chissà quale manifestazione.<br />

<strong>La</strong> notte mi rannicchio dentro l’apixedda. Nonostante abbia<br />

la mia coperta di lana, mi risveglio tutto infreddolito,<br />

con i crampi allo stomaco e la testa che rumina per<br />

conto suo come una vacca all’ingrasso. Anche la schiena<br />

si lamenta di questo insano trascorrere le notti. Ma insane<br />

sono ormai le mie giornate, e non solamente da quando<br />

non sono che delle botti d’alcol, contenitori da riempire<br />

di continuo che perdono come colabrodi, che si sfanno<br />

dall’interno e non hanno più voce neanche per supplicare,<br />

ma dacché ho smarrito il senso di ogni azione e<br />

la capacità di guadagnarmi il cibo.<br />

* * *<br />

Il bar Marius ha dodici foto di Gigi Riva appese al<br />

muro, sopra i colli delle bottiglie. E anche quelle dell’intera<br />

squadra con tutti gli autografi. Però è più caro<br />

142<br />

di Agostino, tanto che ho dovuto chiedergli di farmi un<br />

prezzo di favore.<br />

– Che non sia a farci il vizio, – mi risponde il barista.<br />

Poi mi versa da bere.<br />

Ho aspettato Bonaria tutta la mattina, appostato davanti<br />

alla scuola. L’aria pungeva. Lei non l’ho vista, né alle<br />

otto né all’una. Me ne vado senza neanche troppa delusione,<br />

ci ho fatto l’abitudine. Oltrepasso il palazzo della<br />

Regione, un cinema dalle locandine sgargianti e la<br />

chiesa dell’Annunziata.<br />

Una macchina frena sgommando davanti ai miei piedi,<br />

con uno stridore di gomme che mi fa saltare il cuore<br />

in gola. Ho attraversato senza guardare, la Printz verde<br />

si è fermata a un pelo da me. Lo sportello si apre e un<br />

uomo esce per guardarmi bene in faccia. Mi urla contro,<br />

vuole sapere se ho deciso di farlo finire in galera. Un poliziotto,<br />

arrivato da chissà dove, si mette tra di noi, lo<br />

trattiene e fa cenno a me di allontanarmi. Salgo sul marciapiede<br />

pensando che quello non dovrebbe prendersela<br />

così tanto solo perché ha rischiato di investire un pedone<br />

già mezzo morto. Se uno attraversa ad occhi chiusi<br />

una strada così trafficata, è chiaro che ha un progetto in<br />

testa, anche se poi si parlerà di sbadataggine, per confondere<br />

le intenzioni più evidenti. Le urla si diradano, rimane<br />

solo il chiasso dei motori. Mi sento afferrare un<br />

braccio e mi volto piano. Tutto accade al rallentatore, come<br />

attraverso un vetro che dilata tempi e suoni. Il poliziotto<br />

vuole sapere se sto bene; fa una brutta smorfia e<br />

allontana la faccia quando apro la bocca avvolgendolo in<br />

una zaffata d’alito alcolico. Dice che vuole controllare,<br />

essere sicuro, che forse è meglio che vada con lui in infermeria.<br />

– Non mi ha neanche sfiorato, – dico io. – Era solo<br />

nervoso.<br />

– Tu però sei molto ubriaco, – dice lui.<br />

– Solo un pochino questa mattina, non ho più soldi.<br />

143


Scendiamo assieme verso il porto. D’un tratto svolta in<br />

una stretta viuzza e mi trascina per il braccio.<br />

– Sono molto indeciso su che bottiglia regalarti, – confessa<br />

dandomi un cazzotto che mi fa risalire il sangue<br />

agli occhi.<br />

– Bastardo! Non faccio male a nessuno, – urlo.<br />

– E magari sei anche drogato, – dice mollandomi un<br />

altro cazzotto.<br />

Non reagisco, cado a terra riparandomi il viso con le<br />

braccia. Mi aspetto che mi pesti di calci, che mi gonfi la<br />

faccia, che mi bastoni. Ma non succede niente di tutto<br />

questo. Ho il sapore ferroso del sangue, in bocca. C’è un<br />

grande silenzio tutt’intorno. Resto accasciato per non so<br />

quanto tempo, fino a quando non mi accorgo di alcune<br />

voci di bambini. Parlano di me. Allora sollevo la testa<br />

poggiandomi sulle mani. Il poliziotto non c’è più. Mi ha<br />

lasciato una bottiglia di Cannonau. I bambini mi indicano.<br />

Uno ha una palla in mano; avranno sei o otto anni, sono<br />

sporchi come me.<br />

– Stai bene? – mi chiede quello con la palla.<br />

– Anche tu sei ubriacone? – fa un altro.<br />

Prendo la bottiglia e mi allontano, ancora stordito, lungo<br />

quella via puzzolente e storta sulla quale si aprono i bui ingressi<br />

delle case del quartiere. Alla prima fontanella che trovo<br />

mi ripulisco dal sangue. Il dolore che provo per tutta la<br />

parte destra del viso è così immeritato, che mi fa avvampare<br />

di rabbia. In compenso il Cannonau attutisce la frustrazione<br />

e ripaga a grandi sorsate l’odio per quel poliziotto.<br />

<strong>La</strong> <strong>città</strong> si dirada a favore del sole, scende mite verso il<br />

mare. Aspetto l’autobus alla prima fermata che incontro.<br />

Salgo senza pagare, ignorando il bigliettaio che, dietro al<br />

tramezzo di legno, mi chiede se sono caduto.<br />

– Se non fai il biglietto, non viaggi.<br />

– Va bene.<br />

Fingo di tirare fuori le monete dalla tasca, in realtà<br />

tergiverso nel mentre che l’autobus si avvicina a casa.<br />

144<br />

– Ma chi credi di far fesso? I soldi non li vuoi cacciar<br />

fuori, l’ho capito.<br />

Scendo, accompagnato da una manata pesante.<br />

Il giorno dopo ritorno al bar; poco oltre c’è la scuola di<br />

Bonaria. Bevo quel che Marius mi concede, non molto<br />

per la verità. Poi esco. Il traffico è agitato e rumoroso. Supero<br />

i brevi portici squadrati e traggo non poco sollievo<br />

nel riconoscere i cancelli della scuola.<br />

Intorno c’è un gruppetto di ragazzi; siedono a cavalcioni<br />

sulla sella dei motorini.<br />

– Avete visto Bonaria?<br />

– Bonaria chi? – mi fa uno che smette di pedalare e<br />

smanetta sull’acceleratore di un Ciao turchino ancora<br />

sul cavalletto.<br />

– Bonaria la mia fidanzata, – dico io.<br />

Quelli si mettono a ridere come se avessi detto chissà<br />

quale sciocchezza.<br />

– Non viene in questa scuola, se è la tua fidanzata, – fa<br />

un altro sprofondato dentro un eschimo blu, tartagliando<br />

ad ogni parola.<br />

Si contagiano una risatina scema che preferisco ignorare,<br />

sapendo bene come proseguono questo genere di incontri.<br />

Mi accorgo solo ora che la scuola si è già svuotata.<br />

Scendo verso la laguna, mentre un branco di cavalli pazzi<br />

scalpita nella mia testa.<br />

* * *<br />

Il più delle volte ormai rimango in <strong>città</strong>, a scoprire vicoli<br />

di cui poi non ricordo nient’altro che una luce fioca<br />

e l’odore di piscio sui muri. Fa meno freddo adesso, e<br />

spesso preferisco dormire all’aperto, dove posso distendere<br />

le gambe. Tra i luoghi che frequento, rassicuranti come<br />

le buone abitudini, ci sono i gradini di Piazza del<br />

Carmine, da cui si innalza l’alta colonna su cui vigila una<br />

Madonna, tra le corna di un bue. Non c’è mai una pan-<br />

145


china libera, la notte. Alcune sono riservate ai decani frequentatori<br />

del luogo e solo di tanto in tanto qualche ingenuo,<br />

trovandola libera, ci si sdraia, ignaro della brutalità<br />

con cui verrà di lì a poco scacciato. Ogni notte compare<br />

qualche viso diverso. A volte si addormenta tra di<br />

noi, altre volte ci osserva uno per uno, senza curiosità e<br />

senza domande. Gli offriamo liberamente occhi e orecchie,<br />

in quell’ora di ombre. Forse vuole solo capire se appartiene<br />

anche lui alla nostra specie, e a seconda di quel<br />

che intende allunga il passo, sparisce e non lo si vede più.<br />

Oppure si siede, svuota le tasche, scola le sue bottiglie e<br />

decide che il manto del marciapiede non è poi così duro<br />

per ammirare dal basso la Madonna avvolta dal nero<br />

scialle stellato. Così la vedo io quando mi accascio a terra<br />

per necessità: di una bellezza che tocca l’anima e commuove.<br />

Aprendo gli occhi incontro il suo volto gentile e<br />

sorridente e penso alla mia adorabile Bonaria, protettrice<br />

di noi pescatori. Anch’io allargo le braccia, memore di<br />

Peppino in alto mare che si afferra agli scalmi e si crocefigge<br />

tra le onde della notte, come i santi e gli eroi. Anch’io<br />

affondo. Non navigo più, naufrago nei fondi delle<br />

bottiglie. Cerco la Madonna che chiamo Bonaria, come la<br />

donna che è mia dalla nascita. So che esiste, anche se non<br />

si fa trovare. So di averla scolpita sul viso di una statua<br />

millenaria alla quale mi sono aggrappato, per non svanire<br />

prima di aver goduto della sua compagnia. L’ho chiamata<br />

Donna <strong>Giulia</strong> e l’ho voluta signora dell’unica villa<br />

che conosco, protetta da un falso custode solo e mezzo<br />

scemo che potrebbe anche essere morto così come da un<br />

giorno all’altro è morta sua madre, nel vomito, con le<br />

gambe penzoloni giù dal letto. Donna <strong>Giulia</strong> appare al<br />

mio richiamo, si aggira nelle stoffe lisce dell’oriente tra<br />

le sale della villa. <strong>La</strong>scia cadere i veli che le serve subito<br />

si chinano a raccogliere, per immergersi nel profumo dell’ampia<br />

vasca, protetta da leonesse al guinzaglio. Immagino<br />

troppo, perché la testa mi duole, si appesantisce e<br />

146<br />

mi porta lontano, senza più pensieri né parole, in sensazioni<br />

catastrofiche e nauseabonde.<br />

Dalle notti come questa, in cui Bonaria svetta con l’indice<br />

proteso a bucare il cielo, si distinguono le notti in<br />

cui Bonaria svetta con l’indice che mi trafigge il collo e<br />

le notti in cui qualche barbone mi prende a calci in testa<br />

per fregarmi un sorso di vino.<br />

Mentre tento di coprire di dimenticanze il folle agitarsi<br />

della laguna - che mi dà adesso lo stesso malessere delle<br />

onde d’alto mare - nel mezzo profondo della gola, dietro<br />

il pomo che ha osato appena pronunciarsi negli ultimi<br />

tempi, si divarica un anfratto attraverso il quale scorre<br />

un grosso filo d’acciaio che mi trapassa, tenendomi sospeso.<br />

Quel grosso filo è il dito di Bonaria, talmente resistente<br />

che neanche col più furioso gioco della fantasia<br />

riesco ad liberarmi. Confesso alla Madonna che il mio<br />

desidero è scarno e senza mezzi, pari a una foglia senz’anima<br />

cui non spetta altro che disintegrarsi in secche briciole<br />

o granuli putrescenti. Lei mi manda le parole di<br />

Maria: la vita va sostenuta, protetta, sospinta. Penso che<br />

mi sono trovato bene tra le sue cosce calde, sul suo ventre<br />

pulsante, immerso nel suo respiro. E tento di sollevarmi<br />

per cercare ancora quel beato stato di esuberanza.<br />

Riesco a malapena a sedermi. Ho l’uccello moscio, nonostante<br />

l’eccitazione confusa che freme nella testa. Me<br />

lo tocco con delusione, infilo la mano dentro i calzoni e<br />

non riesco a fare niente di più che menarlo da una parte<br />

all’altra. Neanche Maria riuscirebbe a farlo resuscitare,<br />

adesso. Neanche se fosse qui a prendermelo tra quelle<br />

belle labbra che dischiude appena e già sembra assorbirmi<br />

tutto intero dentro di lei. Una grande luce di piatta<br />

concentricità si riversa su di me. È per grazia di Bonaria,<br />

che conosce e vuole ancora proteggermi. Sento di poter<br />

ancora vivere, sebbene non in maniera diversa, ma persistendo<br />

nell’immobilità, anestetizzata e indolore. Trascorro<br />

un tempo lungo e senza quasi memoria, scandito dal-<br />

147


l’inutilità del tutto, che mi allontana dal ricordo dei luoghi<br />

e dai pensieri. E mentre mi dileguo, passano lunghi<br />

mesi.<br />

* * *<br />

– Conosci bene la laguna? Nei minimi particolari? Sai<br />

segnalare l’ingresso dei canali navigabili verso nordovest<br />

e indicare i punti dove l’acqua è più calda o più salata<br />

o meno pescosa di un tempo?<br />

Mi tormenta con le sue domande, il più alto dei due che<br />

hanno bussato alla porta per farmi firmare un foglio che<br />

mi impegna all’opera di collaboratore per il risanamento<br />

delle acque di Santa Gilla a partire da lunedì prossimo.<br />

L’altro annota su un taccuino le mie risposte.<br />

È stata Maria a scrivere il mio nome nelle liste di coloro<br />

che si offrono per il recupero della laguna.<br />

Prima di andarsene mi consegnano la tuta verde con il<br />

distintivo dell’Assessorato e mi fanno firmare tre copie<br />

dello stesso modulo.<br />

– Che hai fatto sulla guancia? – mi domanda lo stesso,<br />

additando il livido nero e il labbro gonfio.<br />

– Scivolato. Proprio qui, di fronte a casa.<br />

L’uomo non ribatte, è evidente che non mi crede, ma<br />

poco importa. Allarga lo sguardo a ricomprendere il disordine<br />

della stanza in cui parliamo: i vestiti buttati per<br />

terra, qualche bottiglia dei giorni passati che ho nascosto<br />

malamente per la fretta di aprire la porta, le cosacce<br />

di Salvatore che ancora non ho avuto il coraggio di buttare<br />

e fra le quali invece ogni tanto affondo le mani come<br />

se potessi trovarvi chissà quale meraviglia dimenticata.<br />

Magari il nome di mia madre.<br />

Indosso la tuta non appena i due escono. Chiederò a Maria<br />

di aggiustarmi l’orlo dei calzoni. Per il resto aderisce<br />

bene di spalle e scende con una piega dritta che mi dà l’aspetto<br />

di un perfetto signorino, di quelli di cui non pos-<br />

148<br />

so che sorridere, se li incontro per strada. Una foggia eccellente,<br />

che mi regala un istinto di potenza simile a quello<br />

che provo quando vengo rivestito di elogi ben meritati.<br />

C’è ancora, tra la roba di Salvatore, la tenuta che usava<br />

la gente del villaggio prima della guerra: la giubba con i<br />

bottoni d’oro che li distingueva da tutti gli altri. <strong>La</strong> piego<br />

per benino e la metto da parte, perché non so più se la<br />

venderò al mercatino del Bastione assieme a tutte quelle<br />

cose che abbiamo raccolto in laguna. Invece di sicuro venderò<br />

per un sacco di soldi questa tuta verde, dopo che l’avrò<br />

usata. Porta cucita una targhetta importante.<br />

Subentra una malinconia più calda, che poco mi appartiene<br />

ma mi fa compagnia. Butto giù ancora qualche<br />

sorso. Quando io e la mia tristezza finiamo per non riconoscerci<br />

più, mi sento un tantino alleggerito, sogno<br />

di tornare con le ginocchia nell’acqua, gettare il setaccio<br />

nel fondo, ripercorrere i canali interni più dolci, disseppellire<br />

il povero Uffi Bau e interrare Bonaria che continua<br />

a farmi pagare lo scotto dell’inutilità.<br />

Maria è l’unica persona preziosa che conosca, ma non la<br />

posseggo ed è raro che l’abbracci. D’altronde mi sostengo<br />

avvinghiato alle bottiglie così spesso, che mi rimane<br />

poco tempo per il resto.<br />

Un lungo cartello è appeso sul muro della vecchia sede<br />

della cooperativa, con le date delle manifestazioni del mese.<br />

Altri uguali sono sparsi per il villaggio e per i quartieri<br />

popolari del Cep e di Sant’Elia. Si organizzano ancora<br />

proteste. Da parecchio evito di farmi vedere: mi vergogno<br />

della mia faccia. Oltre tutto mi sono spuntati degli<br />

orrendi brufoli sul viso che sanguinano ogni volta che<br />

tento di radermi.<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> famiglia di Bonaria riposa su rispettabili professioni,<br />

