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La memoria della<br />

Seconda Guerra Mon<strong>di</strong>ale<br />

sia <strong>di</strong> monito<br />

a non ripetere tali barbarie.<br />

Papa Benedetto XVI<br />

Roma, 6 settembre 2009


Stampato con il contributo della Regione del Veneto<br />

L.R. n 35 del 14-12-2007, Norme per il sostegno delle<br />

Associazioni Combattentistiche, d’Arma e delle Forze dell’Or<strong>di</strong>ne<br />

D.G.R. N. 1266 del 5 maggio 2009<br />

Stampato in proprio nel mese <strong>di</strong> novembre 2010<br />

Associazione Nazionale Combattenti e Reduci<br />

sezione <strong>di</strong> Monselice - <strong>Padova</strong> -<br />

via Buggiani 2/B<br />

35043, Monselice<br />

Stampa www.futuramaonline.com - Monselice


a cura <strong>di</strong> Giuseppe Trevisan<br />

Memorie <strong>di</strong> guerra<br />

1940-1946<br />

Testimonianze <strong>di</strong> Combattenti e Reduci<br />

Associazione Nazionale Combattenti e Reduci<br />

Sezione <strong>di</strong> Monselice - <strong>Padova</strong>


8<br />

10<br />

33<br />

75<br />

161<br />

167<br />

193<br />

In<strong>di</strong>ce<br />

Introduzione<br />

Giuseppe Trevisan<br />

Premessa<br />

Antonio Bettin e Giovanni Veronese<br />

La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Tarcisio Bertazzo<br />

Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere<br />

combattente per la libertà<br />

Attilio Bizzotto<br />

Memorie <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> un soldato<br />

del Genio, 1942-45<br />

Lino Belluco<br />

Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte<br />

<strong>di</strong> Zeithain<br />

Carlo Frizzarin<br />

Appen<strong>di</strong>ce. Lettere alla moglie<br />

<strong>di</strong> un prigioniero in Germania<br />

Giovanni Gazzea


Monselice, 4 novembre 2010<br />

La Presidenza dell’Associazione Nazionale Combattenti e<br />

Reduci, sezione <strong>di</strong> Monselice - <strong>Padova</strong>, ringrazia coloro che<br />

hanno contribuito a raccogliere e stampare queste memorie.<br />

Si ritiene necessario e utile produrre tali ricor<strong>di</strong> affinché non<br />

vengano <strong>di</strong>menticati i tanti sacrifici sofferti da molti Italiani<br />

in questa ultima guerra 1940-45.<br />

Il Presidente<br />

Comm. Giuseppe Barbirato


Ai soldati italiani che hanno<br />

combattuto per la libertà


Introduzione<br />

Da qualche tempo sono impegnato a raccogliere ancora nuove<br />

testimonianze <strong>di</strong> monselicensi che hanno partecipato alle vicende<br />

della Seconda Guerra Mon<strong>di</strong>ale (1940-1945).<br />

Intendo in questo modo dare la possibilità alla ANCR<br />

(Associazione Nazionale Combattenti e Reduci) della nostra città<br />

<strong>di</strong> pubblicare un terzo libro <strong>di</strong> memorie che possa contribuire<br />

a far conoscere quali e quante ingiustizie e sofferenze abbia<br />

prodotto quella guerra.<br />

È giusto siano ricordate le frustrazioni e le malvagità subite dai<br />

nostri soldati italiani. Esse infatti debbono essere un deterrente<br />

che contribuisca a convincere tutti della necessità <strong>di</strong> rifiutare non<br />

solo la guerra, ma anche tutti gli atti <strong>di</strong> violenza che ancor oggi,<br />

purtroppo, vengono perpetrati a danno dei <strong>di</strong>ritti degli altri.<br />

Ed è giusto altresì che noi, ex combattenti, ren<strong>di</strong>amo testimonianza<br />

delle esperienze negative subite in quegli anni affinché i nostri<br />

ricor<strong>di</strong> restino un monito a futura memoria.<br />

Per questa nuova indagine ho avuto modo <strong>di</strong> avvicinare vari ex<br />

combattenti. Il mio intento era quello <strong>di</strong> riuscire a convincerli<br />

a ricordare e a raccontare episo<strong>di</strong> significativi della loro vita<br />

militare. Purtroppo quasi tutti hanno mostrato <strong>di</strong> non ricordare<br />

quasi nulla perché certamente non intendevano tornare a rivivere<br />

esperienze traumatiche che dovevano essere risultate per loro<br />

troppo dolorose.<br />

Pochi si sono <strong>di</strong>mostrati <strong>di</strong>sponibili a collaborare e a raccontarsi.<br />

Ho fatto indagini anche presso parenti <strong>di</strong> ex combattenti, ma tutti<br />

hanno <strong>di</strong>mostrato <strong>di</strong> non essere a conoscenza o <strong>di</strong> non ricordare<br />

fatti significativi della vita militare dei loro congiunti, ora defunti,<br />

in quanto questi ultimi non avevano lasciato alcun documento<br />

scritto. Tutti, tranne i parenti <strong>di</strong> Carlo Frizzarin, deceduto nel<br />

2001. Essi infatti mi hanno consegnato una testimonianza scritta<br />

sulle sue esperienze <strong>di</strong> guerra.


Introduzione<br />

Da sempre conoscevo Carlo e sapevo che era stato uno degli IMI<br />

(Internati Militari Italiani) e che era un reduce dal lazzaretto<br />

tedesco <strong>di</strong> Zeithain. Nel 1994 lo sentii commemorare un<br />

compagno la cui salma era stata fatta riportare a Monselice da<br />

quel lazzaretto. Fu così che raccolsi le interviste che gli erano poi<br />

state fatte dai giornalisti locali per l’occasione e unii quegli articoli<br />

alle mie documentazioni riguardanti gli IMI.<br />

Nel 2000, andato in pensione come geometra, ho iniziato a<br />

rior<strong>di</strong>nare le mie memorie e i molti documenti, raccolti qua e<br />

là, relativi ai combattenti monselicensi. Così un po’ alla volta<br />

mi convinsi che sarebbe stato utile far conoscere le tribolazioni<br />

<strong>di</strong> noi soldati che avevamo partecipato ad una guerra voluta<br />

da pochissimi ma cha aveva fatto soffrire e morire milioni <strong>di</strong><br />

persone.<br />

Allora decisi <strong>di</strong> coinvolgere l’ANCR <strong>di</strong> Monselice per far<br />

stampare nel 2005 il libro Soldati che si raccontano, 1941-45.<br />

Questi racconti sono sei, scritti in prima persona.<br />

Nel 2006 pubblicai i miei ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> guerra. Il volume si intitola<br />

Stammlager XVII A - 733 giorni da prigioniero in Germania.<br />

Ora arriva questa terza opera, e<strong>di</strong>ta dalla nostra sezione ANCR,<br />

nella quale si parla <strong>di</strong> altri monselicensi e dei loro ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

guerra. I soldati combattenti sono:<br />

- Tarcisio Bertazzo, nato il 23 - XII - 1921, prigioniero in Africa,<br />

- Attilio Bizzotto, nato il 19 - XII - 1922, partigiano combattente,<br />

- Lino Belluco, nato il 14 - IV - 1923, in guerra con gli Alleati,<br />

- Carlo Frizzarin, nato il 14 - XI - 1923, prigioniero in Germania.<br />

Viene riportato poi, in appen<strong>di</strong>ce, il testo originale delle lettere<br />

spe<strong>di</strong>te dal professor Giovanni Gazzea alla moglie Fernanda,<br />

quando era prigioniero in Germania.<br />

Giuseppe Trevisan<br />

9


Premessa<br />

Un ginnasiale e un bambino tra l’asilo e le elementari ricordano<br />

episo<strong>di</strong> della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale tra Monselice centro e la<br />

frazione <strong>di</strong> Monticelli<br />

Dottor ingegnere Veronese Giovanni nato a Monselice in via F. Crispi,<br />

ora 28 Aprile, attualmente abitante a <strong>Padova</strong>.<br />

Martedì 28-12-1943, cielo azzurro e limpido<br />

Quella mattina, saranno state le 10-10.30, mi trovavo a casa dello zio<br />

Mario con mio fratello Ruggero e mia sorella Anna (nata nel febbraio<br />

1942).<br />

Stavamo parlando con mia cugina Ruggerina e c’era anche mia cugina<br />

Maria quando venne suonato l’allarme aereo.<br />

Presi in braccio mia sorella, <strong>di</strong>ssi a Ruggero <strong>di</strong> prendere il passeggino<br />

a casa nostra (era a<strong>di</strong>acente a quella dello zio), e scendemmo in strada<br />

per andare, come eravamo soliti fare quando c’era l’allarme aereo, in<br />

campagna a casa dei Turrin sulla strada per Pernumia.<br />

Ma in strada c’erano persone che fuggivano verso la campagna in<br />

quanto in cielo era in atto un duello aereo fra bombar<strong>di</strong>eri americani<br />

e caccia tedeschi; alzati gli occhi al cielo vi<strong>di</strong> alcuni aerei spaccarsi<br />

(si staccavano le ali), precipitare e attorno tanti palloncini bianchi<br />

(paracadutisti che si erano gettati o stavano scendendo); non saprei<br />

<strong>di</strong>re a che altezza stesse succedendo tutto questo, certo che le palline<br />

erano molto piccole e gli aerei avevano le <strong>di</strong>mensioni da giocattoli.<br />

Io con mia sorella in braccio mi misi a correre verso la Casa del Fascio<br />

seguito da mio fratello che trainava il passeggino (passeggino del<br />

tempo <strong>di</strong> guerra, tutto <strong>di</strong> legno bordato <strong>di</strong> duralluminio ma con le<br />

ruote <strong>di</strong> legno e cigolanti).


Premessa<br />

Alla deviazione per la strada per Pernumia mi tro<strong>vai</strong> vicino Carlino<br />

Masetti, che abitava là vicino, e proprio allora a un metro <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza<br />

da noi cadde un pezzo <strong>di</strong> pallottola.<br />

Ci mettemmo a correre finché arrivammo a casa dei Turrin dove ci<br />

raggiunse anche mia zia Pina (era in centro a fare la spesa).<br />

Nel frattempo la battaglia aerea era terminata, non era ancora<br />

mezzogiorno; mia cugina Maria era andata a cercare mio zio che, pur<br />

cieco, era andato presto al caffè del Beduin, e l’avevo trovato rifugiato<br />

nel negozio della Marcella Ziron; a metà strada fra caffè e casa.<br />

Si seppe che alcuni militari della GNR (le Brigate nere) avevano<br />

sparato ai paracadutisti prima che toccassero terra nelle zone a sud <strong>di</strong><br />

Monselice.<br />

Alcuni giorni dopo nel laboratorio personale <strong>di</strong> mio cugino Mario vi<strong>di</strong><br />

parecchi pezzi relativi al sistema <strong>di</strong> ossigenazione per la respirazione<br />

dell’equipaggio (raccor<strong>di</strong> in alluminio, manometri, valvole ed altro);<br />

anzi mio cugino mi regalò qualche manometro che mi <strong>di</strong>vertii a<br />

smontare per vedere come funzionasse.<br />

Ebbi anche l’opportunità <strong>di</strong> vedere, tempo dopo, uno dei motori <strong>di</strong><br />

un bombar<strong>di</strong>ere abbattuto che era stato portato all’Istituto Tecnico<br />

Morini Pedrina (reparto meccanica) <strong>di</strong> Este.<br />

Dimenticavo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che io vi<strong>di</strong> solo una parte del duello aereo, quella<br />

che si vedeva sopra Monselice, in effetti la battaglia aerea si svolse sul<br />

cielo <strong>di</strong> alcuni comuni dei colli Euganei.<br />

La caccia tedesca (l’aviazione della RSI <strong>di</strong>venne attiva solo nei primi<br />

mesi del 1944) era partita da Vicenza e sembra sia stato abbattuto<br />

anche uno <strong>di</strong> questi caccia.<br />

Nel Gazzettino del giorno dopo furono de<strong>di</strong>cate poche righe e senza<br />

commenti a quanto era accaduto.<br />

Bombardamento del Cinema Sociale <strong>di</strong> Monselice<br />

Quel giorno, mercoledì 7 febbraio 1945, ero ritornato da scuola e<br />

dopo aver mangiato avevo preparato quanto serviva per il giorno<br />

dopo.<br />

Verso le 18.30, dalla mia abitazione, situata a porta Sant’Antonio<br />

11


12 Premessa<br />

(oggi via 28 Aprile), mi ero recato al Caffè Centrale “dal Beduin”, così<br />

era chiamato, in piazza V. Emanuele II (oggi piazza Mazzini).<br />

Dovevo riportare a casa lo zio Mario che, essendo quasi cieco,<br />

veniva accompagnato al caffè per chiacchierare con i vecchi amici e<br />

seguire qualche gioco delle carte ascoltando quanto veniva detto dai<br />

giocatori.<br />

Poiché quella sera lo zio doveva vedere un conta<strong>di</strong>no, il “cinese”, che<br />

curava il suo “brolo”, ci incamminammo verso il ponte della Pescheria<br />

proseguendo per Riviera Belzoni e <strong>di</strong>rigendoci verso il ponte <strong>di</strong><br />

Ferro. A metà strada trovammo il “cinese” e mio zio combinò per<br />

un intervento, quin<strong>di</strong> ci avviammo verso casa. Accompagnato lo zio,<br />

entrai nella mia abitazione, a<strong>di</strong>acente a quella dello zio; erano circa le<br />

19.15.<br />

Alcuni minuti dopo arrivò, in bicicletta da Este, mio padre.<br />

In attesa della cena avevamo accesa la ra<strong>di</strong>o, mio padre si era seduto<br />

in poltrona e aveva preso in braccio mia sorella Anna (tre anni);<br />

dopo poco, circa alle 19.30, sentimmo il caratteristico rumore <strong>di</strong><br />

un aereo, sicuramente Pippo. Passarono pochi secon<strong>di</strong> e ci fu un<br />

fortissimo botto.<br />

La luce venne a mancare, la ra<strong>di</strong>o tacque, mia sorella finì sotto la<br />

poltrona, io e mio fratello aprimmo la porta verso il cortile e, pur<br />

essendo buio, vedemmo a sud ovest del fumo che si stagliava alto verso<br />

il cielo.<br />

Ad occhio e croce le bombe dovevano essere cadute oltre la pescheria.<br />

Mentre la zia con mia sorella e mio fratello rimanevano a casa, uscito<br />

in strada con mio padre, sentendo qualcuno <strong>di</strong>re che Pippo doveva<br />

aver colpito proprio verso il ponte della Pescheria, decidemmo <strong>di</strong><br />

andar a vedere se era successo qualcosa anche in via Dante n° 1 dove<br />

c’era la macelleria e dove abitava mia nonna materna e la famiglia <strong>di</strong><br />

mio zio Giacomo Pietrogiovanna.<br />

Con mio padre ci avviammo verso il ponte <strong>di</strong> Ferro e poi per<br />

Riviera Belzoni rifacendo la strada che avevo fatto una mezz’ora<br />

prima con lo zio.<br />

Era più buio <strong>di</strong> prima e in prossimità dell’albergo Cavallino dovemmo<br />

<strong>di</strong>stricarci per passare tra i fili dell’illuminazione caduti a terra.


Premessa<br />

C’erano alcune persone che sembravano ombre, una mi sembra fosse<br />

il cav. Simone; <strong>di</strong>sse a mio padre che era stata colpita la Banca vicina<br />

alla Torre e alla sua abitazione e anche il cinema.<br />

Sul ponte io urtai qualcosa con un piede e la spinsi in avanti, la cosa<br />

rotolò più in là: era una testa. Un po’ più giù dal ponte c’erano ancora<br />

fili a terra, la porta della macelleria dello zio era sconnessa e non si<br />

apriva per cui entrammo dalle finestre che, basse sul marciapiede,<br />

erano state <strong>di</strong>velte.<br />

Trovammo lo zio, la nonna, la zia e i cugini assai spaventati ma sani<br />

e salvi.<br />

Dopo poco, sempre al buio, mentre erano già iniziati i soccorsi alle<br />

tante persone ferite, rientrammo a casa.<br />

Il giorno dopo s’incominciarono a conoscere i dettagli sul<br />

bombardamento: circa alle 19.30 nella piazzetta antistante il cinema<br />

Sociale e nella a<strong>di</strong>acente piazza Isola (oggi, rispettivamente piazzetta<br />

Teatro e piazza XX Settembre) c’era un notevole numero <strong>di</strong> soldati<br />

tedeschi, in attesa che finisse lo spettacolo del pomeriggio, per entrare<br />

e vedere il programma a loro destinato, una volta che fossero usciti gli<br />

Italiani.<br />

Proprio mentre si aprivano le porte del cinema, lasciando così filtrare<br />

della luce, arrivò “Pippo”, presumibilmente proveniente da sud est,<br />

che vedendo la luce sganciò una serie <strong>di</strong> bombe che colpirono la Banca<br />

Popolare, la piazzetta davanti al cinema e un angolo del cinema. Verso<br />

la strada delle valli una bomba, senza scoppiare, forò il pavimento<br />

esterno della Pescheria vicino al ponte e si trova ancora là sotto.<br />

Mio cugino, Mario Trevisan, si trovava in strada poco lontano dal<br />

cinema, forse 50 metri, dato che era andato a trovare un’amica che<br />

abitava in via Moraro. Sentendo Pippo e il fischio delle bombe si gettò<br />

a terra mentre sopra il suo capo volavano schegge, tegole e altro.<br />

All’inizio <strong>di</strong> via Moraro abitava con i suoi Leo Liviero, un amico<br />

nonché futuro cognato della zia Rita. A quell’ora erano tutti a tavola<br />

nella sala da pranzo che aveva una vetrata sul canale Bisato.<br />

Lo spostamento d’aria sventrò la vetrata e fece volare tovaglia piatti e<br />

cena in canale; quella sera i Liviero saltarono il pasto.<br />

Leo sceso in strada trovò, nei pressi dei gra<strong>di</strong>ni che portano al<br />

13


14 Premessa<br />

ponte della Pescheria, alcuni soldati morti e altri feriti che soccorse<br />

portandoli dentro la vicina casa <strong>di</strong> suo zio.<br />

Ci furono parecchi morti anche tra i civili: la moglie del <strong>di</strong>rettore<br />

della Banca schiacciata dalle macerie e il figlio Nico (carissimo amico)<br />

deceduto dopo alcuni giorni, il droghiere Gol<strong>di</strong>n, alcuni altri, <strong>di</strong> cui<br />

non ricordo il nome dentro il cinema, i coniugi Bodon che abitavano<br />

nei pressi e altri ancora, più <strong>di</strong> una decina.<br />

Per i soldati tedeschi andò molto peggio, furono riempite 70 casse<br />

e ancor oggi, sul muro perimetrale del cimitero <strong>di</strong> Monselice, si<br />

possono vedere tutte le croci <strong>di</strong> marmo bianco (76) con i nomi dei<br />

caduti; alcuni corpi sono stati portati in Germania, ma tutti gli altri,<br />

la maggior parte, vennero trasferiti, in tempo <strong>di</strong> pace, nel cimitero <strong>di</strong><br />

guerra <strong>di</strong> Costermano sul Garda.<br />

Per qualche tempo, in alto sul muro della casa sul ponte dove poi venne<br />

trasferito l’albergo Stella d’Italia, rimase l’impronta <strong>di</strong> un corpo.<br />

Per più <strong>di</strong> un mese nei pressi del cinema, del ponte e <strong>di</strong>rei per il centro<br />

<strong>di</strong> Monselice ci fu odore <strong>di</strong> morte; si racconta che i gatti sui tetti<br />

trovarono e mangiarono brandelli <strong>di</strong> carne.<br />

Questa era la guerra!<br />

La mia famiglia, come molte altre, escluso mio padre che rimase a<br />

casa, andò sfollata in campagna a casa dello zio Toni (fratello della<br />

nonna), e lì restò fino a pochi giorni prima della fine della guerra.<br />

Tempo fa venni a sapere, come già a quel tempo si sussurrava, che<br />

il bombardamento fosse stato pilotato da informazioni o in<strong>di</strong>cazioni<br />

provenienti da terra.<br />

Personalmente, nel caso specifico, ritengo la cosa poco probabile<br />

visto il comportamento <strong>di</strong> Pippo nei bombardamenti precedenti e<br />

successivi avvenuti in zona.<br />

Peraltro posso confermare per averle viste, seppure da lontano mentre<br />

ero sfollato, segnalazioni luminose fatte durante le ore notturne, ma<br />

Pippo non era nei <strong>di</strong>ntorni; certamente Monselice si prestava bene,<br />

con i due colli Rocca e Montericco nonché il Lago della Costa <strong>di</strong><br />

Arquà Petrarca, a fornire un punto <strong>di</strong> riferimento sicuro, <strong>di</strong> giorno<br />

e <strong>di</strong> notte, sia per l’orientamento degli aerei sia per eventuali lanci <strong>di</strong><br />

materiale o persone.


Bombardamento 21 febbraio 1945<br />

Premessa<br />

A causa del bombardamento del cinema da parte <strong>di</strong> Pippo (7 febbraio<br />

1945) eravamo da poco sfollati alla Costa <strong>di</strong> Arquà Petrarca, presso lo<br />

zio Toni Lunar<strong>di</strong>, fratello della nonna materna Emma.<br />

Quel giorno, <strong>di</strong> pomeriggio, mi trovavo sul Calbarina presso la casa<br />

dove era sfollato anche mio zio Giacomo con la sua famiglia. Era<br />

una giornata splen<strong>di</strong>da e pur essendo il 21 febbraio sembrava fosse<br />

primavera.<br />

Erano circa le 16.15 quando si sentì il rumore caratteristico <strong>di</strong> una<br />

formazione <strong>di</strong> aerei da bombardamento, in arrivo da sud-est.<br />

Le formazioni erano due, una <strong>di</strong> seguito all’altra, ciascuna formata<br />

da non molti aerei. Superata la verticale sul lago si stavano <strong>di</strong>rigendo<br />

verso nord-ovest; pensai che fossero <strong>di</strong>rette verso Vicenza.<br />

Dopo un po’ <strong>di</strong> tempo, però, invertirono la rotta <strong>di</strong> 180° ritornando<br />

da dove erano venute.<br />

Quando il primo aereo ebbe appena oltrepassato la perpen<strong>di</strong>colare<br />

sul lago vi<strong>di</strong> staccarsi dal <strong>di</strong>sotto un razzo luminoso e subito dopo<br />

u<strong>di</strong>i uno strano rumore e su Monselice, che era davanti ai miei<br />

occhi, precisamente nella zona della Casa del Fascio, meglio ancora<br />

all’ingresso da <strong>Padova</strong> nella zona dove dal Canale Bisato, parallelo alla<br />

statale per <strong>Padova</strong>, si <strong>di</strong>parte il canale del Bagnarolo verso Pernumia,<br />

vi<strong>di</strong> salire dei getti altissimi <strong>di</strong> polvere fin quasi a metà Rocca.<br />

Erano le bombe che scoppiavano, ne furono contate circa quaranta.<br />

Alcune <strong>di</strong> queste, essendo a scoppio ritardato, entrarono in funzione<br />

successivamente uccidendo anche qualche curioso e altri durante la<br />

notte o il giorno dopo.<br />

A quanto mi risulta - a parte i morti, i feriti e i danni materiali <strong>di</strong><br />

qualche casa e del Macello <strong>di</strong>strutti, che peraltro mio padre aveva in<br />

precedenza immortalato in alcuni suoi quadri in mio possesso -, i<br />

danni furono a mio avviso modesti poiché l’obbiettivo era forse quello<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere la strada per <strong>Padova</strong> e la derivazione dei due canali.<br />

Mio fratello Ruggero che si trovava in casa, a Monselice a circa 200<br />

metri dalla zona bombardata, rientrando alla Costa vide sull’argine<br />

della Canaletta che costeggiava la ferrovia il foro <strong>di</strong> una <strong>di</strong> quelle<br />

15


16 Premessa<br />

bombe e si allontanò in fretta. Il giorno dopo un pezzo <strong>di</strong> argine<br />

mancava; la bomba era scoppiata.<br />

Un po’ più avanti, sempre sulla strada per la Costa e precisamente<br />

all’incrocio con la salita dal passaggio a livello vi era una casa che<br />

durante la notte fu ridotta macerie.<br />

Marzo 1945, bomba in via F. Crispi<br />

Quella mattina <strong>di</strong> una domenica del marzo 1945 stavo arrivando in<br />

bicicletta a Monselice dalla Costa <strong>di</strong> Arquà Petrarca dove, salvo mio<br />

padre, eravamo sfollati; il programma era <strong>di</strong> passare per casa, andare a<br />

Messa, acquistare il pane e quin<strong>di</strong> con mio padre ritornare alla Costa<br />

per il pranzo.<br />

Avevo appena girato l’angolo tra Via XI febbraio e Via Crispi quando<br />

vi<strong>di</strong>, all’altezza <strong>di</strong> casa mia sull’altro lato della strada, un grosso cilindro<br />

bianco, sembrava uno <strong>di</strong> quei grossi paracarri che si trovavano a lato<br />

del campo della fiera e pensai l’avesse trascinato là qualche camion<br />

tedesco; ma come mi avvicinai un poco mi accorsi che sul fronte aveva<br />

una specie <strong>di</strong> ruota <strong>di</strong> ottone: era una bomba d’aereo inesplosa e tutta<br />

sporca <strong>di</strong> bianco. Sì! Era proprio una bomba da 500 libbre, sganciata<br />

da Pippo e stava <strong>di</strong> fronte tra il cancello <strong>di</strong> casa Dal Din e casa mia, sul<br />

lato opposto della strada.<br />

Alle ore 23 del sabato precedente Pippo, proveniente da Este,<br />

vedendo qualche luce aveva sganciato due bombe, la prima era<br />

caduta in un cortile interno dell’Albergo alla Rocca <strong>di</strong> proprietà delle<br />

sorelle Canoso, e non era esplosa, la seconda era invece esplosa sulla<br />

cosiddetta Rocchetta venti o trenta metri più in su.<br />

Da questo cortile con una strada in <strong>di</strong>scesa, chiusa al termine da un<br />

cancello in ferro, si arrivava in strada ed era la via <strong>di</strong> accesso al cortile<br />

per il parcheggio <strong>di</strong> carrozze o auto.<br />

La prima bomba, caduta sul ripiano dell’orto a terrazza che contornava<br />

il cortile, aveva fatto franare il muricciolo <strong>di</strong> sostegno; rotolando e<br />

sporcandosi sul terreno calcareo, aveva poi imboccato la <strong>di</strong>scesa e,<br />

<strong>di</strong>velta la parte inferiore del cancello, si era presentata in strada.<br />

Mi fermai sulla porta <strong>di</strong> casa e suonai, ma mio padre era a casa


Premessa<br />

<strong>di</strong> mio zio a<strong>di</strong>acente alla nostra. Mio padre mi raccontò cosa era<br />

successo: verso le 23 stava riportando a casa mio zio dal rifugio, che<br />

era fuori porta sant’Antonio, allorché sentendo il rumore dell’aereo<br />

si era fermato con lo zio addossandosi alle mura della cinta muraria.<br />

Avevano sentito il sibilo delle bombe, lo scoppio e inoltre erano stati<br />

colpiti da piccoli frammenti <strong>di</strong> pietra che, a seguito dello spostamento<br />

d’aria, erano caduti dalla cima delle mura.<br />

Passato l’aereo si erano avviati verso casa, ma alcune persone uscite<br />

dalle abitazioni per andare in rifugio avevano visto la bomba, anzi<br />

Enzo Zo<strong>di</strong>o era andato proprio a inciampare su <strong>di</strong> essa.<br />

Gli abitanti <strong>di</strong> Via Crispi passarono tutta la notte in rifugio.<br />

Il giorno dopo un giovane <strong>di</strong> Arquà Petrarca, milite delle Brigate<br />

Nere che io ben conoscevo poiché aveva stu<strong>di</strong>ato a Este nello stesso<br />

ginnasio che avevo frequentato, legò con una corda molto lunga la<br />

bomba; con l’aiuto <strong>di</strong> altri la bomba fu trainata nel campo della fiera,<br />

nei pressi <strong>di</strong> una torre delle mura <strong>di</strong> cinta e qui, assieme a venti chili<br />

<strong>di</strong> tritolo, venne fatta scoppiare.<br />

Nei <strong>di</strong>ntorni saltarono tutti i vetri, si scar<strong>di</strong>narono finestre, ecc. ma<br />

non ci furono feriti. A casa mia, la zia prese alcuni quadri <strong>di</strong> mio<br />

padre, che era un pittore <strong>di</strong>lettante, e li appiccicò con chio<strong>di</strong> al posto<br />

dei vetri; alcuni <strong>di</strong> quei quadri sono ora in cornice, ma mostrano<br />

ancora i buchi <strong>di</strong> quella volta.<br />

Quel giovane, coraggioso e sprezzante del pericolo, morì qualche<br />

settimana più tar<strong>di</strong>, una domenica, mentre cercava <strong>di</strong> bonificare la<br />

zona, attorno al ponte delle Grole, dalle bombe a farfalla che erano<br />

state sganciate da Pippo durante la notte.<br />

Assieme ad altre persone prendeva in mano, delicatamente, questi<br />

or<strong>di</strong>gni per gettarli nel canale, dove scoppiavano, ma una delle bombe<br />

gli scoppiò in mano squarciandogli il ventre.<br />

Calbarina: marzo 1945<br />

Quanto accaduto si è svolto fra il febbraio e il marzo del 1945,<br />

sicuramente si sentiva già la primavera ed era un pomeriggio pieno<br />

<strong>di</strong> sole. Mi trovavo sul monte Calbarina sul cortile della casa dove<br />

17


18 Premessa<br />

era sfollato mio zio Giacomo con la famiglia e anche la mia nonna<br />

materna.<br />

Vicino a me c’era mia cugina Annarosa presso alle due finestre molto<br />

basse della cucina, e un po’ più in là, vicino alla porta d’ingresso, mia<br />

nonna e mio cugino Toni.<br />

Tutto a un tratto sentimmo un rumore d’aerei e alla nostra sinistra<br />

vedemmo due Mustang assai bassi filare verso Monselice.<br />

Essendo a conoscenza che nei campi <strong>di</strong> Belluco, a fianco della strada<br />

per <strong>Padova</strong>, erano state messe delle mitragliere antiaeree (<strong>di</strong>stavano dal<br />

Calbarina due buoni chilometri e mezzo) e pensando che anche che<br />

i tedeschi avessero visto gli aerei e che gli avrebbero sparato contro,<br />

in <strong>di</strong>rezione del Calbarina, gridai a mia nonna <strong>di</strong> entrare e presi mia<br />

cugina in braccio (aveva sette anni) ed entrai con lei in cucina da una<br />

delle finestre gettandoci poi <strong>di</strong>stesi sul pavimento.<br />

Uno degli aerei, arrivato sopra Monselice, forse perché colpito già<br />

prima, e forse per questo i due volavano bassi, o dalle mitragliere<br />

antiaeree, sganciò i serbatoi supplementari, che caddero in paese<br />

incen<strong>di</strong>ando case e bruciando persone, una rimasta ferita e morì circa<br />

otto mesi dopo a guerra finita.<br />

Gli aerei si allontanarono verso sud-est; il giorno dopo sul terreno del<br />

Calbarina tro<strong>vai</strong> pezzi dei colpi sparati dalle mitragliere antiaeree.<br />

Ultimi giorni <strong>di</strong> guerra<br />

A Este, come scuola superiore, c’era solo il Liceo Scientifico cui<br />

si poteva accedere dall’ultimo anno <strong>di</strong> Istituto Tecnico o dalla IV<br />

Ginnasio, previo esame.<br />

Per l’anno 1944-45 presso il Collegio Manfre<strong>di</strong>ni, Rettore allora il<br />

Prof. Don Ernesto Tomba, venne aperta per interni ed esterni la prima<br />

classe del Liceo Classico; il liceo era stato istituito con il benestare del<br />

governo <strong>di</strong> allora, la RSI.<br />

Mio padre, che lavorava a Este, tenendo conto del periodo bellico e<br />

analogamente a quanto fatto dai genitori <strong>di</strong> alcuni miei compagni <strong>di</strong><br />

ginnasio, mi iscrisse alla I liceo del Manfre<strong>di</strong>ni.<br />

Già dall’ottobre 1943 chi andava da Monselice a Este, per stu<strong>di</strong>o o


Premessa<br />

lavoro, doveva usare la bicicletta e quin<strong>di</strong> avrei pedalato per qualche<br />

chilometro in più.<br />

Durante i primi mesi <strong>di</strong> liceo c’erano stati due bombardamenti nei<br />

pressi del collegio e qualche mitragliamento; era anche caduto un<br />

caccia americano; non si deve poi <strong>di</strong>menticare il “Pippo” che <strong>di</strong> notte<br />

buttava bombe dove vedeva luce.<br />

Nei primi giorni <strong>di</strong> aprile si incominciò a intravedere che la guerra<br />

stava per finire.<br />

La settimana precedente l’arrivo degli Alleati, nei pressi e prima del<br />

ponte della Torre, sul lato sinistro della strada per chi proviene da<br />

Este, i Tedeschi avevano sistemato alcune sagome colorate <strong>di</strong> legno<br />

e cartone rappresentanti dei camion e sulla destra, giù dalla scarpata<br />

nel campo a<strong>di</strong>acente e a <strong>di</strong>stanza strategica, due batterie antiaeree <strong>di</strong><br />

mitragliatrici.<br />

Il lunedì mattina, 23 aprile, arrivato in collegio per le lezioni tro<strong>vai</strong><br />

molti genitori che erano venuti a prendere i figli per portarli a casa.<br />

Molti erano partiti il giorno prima, in quanto proprio alla domenica,<br />

c’era stata una incursione sul ponte della Torre da parte dei caccia<br />

americani con mitragliamento dei camion <strong>di</strong> cartone, senza peraltro<br />

alcun abbattimento <strong>di</strong> aerei da parte della contraerea tedesca.<br />

Il vice rettore don Zanella, riuniti gli studenti e i genitori presenti,<br />

lasciando capire che ormai la guerra era prossima alla fine, ci<br />

comunicò che le lezioni venivano sospese e sarebbero state riprese a<br />

fine guerra; che comunque notizie più dettagliate si sarebbero potute<br />

avere il giorno dopo, invitando quin<strong>di</strong> chi abitava non troppo lontano<br />

a ritornare.<br />

Il mattino del 24 aprile (martedì); partito da casa e passando per<br />

Arquà e Baone, arri<strong>vai</strong> a Este a casa <strong>di</strong> Franco Polato per vedere se<br />

veniva in collegio.<br />

Qui c’era una novità: fermo in strada sulla mia bicicletta, appresi<br />

che nella notte Pippo aveva bombardato il collegio <strong>di</strong>struggendo la<br />

portineria.<br />

Franco mi <strong>di</strong>sse che non sarebbe venuto, ma sul marciapiede c’era<br />

una signora che, sentendo i nostri <strong>di</strong>scorsi, si avvicinò <strong>di</strong>cendoci che<br />

aveva il figlio in collegio e voleva andare al Manfre<strong>di</strong>ni per vedere dove<br />

19


20 Premessa<br />

era stato portato. Nel pomeriggio del 23 alle ore 15 c’era stato un<br />

bombardamento al ponte ferroviario vicino al collegio e una bomba<br />

era caduta in collegio senza però esplodere.<br />

Allarmati da ciò gli studenti rimasti erano stati evacuati con parte dei<br />

salesiani e portati, a quanto mi risulta, al Tresto.<br />

Così assieme a questa signora mi avviai a pie<strong>di</strong>, in quanto io solo<br />

avevo la bicicletta, prendendo lo stradone che dal cimitero porta al<br />

ponte della Torre e quin<strong>di</strong> al collegio.<br />

Giunti nei pressi della salita, ma prima del raccordo con la statale,<br />

con ancora qualche casa sulla sinistra e l’antiaerea tedesca nei campi a<br />

destra, la signora, forse pensando che mi faceva perdere del tempo, mi<br />

consigliò <strong>di</strong> montare in bicicletta e <strong>di</strong> andare avanti, ma non l’ascoltai.<br />

Trascorsero due minuti, non <strong>di</strong> più, quando u<strong>di</strong>mmo il rumore <strong>di</strong><br />

aerei; alti altissimi in cielo vedemmo due caccia o cacciabombar<strong>di</strong>eri<br />

che stavano gettandosi in picchiata; io gridai alla signora <strong>di</strong> correre<br />

verso la prima casa, gettai la bicicletta nel fossato e corsi verso la<br />

casa; entrammo da una porta e ci gettammo <strong>di</strong>stesi sul pavimento,<br />

contemporaneamente l’antiaerea incominciò a sparare.<br />

Gli aerei sganciarono alcune bombe e poi se ne andarono. Dopo un<br />

po’ uscimmo dalla casa, dove non c’era nessuno, e feci per avviarmi<br />

verso il collegio, ma la signora affermò che preferiva tornare in<strong>di</strong>etro.<br />

Salii allora in bicicletta e mi avviai verso il ponte; sul lato destro della<br />

scarpata c’erano le buche delle bombe appena gettate dagli aerei.<br />

A tutta velocità arri<strong>vai</strong> davanti alla portineria del collegio, ma qui<br />

dovetti fermarmi e prendere in spalla la bicicletta, c’erano vetri<br />

dappertutto e macerie; con la bicicletta in spalla mi avviai verso il<br />

cortile sul retro dove allora si trovavano le cucine; saliti i pochi gra<strong>di</strong>ni<br />

tro<strong>vai</strong> don Zanella che stava prendendo un caffè.<br />

Mi chiese cosa stessi facendo in quel luogo e io gli ricordai quanto<br />

aveva detto il giorno precedente; mi offrì un caffè, mi <strong>di</strong>sse che ci<br />

saremmo rivisti alla fine della guerra e prima <strong>di</strong> accomiatarci mi<br />

benedì, credo fosse per buon augurio.<br />

Ripresi in spalla la bicicletta, ma non avevo fatto <strong>di</strong>eci metri che sentii<br />

un rumore d’aereo e vi<strong>di</strong> dalla parte <strong>di</strong> Ospedaletto venire avanti verso<br />

il collegio un Lightning in leggera picchiata.


Premessa<br />

Buttata la bicicletta entrai in uno dei due ingressi dei gabinetti e mi<br />

misi al riparo del grosso muro che <strong>di</strong>videva gli ingressi, ma non era<br />

ancora finita.<br />

Ero ancora al riparo quando entrò a precipizio, tremando, un soldato<br />

tedesco (in collegio c’erano soldati e ufficiali tedeschi) che mi abbracciò<br />

sempre tremando; con cenni gli feci segno che conveniva stare calmi e<br />

quando non sentii più l’aereo, che nel frattempo aveva mitragliato le<br />

sagome dei camion con relativa risposta antiaerea, ripresi in spalla la<br />

bicicletta e mi avviai alla portineria.<br />

Da qui, prestando attenzione a tutti i possibili rumori, saltai in sella<br />

alla bicicletta e <strong>di</strong> volata passai il ponte e mi avviai verso Monselice.<br />

Ma non era ancora finita: dopo il passaggio a livello della ferrovia nei<br />

pressi del ponte dei Buffi, dato il posto in cui mi trovavo vicino a due<br />

ponti ferroviari, fui costretto a ripararmi nel profondo fossato a lato<br />

della strada in quanto era iniziato il passaggio <strong>di</strong> un notevole numero<br />

<strong>di</strong> bombar<strong>di</strong>eri, per fortuna in transito.<br />

Nel fossato c’era un bel gruppo <strong>di</strong> tedeschi, pure loro in transito.<br />

Passati gli aerei, ripresi il viaggio verso casa.<br />

Erano circa le 10.30 del mattino.<br />

21


22 Premessa<br />

Antonio Bettin, nato nell’allora frazione e ora via Monticelli e<br />

residente a Monselice, via San Vio 9<br />

Prolusione<br />

Da qualche anno non c’è più il servizio militare obbligatorio per i<br />

maschi italiani, ma l’esercito c’è ancora: <strong>di</strong> volontari, con la novità<br />

che anche le donne possono arruolarsi. In compenso rimangono le<br />

associazioni: ex alpini, ex artiglieri, ex marinai, eccetera, i quali si<br />

ritrovano soprattutto nelle adunate annuali. Ma la vera associazione<br />

militare è quella degli ex combattenti <strong>di</strong> tutte le armi, sempre meno<br />

numerosi, perché la guerra è finita da sessantacinque anni, ma<br />

veri maestri <strong>di</strong> vita per l’esperienza vissuta al fronte, in prigionia,<br />

alla macchia… e poi per l’esempio dato nella vita civile. E molti<br />

hanno fatto conoscere i loro <strong>di</strong>ari o i ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> guerra e/o prigionia<br />

stampandoli.<br />

Anche a Monselice Giuseppe Trevisan, il mio maestro <strong>di</strong> quinta<br />

elementare, non solo ha dato alle stampe i suoi ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> guerra, ma<br />

soprattutto dopo ha continuato a stimolare i soci dell’associazione<br />

perché facessero conoscere le loro esperienze.<br />

A me, coinvolto come correttore <strong>di</strong> bozze, il maestro ha chiesto: “e tu<br />

perché non scrivi quello che ricor<strong>di</strong> della guerra?” Pare una domanda,<br />

ma era un or<strong>di</strong>ne. Così mi scuso <strong>di</strong> questa intrusione, e riferirò nel<br />

modo più rapido i ricor<strong>di</strong>, dai quattro ai sette anni, del fanciullo che<br />

viveva a Monticelli, la frazione <strong>di</strong> Monselice incastrata tra i comuni <strong>di</strong><br />

Arquà Petrarca, Galzignano, Battaglia Terme e Pernumia.<br />

Tranne il primo, questi ricor<strong>di</strong> sono tutti successivi al triste giorno<br />

dell’autunno 1942 in cui la mamma morì <strong>di</strong> peritonite post-partum<br />

nell’ospedale <strong>di</strong> Monselice, verso il quale la vi<strong>di</strong> partire nell’ambulanza<br />

sotto una pioggia torrenziale.<br />

Il papà a Chiesanuova<br />

Il papà tornava a casa il sabato pomeriggio perché, pur essendo stato<br />

riformato per una pleurite giovanile e non avendo fatto il servizio<br />

militare, fu richiamato e messo in un ufficio a Chiesanuova, dove si


Premessa<br />

teneva la contabilità dei lavori per le caserme che si stavano costruendo<br />

nella zona. Dopo la <strong>di</strong>sgrazia, essendo i due fratelli <strong>di</strong> papà uno in<br />

Croazia e l’altro in Somalia, il papà fu definitivamente congedato.<br />

Prima tornava il sabato pomeriggio in bicicletta; mamma, nonna<br />

e zia lo facevano sedere e parlare e intanto gli portavano qualcosa<br />

perché si rifocillasse. Il nonno andava su e giù, teneva d’occhio se<br />

arrivava qualcuno in “botega” come era detto allora il negozio <strong>di</strong><br />

generi alimentari (ma non solo, perché anche il laboratorio dello zio<br />

Giovanni era la “botega da falegname”). In <strong>di</strong>sparte aspettavo che i<br />

gran<strong>di</strong> riprendessero i loro lavori perché il papà si de<strong>di</strong>casse solo a me:<br />

mi prendeva sulle ginocchia, si parlottava e poi accavallava le gambe:<br />

io mi accomodavo sul piede alto, solo col papà che mi faceva trottare.<br />

Passavamo assieme la domenica; al lunedì mi svegliavo e il papà non<br />

c’era più, credo partisse il mattino presto, e sempre in bicicletta che<br />

considerava il mezzo <strong>di</strong> trasporto più sicuro.<br />

Il saluto dei partenti<br />

Dopo l’ottobre 1942 ricordo tre o quattro mattine nelle quali il<br />

giovanotto che aveva ricevuto la “cartolina <strong>di</strong> precetto” passò a salutare<br />

tutte le famiglie della borgata – una trentina – parenti e non parenti.<br />

Stava partendo “per il fronte”, ma non si sapeva quale e dove.<br />

Riceveva qualcosa, ringraziava ripetutamente col sorriso inframmezzato<br />

da qualche lacrima o anche da uno scoppio <strong>di</strong> pianto; e non capivo<br />

perché insieme sorrideva e piangeva.<br />

Il ritorno <strong>di</strong> zia Olga e cugini<br />

All’inizio del 1943 la nostra famiglia crebbe <strong>di</strong> quattro unità perché<br />

da Moga<strong>di</strong>scio tornò la zia Olga con i tre figli Maria Teresa, Rosetta e<br />

Giovanni <strong>di</strong> tre, due e un anno. Alla fine del servizio militare in Somalia,<br />

allo zio era stata fatta la proposta <strong>di</strong> stabilirsi là come insegnante <strong>di</strong><br />

falegnameria nella scuola <strong>di</strong> arti e mestieri della Missione cattolica.<br />

Era tornato per sposarsi a Gallio ed era ripartito quasi subito portando<br />

in Africa la zia Olga, come sentivo <strong>di</strong>re, e nelle foto del matrimonio ci<br />

sono anch’io in primo piano appena in grado <strong>di</strong> stare in pie<strong>di</strong>.<br />

23


24 Premessa<br />

Quando fu richiamato nell’esercito, nella prima nave della Croce<br />

Rossa che tornava in Italia lo zio Giuseppe caricò moglie e figli per<br />

allontanarli dai pericoli. Il viaggio fu un’o<strong>di</strong>ssea, perché, si <strong>di</strong>ceva, il<br />

canale <strong>di</strong> Suez non era sicuro; peggio ancora era la marina inglese che,<br />

soprattutto coi sottomarini, infestava quella zona e anche gran parte del<br />

Me<strong>di</strong>terraneo. La nave circumnavigò l’Africa, entrò nel Me<strong>di</strong>terraneo<br />

da Gibilterra, scaricò i passeggeri in vari porti da Genova a Venezia,<br />

dove scesero gli ultimi con la zia e i figli alla fine <strong>di</strong> un viaggio <strong>di</strong> oltre<br />

quaranta giorni che aveva messo tutti alla prova.<br />

La prima Comunione<br />

La primavera del 1943 papà e nonni mi avevano permesso <strong>di</strong> andare al<br />

catechismo con gli amici che compivano i sei anni i quali, nella festa<br />

della SS. Trinità, ricevettero la prima Comunione. A ottobre entrai alle<br />

elementari con loro. Con loro ero nella classe <strong>di</strong> catechismo, ma senza<br />

la prima Comunione alla quale il parroco decise <strong>di</strong> ammettermi nella<br />

prima messa <strong>di</strong> una domenica <strong>di</strong> fine novembre. Dopo la cerimonia,<br />

come è consuetu<strong>di</strong>ne, c’è la colazione in canonica per il festeggiato,<br />

che non riesce a prendere nulla. Alle mie spalle lo zio Nino deve avere<br />

un magone più grosso del mio. Era sul fronte greco quando è morta<br />

la mamma, ed è stato congedato da pochi giorni per l’aggravarsi della<br />

sua miopia. “Torniamo subito” <strong>di</strong>ce e mi prende in braccio fino al<br />

cimitero. Davanti alla tomba della mamma e sorella ci stringiamo,<br />

piangiamo, sorri<strong>di</strong>amo e poi ritorniamo verso la chiesa da dove, con<br />

tutti i parenti, si va a casa.<br />

Un pomeriggio della settimana successiva zia Teresina mi preparò<br />

e mi fece sedere sul sellino per bambini della sua bicicletta. Passò a<br />

prendere zia Francesca e insieme mi portarono a Monselice. Prima<br />

andammo dal fotografo. Là mi fecero indossare il vestito bianco<br />

della prima Comunione e furono fatte le fotografie rituali. Dopo mi<br />

portarono dal barbiere il quale mi tagliò i capelli lunghi (mio cruccio<br />

e vergogna) che le zie avevano voluto lasciar crescere dopo la morte<br />

della mamma. Non ricordo se eravamo partiti tar<strong>di</strong> o se andò per le<br />

lunghe dal barbiere. Uscimmo dal fotografo che scendeva il buio. Così<br />

le zie presero la strada alta (così veniva chiamata la statale 16) che era


Premessa<br />

pressoché deserta. Accesero le pile che una certa luce la facevano, ma a<br />

un certo punto ammutolirono. Sulla nostra destra, sopra Pernumia, si<br />

vedevano le luci <strong>di</strong> un aereo che volava verso nord. Smisero <strong>di</strong> parlare e<br />

si fermarono. Dopo un po’ ripartimmo in silenzio e con le pile spente,<br />

anche se dell’aereo non si sentiva più il rumore né si vedevano le luci,<br />

finché arrivammo a casa della zia Francesca che ci fece accompagnare<br />

negli ultimi cinquecento metri dallo zio Nino.<br />

La prima elementare<br />

Autunno 1943. Anche se l’età non c’era tutta, papà ottiene la mia<br />

iscrizione alla prima elementare nella scuola costruita da pochi anni,<br />

come tante altre in località lontane dai centri. Ci sono due aule ampie,<br />

con i banchi <strong>di</strong> legno ancora nuovi, che possono accogliere fino a<br />

una cinquantina <strong>di</strong> alunni ciascuna, perché ci sono le pluriclassi: la<br />

prima con la terza e la seconda con la quarta. Chi vuole il <strong>di</strong>ploma<br />

della scuola elementare deve fare la quinta, secondo la como<strong>di</strong>tà, a<br />

Monselice o Arquà Petrarca o Pernumia o Battaglia Terme.<br />

I rifugi<br />

Di quell’anno ho un altro ricordo molto vivo. Sopra le nostre teste<br />

fin dall’estate erano passate sempre più spesso squadriglie <strong>di</strong> aerei da<br />

bombardamento, come le chiamavano i gran<strong>di</strong>: potrebbero bombardare<br />

anche da noi. Sento una parola nuova: rifugi; ci vorrebbero dei rifugi.<br />

E siccome la trentina <strong>di</strong> case <strong>di</strong> Monticelli è sul pianoro dell’antica<br />

cava <strong>di</strong> trachite che si è fermata lungo una parete <strong>di</strong> volgare pietra da<br />

annegamento alta al più una dozzina <strong>di</strong> metri e lunga poco più <strong>di</strong> un<br />

centinaio, verso la fine dell’estate devono aver deciso <strong>di</strong> scavarli i rifugi.<br />

Infatti lo zio Nando, invalido della prima guerra mon<strong>di</strong>ale, un po’ in<br />

pie<strong>di</strong> un po’ seduto comincia a improntare l’apertura del rifugio alla<br />

fine del suo cortile sul lato ovest della nostra casa. Si sente martellare<br />

anche <strong>di</strong>etro le case dei Ferrato e dei Giuliani. Ma verso la primavera<br />

del 1944 la situazione deve essersi aggravata: arrivano gli operai delle<br />

cave a fine lavoro e, finché c’è luce, senti il battere dei martelli che<br />

preparano i fori per la polvere delle mine, poi lo scoppio delle mine,<br />

25


26 Premessa<br />

lo scricchiolio delle carriole che portano fuori pietre e ghiaia e grida<br />

che allontanano noi piccoli curiosi perché : “Ghe xe pericolo”. Ma,<br />

<strong>di</strong>remmo adesso, sono stati dei draghi: in tre o quattro settimane i rifugi<br />

ci sono. La porta <strong>di</strong> ingresso viene ristretta con pietre squadrate tenute<br />

insieme da tavole, travi e, dove occorre, un po’ <strong>di</strong> malta per ridurre<br />

lo spostamento d’aria, sentivo <strong>di</strong>re, nel caso fosse scoppiata lì vicino<br />

qualche bomba. L’ingresso <strong>di</strong>venta così un corridoio non più largo <strong>di</strong><br />

mezzo metro per un paio <strong>di</strong> metri <strong>di</strong> lunghezza. La parte interna si<br />

allarga oltre i tre metri, è alta come il pianterreno delle nostre case ed<br />

è lunga una quin<strong>di</strong>cina <strong>di</strong> metri fin dove comincia a restringersi per<br />

uscire all’esterno con un’apertura circolare, “<strong>di</strong> emergenza” <strong>di</strong>cevano,<br />

del <strong>di</strong>ametro che non raggiungeva il metro: anche noi bambini per<br />

uscire dovevamo metterci sulle ginocchia. Fin da subito in uno scanso<br />

si è visto un lettuccio dove dormì fino alla Liberazione Carlo Garzon<br />

detto Zamara. Era proprietario dell’abitazione dove vivevano i prozii<br />

Nando e Amabile e del cortile nel quale c’era l’entrata del rifugio.<br />

Pensionato delle officine Galileo <strong>di</strong> Battaglia Terme dove risiedeva, si<br />

era trasferito a Monticelli prima ancora che su Battaglia iniziassero i<br />

bombardamenti per interrompere la statale 16 all’altezza dei mulini,<br />

dove ci sono le porte che scaricano l’acqua del Bisatto nel sottostante<br />

Vigenzone.<br />

Vacanze 1944<br />

Le vacanze del 1944 cominciarono con una bella villeggiatura, ma<br />

per me triste (eh… allontanare un bambino dagli amici quando<br />

finalmente può stare con loro tutto il giorno senza impegni!). Vero è<br />

che ci ho messo decenni per riconciliarmi con l’altopiano <strong>di</strong> Asiago da<br />

dove viene la mia ascendenza materna. Le zie Teresina Olga e Francesca<br />

portarono a Gallio nella gran casa dei Pertile, dove erano rimasti solo<br />

i prozii Rosa e Giovanni, genitori <strong>di</strong> zia Olga, con Domenico (che<br />

chiamavano Mèno), noi cinque bambini <strong>di</strong> casa Bettin col fratello<br />

rimasto orfano a tre giorni che continuava a crescere bene con nonna<br />

e zia materne. Fu comunque una vacanza benefica e tranquilla, senza<br />

aerei che sorvolassero l’altopiano. Sarebbe parso <strong>di</strong> essere fuori dalla<br />

guerra se non ci fosse stato lassù un <strong>di</strong>staccamento <strong>di</strong> varie centinaia


Premessa<br />

<strong>di</strong> soldati accampati con le tende tra i pini del Gastah e che quasi ogni<br />

giorno finivano le marce passando davanti alla casa dei Pertile, che<br />

allora era la penultima del paese a poche centinaia <strong>di</strong> metri dalle tende<br />

dei soldati. Tra questi trovammo Dorino, da Monticelli, uomo giusto<br />

e carissimo come pochi. In libera uscita non mancava mai <strong>di</strong> passare<br />

da noi e, dalla terza volta, sempre con la gavetta piena <strong>di</strong> baccalà in<br />

umido che non riusciva più a mangiare, perché era ogni giorno quella<br />

minestra, e che noi bambini invece apprezzavamo. In cambio Dorino<br />

mangiava <strong>di</strong> gusto la pasta, le verdure e, quando c’era, la carne che le<br />

zie stentavano a farci mandar giù.<br />

L’arrivo dei Tedeschi<br />

Verso la fine delle vacanze arrivarono, nella loro ritirata, anche a<br />

Monticelli i Tedeschi. Doveva essere una compagnia. La maggior<br />

parte degli uomini fu alloggiata in uno stabile tra Rivella e la chiesa<br />

<strong>di</strong> Monticelli e nelle <strong>di</strong>pendenze <strong>di</strong> villa Italia a Lispida. Gli ufficiali<br />

alloggiarono nella canonica; gruppetti <strong>di</strong> soldati in case <strong>di</strong> campagna<br />

che dovevano sembrare adatte per gli scopi degli occupanti e una<br />

cinquantina <strong>di</strong> uomini si sistemò a Monticelli, la maggior parte nell’ex<br />

chiesa <strong>di</strong> san Carlo che dal 1930, quando fu benedetta la nuova chiesa,<br />

era stata trasformata in un piccolo teatro. A casa nostra un maresciallo<br />

e tre sergenti requisirono due stanze: la cucina e il soggiorno che erano<br />

in<strong>di</strong>pendenti e quin<strong>di</strong> non fummo <strong>di</strong>sturbati molto, ma dovemmo<br />

entrare e uscire per la cantina o la bottega e poi spostare la cucina con<br />

stufa, tavola, credenza eccetera. Dovemmo dunque restringerci; ma<br />

c’era la guerra… e, a un certo punto dell’inverno, tornò congedato dal<br />

fronte dalmata l’aviere zio Giovanni.<br />

Non so se era nonno il maresciallo tedesco, ma era dolce con noi<br />

bambini e veniva quasi ogni giorno a passare un po’ <strong>di</strong> tempo da noi,<br />

dove si rivelò un ginnasta coi fiocchi: i talloni sull’orlo <strong>di</strong> una se<strong>di</strong>a, la<br />

nuca appoggiata sul se<strong>di</strong>le <strong>di</strong> un’altra e restava così sospeso, parallelo<br />

alla terra, che non ricordo fino a dove mi faceva contare.<br />

Una volta volle a tutti i costi caricarsi sulle spalle il nonno; noi<br />

bambini lo guardavamo a bocca aperta, finché non la chiudemmo<br />

per non ridere quando sistemò il peso proprio sotto una trave contro<br />

27


28 Premessa<br />

la quale andò a battere la testa del nonno. Non so cosa sapessero <strong>di</strong><br />

lui i gran<strong>di</strong>, ma più crescevo e più mi parve che avesse una terribile<br />

nostalgia <strong>di</strong> casa, dei figli, <strong>di</strong> bene…<br />

L’anno meraviglioso<br />

Lo stabile occupato da un bel numero <strong>di</strong> soldati tra Rivella e la chiesa<br />

<strong>di</strong> Monticelli era proprio la nostra scuola. Ve lo immaginate un anno<br />

intero senza maestri e lezioni? Le vacanze che non finivano? In realtà<br />

c’era ben poco da godere e noi bambini non sapevamo né potevamo<br />

capire cosa stesse capitando. Le giornate si accorciavano, ma avevamo<br />

ancora modo <strong>di</strong> vedere, come d’estate, formazioni <strong>di</strong> decine <strong>di</strong> aerei<br />

– le fortezze volanti <strong>di</strong>cevano – che andavano verso nord. Con<br />

frequenza sempre maggiore arrivavano anche i caccia che si calavano<br />

in picchiata lasciando partire due cosine, parevano due ghiande, le<br />

quali, nonostante sparissero <strong>di</strong>etro il monte Lispida, ci inviavano<br />

dopo un po’ il boato dello scoppio. Qualche volta tentarono <strong>di</strong><br />

bombardare il ponte della ferrovia sul canaletto che fiancheggia la<br />

strada Costa – Rivella. Rimanevano enormi buchi <strong>di</strong>etro il casello tra<br />

la ferrovia e la Canaletta. Una bomba portò via al casello l’angolino<br />

nord – est del tetto, ma gli Zanasi continuarono il loro servizio.<br />

Una domenica mattina <strong>di</strong> quell’inverno uscimmo dalla prima messa<br />

e trovammo la giornata rigida ma luminosissima, col sole non<br />

molto alto sull’orizzonte. Papà entrò con altri in canonica davanti<br />

alla quale si formò un capannello <strong>di</strong> donne con qualche bambino.<br />

All’improvviso una pattuglia <strong>di</strong> caccia spuntò dai colli <strong>di</strong> Arquà<br />

Petrarca e passò sopra le nostre teste verso Battaglia Terme.<br />

Da Lispida partirono alcune raffiche della contraerea. Subito<br />

sentimmo che dal cielo limpi<strong>di</strong>ssimo qualcosa cadeva a terra.<br />

Una donna vide e prese in mano un pezzetto rotondo <strong>di</strong> ferro<br />

che scottava. “Sono pezzi <strong>di</strong> contraerea” gridò e corremmo tutti<br />

dentro la sala della canonica dove i parenti stavano o comperando il<br />

giornale oppure or<strong>di</strong>nando – come si <strong>di</strong>ceva – delle messe. La cosa<br />

finì là. Ma tornammo a casa in silenzio e, dentro, non dovevano<br />

essere tranquilli i gran<strong>di</strong>.


Pippo e altro<br />

Premessa<br />

Pippo veniva chiamato l’aereo, ma dovevano essere tanti, che <strong>di</strong><br />

notte a bassa quota perlustrava il territorio e, dove vedeva luci o<br />

movimento, bombardava. In casa si parlava poco <strong>di</strong> questo per<br />

non spaventare i piccoli; ma io dormivo col papà proprio sopra lo<br />

stanzone a<strong>di</strong>bito a osteria che ogni sera si riempiva <strong>di</strong> uomini i quali,<br />

giocando a carte, si rimproveravano o gridavano quando vincevano,<br />

ma sempre più spesso parlavano seriamente <strong>di</strong> quello che capitava<br />

e sentii <strong>di</strong> bombardamenti, <strong>di</strong> rifugi, <strong>di</strong> alleati <strong>di</strong> qua del Po. Ma il<br />

sonno, per fortuna, la vinceva presto e allora non seppi mai neppure<br />

della strage <strong>di</strong> Pippo nel cinema Roma a Monselice.<br />

Invece ho avuto nelle pagine precedenti alle mie la risposta a una<br />

domanda che ho fatto tante e tante volte a persone <strong>di</strong> Monselice.<br />

Un pomeriggio <strong>di</strong> quell’inverno molto chiaro nonostante le nuvole<br />

stavo tornando a casa, quando il rumore <strong>di</strong> aerei mi fece girare.<br />

Erano solo quattro, non erano caccia e, ancora abbastanza lontani da<br />

Monticelli, piegarono alla loro sinistra facendo due o tre giri attorno<br />

a Monselice, sembrava, finché presero la <strong>di</strong>rezione verso <strong>di</strong> noi e<br />

sganciarono decine e decine <strong>di</strong> bombe. Poi si girarono e sparirono<br />

verso Sud.<br />

Sarà stato per il vento che tirava verso Monselice, ma a Monticelli<br />

non si è sentito uno scoppio. Dalle pagine dell’ingegner Giovanni<br />

Veronese ho finalmente saputo che anche quel giorno, 28 febbraio<br />

1945, Monselice era stata colpita, anche se molte <strong>di</strong> quelle bombe<br />

non erano esplose subito.<br />

Erano giorni strani durante i quali bisognava scappare, almeno una<br />

volta, nei rifugi. I ragazzi più gran<strong>di</strong> spesso scappavano fuori, facevano<br />

quei pochi metri <strong>di</strong> sentiero fin sopra la parete che, per quanto bassa,<br />

sovrastava tutte le case del paese e là guardavano i bombardamenti<br />

dei caccia su Rivella o Battaglia Terme oppure giocavano. Una volta<br />

sono scappato fuori anch’io, ma poco dopo arrivò zio Giovanni che<br />

<strong>di</strong>sse solo: “Se veniva tuo papà era almeno uno sculaccione”.<br />

Non uscii più per quanto noioso fosse il rifugio.<br />

29


30 Premessa<br />

Un mattino non c’erano più i Tedeschi a casa nostra (il maresciallo<br />

se n’era andato senza salutare), e non ce n’erano più neppure nella<br />

chiesetta vecchia né in canonica. “Riva i aleati” <strong>di</strong>cevano i gran<strong>di</strong>, ma<br />

non li abbiamo visti finché un paio <strong>di</strong> giorni dopo, il pomeriggio del<br />

28 aprile, scappammo ancora nel rifugio perché in cielo si erano viste<br />

strane giravolte <strong>di</strong> aerei e si erano sentite scariche <strong>di</strong> mitraglia. A un<br />

certo punto “l’antifona – come <strong>di</strong>ceva il nonno – era cambiata”.<br />

“I aleati xe passà; i xe drio passare; i go visti a Rivea; no i finise<br />

pì”. Così gridavano dei giovanotti, mentre si erano formati alcuni<br />

capannelli <strong>di</strong> gran<strong>di</strong>. Ogni tanto qualcuno si staccava e andava verso<br />

la chiesa. Sì, il campanile era stato cannoneggiato! Appena sotto le<br />

campane c’erano due orribili fori roton<strong>di</strong> <strong>di</strong> un paio <strong>di</strong> metri <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ametro. “Sì, parché no ghe gera la ban<strong>di</strong>era bianca” giustificava<br />

qualcuno. Erano quelle frasi senza senso che qualcuno trovava, non<br />

si sa come, il modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re.<br />

Come qualche settimana prima quando Aldo Ferrato aveva dovuto<br />

andare al <strong>di</strong>stretto militare per delle visite come richiamato.<br />

Il pomeriggio lo mandarono a casa anche col biglietto del treno per<br />

la località nella quale doveva presentarsi. Ma non obbedì all’or<strong>di</strong>ne.<br />

Aspettava il treno per tornare a casa in stazione a <strong>Padova</strong> “nel<br />

posto sbagliato”. In uno dei numerosi e terribili bombardamenti<br />

sulla stazione padovana fu tra i tanti colpiti e uccisi, mentre due<br />

compagni, che erano a una decina <strong>di</strong> metri da lui, tornarono: “se el<br />

fuse sta visin ai amisi…” <strong>di</strong>ssero molti.<br />

“La guerra - <strong>di</strong>cevano - è finita”; ma a noi piccoli pareva <strong>di</strong> esserci<br />

ancora dentro. Solo due esempi: nei primi mesi del 1946 lo zio Bepi<br />

scrisse che stava per arrivare dalla Somalia e in<strong>di</strong>cò anche la data<br />

dell’arrivo. La zia Olga lo aspettava rileggendo la lettera e facendo i<br />

conti dei giorni del viaggio: giorni che passarono invano, lo zio non<br />

tornava. Zia Olga entrò in una crisi che si dovettero allontanare i<br />

cugini. Ma, grazie a Dio, con un ritardo <strong>di</strong> un paio <strong>di</strong> settimane zio<br />

Giuseppe arrivò e la famiglia si ricompose finché, morti nel giro <strong>di</strong><br />

pochi mesi i genitori <strong>di</strong> zia Olga, gli zii decisero <strong>di</strong> iniziare le pratiche<br />

per emigrare in Australia, dove dagli anni Venti c’erano i quattro


Premessa<br />

fratelli maschi della zia che erano scappati dall’altopiano <strong>di</strong> Asiago<br />

dopo la prima guerra mon<strong>di</strong>ale che lo aveva <strong>di</strong>strutto.<br />

Quel 28 aprile avevamo visto uscire del fumo anche dalla nostra<br />

scuola. I tedeschi avevano ringraziato dell’ospitalità appiccando il<br />

fuoco all’e<strong>di</strong>ficio.<br />

Ma noi non continuammo la vacanza. Durante l’estate la parrocchia<br />

offrì alle maestre Belluco e Vergani una delle due sacrestie dove quasi<br />

tutti gli alunni si recavano, alcuni al mattino e altri al pomeriggio, e<br />

per fortuna ci si alternava, perché quelli a cui toccava il pomeriggio<br />

uscivano da quella sacrestia in pieno sole, nonostante porta e finestre<br />

aperte, boccheggianti. A ottobre poi riprendemmo la scuola in due<br />

stanze <strong>di</strong> villa Italia a Lispida. La scuola fu pronta per l’ottobre 1946.<br />

Molti <strong>di</strong> noi osservavano come stava Marianna. La bidella sempre<br />

impeccabile, col grembiule nero lavato e stirato ogni giorno, stava al<br />

suo posto gentile e severa, premurosa ed esigente.<br />

Dario non era arrivato neanche quella notte… Dario che, quando era<br />

passato a salutarci già con la <strong>di</strong>visa militare pochi giorni prima che<br />

la mamma ci lasciasse, mi aveva alzato sulle braccia giocando come<br />

sempre.<br />

Non ritornò né si seppe mai dove e come era finito.<br />

31


La lunga prigionia<br />

<strong>di</strong> un marinaio<br />

Estate 1942, imbarcato sull’incrociatore Taranto<br />

TARCISIO BERTAZZO<br />

Classe 1921<br />

Monselice – PD – Via Arzer<strong>di</strong>mezzo


34 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Memorie <strong>di</strong> guerra dal 1941 al 1946<br />

raccolte da Anna Scricco <strong>di</strong> Monselice,<br />

ricercatrice <strong>di</strong> storia italiana contemporanea<br />

La mia famiglia<br />

Sono nato a Monselice, il 23 <strong>di</strong>cembre 1921, in una famiglia<br />

numerosa con profonde ra<strong>di</strong>ci cattoliche. Eravamo in <strong>di</strong>eci figli,<br />

cinque maschi e cinque femmine, io ero l’ottavo; dopo <strong>di</strong> me altri<br />

due fratelli maschi, Damiano e Camillo. Mia madre, Giuseppina<br />

Montesso, morì quando io avevo nove anni. La sorella <strong>di</strong> <strong>di</strong>ciassette<br />

anni fece da mamma, oltre che a me, anche ai due miei fratelli più<br />

piccoli. Le mie tre sorelle maggiori avevano già preso i voti per essere<br />

suore e perciò vivevano in convento. Mio padre Federico, nato nel<br />

1867 fu castaldo per le proprietà agricole che il conte Nani aveva a<br />

Monselice e nei <strong>di</strong>ntorni. Mio padre, una volta andato in pensione,<br />

ricevette come compenso l’affitto privilegiato <strong>di</strong> un<strong>di</strong>ci campi, così<br />

tutti noi imparammo a lavorarli.<br />

Quando scoppiò la Grande Guerra, a nostro padre fu assegnato il<br />

ruolo <strong>di</strong> “territoriale”, cioè operaio nelle officine Galileo <strong>di</strong> Battaglia<br />