di quelle da svolgere dietro scrivanie che non barcol-<br />

149


lano, con il sedere al calduccio sopra comodi cuscini, il<br />

crocefisso sul capo e il calendario dalle domeniche segnate<br />

in rosso davanti agli occhi. Quando ho stretto la<br />

mano di suo padre, il ragionier Murru impiegato del Comune,<br />

ho riconosciuto subito l’alterigia di chi sa poco<br />

della terra e nulla dell’acqua. Una stretta sottile e un poco<br />

fiacca, distante e senza passione; uno sguardo vago che<br />

non ti scruta affatto né intende calare dietro le pupille<br />

per svelare subito qualcosa. Io attendevo una concessione<br />

del tipo: “diamoci pure del tu, ragazzo!”. Invece quello<br />

non solo ribadisce la sua stupida categoria geometrica,<br />

ma mi impone una maggior distanza chiarendo subito<br />

che le specie nostre, la mia e la sua, non comunicano e<br />

non sono destinate a farlo.<br />

– Signor Frantziscu, lei ci ha reso un grande onore a venirci<br />

a trovare, – dice al paradosso dell’ironia, quando<br />

neanche un carabiniere nel rispetto ineccepibile delle forme<br />

mi ha mai chiamato così.<br />

L’ho vista, finalmente. L’ho riconosciuta tra le altre che<br />

la cingevano e cercavano di portarla via, nascosta agli<br />

sguardi di tutti. <strong>La</strong> marcavano come guardie del corpo.<br />

L’ho seguita, lei e il suo gruppetto ridanciano tutto pepe,<br />

chewing-gum e borse Diana bianche e rosse sulla spalla<br />

sinistra.<br />

Ho usato la pazienza del buon pescatore, la sensibilità<br />

dell’investigatore d’uccelli e la cocciutaggine del mio vecchio<br />

Salvatore.<br />

Sono salito sullo stesso autobus, sceso dalla porta di<br />

dietro mentre lei scendeva da quella davanti. Finalmente<br />

è rimasta sola, le amiche si sono separate man mano.<br />

Prosegue a piedi, si infila in una stradina di alti palazzi<br />

senza nome. Suona al citofono.<br />

– Apri, sono io.<br />

Il mio cuore è aperto da tempo, dolcissima Bonaria che<br />

non porti al dito l’anello del mio amore. Con la tua riluttanza<br />

mai diretta e mai definitiva, con quel fare spavaldo<br />

150<br />

che si oppone alle distanze e combatte contro la tua stessa<br />

nascita, mi lasci intravedere il fianco su cui adagiarmi<br />

solo per togliermelo un istante dopo e farmi precipitare a<br />

terra.<br />

Infilo un piede prima che il portone si richiuda. Faccio<br />

gli scalini due a due fino al quarto piano, dove si è fermato<br />

l’ascensore.<br />

– Desidera? – mi domanda una donna bassa e grassa,<br />

con la crocchia spruzzata di ciuffi bianchi e scuri occhi<br />

bovini.<br />

– Bonaria, – dico io ridotto all’osso, con una voce sottile<br />

che sembra non appartenermi.<br />

– Attenda un attimo, per favore. Signorina! – urla poi<br />

a gran voce verso lo stretto corridoio.<br />

Un vociare confuso arriva dall’altra parte della casa.<br />

Ed ecco comparire, inatteso, sua eccellenza il padre.<br />

– Mia figlia dice che lei la segue da settimane.<br />

– Davvero dice questo? Veramente non sono mai riuscito<br />

a vederla prima di oggi e non capisco perché…<br />

– Mia figlia dice che se avesse avuto piacere ad incontrarla<br />

lo avrebbe fatto, ma capirà bene che se non è successo<br />

significa che non ne ha alcuna voglia.<br />

– Ma se neanche mi conosce… Non le ho raccontato<br />

ancora nulla di me.<br />

– Dica a me, allora. Chi è lei? Che fa nella vita? Chi<br />

sono i suoi genitori?<br />

– Intanto le ho regalato un anello bellissimo e questo<br />

è una prova del mio amore.<br />

– Lei dunque la ama.<br />

– Voglio sposarla.<br />

L’uomo, piccoletto e scuro, si copre la bocca con la mano<br />

e agita le spalle, trattenendo il riso. Quand’ecco che<br />

appare lei. Con i piedi nudi e i jeans larghi, decorati da<br />

mille tasche che l’avvolgono come un dono del cielo.<br />

– Bonaria… – esclamo in un sussurro timido che sembra<br />

giunto dopo aver navigato per miglia e miglia.<br />

151


<strong>La</strong> sua mano quasi si congiunge alla mia, sento il calore<br />

del suo braccio che si avvicina; ha una peluria bionda<br />

e rada, le dita sottili, bianchissime, le unghie curate, ricoperte<br />

di una vernice trasparente che le fa rilucere.<br />

– Tienitelo pure, sai che me ne faccio del tuo bell’anello.<br />

Lo lascia cadere nel palmo della mia mano che era pronta<br />

a stringere la sua. Si rigira rapida e s’infila nella stanza<br />

da cui è arrivata.<br />

– Ma Bonaria…<br />

– Via, non se la prenda, è così. Tra giovani si sa come<br />

vanno queste, cose, no? Non sarà mica la fine del mondo.<br />

Ora mi raccomando, smetta di aspettare mia figlia<br />

all’uscita di scuola o mi costringerà a chiamare la polizia,<br />

intesi?<br />

– Ma lei…<br />

– Basta così, signor Frantziscu. Lei ci ha reso un grande<br />

onore a venirci a trovare. Ma non si azzardi più a tornare<br />

in questa casa.<br />

* * *<br />

Dall’altra parte dello stagno le ciminiere dell’Enel<br />

pompano fumi che corrono per l’aria annebbiando il colle<br />

e le torri di Castello. Avvolgono, in un’atmosfera spettrale<br />

e vaporosa, le tombe millenarie scavate sulla pietra<br />

bianca di Tuvixeddu aperte come finestre verso le profondità<br />

della terra. Esco di casa seguendo il loro richiamo.<br />

Oltrepasso il ponte e costeggio la laguna. Attraverso più<br />

strade in mezzo al traffico; c’è un cantiere, tra i palazzi di<br />

via Po, dove si scava, invece di costruire. Non ci sono ruspe<br />

ma operai che stanno con la schiena china. Supero anche<br />

loro e taglio tra i palazzi per Viale Sant’Avendrace.<br />

Sulla parte opposta della strada si apre il vicolo che cerco,<br />

inerpicato su una stretta rampa di scale in cemento.<br />

Gradino dopo gradino mi lascio alle spalle i palazzi. Tor-<br />

152<br />

tuosi rami di fico, cresciuti spontanei in quel luogo impervio,<br />

mi sbarrano il cammino, costringendomi a chinarmi<br />

in più punti. Non c’è neanche un frutto appeso, né<br />

per terra le chiazze di quelli caduti; è chiaro che non è la<br />

loro stagione. Un grosso muro separa l’ultima abitazione<br />

dalla zona della necropoli, chiusa da una sbarra su cui sono<br />

appesi due cartelli. Scavalco sia il divieto per lavori in<br />

corso che quello di pericolo. Non ci sono macchine, gli<br />

operai sono via chissà da quanto tempo.<br />

<strong>La</strong> luce smania sul biancore del suolo. Dall’alto del colle<br />

la laguna è un enorme corpo blu che si spinge a prepotenza<br />

nella terra, allargandosi a dismisura, come un’incontenibile<br />

ferita. Sotto ai miei piedi si aprono atri perfettamente<br />

segnati nella verticalità della pietra. Precipitano<br />

in basso come pozzi squadrati, diramandosi sul fondo<br />

in un dedalo di altre porte, passaggi, corridoi che percorrono<br />

l’intero colle; raggiungono grotte carsiche e le<br />

sorgenti che si snodano nel sottosuolo della <strong>città</strong>. Penso<br />

che potrei calarmi lì sotto con acqua e cibo, fino a quando<br />

il sangue non si sarà liberato dal bisogno dell’alcol.<br />

Avrei abbastanza spazio per agitarmi e battere i pugni<br />

contro le pareti alte e lisce che sarebbero la mia salvezza.<br />

Avrei pure abbastanza conforto dagli animali della notte,<br />

dallo stridore degli uccelli, dalle effusioni della pietra,<br />

ora che so che è capace di una rassicurante morbidezza.<br />

Avverto il preciso bisogno di mutare pelle, di spogliarmi<br />

dei veleni del vino e di quelli dell’inutilità quotidiana:<br />

devono prepararmi nuovamente all’acqua, le tombe dei<br />

progenitori. <strong>La</strong> lotta sarà senza confine, dentro un corpo<br />

che trema al solo pensiero di ciò che non gli sarà più concesso.<br />

So che sbraiterà come se si trattasse di una questione<br />

di vita o di morte; e lo è, infatti, anche se nel verso<br />

opposto a quello che reclamano le sensazioni. Chiedo<br />

agli occhi di assopirsi, al sole di non penetrarmi con la lama<br />

della luce che dà solo l’apparenza delle cose. Bramo<br />

quel buio cavernoso che si spalanca ai miei piedi e che, se<br />

153


sapessi tuffarmi in una tomba, farebbe anche la mia salvezza.<br />

Forte mi abbraccia la tentazione del profondo, calamita<br />

del sangue verso la pietra dura, del tutto simile alla<br />

trazione della luna che solleva a sé le acque quando si<br />

fa vicina. Proprio la luna vedo comparire in trasparenza:<br />

una stretta falce bianchissima che sfida il sole. <strong>La</strong> laguna<br />

è mutata, forse di un’increspatura appena, come per l’aggiunta<br />

di una pennellata di vernice bianca sulla tela blu.<br />

Forse mi contempla: non può rimanere insensibile al mio<br />

guardarla. Sa che sto per tornare; sa che sarà la custode<br />

del mio vecchio corpo, in attesa della nuova nascita.<br />

Di corsa ripercorro le strette scale che portano alla strada;<br />

attraverso affannato e mi dirigo verso quella piana stagnante<br />

che pullula di baracche e prostitute. Getto nell’acqua<br />

l’anello che Bonaria non ha saputo portare all’indice<br />

e mi dico che tornerò a sfidare la vita.<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> notte dormo male. Evito di ritornare a casa perché<br />

lì sogno Salvatore, e il suo viso, ombroso e lacerato, mi<br />

accusa. Mi sdraio sulla panchina di Piazza del Carmine,<br />

a cui ormai ho diritto, ma non guardo più in alto. Il silenzio<br />

intorno alle cose mi permette di sopravvivere come<br />

se certi fatti non accadessero: rende un grande servizio<br />

alla coscienza che non esita a ricoprire, tralasciare,<br />

imbiancare i particolari e via via anche i fatti più salienti,<br />

fino a negare l’evidenza di quel che commetto. Alla<br />

mattina aspetto che qualcuno mi levi il cartone dagli occhi,<br />

per alzarmi. Spesso è il vigile della zona il quale,<br />

sebbene mi ritenga uno non molesto, si dà un gran da fare<br />

a sgomberare le panchine per le vecchie che fanno la<br />

spesa, ritirano la pensione alle poste e si accomodano in<br />

piazza senza aver nulla da dirsi.<br />

Alcuni giorni fa è stato l’anniversario della morte di<br />

Salvatore e non ho trovato il coraggio di portare i fiori in<br />

154<br />

cimitero. Quelli del villaggio ci saranno stati tutti, a pregare<br />

l’eterno riposo per l’anima sua. Avranno notato la<br />

mia assenza e avranno pensato che sono un ingrato, che<br />

l’ho dimenticato dopo che mi ha allevato, insegnato un<br />

mestiere, dato da mangiare.<br />

Non so più neanche che giorno sia quando apro la porta<br />

di casa e trovo Maria che mi aspetta.<br />

– È passato un sacco di tempo e quelli dell’Assessorato<br />

non ti hanno ancora visto.<br />

Mi butto sul letto incapace a rispondere, eppure avrei<br />

abbastanza forza per scaraventarla fuori. Detesto il suo<br />

modo di intromettersi nella mia vita.<br />

– <strong>La</strong>sciami stare, – le dico.<br />

Mi risponde che non ne ha affatto l’intenzione. Dice<br />

che sa che ho picchiato delle persone; anche a Sant’Elia<br />

molti ragazzi vengono pagati per farlo. Dice che non può<br />

soffrire di vedermi ridotto in questo stato, e non ho scelta<br />

ma un’unica via: staccarmi dalle bottiglie.<br />

– E che cavolo ne sai, tu? Non picchio nessuno, io. E<br />

non bevo.<br />

Un tonfo duro e inaspettato annienta ogni mio pensiero.<br />

Maria mi ha colpito con uno schiaffo ben dato. <strong>La</strong><br />

gola mi si stringe in un passaggio di liquidi carico di<br />

dolore. <strong>La</strong> rabbia si catapulta fuori dagli occhi e la investe,<br />

anche se so che non è lei, che odio.<br />

– Guarda qui, – mi dice poi mettendomi davanti agli<br />

occhi la pagina di un giornale.<br />

Riconosco ancor prima di leggere quei capelli crespi e<br />

ariosi della ragazza che da sempre è la mia. Non voglio<br />

guardare. Giro la testa, mi difendo.<br />

– No, non voglio.<br />

– Leggi, – dice severa Maria.<br />

Mi copro con il cuscino, grido per nascondere la sua voce.<br />

Lei ha iniziato a leggere di come alcuni brutti ceffi,<br />

scesi da un’auto bianca targata Roma, abbiano massacrato<br />

di botte la mia amata Bonaria riducendola in fin di vita.<br />

155


– Bonaria Murru è ora ricoverata all’Ospedale Civile in<br />

prognosi riservata. I quattro che l’hanno picchiata fanno<br />

parte del gruppo di via Umbria, dove le forze dell’ordine<br />

hanno individuato la sede operativa del gruppo estremista.<br />

Nel corso dell’incursione sono stati sequestrati<br />

un’imprecisata quantità di plastico, due fucili, sette pistole<br />

e diverse centinaia di pallottole.<br />

Quel dolore che mi scorreva in gola si raggela in un<br />

nodo che mi impedisce di respirare. Tossisco confuso,<br />

cerco una bottiglia mentre l’intera stanza si impenna come<br />

su un’onda d’alto mare e precipita in un colpo secco<br />

che si abbatte sulla mia schiena.<br />

– Vorrei imparare a vivere un poco alla volta, rivedere<br />

Bonaria e portarla a casa con me, – sussurro su parole<br />

mozze.<br />

Dico a Maria che quando sarò di nuovo un uomo libero<br />

busserò a casa sua e tornerò a giocare con i suoi figli,<br />

a preparare le anguille per la panada come un tempo facevo<br />

con Salvatore.<br />

– Cosa credi, che la preparava da solo?<br />

Le strappo un sorriso. Se non mi vergognassi di puzzare<br />

di vino la bacerei.<br />

Ho deciso in un attimo: mi calerò nella profondità della<br />

pietra. Porterò con me coperte, cibo e acqua in quantità.<br />

Resterò lì fino a quando non avrò superato le crisi<br />

dell’alcol. Avrò solo la pietra da graffiare, strette pareti<br />

contro cui sbattermi per la disperazione. E così non farò<br />

male a nessuno.<br />

Domenica mattina salgo alla terrazza del Bastione, con<br />

l’orologio che ho levato dalla parete della cucina, l’elica<br />

dell’aeroplano, la divisa del babbo di Salvatore e una cesta<br />

piena delle cianfrusaglie trovate in laguna. Riesco a<br />

vendere quasi tutto, a fine mattinata ho in tasca più di<br />

trentamila lire.<br />

Il giorno dopo compro da mangiare, acqua e una maglia<br />

pesante. A casa preparo un fagotto con l’essenziale.<br />

156<br />

Salgo sul colle con la fatica di una coscienza pesante e i<br />

miei pochi averi. Donna <strong>Giulia</strong> è con me. Ad ogni scalino<br />

rivedo lo sguardo di Bonaria e sento una distanza che<br />

si approfondisce. Quando giungo al termine della salita<br />

ho la certezza che non la rivedrò mai più. Passo sotto la<br />

sbarra che delimita la zona d’accesso per via dei pretesi lavori<br />

in corso, fermi in realtà da anni. Le tombe del passato<br />

scendono verticali nella terra. Scelgo con accuratezza<br />

quella che sarà la mia. Una volta calatomi dentro non dovrò<br />

più risalire, fino a quando non sarò di nuovo pulito.<br />

Ogni tanto mi volto per scorgere, alle mie spalle, la distesa<br />

piatta della laguna che dorme ricca di insinuazioni<br />

e venature, degli uccelli del giorno e di quelli della notte,<br />

degli esseri dell’acqua e degli sciami d’insetti odiosi.<br />

Mi spingo oltre il primo gruppo di ingressi, lunghi<br />

sulla fiancata del colle. Poco oltre si apre la serie delle cavità<br />

che sprofondano in basso come pozzi, ripidi verso il<br />

ventre della terra. Tra quelle, una, l’ultima della fila, mi<br />

si offre come la più seducente, per le mie esigenze. <strong>La</strong><br />

scelgo al pari di un signore che sceglie una camera d’albergo,<br />

per le aperture e i cunicoli che scorgo in basso e<br />

l’elevata profondità che mi tratterrà quando le crisi si faranno<br />

insopportabili.<br />

Butto giù il fagotto, che si adagia discreto. Poggio per<br />

terra, delicatamente, la coperta che protegge il mio bene<br />

più prezioso. Con la mani sgombre mi volto ad abbracciare,<br />

per l’ultimo saluto, quel perimetro irregolare che<br />

pullula di escavatori, dragatrici, ruspe e nuvole di polvere.<br />

Potrei stare giorni interi ad osservare i cambiamenti<br />

della laguna ora dopo ora, man mano che il sole declina<br />

e la luna risorge. Ma non ho ragioni per indugiare oltre<br />

e così salto giù, sicuro di aver scelto un luogo dalle pareti<br />

talmente lisce e alte che non mi permetteranno di risalire<br />

da solo se non quando avrò recuperato le energie<br />

necessarie. Porto con me, avvolta nella coperta, la testa<br />

157


di quella Donna <strong>Giulia</strong> che non ho mai terminato di ripulire<br />