Terme, che funzionavano allo scopo <strong>di</strong> fornire armi ai nostri soldati<br />

al fronte. Con la ritirata <strong>di</strong> Caporetto quelle officine furono trasferite<br />

a Prato, così nostro padre dovette lavorare lontano dalla sua famiglia<br />

per oltre un anno. Papà Federico fu sempre per tutti noi un grande<br />

esempio <strong>di</strong> laboriosità, rettitu<strong>di</strong>ne e <strong>di</strong> forte senso della giustizia.<br />

Riusciva sempre a trovare il modo <strong>di</strong> incrementare il red<strong>di</strong>to<br />

familiare dei campi, siti in via Arzer<strong>di</strong>mezzo a Monselice, con una<br />

piccola attività commerciale <strong>di</strong> compraven<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> prodotti agricoli.<br />

Tutti noi figli abbiamo frequentato, oltre le elementari, anche le tre<br />

classi dette “complementari”, che erano le sole scuole me<strong>di</strong>e qui a<br />

Monselice. Mio fratello Espe<strong>di</strong>to, del 1911, riuscì invece a <strong>di</strong>plomarsi<br />

insegnante elementare, andando a scuola in città. Espe<strong>di</strong>to fu in<br />

seguito richiamato alle armi per andare a combattere, come soldato


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

della sanità, nella Guerra d’Etiopia scoppiata nel 1935. Finita la<br />

guerra, non ritornò a casa, ma rimase in Africa.<br />

Un Monselicense che viveva in Kenya con la famiglia lo ingaggiò per<br />

l’educazione dei figli. Costui aveva una grande concessione inglese<br />

<strong>di</strong> circa 10 km quadrati <strong>di</strong> terreno ed era molto ricco; Espe<strong>di</strong>to dopo<br />

due anni si stancò e ritornò a casa in famiglia. A Monselice trovò<br />

subito un altro posto <strong>di</strong> insegnante. Quando scoppiò il secondo<br />

conflitto mon<strong>di</strong>ale, fu nuovamente richiamato e aggregato ad un<br />

gruppo militare che lavorava in un consolato italiano in Germania.<br />

Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, se ne ritornò in patria<br />

dal consolato con una motocicletta. Era una nuova moto Triumph,<br />

modello allora prestigioso, che era fornita <strong>di</strong> ban<strong>di</strong>erina e documenti<br />

consolari: tutto questo gli tornò molto utile poiché, presentando la<br />

documentazione alle varie pattuglie tedesche che incontrò durante<br />

il viaggio <strong>di</strong> rientro, poté passare in<strong>di</strong>sturbato ai controlli. Poi, fino<br />

alla fine della guerra, rimase sempre nascosto.<br />

Al termine delle ostilità, riebbe la possibilità <strong>di</strong> proseguire nel suo<br />

impiego <strong>di</strong> maestro.<br />

Per quanto riguarda gli altri miei fratelli, il più vecchio, Ottaviano,<br />

nato nel 1905, non fu richiamato e lo stesso avvenne per il più giovane,<br />

classe 1925; ma le cose andarono <strong>di</strong>versamente per il fratello Damiano.<br />

L’otto settembre del 1943 era soldato a Grado e qui trovò una famiglia<br />

che fu molto gentile con lui aiutandolo in modo determinante a<br />

raggiungere Monselice, dove visse nascosto per tutto il periodo della<br />

repubblica <strong>di</strong> Salò. Io invece, avendo intrapreso la vita del marinaio,<br />

rimasi assente da casa mia per ben quattro anni e mezzo.<br />

In famiglia tutti noi ragazzi avevamo assorbito in modo<br />

determinante l’orientamento politico <strong>di</strong> nostro padre: egli oltre<br />

che essere fervente cattolico, era anche un attento e convinto<br />

sostenitore del pensiero politico <strong>di</strong> Don Luigi Sturzo. Da sempre<br />

io avevo avvertito in casa che la <strong>di</strong>ttatura fascista, con le sue manie<br />

smisurate <strong>di</strong> grandezza, avrebbe portato il nostro Paese alla rovina.<br />

In questo contesto familiare, noi figli siamo sempre rimasti estranei<br />

a qualsiasi organizzazione giovanile fascista. A nostro parere erano<br />

nate non per sviluppare i valori delle persone, ma solo allo scopo<br />

35


36 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

<strong>di</strong> mettere in luce esclusivamente le prerogative del capo, il Duce,<br />

come Mussolini si definiva. Era questo che papà ci aveva insegnato.<br />

Il Duce era sì un istrione dalle gran<strong>di</strong> doti <strong>di</strong> demagogo, ma non si<br />

rivelò saggio, come amministratore, per non aver saputo prevedere<br />

e provvedere alle future sorti dell’Italia.<br />

Quando venne il 10 giugno 1940, Mussolini <strong>di</strong>chiarò guerra<br />

alla Francia e ai suoi alleati. Ricordo chiaramente che mio padre,<br />

mestamente, <strong>di</strong>sse allora: “Ormai tutto è finito!”<br />

Marinaio<br />

Ai miei tempi i ragazzi che avevano compiuto <strong>di</strong>ciotto anni, ed<br />

erano in buone con<strong>di</strong>zioni fisiche, dovevano partecipare per alcuni<br />

mesi all’anno fino al momento della loro chiamata alle armi, a dei<br />

corsi preparatori, per affrontare la vita militare. Erano i corsi del<br />

“premilitare” che si svolgevano al sabato, il cosiddetto sabato fascista.<br />

Queste esercitazioni consistevano in esercizi ginnici e lezioni sulla<br />

conoscenza e l’uso delle armi. Tutti i partecipanti venivano <strong>di</strong>visi<br />

in squadre comandate da militanti fascisti sempre in <strong>di</strong>visa, il cui<br />

unico intento era, alla fin fine, <strong>di</strong>mostrare ai vari gerarchi <strong>di</strong> essere<br />

perfettamente in grado <strong>di</strong> organizzare i giovani come i soldati delle<br />

caserme. Ai miei occhi quell’inutile per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> tempo non piaceva,<br />

così cercai un modo per evitare questi allenamenti e riuscii a trovare<br />

una scappatoia: tutti coloro, che volontariamente chiedevano per<br />

iscritto <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>ventare marinai, non erano obbligati a partecipare<br />

alle marce premilitari, ma venivano invece addestrati nella conoscenza<br />

della vita in marina. Fu così che per tre anni frequentai, assieme ad<br />

una decina <strong>di</strong> miei coetanei, le lezioni <strong>di</strong> un marinaio, un sottufficiale<br />

in pensione. Ci raggruppavamo in una stanza della casa del fascio<br />

(ora trasformata in abitazioni) che sorgeva alla confluenza del Viale<br />

della Repubblica e via Galilei. Quel simpatico “capo” - così si definiva<br />

il suo grado - mi trasmise l’amore per la marina, le prime conoscenze<br />

delle navi e l’orientamento con le stelle. Passai la visita militare presso<br />

la Capitaneria <strong>di</strong> porto <strong>di</strong> Venezia e fui <strong>di</strong>chiarato abile.<br />

In marina vigeva la regola <strong>di</strong> chiamare alle armi il 15 <strong>di</strong>cembre<br />

dell’anno in cui il neo marinaio compiva vent’anni.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Fu per questo che io partii per La Spezia il 15 <strong>di</strong>cembre del 1941:<br />

considerai questa regola la mia fortuna, poiché gli altri miei coetanei,<br />

che invece avevano scelto il “premilitare”, erano già partiti per la<br />

guerra e, destinati ai vari fronti, purtroppo, alcuni <strong>di</strong> loro erano già<br />

deceduti in battaglia.<br />

Io fui imbarcato sull’incrociatore “Taranto”, appena nominato nave<br />

ammiraglia della Forza Navale Speciale, comandata dall’Ammiraglio<br />

Tur. Con tale incarico il Taranto assunse il ruolo <strong>di</strong> incrociatore<br />

guar<strong>di</strong>acoste.<br />

Il Taranto, come seppi più tar<strong>di</strong>, costruito in Germania nel 1911, era<br />

stato ceduto all’Italia come preda bellica nel 1920. L’incrociatore fu<br />

subito sottoposto a un primo restauro nell’arsenale <strong>di</strong> Taranto, da cui<br />

il suo nome. Subì successivamente altre revisioni; in quella del 1936<br />

le ciminiere, da quattro, furono portate a tre. Furono poi rafforzati<br />

gli armamenti tanto che nel 1940, all’inizio della guerra, il Taranto<br />

era una nave solida e ben armata. Aveva sette cannoni da 149/43 e<br />

due da 88/45 (il primo numero in<strong>di</strong>ca il calibro in millimetri, cioè<br />

il <strong>di</strong>ametro della bocca da fuoco; il secondo è il coefficiente che,<br />

moltiplicato per il <strong>di</strong>ametro, dà la lunghezza della canna: nel nostro<br />

caso, per esempio, la lunghezza della canna, in mm 149x43=6407,<br />

era pari a 6,407 metri). La nave aveva anche quattro lanciasiluri<br />

da 500, mitragliere antiaeree leggere e le sistemazioni per la posa<br />

<strong>di</strong> campi minati con una dotazione <strong>di</strong> 120 mine. Venni anche a<br />

conoscenza che il Taranto, prima del mio imbarco, aveva partecipato<br />

all’inizio del 1941 al bombardamento delle coste jugoslave, quando<br />

Mussolini aveva <strong>di</strong>chiarato guerra ai paesi balcanici, e che poi aveva<br />

anche collocato delle cortine <strong>di</strong> mine.<br />

Nei primi due mesi affrontai un intenso addestramento che mi<br />

garantì maggiore conoscenza della nave in cui ero imbarcato.<br />

L’equipaggio era <strong>di</strong> circa 500 marinai dei quali 15 erano ufficiali.<br />

Oltre all’Ammiraglio Tur, vi erano un Capitano <strong>di</strong> Vascello, che<br />

era il comandante dell’incrociatore, dei Capitani <strong>di</strong> corvetta e dei<br />

vari Guar<strong>di</strong>amarina. I graduati <strong>di</strong> truppa erano i nostromi, i capi, i<br />

sottocapi e i marinai scelti.<br />

La vita era <strong>di</strong>sciplinata e stabilita da regole precise, ma tutto<br />

37


38 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

sommato non c’era niente <strong>di</strong> cui noi marinai potessimo lamentarci.<br />

Ogni cosa era <strong>di</strong> buona qualità a cominciare dal rancio.<br />

Divenni ben presto “marinaio scelto” e passai sotto le <strong>di</strong>rette<br />

<strong>di</strong>pendenze del comandante Tur, un incarico che svolsi per 8 mesi<br />

con altri sette compagni. A turni <strong>di</strong> quattro, espletavamo tutte le<br />

richieste del comando, per cui le nostre giornate non erano mai<br />

piatte e monotone. I nostri impegni erano vari: il più simpatico era<br />

quello <strong>di</strong> recarci nelle varie capitanerie <strong>di</strong> porto, dove arrivavamo<br />

durante le nostre perlustrazioni costiere, per consegnare o<br />

prelevare plichi, così si approfittava <strong>di</strong> questi incarichi per<br />

scendere a terra oltre ai permessi <strong>di</strong> libera uscita. Noi otto avevamo<br />

talvolta anche l’incarico <strong>di</strong> recarci nei locali più importanti della<br />

nave per portare <strong>di</strong>spacci, sia nella plancia – che era il centro<br />

<strong>di</strong>rezionale dell’incrociatore –, sia sottocoperta, dove si trovavano<br />

le santebarbare delle munizioni.<br />

Talvolta nella nave venivano imbarcati i marinai della <strong>di</strong>visione San<br />

Marco per le esercitazioni, erano i marines dell’esercito italiano.<br />

Il nostro compito era <strong>di</strong> guardacoste e navigavamo dal mar Ligure<br />

a quello Adriatico, ad una velocità <strong>di</strong> crociera <strong>di</strong> 20 no<strong>di</strong> e talvolta<br />

fino a 27.<br />

Una volta, sullo stretto <strong>di</strong> Messina, fummo attaccati da aerei<br />

angloamericani: subito entrarono in azione le mitragliere e<br />

riuscimmo così a non subire avarie. Nel nostro girovagare vedemmo<br />

anche i risultati della battaglia avvenuta nel Canale <strong>di</strong> Sicilia. Fu<br />

un combattimento feroce tra Inglesi e Italiani. Per la nostra marina<br />

fu uno sfacelo, centinaia <strong>di</strong> cadaveri venivano sospinti verso la<br />

costa, erano come pesci morti. Un altro momento <strong>di</strong> trepidazione<br />

fu quando costeggiammo la Grecia ed entrammo nel Canale <strong>di</strong><br />

Corinto, perché la popolazione ci era da sempre fortemente ostile,<br />

ma fortunatamente non ci fu nessun incidente.<br />

Il 1942 fu per me, in complesso, un periodo abbastanza sereno<br />

perché vi<strong>di</strong> e toccai tutte le coste della nostra penisola. Come soldo<br />

ricevevo una decade <strong>di</strong> cento<strong>di</strong>eci lire che provvedevo a inviare alla<br />

mia famiglia: io non avevo bisogno <strong>di</strong> niente perché ero fornito <strong>di</strong><br />

tutto a sufficienza (Per i giovani preciso che la “decade” era il soldo


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

militare <strong>di</strong>stribuito ogni <strong>di</strong>eci giorni e che, per avere un ragguaglio<br />

col valore o<strong>di</strong>erno, bisogna moltiplicare per mille).<br />

Anche la posta era regolare e, non appena facevamo tappa in qualche<br />

città, ricevevo sempre notizie dai miei cari e questo mi aiutava, mi<br />

sosteneva moltissimo. Io avevo instaurato con i miei commilitoni<br />

buoni rapporti. Talvolta i miei compagni mi prendevano<br />

affettuosamente in giro perché ero l’unico a possedere un orologio<br />

Roamer, una marca a quei tempi molto prestigiosae per questo mi<br />

veniva sempre chiesta l’ora esatta, tanto che poi andava trascritta<br />

nei vari <strong>di</strong>ari <strong>di</strong> bordo. Ricordo con simpatia il capitano <strong>di</strong> corvetta<br />

Antonio Leonar<strong>di</strong> e un nostromo che continuamente ci suggeriva<br />

i vari meto<strong>di</strong> per evitare scottature <strong>di</strong> sole, o colpi <strong>di</strong> freddo che<br />

avrebbero potuto causarci dolori cervicali.<br />

Verso la fine del 1942, il Taranto, mentre mi trovavo a La Spezia, fu<br />

messo in <strong>di</strong>sarmo e portato in un arsenale, la ciurma fu ri<strong>di</strong>stribuita<br />

qua e là e io ricevetti l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> raggiungere Lampedusa.<br />

Lampedusa<br />

Partimmo in treno in una quin<strong>di</strong>cina <strong>di</strong> uomini, tra i quali c’erano<br />

due ufficiali guar<strong>di</strong>amarine e giungemmo a Trapani, in Sicilia. Da<br />

là, con il traghetto postale, passando per Pantelleria, sbarcammo<br />

a Lampedusa. Oggi è un nome noto per via degli sbarchi <strong>di</strong> extra<br />

comunitari, ma al tempo del mio racconto era una sperduta isola<br />

del Me<strong>di</strong>terraneo con pochi abitanti. Arrivammo quando il genio<br />

militare stava terminando le piazzole per i cannoni 149/43 e i<br />

depositi delle munizioni, il tutto costruito in cemento armato.<br />

Trovammo tanti altri soldati <strong>di</strong> varie armi. Tutti insieme eravamo<br />

qualche migliaio.<br />

La <strong>di</strong>fesa, <strong>di</strong>slocata nei vari punti ritenuti strategici, era formata da<br />

due dozzine <strong>di</strong> cannoni prolungati, da mitragliere antiaeree e dalle<br />

armi in<strong>di</strong>viduali dei soldati presenti.<br />

Noi marinai per esempio avevamo solo delle pistole. Io fui addetto<br />

a una batteria costituita da quattro cannoni, completa <strong>di</strong> telemetri<br />

per il tiro, comandata da un capitano <strong>di</strong> artiglieria.<br />

Di tanto in tanto dovevo partecipare alle ronde <strong>di</strong> controllo.<br />

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40 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Ormeggiati nel porto c’erano solamente tre motosiluranti MAS<br />

e alcuni piccoli natanti; mancavano aerei e ogni sistema <strong>di</strong><br />

avvistamento del naviglio nemico. La vita trascorreva calma e<br />

tranquilla, data la mancanza <strong>di</strong> ogni <strong>di</strong>strazione per la piccolezza<br />

della roccaforte. Il rancio era <strong>di</strong>screto, la corrispondenza arrivava<br />

e tutti noi ascoltavamo le notizie ra<strong>di</strong>ofoniche con la speranza<br />

che la guerra cessasse presto, considerando anche la scarsità delle<br />

forniture belliche <strong>di</strong> cui noi <strong>di</strong>sponevamo.<br />

Verso il 10 giugno 1943 cominciammo a sentire rumori molto<br />

lontani, e <strong>di</strong> notte vedemmo fiammate all’orizzonte: gli Alleati<br />

stavano bombardando Pantelleria, isola a nord <strong>di</strong> Lampedusa. Pur<br />

essendo lontana da noi molti chilometri, noi sentivamo la terra<br />

tremare sotto i nostri pie<strong>di</strong>; fu un bombardamento tremendo,<br />

seppur durato poco più <strong>di</strong> un giorno. Alla fine Pantelleria si arrese.<br />

All’alba del 13 giugno 1943, noi <strong>di</strong> Lampedusa fummo destati<br />

dagli aerei angloamericani che stavano bombardando il porto<br />

e <strong>di</strong>struggendo ogni cosa. Subito dopo fummo letteralmente<br />

circondati da un gran numero <strong>di</strong> navi e <strong>di</strong> natanti da sbarco<br />

avversari. Il mare era punteggiato ovunque dalle sagome <strong>di</strong> navi <strong>di</strong><br />

ogni misura con le loro potenti armi pronte per il tiro e lo si vedeva<br />

chiaramente guardando con i cannocchiali. Eseguendo gli or<strong>di</strong>ni,<br />

iniziammo a sparare qualche bordata con i nostri cannoni, la mia<br />

batteria sparò per tre volte. Malgrado tutti insieme ci stessimo<br />

impegnando per la <strong>di</strong>fesa, fin dall’inizio capimmo che tutto era<br />

inutile, una <strong>di</strong>fesa vana, eravamo… un moscerino che cerca <strong>di</strong><br />

affrontare un elefante: cessammo <strong>di</strong> sparare. Anche gli aerei nemici<br />

cessarono il fuoco, pur continuando a volteggiare sopra le nostre<br />

teste mentre i cannoni alleati tacevano; questo rappresentò per noi<br />

una fortuna, la nostra salvezza.<br />

I nostri nemici avrebbero potuto radere tutto al suolo facendo un<br />

vero e proprio massacro con pochissimo sforzo perché la nostra<br />

reazione poteva essere solo misera. Il comandante della nostra piazza,<br />

approfittando della sospensione dell’attacco, fece issare ban<strong>di</strong>era bianca<br />

in segno <strong>di</strong> resa e or<strong>di</strong>nò che noi gettassimo le nostre armi in mare.<br />

Assistemmo allo sbarco degli Inglesi. Costoro, dopo aver provveduto


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

ai controlli, ci inquadrarono per poi farci salire cento per volta sui<br />

loro mezzi navali. Io fui fra i primi, dando ascolto al consiglio del<br />

mio capitano <strong>di</strong> partire subito, senza perdere tempo: forse pensava al<br />

detto chi primo arriva meglio alloggia. Ubbi<strong>di</strong>mmo senza <strong>di</strong>scutere,<br />

visto che i vincitori si <strong>di</strong>mostrarono rispettosi nei nostri confronti.<br />

Il nemico non ci bombardò,dopo aver riscontrata la nostra pochezza,<br />

vedendo in noi dei poveri <strong>di</strong>avoli gettati allo sbaraglio da Mussolini,<br />

privi <strong>di</strong> ogni via <strong>di</strong> scampo né per mare né in cielo e, soprattutto,<br />

sforniti <strong>di</strong> ogni mezzo adeguato <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa.<br />

Prigioniero degli Inglesi in Tunisia<br />

Gli Inglesi iniziarono l’evacuazione <strong>di</strong> noi Italiani, servendosi delle<br />

motozattere da sbarco che avevano approntato per l’invasione<br />

dell’isola, se avessero trovato resistenza. Dopo qualche giorno,<br />

infatti, parecchi <strong>di</strong> quei natanti furono riempiti <strong>di</strong> prigionieri che<br />

partirono per varie destinazioni: io arri<strong>vai</strong> a Susa in Tunisia, gli altri<br />

in Marocco. Partimmo <strong>di</strong> sera e alla mattina seguente arrivammo.<br />

Subito ci misero in fila per fare il censimento: ci chiesero i dati<br />

anagrafici e il reparto nel quale eravamo inquadrati e ci dettero il<br />

numero <strong>di</strong> matricola che, se ben ricordo, era 73.467. Ci rifocillarono<br />

e poi, <strong>di</strong>visi in squadre, ci fecero salire sui camion trasportandoci in<br />

località Majaz-al-Bab.<br />

Era un campo <strong>di</strong> smistamento posto all’inizio del deserto: aveva<br />

tende, baracche <strong>di</strong> legno e tanto filo spinato. I soldati inglesi che<br />

facevano la guar<strong>di</strong>a erano rispettosi verso <strong>di</strong> noi e ci trattavano in<br />

modo corretto, anche se <strong>di</strong>staccato.<br />

Il cibo era buono, solo che c’era tanto silenzio e tanto sole; l’unico<br />

svago era, oltre al tempo del rancio e del sonno, quello <strong>di</strong> chiacchierare<br />

o giocare. Per tenere vive le <strong>di</strong>scussioni c’erano le notizie <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>o<br />

Londra, che noi ascoltavamo con delle piccole ra<strong>di</strong>oline a galena,<br />

fornite <strong>di</strong> cuffie: anch’io me ne ero portata una da Lampedusa.<br />

Nessuno tentò <strong>di</strong> scappare. I motivi erano vari: le notizie erano<br />

<strong>di</strong>scretamente rassicuranti sulla fine della guerra, ci trovavamo in prigionia<br />

nel deserto con tutte le sue incognite e gli Arabi del villaggio vicino, che <strong>di</strong><br />

tanto in tanto vedevamo, si <strong>di</strong>mostravano ostili nei nostri confronti.<br />

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42 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Prigioniero dei Francesi a Ouina<br />

Dopo qualche settimana <strong>di</strong> dolce far niente, gli Inglesi ci caricarono su<br />

camion portandoci a Ouina, poco <strong>di</strong>stante da Tunisi, consegnandoci<br />

ai soldati francesi. Qui cominciarono i nostri guai.<br />

Il campo <strong>di</strong> concentramento, pur essendo ben delimitato da alti<br />

cavalli <strong>di</strong> frisia e posto entro un uliveto, era assolutamente privo <strong>di</strong><br />

attrezzature. Era gestito da soldati veterani francesi, comandati da un<br />

graduato <strong>di</strong> truppa, e costoro, a ogni piè sospinto, ci rinfacciavano<br />

la pugnalata che Benito Mussolini aveva dato alla Francia il 10<br />

giugno del 1940. Appena entrati cominciarono col <strong>di</strong>rci: Guardate<br />

bene questa porta, perché può darsi che non la ve<strong>di</strong>ate al ritorno,<br />

evidentemente volevano farci capire che potevamo morire prima<br />

<strong>di</strong> ritornare in patria. Eravamo circa 2500. Ci spogliarono <strong>di</strong> tutto<br />

quello che ritenevano utile per loro e, in cambio, ci <strong>di</strong>edero misere<br />

vesti vecchie e rattoppate che, sia sul dorso sia sul petto, avevano<br />

<strong>di</strong>pinte le lettere P.G., prisonniér de guerre, prigioniero <strong>di</strong> guerra.<br />

Tutti noi che provenivamo da Lampedusa eravamo pieni <strong>di</strong> ottimo<br />

vestiario poiché l’avevamo tolto dai depositi militari imme<strong>di</strong>atamente<br />

dopo la nostra resa. Perdemmo tutto, ci lasciarono solo un telo da<br />

tenda ogni quattro che usammo per ripararci. Nel campo trovammo<br />

solo un rubinetto d’acqua e una lunga fossa che serviva da servizi<br />

igienici e che poi risultò troppo vicina alle nostre tende. Si viveva, si<br />

mangiava e si dormiva immersi in un odore nauseabondo.<br />

Il cibo che ci davano era tanto scarso che, in poche settimane, gli<br />

ulivi rimasero quasi senza foglie! Ci davano una pagnotta da <strong>di</strong>videre<br />

in otto, un pugno <strong>di</strong> riso, una cucchiaiata <strong>di</strong> grasso, un pomodoro<br />

da <strong>di</strong>videre in due e alcuni grani <strong>di</strong> fave. La razione d’acqua che ci<br />

concedevano era <strong>di</strong> solo mezzo litro al giorno, che dovevamo usare<br />

per bere e lavarci. Fummo sottoposti a un supplizio non degno della<br />

civilissima Francia.<br />

Cominciarono a regnare la sporcizia, il degrado fisico e le malattie.<br />

Fu un periodo infernale. Che i Francesi volessero punire gli Italiani,<br />

che apostrofavano sempre come fascisti, lo <strong>di</strong>mostrava anche la<br />

<strong>di</strong>versa situazione in cui si trovavano i cinquecento soldati tedeschi<br />

che erano in un campo <strong>di</strong> prigionia vicino al nostro: essi avevano


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

a <strong>di</strong>sposizione tre rubinetti d’acqua, e i loro servizi igienici erano<br />

lontani dalle tende dove dormivano. Fortunatamente per qualche<br />

centinaio <strong>di</strong> persone c’era la possibilità <strong>di</strong> andare a pulire la città <strong>di</strong><br />

Tunisi, dove si subivano parecchie invettive giornaliere, ma avendo<br />

nel contempo la possibilità <strong>di</strong> elemosinare pane e acqua.<br />

I generosi erano gli Italiani che si erano stanziati in Tunisia prima<br />

della guerra fascista. Costoro cercavano, <strong>di</strong> nascosto dalle guar<strong>di</strong>e<br />

arabe, <strong>di</strong> offrirci pane e acqua. Io non andai mai a fare lo spazzino<br />

perché il mio unico intento era uscire in modo definitivo da<br />

quell’inferno; per questo ero sempre attento e vigile a controllare se<br />

vi era una via d’uscita.<br />

Intanto, prima lentamente poi a frotte, parecchi <strong>di</strong> noi deperirono<br />

e si ammalarono; costoro venivano inviati, <strong>di</strong> volta in volta,<br />

all’ospedale militare <strong>di</strong> Tunisi gestito dagli Americani. I me<strong>di</strong>ci <strong>di</strong><br />

quell’ospedale vollero capire il perché <strong>di</strong> tutti quei ricoveri, così<br />

arrivò una loro commissione nel nostro campo.<br />

Era il fati<strong>di</strong>co 25 luglio 1943, giorno della caduta <strong>di</strong> Mussolini.<br />

Certamente quei me<strong>di</strong>ci americani rimasero sbalor<strong>di</strong>ti perché, il<br />

giorno dopo, arrivarono camion con attrezzature ed operai. Il 29<br />

luglio 1943 il campo era trasformato con baracche, cucine, acqua<br />

e servizi igienici: proprio in quel giorno io partii per lavorare in<br />

un’azienda agricola.<br />

Era successo che, quando i Francesi ci avevano tolto il nostro<br />

equipaggiamento, io riuscii a non farmi requisire il mio orologio<br />

Roamer, fu così che pensai <strong>di</strong> scambiarlo per un aiuto. Nel nostro<br />

campo, comandato da un maresciallo francese, vi erano anche<br />

sottufficiali italiani, responsabili dell’or<strong>di</strong>ne interno e della redazione<br />

dei vari elenchi dei prigionieri che volevano lavorare come spazzini<br />

in qualche luogo. Arrivò anche la richiesta <strong>di</strong> quaranta lavoratori<br />

da una grossa azienda agricola sita a Potainville, <strong>di</strong>stante circa venti<br />

chilometri: erano stati richiesti un imbianchino e conta<strong>di</strong>ni esperti<br />

nella coltivazione <strong>di</strong> vigneti e uliveti.<br />

Io, che avevo già contattato il nostro preposto, subito mi offrii come<br />

imbianchino. Fu così che barattai l’orologio, che mi ero tenuto caro,<br />

per essere inviato in campagna assieme ad altri due gran<strong>di</strong> amici.<br />

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44 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Fui accontentato in parte perché il responsabile riuscì ad includere solo<br />

un amico friulano; l’altro, che era piemontese, se l’ebbe a male, anche<br />

se non fu colpa mia la sua mancata inclusione nell’elenco <strong>di</strong> uscita.<br />

Potainville<br />

Arrivammo in camion al villaggio. Io mi ambientai subito, soprattutto<br />

grazie alla buona qualità <strong>di</strong> cibo, ma anche perché finalmente avevamo<br />

la possibilità <strong>di</strong> dormire in case pulite, su dei letti a castello a due piani.<br />

La tenuta agricola era grande e ben fornita <strong>di</strong> ogni servizio e ben tenuta.<br />

Aveva un’ampiezza <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci chilometri quadrati, cioè mille ettari: aveva<br />

stalle, magazzini e case. Laggiù vivevano la famiglia del proprietario<br />

Carl Potain, il capo guar<strong>di</strong>a francese, parecchi inservienti arabi, addetti<br />

alla sorveglianza degli animali, noi italiani appena assunti, e infine<br />

qualche nostro connazionale ivi residente da prima della guerra.<br />

Nella tenuta venivano prodotti oltre mille ettolitri <strong>di</strong> vino, parecchi<br />

altri <strong>di</strong> olio d’oliva. Pascolavano greggi <strong>di</strong> pecore e capre, cavalli per i<br />

guar<strong>di</strong>ani, e oltre duecento muli, destinati al lavoro nei campi.<br />

Il territorio <strong>di</strong> quella fattoria terminava verso il mar Me<strong>di</strong>terraneo, la<br />

cui spiaggia sabbiosa era separata da noi dalla linea ferroviaria e dalla<br />

strada che collegavano Tunisi a Susa.<br />

Su quei confini, in riva al mare, vi erano cumuli lunghi chilometri, dove<br />

erano state ammassate enormi cataste <strong>di</strong> attrezzature americane, non<br />

molto custo<strong>di</strong>te. Vi si poteva trovare tanta utensileria e ricambi d’ogni<br />

genere: non avevo mai visto un’ammucchiata <strong>di</strong> materiali così enorme.<br />

Subito Ra<strong>di</strong>o Scarpa, il nostro passaparola, sentenziò: L’America è così<br />

ben fornita <strong>di</strong> tutto, che è praticamente impossibile sopraffarla: solo i<br />

megalomani <strong>di</strong> Hitler e Mussolini potevano sperare <strong>di</strong> vincerla!<br />

Non molto <strong>di</strong>stante dal luogo dove eravamo noi, verso ovest, sorgeva<br />

la citta<strong>di</strong>na <strong>di</strong> Amamelift che, in seguito, sarebbe <strong>di</strong>venuta una tappa<br />

importante nei nostri an<strong>di</strong>rivieni. Questa località era ricca <strong>di</strong> bazar,<br />

generalmente gestiti da Ebrei che vivevano in buoni rapporti con la<br />

popolazione araba, circolavano anche parecchi Francesi, Tunisini e<br />

vari civili italiani quivi emigrati già nel periodo precedente la prima<br />

guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />

Sulle prime noi prigionieri italiani, trovammo <strong>di</strong>fficoltà nell’instaurare


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

relazioni sociali, sempre a causa della pugnalata mussoliniana, ma con<br />

l’andar del tempo la maggior parte dei residenti capì che tutti noi non<br />

eravamo fascisti convinti, cioè militari pronti a tutto per Mussolini, ma<br />

solo dei poveri <strong>di</strong>avoli mandati allo sbaraglio sui vari fronti <strong>di</strong> guerra.<br />

A Potainville ho fatto molti lavori tra cui, come detto prima,<br />

l’imbianchino. Per un certo tempo fui impiegato come muratore,<br />

poi come metallurgico e anche come infermiere: mi adattavo a fare<br />

qualsiasi mestiere per tirare avanti, per poter sbarcare il lunario il<br />

meglio possibile. L’unico cruccio era la posta: non ho mai ricevuto<br />

nessuna risposta da casa, ma è vero che io non ho usato tutte le lettere <strong>di</strong><br />

franchigia che ci venivano <strong>di</strong>stribuite, forse perché ero più impegnato<br />

nel trovare lavori allo scopo <strong>di</strong> poter raggranellare del denaro e usarlo<br />

anche per le necessità giornaliere.<br />

Fra tutte quelle persone che abitavano nel villaggio <strong>di</strong> Potainville e<br />

nella citta<strong>di</strong>na vicina ne ricordo <strong>di</strong>verse che, per un verso o per l’altro,<br />

hanno influenzato certi episo<strong>di</strong> della mia prigionia.<br />

Rammento con piacere un muratore <strong>di</strong> origine siciliana, forse nato<br />

laggiù, col quale io ho lavorato, che mi trattava con umanità e<br />

simpatia. Ogni mattina mi portava latte e caffè con pane, <strong>di</strong>cendomi<br />

sempre: Bertaccio, (storpiando il mio cognome) è un brava e buona<br />

persona e un gran lavoratore. Ho conosciuto anche due autisti civili,<br />

nostri compatrioti che lavoravano in Africa i quali dopo la sconfitta<br />

dell’Asse, furono internati nel 1943. Costoro in Italia erano autisti<br />

della <strong>di</strong>tta veneta Domenichelli che, con altre società de<strong>di</strong>te ai trasporti<br />

su gomma, avevano subita la militarizzazione assieme agli automezzi,<br />

visto che mancavano i camion dell’esercito, onde mantenere i contatti<br />

fra le retrovie e i vari fronti <strong>di</strong> battaglia.<br />

Uno <strong>di</strong> questi autisti era un <strong>Padova</strong>no che lavorò come conducente<br />

per un po’ <strong>di</strong> tempo; in seguito fu mandato a lavorare in una fabbrica<br />

meccanica, lontana dalla sua residenza, da dove rientrava solo il sabato.<br />

Ad attenderlo c’era una ragazza siciliana, la cui famiglia era giunta<br />

colà nel 1800. Costoro alla fine si sposarono, ebbero un bambino e<br />

dopo il rimpatrio, a guerra finita, si trasferirono a Montegrotto Terme.<br />

Attualmente la signora, ora vedova e quasi novantenne, sta bene e ci<br />

manteniamo <strong>di</strong> tanto in tanto in contatto telefonico.<br />

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46 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Per quanto riguarda il secondo autista che io conobbi, era <strong>di</strong><br />

provenienza piemontese e <strong>di</strong>venne inserviente presso una famiglia<br />

dell’alta borghesia francese, formata dalla madre con due figli piccoli.<br />

Il padre ufficiale era prigioniero in Germania. Siccome la signora era<br />

priva <strong>di</strong> notizie del marito, aveva preso l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> farsi portare dal<br />

suo autista presso il comando generale americano, che si trovava nel<br />

campo d’aviazione <strong>di</strong> Cartagine, città famosa per la sua storia, situata<br />

ad una trentina <strong>di</strong> chilometri <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza dal golfo <strong>di</strong> Tunisi.<br />

Questa donna si era autoconvinta che i servizi aerei americani e la loro<br />

intelligence avrebbero potuto darle qualche notizia del marito.<br />

Nel campo <strong>di</strong> Cartagine erano rinchiusi anche centoventi militari miei<br />

connazionali, ai quali era stata affidata la mansione <strong>di</strong> tenere pulito il<br />

sito. Erano trattati molto bene, avevano a loro <strong>di</strong>sposizione cibi e vestiti<br />

ed era stato loro concesso <strong>di</strong> poter utilizzare, anche per mezza giornata,<br />

gli automezzi degli Americani per spostarsi nelle vicinanze in caso <strong>di</strong><br />

bisogno o per svago. Nacque un forte collegamento fra i prigionieri del<br />

campo d’aviazione e noi internati presso i Francesi.<br />

Ben presto iniziammo a scambiarci merci: noi davamo prodotti freschi<br />

della terra, loro ci portavano scatoloni ricolmi <strong>di</strong> cibarie e <strong>di</strong> vestiario.<br />

Quello che noi offrivamo era frutto <strong>di</strong> piccoli furti, fatti un po’ alla<br />

volta per non farci scoprire; al contrario gli altri prelevano le merci col<br />

consenso degli addetti ai magazzini.<br />

La merce che loro ci chiedevano con maggior frequenza era il vino e<br />

così io e i miei amici, non appena potevamo, preparavamo delle taniche<br />

piene <strong>di</strong> vino che poi nascondevamo fino al momento dello scambio.<br />

Ormai tra noi <strong>di</strong> Potainville avevamo creato un piccolo gruppo solidale,<br />

per cui ci scambiavamo e <strong>di</strong>videvamo tutto. Aiutandoci tutti insieme,<br />

contribuimmo a gestirci delle piccole scorte <strong>di</strong> cibo.<br />

Ricordo che io, imbianchino, ero stato incaricato <strong>di</strong> tinteggiare le<br />

cantine ove si trovavano le botti <strong>di</strong> vino. Vi salivo sopra per imbiancare il<br />

soffitto e, contemporaneamente, introducevo nello sportello superiore<br />

<strong>di</strong> una delle botti, una lunga canna facendola poi passare all’esterno del<br />

locale attraverso la finestrella <strong>di</strong> ventilazione. La canna così giungeva a<br />

un mio compagno il quale, con il vino prelevato, riempiva le taniche.<br />

Faccio una piccola <strong>di</strong>gressione per ricordare che alcune persone


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

fondamentali per quegli scambi, come l’autista della signora francese<br />

e un sergente maggiore che coor<strong>di</strong>nava il mio campo, furono poi gli<br />

organizzatori <strong>di</strong> una fuga rocambolesca che coinvolse se<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> noi <strong>di</strong><br />

Potainville, ma <strong>di</strong> questo parlerò meglio più avanti. Ora ho ancora<br />

tanto da raccontare della mia vita nella fattoria.<br />

A Potainville era stata a<strong>di</strong>bita a chiesetta cattolica una saletta, così<br />

coloro che si sentivano urgere in seno i principi religiosi, quasi ogni<br />

domenica, potevano assistere alla messa, celebrata da un sacerdote<br />

francese. Noi Italiani abbiamo anche cominciato a confessarci da quel<br />

religioso, ma non sempre lui ci capiva, così finiva per <strong>di</strong>rci: Parlate pure<br />

l’italiano, perché Dio conosce tutte le lingue.<br />

Là erano parlati prevalentemente francese e arabo. Noi imparavamo<br />

abbastanza bene la lingua francese sia perché leggevamo i quoti<strong>di</strong>ani<br />

sia perché ascoltavamo trasmissioni ra<strong>di</strong>ofoniche in lingua.<br />

Algeria, Tunisia e parte del Marocco erano colonie appartenenti alla<br />

Francia e pertanto si parlava francese e la moneta usata era quella<br />

francese anche se, accanto a queste, gli Arabi avevano mantenute una<br />

propria lingua e una propria valuta.<br />

Un giorno, lavorando la terra col piccone, mi infortunai un piede:<br />

sbadatamente mi ferii con la punta. Il responsabile <strong>di</strong> Potainville mi<br />

mandò all’ospedale della vicina città su <strong>di</strong> un calesse guidato da un<br />

Arabo. Mi <strong>di</strong>sinfettarono, applicarono un cerotto sulla ferita e mi<br />

fecero una puntura antitetanica sul ventre. Mi <strong>di</strong>misero subito, ma<br />

appena fuori dall’ospedale svenni. Il mio accompagnatore fu pronto a<br />

trasportarmi in una farmacia vicina.<br />

Mi dettero da bere una pozione che mi fece sentire subito meglio, in<br />

poco tempo mi ristabilii.<br />

Il farmacista mi trattenne là per un po’ <strong>di</strong> tempo, per controllarmi<br />

il polso e nel frattempo parlandomi, scoprendo che ero un Italiano,<br />

iniziò anche lui a parlare nella mia stessa lingua. Raccontò che durante<br />

il fascismo era arrivato in quella città per <strong>di</strong>rigere la farmacia che<br />

aveva acquistato. Iniziata la guerra gli confiscarono la farmacia e lo<br />

internarono. Fu sostituito da un farmacista francese e lui <strong>di</strong>venne<br />

inserviente. Quest’incontro fortuito mi portò giovamento perché col<br />

farmacista ben presto fraternizzammo.<br />

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48 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Un giorno, mentre rientravamo in gruppo dal lavoro, dal campo militare<br />

francese vedemmo uscire una delegazione <strong>di</strong> autorità. Fummo invitati<br />

a <strong>di</strong>sporci in fila sull’attenti dal caposquadra che ci in<strong>di</strong>cò, fra loro, il<br />

generale De Gaulle. Il generale si fermò, ci rivolse alcune domande<br />

sulla nostra provenienza e sulla nostra situazione; ci esortò a lavorare<br />

e a essere <strong>di</strong>sciplinati, in questo modo avremmo avuto garantito un<br />

buon trattamento da parte delle autorità francesi; infine ci chiese cosa<br />

pensassimo <strong>di</strong> Mussolini, ovviamente nessuno <strong>di</strong> noi espresse giu<strong>di</strong>zi<br />

positivi, io feci un gesto a in<strong>di</strong>care che meritava <strong>di</strong> essere eliminato. Il<br />

generale sorrise e ci <strong>di</strong>sse che ormai la guerra volgeva al termine e che<br />

presto saremmo tornati a casa. Era il maggio del 1944.<br />

La mia vita nel villaggio dell’azienda agricola durò fino al marzo 1945,<br />

e posso <strong>di</strong>re che fu tutto sommato sod<strong>di</strong>sfacente, vivendo però sempre<br />

alla giornata senza scopi prefissati. Seguivo l’andamento del conflitto<br />

ma senza forte interesse.<br />

Passarono i giorni, venne l’armistizio dell’8 settembre, seguito da varie<br />

altre battaglie, ma niente <strong>di</strong> tutto questo mi risvegliò l’entusiasmo: mi<br />

ero appiattito, pensavo solo a rimanere sano <strong>di</strong> corpo e <strong>di</strong> mente e alle<br />

mie iniziative lavorative, fatte per <strong>di</strong>strarmi un po’ e per procurarmi<br />

quello che ritenevo necessario per me.<br />

L’industriosità italiana a Potainville<br />

Anche se noi reclusi a Potainville venivamo remunerati per il nostro<br />

lavoro esclusivamente con vitto e alloggio, ben presto riuscimmo ad<br />

avere dei sol<strong>di</strong>. Tutti noi facevamo qualche attività secondaria che<br />

ci dava la sod<strong>di</strong>sfazione <strong>di</strong> ottenere del denaro per poterci comprare<br />

quello che volevamo. Io ne sviluppai principalmente due: una<br />

imparata da commilitoni bergamaschi, l’altra nata per caso, che riuscii<br />

a sviluppare in modo autonomo e segreto.<br />

In Tunisia, allora colonia francese, circolavano le monete metalliche<br />

da un franco, coniate negli anni 1920-22. Erano dei <strong>di</strong>schetti fatti<br />

con una lega un po’ malleabile, che rimaneva sempre lucente senza<br />

ossidarsi; si <strong>di</strong>ceva che oltre al rame ci fosse anche un po’ d’oro. Il fatto<br />

era che quelle monete si prestavano molto bene ad essere trasformate<br />

in anelli, che erano ben ricercati dagli Arabi. Alcuni Bergamaschi, che


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

da civili lavoravano come operai metallurgici, trovarono il metodo per<br />

ricavarne anelli, lavoro che io subito imparai alla perfezione.<br />

Questo singolare lavoretto era tuttavia lungo e necessitava <strong>di</strong> tanta<br />

pazienza: svolto con pochi e semplici utensili, si sviluppava in tre<br />

fasi successive. La prima era praticare un foro centrale sulla moneta,<br />

creato con l’ausilio <strong>di</strong> un dado che serviva da incu<strong>di</strong>ne: sopra si<br />

poneva la moneta, si procedeva poi col martello battendo piccoli colpi<br />

su un punzone con la testa piatta posto al centro della moneta e in<br />

corrispondenza del foro del dado, girando e rigirando la moneta, si<br />

riusciva così a forarla. La seconda fase prevedeva <strong>di</strong> fare in modo che<br />

l’anello potesse infilarsi nelle <strong>di</strong>ta del committente.<br />

Per ottenere questo dapprima si prendeva la misura del <strong>di</strong>to con dei<br />

cerchietti, poi si infilavano le corone metalliche ottenute nella canna<br />

<strong>di</strong> un vecchio moschetto tunisino che era troncoconica. Battendo ogni<br />

corona e girandola ininterrottamente, questa si abbassava lungo la<br />

canna e si poteva ottenere il foro desiderato.<br />

La terza fase consisteva nell’eliminare le piccole sbavature usando<br />

tela smerigliata, e infine nel lucidare per bene l’anello, utilizzando<br />

uno straccio imbevuto <strong>di</strong> polvere <strong>di</strong> carbone vegetale. I vari utensili<br />

adoperati li avevamo presi dai mucchi <strong>di</strong> provviste che gli Americani<br />

avevano accatastato ai confini dell’azienda agricola.<br />

Questa piccola attività si rivelò assai proficua, nonché un piacevole<br />

passatempo per tutti noi, poiché ricevevamo da 10 a 15 franchi per<br />

ogni anello.<br />

Capitò un giorno che venne da me un ragazzino dandomi una moneta<br />

e chiedendo in cambio l’anello. Gli misurai il <strong>di</strong>to e lo informai <strong>di</strong><br />

tornare alla sera con 10 franchi. Non appena guardai la moneta mi<br />

accorsi che era un marengo d’oro <strong>di</strong> Napoleone.<br />

Che fare? Ormai mi ero abituato a pensare e a fare solo in modo<br />

egoistico, così presi un franco francese e mi misi <strong>di</strong> gran lena al lavoro;<br />

la sera dopo l’anello era pronto; il ragazzetto venne a prenderselo, mi<br />

<strong>di</strong>ede <strong>di</strong>eci franchi e a me rimase il marengo!<br />

Andai dal mio amico farmacista, che me lo fece vendere per 15<br />

franchi.<br />

Un noto proverbio <strong>di</strong>ce l’occasione fa l’uomo ladro, anche se io,<br />

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50 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

intimamente, mi sentivo giustificato, considerate le ristrettezze<br />

in cui vivevo.<br />

Il secondo affare nacque per caso. Chiaccherando con gli Arabi,<br />

uno <strong>di</strong> loro mi parlò <strong>di</strong> un suo giovane figlio che si era ammalato.<br />

Io che avevo vissuto in una famiglia numerosa, dove <strong>di</strong> tanto in<br />

tanto qualcuno si doveva curare per qualche malessere, avevo<br />

finito per imparare tanti meto<strong>di</strong> empirici tra<strong>di</strong>zionali che davano<br />

risultati positivi per piccoli malanni. Quella volta mi informai bene<br />

dei sintomi e gli <strong>di</strong>e<strong>di</strong> dei consigli pratici, semplici da applicare.<br />

In poco tempo il ragazzo guarì del tutto, fu così che per il padre<br />

<strong>di</strong>venni un infermiere provetto. Quell’Arabo fece evidentemente il<br />

passaparola visto che altri Arabi cominciarono a chiedermi consigli<br />

per i malanni dei loro figli. Senza volerlo ero <strong>di</strong>ventato un infermiere<br />

che gratuitamente dava suggerimenti <strong>di</strong> spicciola me<strong>di</strong>cina. Venni<br />

chiamato anche a consulto. Mi comprai dall’amico farmacista un<br />

termometro. Cominciai ad usarlo al capezzale <strong>di</strong> qualche giovane.<br />

Fu così che con questa trovata alla fine <strong>di</strong>venni un quasi me<strong>di</strong>co…<br />

ricompensato con gran<strong>di</strong> abbuffate <strong>di</strong> cibi prelibati.<br />

A noi internati veniva <strong>di</strong>stribuito gratuitamente, ogni mese, un<br />

tubetto <strong>di</strong> vetro con quin<strong>di</strong>ci pastiglie <strong>di</strong> chinino, poiché la zona era<br />

considerata malarica. Noi Italiani non ne facevamo grande uso, così<br />

avvenne che avevamo accumulato in deposito del chinino. Queste<br />

pastiglie non avevano sempre lo stesso colore, ce n’erano <strong>di</strong> gialle,<br />

rosse, viola, arancione, così pensai <strong>di</strong> sfruttare la colorazione <strong>di</strong>versa<br />

per fare delle me<strong>di</strong>cine. Scioglievo il chinino con poca acqua e tanto<br />

zucchero, in modo da creare pastiglie <strong>di</strong> colori <strong>di</strong>versi.<br />

Poi facevo delle piccole sfoglie dello spessore <strong>di</strong> quattro cinque<br />

millimetri che incidevo con il tubetto <strong>di</strong> vetro, contenitore del<br />

chinino, realizzando dei <strong>di</strong>schetti che lasciavo indurire: questi<br />

erano i miei piccoli rime<strong>di</strong> per curare modesti malanni. Ogni volta<br />

che venivo chiamato, partivo con un piccola custo<strong>di</strong>a, ove ponevo<br />

il termometro e delle scatolette con dentro le pastiglie <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso<br />

colore. Per prima cosa davo dei consigli, poi <strong>di</strong>stribuivo le pastiglie,<br />

scegliendole fra i vari colori, a seconda delle persone che avevo<br />

davanti. Sono stato davvero fortunato: la popolazione era contenta


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

e mai nessuno si è lamentato dei miei meto<strong>di</strong> a base <strong>di</strong> chinino e<br />

zucchero!<br />

Io però facevo tutto gratuitamente e con circospezione, allo scopo <strong>di</strong><br />

evitare noie con le autorità, tanto che non ne parlai neanche con gli<br />

amici commilitoni, anche se proprio da loro compravo il chinino.<br />

Se mi chiedevano spiegazioni, <strong>di</strong>cevo che poi l’avrei regalato ai<br />

poveri. Per gli Arabi ero in pratica <strong>di</strong>ventato uno specialista e spesso,<br />

a guarigione giunta, per ringraziarmi mi invitavano a pranzo.<br />

Per queste occasioni mi ero attrezzato col mio cucchiaio della<br />

gavetta, che tenevo sempre infilato nel taschino della camicia, e che<br />

io usavo, mentre gli Arabi per mangiare adoperavano semplicemente<br />

le mani.<br />

La fuga<br />

Anche se a Potainville si stava abbastanza bene, il pensiero principale<br />

<strong>di</strong> tutti era quello <strong>di</strong> riuscire a tornare a casa. Era così importante<br />

che, per almeno se<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> noi, fece l’effetto <strong>di</strong> una molla propulsiva,<br />

dandoci il coraggio per tentare <strong>di</strong> scappare, costasse quel che<br />

costasse, per raggiungere i nostri cari il più presto possibile.<br />

Come già detto, noi che eravamo rinchiusi nella tenuta agricola,<br />

avevamo instaurato un proficuo rapporto con gli Italiani inservienti<br />

nel campo d’aviazione <strong>di</strong> Cartagine. Coloro che tenevano i maggiori<br />

contatti, tessendo una profonda amicizia, erano l’autista della<br />

signora francese unitamente al sergente maggiore che coor<strong>di</strong>nava<br />

il nostro gruppo <strong>di</strong> Potainville. Erano in continua relazione con<br />

quei prigionieri <strong>di</strong> Cartagine che andavano a fare delle pescate<br />

notturne nel Me<strong>di</strong>terraneo per rifornire <strong>di</strong> pesce fresco la mensa<br />

degli Americani. Quei pescatori, per uscire in mare aperto, avevano<br />

a <strong>di</strong>sposizione un veloce natante fornito <strong>di</strong> un motore <strong>di</strong> novanta<br />

cavalli e accessoriato <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> serbatoi contenenti carburante<br />

sufficiente per compiere più uscite in mare.<br />

Arrivò metà marzo del 1945 e gli Americani iniziarono ad<br />

approntare tutti gli armamenti, per partire al più presto verso<br />

l’Italia. Quella partenza era necessaria per presi<strong>di</strong>are l’Italia liberata,<br />

mentre continuava la lotta per cacciare i Tedeschi dal nord Italia.<br />

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52 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Tutti noi <strong>di</strong> Potainville eravamo impazienti <strong>di</strong> raggiungere il sud<br />

della Patria ormai libera. Fu così che nacque un accordo fra i<br />

pescatori e il nostro gruppo: loro ci avrebbero lasciato la barca<br />

arenata sulla spiaggia, ai confini dell’azienda agricola, noi <strong>di</strong> notte<br />

saremmo partiti verso l’Italia. La sera prestabilita per la nostra fuga<br />

ci muovemmo in se<strong>di</strong>ci, tra cui l’autista e il sergente maggiore che<br />

erano gli artefici principali degli accor<strong>di</strong>, riunendoci sul natante. Per<br />

<strong>di</strong>sincagliarlo avevamo portato due binde (martinetti a cremagliera,<br />

ora completamente oleo<strong>di</strong>namici) e del legname. Dopo qualche<br />

sforzo riuscimmo a partire, era notte fonda. Noi se<strong>di</strong>ci ci eravamo<br />

portati <strong>di</strong>etro uno zaino per essere forniti dell’essenziale per scappare,<br />

mentre avevamo lasciato sui nostri letti la parte più pesante delle cose<br />

<strong>di</strong> nostra proprietà.<br />

Io poi avevo raccolto e messo in un sacchetto i franchi che erano<br />

in via <strong>di</strong> essere trasformati in anelli e i piccoli attrezzi che avevo<br />

usato per lavorare; gettai tutto sul tetto <strong>di</strong> un capannone: era meglio<br />

<strong>di</strong>sfarsi del materiale che scottava, perché, se fosse stato trovato, le<br />

autorità avrebbero inflitto gravi punizioni al colpevole. Infatti, quei<br />

lavori che facevo erano paragonabili a quelli <strong>di</strong> un falsario.<br />

Salimmo sull’imbarcazione con i serbatoi pieni, con la speranza <strong>di</strong><br />

anticipare il rientro in Italia. Purtroppo il <strong>di</strong>avolo ci mise lo zampino.<br />

Dopo un po’ <strong>di</strong> navigazione, il natante cominciò a girare su se stesso<br />

perché si era rotto il timone: il guasto era senz’altro successo durante<br />

il <strong>di</strong>sincaglio e fu un danneggiamento involontario.<br />

Ci assalì la <strong>di</strong>sperazione, poi piano piano accettammo il malanno<br />

e ci demmo daffare per il ritorno alla spiaggia <strong>di</strong> partenza. Ci aiutò<br />

la risacca, ma alla mattina approdammo <strong>di</strong>stanti una quarantina<br />

<strong>di</strong> chilometri da Potainville. Fummo, purtroppo per noi, subito<br />

avvistati da un Maltese che risiedeva proprio là dove ci eravamo<br />

arenati. Costui mostrandosi amichevole, ci fece molte domande,<br />

mentre noi imbufaliti ci mettemmo in cammino. Tornammo ai<br />

nostri letti ormai che era sera, tuttavia nessuno ci rivolse qualche<br />

osservazione. Mangiammo e andammo a riposare.<br />

La mattina dopo fu un amaro risveglio. Vennero i soldati francesi<br />

del corpo <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a della citta<strong>di</strong>na: malauguratamente sapevano


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

molte cose su <strong>di</strong> noi poiché erano stati avvisati dal Maltese. Il primo<br />

a essere preso fu l’autista della signora francese, forse perché aveva<br />

detto troppo a quel Maltese; da lui vollero sapere tutti i nostri nomi.<br />

Al suo rifiuto lo picchiarono e solo allora li rivelò, tranne quello del<br />

sergente maggiore, per evitargli una sicura e pesante incriminazione,<br />

molto più <strong>di</strong> quella destinata a noi, essendo lui l’unico graduato del<br />

gruppo.<br />

L’autista riuscì ad avvisarci sull’accaduto e su cosa aveva confessato:<br />

noi ci accordammo <strong>di</strong> ripetere tutti la stessa cosa, qualora ci avessero<br />

interrogati per evitare <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>rci a vicenda.<br />

Il ritorno ad Ouina<br />

I soldati ci portarono al campo base <strong>di</strong> Ouina, da dove eravamo<br />

partiti un anno prima. Là ci tolsero le cose migliori del nostro<br />

equipaggiamento, lasciandoci solo l’in<strong>di</strong>spensabile: noi mogi<br />

mogi fummo subito portati in prigione: era iniziato l’aprile 1945,<br />

proprio il mese fati<strong>di</strong>co della liberazione totale dell’Italia. Fu in<br />

quell’occasione che scoprirono e mi sequestrarono il <strong>di</strong>ario che io<br />

avevo redatto con cura, giorno dopo giorno. Il campo aveva ormai<br />

una buona organizzazione, anche se per noi se<strong>di</strong>ci era <strong>di</strong>ventato una<br />

prigione.<br />

Il carcere era formato da varie tende, circondate da cavalli <strong>di</strong> frisia e<br />

contenute in un riquadro ricavato entro il grande campo base.<br />

Il bello <strong>di</strong> quella faccenda era che noi vi eravamo entrati<br />

imme<strong>di</strong>atamente dopo che le prigioni erano state svuotate per un<br />

indulto in occasione della Santa Pasqua avvenuta il 1° aprile.<br />

Il responsabile francese, un anziano maresciallo dell’esercito, ci<br />

interrogò ancora, intenzionato com’era a scoprire chi fra noi fosse<br />

stato l’ispiratore ed avesse organizzato il tutto. Noi mantenemmo<br />

la stessa linea come d’accordo: era stata un’idea collettiva, volevamo<br />

solo tornare a casa.<br />

Dapprima incolpò il sergente maggiore, poiché era l’unico graduato,<br />

poi me e un altro marinaio, perché <strong>di</strong>ceva che eravamo i soli ad avere<br />

cognizioni <strong>di</strong> orientamento marittimo; tutti però ripetemmo ciò che<br />

avevamo <strong>di</strong>chiarato fin dall’inizio.<br />

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54 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Questo nostro atteggiamento forse fece <strong>di</strong>minuire la gravità e la<br />

durezza del nostro castigo, che tuttavia si mutò in una maggior durata<br />

della prigionia, mentre <strong>di</strong>versi nostri compagni venivano rimpatriati.<br />

Durante lo svolgimento degli interrogatori mi capitò un evento<br />

emozionante che riuscì a consolarmi malgrado la sventura capitatami.<br />

Un giorno guardavo fuori dalla tenda coloro che passavano per<br />

<strong>di</strong>rigersi alla vicina biblioteca. A un tratto vi<strong>di</strong> <strong>di</strong> spalle un prigioniero<br />

italiano che stava leggendo dei manifesti, fissati all’esterno della<br />

biblioteca, scritti in lingua italiana. Lo apostrofai, <strong>di</strong>cendo: Capo,<br />

cosa c’è scritto? Il soldato si voltò, si avvicinò, ci riconoscemmo<br />

subito: era l’amico Giuseppe Mascotto che abitava a Monselice in<br />

via Valli. Fu per entrambi un grande lampo <strong>di</strong> gioia! Subito feci<br />

chiamare il capo campo italiano, a cui ci rivolgevamo per le nostre<br />

richieste, e chiesi <strong>di</strong> farmi uscire per abbracciare l’amico ritrovato. Il<br />

capo campo, che era un maresciallo dell’esercito, mi rispose che non<br />

era possibile ma che tuttavia avrebbe consentito che fosse Giuseppe<br />

a venire da me, almeno per un po’ <strong>di</strong> tempo. Subito Giuseppe<br />

accettò senza pensarci: facemmo una lunghissima chiacchierata<br />

abbandonandoci ai ricor<strong>di</strong> e scambiandoci notizie sulle rispettive<br />

<strong>di</strong>savventure. Giuseppe era uno <strong>di</strong> quelli che avevano fatta la ritirata<br />

in Libia ed era stato fatto prigioniero dagli Inglesi. Mi raccontò che<br />

poi furono consegnati alle forze francesi che, servendosi <strong>di</strong> soldati<br />

arabi, li fecero marciare a pie<strong>di</strong> per ben cinquecento chilometri<br />

fino ad Orano. Raccontò che fu una marcia infernale sotto il sole<br />

cocente, spesso senza acqua. Parecchi morirono sfiniti o uccisi per<br />

strada, poiché l’autorità francese fu ferocemente inflessibile con<br />

quei poveri Italiani, sempre per il solito motivo, la già ricordata<br />

pugnalata.<br />

A posteriori mi viene ancora da <strong>di</strong>re che le ritorsioni francesi su noi<br />

soldati ormai vinti furono del tutto inutili protervie verso chi, a sua<br />

volta, aveva subito l’arroganza <strong>di</strong> Mussolini <strong>di</strong>ttatore. Il Mascotto<br />

non riuscì mai a riprendersi fisicamente in modo completo da<br />

quella mici<strong>di</strong>ale marcia e, alla fine, il comando francese acconsentì a<br />

rimpatriarlo per malattia: per questo era stato portato nel campo <strong>di</strong><br />

concentramento vicino a Tunisi per l’imbarco.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Mentre eravamo in prigione giunsero altri prigionieri, pure loro<br />

rinchiusi in campi <strong>di</strong> punizione francesi. Era evidente che Ouina<br />

era un punto <strong>di</strong> concentramento per un successivo trasferimento.<br />

Infatti fu così che ci caricarono, quaranta alla volta, su otto vagoni<br />

merci e ci spe<strong>di</strong>rono a Marrakech, in Marocco, ove arrivammo<br />

dopo un viaggio estenuante, durato una settimana. Fu un percorso<br />

faticoso, dovendo stare sempre chiusi nei vagoni, senza finestre, ma<br />

solo con piccoli fori in alto. Ci davano sì da mangiare e da bere, però<br />

in tutto il viaggio ci permisero <strong>di</strong> scendere solamente due volte, per<br />

sgranchirci le gambe.<br />

Quei vagoni <strong>di</strong>ventarono ben presto puzzolenti e su<strong>di</strong>ci, come<br />

del resto accadde anche a noi. Ricordo bene quando sostammo a<br />

Casablanca: era il 25 aprile 1945. Il treno era stato fatto deviare<br />

temporaneamente verso il deposito del Campo <strong>di</strong> Marte.<br />

Ci sdraiammo sui binari per <strong>di</strong>stendere gli arti ormai un poco<br />

intorpi<strong>di</strong>ti. Dopo un po’, passò <strong>di</strong> là un ven<strong>di</strong>tore <strong>di</strong> giornali; ne<br />

comprai uno, spendendo sol<strong>di</strong> tunisini, e lessi che gli Alleati avevano<br />

oltrepassato il Po, ed erano entrati nel Veneto. Subito alzammo<br />

grida <strong>di</strong> gioia: che felicità, che bellezza nel sapere finalmente libera la<br />

nostra Patria! Si va a casa! Non sapevamo ancora cosa ci aspettava!<br />

Il giorno seguente giungemmo a Marrakech.<br />

A Marrakech<br />

Era il 26 aprile del 1945. L’ufficiale dell’esercito francese, che<br />

comandava la nostra scorta <strong>di</strong> soldati arabi, consegnò tutti i<br />

documenti <strong>di</strong> viaggio al responsabile del nuovo campo che era<br />

un maresciallo francese, coa<strong>di</strong>uvato a sua volta da un altro suo<br />

pari appartenente all’esercito italiano.<br />

Nel nuovo sito trovammo altri Italiani e tanti stranieri, così da<br />

raggiungere il numero <strong>di</strong> circa seicento prigionieri. Eravamo<br />

accampati al seminterrato <strong>di</strong> un ospedale costruito fino al grezzo,<br />

perché i lavori erano stati sospesi a causa della guerra.<br />

Anche lo scantinato non era completo, mancavano <strong>di</strong>verse cose,<br />

come il pavimento, ma almeno eravamo riparati dal sole e dalle<br />

intemperie. Purtroppo però lo trovammo pieno zeppo <strong>di</strong> parassiti:<br />

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56 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

il calore e la mancanza <strong>di</strong> accurate pulizie davano come risultato, in<br />

questi posti assolati, il proliferare delle cimici.<br />

Il trattamento verso <strong>di</strong> noi tuttavia era <strong>di</strong>screto e la sorveglianza<br />

non rigorosa. Chi voleva lavorare poteva farlo tranquillamente,<br />

bastava farsi iscrivere negli elenchi giornalieri redatti dal<br />

responsabile italiano. Mi iscrissi anch’io per poter lavorare e<br />

ricevere qualche aiuto dalla popolazione.<br />

Si usciva a gruppetti, scortati da soldati arabi e si andava a cercare<br />

impiego ai mercati locali, oppure al cimitero francese (gli arabi<br />

ne avevano uno per conto proprio).<br />

Al mercato si facevano le pulizie e si provvedeva al trasporto delle<br />

derrate, così sempre si riusciva ad avere in cambio qualche cibaria<br />

per completare il rancio.<br />

Al cimitero si pulivano le tombe, si annaffiavano i fiori e per questo<br />

lavoro c’era sempre qualche buona persona che ci ricompensava<br />

con delle monete che poi usavamo per le compere.<br />

Dal trattamento che noi fuggiaschi ricevemmo, capimmo che alla<br />

fin fine non avevamo ricevuto nessuna pena specifica: e questo ci<br />

rallegrò. Eravamo considerati solamente prigionieri <strong>di</strong> guerra.<br />

Fra <strong>di</strong> noi vi erano anche dei laureati che da civili erano<br />

insegnanti <strong>di</strong> lingua inglese. Costoro cominciarono a far corsi<br />

per farci conoscere quella lingua. Io mi iscrissi e cominciai le<br />

lezioni dalle quali in fondo mi sentivo gratificato, perché così<br />

aumentavo le mie conoscenze. Dopo aver imparato per necessità<br />

la lingua francese, potevo apprendere anche quella inglese.<br />

Passati circa due mesi ci fu la richiesta, fatta al capo campo,<br />

<strong>di</strong> otto operai meccanici e conta<strong>di</strong>ni: sette subito risposero <strong>di</strong><br />

sì, mancava l’ottavo. Dato che io mi ero fatta la fama <strong>di</strong> abile<br />

meccanico, quei sette vennero a propormi con insistenza il<br />

lavoro.<br />

Sulle prime fui reticente, poi indeciso e alla fine cedetti; mi<br />

convinsero che nei campi, all’aria aperta, la vita sarebbe stata<br />

migliore. Per <strong>di</strong> più non era che a me piacesse la vita del campo<br />

<strong>di</strong> Marrakech, tuttavia trovavo interessanti le lezioni <strong>di</strong> inglese.<br />

Fu così che anch’io mi recai a Teroudant.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Taroudant<br />

Eravamo stati ingaggiati da una famiglia belga che aveva una decina<br />

<strong>di</strong> ettari coltivati a orti e frutteti. Quella zona era sotto la giuris<strong>di</strong>zione<br />

<strong>di</strong> Aga<strong>di</strong>r, città posta al <strong>di</strong> là della catena montuosa dell’Atlas.<br />

Venne a prelevarci una signora <strong>di</strong> mezza età, perché il marito era<br />

agli arresti domiciliari, punito come collaborazionista con i tedeschi.<br />

Venne con una corriera postale e ci portò via con altra corriera che<br />

faceva il cammino inverso. Da quel momento la responsabilità <strong>di</strong> tutti<br />

noi otto fu <strong>di</strong> quella signora che, da subito, si mostrò dura nei nostri<br />

confronti. Ci fece salire non dentro la corriera, ma sopra dove c’era<br />

una piattaforma per legare i bagagli: era la fine <strong>di</strong> luglio del 1945.<br />

Partimmo <strong>di</strong> mattina presto e arrivammo a destinazione verso sera.<br />