dalle incrostazioni del tempo. Ho anche i raschietti<br />

per lavorare, ritrovati nel grande disordine della<br />

casa e scrostati dalla ruggine.<br />

* * *<br />

Esploro i cunicoli che si dipartono da questo anfratto.<br />

Come un ragno nel mezzo di una ragnatela scivolo lungo<br />

ramificazioni strette e rettilinee, giungo a incroci rivelatori<br />

di molteplici possibilità. Alcuni passaggi, tra una<br />

stanza e l’altra, sono squadrati e bassi, tanto che per attraversarli<br />

devo strisciare con la pancia per terra. <strong>La</strong> stanza<br />

successiva non vede l’aria, riceve dalle altre una luce<br />

opaca. Sulle pareti si aprono due ingressi. Ne imbocco<br />

uno, rannicchiato come se fossi in trincea. In pochi passi<br />

risorgo all’interno di una nuova stanza con vista sul cielo.<br />

Persino ai morti si assicurava la reciproca compagnia,<br />

contro il timore della solitudine.<br />

Ogni stanza è simile alla precedente, spoglia, d’una<br />

terra compatta, sporca e polverosa. Mi arresto pensando<br />

che potrei perdermi nel dedalo delle viuzze basse e irriconoscibili,<br />

senza la mia roba. Così decido di tornare indietro.<br />

Mi abbasso nuovamente per ripercorrere l’andito<br />

più luminoso di prima; striscio sul terreno per entrare<br />

nella stanza che ho eletto a mio rifugio e, dopo essermi<br />

scrollato la polvere di dosso, mi guardo intorno, dubbioso<br />

delle sue pareti e su come mi sarà possibile, stretto fra<br />

quelle, trascorrere il tempo della punizione. Frugo tra gli<br />

attrezzi e prendo scalpellino, coltello e raschietto. Riprendo<br />

a dedicarmi all’incisione che occuperà ogni parete<br />

della tomba. Continuerò a lavorare affinando i segni,<br />

ampliandoli e trascinandoli su tutti i muri, i soffitti e gli<br />

anfratti più nascosti, fino a quando non sarò in grado di<br />

risalire alla superficie della vita.<br />

<strong>La</strong> prima crisi mi coglie senza sorpresa. Si appalesa sul<br />

158<br />

filo del pensiero. È un tenue trasporto che sgretolo con<br />

la determinazione della volontà. Ho la forza per rigettare<br />

l’impulso e sputarlo assieme al fiele che mi fa urlare.<br />

Concentro ogni attenzione sulle incisioni che con il taglierino<br />

imprimo sulla parete. È un progetto ambizioso,<br />

quello di disegnare l’enorme paesaggio della laguna.<br />

Quando avverto che cominciano le difficoltà serie, cerco<br />

di reprimerle con la pretesa dell’autocontrollo. Ma intanto<br />

la mano che stringe la punta d’acciaio non è più in<br />

grado di segnare le linee che ho in mente. Le dita e il<br />

braccio, non solo quello con cui lavoro, ma anche il sinistro,<br />

che poggio alla parete, sono avulsi da un tremore<br />

che non conosce rimedio. <strong>La</strong> mascella trema. In breve<br />

non c’è muscolo del corpo che non si ribelli al mio controllo.<br />

<strong>La</strong> mente però è ancora lucida: ripete di essere del<br />

tutto impotente davanti al bisogno gridato dal corpo.<br />

Mi aggrappo alla bottiglia dell’acqua; subito la sputo.<br />

Mi fa schifo. <strong>La</strong> getto via. Capisco tutto quel che accade<br />

e le sue ragioni. Intuisco quale sia il comportamento più<br />

sensato. Tento anche di metterlo in pratica quando distendo<br />

la coperta per terra, richiudo il temperino e metto<br />

via gli oggetti appuntiti e affilati. Mi avvolgo su me<br />

stesso, con le gambe tra le braccia e i polsi stretti nelle<br />

mani. Sono avviluppato dentro l’unicità primordiale, mi<br />

dondolo sulla schiena. Mormoro il nome di Bonaria, poi<br />

lo strillo a pieni polmoni, nonostante siano costretti e<br />

anch’essi feriti. Mi spavento quando l’eco me lo rende così<br />

altisonante e sfuggente. Cerco di acchiapparlo prima<br />

che svanisca del tutto, ma non ho speranza. Lo rincorro<br />

sulle immagini che, frastagliate come nere rocce franose,<br />

emergono da un mare altrettanto scuro. Sudo dalla pelle<br />

e dagli occhi, consumo ogni alito di energia e piango fino<br />

a che non ho più un nome da strillare, sulla bocca spalancata<br />

ed asciutta.<br />

Quando la luce del giorno si dirada, allora trovo un poco<br />

di sollievo. Distendo il respiro e allungo le gambe rat-<br />

159


trappite. Bevo dell’acqua, molta acqua, fiumi interi e sorgenti<br />

prosperose. A occhi aperti immagino di sentirla scivolare<br />

internamente, dalle ossa del cranio fino alla punta<br />

dei piedi, da dove esce nera di sporcizia. Ogni residuo di<br />

lorda meschineria si dilegua lentamente, durante l’abbandono<br />

che succede alla devastazione del corpo.<br />

* * *<br />

Ho ripercorso il labirintico susseguirsi dei cunicoli scoprendo<br />

i segni di esistenze impreviste, graffiti dei più<br />

primitivi e scritte che bestemmiano nel nome di Dio;<br />

lenti di occhiali che riparano dal sole e penne di gabbiano<br />

imperlate del grigio trapasso dal cielo al suolo. Gli anfratti<br />

sulle pareti sono abitati da oggetti di tempi recenti:<br />

candele dallo stoppino annerito, perfettamente dritto<br />

e rigido come se avesse retto un’alta fiamma fino a ieri,<br />

qualche scarpa senza la compagna, cartoni, stracci, ciotole<br />

di latta e piatti di plastica, lattine con parsimonia ripulite.<br />

Tutto suggerisce l’esistenza di un popolo invisibile<br />

che ha profanato a lungo, prima di me, la sacralità di<br />

questo luogo.<br />

Scalzo sulla terra, abbraccio gli arnesi che mi aiuteranno<br />

a incidere gli astratti segni del decorso della malattia,<br />

come ho preso a chiamarla da quando ho deciso di liberarmene.<br />

Donna <strong>Giulia</strong> mi guarda ghignante dal basso,<br />

detestabile. Ha addosso l’ultimo raggio del sole, già oltre<br />

la verticale del fosso. È di una lucentezza che non le<br />

si addice, reclama una pietà capace di sfibrare ogni resistenza.<br />

Fingo di poterla ignorare voltandole le spalle e<br />

dedicandomi a quei segni che ho appena tracciato su una<br />

superficie all’apparenza piatta e ben lisciata. Ma mi volto<br />

di continuo per incontrare un’energia senza nome, una<br />

richiesta, umile e predatoria allo stesso tempo, che si insinua<br />

e pone domande cui solo le lente ricostruzioni del<br />

corpo possono rispondere.<br />

160<br />

Affondo lo scalpellino nella pietra. Piccoli granelli mi<br />

impolverano il collo del piede. Spingo con tutta la forza<br />

che ho perché penetri nel cuore della pietra; lo rigiro una<br />

volta che è bene inchiavardato, per allargare la ferita e far<br />

sdrucciolare ancora polveri e pietruzze. Spingo con accanimento,<br />

tanto che mi dolgono il polso e il palmo della<br />

mano in cui stringo il manico. Sudo, raccolgo le gocce<br />

salmastre sulle labbra; so bene che non tutte sono giustificate<br />

dallo sforzo. Mi tremano mani e gambe, i pensieri<br />

mi abbandonano per una vividezza di immagini paurose<br />

e confuse le cui forme sono languidi schizzi, privi dei<br />

contorni che appartengono alla vista e alla comprensione.<br />

L’oscuro mi terrorizza. Donna <strong>Giulia</strong> ride e la sua risata<br />

rimbomba di tomba in tomba fino a sprofondare in quell’anfratto<br />

che più mi appartiene, radicato sotto la pelle.<br />

<strong>La</strong> supplico di essere compassionevole, di ospitarmi con<br />

tanto di circolazione sanguigna pulsante e diffusa. Lei invece<br />

fruga inclemente permettendosi oscenità indicibili,<br />

ogni volta che la coscienza si allontana; azioni vandaliche<br />

che riconosco con precisione, ad ogni attimo di lucidità.<br />

A guardarla come mi costringe mostra un’ampia chioma<br />

sempre più spaziosa e arruffata, occhi che cambiano colore<br />

e trapassano nelle sintonie della terra, labbra che parlano<br />

e conoscono tutte le parole della lotta, tutte le provocazioni<br />

che non transigono sulla smemoratezza dei luoghi<br />

né degli accadimenti. Ripasso uno dopo l’altro i volti<br />

di quegli uomini che ho pestato di botte, immagino la<br />

mia Bonaria con il braccio ingessato e il viso livido, come<br />

quello dell’ultimo ragazzino che ho rovinato di suon<br />

di cazzotti per tremila lire.<br />

Non trovo bottiglie da nessuna parte, non posso annusare<br />

l’odore acre del vino. Le mie mani cercano di sfondare<br />

la pietra per permettermi di uscire dal tugurio che mi<br />

è insopportabile, stretto intorno a me più della pelle che<br />

mi tiene sulle ossa. Sono piegato in due per i dolori che affliggono<br />

stomaco, fegato e forse anche la milza, data l’in-<br />

161


distinguibile ampiezza del male. Le unghie affondano nei<br />

buchi scavati sulla parete. <strong>La</strong> bocca è amara e un senso di<br />

nausea mi fa detestare uno ad uno i fantasmi delle persone<br />

che ho amato. Precipito d’una lentezza infinitesimale<br />

con le ginocchia sulla terra, poi è la schiena che s’incurva<br />

e in ultimo la testa. Mi stringo nuovamente su me stesso,<br />

legandomi alle braccia come un uovo, senza alcuna asperità<br />

né spiraglio.<br />

<strong>La</strong> peggiore delle crisi passa, dopo avere sferrato attacchi<br />

di inesorabile violenza, con la stessa mitezza con cui<br />

un fiore esala l’ultimo profumo. Mi ha lasciato stremato,<br />

ammutolito, a lungo incapace di figurarmi un qualcosa<br />

che fosse altro da una matassa di disordini senza nomi né<br />

sembianze.<br />

Vedo là, nell’angolo dove sempre il sole per ultimo si<br />

attarda, il ghigno mutato di Donna <strong>Giulia</strong>, confuso nelle<br />

polveri dei molti strati di sedimentazione della materia.<br />

162<br />

Capitolo III<br />

Il cimitero delle auto è impacchettato tra strade bianche<br />

e nuove corsie d’asfalto, trattenuto a fatica da una logora<br />

rete metallica. A nulla valgono le ribellioni delle ritorte<br />

lamiere delle vetture e delle loro arrugginite, informi<br />

e disordinate carcasse. Il tempo le logora meticoloso,<br />

allarga le ferite, comprime gli spazi una volta detti abitacoli.<br />

Ogni cosa ha cambiato destinazione. I segni lasciati<br />

dai padroni di allora si confondono con le zampate<br />

dei gatti notturni. All’interno delle macchine, sotto i pedali<br />

dei comandi dove non arriva mai il sole, sono cresciuti<br />

soffici strati di muschio. Si conservano ciocche di<br />

capelli bruni sui poggiatesta, tappi di bottiglia, stracci e<br />

carte nelle tasche delle portiere, scontrini dei negozi alimentari<br />

con l’importo e la data sbiaditi dal sole, gomme<br />

americane sui cruscotti, indurite dagli anni. Alcune auto<br />

ostentano le tracce inconfondibili del fuoco, divoratore<br />

rapido e inesorabile. Paraurti penduli raccontano di<br />

pali della luce, di tronchi d’albero più resistenti della ve-<br />

163


locità. Ogni veicolo giace come luogo immobile del passato,<br />

algido testimone di finali più o meno esplosivi; serba<br />

finestrini sfondati e portiere divelte che celano chissà<br />

quali tragiche circostanze. Incidenti che forse ancora sopravvivono<br />

nel racconto di chi era lì quando l’autobotte<br />

si è rovesciata sulla Carlo Felice, la gomma è scoppiata, i<br />

freni sono scivolati lisci senza accennare a una risposta.<br />

Oppure transitano in differenti memorie, affidate solo al<br />

malfermo divenire del tempo.<br />

Siamo sempre nei pressi della laguna, ma abbastanza<br />

lontano dal ponte della Scaffa per considerare le ruspe<br />

nient’altro che piccole lumacone, gialle e inoffensive. Poche<br />

case in cemento corrono lungo i binari, squadrate e<br />

di una triste semplicità. Sono le abitazioni di periferia,<br />

quelle del degradare della <strong>città</strong> che cede il posto alla campagna<br />

spruzzata da alti canneti e capannoni industriali.<br />

L’aria però conserva il sapore che si respira ai bordi dell’acqua.<br />

Barbara Satta, la dottoressa inviata d’urgenza dalla Soprintendenza<br />

ai Beni Archeologici, compie altri tre passi<br />

verso le morte auto accatastate.<br />

– Eccoci, dovrebbe essere qui sotto, a quanto ci risulta,<br />

– sussurra alle due assistenti che scodinzolano al suo<br />

seguito.<br />

<strong>La</strong> raggiungo e noto il nerbo accorato del suo bisbiglio.<br />

– Chissà da quanto tempo questi rottami stazionano sui<br />

resti della villa dei Giudici.<br />

Questa volta parla forte. Non attende risposte. Poi si rivolge<br />

a noi, operai con l’elmetto giallo in mano convocati<br />

per l’inizio dei lavori nel suo nuovo scavo.<br />

– So che alcuni tra di voi non hanno mai visto uno scavo<br />

né hanno idea di come ci si lavori. In ogni caso non<br />

preoccupatevi, ci muoveremo in squadra, dunque non abbiate<br />

timori a domandare, qualsiasi difficoltà o dubbio, ai<br />

colleghi con più esperienza o alle mie assistenti. Da anni<br />

in questa parte della <strong>città</strong> vengono trovati reperti di gran-<br />

164<br />

de valore. Esistono le prove per ritenere che proprio qui<br />

sorgesse la <strong>città</strong> sull’acqua di Santa Igia, o Gilla che dir si<br />

voglia. Nei prossimi mesi scaveremo alla ricerca del Palacium<br />

Regni Kallaritani, ovvero la residenza in cui abitarono<br />

i Giudici, i signori del regno di Cagliari negli anni<br />

dopo il mille. Se qualcuno dovesse desiderare approfondire<br />

l’argomento, non mancherà l’occasione per saperne di<br />

più. Ora però…<br />

L’abbaiare di un cane distoglie l’attenzione dal discorso<br />

della nostra direttrice. Oltre le vetture, legata ad una baracca<br />

malferma di legno e lamiera, una bestia possente,<br />

tutta nervi, denti ed occhi di fuoco, ci ha puntato. Si avventa<br />

contro con ferocia. Retrocediamo all’unisono. Il cane<br />

si arresta con le zampe anteriori per aria. <strong>La</strong> catena che<br />

lo tiene al collo oscilla a mezzo metro d’altezza; per nostra<br />

fortuna l’ha bloccato. Ci fermiamo, alcuni fanno degli<br />

altri passi indietro. <strong>La</strong> bocca spalancata lascia scorgere<br />

i bei denti robusti dalle punte affilate; abbaia incutendo<br />

sufficiente timore per dissuadere chiunque dall’avvicinarsi.<br />

Tra di noi si leva un vociare confuso e sibilante. Ora<br />

che ci sentiamo al riparo, tentiamo di zittire l’animale<br />

con versi inutili e sciocchi. Un operaio alto e risoluto grida<br />

verso la baracca per attirare l’attenzione di un eventuale<br />

guardiano, ma nessuno risponde. <strong>La</strong> donna della Soprintendenza<br />

confabula con le due ragazze, dà loro delle<br />

disposizioni per cui quelle assentono e partono, appaiate<br />

come comari. Poi si rivolge a noi, riuniti per la prima volta<br />

sotto le sue direttive.<br />

– Iniziate a rimboccarvi le maniche, pare che gli inconvenienti<br />

comincino prima del previsto.<br />

– Eh sì, con quella bestia lì non ci può mica obbligare<br />

a lavorare!<br />

– Infatti, bisogna che lavoriamo tranquilli, altrimenti<br />

non si fa nulla.<br />

– È un nostro diritto, la sicurezza sul lavoro.<br />

I colleghi si danno man forte, incrociano le braccia, pre-<br />

165


tendono condizioni diverse. <strong>La</strong> Satta li lascia parlare, lamentarsi,<br />

recriminare. Sembra accogliere tutte le obiezioni.<br />

Ma quando è in procinto di dire la sua, la porta della<br />

baracca si spalanca e compare un grosso uomo con le spalle<br />

nude, pelose e annerite dal sole, un nuragico in una cascante<br />

salopette. Si arresta sull’uscio a scrutarci uno per<br />

uno. Sembra contarci. Man mano che ci individua, uno<br />

dopo l’altro, confabula con il cane, quel mastino nero che<br />

nel sentire la porta aprirsi gli è andato incontro. Anche<br />

se adesso non ringhia e si finge mansueto, ha un aspetto<br />

tutt’altro che affidabile.<br />

L’uomo solleva delle carte.<br />

– Ho tutti i diritti e i permessi in regola, io! – dichiara<br />

strafottente, non appena Barbara Satta, autorizzata ai<br />

lavori in via d’urgenza, gli si avvicina. Le due ragazze sono<br />

appena ritornate, scortate da un vigile e da un funzionario<br />

comunale responsabile di far sgombrare il terreno.<br />

Le verifiche archeologiche devono iniziare immediatamente,<br />

in quell’angolo di <strong>città</strong>, per rimediare ai decenni<br />

di ritardo. Così ci spiega una delle giovani assistenti,<br />

entrando nel merito di una complicata faccenda di palazzo<br />

di cui capisco solo che qualche assessore ha condizionato<br />

il proseguimento dei lavori per il porto canale all’apertura<br />

di questo cantiere.<br />

L’uomo in salopette si avvicina, sventola le carte che<br />

comprovano ogni sua legittimazione. Ingombranti carni<br />

flaccide danzano sui suoi fianchi nudi. Il vigile gli va incontro<br />

e lo prende da parte; il funzionario comunale si<br />

accoda. Complottano, discutono, l’uomo sbraita qualcosa<br />

circa i diritti scritti nelle autorizzazioni e alla fine sentenzia:<br />

– Io da qui non mi muovo.<br />

– Lo sapevo, ci avrei giurato che finiva così, – fa l’operaio<br />

accanto a me, già con l’elmetto in testa.<br />

– E che credono, a questo vogliono levargli casa e lavoro<br />

da un giorno all’altro, – osserva il compare dall’occhio<br />

languido e l’aspetto tutt’altro che scaltro.<br />

166<br />

– Macché lavoro, cosa vuoi che faccia uno così… Darà<br />

da mangiare al cane, tutt’al più.<br />

Poco convinto, l’altro assente.<br />

L’abitante del luogo manda al diavolo vigile e funzionario,<br />

gira i tacchi e ritorna verso la baracca.<br />

– Finalmente, deve aver capito.<br />

<strong>La</strong> Satta raggiunge gli inviati del Comune, pronta a<br />

metter mano sul presunto insediamento medioevale. Ma<br />

l’uomo, con una mossa inaspettata, afferra in mano la catena<br />

sfilandola dalla porta. Si rigira. Avanza contro di noi<br />

trattenendo il cane e allenta man mano il guinzaglio a<br />

cui è legata la bestia, più prepotente e spavalda di prima.<br />

Abbaiano assieme. Intimano di allontanarci dalla loro<br />

proprietà, se non vogliamo fare una brutta fine. Ad ogni<br />

passo che compiono in avanti noi retrocediamo di due,<br />

marziali. Il cane allarga le mascelle e ringhia con ferocia.<br />

Ci punta contro occhi rossi e fermi che non promettono<br />

niente di buono.<br />

– Non può comportarsi così, lei sta minacciando un<br />

pubblico ufficiale, – urla il poliziotto indietreggiando.<br />

– Finirà in galera, – aggiunge poi, senza sortire altro effetto<br />

che far indiavolare maggiormente l’uomo.<br />

– Questo è il mio terreno e da qui non mi muovo, – ribatte<br />

quello rinforzato da un grugnito dell’animale. – Andatevene<br />

e non tornate!<br />

Salutiamo in coro. Sono tutti ben felici di aver esordito<br />

guadagnando un giorno di paga senza far niente. Mentre<br />

io, avvolto dal silenzio che mi ronza attorno con mille incertezze<br />

e tentazioni, rimpiango di avere davanti tante ore<br />

vuote.<br />

* * *<br />

Hanno notificato a tutti l’obbligo di lasciare la casa dove<br />

abitiamo, al villaggio dei pescatori. Ci hanno dato un<br />

mese di tempo per sgomberare e il termine è scaduto una<br />

167


settimana fa. Promettono che ci renderanno abitazioni ristrutturate<br />

e con tanto di servizi, al termine dei lavori.<br />

Nel frattempo il villaggio è stato recintato ed è inaccessibile<br />

a chiunque. Ragioni di sicurezza, dicono. Devono far<br />

saltare il ponte, costruire la nuova strada, aprire l’ingresso<br />

per il porto canale, trasportare materiali ultra pesanti.<br />

Demolitrici e martelli pneumatici sostano in vista del taglio<br />

che presto infliggeranno al vecchio ponte, ridotto a<br />

contare i giorni che gli rimangono. Da mattina a sera è<br />

un trambusto di motori, betoniere, perforatrici e ruspe.<br />

<strong>La</strong> notte però tutto questo baccano cessa e allora è di nuovo<br />