Attraversammo la catena montuosa dell’Atlas, punteggiata <strong>di</strong> neve,<br />

fermandoci <strong>di</strong> tanto in tanto in miseri villaggi. Noi mangiammo e<br />

bevemmo quel poco che ci eravamo portati <strong>di</strong>etro. Ad attenderci<br />

c’era il marito, il sig. Fritz e due bambini. Ci assegnarono un ricovero<br />

<strong>di</strong>screto e il cibo si <strong>di</strong>mostrò fin da subito buono ma <strong>di</strong> quantità<br />

ridotta, tanto che poi si doveva rubacchiare qualche prodotto<br />

agricolo per completare la <strong>di</strong>eta.<br />

Il lavoro più importante e faticoso era l’irrigazione. Un’abbondante<br />

quantità d’acqua e il molto sole che splendeva davano ottimi<br />

risultati. Io e il toscano Giuseppe Magazzini, aiutati saltuariamente<br />

da un altro, eravamo gli addetti ai motori <strong>di</strong> pompaggio. Il più<br />

potente era a vapore, l’altro a scoppio.<br />

Il motore a vapore era vecchio e aveva bisogno <strong>di</strong> una continua<br />

manutenzione. I serbatoi del vapor acqueo erano lesionati qua e là e<br />

noi, per turare le falle, dovevamo arrangiarci a tamponarle con della<br />

terra argillosa, che trovavamo scavando in profon<strong>di</strong>tà.<br />

Quei lavori agricoli dopotutto, si <strong>di</strong>mostrarono pesanti perché occorreva,<br />

essere costantemente presenti e attenti che i motori funzionassero, che<br />

l’acqua scorresse e che tutto il terreno venisse irrigato. Solo così i frutti<br />

della terra crescevano e maturavano in fretta.<br />

Tutti insieme eravamo assidui, una vera squadra, ma talvolta non<br />

riuscivamo ad essere sempre pronti poiché le forze ci mancavano,<br />

data la scarsità <strong>di</strong> cibo. Chiedemmo un pasto più sostanzioso, ma<br />

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58 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

ci fu risposto <strong>di</strong> no. Chi in effetti gestiva quella fattoria era proprio<br />

la signora, donna energica, decisa e <strong>di</strong>spotica, ci considerava e ci<br />

trattava solamente come prigionieri <strong>di</strong> guerra, anche se ormai il<br />

conflitto era finito.<br />

Non mostrava verso <strong>di</strong> noi alcun gesto <strong>di</strong> umana comprensione.<br />

Fu così che tutti decidemmo <strong>di</strong> fare uno sciopero, sospendendo<br />

il pompaggio dell’acqua e quin<strong>di</strong> l’irrigazione. La reazione fu<br />

imme<strong>di</strong>ata: la nostra padrona chiamò la polizia francese locale.<br />

Fummo trattati da criminali: purtroppo il responsabile <strong>di</strong> quel<br />

<strong>di</strong>staccamento accettò soltanto la <strong>di</strong>chiarazione della donna e così<br />

il suo verbale risultò del tutto sfavorevole per noi, ad<strong>di</strong>rittura noi<br />

due meccanici italiani: fummo <strong>di</strong>chiarati sabotatori, poiché non<br />

avevamo fatto funzionare i motori per un giorno e mezzo, visto che<br />

eravamo in sciopero.<br />

Noi meccanici, assieme al nostro saltuario assistente che aveva<br />

marcato visita, fummo spe<strong>di</strong>ti al campo <strong>di</strong> smistamento <strong>di</strong> Aga<strong>di</strong>r<br />

dove c’erano le prigioni e l’ospedale, accompagnati da due soldati<br />

arabi come scorta. Andammo a pie<strong>di</strong>, percorrendo una trentina <strong>di</strong><br />

chilometri: era la fine <strong>di</strong> febbraio 1946.<br />

Durante la faticosa marcia sostammo per riposare e rifocillarci in<br />

due villaggi con il cibo che avevamo <strong>di</strong> scorta. In uno <strong>di</strong> questi<br />

trovammo un piccolo presi<strong>di</strong>o militare. Il comandante era un<br />

Italiano naturalizzato Francese, scappato in Francia durante la salita<br />

al potere <strong>di</strong> Mussolini. Fu veramente cattivo con noi, sbeffeggiandoci<br />

e insultandoci e ci trattò da nemici fascisti con grida e urla.<br />

Aga<strong>di</strong>r<br />

Quel campo si trovava in un luogo che non <strong>di</strong>menticherò mai:<br />

laggiù ho trascorso giorni terribili, per fortuna fu per poco più <strong>di</strong><br />

una settimana.<br />

Arrivati, io e l’altro meccanico fummo messi in prigione; il terzo invece<br />

fu mandato all’ospedale francese per un controllo. Poco dopo però<br />

fu spe<strong>di</strong>to pure lui in prigione perché non fu <strong>di</strong>chiarato ammalato,<br />

ma solamente uno scansafatiche e un bugiardo. Le prigioni erano<br />

stanzette <strong>di</strong> circa un metro e mezzo per tre, costruite in muratura.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Il letto era un rialzo <strong>di</strong> circa cinquanta centimetri, formato da mattoni,<br />

con sopra una soletta <strong>di</strong> calcestruzzo. La porta era nel mezzo del lato<br />

più corto e, a fianco, c’era il bugliolo per gli escrementi. Questo non<br />

era altro che un buco sul pavimento, che si prolungava nel corridoio<br />

in una canaletta, dove scorrevano i liquami spinti da un po’ d’acqua.<br />

Subito sopra a questo scolo c’era un foro sul muro, sufficientemente<br />

grande per far passare le gamelle dei cibi ed il passaggio a carponi<br />

<strong>di</strong> una persona. Riscontrai che in quelle con<strong>di</strong>zioni eravamo in una<br />

decina <strong>di</strong> soldati, fra Italiani, Francesi e Inglesi.<br />

Al pomeriggio, verso sera uscivamo strisciando attraverso la bassa<br />

apertura vicina alla porta e andavamo in cortile, per sgranchirci<br />

le gambe e chiacchierare. Mi capitò anche <strong>di</strong> fare una baruffa: un<br />

soldato francese, improvvisamente, forse perché esasperato da quella<br />

assurda situazione in cui si trovava anche lui, cominciò ad insultare<br />

noi Italiani con la classica parola <strong>di</strong>spregiativa francese Macaronì,<br />

macaronì! Mi stancai nel sentirmi gridare queste offese, gli urlai <strong>di</strong><br />

smettere. Per tutta risposta mi sferrò un pugno che cercai <strong>di</strong> scansare,<br />

ma mi colpì sul collo. Reagii istintivamente con un potente pugno,<br />

colpendolo all’occhio che subito iniziò a gonfiarsi. Rimasi scosso<br />

dal mio gesto ed entro <strong>di</strong> me mi pentii, sia perché la mia azione era<br />

stata troppo violenta, sia perché, se quel tale mi denunciava, per<br />

me sarebbero stati guai ancora più seri. L’indomani quell’uomo fu<br />

ricoverato all’ospedale ove <strong>di</strong>chiarò, fortuna mia, che quel malanno<br />

se l’era procurato cadendo dalle scale.<br />

Rimanemmo in quel tugurio <strong>di</strong> prigione per una settimana.<br />

Nel frattempo il nostro amico, quello che era stato <strong>di</strong>chiarato<br />

bugiardo, marcò visita e questa volta rimase in ospedale.<br />

Noi due a nostra volta, vedendo come funzionava l’ingranaggio,<br />

marcammo visita e fummo condotti in ospedale. Qui finalmente<br />

trovammo comprensione, assistenza e anche, meraviglia, un me<strong>di</strong>co<br />

che ci aiutò. Costui per prima cosa ci chiese il perché fossimo<br />

ancora internati, dato che i nostri altri connazionali avevano già da<br />

tempo iniziato a rimpatriare. Gli raccontammo ogni cosa; mosso a<br />

compassione ci tenne là, sotto le sue cure, raccomandandoci <strong>di</strong> far<br />

finta <strong>di</strong> dormire ogni volta che passava la ronda me<strong>di</strong>ca giornaliera.<br />

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60 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Non finirò mai <strong>di</strong> ringraziare quel capitano me<strong>di</strong>co francese che<br />

ascoltò con pazienza ed umanità le nostre traversie e che ci ospitò<br />

per sette giorni; così potemmo mangiare e dormire senza limiti,<br />

rimettendoci bene in forze.<br />

Finché poté quel me<strong>di</strong>co ci aiutò, poi fu costretto a <strong>di</strong>metterci.<br />

Il comando francese anche questa volta, leggendo il vecchio<br />

verbale che riportava solo le parole della signora belga, invece <strong>di</strong><br />

mandarci nel campo <strong>di</strong> smistamento, da dove eravamo partiti, ci<br />

inviò in un’altra prigione, ad<strong>di</strong>rittura fra una trentina <strong>di</strong> soldati<br />

<strong>di</strong> varie nazionalità, quasi tutti appartenenti alla legione straniera<br />

e accusati <strong>di</strong> fatti orribili. Eravamo tutti rinchiusi in un unico<br />

stanzone, facente parte <strong>di</strong> un centro speciale a<strong>di</strong>acente al campo <strong>di</strong><br />

smistamento. Passammo colà solamente una giornata e mezza, ma<br />

fu per noi l’inferno. Là esplodevano <strong>di</strong> continuo, senza inibizioni,<br />

eros e violenza fuori misura. Era una bolgia talmente orgiastica che,<br />

al solo pensiero, mi vengono ancora le lacrime agli occhi. Io mi<br />

misi in un angolo e pregai con gran fervore e a lungo i miei genitori<br />

morti prima che partissi per la guerra, perché mi salvassero da quella<br />

dannata situazione.<br />

Quello che mi successe nel pomeriggio del secondo giorno fu<br />

miracoloso: non ho mai trovato una spiegazione logica, sono<br />

convinto dell’aiuto dei miei genitori.<br />

Venne a fare le pulizie un gruppo <strong>di</strong> arabi forniti <strong>di</strong> un carretto<br />

trainato a mano. Io e i miei due amici ci mettemmo ad aiutarli <strong>di</strong><br />

buona lena: spingemmo il carretto fino al portone d’uscita, che era<br />

<strong>di</strong> collegamento col campo <strong>di</strong> smistamento. Il portone fu aperto e<br />

rinchiuso con lucchetto, noi tre passammo assieme agli inservienti,<br />

nessuno ci fece osservazioni. In aggiunta a questa fortunata uscita da<br />

quell’inferno, ne avemmo anche un’altra. Trovammo il maresciallo<br />

francese che gestiva il campo in compagnia <strong>di</strong> quello Italiano che<br />

lo aiutava, che erano gli stessi sottufficiali dell’altra volta, i quali<br />

finalmente ci dettero ascolto e si impietosirono per la nostra cattiva<br />

sorte: fu un secondo miracolo! Noi chiedemmo <strong>di</strong> rimanere là, ma <strong>di</strong><br />

non voler ritornare mai più in quella prigione e facemmo richiesta <strong>di</strong><br />

essere inclusi negli elenchi dei rientri per il rimpatrio.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Il maresciallo italiano si assunse la responsabilità che noi non<br />

saremmo fuggiti e che non avremmo causato problemi, il Francese<br />

accettò e fu così che fummo inseriti nella lista dei rientri verso l’Italia.<br />

Dormimmo nel corridoio dei servizi, poiché non c’era altro posto,<br />

essendo tutte le baracche ormai piene. Il giorno dopo ci svegliarono<br />

e ci inquadrarono, per la tanto sospirata partenza, in due scaglioni<br />

<strong>di</strong> circa 250 soldati. Fummo stipati nei cassoni dei camion militari.<br />

Mentre salivamo sugli automezzi, ebbi occasione <strong>di</strong> vedere una parte<br />

<strong>di</strong> quelli ancora rinchiusi nell’inferno che montavano faticosamente,<br />

con le catene ai pie<strong>di</strong>, su un camion che partì prima <strong>di</strong> noi.<br />

Se rimanevamo là in quello stanzone molto probabilmente saremmo<br />

dovuti partire anche noi con i pie<strong>di</strong> incatenati, costretti a camminare<br />

in quel modo. Non ho mai finito <strong>di</strong> pensare a un altro miracolo.<br />

Lasciavo alle spalle un luogo <strong>di</strong> cattivi ricor<strong>di</strong> e me ne andavo verso<br />

la libertà! Si andava verso un nuovo raggruppamento a Marrakech,<br />

in attesa <strong>di</strong> partire per Casablanca dove avvenivano gli imbarchi.<br />

Ritorno a Marrakech<br />

Giungemmo a Marrakech, non attraversando la catena montuosa<br />

dell’Atlas come la prima volta, ma aggirandola e passando per una<br />

carovaniera del deserto. Che giornata meravigliosa! Lasciavo alle<br />

spalle un luogo <strong>di</strong> cattivi ricor<strong>di</strong> e mi avviavo verso la liberazione.<br />

Mentre percorrevamo quelle strade, piene <strong>di</strong> sole, noi tutti stavamo<br />

in silenzio, per la sconfinata felicità del prossimo ritorno in Patria: si<br />

sentivano solamente i monotoni rombi dei motori dei camion.<br />

Ritornati, ritrovammo il solito ambiente: questa volta però il mio<br />

animo era più sereno, ormai ero certo della partenza.<br />

Tornai a mettermi in nota per i lavori al mercato o al cimitero.<br />

Riuscivo a ricevere, in contropartita del lavoro, qualche franco ma<br />

soprattutto datteri, banane, noci, fichi e patate, che poi alla sera<br />

spartivo con gli amici. Fortunatamente il mio corpo si rinvigorì, sia<br />

per il cibo abbondante, sia per il pensiero del prossimo ritorno.<br />

Durante questa forzata permanenza a Marrakech ricevetti una<br />

cartolina in franchigia da casa. Finalmente alle mie lettere ottenni<br />

una risposta scritta da mio fratello Damiano: fu l’unica <strong>di</strong> tutta<br />

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62 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

la mia prigionia. M’informava che tutta la famiglia era in buona<br />

salute, e che le grosse preoccupazioni erano ormai passate. Se ben<br />

ricordo, la cartolina doveva essere datata fine novembre 1945,<br />

dato che riportava anche la notizia della morte del nostro arciprete<br />

avvenuta, come ho saputo dopo, il 10 settembre 1945. Quanto ha<br />

girato quella cartolina!<br />

Intanto alcuni scaglioni già stavano partendo per Casablanca, per<br />

essere poi imbarcati, mentre venivano subito rimpiazzati da altri<br />

gruppi provenienti da <strong>di</strong>verse località dell’entroterra del Marocco.<br />

Giunse l’aprile 1946 e io ero in attesa, ma finalmente sentii il grido<br />

fati<strong>di</strong>co: si parte. In treno fummo portati a Casablanca.<br />

In attesa dell’imbarco aspettavo il mio turno <strong>di</strong> partenza. Intanto<br />

continuavano ad arrivare altri scaglioni <strong>di</strong> Italiani che sovraffollarono<br />

il campo, dato che le partenze erano <strong>di</strong> parecchio inferiori agli<br />

arrivi. Successe allora che gli ultimi arrivati furono smistati con dei<br />

camion nel vicino campo <strong>di</strong> concentramento <strong>di</strong> Me<strong>di</strong>ouna, che era<br />

vuoto. Purtroppo io fui tra questi. Colà passai un lungo mese con<br />

addosso un gran senso <strong>di</strong> ansiosa attesa. I camion ritornarono e ci<br />

riportarono a Casablanca in una caserma per i controlli. Capii che<br />

finalmente era arrivato il mio turno <strong>di</strong> partenza per l’Italia.<br />

Là, vivendo in tranquillità, cominciai ad andare nella baracca a<strong>di</strong>bita<br />

a cappella, avendo notato che il cappellano era un mio conterraneo.<br />

Ritornai chierichetto come quando ero bambino. Il cappellano <strong>di</strong><br />

tanto in tanto mi ringraziava donandomi generi <strong>di</strong> confort, come<br />

le sigarette.<br />

Io non fumavo e così ebbi l’idea <strong>di</strong> venderle o regalarle ai compagni.<br />

Una volta, <strong>di</strong> ritorno dalla funzione, notai una fila <strong>di</strong> Italiani seduti<br />

davanti ad una porta. Meraviglia! Fra questi riconobbi un vecchio<br />

amico, Arsenio Filippi, il gelataio del mio paese, che poi d’inverno<br />

cambiava mestiere lavorando in una pasticceria. Che bellezza!<br />

Quante chiacchiere facemmo quel giorno e in quelli successivi!<br />

Dopo la guerra il Filippi si rese noto a Monselice per il suo negozio<br />

<strong>di</strong> dolciumi e <strong>di</strong> piccoli giocattoli; tutti i ragazzetti andavano da lui,<br />

quando cercavano qualche cosa <strong>di</strong> nuovo, giacché era all’avanguar<strong>di</strong>a<br />

in fatto <strong>di</strong> prodotti per i giovincelli. Morì alcuni anni fa.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Il ritorno<br />

L’amico Arsenio Filippi partì prima <strong>di</strong> me, però io lo seguii poco<br />

dopo assieme a tanti nuovi amici che mi ero fatto in quel mio<br />

girovagare.<br />

Espletate le varie formalità <strong>di</strong> verifica, ci avviammo a pie<strong>di</strong> verso<br />

il sospirato porto <strong>di</strong>stante appena un paio <strong>di</strong> chilometri. Là vi<strong>di</strong><br />

subito la nave che ci avrebbe portati a casa, era la “Leonardo da<br />

Vinci” noleggiata appositamente dalla Pontificia Commissione che,<br />

come subito seppi, si adoperava per accelerare il rientro degli ex<br />

prigionieri. La stanchezza e l’ansia scomparvero.<br />

Alla fine mettemmo i pie<strong>di</strong> sulla tolda: ormai ero sicuro che non<br />

sarebbero sorti altri imprevisti e giunte altre <strong>di</strong>savventure.<br />

Trovammo ad attenderci alcuni me<strong>di</strong>ci incaricati <strong>di</strong> farci un<br />

controllo sul nostro stato <strong>di</strong> salute per evitare contagi. Ci fecero<br />

un’accurata visita compilando nel frattempo una scheda. Vi<strong>di</strong><br />

anche che selezionavano alcuni, facendone un gruppetto a parte;<br />

erano coloro che erano affetti da malattie. La maggioranza <strong>di</strong> noi fu<br />

comunque <strong>di</strong>chiarata sana e pronta alla traversata. Partimmo. Dopo<br />

qualche giorno <strong>di</strong> navigazione approdammo a Napoli: era il 27<br />

maggio 1946. Erano passati tre lunghi anni <strong>di</strong> prigionia in Africa!<br />

Per arrivare ai moli dovemmo percorrere ben 250 metri <strong>di</strong> passerella<br />

che appoggiava sui relitti <strong>di</strong> navi affondate. Una volta sbarcati ci<br />

portarono alla Capitaneria del porto ove fummo mandati alla<br />

<strong>di</strong>sinfestazione e ai bagni, poi ci vennero date vesti usate ma pulite.<br />

In noi sentivamo rinascere la vita! Ci schedarono con i dati anagrafici,<br />

in aggiunta a quelli relativi alla vita militare e alla lunga prigionia,<br />

allegando i risultati della visita me<strong>di</strong>ca fatta prima. Infine a ognuno<br />

fu consegnato il foglio <strong>di</strong> via per tornare al proprio <strong>di</strong>stretto militare<br />

e a casa. Io dovevo presentarmi prima alla Capitaneria <strong>di</strong> porto <strong>di</strong><br />

Venezia e poi ritornare a Monselice.<br />

Fra noi amici, prima <strong>di</strong> <strong>di</strong>viderci, ci riunimmo insieme, ci<br />

abbracciammo, salutandoci fragorosamente, poi ci congedammo gli<br />

uni dagli altri per intraprendere ognuno la propria strada. Io, arrivato<br />

a Bologna, dovetti fare una piccola deviazione ed allungare il tragitto<br />

verso Ostiglia, Mantova, <strong>Padova</strong>, a causa dei bombardamenti che<br />

63


64 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

avevano danneggiato gravemente i binari ferroviari per cui c’erano<br />

linee ancora interrotte. Giunto a <strong>Padova</strong> avrei dovuto proseguire<br />

verso Venezia, invece presi subito il treno che andava a Rovigo<br />

passando per Monselice.<br />

Durante il viaggio un bigliettaio pignolo voleva farmi pagare il<br />

biglietto, ma io non avevo sol<strong>di</strong>! Gli altri viaggiatori presenti mi<br />

<strong>di</strong>fesero e <strong>di</strong>ssero all’unisono che era un’assur<strong>di</strong>tà, ormai raggiunta<br />

<strong>Padova</strong>, dover prima andare alla Capitaneria a Venezia, quando<br />

la casa era vicina e ci mancavo da quasi cinque anni. Alla fine il<br />

controllore lì per lì si arrese, non cercò più <strong>di</strong> farmi scendere, ma in<br />

cambio mi tormentò altre varie volte, affinché pagassi il biglietto.<br />

Fu una richiesta che mi urtò, ma in fondo non me ne preoccupai<br />

minimamente: ne avevo superate tante <strong>di</strong> situazioni ben più<br />

complicate!<br />

Sceso alla stazione <strong>di</strong> Monselice mi incamminai verso casa: era<br />

il 29 maggio 1946. Per primo incontrai, lungo l’attuale via 28<br />

aprile 1945, il sig. Massimiliano Andolfo, allora cinquantenne,<br />

che abitava nella mia stessa via <strong>di</strong> Arzer<strong>di</strong>mezzo. Mi salutò con<br />

grande effusione e subito mi rassicurò, quando chiesi notizie sui<br />

miei familiari, che godevano tutti <strong>di</strong> ottima salute: avevo incontrato<br />

un nuovo assessore comunale. Mi <strong>di</strong>sse anche che il 2 giugno vi<br />

sarebbero state le votazioni con cui avremmo scelto se mantenere la<br />

Monarchia o scegliere la Repubblica; nel contempo poi mi informò<br />

che mio fratello maggiore Ottaviano era in piazza a fare propaganda<br />

per spronare la gente al voto.<br />

Per un po’ lo cercammo poi, non trovandolo, io proseguii verso<br />

casa. Mentre ero in piazza per cercar mio fratello Ottaviano, uno mi<br />

riconobbe e subito corse via in bici per avvisare gli altri miei parenti.<br />

Fu così che, arrivato nella mia via, sentii un vociare festoso: erano tutti<br />

i parenti che mi venivano incontro! Fu uno scoppio generale <strong>di</strong> felicità<br />

e allegria. Si aggiunsero conoscenti e amici, ero il centro <strong>di</strong> tutte le<br />

attenzioni. A casa poi vi fu un continuo bombardamento <strong>di</strong> domande<br />

e risposte: ognuno aveva qualcosa da domandare o da <strong>di</strong>re.<br />

A poco a poco fui aggiornato delle varie vicissitu<strong>di</strong>ni vissute in<br />

paese e <strong>di</strong>ntorni, seppi dei vari morti in Germania, tra i quali anche


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

il figlio <strong>di</strong> Massimiliano, proprio il primo Monselicense che avevo<br />

incontrato.<br />

Dopo qualche giorno, presi il treno usando il foglio <strong>di</strong> via che<br />

possedevo, per recarmi alla Capitaneria del porto <strong>di</strong> Venezia, ove<br />

raccolsero tutti i miei dati, che aggiunsero poi al mio curriculum<br />

militare.<br />

Il due giungo 1946 andai anch’io a votare.<br />

Nel giro <strong>di</strong> poco tempo dovetti ritornare alla Capitaneria per<br />

ricontrollare la mia posizione: incre<strong>di</strong>bile, avevano già preparato il<br />

rimborso <strong>di</strong> quanto mi spettava. Percepii oltre trecento mila lire <strong>di</strong><br />

indennità, fra quelle che non avevo ricevuto a Lampedusa e quelle per<br />

gli anni <strong>di</strong> prigionia. A quei tempi quella somma era una fortuna.<br />

Ripresi comunque al più presto il mio lavoro <strong>di</strong> coltivatore <strong>di</strong>retto e<br />

quello <strong>di</strong> commerciante <strong>di</strong> alcuni prodotti agricoli, come mi aveva<br />

insegnato mio padre e potei sviluppare la mia attività con tranquilla<br />

sicurezza utilizzando i sol<strong>di</strong> che avevo percepito.<br />

Mi sposai con Angelina, formammo una famiglia che crebbe<br />

assieme all’aumentare delle nostre possibilità economiche. Adesso,<br />

trascorsi tanti anni, io e la mia Angelina viviamo una vita tranquilla,<br />

<strong>di</strong>stesa e anche fortunatamente operosa nonostante gli acciacchi.<br />

Siamo sempre circondati dall’amore dei nostri quattro figli e da<br />

tanti nipoti tutti affettuosi e per questo siamo appagati <strong>di</strong> quanto<br />

abbiamo costruito!<br />

Il racconto della prigionia l’avevo ormai rinchiuso nel <strong>di</strong>menticatoio:<br />

era troppo doloroso per me rivivere quei lunghi e terribili anni <strong>di</strong><br />

guerra. Capitò però che l’amico <strong>di</strong> lunga data Giuseppe Trevisan,<br />

anche lui combattente e prigioniero in altri fronti, mi spronò a<br />

riesumare quei lontani ricor<strong>di</strong> pieni <strong>di</strong> dolori e pericoli: mi ripeté<br />

tante volte che era necessario spiegare ai nostri giovani “cosa è la<br />

guerra”: essa è stata la terribile mistificazione <strong>di</strong> ogni giustizia! Per<br />

questo motivo pure lui aveva deciso, alcuni anni prima, <strong>di</strong> scrivere le<br />

memorie sofferte dei suoi anni <strong>di</strong> soldato e prigioniero nella seconda<br />

guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />

65


66 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Autunno 1942. Sono in visita sull’incrociatore Pompeo Magno.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Estate 1942. Sono imbarcato nell’incrociatore Taranto. Era comandato<br />

dall’ammiraglio Tur, poiché era nave ammiraglia della Forza Navale Speciale.<br />

L’incrociatore<br />

Taranto in<br />

navigazione visto<br />

nella fiancata.<br />

Il suo motto era<br />

Fig 6:<br />

Ovunque un raggio<br />

<strong>di</strong> sole della gloria<br />

Fig 7:<br />

d’Italia.<br />

Fig 14:<br />

Fig 15:<br />

L’incrociatore<br />

Taranto in<br />

navigazione visto<br />

<strong>di</strong> prua.<br />

67


68 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

L’Italia dal 1918 al 1943. Percorso che io come marinaio feci negli anni <strong>di</strong>cembre<br />

1941 – giugno 1943. Da Venezia a La Spezia poi a Lampedusa passando per<br />

Trapani. Si noti che l’Istria era italiana e che la Jugoslavia era un unico stato<br />

comprendente gli attuali Slovenia, Serbia, Croazia, Kossovo, Montenegro.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

69<br />

Lampedusa, mattina del<br />

13 giugno 1943: uno<br />

stuolo <strong>di</strong> navi da guerra e<br />

aerei inglesi si apprestano<br />

a invadere l’isola. Io mi<br />

trovavo marinaio <strong>di</strong>slocato<br />

là addetto ai cannoni<br />

140/43 prolungati.<br />

La nostra debole<br />

<strong>di</strong>fesa cessò presto e il<br />

comandante fece issare<br />

ban<strong>di</strong>era bianca.<br />

Disegno <strong>di</strong> B. Mardegan.<br />

Tunisia colonia francese.<br />

Gli Inglesi ci portarono a<br />

Susa dandoci poco dopo<br />

in consegna ai Francesi.


70 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

La zona della Tunisia dove ho trascorso la prigionia dal giugno 1943 all’aprile<br />

1945. A – Cartagine, B – Potainville (Body Cedria), C - Majaz Al Bab,<br />

D – Ouina.<br />

I francesi ci rinserrarono nel campo <strong>di</strong> concentramento <strong>di</strong> Ouina, che però era<br />

mancante <strong>di</strong> tutto, c’erano solamente i cavalli <strong>di</strong> frisia perimetrali.<br />

Disegno <strong>di</strong> B. Mardegan.


Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

La fattoria <strong>di</strong> Potainville (Bordj Cedria). Io dovevo tinteggiarla, così approfittai<br />

per spillare del vino che davo in cambio agli italiani prigionieri degli americani<br />

nella base <strong>di</strong> Cartagine.<br />

Marzo 1945. Potainville: tentativo <strong>di</strong> fuga per arrivare a Lampedusa perché<br />

sapevamo che quasi tutta l’Italia era liberata. In se<strong>di</strong>ci spingemmo in mare una<br />

motozattera americana. Disegni <strong>di</strong> B. Mardegan.<br />

71


72 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Africa del Nord prima del 1945, da Est: Libia colonia italiana, Tunisia,Algeria,<br />

Marocco colonie francesi.<br />

Marocco ove sono stato prigioniero dall’aprile 1945 al maggio 1946. Marrakech,<br />

Taroudant, Aga<strong>di</strong>r, Casablanca.


Il mio foglio matricolare con i dati anagrafici.<br />

Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

73


74 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia <strong>di</strong> un marinaio<br />

Documentazione del mio periodo militare.


Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere<br />

combattente per la libertà<br />

ATTILIO BIZZOTTO<br />

Classe 1922<br />

Monselice – PD – Via Celio


76 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Memorie raccolte da Giuseppe Trevisan<br />

Prigioniero nello Stalag XVII A <strong>di</strong> Kaisersteinbruk, Germania<br />

Premessa<br />

Fino a qualche anno fa, non ho mai voluto far conoscere agli altri<br />

i miei ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> soldato e combattente per la libertà. Era perché<br />

sentivo che le mie traversie erano meno pesanti <strong>di</strong> quelle sofferte<br />

da coloro che hanno patita la prigionia. Ho avuto, e ancora ho, un<br />

rispetto reverenziale per tutti quelli che hanno penato per anni nei<br />

campi <strong>di</strong> concentramento.<br />

L’essere lontani da ogni affetto familiare, l’essere sperduti fra una<br />

moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> afflitti, costretti a vivere in luoghi stranieri e ostili,<br />

ho sempre ritenuto che quella vita fosse il supplizio peggiore per<br />

ogni essere umano. Noi soldati, che durante la lunga guerra siamo<br />

invece rimasti in Patria, abbiamo avuta la possibilità <strong>di</strong> lenire i nostri<br />

affanni e le nostre paure con l’amore <strong>di</strong> parenti e amici e col vivere<br />

nelle nostre terre. Per questo enorme <strong>di</strong>vario ho sempre pensato<br />

che i miei ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> guerra fossero meno significativi <strong>di</strong> quelli dei<br />

miei commilitoni <strong>di</strong>spersi nei deserti africani o rinchiusi nei lager<br />

nazisti. Ritenevo che scrivere o dettare le mie memorie <strong>di</strong> carabiniere<br />

e partigiano, vissute solo in Italia, fosse la pretesa vanagloriosa <strong>di</strong><br />

essere equiparato a coloro che hanno patita la guerra in modo molto<br />

pesante.<br />

In questo ultimo torno <strong>di</strong> tempo però l’amico Giuseppe Trevisan<br />

mi convinse della utilità <strong>di</strong> far conoscere tutto quanto <strong>di</strong> male ha<br />

portato la guerra, perché possa essere <strong>di</strong> insegnamento per il futuro.<br />

Ho accettato sia perché l’amico che mi ha esortato è lui stesso<br />

un reduce dai lager, sia perché ormai c’è un rifiorire continuo <strong>di</strong><br />

memorie <strong>di</strong> soldati combattenti. Così ho pensato che i ricor<strong>di</strong> della<br />

mia vita militare possano anch’essi servire per formare un quadro<br />

sempre più completo <strong>di</strong> quanto abbiamo sofferto nella <strong>di</strong>sastrosa<br />

seconda guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />

Mi auguro che questa fatica <strong>di</strong> dettare e scrivere le mie memorie


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

possa dare un ulteriore contributo per la conoscenza dei <strong>di</strong>sastri<br />

subiti da tutti noi Italiani per colpa del <strong>di</strong>ttatore Mussolini.<br />

Vorrei infine ringraziare sentitamente l’amico Giuseppe Trevisan<br />

che mi ha dato l’idea <strong>di</strong> far conoscere le mie memorie. È grazie a lui,<br />

al suo grande entusiasmo, alla sua pazienza e de<strong>di</strong>zione che siamo<br />

riusciti a portare a termine questo lavoro.<br />

Io e la mia famiglia<br />

Sono Attilio Bizzotto, nato il 19 <strong>di</strong>cembre 1922 a Cittadella e dal<br />

1952 residente a Monselice, in via Celio, entrambi grossi comuni in<br />

provincia <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>.<br />

Provengo da una famiglia numerosa <strong>di</strong> coltivatori <strong>di</strong>retti.<br />

Ho imparato fin da piccolo a lavorare i campi e ad essere sempre<br />

pronto a obbe<strong>di</strong>re ai miei genitori.<br />

All’inizio del 1941 quando avevo poco più <strong>di</strong> <strong>di</strong>ciotto anni, mia<br />

madre, vedendo spesso due carabinieri passare a pie<strong>di</strong> davanti a casa<br />

nostra, che per servizio <strong>di</strong> controllo andavano dalla loro caserma<br />

<strong>di</strong> Cittadella al confine tra le province <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> e Vicenza, si<br />

convinse che per me, prossimo a partire per il servizio militare, il<br />

corpo migliore fosse quello dei carabinieri. Così quando vedeva i<br />

carabinieri passare, mi chiamava e mi invitava a scegliere quell’arma<br />

perché pensava che i carabinieri fossero solo addetti alla sicurezza<br />

entro i confini patri. Questa considerazione poi si consolidò in<br />

lei perché mio fratello Giuseppe, nato nel 1920 e chiamato alle<br />

armi come artigliere <strong>di</strong> montagna, fu inviato in Jugoslavia poiché<br />

Mussolini, l’11 aprile 1941, aveva <strong>di</strong>chiarato guerra a quello Stato.<br />