il mare, o il verso di qualche uccello che ingenuamente<br />

cerca il suo nido, a levarsi.<br />

Scavalco la rete quando è già sera e l’ultimo degli operai<br />

ha lasciato il campo; quando anche la polvere, che ha<br />

volato senza sosta di qua e di là come una mosca indispettita,<br />

si è adagiata di sotto ai vecchi tetti di lamiera<br />

e sui cartoni, tra le crepe dei muri. Dormo ancora nella<br />

mia casa, rischiarata solo dallo stoppino con cui illuminavo<br />

il pozzetto della barca, e mi allontano prestissimo<br />

alla mattina, non appena il sole bagna il villaggio dei<br />

suoi rossi trapassi.<br />

L’enorme cantiere si è esteso sulla terra e sull’acqua.<br />

Estrae sabbie e detriti e scarica piloni di cemento. Spiana<br />

chilometri di terra sassosa. Ogni giorno dà una nuova<br />

configurazione allo spazio. Una propaggine di almeno<br />

quattro ettari ha già ricoperto gran parte della depressione<br />

in precedenza prosciugata dall’acqua, e mentre le<br />

condotte artificiali convogliano i materiali solidi delle<br />

torbide acque circostanti, escavatori e bulldozer ridisegnano<br />

i confini della laguna. Stratificano con vigore su<br />

quello che era il basso fondale, impastano nuove terre e<br />

sabbie. <strong>La</strong> superficie dell’acqua si riduce visibilmente da<br />

un giorno all’altro.<br />

Volgendo lo sguardo all’interno di Santa Gilla, non<br />

posso evitare di prostrarmi alla vista del motopontone<br />

168<br />

Poseidone, un brutto muso di ferraglia galleggiante che<br />

traghetta avanti e indietro una gru da quaranta tonnellate.<br />

Come un enorme fenicottero nero affonda il becco<br />

nella laguna e risale, carico di materiale gocciolante che<br />

riversa sulle chiatte, piatti camion dell’acqua una volta<br />

addetti al trasporto di preziose montagne di sale. Oggi<br />

sono adibiti al traghettamento monotono e continuo di<br />

terriccio scuro. Dicono che Poseidone scaverà un canale<br />

di quasi venti metri di profondità, dove ieri non c’erano<br />

che venti centimetri d’acqua.<br />

Attraversa di continuo il villaggio, oltrepassando anche<br />

l’ex carcere minorile, un camion più grosso degli altri;<br />

trasporta gli enormi macigni squadrati da gettare in<br />

mare per la costruzione del molo: un braccio lungo quattro<br />

chilometri proteggerà l’ingresso del porto industriale<br />

dalle infuriate del mare da sud-ovest, colpevoli di aver<br />

fatto crollare i numerosi ponti del passato.<br />

L’appartamento in mattoncini rossi al quartiere popolare<br />

del Cep mi verrà assegnato grazie all’intervento di<br />

Maria. Dacché mi ha ritrovato, dimagrito e sfatto, come<br />

dice lei, mi protegge come fossi suo figlio. Devo a lei anche<br />

il posto di operaio nel gruppo di scavo appena formatosi<br />

per riportare alla luce i resti della discussa villa<br />

dei signori del Giudicato di Cagliari. Lei che vanta il miglior<br />

pane della <strong>città</strong> ormai ha conoscenze altolocate e ha<br />

imparato a strappare promesse a coloro cui spetta riempire<br />

le schede degli aventi diritto a un posto di lavoro o<br />

agli alloggi popolari.<br />

Mi si vuole far vivere dall’altra parte della <strong>città</strong>, a decine<br />

di metri di altezza. Preferisco di gran lunga affrontare<br />

l’umido del villaggio e la sua agonia, piuttosto che<br />

le altezze destabilizzanti di quei palazzi disumani dalle<br />

cui finestre, aperte nel vuoto, posso scorgere solo in lontananza<br />

l’acqua su cui invece ho abitato dacché sono nato.<br />

L’unica cosa che non mi dispiace dei grattacieli del<br />

Cep è il vento. Vi arriva così baldanzoso, fiero di tutta la<br />

169


incorsa guadagnata in pianura, che si permette ogni<br />

confidenza: passa fischiando tra i palazzi e bussa alle finestre<br />

con insistenza.<br />

– Chi è questo cliente così potente che ti fa tanti favori?<br />

– domando a Maria contenendo la salivazione in tripudio<br />

per l’odore del pane appena sfornato.<br />

È un momento in cui non entra nessuno nel negozio;<br />

può permettersi di lasciare il piccolo Fisieddu dietro il<br />

banco e passare con me nel retrobottega, dove le macchine<br />

impastano a tutta forza e un’enorme forno dalla bocca<br />

d’acciaio cuoce senza alcun crepitio.<br />

– Inutile che ti dica il nome, basta che mantenga le<br />

sue promesse.<br />

– Spero che non ti chieda in cambio niente più di un<br />

buon cifràxiu.<br />

– Perché cerchi sempre di offendermi, Frantziscu?<br />

Una nuvola bianca si leva dalla montagnuzza di farina<br />

che Maria getta nell’impastatrice e risale a velarle il viso.<br />

– Scusami.<br />

Abbasso lo sguardo, rabbuiato dalla vergogna.<br />

– Credi che prendertela con me serva a rifarti delle prepotenze<br />

degli altri?<br />

<strong>La</strong> sua frase mi suona oscura o, meglio dovrei dire, insinuante.<br />

– Io sento di esserci nato, nel villaggio. È come se fossi<br />

venuto al mondo dall’acqua di quella laguna.<br />

Mi capisce, lo vedo dallo sguardo, ma comprensione e<br />

benevolenza non bastano a confortarmi.<br />

– A volte penso che sia un bene che Salvatore sia morto<br />

prima di tutto questo, – sussurro piano, quasi timoroso<br />

di essere sentito, eppure solo per suscitare una sua<br />

replica.<br />

Lei tace e mi guarda severa. Questa volta il suo silenzio<br />

mi dà un’audacia crescente.<br />

– Penso anche che dovresti odiarmi per le cose che dico,<br />

e per quelle che faccio.<br />

170<br />

– Se non ci sopportiamo a vicenda almeno tra noi…<br />

Chiedo ancora conforto al suo abbraccio. Me lo concede<br />

dolcemente ma poi mi impedisce ogni esubero ulteriore,<br />

con un semplice cenno della testa e un mezzo sorriso<br />

che precede lo scatto con il quale si allontana dalla<br />

mia mano, fin troppo arrogante.<br />

Fisieddu mi confeziona una busta di pasta dura tutta<br />

punte e bitorzoli, ancora calda e croccante. Me la porge<br />

con uno dei suoi sorrisi sdentati che mi inducono al buon<br />

umore.<br />

– Frantziscu, Frantziscu, quando vieni a mangiare da<br />

noi? – domanda saltandomi al collo.<br />

– Presto, presto piccioccheddu, – gli rispondo sollevandolo<br />

ancora più in alto.<br />

Sapere che Maria mi vuole veramente bene, anche se<br />

non vuole fare più l’amore con me, è una ventata di leggerezza<br />

che mi addolcisce l’animo. Incontrarla mi riordina<br />

la mente. Non smetto di sperare che riesca a farmi assegnare<br />

una casa in cui possa addormentarmi cullato dal<br />

rumore del mare.<br />

* * *<br />

Giuseppe Puddu è stato salatamente multato e attende<br />

di essere processato per minacce e resistenza a pubblico<br />

ufficiale. Il suo cane non se la passa meglio, rinchiuso al<br />

canile municipale, in una stretta gabbia con decine di altri<br />

della sua specie. Il caso è passato sul giornale e nell’edizione<br />

pomeridiana del gazzettino, e così è di pubblico<br />

dominio il fatto che nulla più ostacola l’inizio dei lavori<br />

di scavo là dove prima sorgeva un cimitero di auto.<br />

Una ruspa, pervenuta d’autorità dal cantiere dove si lavora<br />

alla costruzione del nuovo ponte, ha fatto piazza pulita<br />

dei rottami delle macchine. L’intero perimetro è stato<br />

liberato dalle carcasse metalliche e noi possiamo cominciare<br />

a fissare paletti e spaghi secondo le direttive della Satta.<br />

171


Tutti la chiamano dottoressa, nonostante affondi anche<br />

lei mani e paletta nella terra. Gaspare, quello con l’elmetto<br />

sempre in testa, dice di conoscerla da precedenti<br />

scavi. È una tutta d’un pezzo quando lavora, esigente e<br />

precisa. Non ne fa passare una liscia.<br />

– Oh, non lo diresti mai, ma stai pure tranquillo che<br />

non appena esce dal recinto sa bene come godersi la vita.<br />

Pare che all’apertura di ogni nuovo cantiere valuti attentamente<br />

a chi, fra i nuovi venuti, elargire i propri favori.<br />

– Una vera nave scuola. Vai, vai, che c’è sempre da imparare,<br />

– mi fa ridendosela fra i denti, stuzzicandomi a<br />

suon di gomitate sul fianco, senza lesinarle occhiate che<br />

vorrebbero dire più di quel che possono, quando quella si<br />

china, nella lunga gonna rigonfia, a prendere le misure<br />

sulla terra.<br />

– E non solo con i dottori come lei, ma soprattutto<br />

con i manovali come noi, che non parliamo certo in versi<br />

latini ma scaviamo bene dentro altre profondità.<br />

Gaspare se la ride pesantemente, sostenuto da Gino, il<br />

compare dallo sguardo languido che ammicca e si compiace<br />

traendo la sordida, visibile goduria di chi non sa<br />

osare ma non si lascia sfuggire l’occasione di una smorfia<br />

malevola.<br />

Osservo quella donna curva sulla terra, avvolta nell’ampia<br />

gonna a campana, e fatico a immaginarla come<br />

loro la descrivono. Non stacco quasi più lo sguardo da<br />

lei, non certo per le maldicenze alle quali ho ragione di<br />

non credere: entrambi hanno infine negato di averci avuto<br />

a che fare. Quel che mi attrae è l’alterità che da lei<br />

emana: una pregnanza capace di ordinare ogni gesto nel<br />

senso della sua giusta corrispondenza, del tutto naturalmente<br />

e senza artificio. Sistema che a noi altri, abitatori<br />

di un mondo ben più instabile e diverso, è di gran lunga<br />

inaccessibile. Mi accorgo che è lì dove scorre l’orizzonte<br />

ultimo della mia comprensione, lì dove finisco di<br />

172<br />

saper nominare forme e significati, che il suo mondo invece<br />

si dilata e spazia, galoppando come un cavallo senza<br />

redini né sella, sulle piane interminabili dei mondi<br />

primitivi.<br />

E nel bel mezzo, fra il mio e il suo, iscritto a un mondo<br />

ben dissimile e di nuove appartenenze, scorgo l’universo<br />

di colei che credevo essere la donna della mia vita.<br />

L’ho rincorso da lontano senza sospettare di arrancare dietro<br />

a un’idea senza corrispondenza. Bonaria mi è sempre<br />

rimasta talmente distante da non permettermi neanche<br />

di dire che mi sia stata sottratta. I motivi, a me a lungo<br />

sconosciuti, della scarsità degli sguardi che mi ha concesso<br />

e degli occhi indifferenti con cui mi guardava, li intuisco<br />

solo adesso. Ora so di non avere mai avuto la possibilità<br />

di essere amato da lei. Ora capisco che l’unico<br />

punto d’incontro possibile tra di noi era ostruito da una<br />

distanza che annichiliva la stessa probabilità della comprensione.<br />

In fondo l’odioso ragioniere suo padre aveva<br />

ragione.<br />

Col tempo ho però scoperto che ogni limite ha le sue<br />

debolezze e così tutto ciò che prima era invalicabile, ora<br />

è soprattutto una provocazione. Se avessi riconosciuto il<br />

divario esistente fra noi, avrei potuto raccogliere le energie<br />

per colmarlo all’origine. Ma allora solo sognavo e<br />

dunque non sapevo agire. Adesso che conosco invece, desidero<br />

realmente per la prima volta.<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> terra secca induce a raspare più in profondità. Non<br />

si lascia affondare facilmente: reclama il diritto ad essere<br />

lasciata in pace. Mi fa trovare pietre aguzze, durezze impenetrabili<br />

alle dita. Le punte di ferro si insinuano senza<br />

il suo assenso. Contorcendosi, deviano alla ricerca di percorsi<br />

più blandi. <strong>La</strong> terra è estremamente arida e pietrosa.<br />

Non sono i movimenti dolci dell’acqua, ma quelli<br />

173


iottosi di ciò che è secco e determinato. Sudo e penso<br />

che non saprò oppormi a lungo a simili resistenze. I miei<br />

colleghi invece non sembrano disturbati dalla pervicacia<br />

della contesa. Scavano, loro, imprimendo ferite di cui<br />

non si rendono conto, elargendo commenti che non risparmiano<br />

niente e nessuno. Chi arriva dalle miniere invece<br />

maneggia la terra con parsimonia, teme di ritrovarsi<br />

nelle sue profondità. Ne ricorda il nero e la durezza,<br />

più di ogni cosa.<br />

Abbiamo le provenienze più diverse, noi che ci ritroviamo<br />

ogni mattina a grattare sotto la polvere, con mani<br />

che cominciano a fremere per il piacere di scendere in<br />

direzioni ancora prive di un verso preciso. Alcuni come<br />

me vivevano circondati dall’acqua, altri respiravano l’odore<br />

del ferro o quello del legno, altri ancora gettavano i<br />

semi in fila nel suolo concimato, o tagliavano la lana delle<br />

pecore al sopravvenire della stagione calda; ognuno festeggiava<br />

a modo suo il buono auspicio della nuova annata.<br />

Adesso, per essere stati nominati nel medesimo documento,<br />

firmato e bollato da una ignota autorità amministrativa,<br />

noi tutti ci incontriamo in questo cantiere<br />

definito da una nuova recinzione, dov’erano un cimitero<br />

d’auto e un cane nero e rabbioso tenuto alla catena. Impariamo<br />

che le cose possono d’un tratto riaffiorare dal<br />

basso della terra, dopo essere rimaste invisibili per secoli,<br />

e che il loro apparire scuote tanto l’animo da restituire<br />

ad ogni pur lunga attesa, la sua ragione. Capiamo di<br />

aver sofferto il giusto tempo della preparazione e ci affranchiamo<br />

dal sospetto di essere finiti alla sola mercé<br />

della follia di un pazzo, estroso o maniaco delle cose perdute.<br />

Indugiamo vigili e appassionati perché crediamo<br />

che da un istante all’altro, da sotto i nostri piedi, risaliranno<br />

doni capaci di mutare il corso degli eventi.<br />

Affastellato al calcare di superficie, libero secchi di terra<br />

polverosa. Smeriglio con minuzia granelli indifferenziati<br />

che si lasciano frantumare in parti sempre più infi-<br />

174<br />

nitesimali. Faccio una scoperta che mi pare sorprendente:<br />

la complessità dell’acqua, nel fluire continuo che ignora<br />

il raffermarsi su pose rigide, fa della varietà sterminata la<br />

sua essenza più intima; mentre la terra, così chiusa e definita<br />

in colori e brandelli, per quanto ridotti a corpuscoli<br />

appena percettibili sulle falangi delle dita, non abbraccia<br />

per sua natura un respiro di pari ampiezza né altrettanto<br />

docile e malleabile.<br />

Torno a incidere e approfondire, con la dedizione e la<br />

precisione di un chirurgo, il solco da cui immagino, da<br />

un momento all’altro, emergere un ricco tesoro di monili<br />

e maschere d’oro, vasi, anfore e antiche pergamene che<br />

mi renderanno il primato che mi compete, in mezzo a<br />

quel pugno di colleghi presuntuosi e attaccabrighe. Esulto<br />

dell’accelerazione di qualche battito del cuore, emozionato<br />

ad ogni ostacolo contro il quale la paletta si arresta;<br />

trasalisco per un attimo come se avessi toccato le ritrovate<br />

mura di una antica <strong>città</strong> più leggendaria della famosa<br />

Troia, aprendo le vie della conoscenza alla posterità.<br />

Ma ritraggo il muso ingobbito di delusione, non appena<br />

realizzo di aver strappato dalle grinfie aguzze della terra<br />

nient’altro che pietre insignificanti, di varie grossezze e<br />

lunghezze, più o meno piatte o bitorzolute. <strong>La</strong> carriola si<br />

riempie presto dei sassi che intralciano il cammino dei<br />

nostri sentieri sotterranei. Verranno poi scrutati da occhi<br />

più esperti, alla ricerca delle tracce con cui il tempo iscrive<br />

il proprio misterioso alfabeto. Marco, conoscitore dei<br />

segni di lingue antiche, attribuisce date millenarie ai fossili<br />

e ai reperti trovati.<br />

* * *<br />

<strong>La</strong> voce accesa della Satta mi nutre della notizia di una<br />

certa lista, frutto di un saccheggio saraceno, dove si contemplano<br />

vasellami preziosi, armi, possenti velieri, lane<br />

pregiate. Le parole mi giungono a morsi, le ricucio con<br />

175


una fantasiosa opera di assemblaggio. Intendo delle potenti<br />

flotte che dai porti dall’Africa sferravano i loro attacchi<br />

per il Mediterraneo centrale, del califfo di Fatima<br />

Al Qaym che dopo Genova attaccò il porto di Cagliari,<br />

impadronendosi innanzitutto del bastimento diretto al<br />

porto papalino.<br />

– Is Morus, is Morus! – si era gridato per i vicoli della<br />

<strong>città</strong> all’apparire delle vele nemiche. L’imbarcazione, carica<br />

di una lana talmente pregiata che il papa in persona,<br />

avendone avuto notizia dai suoi fidi commercianti, ne<br />

aveva inoltrato richiesta al governatore dell’isola per far<br />

confezionare i mantelli destinati agli alti dignitari di<br />

corte, era salpata non appena era stato lanciato l’allarme.<br />

Tuttavia non riuscì a prendere il largo e fu assalita di<br />

fronte alla Sella del Diavolo. Il suo equipaggio finì ai pesci<br />

e i mori si impossessarono del prezioso carico. Poche<br />

ore dopo il califfo sferrò il duro attacco alla <strong>città</strong>. Aveva<br />