Ben presto fu fatto prigioniero dai partigiani <strong>di</strong> Tito, non dando<br />

più notizie <strong>di</strong> sé. Questo fatto traumatizzò tutti noi e fu così che,<br />

lentamente, le parole della mamma penetrarono in me, arrivando<br />

a convincermi che l’arma dei carabinieri mi permetteva con più<br />

facilità <strong>di</strong> stare in Italia, anche perché il mio carattere si confaceva<br />

al comportamento or<strong>di</strong>nato che vedevo in quei militari. Per questi<br />

motivi, durante la guerra fui carabiniere a Roma, ove imparai a<br />

vivere in modo austero, <strong>di</strong>rei patriottico, perché poi per amore <strong>di</strong><br />

una Italia libera fui partigiano nel mio Veneto.<br />

77


78 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Nella capitale fui addetto alla guar<strong>di</strong>a del palazzo reale, il Quirinale,<br />

ed ebbi così modo <strong>di</strong> vedere da vicino e vivere passo passo i fastigi<br />

e la caduta <strong>di</strong> Mussolini e, nel contempo, <strong>di</strong> partecipare alla prima<br />

battaglia in Roma contro i Tedeschi. Da partigiano ho poi potuto<br />

sperimentare la folle pretesa dei due <strong>di</strong>ttatori, Hitler e Mussolini,<br />

che pur <strong>di</strong> vincere spargevano ovunque terrore e morte. Conobbi nel<br />

contempo l’eroismo <strong>di</strong> tanti giovani che, pur non avendo nessuna<br />

preparazione militare, lottarono con entusiasmo e abnegazione<br />

contro il nazifascismo, talvolta fino al sacrificio della vita.<br />

Nell’inverno del 1941-42, quando ormai in famiglia si temeva per<br />

la morte del fratello, arrivò fortunatamente a casa nostra, da fonti<br />

ufficiali, la notizia che Giuseppe era ricoverato in un ospedale italiano<br />

per un congelamento agli arti.<br />

Più tar<strong>di</strong> si vennero a conoscere le sue peripezie.<br />

Quando i partigiani slavi facevano dei prigionieri italiani,<br />

controllavano subito il colore delle mostrine sul bavero della giubba<br />

e quello della cravatta. Chi le aveva nere o cremisi veniva subito<br />

ucciso, mentre gli altri erano risparmiati. I colori delle mostrine e<br />

della cravatta in<strong>di</strong>cavano l’appartenenza dei soldati italiani ai vari<br />

reggimenti. Il colore nero era dei battaglioni fascisti, detti Emme da<br />

Mussolini, quello cremisi dei bersaglieri.<br />

Questi due corpi militari erano notoriamente reparti che usavano<br />

tattiche <strong>di</strong>struttive con incen<strong>di</strong>, saccheggi e fucilazioni. Gli altri<br />

corpi, come fanteria e artiglieria, formati anche da soldati anziani<br />

con famiglia, si astenevano da qualsiasi libera ribalderia. Per questo<br />

mio fratello Giuseppe che portava il colore ocra delle mostrine, era<br />

artigliere, e rosso della cravatta, perché apparteneva alla <strong>di</strong>visione Re,<br />

fu salvo. Dopo lunghe peripezie invernali vivendo fra i boschi assieme<br />

ai titini si ammalò. Purtroppo non avendo adeguati vestiti e scarpe<br />

gli si congelarono le gambe e i pie<strong>di</strong> e nel contempo ebbe altri guai<br />

prodotti dal gran freddo. I partigiani, forse impietositi, lo portarono<br />

<strong>di</strong> notte davanti a un ospedale da campo italiano.<br />

Là lo salvarono e mio fratello molto lentamente si riprese. Ebbe poi<br />

varie licenze <strong>di</strong> convalescenza, tanto che l’8 settembre 1943 egli si<br />

trovava a casa, ove poi rimase.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Allievo carabiniere<br />

A metà del 1941, fatta la visita militare, fui <strong>di</strong>chiarato abile per<br />

l’artiglieria da montagna. Intanto però mi ero convinto <strong>di</strong> arruolarmi<br />

volontario nei carabinieri, così mi informai presso la caserma <strong>di</strong><br />

Cittadella, ove tro<strong>vai</strong> un maresciallo molto gentile il quale mi spiegò<br />

che avevo la possibilità <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare carabiniere ausiliario, anziché<br />

soldato <strong>di</strong> leva, facendo una semplice domanda. Me la compilò e io<br />

la sottoscrissi.<br />

Dopo poco tempo mi arrivò l’invito <strong>di</strong> presentarmi all’ospedale<br />

militare <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> per ulteriori controlli <strong>di</strong> salute e <strong>di</strong> comportamento.<br />

Fui <strong>di</strong>chiarato idoneo.<br />

A metà settembre 1941 mi arrivò la cartolina <strong>di</strong> precetto che<br />

mi convocava a Roma per il primo ottobre nella caserma allievi<br />

carabinieri sita vicino al Vaticano, tra il viale delle Milizie e quello <strong>di</strong><br />

Giulio Cesare.<br />

Subito fui assegnato alla seconda compagnia. Dopo breve tempo<br />

capii come si articolavano i vari gruppi. Vi erano sei compagnie,<br />

delle quali cinque per gli allievi carabinieri e una <strong>di</strong> carabinieri; la<br />

quarta, che era la compagnia d’onore, addetta ai servizi speciali<br />

per le alte cariche dello Stato italiano e degli altri Stati. Là vi erano<br />

anche le se<strong>di</strong> del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, che<br />

allora era il generale Azzolino Hazon, e del comandante <strong>di</strong> tutte le<br />

compagnie, che era il colonnello Dino Tabellini. Durante i tre mesi<br />

del corso <strong>di</strong> addestramento si facevano alla mattina esercizi ginnici,<br />

al pomeriggio lezioni sui co<strong>di</strong>ci civili, penali e militari.<br />

Fra noi vi erano anche allievi provenienti dalla Croazia e<br />

dall’Albania assieme ai loro ufficiali che facevano da interpreti.<br />

Con costoro fraternizzavamo e ci mescolavamo specie durante<br />

il rancio e gli esercizi fisici. C’erano stranieri nel nostro corpo<br />

perché alcuni stati della penisola balcanica erano nostri alleati. La<br />

Jugoslavia, imme<strong>di</strong>atamente con l’inizio delle ostilità nel 1941,<br />

si sfasciò in varie zone tra cui la Croazia <strong>di</strong> Ante Pavelic che<br />

<strong>di</strong>venne alleata dell’Italia. Nell’ottobre del 1940 Mussolini aveva<br />

<strong>di</strong>chiarato guerra alla Grecia, partendo dalla alleata Albania, che<br />

fu <strong>di</strong>chiarata parte integrante dell’Italia, come poi successe per<br />

79


80 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

la Dalmazia, dell’ex Jugoslavia. Da queste nazioni partirono gli<br />

allievi per <strong>di</strong>ventare carabinieri e ritornare poi nelle loro patrie per<br />

la sicurezza pubblica.<br />

Di quel tempo ricordo qualche impressione e dei fatterelli. Subito<br />

fui colpito dal fatto che quasi tutti gli stranieri prima <strong>di</strong> consumare<br />

il rancio, che ci veniva servito a tavola, si facevano il segno della<br />

croce; io, anche se <strong>di</strong> famiglia religiosa, non ero abituato. Di buon<br />

grado mi adeguai. Vi fu poi un’occasione <strong>di</strong> fare una sonora risata<br />

generale. Durante l’esercizio per scivolare su un telo, partendo dal<br />

terzo piano <strong>di</strong> un caseggiato e arrivare a terra, un allievo albanese<br />

chiese al suo ufficiale come doveva fare.<br />

Costui che in quel momento non vestiva la tuta sportiva, ma la<br />

<strong>di</strong>visa nera con gambali e speroni, si accinse a mostrare come si<br />

doveva scivolare a terra. Si mise in posizione, fece un salto sul telo<br />

e scivolò… Tuttavia, col salto, gli speroni si erano conficcati nel<br />

telo, tagliandolo fino in fondo. Visto che l’ufficiale non aveva subito<br />

alcun danno, tutti noi presenti facemmo una grande risata.<br />

In quei tre mesi noi allievi dovemmo imparare in modo preciso<br />

molte formalità comportamentali dei carabinieri. In pubblico<br />

usare costantemente i guanti bianchi, che dovevano essere sempre<br />

can<strong>di</strong><strong>di</strong>, avere la <strong>di</strong>visa sempre in or<strong>di</strong>ne, assumere un atteggiamento<br />

controllato in ogni situazione e infine mantenere sempre una corretta<br />

riservatezza in qualsiasi momento della vita militare e civile.<br />

Talvolta questa ferrea e meticolosa <strong>di</strong>sciplina metteva paura a qualche<br />

allievo e anche a chi era già <strong>di</strong>ventato carabiniere, perciò chi non se<br />

la sentiva <strong>di</strong> osservarla appieno poteva chiedere il trasferimento in<br />

altri reparti militari, purché in zone <strong>di</strong> guerra.<br />

Personalmente io ho sempre accettato con serenità e attenzione<br />

quanto mi era richiesto, soprattutto perché il mio abito mentale<br />

era già abituato alle norme ferree della mia vita familiare per cui<br />

gli or<strong>di</strong>ni dovevano essere eseguiti e non <strong>di</strong>scussi coi <strong>di</strong>stinguo.<br />

Verso la fine del <strong>di</strong>cembre 1941, prima <strong>di</strong> finire il corso, venne<br />

da noi allievi il capitano Orlando De Tommaso, comandante la<br />

quarta compagnia, quella appunto che faceva i servizi d’onore. Quel<br />

capitano camminò lentamente davanti a noi schierati per scegliere


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

alcuni carabinieri per rimpinguare la sua compagnia, che aveva dei<br />

vuoti. Di tanto in tanto si fermava davanti a qualcuno chiedendogli<br />

solamente le generalità <strong>di</strong> cui prendeva nota: certamente si fidava<br />

del suo intuito nell’in<strong>di</strong>viduare coloro che avevano <strong>di</strong>sponibilità e<br />

passione <strong>di</strong> esercitare tutte le regole richieste per rendere gli onori<br />

alle alte autorità. Si fermò anche davanti a me, forse perché allora<br />

avevo i capelli bion<strong>di</strong> e gli occhi sorridenti. Infatti poi, quando lo<br />

ebbi come comandante, sempre mi apostrofava col nomignolo <strong>di</strong><br />

“bion<strong>di</strong>no”. Chiesto il mio nome proseguì <strong>di</strong>cendomi: “Sei contento<br />

<strong>di</strong> venire con me nella IV compagnia?”. Risposi prontamente <strong>di</strong> sì,<br />

perché era nota anche a me la sua fama <strong>di</strong> persona corretta, giusta e<br />

<strong>di</strong> comandante preparato e <strong>di</strong>sponibile al <strong>di</strong>alogo.<br />

Il 31 <strong>di</strong>cembre 1941, alla fine del corso, furono radunati tutti i<br />

promossi fra i quali c’ero anch’io. A noi furono <strong>di</strong>stribuite delle<br />

lettere <strong>di</strong> destinazione: io ricevetti una busta in<strong>di</strong>rizzata al capitano<br />

De Tommaso Orlando, Comandante della quarta compagnia<br />

carabinieri a Roma. Era per me una destinazione prestigiosa perché<br />

facevo parte della compagnia che era scelta per i servizi d’onore e<br />

anche per quelli della massima fiducia.<br />

Carabiniere<br />

All’inizio del gennaio 1942 mi presentai al capitano De Tommaso,<br />

che mi assegnò al secondo plotone sotto il comando del tenente Di<br />

Lorenzo. Per altri due mesi continuarono ad addestrarci: al mattino<br />

ancora attività ginniche, al pomeriggio lezioni <strong>di</strong> comportamento<br />

nelle varie attività <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a, <strong>di</strong> scorta e nel coor<strong>di</strong>nare l’or<strong>di</strong>ne<br />

pubblico. Dopo cominciammo a prestar servizio presso il palazzo<br />

reale, le ambasciate estere e l’Altare della Patria, che custo<strong>di</strong>sce le<br />

spoglie del Milite Ignoto. Fu così che intervenni a vari picchetti<br />

d’onore e <strong>di</strong> controllo per i Reali, Ministri italiani e personalità<br />

straniere. In quel tempo ho partecipato a varie parate; vivevo una vita<br />

interessante, facevo esperienze suggestive e particolari. Mi trovavo in<br />

un ambiente ove tutti erano pieni <strong>di</strong> attenzioni e dove tutti avevano<br />

mansioni precise. Là c’erano sempre, sia pur <strong>di</strong> passaggio, persone<br />

prestigiose che ispiravano un tocco <strong>di</strong> signorilità anche a noi semplici<br />

81


82 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

carabinieri. Ho imparato ad essere sempre pronto, preciso, a non<br />

<strong>di</strong>scutere gli or<strong>di</strong>ni e a non parlare <strong>di</strong> quanto mi era stato or<strong>di</strong>nato o<br />

<strong>di</strong> quello che avevo visto fare da altri: così, come me, anche tutti gli<br />

altri commilitoni.<br />

Il trattamento era buono, le varie <strong>di</strong>vise sempre in or<strong>di</strong>ne, potevo<br />

godermi la libera uscita con vedute davvero piacevoli ed esclusive.<br />

Per le <strong>di</strong>verse mansioni avevo a <strong>di</strong>sposizione tre tipi <strong>di</strong> <strong>di</strong>vise. Quella<br />

nera normale, che usano anche oggi i carabinieri, per andare in libera<br />

uscita o per svolgere mansioni tra il pubblico; quella alla cavallerizza<br />

con gambali, pure tutta nera, per i picchetti <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a o d’onore;<br />

infine quella grigio-verde con pantaloni alla cavallerizza, la bandoliera<br />

grigia e i gambali neri, usata per servizi <strong>di</strong> fatica o <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne pubblico.<br />

A questo punto, per i giovani ormai non più abituati all’or<strong>di</strong>namento<br />

militare, penso opportuno precisare cosa è il picchetto militare.<br />

È questo formato da un gruppo, più o meno grande, <strong>di</strong> soldati<br />

comandati da un ufficiale, che porta a tracolla la fascia azzurra; costui,<br />

in quelle occasioni, gode <strong>di</strong> una autorità assoluta su persone e cose, sia<br />

per i controlli <strong>di</strong> sicurezza, sia per rendere gli onori militari.<br />

I soldati dei picchetti facevano e fanno ancora, a turno, da guar<strong>di</strong>a<br />

cioè da sentinella. Per le armi noi generalmente avevamo una<br />

rivoltella Berretta calibro nove a canna corta con due caricatori: uno<br />

nel serbatoio dell’arma, pronto per lo sparo, e un altro in un taschino<br />

della fon<strong>di</strong>na che tenevamo sotto la giubba. Quando si andava <strong>di</strong><br />

picchetto prelevavamo il moschetto con la baionetta incernierata per<br />

fare il presentat-arm. Dentro la caserma c’era un’armeria dove erano<br />

custo<strong>di</strong>te le armi per quando si andava ai picchetti e poi ancora tante<br />

altre armi e munizioni per le grosse operazioni con i pattuglioni.<br />

Il 1942 lo trascorsi senza particolari <strong>di</strong>fficoltà, però cominciai a<br />

percepire nella popolazione incertezza e sgomento per le cattive<br />

notizie provenienti dai vari fronti <strong>di</strong> guerra.<br />

Il bombardamento <strong>di</strong> Roma<br />

Il 1943 fu l’anno decisivo per le sorti della Patria e per me quello delle<br />

grosse emozioni. Drammatico fu il bombardamento pomeri<strong>di</strong>ano <strong>di</strong>


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Roma del 19 luglio 1943. Proprio in quel pomeriggio ero <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a<br />

al Quirinale assieme a un altro commilitone.<br />

Eravamo impettiti davanti alle due garitte, poste ai fianchi dell’ingresso,<br />

sulla posizione <strong>di</strong> riposo col moschetto fra le braccia, quando sentimmo<br />

un cupo rumore che aumentava velocemente: intuivamo che erano<br />

gli Alleati che si apprestavano a bombardare la città. Meravigliati e<br />

sgomenti, perché ci avevano detto più volte che Roma era <strong>di</strong>chiarata<br />

città aperta e che certamente gli Alleati non l’avrebbero bombardata,<br />

vedemmo gli aerei <strong>di</strong>rigersi verso il Quirinale, proprio dove eravamo<br />

noi. Sentimmo i primi sibili e scoppi: il commilitone della garitta<br />

accanto svenne per l’emozione.<br />

Io suonai l’allarme, vennero alcuni carabinieri del picchetto <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a,<br />

portarono il compagno all’interno e subito lo sostituirono con un’altra<br />

sentinella. Le bombe caddero nel quartiere <strong>di</strong> San Lorenzo fuori le<br />

mura, proprio poco lontano da noi.<br />

Subito dopo sentii un parlottio vivace nell’an<strong>di</strong>to del palazzo, guardai:<br />

era il re Vittorio Emanuele III che insisteva col suo aiutante militare<br />

perché voleva andare sul posto bombardato, mentre l’aiutante lo<br />

sconsigliava perché non era ancora suonata la sirena <strong>di</strong> fine pericolo.<br />

Il re volle partire, sentimmo il rumore <strong>di</strong> un’auto e noi guar<strong>di</strong>e ci<br />

irrigi<strong>di</strong>mmo sul presentat-arm.<br />

Dopo poco notai un’auto con la targa della Città del Vaticano<br />

che, salendo per via IV Novembre, si <strong>di</strong>rigeva verso il luogo del<br />

bombardamento: anche il il papa Pio XII si recava a dare una parola<br />

<strong>di</strong> conforto alla popolazione colpita.<br />

Ritornato in caserma seppi che il nostro generale comandante Azolino<br />

Hazon, assieme al capo <strong>di</strong> stato maggiore colonnello Barengo, durante<br />

il bombardamento erano partiti per andare a organizzare i primi<br />

soccorsi; essi però furono colpiti a morte dalle bombe.<br />

A loro fu concessa poi la medaglia d’argento al valor militare per<br />

il loro imme<strong>di</strong>ato intervento, nonostante le bombe non avessero<br />

cessato <strong>di</strong> cadere. Venni a sapere anche che, in quel frangente, il<br />

papa bene<strong>di</strong>cente fu acclamato, mentre il re fu accolto con qualche<br />

protesta. Quella uscita <strong>di</strong> Pio XII dal Vaticano fu la prima fatta da un<br />

papa dopo la presa <strong>di</strong> porta Pia.<br />

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84 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Arresto <strong>di</strong> Mussolini<br />

Il fatto importante che io vissi con trepidazione, e che desidero<br />

raccontare passo passo, fu la caduta del governo <strong>di</strong> Benito Mussolini,<br />

sfiduciato dal Gran Consiglio Fascista, avvenuta nelle prime ore del<br />

25 luglio 1943. Questi eventi successero proprio quando io e il mio<br />

plotone prestavamo servizio al Quirinale.<br />

Il mio secondo plotone della IV compagnia montò in servizio <strong>di</strong><br />

guar<strong>di</strong>a al palazzo reale alle ore 18 del 24 luglio 1943, da dove<br />

smontò alla stessa ora del 25. Noi carabinieri <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a vedemmo<br />

un continuo an<strong>di</strong>rvieni, un gran trambusto senza capirne la portata.<br />

D’altra parte la nostra specifica preparazione <strong>di</strong> come i carabinieri<br />

dovevano comportarsi nei casi <strong>di</strong> interesse pubblico e privato, che<br />

era <strong>di</strong> tacere e non riferire nemmeno coi commilitoni, ci portò a non<br />

chiedere spiegazioni. Infatti, il motto dei carabinieri era, e ritengo lo<br />

sia ancora: “Usi obbe<strong>di</strong>r tacendo e tacendo morir”.<br />

E così tutti ci comportammo.<br />

A cose fatte si venne a sapere del colloquio del Re con Mussolini<br />

nel palazzo reale, durante il quale il duce fu destituito, sostituito<br />

e posto sotto la custo<strong>di</strong>a dei tre plotoni <strong>di</strong> carabinieri della quarta<br />

compagnia.<br />

Il primo fatto fuori del consueto e che ci sorprese fu che in quella<br />

giornata il picchetto era stato raddoppiato, tanto che una parte <strong>di</strong><br />

noi, io compreso, fummo costretti a riposare e a dormire sdraiati<br />

per terra, sopra i giornali per non insu<strong>di</strong>ciare la <strong>di</strong>visa, perché i<br />

letti <strong>di</strong>sponibili erano solo per un plotone. Finito il nostro turno <strong>di</strong><br />

guar<strong>di</strong>a, rientrammo in caserma sostituiti da altri reparti <strong>di</strong> soldati.<br />

Partimmo con la banda in testa e marciammo verso la nostra<br />

caserma. Arrivati in piazza Venezia successe, come accadeva <strong>di</strong> tanto<br />

in tanto, che la folla inneggiasse a noi carabinieri. Quella volta vi fu<br />

anche la richiesta che la fanfara suonasse più volte la marcia reale: il<br />

numero dei presenti e i battimani furono <strong>di</strong> gran lunga superiori al<br />

solito. Ci meravigliammo, ma non capimmo cosa ci fosse nell’aria.<br />

Altro fatto strano fu che la porta della caserma era chiusa.<br />

Battemmo, ci aprirono ed entrammo nel grande cortile ove si


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

facevano le esercitazioni. Là trovammo parecchi borghesi, perché era<br />

giorno <strong>di</strong> visita dei familiari, ma essi erano trattenuti da un cordone<br />

<strong>di</strong> carabinieri armati. Noi salimmo nelle nostre camerate, ancora<br />

ignari delle conseguenze <strong>di</strong> quegli strani movimenti che avevamo<br />

visto. Subito un maresciallo ci <strong>di</strong>sse: “Stasera niente libera uscita ed<br />

ora andate in fureria dove riceverete l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> servizio”.<br />

Mi si avvicinò e <strong>di</strong>sse: “Tu, Bizzotto, metti la <strong>di</strong>visa nera, pren<strong>di</strong> la<br />

pistola e vieni con me nell’Ufficio Comando della IV compagnia”.<br />

Cosa che prontamente feci. Arrivato al Comando tro<strong>vai</strong> un altro<br />

carabiniere. Attendemmo davanti alla porta. Poco dopo uscì il<br />

nostro capitano Orlando De Tommaso che ci <strong>di</strong>sse: “Voi state qui,<br />

riceverete or<strong>di</strong>ni solo da me”. Eravamo a custo<strong>di</strong>a in un corridoio<br />

dove c’erano tre porte: una conduceva in un salotto e due negli uffici<br />

del Comando. Nel salotto vi<strong>di</strong> <strong>di</strong> spalle due persone, una sdraiata su<br />

un <strong>di</strong>vano e l’altra pareva fargli assistenza. Dall’ufficio comandopiù<br />

volte un ufficiale superiore entrò e uscì dal salotto.<br />

Alle un<strong>di</strong>ci della sera ci fu dato il cambio e andammo nella nostra<br />

camerata. Subito notai dei letti vuoti e qualcuno mi <strong>di</strong>sse che vari<br />

carabinieri erano andati <strong>di</strong> sentinella nella terrazza. Era questa una<br />

grande copertura piana dalla quale si dominava tutta la zona vicina.<br />

Verso le nove del 26 luglio venne nella camerata un altro maresciallo<br />

che mi ingiunse <strong>di</strong> vestire ancora la <strong>di</strong>visa nera e <strong>di</strong> ritornare nel<br />

corridoio presso l’Ufficio Comando. Là, anche questa volta, vi<br />

era un altro carabiniere: ricevemmo l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> fare una stretta<br />

sorveglianza. Quella mattina vi fu un maggior an<strong>di</strong>rivieni <strong>di</strong> ufficiali<br />

superiori; talvolta la porta del salotto rimaneva un po’ aperta. Fu<br />

così che vi<strong>di</strong> <strong>di</strong> spalle una persona vestita in borghese che osservava<br />

gli allievi carabinieri che nel cortile facevano esercitazioni.<br />

Ad un tratto un ufficiale che stava scrivendo, con la porta socchiusa,<br />

mi fece cenno <strong>di</strong> entrare: mi consegnò una lettera per il colonnello<br />

Dino Tabellini, capo della caserma. Fu allora che la persona che<br />

osservava il cortile si voltò: era Mussolini che subito uscì col <strong>di</strong>re:<br />

“Se gli Italiani fossero stati tutti come voi carabinieri, avremmo vinto<br />

la guerra!”. In quel momento capii che tutti quei silenzi e quelle<br />

precauzioni erano dovuti al fatto che il duce deposto era stato dato<br />

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86 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

in consegna dal re alla nostra compagnia, forse perché il capitano<br />

era il più stimato dal nuovo Generale Comandante l’Arma. Infatti<br />

io, in precedenza, avevo visto il generale <strong>di</strong>alogare amichevolmente<br />

col nostro capitano. A mezzogiorno, ottenuto il cambio, ritornai in<br />

camerata per riposare. Alla sera, verso le venti, tutti noi carabinieri<br />

della IV compagnia fummo mandati in armeria a prelevare armi e<br />

munizioni, tra cui fucili mitragliatori e mitragliatrici, e ci mandarono<br />

a presi<strong>di</strong>are le terrazze ove rimanemmo fino alle otto del 27 luglio.<br />

Andati a riposare restammo liberi fino alle <strong>di</strong>ciotto, quando ci fecero<br />

ritornare a presi<strong>di</strong>are le terrazze, dove restammo fino a mezzanotte.<br />

Mi domandai, tra me e me, se erano state prese quelle precauzioni<br />

nel timore che i fascisti si organizzassero per liberare Mussolini,<br />

aiutati magari dai soldati tedeschi presenti in città. Il giorno dopo,<br />

il 28 luglio 1943, la vita <strong>di</strong> caserma ritornò normale. Fu perché<br />

nelle ultime ore antelucane Mussolini fu spostato segretamente in<br />

altra zona, scortato da quattro carabinieri, uno dei quali era Alfredo<br />

Lazzaro, mio grande amico. Allora non seppi altro.<br />

Molti anni dopo venni a conoscenza <strong>di</strong> come Mussolini fu scortato<br />

e dove fu portato. Il 27 settembre 1997, in un raduno <strong>di</strong> carabinieri<br />

in congedo a Bassano del Grappa, mi incontrai con sei commilitoni<br />

della quarta compagnia, tra cui il Lazzaro. Fu in quell’occasione che<br />

a pranzo ci confidammo le storie <strong>di</strong> quei lontani giorni. Mi <strong>di</strong>sse<br />

che nella tarda serata del 27 luglio 1943, lui e altri tre carabinieri<br />

provenienti da plotoni <strong>di</strong>versi, furono mandati nell’ufficio del capo<br />

della Polizia <strong>di</strong> Roma. Quell’alta autorità <strong>di</strong>sse loro: “Un grande<br />

servizio vi attende: a voi è affidata la sorte della Patria”. Fu loro<br />

or<strong>di</strong>nato <strong>di</strong> fare la scorta a un’auto da Roma a Gaeta. Fu là che i<br />

carabinieri videro scendere Mussolini dall’auto. Allora i carabinieri<br />

si accorsero <strong>di</strong> aver scortato il duce. Mentre scendeva guardandosi<br />

attorno, Mussolini riconobbe Lazzaro e gli <strong>di</strong>sse: “Ricordo la tua<br />

faccia perché mi hai già fatto scorta d’onore”. Era vero, Lazzaro si<br />

ricordava pure lui! A Gaeta erano attesi da una motovedetta che li<br />

trasportò a Ponza, ove trovarono una persona che li portò in una<br />

villetta poco lontana dal mare.<br />

Quei quattro carabinieri rimasero là per tre giorni. Mussolini fu


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

guardato a vista dai quattro che fecero anche da inservienti e cuochi,<br />

cuocendo soprattutto pesce.<br />

L’amico mi <strong>di</strong>sse che il duce era stanco, sfiduciato e avvilito, parlava<br />

poco e passava il tempo seduto a pensare. Per mascherare un po’ la<br />

sua depressione teneva sempre addosso gli occhiali da sole.<br />

I quattro furono sostituiti da altri carabinieri mandati espressamente<br />

dal comandante dei carabinieri Cerica. Il Lazzaro ritornò a Roma<br />

ove ricevette un encomio solenne. In una lettera che ho ricevuto da<br />

Pasquale Bal<strong>di</strong>, altro mio commilitone, datata Bari 10.IV.1998, mi<br />

precisa che pure lui fece parte del gruppo <strong>di</strong> carabinieri quando il<br />

duce fu portato alla Maddalena, in Sardegna. Nel contempo venni<br />

a sapere con certezza che i Tedeschi, da subito, avevano cercato <strong>di</strong><br />

liberare Mussolini e che l’autorità italiana fece quegli spostamenti<br />

accennati, e poi altri ancora, per depistare i nazisti, i quali però alla<br />

fine riuscirono nel loro intento liberando Mussolini sul Gran Sasso.<br />

Agli spostamenti successivi <strong>di</strong> Mussolini provvidero altri reparti <strong>di</strong><br />

soldati, mentre noi carabinieri della IV compagnia ritornammo a<br />

fare i soliti servizi fino all’otto settembre 1943.<br />

L’armistizio<br />

Verso le ore venti <strong>di</strong> quel famoso otto settembre 1943 io mi trovavo<br />

in libera uscita nel parco <strong>di</strong>vertimenti del rione Prati assieme agli<br />

amici commilitoni Alfredo Lazzaro ed Erice Tonazzo.<br />

La ra<strong>di</strong>o improvvisamente cessò <strong>di</strong> trasmettere musica, le giostre<br />

si fermarono, una voce stentorea, cominciò a leggere il famoso<br />

bollettino dell’armistizio.<br />

Ricordo ancora la gran<strong>di</strong>ssima emozione che pro<strong>vai</strong> mentre lo ascoltavo:<br />

“Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità <strong>di</strong> continuare l’impari<br />

lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento <strong>di</strong> risparmiare<br />

ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al<br />

generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate angloamericane.<br />

La richiesta è stata accolta.<br />

Conseguentemente, ogni atto <strong>di</strong> ostilità contro le forze anglo-americane<br />

deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.<br />

Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.<br />

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88 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Ricordo che il cronista ripeté anche con grande entusiasmo: “È stato<br />

firmato l’armistizio, la guerra è finita!”. Subito noi tre ritornammo<br />

in caserma: eravamo pieni <strong>di</strong> gioia perché convinti che la guerra<br />

fosse finita davvero e che saremmo ritornati a casa ben presto.<br />

Non sapevamo, invece, cosa ci aspettava!<br />

Arrivati tutti in caserma, il nostro capitano ci riunì subito e ci fece<br />

un <strong>di</strong>scorsetto che ci raggelò.<br />

Senza giri <strong>di</strong> parole ci <strong>di</strong>sse che era arrivato il momento non <strong>di</strong><br />

gioire, ma <strong>di</strong> piangere perché subito si sarebbe accesa una tormentata<br />

guerra che anche noi avremmo dovuto combattere. Poi ci or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong><br />

andare nell’armeria per ritirare armi e munizioni: cosa che subito<br />

noi facemmo, come altre compagnie <strong>di</strong> quella caserma.<br />

La battaglia <strong>di</strong> Cecchignola<br />

L’eco della lettura dell’armistizio risuonava ancora in tutta Roma,<br />

che già i Tedeschi tentarono <strong>di</strong> prendere il comando della città.<br />

Nella tarda sera dell’otto settembre 1943 un forte gruppo <strong>di</strong> soldati<br />

tedeschi con armi pesanti occuparono con un colpo <strong>di</strong> mano alcuni<br />

capisal<strong>di</strong> in quel <strong>di</strong> Cecchignola sulle vie Ostiense e Laurentina.<br />

Per <strong>di</strong> più reparti mobili <strong>di</strong> Tedeschi si spinsero in avanti. Furono<br />

fermati nella zona della Basilica <strong>di</strong> San Paolo da reparti della <strong>di</strong>visione<br />

Granatieri <strong>di</strong> Sardegna che ricacciarono i Tedeschi nelle loro basi<br />

ove si erano inse<strong>di</strong>ati precedentemente. Era necessario riconquistare<br />

quegli sbarramenti per salvare Roma. Bisognava però rafforzare le<br />

truppe italiane per sferrare un forte attacco contro i Tedeschi che<br />

si erano già schierati per una <strong>di</strong>fesa a oltranza <strong>di</strong> quanto avevano<br />

conquistato poche ore prima.<br />

A mezzanotte dell’8 settembre fu mobilitato precipitosamente il<br />

secondo battaglione carabinieri formato dalla mia quarta compagnia<br />

<strong>di</strong> carabinieri e da due <strong>di</strong> allievi. Fummo equipaggiati per il<br />

combattimento d’assalto. Il capitano De Tommaso, comandante<br />

la nostra quarta compagnia, chiese ed ottenne che la compagnia,<br />

formata da carabinieri addestrati, fosse posta in avanguar<strong>di</strong>a,<br />

perché le altre due erano formate da allievi che non avevano ancora<br />

completato la loro preparazione.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Volle anche che la vecchia e gloriosa ban<strong>di</strong>era dell’Arma dei<br />

Carabinieri, custo<strong>di</strong>ta gelosamente in una teca del Comando<br />

Generale sito come già precisato nella nostra caserma, venisse<br />

portata in battaglia. Era una ban<strong>di</strong>era vecchia e logora; era il<br />

simbolo <strong>di</strong> tante gloriose battaglie vinte nei tempi passati. Ritengo<br />

che l’abbia voluta con sé, sia per infondere coraggio a noi che ci<br />

<strong>di</strong>sponevamo alla battaglia, sia perché intuiva che quella sortita era<br />

la prima cruenta lotta della nuova Italia, e che perciò si doveva dare<br />

un forte segnale <strong>di</strong> riscossa. Fummo trasportati in camion attorno<br />

alla Basilica <strong>di</strong> San Paolo. Ci mettemmo accovacciati a terra in attesa<br />

<strong>di</strong> or<strong>di</strong>ni. Intanto si sentivano lontani brontolii <strong>di</strong> spari.<br />

Dopo qualche tempo, forse due ore, ci fu dato l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> partire<br />

verso il ponte della Magliana. Ci infilammo con grande attenzione<br />

in una vicina trincea, costruita per la <strong>di</strong>fesa della città, che affiancava<br />

una strada secondaria. Ci accorgemmo subito dove era avvenuto il<br />

primo scontro perché vedemmo corpi riversi pieni <strong>di</strong> sangue.<br />

Un giovane allievo, vedendo quei morti stesi un po’ ovunque, si<br />

mise a piangere. Subito gli si avvicinò un maresciallo con la pistola<br />

in pugno che con tono perentorio lo apostrofò <strong>di</strong>cendo forte: “Non<br />

fare il vigliacco perché in guerra i vigliacchi sono i primi a morire”.<br />

Forse si comportò così duramente per ammonire tutti noi presenti.<br />

L’allievo carabiniere si riprese, poi più nessuno mostrò esitazioni.<br />

Mentre camminavamo il fuoco tedesco si faceva via via più intenso.<br />

Per nostra fortuna il fuoco delle armi pesanti tedesche veniva<br />

rintuzzato dall’artiglieria del reggimento Lancieri <strong>di</strong> Montebello,<br />

mentre gli alti argini della trincea ci riparavano dai tiri della fucileria<br />

e anche dagli eventuali cecchini. In un momento <strong>di</strong> pausa il capitano<br />