al suo comando centoventi navi inviate dalla Spagna e<br />

mille cavalieri. I musulmani fecero razzia nelle case, uccisero<br />

molti cittadini e ne imprigionarono altrettanti;<br />

smossero i fondali tutt’intorno al porto e recuperarono<br />

quel che era stato gettato in mare perché sfuggisse alla<br />

loro avidità.<br />

Il bagliore delle sue parole mi affascina. Risplende di<br />

una luce che possiede ricordi precisi, ricchezze rinate dall’incuria<br />

del tempo. Mi volto, la vedo. Trasmette un vivido<br />

calore al primo manto della pelle, scosso da un fremito<br />

che dà un sussulto e subito svanisce. Sorrido d’imbarazzo.<br />

Lei, parecchio più bassa di me, corruga le sopracciglia.<br />

È un’espressione benevola, ma lo percepisco troppo<br />

tardi, quando ogni fantasia è già retrocessa alla solita postazione<br />

di lavoro.<br />

– Le domando scusa, mi sono incantato, – dico sorpreso<br />

da uno sguardo inquietante e ravvicinato, nero come<br />

il carbone e sinistro non solo per via della profondità.<br />

Afferro la paletta e raspo imbarazzato, turbato dalla sua<br />

176<br />

presenza sovrastante, oscillando come se mi trovassi in bilico<br />

sul palmo della sua mano. Ha corti capelli castani, lisci<br />

e mossi dal vento; una pelle olivastra che secerne oleosità.<br />

Tiene lontana l’idea di un contatto, repelle quella di<br />

una carezza. È una donna goffa, di una larghezza eccessiva.<br />

Una mangiatrice di uomini, ne dicono i miei colleghi.<br />

Eppure non riesco a scorgere in lei che le fattezze di una<br />

vecchia balia di paese, nonostante non sia anziana. Non<br />

avrà più di trentotto anni. Con un certo sforzo potrei avvicinarla<br />

alla tesoriera di una di quelle case dove gli uomini<br />

pagano care le rassicurazioni sulla loro virilità.<br />

Mi accorgo che quando è lontana cerco la sua voce. Attendo<br />

di riconoscerla tra le altre per decifrare, nella finta<br />

indifferenza a cui mi costringe il lavoro, i molti argomenti<br />

che ha a disposizione. Non so come evitare di cercarla.<br />

Parla a voce alta, per essere sentita da tutti. Chiunque<br />

può sapere, non c’è argomento che non debba essere<br />

svelato se è pertinente allo scavo, all’affondare nella terra,<br />

ai segni nascosti nel suo ventre e seminati in epoche<br />

ben lontane da noi. Al contrario, nell’acqua tutto nuota<br />

e non c’è discorso che valga la pena di essere pronunciato:<br />

quel che galleggia può sprofondare da un momento<br />

all’altro, fluttuare instabile attraverso le profondità o risalire<br />

a cercare la luce. <strong>La</strong> terra raccoglie e conserva le<br />

iscrizioni del tempo, mentre l’acqua le trascina via nel<br />

suo perenne fluire: le consegna a rive avide e gelose; o le<br />

disfa man mano, con le carezze del movimento.<br />

Arriva ogni mattina allo scavo qualche minuto prima<br />

di chiunque altro e così ho preso l’abitudine di arrivare<br />

in anticipo anch’io, nella speranza di incontrarla. Persino<br />

la sua bruttezza, che non si può disconoscere né simulare,<br />

mi attrae tanto da lasciarmi dolcemente sorpreso.<br />

Anch’essa fa parte di quel mondo sconosciuto e a me<br />

misterioso che ricopre, avviluppandolo nel fascino della<br />

diversità, qualsiasi cosa le appartenga.<br />

Arriva da sola, apre il lucchetto che protegge il sito<br />

177


dalle incursioni della gente della notte e si aggira tra gli<br />

scavi, ancora superficiali, che si approfondiscono giorno<br />

dopo giorno. Si avvicina alla terra con lo sguardo attento<br />

di chi scruta nei recessi di un’anima. <strong>La</strong> osservo da oltre<br />

la recinzione, senza essere notato, cercando di captare<br />

nei suoi pensieri i commenti che a lei giungono dall’esperienza.<br />

Quando risolleva il capo e mi vede, avanzo<br />

fingendo passi indifferenti come se non avessi atteso,<br />

pieno di emozione, quel momento.<br />

Il suo volto è sempre identico a un’unica espressione di<br />

accigliata severità. Sia che lavori assorta nell’intimo contatto<br />

con la terra, che abbia un libro sotto gli occhi o delle<br />

carte da studiare, sia che discuta con uno di noi, con<br />

un’assistente o con il funzionario inviato a controllare<br />

l’andamento dello scavo.<br />

– Di quel che accadde nell’Alto Medioevo non abbiamo<br />

pressoché alcun documento. Quel che resta è qui sotto,<br />

sono le testimonianze impresse nella materia.<br />

Si china senza aspettare una replica e solleva da terra<br />

una pietra che spolvera con un lungo soffio. <strong>La</strong> fa preziosa<br />

con lo sguardo, mentre la rigira nella mano.<br />

– A volte le cose che appaiono insignificanti parlano, a<br />

chi abbia orecchie per ascoltare. Io ho una grande capacità<br />

di percepire i segni, e questo è il fondamento del<br />

mio mestiere.<br />

– Io conosco i segni dell’acqua, – dico forte della mia<br />

esperienza in laguna, gratificato dal poter aggiungere<br />

una frase che mi appartiene.<br />

Lei mi inonda col suo sguardo cupo, mi squadra da capo<br />

a piedi, incuriosita, sembrerebbe, o quanto meno perplessa.<br />

– <strong>La</strong>voravo in laguna prima del colera, – aggiungo dopo<br />

avere aspettato invano la sua domanda, prima che<br />

metta fine a quell’accenno di conversazione. E mentre<br />

attendo una sua osservazione, noto lo sguardo silenzioso<br />

con cui torna a poggiarsi sulla terra.<br />

178<br />

Retrocedo al posto che mi spetta. Acchiappo gli attrezzi<br />

e riprendo a sgranare la roccia su un profilo spigoloso<br />

appena emerso.<br />

* * *<br />

Tombe, monete, anfore e iscrizioni emergono durante<br />

gli scavi per le fondamenta dei magazzini degli uffici<br />

amministrativi della stazione ferroviaria. <strong>La</strong> picconata a<br />

cui si deve la scoperta è stata sferrata dall’operaio Floris<br />

di Collinas il quale, sulla scia dell’entusiasmo, si è iscritto<br />

ai corsi serali di preparazione all’esame di scuola media<br />

inferiore, convinto di poter in tal modo servire meglio<br />

la causa dell’archeologia. Tutto Quotidiano gli dedica<br />

un’intera pagina, lo intervista e pubblica anche la sua fotografia.<br />

Le ipotesi di insediamenti punici, note fin dal secolo<br />

scorso e da tempo confermate dai ritrovamenti di Campo<br />

Scipione e via Po, si sostanziano di nuove testimonianze:<br />

trascinati dalle brezze del libeccio, ai remi di lunghe navi<br />

lignee annunciate da grosse corna, i Cartaginesi sbarcarono<br />

sulla spiaggia di Giorgino in un mattino dai bianchi<br />

riflessi. Ammaliati dal riverbero della laguna, scelsero di<br />

abitare le coste di Santa Gilla, luogo di sole e ridossato dal<br />

vento che spesso infuria sulle coste dell’isola. Krly nacque<br />

sul bordo dell’acqua. Era porto fiorente e bacino tra i più<br />

ricchi di pesci gustosi e prelibati; il suo pensiero venne affinato<br />

dai capi religiosi e dai magistrati Sufeti.<br />

<strong>La</strong> Satta legge il giornale e il suo sguardo si dilata, un<br />

sorriso si appropinqua alle labbra. I suoi commenti li rivolge<br />

alle assistenti, quelle due comari sculettanti che<br />

camminano in pariglia, parlano riempiendosi l’una delle<br />

parole dell’altra; si vestono persino in modo simile e se<br />

ci devono parlare, quando proprio non possono evitarlo,<br />

lo fanno senza neanche guardarci.<br />

Alle otto del mattino si ghiaccia, a stare di fuori. L’ho<br />

179


attesa anche oggi, ma è arrivata più tardi del solito. Entra<br />

quando tutti sono già al lavoro e così non ho più l’occasione<br />

per parlarle. Inoltre Gaspare e Gino mi stanno<br />

appiccicati come francobolli. Li scopro sempre alle mie<br />

spalle ogni volta che mi alzo, mi sposto o solo rigiro la<br />

testa. È come se controllassero ogni mia mossa. Siccome<br />

rifiuto il loro vino hanno deciso di non darmi tregua. Mi<br />

fa male, non posso bere, dico. Ma sembra che non capiscano.<br />

Continuano a offrirmi la bottiglia, vogliono che<br />

me la appenda alle labbra come fanno loro.<br />

– Perché non mi lasciate in pace? Quante volte ve lo<br />

devo dire?<br />

– Ma che modi. Noi siamo gentili, e tu… Sai che non<br />

ce la conti per niente giusta… Qualcuno dice di averti<br />

conosciuto in ben altre condizioni.<br />

– Sono delle scemenze.<br />

Taglio corto, mi dileguo. Afferro gli strumenti e mi<br />

chino sul breve perimetro intorno al quale scavo da settimane.<br />

Gaspare mi raggiunge. Batte con il rastrellino sul palmo<br />

della mano, a segnare un tempo che è quello della sfida.<br />

– Allora è per lei che sei un po’ nervosetto, ragazzino?<br />

L’abbiamo visto tutti come la guardi. Dicci, dicci, te la<br />

dà o te la fa solo desiderare?<br />

Lo evito senza essere troppo brusco, trattengo quel primo<br />

impulso che sarebbe di colpirlo con la testa all’altezza<br />

dello stomaco. Gino si accoda, in maniera meno volgare<br />

ma altrettanto fastidiosa, insinua anche lui che ci<br />

stia provando, con la dottoressa. E siccome io nego e cerco<br />

di allontanarmi, loro mi provocano, mi sfottono e mi<br />

spintonano fino a quando non perdo l’equilibrio e cado a<br />

terra. Gino e Gaspare se la ridono, gli altri commentano,<br />

tutti gli occhi e le battute sono per me.<br />

Anche lei si gira richiamata dalla mia protesta e, come<br />

una maestra severa, intima l’ordine a tutti indistintamente.<br />

Ci confonde, come se fossimo fatti della stessa pa-<br />

180<br />

sta o se avessimo insinuato le medesime volgarità. Mi<br />

rialzo, scuoto i calzoni dalla terra. Inutile spiegare che<br />

non c’entro niente. Inutile tentare di raccontare che io la<br />

rispetto e la difendo mentre loro la insultano; e che ciò<br />

traccia distanze incolmabili tra di noi.<br />

Riprendo a lavorare col capo chino, nel silenzio che la<br />

pratica sull’acqua mi ha insegnato. Evito il lamento che<br />

solo aggiungerebbe altro rumore. Quando arriva l’ora di<br />

scartare i panini e di concedersi quella breve pausa di riposo<br />

all’ombra, sotto il pergolato che è tutto ciò che è rimasto<br />

della baracca del vecchio custode del luogo, me ne<br />

resto per conto mio. Non so come evadere dal torbido<br />

della vergogna. Mi ripeto di continuo che non oserò mai<br />

più rivolgerle un solo sguardo.<br />

– Tieni, bevi. Così capiamo che non ce l’hai con noi.<br />

Gaspare mi offre ancora del vino. È vano cercare di<br />

spiegarsi, con lui: insiste. Insiste tanto che mi costringe<br />

a prendere la bottiglia in mano. <strong>La</strong> porto alle labbra. L’odore<br />

acre del vino mi fa trasalire. D’istinto la scaravento<br />

via, lontano, dove nessuno può più raccoglierla. Il vetro<br />

scavalca la recinzione che abbiamo messo su qualche settimana<br />

fa, seguito da una cometa rossa che ricade a terra<br />

dopo una parabolica esibizione. Il rumore dei frantumi<br />

rompe il silenzio nel quale si è svolta la scena. Gaspare<br />

mi insulta e mi molla un cazzotto. Si avvicina alla recinzione<br />

per contemplare i cocci della bottiglia e la schiumetta<br />

sanguigna che gorgoglia, ubriacando l’asfalto. Gino<br />

si alza per non perdersi nulla della faccenda e così tutti<br />

gli operai, che altro non attendono se non lo spunto per<br />

un buon cicaleccio tra un pezzo di pecorino e un morso<br />

al panino con la cotoletta.<br />

Gaspare mi afferra per la tuta, mi solleva di venti centimetri<br />

dalla panca, mi fa ruotare fino a portarmi davanti<br />

al suo brutto muso e mi molla, uno dietro l’altro, una<br />

scarica di ceffoni. Mi accascio a terra, sfinito.<br />

– Deficiente! Ma chi ti credi di essere? – urla mentre<br />

181


l’odore del sangue mi sale alla gola, si insinua lungo le<br />

narici e mi spezza il respiro. Fatico a trovare l’aria, la<br />

bocca riversa al suolo risucchia leggeri nembi di polvere;<br />

la testa è pesante come un macigno. Accenno a spostarmi,<br />

ma prima di riuscirci una pedata mi colpisce sul<br />

fianco. Affonda in un tonfo sordo anche l’urlo del dolore<br />

che non riesco ad emettere. Mi lascia tramortito, disteso<br />

per terra, incapace di un movimento o un pensiero. Perdo<br />

la cognizione del tempo fino a quando qualcuno non<br />

mi raccoglie e mi mette a sedere, con la schiena poggiata<br />

sul bordo della panca. Non so chi, ma qualcun altro si<br />

prende la briga di passarmi un fazzoletto inumidito sul<br />

viso. Quando riapro gli occhi, soffocato dall’odore nauseabondo<br />

che mi risale per il naso, con la sensazione di<br />

un muggine tumefatto e bollito, sono tutti al loro posto<br />

con gli attrezzi in mano, come se niente fosse successo.<br />

Stordito ma con le ossa intere, nonostante quel che da<br />

principio temevo, barcollo fino alla mia postazione, tra<br />

gli sguardi furtivi degli altri.<br />

– Tutto a posto, Frantziscu? – mi domanda una delle<br />

due assistenti della Satta, d’improvviso più graziosa e<br />

meno civettuola.<br />

– Sì grazie, non è successo niente.<br />

Attendo che si allontani per ripulirmi di un rivolino di<br />

sangue che sento colare dal labbro. <strong>La</strong> seguo con lo<br />

sguardo mentre confabula con la dottoressa; quella mi<br />

viene incontro. Ad ogni passo mi sovrasta, devo abbassarmi<br />

per non essere visto, devo ridurmi a un brandello<br />

di terra, scomparire, dileguarmi. Scappo, lascio lo scavo<br />

e non torno più. Oppure mi sollevo, le getto le braccia al<br />

collo, le dico che vorrei sapere tutto di lei, del suo lavoro,<br />

del Palazzo dei Giudici, delle geometrie della terra.<br />

– Non deve succedere mai più una cosa del genere,<br />

chiaro?<br />

<strong>La</strong>scio crollare la testa, dico che ha ragione, non accadrà<br />

più. E con un respiro più pesante sollevo gli occhi fino a<br />

182<br />

incontrare i suoi. Grazie a Dio mi sorride. Se rivoltando<br />

la terra estraessi i tesori che vi sono nascosti, mi dico, lei<br />

non potrebbe non innamorarsi di me.<br />

Qualche giorno dopo giunge notizia che dagli scavi di<br />

via San Paolo, poco lontani dai nostri, è emersa una stele<br />

di tofet col segno di Tanit. A turno andiamo a renderle<br />

omaggio come se fosse la reliquia di un santo. Persino<br />

i più burberi fra gli operai, dapprincipio ostili ma ormai<br />

piegati a dialogare con la terra anch’essi, si avvicinano a<br />

curiosare, durante la pausa di mezzogiorno.<br />

<strong>La</strong> stele è una lunga pietra piatta e dalla punta arcuata<br />

su cui sono incisi i segni di una comprensione primordiale:<br />

l’amplesso di sole e luna, atto generante il principio<br />

dei tempi, che sovrasta la triangolare dea madre dalle<br />

braccia filiformi e piegate verso l’alto.<br />

Per chi, come noi, da settimane non estrae altro che<br />

terra e pietre senza la benché minima gratificazione, la<br />

scoperta oltrepassa qualsiasi valore archeologico. Non c’è<br />

dubbio che siamo vicini al momento in cui la villa dei<br />

Giudici emergerà come la mitica Atlantide. Il mio lavoro<br />

si moltiplica, scendo nella terra con le dita, coi ferri e<br />

l’acqua. Respiro la polvere felice di farlo, tossisco e sputo<br />

la saliva tra le mani, per impastare il fango. Affondo<br />

le pale, sostituisco una dopo l’altra le punte di metallo,<br />

afferro il manico della piccozza. Se trovassi anch’io qualcosa,<br />

penso, avrei almeno una possibilità. Mi sollevo,<br />

punto bene i talloni, mi preparo per assestare il colpo fatale.<br />

Il metallo batte su un pietrone. Il colpo mi risale attraverso<br />

le braccia, rimbomba vertebra dopo vertebra<br />

nella mia schiena.<br />

– Frantziscu!<br />

<strong>La</strong> Satta urla il mio nome. Sollevo lo sguardo da terra.<br />

Capisco, davanti al suo sguardo incredulo di rabbia.<br />

– Mi scusi, non capiterà più.<br />

– E se proprio in quel punto ci fosse stato quel che cerchiamo?<br />

183


– Lo so, devo essere più attento, fare piano, non lasciarmi<br />

prendere dall’impazienza. È che io…<br />

– Che non ti veda più col piccone in mano, altrimenti…<br />

I romani coronarono Kalares delle prime fortificazioni<br />

e l’abitarono fino all’età della tarda repubblica allorquando,<br />

per l’intensificarsi delle incursioni dei berberi e<br />

degli arabi islamizzati del nord Africa, l’insediamento si<br />

spopolò. Il Palacium Regni Kallaritani, residenza dei<br />

Giudici, compare in alcune delle fonti dell’XI secolo.<br />

Allora sul trono giudicale regnava Torchitorio I de Locon-Gunale.<br />

Accanto al palazzo sorgeva l’episcopo, la<br />

cattedrale intitolata a Santa Cecilia, la colleggiata di<br />

Santa Maria di Cluso e il castello, probabile sede di altri<br />

uffici pubblici tra cui una cancelleria statale e una<br />

scuola annessa alla cattedrale. Ieri, nello scavo di via Po,<br />

avvolti in logore lenzuola all’interno di una cassapanca,<br />

sono stati ritrovati due testi d’insegnamento: il De Abaco,<br />

con cui si imparava a far di conto, e il <strong>La</strong>pidario, trattato<br />

sulle virtù e le qualità di alcune pietre con le quali<br />

si curava il morso di vipere e serpenti e si scongiuravano<br />

le malattie. Sotto i due, tra le tovaglie che ricoprivano<br />

l’altare e gli asciugamani di lino con cui si serviva la<br />

messa, è stato rinvenuto il De gratia et de predestinazione<br />

di Sant’Agostino.<br />

* * *<br />

Salto oltre la rete come un felino azzoppato. Goffamente<br />

mi inerpico a scavalcare ferri, sassi, grossi macigni.<br />

<strong>La</strong> piazzetta è scomparsa, invasa dai mezzi pesanti.<br />

<strong>La</strong> chiesa è stata ricoperta da un’impalcatura eretta a<br />

protezione della Madonna. Scruto nella penombra lunare<br />

col naso all’insù, e quasi inciampo su una trave. È<br />

quella che teneva la porta di casa; è stata divelta e gettata<br />

via. Trovo la porta poco oltre, assieme a molti dei<br />

184<br />

cartoni che coprivano gli spifferi nelle pareti. Sabbie,<br />

secchi e vanghe, in quella che era la mia stanza, rendono<br />

evidente la profanazione del mio rifugio. Non potrò<br />

indugiare oltre, ad abitarlo. Il pensiero corre subito ai<br />

miei tesori, i sopravissuti. Faccio scoccare lo zolfo di un<br />

fiammifero e lo stoppino della lampada a petrolio sbianca<br />

un batuffolo d’aria davanti al mio naso. Un chiarore<br />

d’altri tempi schizza sui muri. Un’ombra se la ride alle<br />

mie spalle, proiettata per lungo. Donna <strong>Giulia</strong> mi aspetta,<br />

imbellettata della polvere smossa anche quest’oggi,<br />

ingrigita dall’attesa e dall’insulto degli uomini che sono<br />

entrati prima di me. <strong>La</strong> bacio col labbro ancora indolenzito<br />

dalle botte che ho preso. <strong>La</strong> sua bocca mi suggerisce<br />

la via del trionfo. Mi si offre come il dono anelato,<br />

la speranza attesa. Eccomi, mi dice. Rendimi alla<br />

terra, restituiscimi a nuova vita, tra le mani di chi saprà<br />

amarmi come tu un tempo hai fatto e adesso non sei più<br />

in grado di fare.<br />

<strong>La</strong> allontano dal mio viso, frappongo una distanza per<br />

guardarla interamente, per cogliere ogni sua espressione.<br />

Sei seria? le domando senza parole.<br />

Seria per i secoli che mi hanno preservata fino a questo<br />

momento, mi risponde in altrettanto silenzio.<br />

Ma tu dunque non mi ami? non posso fare a meno di<br />

domandarle.<br />

Non indagare nei sentimenti del passato, mi risponde<br />

senza titubanze. Fai quel che ti dico, rendimi alla terra:<br />

quello è il mio posto.<br />

Capisco in ritardo che se parla in questa maniera è perché<br />

mi ama profondamente.<br />

Accendo anche l’altro stoppino che un tempo era sulla<br />

prua della barca. Le ombre si moltiplicano, e così le loro<br />

risate. Mi unisco al coro, sollecito la presenza di Donna<br />

<strong>Giulia</strong>. Lei, che sa essere giunto il momento del distacco,<br />

partecipa volentieri. Brindiamo, ci ubriachiamo di speranze,<br />

ci nutriamo di sogni d’amore. L’indomani all’alba<br />

185


sgombero la casa, abbandono il villaggio fantasma e mi<br />

trasferisco al Cep. Darò l’addio allo specchio dell’acqua, ai<br />

rossi abbracci del sole, agli uccelli che non migrano e a<br />

quelli che al loro ritorno dall’Africa si scontreranno con le<br />

gru del porto commerciale e proseguiranno il viaggio alla<br />

ricerca di altri nidi.<br />

Inizio a sistemare i pochi averi rimasti. Vuoto la cesta<br />

dov’è la biancheria, cerco inutilmente la divisa del padre<br />

di Salvatore, inscatolo piatti e bicchieri, ripulisco un<br />

paio di scarpe dal fango e le avvolgo in pagine di giornale.<br />

Dalla mensola della cucina raccatto la radio dimenticata<br />

e inutile al pari di un soprammobile, dato che l’elettricità<br />

l’hanno tolta da parecchio e le batterie si sono<br />

scaricate tempo fa. L’indomani, di buon ora, sono pronto<br />

all’addio definitivo. Ho un borsone, una scatola e una coperta<br />

che ho chiuso annodando gli angoli.<br />

Il sole è sorto dietro grigi nuvoloni, si è levato dai<br />

monti senza mostrarsi. Gli uccelli sono rimasti lontano,<br />

offesi e intimiditi. L’apixedda mi attende oltre la recinzione.<br />

Da quando ho guadagnato il primo stipendio e ho<br />

ripreso a nutrirla col carburante mi scorrazza di nuovo.<br />

Rompo la rete con le cesoie, in modo da non doverla scavalcare<br />

con tutto il carico. Le maglie della recinzione<br />

vengono via una dopo l’altra, schioppettano ad ogni taglio.<br />

Non tornerò mai più, penso. Che mi importa se si<br />

accorgeranno che qualcuno si è infilato nel cantiere? Anzi,<br />

tanto meglio se lo notano.<br />

Il desiderio di un ultimo sguardo mi induce a rientrare,<br />

con il respiro basculante tra l’affanno e l’apprensione.<br />

Si fa tardi, penso. Se mi trovano qui crederanno che sono<br />

un ladro e mi faranno perdere una giornata di lavoro.<br />

Ciò nonostante rientro tra le mura che una volta erano la<br />

mia casa e affondo l’occhio ovunque, spio tra le feritoie<br />

aperte dalla luce del mattino. Non c’è più traccia mia né<br />

di Salvatore, siamo spariti assieme all’intero villaggio.<br />

Adesso posso uscire per l’ultima volta.<br />

186<br />

Una miriade di rossi intensi cangianti al violetto si involano<br />

come fumi. Il sole brilla solo per me, è una fonte<br />

che mi ristora. Mi allontano col cuore meno pesante e un<br />

sorriso di amara soddisfazione.<br />

<strong>La</strong> <strong>città</strong> si sveglia lentamente, le strade singhiozzano<br />

nel traffico. I rossi grattacieli mi cattureranno presto tra<br />

i loro mattoncini. L’uomo che mi attende per consegnarmi<br />

le chiavi mi ha pregato di essere puntuale, altrimenti<br />

perderò il diritto all’appartamento e se ne riparlerà tra<br />

chissà quanti anni, ha detto. Naturalmente giocava a fare<br />

il gradasso. Maria ha i suoi rapporti privilegiati e non<br />

c’è scagnozzo comunale che possa mutare le promesse<br />

conquistate per amore del buon pane quotidiano.<br />

Attraverso la <strong>città</strong> ricco dei miei tesori. Donna <strong>Giulia</strong><br />

mi è accanto ancora per poco: attende il compiersi del fato<br />

di cui siamo complici dolosi. Si è messa al mio servizio,<br />

pretendendo la mia dedizione, ed entrambi ci apprestiamo<br />

a goderne i vantaggi. Barbara Satta cadrà ai miei<br />

piedi, preda del mio trabocchetto.<br />

* * *<br />

Da due giorni la mia complice attende di essere raggiunta<br />

nelle profondità della terra. Certo non avrebbe<br />

potuto immaginare di divenire oggetto di plurimi ritrovamenti,<br />

innamoramenti, dedizioni e nuove sepolture.<br />

<strong>La</strong> mattina trascorre nella quotidianità del lavoro. Gaspare<br />

ha voluto stringermi la mano perché non voleva<br />

certo offendermi, non aveva mica l’intenzione di costringermi<br />

a fare qualcosa che non mi andava, per carità. Ritorniamo<br />

amici, a dir suo. Gli tendo la mano senza perdere<br />

tempo a domandargli quando mai abbiamo iniziato<br />

ad esserlo. Dico persino che gli comprerò un’altra bottiglia<br />

di vino, per rimpiazzare quella mandata all’aria.<br />

– Sai Gaspare, una volta un poliziotto mi ha preso a<br />

cazzotti e poi mi ha regalato un Cannonau di Jerzu. Io<br />

187


continuo a incassare le botte, ma questa volta, almeno, il<br />

vino lo berrai tu.<br />

Se la ride, mi dà una pacca sulle spalle con quell’odioso<br />

atteggiamento da grande uomo tutto bicipite. Dice<br />

che aspetta il vino: la promessa è fatta.<br />

Io invece non aspetto altro che si facciano le cinque e i<br />

miei colleghi lascino il cantiere. L’unica che non mi deve<br />

sfuggire è la Satta. Rimangono appena in tre a riporre<br />

i caschi e levarsi i gilet da lavoro per indossare le giacche,<br />

cambiarsi le scarpe e volar via. È il momento buono,<br />

adesso. Vado con le dita dove so di trovare la bella testa<br />

pettinata dal tempo della mia Signora. Graffio con i<br />

polpastrelli sulla terra smossa l’altra notte appena. Arrivo<br />

in un istante, quando decido. Scopro il capo, la sua<br />

forma rotonda sbuca inequivocabile. Che non è una pietra<br />

qualsiasi lo vedrebbe anche un bambino.<br />

– Dottoressa, presto, venga a vedere.<br />

Ha già smesso il camice da lavoro.<br />

– Presto, guardi qui.<br />

Marco si avvicina per primo. Getta uno sguardo là dove<br />

gli indico e la chiama: – Barbara, vieni, pare che ci siamo.<br />

Mi è alle spalle, si abbassa chinandosi su di me. L’odore<br />

del suo corpo giunge contemporaneamente da ogni<br />

direzione, mi riempie e mi emoziona. Ne assorbo ogni<br />

particella. L’ossigeno che respiro proviene direttamente<br />

dal suo ventre. Le sue mani solcano i percorsi che io ho<br />

tracciato sulla statua, le unghie lunghe si anneriscono di<br />

terra. Si inginocchia al mio fianco, man mano che la testa<br />

di Donna <strong>Giulia</strong> emerge dai tratti che gesti esperti le<br />

disegnano attorno. Sarà felice e soddisfatta di me? Queste<br />

due donne che si incontrano si capiranno come le ho<br />

capite io, si rifletteranno l’una nell’altra, malgrado le diverse<br />

provenienze?<br />

Barbara Satta la solleva da terra e la porge allo sguardo<br />

della luce. Pare che neppure i suoi occhi possano più<br />

allontanarsi dalla bella Donna <strong>Giulia</strong>.<br />

188<br />

– L’ho trovata io, – dico sorridendo, di quella falsa pretesa<br />

che è una gioia vera. – È venuta fuori dal mio scavo!<br />

– Bravo Frantziscu, – mi risponde Marco. – Questa<br />

volta sei stato davvero bravo. Non ci sono danni particolari,<br />

mi pare, no?<br />

– Al contrario, è così ben conservata che sembrerebbe<br />

essere stata ripulita appena ieri.<br />

– Non è possibile…<br />

– Certo che no, Frantziscu. Capita spesso che la terra<br />

protegga quello che nasconde.<br />

Il cuore smette di dimenarsi come un pesce fuor d’acqua.<br />

Rallenta piano nella scia dell’affanno. Deglutisco<br />

un groppo di vergogna. Per un attimo mi son visto scoperto,<br />

denudato.<br />

– Bene, si festeggia, allora.<br />

Chiudo il lucchetto e ci allontaniamo assieme dallo<br />

scavo. Barbara tiene Donna <strong>Giulia</strong> tra le mani; non ha<br />

intenzione di lasciarla.<br />

– Come si studia una statua? – le domando.<br />

– È come un corpo, parla. C’è una scrittura sulla polvere<br />

che ha addosso, una scrittura sui segni che ne delineano<br />

le forme e una nel materiale di cui è composta.<br />

Leggeremo quel che si può leggere, lo confronteremo<br />

con quello che sappiamo e in breve scopriremo con quali<br />

attrezzi e in che periodo è stata scolpita. Magari, con<br />

un po’ di fortuna, riusciremo anche a capire a chi appartenne<br />

questo viso.<br />

Non è stato un inganno quello con il quale Barbara mi<br />

ha accolto in questa casa somigliante all’invenzione di un<br />

folletto maldestro ed impacciato, intento ad esibire la<br />

maestria dei suoi giochi fantasiosi. Né è stato uno scherzo<br />

quel parlare pronunciato in punta di labbra; labbra<br />

grosse, abituate a reggere significati pesanti, labbra che<br />

fin dall’infanzia devono aver soffiato con ponderazione,<br />

labbra con cui ha subito sedotto il mio cedevole pensiero.<br />

Ad occhi chiusi affondo nell’odore intenso ed ubria-<br />

189


cante del suo corpo. Affluisce al mio respiro e si scioglie<br />

lungo i canali delle sensazioni per innumerevoli versi e<br />

tragitti. Mi riempio le mani delle sue forme, che sono<br />

collinose e prospere, di una flaccidità giocosa e matura.<br />

Sono accolto in lei e tanto mi concede il respiro disteso<br />

della perfetta soddisfazione. <strong>La</strong> luce bassa segna i contorni<br />

più scuri dei nostri corpi; mi si fa complice affidandomi<br />

interamente al suo abbraccio, forte di morbidezze<br />

inaspettate. Giungo nella profondità del suo ventre.<br />

Donna <strong>Giulia</strong> ci guarda, dal trono che le è stato designato<br />

nella nuova reggia.<br />

– E ora che facciamo? – domando io un po’ spaurito,<br />

preso dal pensiero di quel Marco che immagino vanti<br />

delle pretese su di lei, vergognoso all’idea della derisione<br />

degli uomini dello scavo. Tutti quanti si sentiranno in<br />

diritto di vantare la ragione loro e di far rimbombare le<br />

insinuazioni che la dicono avvezza a giochi di rapide seduzioni.<br />

<strong>La</strong> mia goffa comprensione esita imbarazzata;<br />

un accenno di sdegno mi attraversa oscurando il godimento<br />

delle carezze, mentre quella mi sorride come non<br />

avrei immaginato. Sorride della mia ingenuità, per la<br />

soddisfazione di avermi preso. Vedo la sua bocca come<br />

per la prima volta, nella penombra, intenta a plasmare<br />

un viso mutabile, inaffidabile, osceno. Sono tra le spire<br />

di una mangiatrice di uomini, scioccamente trasportato<br />

da una pigra buonafede, scosso da uno spavento che di<br />

gran lunga oltrepassa ogni mia capacità.<br />

– <strong>La</strong>scia fare a me, – dice lei ritrovando sulle labbra<br />

quel sorriso che indica la mia perdizione, lasciando scorrere<br />

la mano sul torace; il mio petto si apre al suo passaggio<br />

di una ferita inguaribile e, come le stigmate dei<br />

santi, sanguina senza provocare alcun dolore. Arriva decisa<br />

a stringere il mio sesso, già nuovamente a sua disposizione<br />

perché lo prenda come le è più caro. E tutto<br />

si dilegua nuovamente. Paura e certezze, vergogne o al-<br />

190<br />

lusioni perdono significato, si disfano nel magma informe<br />

che attraversa i nostri corpi anch’essi fluidi, disciolti<br />

l’uno nell’altro, contenitori di distese senza limiti di stazza<br />

né estensione.<br />

Al risveglio la trovo seduta ai margini di un tavolo ricoperto<br />

di fogli e matite spuntate. Ai suoi piedi altre<br />

matite gialle e nere, lunghe e senza punta anch’esse. Accanto<br />

c’è il bel volto di Donna <strong>Giulia</strong>, oggetto delle attenzioni<br />

che più le spettano. Solleva lo sguardo dall’opera<br />

su cui è accigliata e mi dà il buongiorno con un’arrendevolezza<br />

che non mi aspetto. Mi sforzo di fingere un<br />

cenno di piacere, nel riconoscere l’imperfezione del suo<br />

viso. Con disprezzo scopro di desiderare ancora quelle<br />

labbra carnose e turgide che mi eccitano e mi spingono<br />

ad avvicinarla e toccarla per calarmi, ad ogni carezza, nei<br />

particolari di una nuova vita. Si schiudono uno dietro<br />

l’altro, i cassetti dentro i quali sono celati i frammenti<br />

della comprensione di altri mondi, mentre inseguo una<br />

curiosità girovaga e divagante, decisa a sfondare confini<br />

e pregiudizi.<br />

– Questa donna era molto bella, sembra che ti assomigli.<br />

Forse sono le prime frasi compiute che riesco a dirle. Mi<br />

escono così false e semplici che acquistano pieno diritto<br />

ad esistere, anche se non passano per le vie del pensiero.<br />

– Prendi del caffè dalla cucina, se vuoi, – mi dice mentre<br />

percorro la via del bagno, stretta tra le doppie e triple<br />

file di libri stipati dal pavimento fin quasi al soffitto.<br />

– Barbara, – le dico quando ritorno chiamandola per la<br />

prima volta con il suo nome, che mi vibra dentro come<br />

una campana smossa dal batacchio. – Penso che dovresti<br />

fare di tutto per ritrovarmi, se dovessi perdermi.<br />

Lei solleva lo sguardo un po’ incredula, incerta sulla serietà<br />

della mia affermazione.<br />

– Ho dovuto lasciare la laguna: hanno già cominciato<br />

a buttar giù la casa che mi ostino a chiamare mia.<br />

– Dove vivi adesso?<br />

191


– Al Cep. Spero solo per poco, anche se alla fine decidono<br />

sempre loro.<br />

– Loro chi?<br />

– Maria e qualche suo cliente.<br />

Barbara non mi domanda più nulla, neanche mi chiede<br />

chi sia questa Maria che d’un tratto sbuca fuori come depositaria<br />

della mia vita. Interroga Donna <strong>Giulia</strong>, la squadra<br />

millimetro per millimetro, ripercorre le scanalature<br />

su cui già io sono passato.<br />

Vado via dal suo appartamento di fiaba con la delusione<br />

di un lavoro mal eseguito o quantomeno incompiuto.<br />

Scendo per le scale di appena un piano e già, davanti a<br />

una porta che non è la sua, sento mancarmi l’odore forte<br />

e appiccicoso della sua pelle, l’umido che dalle sue colava<br />

alle mie labbra.<br />

Domani la incontrerò al cantiere come ogni giorno della<br />

settimana, in mezzo a Marco e agli altri operai, e lei<br />

fingerà il più assoluto disinteresse per me. E poi chissà,<br />

alla sera, se chiederà ancora la mia compagnia o se si sentirà<br />

già sazia.<br />

Lo scopro presto, non appena ci ritroviamo lunedì mattina,<br />

quando sono quasi dimentico di lei e intristito dall’aver<br />

dormito nell’algida atmosfera di una stanza dalle<br />

pareti intonacate e bianche come quelle di una camera<br />

mortuaria, al sesto piano. Ho trascorso una pessima notte<br />

e mi sono risvegliato di malumore. <strong>La</strong> spregiudicatezza<br />

con cui mi bacia davanti a tutti alle otto e quarantanove<br />

minuti, mi fa trasalire. Marco è lì e non dice nulla.<br />

I malevoli ammiccano tra di loro come era prevedibile.<br />

* * *<br />

L’unica cosa divertente, di questa casa al sesto piano<br />

che non si sa per quanto tempo sarò costretto ad abitare,<br />

è sporgere i piedi nel vuoto. Non avrei pensato che il frusciare<br />

dell’aria sulle gambe nude oltre la finestra della<br />

192<br />

cucina potesse essere emozionante. Mi ricorda il mare<br />

nelle giornate di bonaccia, quando la superficie è piatta<br />

come quella della laguna. Il fondo marino, diversamente<br />

dell’asfalto di cui si vede tutta la ruvidezza, attraversa le<br />

intensità dei blu e non è mai definibile, neanche con la<br />

migliore percezione. Una stessa vertigine mi scuote, eccitante<br />

e subdola, e mi induce ad assaporare l’ebbrezza<br />

dell’incommensurabile.<br />

Quando ero piccolo Salvatore mi gettava in acqua perché<br />

dovevo pur abituarmi al mare, diceva. Allora mi legava<br />

a una cima e mi faceva tuffare nella scia della barca.<br />

In pochi secondi la cima entrava in tensione e mi dava<br />

uno strattone forte col quale partivo, trascinato come<br />

una zavorra; non mi rimaneva che confidare nella metamorfosi<br />

in un essere marino, superiore alle esigenze dell’aria.<br />

Invece bastava un colpo di tosse o una goccia che<br />

si insinuasse su per il naso e il gioco diventava un incubo:<br />

iniziava la lotta per la sopravvivenza. Boccheggiavo<br />

tra gli spruzzi salati, e l’aria era sempre più preziosa e irraggiungibile.<br />