De Tommaso salì sulla strada per controllare meglio quale fosse la<br />

tattica da prendere per snidare i soldati tedeschi.<br />

In quel momento io mi trovavo poco lontano da lui ed ero riparato<br />

<strong>di</strong>etro un mucchio <strong>di</strong> legna secca. Vedendomi mi <strong>di</strong>sse: “Bion<strong>di</strong>no<br />

vieni con me!”. Io sarei partito subito, perché quel comandante era<br />

per me un esempio <strong>di</strong> capacità e onestà, ma avevo con me un fucile<br />

mitragliatore ed ero assieme a un altro compagno che portava le<br />

munizioni. Mi venne da <strong>di</strong>rgli: “Signor capitano non posso venire<br />

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90 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

perché dovrei lasciare il mitragliatore senza un sostituto”. (Il fucile<br />

mitragliatore, modello 38, era un’arma pesante, tanto che per sparare<br />

si usavano due pie<strong>di</strong> retrattili <strong>di</strong> appoggio sul terreno e, per <strong>di</strong> più,<br />

aveva bisogno <strong>di</strong> un operatore per portare e infilare le munizioni<br />

nel serbatoio). Il capitano capì e chiamò un altro carabiniere che<br />

era un amico romano facente parte della mia stessa terziglia quando<br />

facevamo esercitazioni ginniche. Fu l’ultima volta che li vi<strong>di</strong> vivi.<br />

Intanto il capitano, esaminati a vista i <strong>di</strong>spiegamenti delle forze in<br />

campo, chiamò a raccolta i carabinieri per organizzare un attacco.<br />

Fu così che gli uomini radunati cominciarono a risalire gli argini:<br />

la maggioranza su quello verso la strada, io e il servente sull’altro<br />

perché dovevamo operare tiri <strong>di</strong> copertura col mitragliatore. Ci<br />

nascondemmo <strong>di</strong>etro un po’ <strong>di</strong> paglia. Mentre veniva preparata<br />

la manovra, sulla strada fiancheggiante l’argine, dove erano saliti<br />

i carabinieri col capitano, si profilò una colonna <strong>di</strong> una decina <strong>di</strong><br />

autoambulanze tedesche.<br />

Si fermarono vedendo i soldati italiani, improvvisamente uscirono<br />

allo scoperto soldati tedeschi con armi spianate facendo una sparatoria<br />

infernale anche se breve. Noi rispondemmo subitamente, però dei<br />

carabinieri furono uccisi o feriti e nel fossato ci fu confusione perché<br />

tutti scesero. Con l’aiuto generale dei presenti subito la riorganizzazione<br />

dello schieramento fu risolta, mentre le autoambulanze tedesche<br />

ripartirono a tutta velocità. La battaglia continuò e noi continuammo<br />

ad avanzare verso il ponte della Magliana.<br />

Camminammo sparando per ogni temuto pericolo, incuranti della<br />

fame e delle <strong>di</strong>fficoltà. Fu certo per la determinazione del nostro<br />

battaglione <strong>di</strong> carabinieri, con l’appoggio dei Granatieri <strong>di</strong> Sardegna<br />

e dei Lancieri del Montebello, che si riuscì a riprendere i capisal<strong>di</strong> e<br />

il ponte della Magliana.<br />

Fu una vittoria importante sia perché avevamo riconquistato uno<br />

snodo viario, sia perché <strong>di</strong>mostrammo che se all’esercito italiano<br />

fossero stati impartiti or<strong>di</strong>ni precisi e chiari, avremmo dato molto filo<br />

da torcere ai Tedeschi e, forse, la guerra sarebbe terminata prima.<br />

Quella battaglia, durata per noi carabinieri ben <strong>di</strong>ciotto ore e mezza,<br />

la vissi con fermo impegno e forte volontà, ma anche in modo


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

trasognato. Da subito non riuscii a ricordare le sequenze dell’andare,<br />

degli spari, delle grida <strong>di</strong> incitamento o <strong>di</strong> dolore dei feriti: fu per<br />

me, pur andando avanti e sparando senza paura, un tempo doloroso<br />

della mia vita senza riuscire a fissarlo ben bene nella memoria.<br />

Ancora oggi ricordo infatti solo alcuni particolari, parzialmente già<br />

raccontati e, per ultimo, uno che mi accadde verso la fine.<br />

Lo racconto solo come testimonianza <strong>di</strong> come mi sono trovato<br />

durante il combattimento. Arrivati sotto il ponte della Magliana<br />

in una pausa prima <strong>di</strong> sferrare l’attacco vittorioso, mi tro<strong>vai</strong> vicino<br />

all’amico carabiniere Pietro Tosato. Mi chiese una sigaretta, certo<br />

per <strong>di</strong>stendere un po’ l’ansia. Tirai fuori il portasigarette che<br />

ricordavo quasi pieno, lo tro<strong>vai</strong> invece vuoto, evidentemente<br />

durante le pause della battaglia avevo fumato tutte le sigarette<br />

senza rendermene conto! Fu così che con la punta della baionetta<br />

segnai sul portasigarette d’ottone, che conservo ancora, le parole:<br />

“ 9-9-1943 – sotto il ponte <strong>di</strong> Cecchignola in guerra. Attilio<br />

Bizzotto, Pietro Tosato senza sigarette”. Finita la battaglia venni a<br />

conoscenza che <strong>di</strong>versi carabinieri erano morti e che il mio capitano<br />

De Tommaso era caduto da eroe mentre conduceva i carabinieri<br />

all’assalto, assieme a lui morì anche quel commilitone che mi aveva<br />

sostituito poco prima dei combattimenti. Fu per me una notizia<br />

straziante, vuoi perché il capitano era un mio superiore che stimavo<br />

moltissimo, vuoi perché fu colpito anche il suo accompagnatore<br />

che mi sostituì: fortunosamente io mi sal<strong>vai</strong>! Al capitano poi fu<br />

concessa la medaglia d’oro della Resistenza per le sue virtù <strong>di</strong><br />

trascinatore: egli fu la prima medaglia d’oro della Resistenza italiana<br />

contro i nazifascisti. Alle 18.30 <strong>di</strong> quel fati<strong>di</strong>co nove settembre<br />

1943, quando ormai tutto si era risolto, ricevemmo il cambio da<br />

un reparto dei carabinieri della <strong>di</strong>visione Pastrengo.<br />

Dopo una sosta <strong>di</strong> qualche ora per far sbollire l’ansia <strong>di</strong> quelle terribili<br />

ore <strong>di</strong> combattimento, partimmo scarpinando per varie ore per<br />

ritornare in caserma. Dovemmo fare oltre <strong>di</strong>eci chilometri portando<br />

con noi le armi e la ban<strong>di</strong>era. Eravamo molto stanchi: erano quasi<br />

venti ore che avevamo passate senza riposare né mangiare.<br />

Ci fermavamo <strong>di</strong> frequente anche perché alla spossatezza fisica si<br />

91


92 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

aggiungeva il peso dell’equipaggiamento e la responsabilità della<br />

custo<strong>di</strong>a della nostra storica ban<strong>di</strong>era. Fortunatamente, almeno per<br />

me che avevo sulle spalle il pesante fucile mitragliatore, il tenente<br />

che ci comandava in quel rientro, dette l’or<strong>di</strong>ne che venissero<br />

scambiati i portatori dei pesi maggiori: fu per questo che io ebbi<br />

il cambio <strong>di</strong> portare anche il nostro vetusto stendardo sfilacciato<br />

ma vincente. Arrivammo in caserma alle cinque del mattino del<br />

10 settembre 1943. Subito provammo una grande sorpresa, invece<br />

<strong>di</strong> trovare i nostri commilitoni festanti per la vittoria, trovammo<br />

solo il picchetto mentre le camerate erano vuote: tutti erano<br />

spariti! Rimettemmo la gloriosa ban<strong>di</strong>era nella teca del Comando,<br />

depositammo le armi nel magazzino, ci rifocillammo con quanto<br />

trovammo in cucina, attendemmo or<strong>di</strong>ni dal nostro tenente il quale,<br />

constatata la mancanza assoluta <strong>di</strong> qualsiasi ufficiale superiore che<br />

desse <strong>di</strong>sposizioni <strong>di</strong> servizio, sulla scorta <strong>di</strong> quanto venne a sapere<br />

dall’ufficiale <strong>di</strong> picchetto, ci <strong>di</strong>sse che eravamo liberi <strong>di</strong> fare quello<br />

che credevamo: uscire o rimanere in caserma.<br />

Subito venimmo a sapere che il nostro Comando, dopo aver deciso<br />

in modo autonomo il cambio <strong>di</strong> noi carabinieri per Cecchignola,<br />

non avendo avuto riposte dall’Alto Comando Militare alle richieste<br />

<strong>di</strong> delucidazioni, decise <strong>di</strong> lasciar liberi i carabinieri se scegliere <strong>di</strong><br />

andarsene o rimanere in caserma. La stessa cosa successe a tutti i<br />

reparti che erano a <strong>di</strong>fesa <strong>di</strong> Roma e che in quel momento formavano<br />

tre Corpi d’Armata e tre <strong>di</strong>visioni: la Centauro, i Granatieri <strong>di</strong><br />

Sardegna e la Piave, per un totale <strong>di</strong> settantamila uomini che<br />

<strong>di</strong>sponevano <strong>di</strong> 400 carri armati e 500 pezzi <strong>di</strong> artiglieria.<br />

Fu così che i Tedeschi, pur avendo in sito solamente due <strong>di</strong>visioni<br />

per un totale <strong>di</strong> circa ventottomila soldati, poterono senza colpo<br />

ferire occupare la città <strong>di</strong> Roma. Ciò fu dovuto al Maresciallo<br />

Badoglio, comandante <strong>di</strong> Stato Maggiore Militare, e al generale<br />

Carboni, capo del Servizio Informazioni Militari, SIM, che<br />

comandava anche il Corpo d’Armata Motorizzato, CAM, <strong>di</strong>slocato<br />

a Roma, i quali si comportarono in modo a <strong>di</strong>r poco equivoco:<br />

invece <strong>di</strong> dare informazioni e <strong>di</strong>rettive si eclissarono in abiti civili<br />

e partirono via mare assieme al re per rifugiarsi presso gli Alleati.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

I milioni <strong>di</strong> soldati sparsi nei vari fronti, lasciati senza or<strong>di</strong>ni, si<br />

comportarono in modo <strong>di</strong>verso gli uni dagli altri: chi scappò a casa,<br />

chi combatté contro i Tedeschi, chi abbandonò le armi. Purtroppo<br />

il risultato fu devastante perché vi furono molti morti e prigionieri<br />

nei lager tedeschi.<br />

Giorni d’attesa<br />

Riposatomi per alcune ore, decisi poi <strong>di</strong> prendere alcuni effetti<br />

personali e <strong>di</strong> uscire. Mi recai in via San Giacomo Venezian ove<br />

abitava un amico <strong>di</strong> Cittadella, mio paese d’origine, che era alle<br />

<strong>di</strong>pendenze del Vaticano. Egli mi ospitò per alcuni giorni così che<br />

potei girare presso caserme e amici carabinieri, onde regolarmi sul<br />

da farsi. Perché potessi confondermi nel via <strong>vai</strong> delle persone l’amico<br />

mi aveva regalato un suo vestito che purtroppo era <strong>di</strong> taglia piccola<br />

rispetto al mio corpo. Fu forse per questo abito fuori misura che<br />

fui guardato attentamente da un gruppo <strong>di</strong> ragazzi sui quin<strong>di</strong>ci<br />

anni, armati <strong>di</strong> fucili, pistole e bombe a mano. Li sentii consultarsi<br />

chiedendosi fra loro se ero un italiano o un tedesco. Fu così che uno<br />

mi si avvicinò con circospezione chiedendomi l’ora ed ebbi modo <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>re l’ora e anche che ero un italiano.<br />

Ho citato questo piccolo fatto per significare quale era lo stato<br />

<strong>di</strong> confusione e <strong>di</strong> tensione che serpeggiava in tutta Roma. Il 12<br />

settembre andai alla caserma <strong>di</strong> San Lorenzo per avere notizie<br />

dall’amico carabiniere Lorenzo Vico, attendente della vedova del<br />

generale Hazon ucciso nel bombardamento.<br />

Questi mi consigliò <strong>di</strong> non ritornare nel Veneto perché tutti gli<br />

uomini che viaggiavano venivano controllati e quelli in età <strong>di</strong> fare<br />

il soldato, mandati nei campi <strong>di</strong> concentramento in Germania.<br />

Fu così che il 13 settembre rientrai in caserma.<br />

Ritro<strong>vai</strong> vari amici e un nuovo capitano. Egli mi chiese solo il nome<br />

e mi <strong>di</strong>sse che potevo andare nella mia camerata: non mi fu chiesta<br />

nessuna spiegazione per l’assenza. Nel mio letto tro<strong>vai</strong> tutto quello che<br />

avevo lasciato, non mancava proprio nulla. Ripresi la vita <strong>di</strong> caserma,<br />

però con alcune varianti; si andava in libera uscita senza armi, solo<br />

se c’erano motivi plausibili, come portare biancheria a lavare. Per<br />

93


94 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

uscire però bisognava mettere sul braccio una fascia bianco-gialla:<br />

non mi fu detto il significato, ma ho pensato volesse <strong>di</strong>re che<br />

Roma era città aperta per le sue numerose opere d’arte, per le sue<br />

imponenti testimonianze storiche e infine perché sede dello stato<br />

extraterritoriale del Vaticano, la cui ban<strong>di</strong>era è appunto bianco–<br />

gialla. In quei giorni il mio secondo plotone della quarta compagnia<br />

fu mandato <strong>di</strong> mattina come picchetto d’onore ai funerali del<br />

capitano De Tommaso. Accettai <strong>di</strong> buon grado <strong>di</strong> partecipare a<br />

quella solenne celebrazione perché quel capitano mi era restato nel<br />

cuore e, ancora oggi, lo ricordo con affettuosa riverenza.<br />

Fatti <strong>di</strong> prepotenza<br />

Il 14 settembre 1943 il mio plotone, assieme ad un altro della quarta<br />

compagnia, fu inviato quale picchetto <strong>di</strong> servizio pubblico alla stazione<br />

Ostiense <strong>di</strong> Roma: erano arrivati venti vagoni <strong>di</strong> derrate alimentari da<br />

<strong>di</strong>stribuire alla popolazione.<br />

A Roma in quel momento vi era carestia e i cibi scarseggiavano.<br />

Trovammo molta folla, autorità civili e parecchi ufficiali tedeschi<br />

accompagnati da soldati. Noi dovevamo fare dei cordoni a <strong>di</strong>fesa dei<br />

vagoni perché la gente non li saccheggiasse. Il lavoro <strong>di</strong> <strong>di</strong>stribuzione<br />

fu lento e <strong>di</strong>fficoltoso. Non ne avevano ancora <strong>di</strong>stribuita una<br />

metà, quando l’ufficiale tedesco che comandava, salì su un vagone<br />

e <strong>di</strong>sse in italiano: “Abbiamo finito, i restanti vagoni spettano ai<br />

soldati tedeschi”. La folla cominciò a gridare e spingere cercando<br />

<strong>di</strong> rompere i nostri cordoni. Quell’ufficiale <strong>di</strong>ede a noi l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

sparare, i nostri ufficiali invece non ci impartirono nessun or<strong>di</strong>ne,<br />

noi stemmo fermi. I nostri ufficiali, pur sapendo che <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>vano<br />

a degli or<strong>di</strong>ni, non aprirono bocca <strong>di</strong>mostrando così a tutti quanto<br />

fosse alto il loro equilibrio umano, legato al senso <strong>di</strong> comprensione<br />

verso i bisognosi.<br />

Capii anche molto bene, come la <strong>di</strong>sciplina tedesca fosse profondamente<br />

arrogante e che in definitiva fosse una obbe<strong>di</strong>enza spesso irrazionale<br />

che andava al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni giustizia. Quell’ufficiale tedesco, arrabbiato,<br />

strappò al carabiniere che gli era vicino il mitragliatore e sparò una<br />

raffica in aria e una a terra, là dove non c’era folla.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Tutti tacquero e cominciarono a sfollare. Allontanandosi però,<br />

tutti inveirono contro i tedeschi e le autorità comunali che non<br />

avevano perorato con forza la giusta richiesta dei citta<strong>di</strong>ni che ad<br />

alta voce chiedevano fossero <strong>di</strong>spensate le derrate dei venti vagoni.<br />

Tutto si svolse fortunatamente senza spargimenti <strong>di</strong> sangue. Quel<br />

fatto mi portò a considerazioni amare: noi Italiani avevamo trovato<br />

dei padroni pronti a qualsiasi azione pur <strong>di</strong> continuare la guerra,<br />

convinti <strong>di</strong> vincerla. Il 15 settembre verso sera successe a un mio<br />

commilitone un fatto che <strong>di</strong>mostrò in modo chiaro e netto che<br />

la presenza delle forze tedesche in Roma aveva fatto sorgere dei<br />

rigurgiti <strong>di</strong> arroganza fascista.<br />

Quel carabiniere che era in libera uscita, era entrato in un bar per<br />

prendere un caffè. Mentre stava sorbendolo sentì <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> sé una<br />

voce stentorea che <strong>di</strong>ceva: “Voi carabinieri della quarta compagnia<br />

siete tutti dei tra<strong>di</strong>tori perché avete arrestato Mussolini”. Si volse e<br />

vide davanti a sé uno in <strong>di</strong>visa fascista e con una rivoltella in pugno<br />

che, continuando a gridare, sparò un colpo che fortunatamente andò<br />

a vuoto. Il collega preferì andarsene senza far parola, anche perché era<br />

<strong>di</strong>sarmato come era stato prescritto in quei giorni <strong>di</strong> confusione.<br />

Denunciò il fatto al superiore, all’indomani a noi carabinieri fu<br />

concesso <strong>di</strong> portare in libera uscita la pistola, però senza munizioni!<br />

Questi due esempi, anche se modesti, furono per me dei segni che<br />

alla fine mi portarono a considerare il ritorno a casa come la cosa<br />

più opportuna.<br />

Intermezzo<br />

Nonostante nel mese <strong>di</strong> settembre 1943 vi fossero anche in Roma<br />

episo<strong>di</strong> che <strong>di</strong>mostravano la volontà nazifascista <strong>di</strong> prendere il<br />

comando in ogni settore politico-militare, nella nostra caserma si<br />

era <strong>di</strong>ffusa la convinzione, specie fra gli ufficiali, che noi carabinieri<br />

non saremmo stati oggetto <strong>di</strong> retate e <strong>di</strong> invio in Germania nei campi<br />

<strong>di</strong> concentramento. Infatti nella nostra caserma, dove quasi tutti<br />

eravamo ritornati ai nostri posti, continuavamo a svolgere i vari servizi<br />

che ci erano abituali prima dell’armistizio. Il 18 settembre 1943 io,<br />

col mio plotone della quarta compagnia, ero <strong>di</strong> picchetto d’onore<br />

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96 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

all’Altare della Patria, Sacrario dei Caduti, quando fui partecipe <strong>di</strong> un<br />

fatto importante per me, perché segnò una svolta della mia vita.<br />

L’amico Antonio Franchetto, <strong>di</strong> Castelfranco Veneto, era <strong>di</strong> sentinella<br />

proprio in quei momenti quando sua madre arrivò dal Veneto. Subito<br />

senza preamboli <strong>di</strong>chiarò all’ufficiale, che comandava il picchetto,<br />

che era arrivata fin là per portare a casa il suo Toni, perché nel Veneto<br />

i Tedeschi avevano rastrellato soldati <strong>di</strong> ogni arma e anche giovani<br />

civili, e che lo voleva nascondere nei propri luoghi natii dato che<br />

conosceva alla perfezione boschi e caverne nei monti, piuttosto che<br />

lasciarlo a Roma in balia dei Tedeschi e dei fascisti. L’ufficiale incaricò<br />

un briga<strong>di</strong>ere <strong>di</strong> sostituire la sentinella con un altro, perché potesse<br />

parlare con sua madre: io fui scelto per la sostituzione. Durante le<br />

operazioni per il cambio della guar<strong>di</strong>a, sussurrai all’amico: “Se deci<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong> andare a casa, avvisami perché io parto con te”. Dopo l’ufficiale<br />

<strong>di</strong>ede a madre e figlio due giorni <strong>di</strong> tempo per decidere.<br />

Passate quarantotto ore l’amico carabiniere venne a <strong>di</strong>rmi <strong>di</strong> aver<br />

deciso <strong>di</strong> ritornare a casa il 22 settembre 1943, partendo dalla<br />

stazione Termini col treno delle 21,15. In quel momento vicino a<br />

me c’era anche l’altro amico Alfredo Lazzaro da Treviso, che subito<br />

<strong>di</strong>chiarò <strong>di</strong> associarsi.<br />

Verso sera del giorno stabilito, vestito in borghese, uscii dalla caserma<br />

con la valigia d’or<strong>di</strong>nanza piena e un altro pacco, <strong>di</strong>chiarando al<br />

capoposto del picchetto <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a che mi recavo in lavanderia per la<br />

pulizia del mio guardaroba. Invece mi avviai verso la stazione. Nella<br />

valigia avevo messo tutto il mio vestiario personale, nel pacco avevo<br />

dei libri fra i quali avevo nascosta la fon<strong>di</strong>na con la mia pistola in<br />

dotazione e due caricatori, avvolti in un pezzo <strong>di</strong> stoffa. Arri<strong>vai</strong> alla<br />

stazione, comprai il biglietto, non vi<strong>di</strong> gli amici, arrivò l’ora della<br />

partenza del treno e salii da solo.<br />

Verso casa<br />

Una volta i vagoni passeggeri avevano un lungo corridoio laterale<br />

che univa parecchi scompartimenti dove in ognuno potevano sedere<br />

otto persone: scrutai un po’ ed entrai dove vi<strong>di</strong> dei giovani. Due<br />

erano infagottati in abiti civili, <strong>di</strong> taglia <strong>di</strong>versa dalla loro, poi vi


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

erano tre ragazze: capii subito che quei giovani erano soldati in fuga,<br />

come lo ero anch’io. Cominciammo a parlare facendoci piccole<br />

confidenze reciproche. Prima <strong>di</strong> Firenze il treno fece due soste fuori<br />

programma perché un bombardamento aveva danneggiato un tratto<br />

<strong>di</strong> binari. Fu a questo punto che uno dei giovani <strong>di</strong>sse: “Siamo stati<br />

fortunati finora, speriamo <strong>di</strong> non incappare ora in qualche pattuglia<br />

<strong>di</strong> Tedeschi, quelli ti perquisiscono e se ti trovano un’arma, ti fanno<br />

scendere e ti uccidono sul posto senza alcuna altra indagine. Se tu<br />

hai un’arma, rivoltosi verso <strong>di</strong> me, consegnala alle donne, come<br />

abbiamo fatto noi, perché esse non vengono perquisite”. Io senza<br />

pronunciare parola <strong>di</strong>e<strong>di</strong> la mia pistola con la fon<strong>di</strong>na e i caricatori<br />

alla signorina che mi era vicina e che subito se la mise in seno.<br />

Non vi furono controlli. Arrivati a Bologna quei giovani scesero e,<br />

dopo calorosi saluti, la giovane mi restituì l’arma che subito nascosi<br />

nel soffietto che univa il mio vagone con quello precedente.<br />

Arri<strong>vai</strong> a <strong>Padova</strong> senza intoppi. Ripresi la rivoltella, scesi con i miei<br />

due fagotti nascondendo l’arma ancora fra i libri. Era l’una <strong>di</strong> notte<br />

del 24 settembre 1943. Consultai l’orario e vi<strong>di</strong> che la littorina per<br />

Cittadella e Bassano partiva alle sette. (La littorina era un vagone<br />

mosso da un motore <strong>di</strong>esel che serviva per i piccoli tragitti. Fu in<br />

funzione durante il fascismo e fu così chiamata dalla parola romana<br />

“Littorio” che in<strong>di</strong>cava un fascio <strong>di</strong> verghe con una scure centrale:<br />

era il simbolo che portavano le guar<strong>di</strong>e a protezione dell’autorità;<br />

<strong>di</strong>venne il simbolo fascista).<br />

Dovevo attendere varie ore prima <strong>di</strong> partire, così stu<strong>di</strong>ai dove<br />

mettermi per restare in attesa senza ricevere visite indesiderate.<br />

Tutto era <strong>di</strong>scretamente illuminato, così vi<strong>di</strong> che in una sala<br />

d’aspetto c’erano due porte: una d’entrata dal marciapiede e un’altra<br />

per andare nei locali <strong>di</strong> biglietteria la quale aveva anche un’altra<br />

porta <strong>di</strong> uscita.<br />

Entrai, tro<strong>vai</strong> una signora un po’ anziana, mi sedetti in un posto<br />

in penombra, vicino alla porta che menava alla biglietteria. Da<br />

quel posto potevo osservare quello che succedeva nella banchina<br />

esterna. Vi<strong>di</strong> due militi fascisti che si stavano avvicinando, scappai<br />

lasciando là la valigia e il pacco. La signora aveva visto la mia fuga<br />

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98 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

e l’arrivo della milizia ferroviaria: capì certamente subito che io ero<br />

uno sbandato. Intanto mi ero nascosto nei coni d’ombra fra i binari,<br />

così potevo controllare, senza essere visto, chi entrava e chi usciva<br />

dai vari locali della stazione. Vi<strong>di</strong> i militi fascisti che si recarono<br />

altre due volte nella sala d’aspetto. Finalmente, dopo una paziente<br />

attesa m’accorsi che i due si erano vestiti in borghese, evidentemente<br />

avevano finito il loro turno <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a. Aspettai un po’ e non vedendo<br />

altri movimenti ritornai nella sala d’aspetto. La signora mi fece un<br />

sorriso che io contraccambiai. Mi <strong>di</strong>sse che la ronda aveva chiesto <strong>di</strong><br />

chi erano i fagotti e che lei aveva risposto che erano <strong>di</strong> una persona<br />

anziana che era uscita a prendere aria: certamente la sua risposta<br />

tranquilla e precisa non insospettì i fascisti. Capii che noi sbandati<br />

ricevevamo aiuti da tutta la popolazione. Rimasi sempre nella sala<br />

d’aspetto con i nervi tesi per l’attenzione e per non appisolarmi: fui<br />

sempre vigile.<br />

Aprirono la biglietteria, comperai il biglietto e partii verso casa.<br />

Arrivato a Cittadella, nonostante dovessi fare quattro chilometri per<br />

arrivare in famiglia con valigia e pacco pesanti, mi avviai a pie<strong>di</strong> col<br />

cuore gonfio <strong>di</strong> gioia per ritrovare i familiari. Fatto un chilometro<br />

arri<strong>vai</strong> davanti al duomo che ben conoscevo, mentre uscivano i fedeli<br />

dalla Messa. Ero fermo davanti un incrocio da attraversare, quando<br />

iniziò a passare una colonna tedesca <strong>di</strong> camion porta truppe, con<br />

tanti soldati armati. Rimasi là a guardare impalato e inebetito dalla<br />

paura mentre vi<strong>di</strong> i fedeli che precipitosamente se ne ritornavano in<br />

chiesa o si nascondevano <strong>di</strong>etro le colonne del pronao.<br />

Fortunatamente nessun camion si fermò, era evidente che quei<br />

soldati avevano una loro missione da compiere, così anche questa<br />

volta la passai liscia. Quel fatto improvviso e imprevisto mi<br />

impressionò specie perché la popolazione scappava quando vedeva i<br />

Tedeschi. Continuai il mio cammino. Fatta poca strada vi<strong>di</strong> che un<br />

mio parente stava per aprire la sua osteria. Mi fermai per salutarlo e<br />

chiedere aiuto per il trasporto dei miei pesanti colli.<br />

Mentre stavamo parlando si fermò un furgone, l’autista voleva bere il<br />

“grappino” mattutino. Era un conoscente dell’oste; subito gli chiese<br />

se mi poteva portare fino a casa. Arri<strong>vai</strong> inaspettato; tutti furono felici


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

<strong>di</strong> vedermi anche perché era circa un mese che non davo notizie.<br />

Festeggiato da parenti e amici me ne stetti per qualche tempo<br />

rintanato in casa, pronto a nascondermi nel caso si fossero viste<br />

ronde tedesche o fasciste. Io in quei giorni ero contento <strong>di</strong> essere<br />

con i miei e <strong>di</strong> aver superato indenne tanti pericoli, però nel<br />

contempo mi rimproveravo nel mio più profondo intimo, <strong>di</strong> non<br />

aver rispettata la regola fondamentale dei carabinieri che è quella<br />

dell’obbe<strong>di</strong>enza, perché io me ne ero andato via insalutato ospite.<br />

Amici carabinieri <strong>di</strong> Roma<br />

Quando il capitano De Tommaso fece le scelte fra gli allievi promossi<br />

carabinieri per la sua quarta compagnia del Comando Generale,<br />

oltre una quin<strong>di</strong>cina eravamo Veneti. Poco a poco nella compagnia<br />

si formarono vari gruppi composti da amici corregionali, soprattutto<br />

per le stesse frequentazioni degli usi e costumi tra<strong>di</strong>zionali.<br />

Di questi amici ne ricordo principalmente tre, due dei quali ho già<br />

cominciato a parlare, e un altro che <strong>di</strong>rò più avanti. Lo faccio perché<br />

li ho rivisti dopo la guerra. In aggiunta a questi, a Roma feci amicizia<br />

con un carabiniere che abitava a Belvedere, vicino a Cittadella, ma<br />

che apparteneva allora alla stazione provinciale carabinieri <strong>di</strong> San<br />

Lorenzo. Proprio costui nella prima decade <strong>di</strong> ottobre mi raccontò<br />

fatti dolorosi che mi tolsero ogni rammarico <strong>di</strong> essermi allontanato<br />

dal mio reparto.<br />

L’amico Vico che era, come ho già detto, l’attendente della vedova<br />

del generale comandante l’Arma dei Carabinieri, morto nel<br />

bombardamento <strong>di</strong> Roma, ritornò a casa. Venne da me vestito <strong>di</strong><br />

tutto punto con la <strong>di</strong>visa dei carabinieri. Mi <strong>di</strong>sse che era ritornato<br />

ai primi d’ottobre nella sua terra per raccogliere derrate fresche da<br />

portare alla vedova che lui aiutava per il <strong>di</strong>sbrigo delle faccende<br />

extracasalinghe. Mi spiegò che, prima <strong>di</strong> partire da Roma, era andato<br />

a cercarmi nella mia caserma per vedere se avevo qualcosa da mandare<br />

o da ricevere dalla famiglia. Gli <strong>di</strong>ssero che ero assente da una decina<br />

<strong>di</strong> giorni, così lui dedusse che dovevo essere arrivato a casa.<br />

Parlammo degli amici rimasti in servizio e restammo d’accordo che<br />

mi avrebbe informato <strong>di</strong> ogni sviluppo della situazione a Roma.<br />

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100 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Dopo quattro giorni lo rivi<strong>di</strong> a casa mia vestito in borghese.<br />

Meraviglia! Quando la sera dell’otto ottobre era arrivato in treno<br />

a Roma, vide un pattuglione <strong>di</strong> soldati tedeschi che rastrellavano<br />

carabinieri e soldati in <strong>di</strong>visa. Fortunatamente per lui nello stesso<br />

scompartimento c’era una coppia <strong>di</strong> sposi romani: lui gli <strong>di</strong>ede il<br />

soprabito per nascondere la <strong>di</strong>visa, lei gli tolse il berretto che nascose<br />

nella borsetta. Così a braccetto scesero e attraversarono il cordone<br />

tedesco. La coppia, che abitava poco lontano, gli <strong>di</strong>ede un letto per<br />

dormire e un abito civile per vestirsi.<br />

Alla mattina lasciò là le varie derrate che aveva acquistato nel Veneto<br />

e, con estrema precauzione, se ne tornò a casa. Mi <strong>di</strong>sse anche <strong>di</strong><br />

essere stato informato che poco prima i Tedeschi avevano fatti<br />

prigionieri tutti i carabinieri del Comando Generale e che furono<br />

mandati <strong>di</strong>rettamente in Germania. Argomentò che forse erano stati<br />

mandati nei lager per punirli perché furono i custo<strong>di</strong> <strong>di</strong> Mussolini<br />

quando fu deposto: fra costoro vi erano anche i due che dovevano<br />

ritornare con me! A guerra finita mi fu detto anche che quelle retate<br />

<strong>di</strong> carabinieri, che prestavano servizio d’or<strong>di</strong>ne pubblico senza<br />

ancora aver giurato fedeltà a Mussolini, erano dovute al timore che<br />

i carabinieri fossero sempre pronti ad aiutare qualsiasi sbandato<br />

e, soprattutto, gli ebrei. Infatti prima mandarono i carabinieri in<br />

Germania, poi rastrellarono gli ebrei italiani.<br />

Questi fatti segnarono in me una forte decisione: il passato non<br />

esisteva più, ora dovevo guardare solo al futuro. Ero pronto<br />

ad aiutare chi aveva bisogno <strong>di</strong> essere protetto dai nazifascisti.<br />

Nel dopoguerra ritro<strong>vai</strong> alcuni vecchi amici e seppi così che<br />

Franchetto e Lazzaro, coloro che dovevano accompagnarmi nel<br />

ritorno, ritornarono dalla Germania nel 1945.<br />

L’amico Vico invece non l’ho più rivisto, mi <strong>di</strong>ssero che era ancora<br />

nell’arma dei carabinieri e che aveva il grado <strong>di</strong> maresciallo.<br />

Quello che più mi ha colpito è stata la situazione in cui si è trovato<br />

un carabiniere originario <strong>di</strong> Schio. Dopo aver passato parecchi mesi<br />

nella mia compagnia, fu inviato in Jugoslavia, ormai occupata dagli<br />

eserciti italiano e tedesco, per il servizio d’or<strong>di</strong>ne pubblico.<br />

Arrivato l’otto settembre 1943 scappò e fece la vita dello sbandato


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

101<br />

fra i boschi marciando verso l’Italia. Arrivato nella Venezia Giulia<br />

– ora Istria -, incappò in una pattuglia <strong>di</strong> carabinieri italiani<br />

collaborazionisti coi Tedeschi. Costoro lo convinsero <strong>di</strong> aggregarsi al<br />

loro gruppo che godeva <strong>di</strong> tranquilla quoti<strong>di</strong>anità. Conoscendolo,<br />

certamente accettò solo perché i Tedeschi in quei momenti avevano<br />

la feroce determinazione <strong>di</strong> punire tutti i soldati italiani della<br />