L’acqua, diventata nemica, mi impediva<br />

di respirare. Mi accorgevo che era facile cedere alle sciocchezze<br />

dettate dai nervi e il panico mi attendeva al varco.<br />

Gli istanti di apnea, brevi quanto l’evanescenza di un<br />

respiro, sembravano lunghissimi per la rapidità con cui<br />

il sangue affluiva al cervello.<br />

Il mio amico Ermellino invece era tutto il contrario.<br />

Amava eccitarsi sfidando di continuo il sottile limite che<br />

giudica della prosecuzione delle cose o della loro fine, e<br />

si divertiva come un pazzo a provocare Salvatore perché<br />

desse più gas alla manopola dell’acceleratore.<br />

– Non farlo, – sussurravo in pena per lui.<br />

– No tìmista, che candu no ci dda fai prusu, mòllara issu e<br />

tottu.<br />

Salvatore mi ha insegnato che c’è sempre maniera di<br />

lottare, quando sei nell’acqua: se non arrivano i soccorsi,<br />

la prima cosa da fare è dosare le forze. Più volte capitò<br />

193


che Ermellino si sciogliesse dalla cima che lo teneva legato<br />

alla barca, quando arrivava al limite. Proprio come<br />

diceva Salvatore.<br />

Nell’aria invece tutto è diverso. È definitivo. Vedi da<br />

principio il volo che ti accingi a fare e sai che non ci sono<br />

corde da mollare o a cui aggrapparti. Non si tratta di<br />

rischiare, ma di definire l’irrevocabile. Da qui, dall’alto<br />

del sesto piano, è ben evidente.<br />

Una pioggia di corpuscoli fastidiosi e appiccicaticci mi<br />

precipita sulle ginocchia. Tiro via le gambe, sporgo la testa<br />

e lancio gli opportuni improperi a quello del piano di<br />

sopra che mi ha appena scrollato addosso i rimasugli di<br />

una tovaglia.<br />

– Figlio bastardo della campagna, che la Madonna ti<br />

abbandoni! – sento sbraitare da una voce che mi risuona<br />

subito familiare. È come se lo vedessi imprecare nella<br />

notte del miracolo, con le ginocchia sulla poppa della<br />

barca atterrito dalle onde, e poi contro le forze dell’ordine,<br />

mentre lo trascinano dentro il cellulare nel corso della<br />

manifestazione.<br />

– Peppino! – urlo io ancor prima di scorgerlo.<br />

– E chi diavolo sei tu?<br />

– Sono Frantziscu, non mi riconosci?<br />

– Frantziscu! E cosa fai qui sotto? Sali, sali che ti voglio<br />

vedere.<br />

Appena una rampa di scale e la porta si spalanca per accogliermi<br />

nell’appartamento dell’amico. Segnato dal<br />

tempo, ingentilito nei modi in qualche rispetto più civili,<br />

mi offre una sedia, del vino che rifiuto, delle gallette<br />

croccanti. Mi fa molte domande, vuole sapere quello che<br />

combino, come sono finito ad abitare sotto di lui, se ho<br />

notizie degli altri. Posso appena accennare a delle risposte.<br />

È tanto impaziente che tronca le mie parole sul nascere<br />

e parla a raffica, sospirando pesantemente fra una<br />

galletta e un sorso di vino.<br />

– Ho venduto tutto quello che avevo, ho venduto le<br />

194<br />

barche a quelli di Sant’Elia, ho venduto anche le reti e i<br />

paranchi.<br />

Mi scruta tirando le labbra verso l’angolo della bocca,<br />

annuisce col capo come chi sia in procinto di svelare un<br />

segreto impronunciabile.<br />

– Non credere sai, lo sapevo che al villaggio mi prendevate<br />

tutti in giro. Anche tu Frantziscu, avrai riso alle<br />

mie spalle. Ma che importava se pensavate che ero pazzo?<br />

Tanto poi, di nascosto, venivate a domandarmi i particolari.<br />

Misterioso, con l’indice teso verso la camera accanto,<br />

Peppino, ormai sbiancato di peli e di quei pochi capelli<br />

sopra le orecchie, si arresta, attraversato da una rivelazione<br />

fulminea.<br />

– <strong>La</strong> Madonna ci ha lasciato per sempre, ragazzo mio.<br />

Ora lo posso dire, ora che non c’è niente più da temere<br />

poiché il peggio è accaduto: quella Madonna ci ha maledetto.<br />

Maledetto come la razza più insulsa e inutile di<br />

questo mondo. “Voi dovete sparire!” è come se avesse urlato.<br />

Dopo tutto quello che è successo è importante che<br />

qualcuno lo sappia: nonostante quello che ho sempre raccontato,<br />

la notte del mio naufragio la Madonna non mi ha<br />

affatto salvato anzi, è stata lei a scatenarmi contro l’ira del<br />

mare. Onde come quelle non si sarebbero mai formate, altrimenti.<br />

Ma che dico onde, erano grattacieli d’acqua, era<br />

la premonizione del disastro, l’annuncio della fine. Sono<br />

passato qualche settimana fa a Giorgino. Volevo vedere<br />

quel che stavano combinando. Ebbene, ho visto. Le acque,<br />

le aperture a mare, i fondali… Tutto sconvolto…<br />

Niente è più quello che era.<br />

– Sì, stanno costruendo il nuovo ponte.<br />

– Non ne voglio sapere. Non scenderò più da quella<br />

parte della <strong>città</strong>, Frantziscu. Ecco, guarda, – dice accompagnandomi<br />

alla finestra. – Guarda che distesa. Dall’alto,<br />

con un solo sguardo, abbraccio stagno, saline e mare.<br />

Dietro quei monti nasce il sole e l’acqua lo riflette fin dai<br />

195


primi raggi. Lo vedo ogni mattina, bevendo il caffè prima<br />

di scendere per le strade a consegnare le bombole del<br />

gas. È oltre il vetro. Si lascia osservare, ma non mi riguarda<br />

più. Un tempo lo sentivo sulla pelle, ne avevo<br />

persino l’odore addosso. Oggi che ci sia o non ci sia, che<br />

sia caldo o nuvolo, che faccia bonaccia o soffi il maestrale,<br />

mi lascia del tutto indifferente. Oggi consegno bombole,<br />

fino agli ultimi piani dei palazzi. Le trasporto sulle<br />

spalle. “È qui che ha terminato il gas?” domando ai citofoni.<br />

“Oh grazie al cielo è arrivato, avevo appena gettato<br />

la pasta quando il fuoco si è spento” mi dicono. Li<br />

trovo infagottati in sciarpe e grossi maglioni, infreddoliti<br />

come se non si potesse più trascorrere un inverno senza<br />

il calore di una stufa. A volte mi danno qualche soldo<br />

di mancia, un biglietto da cinquecento lire quando sono<br />

molto fortunato, e allora ridiscendo saltellando per le<br />

scale come se avessi vent’anni e mi rimetto nel traffico a<br />

cercare l’indirizzo successivo. È così Frantziscu, sono indispensabile<br />

anch’io, per le cose più banali. E che vuoi<br />

che importino la pioggia o il vento?<br />

Il suo sguardo, dall’alta commiserazione per sé stesso,<br />

si fissa sull’orologio di metallo che porta al polso.<br />

– Guarda guarda, è già l’ora della partita; ce l’hai la<br />

televisione, Frantziscu? Vuoi rimanere a vederla da me?<br />

<strong>La</strong> domenica è scivolata nel buio del tardo pomeriggio,<br />

quando ridiscendo nel mio appartamento asettico e incontaminato.<br />

Dalla finestra spio la notte, addobbata delle<br />

lunghe luci dei lampioni sull’acqua; appena due metri<br />

sopra la mia testa, Peppino si affaccia per concedersi brevi<br />

fughe, anch’esse ormai prive di illusioni. Sormontato<br />

da un’indolenza senza ragioni, mi lascio intontire dalle<br />

voci della radio. Ascolto le dichiarazioni di un rock-leader<br />

che ammonisce di essere fiduciosi, poiché il momento<br />

più difficile della giornata sta volgendo al termine: si<br />

avvicinano le ore in cui le grandi masse si apprestano al<br />

sonno e la maggior parte delle energie negative e stupide<br />

196<br />

vanno anch’esse assopendosi. Thank you Lord è il titolo<br />

annunciato dal commentatore che racconta di questo<br />

nuovo gruppo di musicisti arrabbiati per il quale si<br />

preannuncia un grande seguito tra i giovani, forse per la<br />

loro musica, ma di sicuro per l’energia con cui dichiarano<br />

di voler rompere le lenti rosa della società. Risuona il<br />

primo disco della serata, un inascoltabile trambusto di<br />

suoni metallici, fischi di treni e sgretolamenti che lacerano<br />

la musica e fanno accapponare la pelle. Spengo la radio<br />

e scendo per strada, fra i palazzi di mattoncini rossi<br />

dove anche la luna ottiene di dileguarsi.<br />

* * *<br />

Sogno che la Madonna mi parla dall’alto. Apre il suo<br />

manto per proteggermi ma mi implora di andarmene, di<br />

lasciare la laguna e il villaggio, perché resterei affogato<br />

nella palude, altrimenti, come quel marito della signora<br />

Tina, crepato in pochi centimetri d’acqua. <strong>La</strong> Madonna<br />

non appare a persone tanto giovani, non è normale, mi<br />

dice una voce che assomiglia proprio a quella della signora<br />

Tina. Ma ho più di vent’anni, ormai. E poi da molto<br />

tempo bado a me stesso come un qualunque pescatore,<br />

replico io accarezzandole le spalle. Si è materializzata<br />

all’improvviso, in tutta naturalezza. I pescatori sono una<br />

razza morta, mi dice. Non sai che i Giapponesi hanno i<br />

pescherecci più potenti del mondo e fanno razzia per i<br />

mari? Non sai che le raffinerie di petrolio scaricano liquami<br />

oleosi che uccidono le balene in men che non si<br />

dica? E soprattutto non sai che la Madonna dei pescatori<br />

si è gettata dalla stella polare?<br />

Mi sveglio confuso, penso a Peppino, immerso in una<br />

nuova vita e in nuove convinzioni.<br />

Quando arrivo a lavoro i colleghi mi accolgono con<br />

grandi pacche sulle spalle, commenti che mi elogiano per<br />

un verso e mi deprimono per l’altro.<br />

197


– Non sarete invidiosi? – domando loro, in punta a una<br />

risatina falsa.<br />

Barbara mi guarda come se la sapessi lunga. Non è adirata,<br />

almeno non pare.<br />

– Andiamo a casa tua, dopo?<br />

Dacché le ho offerto la mia Donna <strong>Giulia</strong> non mi incute<br />

più soggezione. Continuo a desiderarla come l’unica<br />

delle donne, la depositaria dei segreti che l’intero genere<br />

nasconde nel grembo.<br />

Mi risponde facendomi indietreggiare di tre passi.<br />

Deve ripulire la statua, scrostarla dai residui del tempo,<br />

mi dice.<br />

– Ma la statua è perfetta così. Non ha bisogno di nient’altro.<br />

Di nuovo mi scruta con quegli occhietti stretti e indagatori.<br />

Medita.<br />

– E va bene, ti aspetto dopo il lavoro.<br />

Esulto, cercando di trattenere la gioia. Barbara si concederà<br />

un’altra volta alle mie carezze.<br />

Faccio i due piani che mi portano alla porta di casa sua<br />

con le ali ai piedi. Non mi importa se le telecamere della<br />

televisione hanno ripreso solo lei. È un effetto degli incantesimi<br />

di cui è capace Donna <strong>Giulia</strong>, dunque accetto<br />

il corso distorto degli eventi che non mi riconosce come<br />

il protagonista della scoperta ma per lo meno mi ha aperto<br />

la sua casa.<br />

– Tu conoscevi già questa statua, – insinua dopo essersi<br />

invaghita della mia passione.<br />

Io ancora annaspo nell’affanno del respiro, accaldato, la<br />

schiena illanguidita dal sudore, gli occhi stretti nel buio<br />

dell’ultimo nostro gemito. Dunque non realizzo cosa intenda.<br />

Lei insiste.<br />

– È vero che l’hai interrata tu, nel mio scavo?<br />

Sa tutto, qualcuno mi ha visto, oppure l’ha capito da<br />

sé. Non serve negare. Posso però presentarle Donna <strong>Giulia</strong>,<br />

ricoprirla di elogi, narrarne le gesta.<br />

198<br />

– È la moglie del musico Tigellio, quello della villa<br />

protetta da Omero.<br />

– So bene chi è e non ha niente a che vedere con Tigellio<br />

e la sua villa. Voglio sapere dove l’hai trovata.<br />

– È risalita dall’acqua della laguna.<br />

– Nelle tue braccia?<br />

– Sì, mie e di Salvatore, mio padre. Io l’ho ripulita<br />

dalle incrostazioni e dalle alghe.<br />

– Tu? L’hai ripulita?<br />

– Sì, io. L’ho fatto con amore.<br />

– Con amore?<br />

– È come una donna viva.<br />

Barbara si solleva piano verso di me. Prende il mio viso<br />

tra le sua mani.<br />

– Ma chi sei, tu?<br />

– Fran… – faccio per rispondere, ma lei mi interrompe.<br />

– Non l’hai fatto per prendermi in giro? Per ridere di<br />

me con i tuoi colleghi?<br />

– Ma come puoi pensarlo? Io ti difendo da loro, io<br />

ti…<br />

– Zitto. Non parlare più.<br />

Le mie mani la attraversano come se plasmassero la<br />

creta. Il respiro dice quello che le parole tacciono, la testa<br />

dondola all’indietro. Lei nega, sorride, guarda il soffitto<br />

lasciandosi andare sul cuscino e ride davvero, di<br />

tutto cuore.<br />

– Cosa ho detto di tanto…<br />

Non mi fa finire la frase. Viene su di me, lascia scivolare<br />

la lingua larga e generosa sul mio viso, mi lecca come<br />

fossi un cucciolo di gatto, mi avvolge nell’ebbrezza<br />

del suo odore. E di nuovo mi porta dentro di sé, mi conduce<br />

passo dopo passo, con una perizia tale che è come<br />

se nelle sue profondità cavernose si illuminassero improvvise<br />

pareti pulsanti di rosso acceso, venature striate<br />

di carbone e oro; e da quelle colasse una lava, lenta e<br />

199


inarrestabile, che trascina con sé i mille regni di fiaba e<br />

i camaleontici volti del tempo.<br />

– Ti amo, – riesco a dirle, finalmente inondandola del<br />

mio desiderio, soddisfatto e allo stremo delle forze.<br />

* * *<br />

Il primo vero reperto mi passa tra le mani senza svelarsi,<br />

anonimo come le centinaia di pietre che ho indistintamente<br />

poggiato sulla carriola. Solo al termine della<br />

giornata, quando gli occhi mi bruciano per la vicinanza<br />

alla polvere, scopro di aver dissotterrato il frammento<br />

di un’incisione che sormontava una probabile<br />

tomba. Imparo che la trasmissione ai vivi della maggior<br />

parte delle testimonianze del passato si compie attraverso<br />

il culto dei morti; e che la conservazione del corpo è<br />

l’aspirazione cui in ogni tempo l’uomo ambisce.<br />

Marco mi mostra un pezzo di marmo che io nego di<br />

avere estratto, non volendo riconoscere il mio grossolano<br />

errore: ho mischiato tra sassi insignificanti quel triangolo<br />

bianco e prezioso.<br />

– Era nella carriola che mi hai portato per ultima, avvolto<br />

nella terra dura; non è strano che non l’abbia riconosciuto.<br />

Insisto sul fatto che l’avrei di certo notato. Mento,<br />

Marco lo capisce e malgrado ciò sta al gioco, non mi<br />

umilia. Entrambi sappiamo che potrebbe farlo facilmente.<br />

Non per questo gli sono grato. Mantengo il consueto<br />

distacco. Quella sua faccia acuta e fin troppo comprensiva<br />

mi induce a tenermi sulle mie, raggelato in un bozzolo<br />

di alterità. Vedo bene che l’antipatia che mi suscita<br />

non nasce dal solo fatto di aver amato la stessa donna. È<br />

evidente che non esiste nessuna gelosia da parte sua e, al<br />

contrario, palesa di continuo la sua disponibilità a lasciarmi<br />

libero il campo. Vedendolo adesso, con quel marmo<br />

tra le mani, lo sguardo serio sotto gli occhialini ton-<br />

200<br />

di sul viso scarno di chi può dimenticarsi di mangiare<br />

senza stupore, capisco che è soprattutto la differenza delle<br />

nostre necessità a farmelo risultare insopportabile: il<br />

suo distacco dagli elementi della terra e dell’acqua lo<br />

rende odioso e paradossale, una specie di marziano saltato<br />

fuori da chissà quale inospitale pianeta.<br />

– Sancte Marie de Clusis, – legge ad alta voce.<br />

– <strong>La</strong> chiesa dei testamenti e dei giuramenti dei Giudici!<br />

– esclama subito Barbara.<br />

– Forse quell’abside in via Simeto…<br />

– Nel vigneto dove è ancora riconoscibile la tomba,<br />

circondata dal cimitero…<br />

Mille mani si tuffano nella terra con avidità. Il ritmo<br />

dello scavo si moltiplica, mille occhi scrutano con attenzione<br />

ogni granello, cercandovi le verità del passato.<br />

Vengono alla luce altri marmi, altre incisioni. In alcune<br />

settimane riportiamo in superficie un pavimento e la<br />

base di due colonne. Da un lato si intuisce il proseguire<br />

di un muro, dall’altro una forma semi-circolare suggerisce<br />

ipotesi fantasiose.<br />

Persino Gaspare e Gino esultano, si congratulano a<br />

turno con le due assistenti e anche loro, per la prima volta<br />

dacché lavoriamo assieme, partecipano a una nostra<br />

merenda. Io accetto di brindare con un bicchiere di vino<br />

che sorseggio appena e mando giù senza sensazioni diverse<br />

dalla comune felicità che tutti ci anima.<br />

Dagli archivi comunali salta fuori un documento che<br />

attesta del bel palazzo della <strong>città</strong> lagunare. Risale al tempo<br />

in cui regnava Agnese, giudicessa e sorella di quella<br />

Benedetta che commise il fatale errore di donare ai pisani<br />

il colle dal quale si sarebbe evoluta una nuova Kalaris,<br />

tutta proiettata verso il mare e i commerci, nella quale i<br />

giudici sarebbero stati sempre trattati come stranieri.<br />

– A lei appartiene il viso che hai recuperato nella laguna.<br />

Barbara ne è sicura: non ha niente a che vedere con i ro-<br />

201


mani né con la villa del musico Tigellio, si tratta della figura<br />

della giovane e imprudente giudicessa Benedetta.<br />

– E allora ti prego, dimmi quello che sai di lei.<br />

* * *<br />

Nata dalle nozze tra il giudice Guglielmo I della dinastia<br />

degli Obertenghi e Adelasia Malaspina, Benedetta<br />

governava, col proprio marito Barisone, fideles et obedientes<br />

verso la Chiesa, nel tempo in cui i liguri e i toscani rivaleggiavano<br />

per il dominio del Mediterraneo. Benedetta,<br />

i cui sguardi erano rivolti in favore dei genovesi, a<br />

lungo sopportò, con non poca insofferenza, le insistenze,<br />

i continui soprusi e le invadenze dei pisani e del loro alleato<br />

<strong>La</strong>mberto Visconti, giudice di Gallura. Quando il<br />

Visconti, capitano temuto, stimato e violento, trattenuto<br />

in circostanze più delicate a causa della sua irascibilità,<br />

giunse nel cagliaritano, senza limitarsi nell’osare<br />

tutto quanto poteva essere osato a sua propria e inappellabile<br />

discrezione, ottenne dalla giudicessa, costretta dalle<br />

vili maniere di lui, la concessione di un certo colle che<br />

egli subito provvide ad ornare dei baluardi pisani e dei<br />

sinistri ornamenti che rivelavano un’insaziabile brama di<br />

dominio. Sorte volle che Benedetta rimanesse presto vedova<br />

e il Visconti, vedovo a sua volta di Elena di Gallura,<br />

la forzò a sposarlo. Seppur di malavoglia e contro le<br />

ammonizioni paterne, la giudicessa preparava così la<br />

strada ai pisani, giunti anni prima assieme ai genovesi<br />

per scacciare gli infedeli dall’isola. Benedetta ebbe altri<br />

due mariti e morì senza aver mai cessato di combattere e<br />

organizzare truppe per la difesa del proprio giudicato. Le<br />

successe il primogenito e, nell’attesa della maggiore età<br />

di questi, la sorella Agnese. Intanto il Castrum Castello<br />

edificato sul colle cresceva e si fortificava, mentre la<br />

guerra tra le <strong>città</strong> marinare non accennava a placarsi,<br />

coinvolgendo anche i giudicati sardi.<br />

202<br />

Al Castrum Castello, roccaforte pisana, solo i toscani<br />

erano ammessi, oltre a quei pochi intraprendenti il cui<br />

carattere bene si prestava ad accondiscendere con chiunque<br />

ragionasse delle organizzazioni politiche e militari.<br />

Era il caso del giudice Chiano, nipote di Benedetta, fattosi<br />

suddito di Pisa per poter dimorare nel colle, seppure<br />

nell’abitazione di un contadino. Ma così come girava<br />

il vento anche Chiano si sarebbe rivolto: stanco del vassallaggio<br />

impostogli e di quei falsi sorrisi in cui dover<br />

sempre esibirsi, urlò di gioia alla notizia che numerosi<br />

isolani si preparavano a cacciare i pisani dal colle. Li<br />

guidò con impeto fino alla vittoria, ma peccò della solita<br />

incapacità ad amministrare la conquistata indipendenza:<br />

si alleò con i genovesi che veleggiavano verso la<br />

<strong>città</strong>, in guerra con la repubblica marinara dell’Arno.<br />

Frattanto Santa Igia, dichiarata acerrima nemica del Castrum<br />

Castello, veniva sottoposta a duro e inclemente assedio.<br />

<strong>La</strong> <strong>città</strong> lagunare fu espugnata e distrutta e a nulla<br />

valsero le menzognere rassicurazioni con cui i pisani<br />

dichiararono che sarebbe stata risparmiata. Nei patti che<br />

decretarono la resa definitiva di Santa Igia, capitale giudicale,<br />

si scrisse che solo le mura sarebbero state abbattute,<br />

con le porte e i fossati. Tuttavia ben altri furono gli<br />

esiti della ferocia pisana al termine della violenta battaglia.<br />

Certo è che nel 1258 la <strong>città</strong> che fioriva sull’acqua,<br />

debilitata dal Castrum pisano che vegliava su ogni lato<br />

del mare senza consentire a una vela di affiancarsi inosservata<br />

alla costa, venne distrutta completamente. Parte<br />

dei suoi abitanti ripararono, in seguito ad atto bollato e<br />

registrato, nel quartiere di Stampace; altri furono venduti<br />

come schiavi nelle fiere e nei mercati d’Europa e altri<br />

ancora, espulsi dai pisani vittoriosi, resi mendichi e briganti,<br />

si imbarcarono alla volta dell’Africa e delle Sicilie.<br />

Santa Igia non fu più ripopolata. Col passare degli anni<br />

altri centri si aprirono all’interesse dei nuovi signori del<br />

Regnum Sardinae et Corsicae. L’Infante Alfonso di Ara-<br />

203


gona, sbarcato a Palma di Sulcis, scelse, come avamposto,<br />

il versante orientale del colle di Bonaria.<br />

Tuttavia la laguna non scordò l’oltraggio subito: nel<br />

disastroso scontro di Lutocisterna i pisani patirono pari<br />

umiliazione a quella che a loro volta avevano inferto alla<br />

<strong>città</strong> che fioriva sull’acqua. Quando essi, inseguiti dal<br />

nemico ispanico militarmente meglio equipaggiato ed<br />

addestrato, scesero dalle pendici del Castrum per cercare<br />

la salvezza a Santa Gilla, l’acqua si ricordò di loro e li<br />

inghiottì, trattenendo i corpi senza vita nelle sue sabbie<br />

melmose, affinché fossero di nutrimento e arricchimento<br />

alle varietà innumerevoli di bestiole rapaci e piante<br />

acquatiche, solo all’apparenza innocenti.<br />

* * *<br />

Il sole precipita annerendo i colli della <strong>città</strong>. Le strade<br />

si sono già destate nel consueto sfarzo degli alti lampioni,<br />

quando giunge l’ora di richiudere il lucchetto sulle<br />

maglie della catena.<br />

– Vieni con me, questa sera. Voglio regalarti un mio<br />

segreto, le dico.<br />

Ai piedi del vecchio ponte che ancora resiste ai pesanti<br />

lavori pubblici, saliamo sul ciu che è lì ormeggiato, immobile<br />

da lungo tempo. Lei non fa domande. Si lascia trasportare<br />

sull’acqua dalla lenta spinta del bastone che manovro<br />

da poppa per raggiungere il centro della laguna.<br />

Oltrepassiamo la zona dove più intensa è l’opera degli<br />

escavatori e lasciamo alle nostre spalle gli orrendi macchinari<br />

capaci di sovvertire l’ordine delle acque.<br />

– Non c’è nessun ordine che possa essere rotto, – mi<br />

corregge lei. – Solo la presunzione di conoscenze che svaniscono<br />

lasciando il posto a un nuovo sistema, ancora<br />

senza nome.<br />

– Ma i pesci sono pieni di mercurio e molte persone<br />

sono morte avvelenate.<br />

204<br />

– Le cause di ogni morte sono naturali e innaturali allo<br />

stesso tempo. Invecchiamo assieme ai nostri luoghi e la<br />

stessa natura si adatta di continuo alle trasformazioni che<br />

le imponiamo. È sempre una lotta per la sopravvivenza.<br />

Uno stridore di grilli e un ronzare di insetti frugano<br />

nelle nostre teste come mani affamate.<br />

Nei pressi di Sa Illetta uno spicchio di luna crescente<br />

le illumina il volto.<br />

– Io sento che da quando ti ho incontrata posso vivere<br />

anche in quella parte di mondo, – dico seguendo il<br />

suo sguardo sulle luci della <strong>città</strong>.<br />

– Non ci si dovrebbe mai dimenticare di guardarla anche<br />

nel suo declinare, – fa lei indicando il colle e le torri.<br />

Poi si volta e incontra il mio sguardo, per un attimo appena.<br />

Non muove il viso, ma è già lontana. I suoi occhi indicano<br />

una profondità difficile da raggiungere.<br />

– Dà una commozione così intensa che ci si potrebbe<br />

anche innamorare, – sussurra d’una trasparenza puerile.<br />

Le sono accanto. Le mani nelle sue, il viso che quasi la<br />

sfiora. I nostri aliti si confondono; ritrovo sulle mie, le<br />

sue labbra. Lo sciacquettio dell’acqua è ben poca cosa rispetto<br />

al fragore della brezza che ci avvolge. In un lento<br />

sfiorarla di carezze entro nei suoi vestiti e la amo con<br />

un desiderio senza impeti ma di tutta dolcezza, che mi<br />

trattiene dentro di lei anche quando sento che arriva il<br />

momento di straripare. È più forte di me l’impulso che<br />

mi assopisce nel suo calore dirompente, che mi fa illanguidire<br />

in un sentimento semplice e vero, com’è la realtà<br />

del mio corpo sul suo, dei suoni che giungono dall’acqua<br />

e di quelli lontani delle macchine che attraversano<br />

le strade. Uno su tutti, d’improvviso, si leva, cupo, raggela<br />

il sangue e affanna il respiro. Lo riconosco immediatamente,<br />

lo strepito di quell’uccello della notte che<br />

per anni ha popolato i miei sogni. Allargo occhi e orecchie.<br />

205


– Ascolta… – dico a Barbara. – È arrivato anche lui a<br />

salutare il nostro incontro.<br />

Un verso solo, senza altra presenza. Uno stridore graffiante,<br />

subito svanito nella tenue risonanza delle acque<br />

che emerge, come sempre, a incastonare parole e lamenti.<br />

* * *<br />

Un grosso pilone di cemento armato ha conficcato le<br />

sue fondamenta là dove infilavo le mani con precauzione,<br />

vinto solo una volta dall’impellenza di scoprire tutto<br />

e subito. <strong>La</strong> strada che attraverserà la laguna passerà<br />

sui resti del Palazzo dei Giudici.<br />

– Non c’è niente da fare, – dice Barbara. – Vuoi mobilitare<br />

la <strong>città</strong>? Provaci pure.<br />

Hanno chiuso lo scavo, nonostante le ricchezze emerse<br />

in tanti anni di fatiche.<br />

– Ma sappiamo che c’è un tesoro, lì sotto.<br />

<strong>La</strong> Giunta è cambiata, non c’è assessore convinto dell’importanza<br />

del nostro lavoro, né politico che lo ritenga<br />

una merce utile per i suoi baratti. <strong>La</strong> nuova strada deve<br />

essere terminata al più presto, e questa pare essere l’unica<br />

priorità.<br />

È venuto un camion a prelevare la colonna, i resti dell’abside,<br />

le iscrizioni e quant’altro la terra ci ha reso. Portano<br />

tutto al sicuro, dicono, per proteggerlo dalle intemperie.<br />

Soggiornerà nei depositi del Museo Archeologico,<br />

fino a quando non si libererà l’angolo giusto perché<br />

possa essere esposto allo sguardo vago dei turisti e di<br />

qualche cagliaritano che resterà persuaso di una pochezza<br />

capace di giustificare il suo disinteresse.<br />

Il ponte in cemento, che pure ha resistito per tanti decenni<br />

alla forza dell’acqua, sta per saltar via. Il nuovo ponte<br />

è molto più lungo, scorrevole, a doppia corsia per ogni<br />

senso di marcia. Non taglia più l’imboccatura della laguna<br />

unendo le due sponde ma si ricongiunge a Sa Illetta,<br />

206<br />

affianca le saline, prevede sbocchi e svincoli per la zona<br />

industriale e per Assemini. È un lungo raccordo su ampi<br />

piloni, cavalcavia e robuste basi in cemento e acciaio,<br />

adatto per macchine veloci e mezzi pesanti. Devia verso<br />

l’interno per consentire alle grossi navi da carico di attraccare<br />

alla banchina del porto canale.<br />

Tagliano la strada al Santo, penso rammaricato come se<br />

fossi colpevole anche di questo abuso. È un istante che si<br />

protrae risalendo indietro nel tempo, come sugli anelli di<br />

una catena, fino a raggiungere il giorno in cui furono abbattute<br />

le vecchie mura di San Francesco del Molo, limite<br />

dell’abitato cittadino; o quando il Municipio fu trasferito<br />

ai piedi del porto e si cominciò a pensare alla costruzione<br />

di un primo ponte in ferro sulla laguna, poiché dilagavano<br />

in <strong>città</strong> le opinioni su un avvenire commerciale<br />

dalle più liete speranze.<br />

Senza tanti clamori né solennità, accusato di impedire<br />

il defluire delle acque al mare, il vecchio ponte viene buttato<br />

giù nel mezzo di una mattina soleggiata, rigida di<br />

maestrale. Un pistolone puntella il cemento. Lenti, gli archi<br />

scivolarono a mare, segati con metodo, uno dopo l’altro.<br />

Nessuna esplosione, solo qualche schizzo. C’è appena<br />

un casuale testimone a rivolgergli l’ultimo sguardo, con<br />

un certo imbarazzo.<br />

– Ma dobbiamo tirar via dalla terra il Palazzo, le altre<br />

statue, la biblioteca…<br />

– Prova a convincerli tu, allora. Io so che non c’è verso.<br />

Scopro che il progetto per il porto canale era sui tavoli<br />

degli amministratori pubblici della metà degli anni Sessanta.<br />

Non è stata la morte di Salvatore a fare iniziare i lavori,<br />

come ho creduto fino ad ora. Scopro esterrefatto che<br />

la sua morte ha sconvolto solo la mia vita, non quella del<br />

villaggio che verrà riaperto tra qualche anno con servizi<br />

igienici e tinteggiatura, e ancor meno quella della laguna.<br />

Era tutto previsto e specificato già dieci anni fa, forse<br />

pure il colera e le sue vittime. Forse anche la confusione<br />

207


tra gli operai che modellano le acque secondo le necessità<br />

dello sviluppo commerciale e quelli che le bonificano.<br />

Scopro che il ponte incantato non è mai stato tale se non<br />

per la mia memoria, distorta da forti sentimenti.<br />

C’è l’aria tersa del maestrale, a dilatare le prospettive.<br />

– Aspetta, – dico a Barbara fermandomi davanti a una<br />

delle alte porte sul colle che è ingresso per il Castello e riluce<br />

della stessa pietra delle torri pisane, sovrastata da una<br />

lapide ben leggibile. Abbiamo interpellato politici, giornalisti<br />

e accademici. Tutti dicono che abbiamo ragione,<br />

che in questa <strong>città</strong> si continua a distruggere o ricoprire<br />

non appena si intravede qualcosa. Ma nessuno può farci<br />

niente.<br />

Oltrepasso la grande quercia cresciuta sul limite delle<br />

mura, avamposto del belvedere. Da Viale Buon Cammino<br />

la <strong>città</strong> scende ripida nelle braccia della laguna; pare che le<br />

si offra chiedendo asilo. Nonostante le stelle, la Madonna<br />

e ogni altra considerazione, non voglio illudermi. Posso<br />

pretendere solo quello che mi appartiene e la laguna non<br />

mi appartiene più, il suo destino s’allontana in tutt’altre<br />

direzioni. È come una luce viva sotto uno specchio, ma<br />

chissà se reclama di essere liberata. Ne manterrò in me il<br />

ricordo, per alimentare lo sguardo con il quale mi accosto<br />

alle cose della vita. A quelle infinitesimali che pulsano appena,<br />

quasi impercettibili, sotto il primissimo strato della<br />

terra dove l’umido è la condizione della perenne riproducibilità;<br />

e a quelle mastodontiche, solari e inavvicinabili,<br />

che con il loro apparire già si appropriano, senza domandare,<br />

della prerogativa di esistere. Questo sento di dirle,<br />

per ringraziarla, confuso e contraddittorio ma tutto di<br />

filato, prima che lei mi zittisca con i segni della commiserazione.<br />

E nel silenzio me ne vado, voltandole le spalle nel<br />

più semplice dei modi, come tutti fanno quando arriva il<br />

momento di lasciarsi.<br />

208<br />

INDICE


INDICE<br />

LA CITTÀ D’ACQUA<br />

Capitolo I 9<br />

1<br />

Capitolo II 105<br />

1<br />

Capitolo III 163<br />

1<br />

211


Volumi pubblicati:<br />

Tascabili . Narrativa<br />

Grazia Deledda, Chiaroscuro<br />

Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto<br />

Grazia Deledda, Ferro e fuoco<br />

Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche<br />

Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2 a ristampa)<br />

Maria Giacobbe, Il mare (ristampa)<br />

Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio<br />

Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri<br />

Giulio Angioni, L’oro di Fraus<br />

Antonio Cossu, Il riscatto<br />

Bachisio Zizi, Greggi d’ira<br />

Ernst Jünger, Terra sarda<br />

Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2 a edizione)<br />

Luciano Marrocu, Fáulas (2 a edizione)<br />

Gianluca Floris, I maestri cantori<br />

D.H. <strong>La</strong>wrence, Mare e <strong>Sardegna</strong><br />

Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa<br />

Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò<br />

Giorgio Todde, Lo stato delle anime<br />

Francesco Masala, Il parroco di Arasolè<br />

Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (ristampa)<br />

Salvatore Niffoi, Cristolu<br />

Giulio Angioni, Millant’anni<br />

Luciano Marrocu, Debrà Libanòs<br />

Giorgio Todde, <strong>La</strong> matta bestialità<br />

Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»<br />

Marcello Fois, Materiali<br />

Maria Giacobbe, Diario di una maestrina<br />

Giuseppe Dessì, Paese d’ombre<br />

Francesco Abate, Il cattivo cronista<br />

Narrativa<br />

Salvatore Cambosu, Lo sposo pentito<br />

Marcello Fois, Nulla (2 a edizione)<br />

Francesco Cucca, Muni rosa del Suf<br />

213


Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi<br />

Bachisio Zizi, Lettere da Orune<br />

Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia<br />

Giulio Angioni, Il gioco del mondo<br />

Aldo Tanchis, Pesi leggeri<br />

Maria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici parabole<br />

<strong>Giulia</strong> <strong>Clarkson</strong>, <strong>La</strong> <strong>città</strong> d’acqua<br />

Poesia<br />

Giovanni Dettori, Amarante<br />

Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo<br />

Gigi Dessì, Il disegno<br />

Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza<br />

Serge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole<br />

Saggistica<br />

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario<br />

Giancarlo Porcu, <strong>La</strong> parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale<br />

Dessanai<br />

FuoriCollana<br />

Salvatore Cambosu, I racconti<br />

Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre<br />

Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea<br />

I Menhir<br />

Salvatore Cambosu, Miele amaro<br />

Antonio Pigliaru, Il banditismo in <strong>Sardegna</strong>. <strong>La</strong> vendetta barbaricina<br />

Giovanni Lilliu, <strong>La</strong> civiltà dei sardi<br />

Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in <strong>Sardegna</strong><br />

In coedizione con Edizioni Frassinelli<br />

Marcello Fois, Sempre caro<br />

Marcello Fois, Sangue dal cielo<br />

Giorgio Todde, Lo stato delle anime<br />

Marcello Fois, L’altro mondo<br />

Giorgio Todde, Paura e carne<br />

214

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