Jugoslavia perché avevano fatto resistenza armata.<br />

Poco tempo dopo invece fu mandato a scovare partigiani titini e<br />

soldati italiani renitenti. Disertò e fra monti e boschi si avviò verso<br />

casa. I Tedeschi, saputa la sua <strong>di</strong>serzione, mandarono una pattuglia<br />

fascista per ricercarlo a casa. Non trovandolo prelevarono il padre,<br />

lasciando detto che, se non si presentava entro un certo periodo <strong>di</strong><br />

tempo, suo padre sarebbe stato mandato nei lager tedeschi a lavorare.<br />

Informato, l’amico si trovò ad affrontare un <strong>di</strong>lemma immane.<br />

Presentarsi voleva <strong>di</strong>re subire un processo ed essere condannato<br />

e mandato in Germania, senza avere la garanzia che suo padre<br />

sarebbe stato liberato. Era allora noto che i Tedeschi consideravano<br />

i carabinieri acerrimi nemici <strong>di</strong> Mussolini e quin<strong>di</strong> dovevano essere<br />

puniti nel peggiore dei mo<strong>di</strong>. Chiese consiglio a varie persone, anche<br />

al suo Vescovo. Tutti gli risposero <strong>di</strong> attendere un po’ per vedere se si<br />

chiariva la situazione, perché <strong>di</strong> sicuro c’era una punizione per lui e<br />

poi anche per il padre che aveva protetto il figlio <strong>di</strong>sertore.<br />

Non si presentò: il padre fu mandato in Germania ove morì. L’amico<br />

riuscì a cavarsela e a sopravvivere, però dentro gli rimase sempre un<br />

gran<strong>di</strong>ssimo e profondo dolore perché il padre era morto per gli<br />

stenti patiti in Germania per colpa sua.<br />

In famiglia<br />

Per alcuni mesi vissi nella quiete e nel lavoro presso i miei familiari.<br />

Aiutai mio padre a coltivare i campi nel periodo autunnale: arai la<br />

terra e seminai il frumento. Mio fratello Giuseppe, ritornato dalla<br />

prigionia jugoslava, come già detto, ancora un po’ acciaccato, si<br />

mise a lavorare da falegname assieme al nostro fratello Gaspare<br />

che, pur essendo solo <strong>di</strong>ciottenne, aveva imparato il mestiere come<br />

appren<strong>di</strong>sta. Costoro crearono il loro laboratorio nel portico della


102 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

nostra stalla. Cullato dalla quiete degli affetti familiari, mi misi<br />

a rior<strong>di</strong>nare nomi e date della mia vita militare, facendo brevi<br />

appunti. Lo stesso poi feci nei momenti <strong>di</strong> quiete del periodo della<br />

mia attività <strong>di</strong> partigiano.<br />

Erano note modeste che ho conservato, assieme ad altre cose <strong>di</strong> quei<br />

perio<strong>di</strong>, e che ora mi sono state utili per dettare le mie memorie.<br />

Intanto avevo ripreso anche la mia solita vita sociale, seppur con<br />

molta precauzione per evitare ogni controllo nazifascista. Ritornai a<br />

frequentare i circoli cattolici, allora molto fiorenti dalle nostre parti.<br />

Il mio Arciprete, quando mi rivide, mi abbracciò sussurrandomi:<br />

“Ogni giorno ho pregato e prego per voi giovani parrocchiani”.<br />

Tro<strong>vai</strong> anche don Lino Girar<strong>di</strong> il quale, pur essendo cappellano<br />

militare dei carabinieri a <strong>Padova</strong>, ogni giovedì riuniva noi giovani <strong>di</strong><br />

Cittadella: e i partecipanti erano tanti!<br />

Quel sacerdote non solo ci spiegava il Vangelo, ma anche ci<br />

informava <strong>di</strong> tutto ciò che raccoglieva relativamente all’andamento<br />

della guerra e <strong>di</strong> come i nazifascisti trattavano gli sbandati.<br />

Fra i presenti vi erano anche dei giovani che avevano visto <strong>di</strong> persona<br />

i rastrellamenti nelle stazioni ferroviarie <strong>di</strong> Treviso e Castelfranco<br />

Veneto. Dissero anche che agli sbandati veniva subito chiesto se<br />

aderivano alla repubblica fascista <strong>di</strong> Mussolini: chi non accettava<br />

veniva caricato nei vagoni merce per la deportazione in Germania.<br />

Sentendo più volte questi soprusi, tutti cominciammo a chiederci<br />

come si poteva aiutare quelli che non volevano collaborare coi<br />

fascisti. Da parte mia avevo già operato dei soccorsi agli sbandati,<br />

prima ancora <strong>di</strong> essere partigiano a tutti gli effetti. Nei primi giorni<br />

del <strong>di</strong>cembre 1943 ebbi modo, assieme ad altri, <strong>di</strong> aiutare dei soldati<br />

prigionieri che riuscirono a fuggire dai campi tedeschi.<br />

Il 6 <strong>di</strong>cembre furono tre soldati inglesi che rifornimmo <strong>di</strong> cibi e<br />

vestiario e che poi conducemmo verso le montagne; il 20 <strong>di</strong>cembre<br />

furono altri quattro Inglesi che aiutammo allo stesso modo.<br />

Fu anche per questi motivi che sorse in me imperiosa la volontà <strong>di</strong><br />

mettermi dalla parte della giustizia e <strong>di</strong>ventare partigiano.<br />

Già da qualche mese sentivo parlare sottovoce negli ambienti cattolici<br />

che frequentavo della formazione <strong>di</strong> gruppi <strong>di</strong> patrioti che facevano


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

103<br />

colpi <strong>di</strong> mano per procurarsi armi e munizioni onde poi organizzare<br />

attività <strong>di</strong> <strong>di</strong>sturbo ai soldati tedeschi e a quelli <strong>di</strong> Mussolini. Fu così<br />

che cercai e tro<strong>vai</strong> un contatto per unirmi a quelle formazioni.<br />

Aprile 1944<br />

Il <strong>di</strong>eci aprile 1944 per me, mio fratello Giuseppe e il cugino<br />

Angelo Sgarbossa è stata una data fati<strong>di</strong>ca. Assieme a qualche<br />

altro <strong>di</strong>venimmo partigiani aggregati ad un plotone comandato<br />

dal concitta<strong>di</strong>no professor Erminio Sgarbossa, che aveva il nome<br />

<strong>di</strong> battaglia <strong>di</strong> Fricco. Egli era cugino sia <strong>di</strong> noi Bizzotto, per via <strong>di</strong><br />

nostra madre che era una Sgarbossa, sia <strong>di</strong> Angelo Sgarbossa. Dopo<br />

aver consegnato i nostri dati anagrafici, io presi il nome <strong>di</strong> battaglia<br />

<strong>di</strong> Ercole (scelsi quel nome perché stavo leggendo un libro su quel<br />

mitico eroe forzuto), mio fratello Giuseppe il nome <strong>di</strong> battaglia <strong>di</strong><br />

Leo e Angelo quello <strong>di</strong> Sacripante.<br />

Subito Fricco precisò che noi facevamo parte della brigata “Italia<br />

libera”, poi parlò dei nostri doveri e dei nostri impegni. Dovevamo<br />

tacere il più possibile e non fare confidenze a nessuno; eseguire<br />

con accortezza e decisione solamente quello che stabilivano i<br />

comandanti; aiutare comunque e ovunque ebrei, sbandati italiani,<br />

soldati stranieri fuggiti dai campi <strong>di</strong> concentramento tedeschi, in<br />

pratica aiutare tutti coloro che rifiutavano il nazifascismo o che da<br />

questa forza erano ricercati.<br />

Insistette molto sul silenzio, sulla volontà e sull’attenzione per non<br />

incappare in frainten<strong>di</strong>menti, negligenze e stratagemmi messi in atto<br />

dai nemici. Frequentando gli ambienti partigiani a poco a poco mi<br />

resi conto <strong>di</strong> come la Resistenza si andava formando e strutturando<br />

nella mia zona, da Cittadella a Bassano del Grappa.<br />

I gruppi <strong>di</strong> partigiani nascevano per la volontà <strong>di</strong> qualcuno che<br />

<strong>di</strong> norma poi veniva eletto comandante. Le piccole formazioni<br />

raggruppavano generalmente persone dello stesso paese, quelle<br />

me<strong>di</strong>e <strong>di</strong> paesi contermini, quelle gran<strong>di</strong> <strong>di</strong> province.<br />

I comandanti erano <strong>di</strong> solito ex ufficiali dell’esercito o professionisti<br />

che si <strong>di</strong>stinguevano per le loro doti. Tutti noi partigiani avevamo un<br />

nome <strong>di</strong> battaglia e si conoscevano i veri nomi solo <strong>di</strong> pochi, onde


104 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

evitare il pericolo, nel caso <strong>di</strong> essere fatti prigionieri e messi sotto<br />

tortura, <strong>di</strong> rivelare da chi era formato il reparto <strong>di</strong> appartenenza.<br />

Il nostro organigramma era quello dell’esercito italiano.<br />

Si partiva dalla squadra e, a multipli <strong>di</strong> tre, si saliva al plotone,<br />

compagnia, battaglione, brigata, per finire poi alla <strong>di</strong>visione.<br />

Ogni nostro reparto si <strong>di</strong>stingueva non da numeri, ma da nomi<br />

<strong>di</strong> eroi, <strong>di</strong> luoghi o <strong>di</strong> persone celebri.<br />

Il comandante <strong>di</strong> ogni gruppo era coa<strong>di</strong>uvato da una o più<br />

persone a seconda del numero dei combattenti sottoposti. La<br />

quantità dei facenti parte <strong>di</strong> ogni singolo reparto era variabile a<br />

seconda degli aderenti. Talvolta le formazioni si <strong>di</strong>fferenziavano<br />

per impostazioni politiche o strategiche <strong>di</strong>verse, creando qua e là<br />

dei duplicati.<br />

Così pure, per i gruppi che formavano i reparti più gran<strong>di</strong>, non<br />

sempre l’organigramma si sviluppava con lo stesso or<strong>di</strong>ne prima<br />

accennato. A me toccò anche <strong>di</strong> vedere cambiato il nome del<br />

reparto nel quale ero stato incar<strong>di</strong>nato. Alla fine capii anche che la<br />

mia brigata “Italia libera” era formata da apolitici che erano però<br />

quasi tutti <strong>di</strong> formazione cattolica, come lo ero io. Nonostante<br />

queste variabili i nostri reparti però furono sempre concor<strong>di</strong> nella<br />

lotta contro i nazifascisti, aiutandosi spesso a vicenda.<br />

Noi partigiani <strong>di</strong> pianura <strong>di</strong>videvamo il nostro tempo fra i lavori<br />

in famiglia e i compiti che <strong>di</strong> volta in volta ci venivano assegnati<br />

dal nostro comandante o dai responsabili politici dei vari CNL<br />

(Comitato Nazionale <strong>di</strong> Liberazione) sorti nelle città e in molti<br />

paesi. Quello <strong>di</strong> Cittadella fu molto importante ed era retto<br />

dall’avvocato Gavino Saba<strong>di</strong>n che lavorò in modo fattivo non<br />

solo nella mia città, ma anche in tutto il Veneto.<br />

Mentre le nostre formazioni <strong>di</strong>venivano sempre più numerose,<br />

entrarono nei nostri reparti anche alcuni <strong>di</strong>sertori dell’esercito<br />

<strong>di</strong> Mussolini. Erano persone motivate perché avevano fatto una<br />

doppia scelta coraggiosa: <strong>di</strong>serzione dai nazifascisti e lotta contro<br />

<strong>di</strong> essi. Costoro portarono con sé tutto ciò che avevano <strong>di</strong> armi<br />

ed equipaggiamenti.<br />

Durante il periodo della lotta partigiana io e mio fratello


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

105<br />

partecipammo alle stesse azioni, perché eravamo dello stesso<br />

plotone, però ci avevano assegnati a squadre <strong>di</strong>verse e in pratica<br />

quasi sempre <strong>di</strong>stanti fra noi: evidentemente il comandante non<br />

voleva coinvolgere entrambi nei medesimi momenti e luoghi <strong>di</strong><br />

pericolo.<br />

Staffetta<br />

Poco dopo essere stato accolto fra i partigiani, mi fu assegnato il<br />

compito <strong>di</strong> staffetta portaor<strong>di</strong>ni. Assieme a un altro giovane fui<br />

incaricato <strong>di</strong> prelevare dall’ufficio <strong>di</strong> collocamento <strong>di</strong> Cittadella<br />

un pacco per poi scambiarlo con un altro lungo il percorso che si<br />

doveva fare. Il pacco ricevuto doveva essere poi fatto recapitare al<br />

nostro comandante <strong>di</strong> battaglione.<br />

Bisognava percorrere la strada Castelfranco Veneto – Vedelago<br />

ove avremmo trovato il contatto con due ragazze. Partimmo<br />

in bicicletta con gli zaini ove avevamo messo il pacco e degli<br />

indumenti usati per <strong>di</strong>mostrare, se fermati da pattuglie<br />

nazifasciste, che noi andavamo a portare assistenza a famiglie<br />

bisognose.<br />

Raggiunto un tratto <strong>di</strong> strada ove non c’erano case e occhi in<strong>di</strong>screti<br />

che ci scrutassero, ci fermammo e ci mettemmo a trafficare su<br />

una bicicletta come se si fosse bucato un pneumatico.<br />

Come si faceva una volta, rovesciammo la bici sul ciglio stradale e<br />

levammo dalla sede dei cerchioni, usando le levette <strong>di</strong> dotazione,<br />

copertone e pneumatico. Lavorammo lentamente scrutando<br />

i ra<strong>di</strong> passanti. Arrivarono due ragazze pure loro in bici, si<br />

fermarono e ci chiesero se avevamo bisogno <strong>di</strong> aiuto, <strong>di</strong>ssero nel<br />

contempo la parola d’or<strong>di</strong>ne; capimmo e rispondemmo a tono.<br />

Scambiammo i plichi. Le ragazze ripartirono, noi riassettammo le<br />

bici e gli zaini e ritornammo. Arrivati, con attenta circospezione,<br />

consegnammo il plico a chi <strong>di</strong> dovere.<br />

Eravamo contenti perché avevamo fatta la nostra prima azione,<br />

con attenzione e con il risultato che era andata a buon fine:<br />

personalmente pensavo <strong>di</strong> aver vinto il mio primo approccio con<br />

la lotta contro i nazifascisti.


106 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Preso <strong>di</strong> mira da due soldati tedeschi armati<br />

Verso la fine dell’aprile 1944 ero sul cancello <strong>di</strong> casa dove abitavamo<br />

e stavo andandomene da un amico, quando vi<strong>di</strong> due soldati tedeschi<br />

<strong>di</strong> ronda armata in bicicletta, fermi a parlare con un anziano del<br />

paese. Era costui una persona che io conoscevo appena, ma che era<br />

noto per le sue sbronze e perché sapeva un po’ <strong>di</strong> lingua tedesca in<br />

quanto aveva lavorato, da giovane, in miniera in Germania.<br />

Io mi fermai e rimasi indeciso sulla strada Valsugana se continuare o<br />

ritornare sui miei passi. Ad un tratto quelle tre persone si voltarono<br />

verso <strong>di</strong> me. Sentii allora l’anziano esclamare a gran voce: “Quello<br />

potrà essere un partigiano!”. I due soldati appoggiata la bici si<br />

avviarono a pie<strong>di</strong> verso <strong>di</strong> me. Io, sapendo <strong>di</strong> non essere fornito <strong>di</strong><br />

una documentazione specifica per i controlli militari nazifascisti,<br />

scappai a gambe levate.<br />

Rientrai in cortile e uscii dal cancello opposto che menava in un<br />

sentiero campestre parallelo alla roggia Munara, e presi la <strong>di</strong>rezione<br />

verso i campi aperti. I soldati mi corsero <strong>di</strong>etro, ma io li <strong>di</strong>stanziai.<br />

I soldati cominciarono a spararmi contro, io allora zigzagai fra gli<br />

alberi, l’erba e una roggia. Costoro vedendo che ero troppo lontano<br />

per colpirmi, ritornarono sui loro passi, ripresero le biciclette e mi<br />

corsero <strong>di</strong>etro. Io ero sparito alla loro vista. Passando però vicino alla<br />

casa <strong>di</strong> Fricco e temendo anche per lui, volli allertarlo. Saltai sulla<br />

strada, la attraversai e riuscii a parlare con il mio capo plotone.<br />

I soldati cominciarono <strong>di</strong> nuovo a sparare: tutt’e due ci infilammo<br />

nei canaletti <strong>di</strong> irrigazione dei campi coltivati a erbaio: riuscimmo<br />

a salvarci correndo a per<strong>di</strong>fiato e saltando qua e là. Arrivati presso<br />

alcune case entrammo in quella a destra. Trovammo una signora che<br />

al volo capì la nostra situazione. Ci prese per mano ci condusse <strong>di</strong>etro<br />

una tettoia agricola, vedemmo un pollaio ove c’erano pulcini che<br />

pigolavano entro una cassetta. Sollevò la cassetta, tolse un asse; sotto<br />

c’era un piccolo rifugio ove ci nascondemmo. La signora risistemò<br />

tutto e se ne tornò alle proprie faccende casalinghe. Non sentimmo<br />

alcun rumore, restammo nascosti per alcune ore e alla fine la signora<br />

venne a liberarci. Ci raccontò che i due soldati col fucile spianato<br />

volevano sapere da lei dove erano andati i due partigiani.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

107<br />

Lei, forse spaventata o forse ad arte, negò solamente scrollando la<br />

testa. I Tedeschi con le baionette innestate infilzarono numerose<br />

volte un mucchio <strong>di</strong> fieno colà raccolto nella barchessa. Alla fine le<br />

chiesero per dove erano fuggiti i due partigiani, la signora in<strong>di</strong>cò una<br />

strada che portava a Laghi, una frazione opposta al luogo dove io<br />

abitavo; i Tedeschi andarono velocemente in quella <strong>di</strong>rezione.<br />

Dovemmo molto a quella donna che si mostrò una vera patriota pronta<br />

a rischiare <strong>di</strong> persona. Seppi poi dall’anziano zio Ernesto, residente<br />

nel nostro caseggiato, che i due soldati, mentre nell’inseguimento si<br />

trovavano ancora nel cortile <strong>di</strong> casa, vedendolo gli chiesero chi era<br />

quello che scappava, lo zio rispose: “Non lo conosco”.<br />

Tornato a casa sul tar<strong>di</strong> tro<strong>vai</strong> i miei in apprensione, sia perché lo zio<br />

aveva avvisato che io ero stato inseguito da soldati tedeschi, sia perché<br />

una loro pattuglia era arrivata a casa nostra nel pomeriggio chiedendo<br />

dove era una camicia celeste: rovistarono, ma non trovarono niente.<br />

Avevano visto la mia camicia celeste mentre scappavo e avevano<br />

cercato <strong>di</strong> ritrovarla: per fortuna ne avevo una sola <strong>di</strong> quel colore<br />

e l’avevo addosso. Mia madre volle subito bruciare quella camicia,<br />

tutti ne fummo contenti!<br />

Maggio – giugno 1944<br />

Nel mese <strong>di</strong> maggio mi fu assegnato un compito rischioso: custo<strong>di</strong>re<br />

per qualche tempo la ricetrasmittente del mio comandante Fricco.<br />

Costui era un professore <strong>di</strong> matematica che aveva abitato a<br />

Chicago, negli Stati Uniti, ove aveva frequentato le scuole primarie<br />

e secondarie, e quin<strong>di</strong> conosceva molto bene l’inglese, tanto che il<br />

suo nome <strong>di</strong> battaglia “Fricco”, come ho saputo più tar<strong>di</strong>, l’aveva<br />

derivato da una parola inglese che vuol <strong>di</strong>re “capellone”.<br />

Ritornata la famiglia in Italia si laureò a <strong>Padova</strong>.<br />

Data questa sua particolare peculiarità egli era anche addetto a<br />

tenere i contatti telefonici con gli anglo-americani, cosa che fece in<br />

modo costante e ammirevole. Teneva la scatola delle apparecchiature<br />

in una valigia vecchia che <strong>di</strong> soppiatto spostava qua e là, per non<br />

farsi scoprire dai Tedeschi durante le trasmissioni, perché essi erano<br />

forniti <strong>di</strong> macchinari speciali per localizzare i ricetrasmettitori.


108 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

In quel periodo io facevo il custode notturno <strong>di</strong> una casa colonica fra<br />

i campi che serviva saltuariamente da rifugio alla numerosa famiglia<br />

dell’ing. Brunetta <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, proprietario della terra lavorata dalla<br />

mia famiglia che l’aveva in affitto. Fricco venne a notte fonda e<br />

armeggiò: trasmise e ricevette informazioni.<br />

Fu così che fece per tre volte <strong>di</strong>stanziate fra loro. L’ultima volta si portò<br />

via la ricetrasmittente per nasconderla in un altro luogo. Io, anche<br />

se ero presente e attento controllore per evitare sorprese inaspettate,<br />

non capivo certamente la conversazione in lingua inglese, però<br />

mi rimaneva la sod<strong>di</strong>sfazione <strong>di</strong> partecipare <strong>di</strong>rettamente a quelle<br />

trasmissioni tanto necessarie sia per i rifornimenti d’armi fatti dagli<br />

Americani, sia per dare in<strong>di</strong>cazioni logistiche sugli spostamenti <strong>di</strong><br />

truppe tedesche. Mentre si infittivano le azioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>sturbo contro i<br />

Tedeschi e repubblichini, si sviluppava anche la raccolta <strong>di</strong> armi, fatta<br />

con colpi <strong>di</strong> mano soprattutto contro i fascisti, e venivano infoltiti i<br />

reparti con nuove adesioni <strong>di</strong> volontari, sbandati e renitenti alle leve<br />

mussoliniane fatte dal generale Graziani.<br />

Nella nostra zona tra Cittadella e Bassano si erano formati anche<br />

gruppi <strong>di</strong>sarticolati dal resto: questo portò a sentire la necessità <strong>di</strong><br />

un nuovo coor<strong>di</strong>namento. Il 7 giugno sei responsabili dei nostri<br />

reparti si riunirono a Cassola per stu<strong>di</strong>are il da farsi. Il risultato fu <strong>di</strong><br />

raggruppare tutti i partigiani che operavano da noi nel battaglione<br />

Silvio Pellico, a ricordo dell’eroe del nostro Risorgimento.<br />

Ho saputo poi che fra quei sei comandanti c’erano due mie<br />

conoscenze che risalivano all’anteguerra e che adesso ho il piacere<br />

<strong>di</strong> ricordare: l’insegnante Albino Rebellato, detto Bino, prezioso<br />

collaboratore dell’avvocato Gavino Saba<strong>di</strong>n capo del nostro CLN<br />

(Comitato <strong>di</strong> Liberazione Nazionale), e Sante Bernar<strong>di</strong>, detto<br />

Buonconsiglio, che era il comandante della mia compagnia e che<br />

abitava poco lontano da me.<br />

Comandante del nuovo battaglione fu nominato l’ufficiale chiamato<br />

Negri, che si <strong>di</strong>mostrò un valido e capace organizzatore.<br />

Fu stabilito anche che il battaglione Pellico si de<strong>di</strong>casse principalmente<br />

a eseguire sabotaggi, provvedendo nel contempo <strong>di</strong> avere come<br />

collaboratore un esperto artificiere.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

109<br />

Luglio 1944: armi paracadutate<br />

Nella notte dell’8 luglio partecipai, per la prima volta, alla raccolta<br />

<strong>di</strong> numerosi colli, pieni <strong>di</strong> armi, lanciati dagli aerei Alleati. Lo<br />

feci con entusiasmo perché molto motivato e perché ritenevo che<br />

quel lancio fosse stato concordato in una trasmissione che il mio<br />

comandante Fricco fece in mia presenza.<br />

Il lancio notturno doveva essere fatto in un luogo isolato, sito a<br />

cinque chilometri da Bassano del Grappa e a mezzo chilometro da<br />

Cassola. Era stato scelto quel luogo, lontano da Bassano, soprattutto<br />

perché in quella città erano <strong>di</strong>slocati soldati tedeschi e militi fascisti.<br />

Sul punto precisato furono sparpagliati vari partigiani armati<br />

perché i colli lanciati col paracadute dovevano essere parecchi e<br />

bisognava recuperarli e se il caso <strong>di</strong>fenderli. Purtroppo, a causa<br />

<strong>di</strong> un forte vento e forse anche per la scura notte, i colli caddero<br />

nell’abitato <strong>di</strong> Cassola.<br />

Noi partigiani dovemmo correre il rischio <strong>di</strong> entrare<br />

nell’agglomerato citta<strong>di</strong>no per raccoglierli. Fortunatamente in<br />

quel paese non c’erano soldati nazifascisti <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a e gli abitanti<br />

che ci videro collaborarono.<br />

I nostri comandanti, onde evitare sgra<strong>di</strong>te sorprese, avevano<br />

<strong>di</strong>slocate alcune pattuglie lungo le strade <strong>di</strong> accesso, perché dessero<br />

l’allarme se vedevano pattuglie nazifasciste e per contrastarle. Io<br />

e la maggioranza degli uomini raccogliemmo le pesanti sacche<br />

e le trasportammo in un casolare <strong>di</strong>sabitato sito in mezzo alla<br />

campagna; naturalmente previo assenso del proprietario in modo<br />

potesse destreggiarsi in caso <strong>di</strong> controlli dei nazifascisti. Finito il<br />

lavoro quando albeggiava, fummo congedati. Restituimmo le armi<br />

avute ai nostri capi plotone, come era ormai d’uso, e andammo<br />

a riprenderci le biciclette, che avevamo nascoste qua e là, e che<br />

avevamo usate per arrivare al punto designato per la raccolta. Io<br />

avevo ricevuto una mitraglietta e una bomba a mano: <strong>di</strong>e<strong>di</strong> in<strong>di</strong>etro<br />

la mitraglietta e <strong>di</strong>menticai la bomba. L’avevo messa nella tasca<br />

dove tenevo la rivoltella da carabiniere, parecchio più pesante della<br />

bomba; per cui lì per lì non percepii la <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> peso derivante<br />

dalla bomba a mano. Infatti questa era <strong>di</strong> alluminio e nell’esercito


110 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

veniva usata solo negli assalti quando si correva e se ne dovevano<br />

lanciare parecchie per produrre scoppi, fumo e <strong>di</strong>sorientamento. Per<br />

informazione preciso che quelle <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa, da lanciare nascosti da un<br />

riparo, erano invece pesanti e producevano tante schegge <strong>di</strong> ferro per<br />

ferire e uccidere. Proprio in quella mattinata arri<strong>vai</strong> verso le sette in<br />

un crocevia della Valsugana, proprio dove c’era un raggruppamento<br />

<strong>di</strong> case in quel <strong>di</strong> Cittadella, quando incappai in una ronda <strong>di</strong> due<br />

soldati tedeschi.<br />

Mi fermarono sul ciglio stradale, cominciarono a farmi domande<br />

e a chiedere i documenti. Io non capivo ma intuivo, così tra gesti<br />

e poche parole tirai per le lunghe. I soldati si spazientirono, <strong>di</strong>e<strong>di</strong><br />

allora a loro la carta d’identità. Proprio mentre uno <strong>di</strong> loro la<br />

riceveva, sentii una forte voce che <strong>di</strong>ceva: “Attilio, Attilio, cosa fai<br />

qui?”. Era mia cugina Elia Marsan che apriva la finestra della sua<br />

camera da letto e che dava una sbirciata sulla strada.<br />

Subito la cugina capì le mie <strong>di</strong>fficoltà, cominciò a parlare ad alta voce,<br />

chiamando uno <strong>di</strong> quei due col nome <strong>di</strong> Jacob perché lo conosceva<br />

giacché era alloggiato in quel rione e lei gli lavava la biancheria e<br />

faceva lavori <strong>di</strong> cucito. Così si mise a <strong>di</strong>alogare con quei due soldati<br />

un po’ in lingua tedesca e un po’ in <strong>di</strong>aletto. Giurò e spergiurò che<br />

io ero un bravo ragazzo, che non facevo male a nessuno, nemmeno a<br />

una mosca. Io approfittai <strong>di</strong> quei momenti che i Tedeschi erano rivolti<br />

verso la cugina, così lestamente con astuzia lasciai cadere fra l’erba<br />

del fosso laterale sia la bomba che la pistola rompendo la tasca dove<br />

le tenevo. Dopo la chiacchierata, il soldato che era stato apostrofato<br />

e che aveva in mano il mio documento, me lo rese <strong>di</strong>cendo: “Gut,<br />

bene”; forse perché convinto o perché lui, anziano, non voleva creare<br />

<strong>di</strong>vergenze con la popolazione presso la quale viveva tranquillo.<br />

Arrivato a casa pregai mia sorella Gina, che stava per uscire, <strong>di</strong><br />

andare dalla cugina Elia <strong>di</strong>cendole che avevo bisogno <strong>di</strong> parlarle.<br />

A sera fonda venne da me, calorosamente la ringraziai <strong>di</strong> essere<br />

venuta e, sapendo che lei faceva il doppio gioco coi Tedeschi per<br />

informare il comandante Fricco, le spiegai dove avevo nascoste<br />

le mie armi. Il giorno dopo a mezzogiorno mi portò pistola e<br />

bomba a mano. Ringraziai Dio perché fino ad allora tutte le


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

111<br />

coincidenze pericolose mi erano state favorevoli.<br />

Poco dopo seppi che quelle armi che avevamo nascoste nel casolare<br />

erano state prese in consegna dal mio comandante <strong>di</strong> battaglione,<br />

che ne usò una parte per armare il nostro gruppo Silvio Pellico.<br />

Le rimanenti furono consegnate a cinque squadre <strong>di</strong> sabotatori.<br />

Battaglione Silvio Pellico<br />

Il comando del nuovo battaglione Silvio Pellico si mise subito in<br />

contatto con le formazioni della brigata “Italia Libera” sul massiccio<br />

del Grappa, con le quali poi si mantenne sempre in relazione.<br />

Intanto iniziarono le istruzioni per il maneggio degli esplosivi e per<br />

imparare come e dove mettere le cariche <strong>di</strong> scoppio per ottenere gli<br />

effetti maggiori. Il mio primo forte impatto con la lotta armata fu il<br />

23 luglio 1944, quando ricevemmo l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> sabotare la ferrovia<br />

<strong>Padova</strong> – Bassano.<br />

Di notte andammo e innescammo le cariche esplosive e riuscimmo<br />

a far saltare in aria un bel po’ <strong>di</strong> binari, tanto che il transito fu<br />

sospeso per due giorni.<br />

Ben presto mi resi conto del valore <strong>di</strong> quel sabotaggio, che sulle prime<br />

mi sembrava poco importante. Bassano del Grappa era <strong>di</strong>ventata un<br />

punto car<strong>di</strong>ne dei nazifascisti, vi erano <strong>di</strong>slocate parecchie truppe per<br />

rintuzzare le azioni dei partigiani e anche per <strong>di</strong>fendere la caserma<br />

Efrem Reatto, dove erano inse<strong>di</strong>ati un tribunale fascista e le prigioni,<br />

il cui capo era un certo Perillo che dalle nostre parti era conosciuto<br />

per il suo integralismo fascista. Quel nostro sabotaggio, poi seguito<br />

da altri, aveva lo scopo <strong>di</strong> rallentare il trasporto dei condannati ai<br />

lager tedeschi e il vettovagliamento alle truppe <strong>di</strong>slocate in città e<br />

<strong>di</strong> creare <strong>di</strong>versivi per alleggerire le azioni <strong>di</strong> rastrellamento attorno<br />

al Grappa sul cui massiccio vi erano parecchi patrioti. Infatti quel<br />

monte, fornito <strong>di</strong> boschi e anfratti, offriva nascon<strong>di</strong>gli ai fuggiaschi<br />

e anche una certa quantità <strong>di</strong> viveri perché vi erano zone coltivate,<br />

prati per il sostentamento <strong>di</strong> animali da latte, abitazioni e stalle, ove<br />

vivevano montanari <strong>di</strong>sponibili a dare aiuto.<br />

Un po’ alla volta quei renitenti alle leve fasciste che si erano colà<br />

nascosti si trasformarono in partigiani, formando vari gruppi


112 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

con i propri comandanti. Queste nuove formazioni non erano<br />

isolate, ma erano organicamente coor<strong>di</strong>nate con i vari battaglioni<br />

e brigate esistenti in pianura. Infatti fra quei patrioti vi erano<br />

plotoni inquadrati nella mia brigata “Italia libera”. Essendovi questi<br />

collegamenti il mio vicecomandante <strong>di</strong> battaglione <strong>di</strong>ede a più<br />

riprese aiuti sostanziosi <strong>di</strong> viveri, armi e materiali a coloro che erano<br />

sparpagliati sul Grappa.<br />

Il 13 agosto fu per noi del Pellico un giorno doloroso perché<br />

i nazifascisti arrestarono e imprigionarono a Bassano il nostro<br />

comandante Negri: tememmo subito per la sua vita. Solo allora<br />

seppi che il mio comandante era il tenente Ermenegildo Moro. Il<br />

23 agosto successivo Bill fu nominato nostro nuovo comandante.<br />

Bill, che prima era il vice, <strong>di</strong>ede l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> sabotare la ferrovia da<br />

Cittadella a Belvedere della linea Bassano – <strong>Padova</strong>.<br />

Non venne allargata questa azione per paura <strong>di</strong> eventuali<br />

rappresaglie che potevano essere inflitte al comandante Negri da<br />

poco catturato.<br />

Il 6 settembre 1944 ricevemmo l’or<strong>di</strong>ne dal CLN <strong>di</strong> Bassano <strong>di</strong><br />

recuperare a Tezze sul Brenta le scorte <strong>di</strong> cibo e materiali vari<br />

(indumenti, prodotti sanitari, ecc.) offerti dalla popolazione e<br />

ammassati in nascon<strong>di</strong>gli, per rifornire le formazioni <strong>di</strong>slocate nel<br />

territorio. Partimmo in circa 140, al comando <strong>di</strong> un comandante del<br />

gruppo <strong>di</strong> Cartigliano, per andare nottetempo a prelevare quanto ci<br />

avevano or<strong>di</strong>nato e anche per arrestare quattro fascisti che avevano<br />

richiamato in zona i soldati tedeschi, impedendo così per tre volte i<br />

lanci <strong>di</strong> rifornimento armi degli Alleati.<br />

Ad azione ultimata, il comandante della mia compagnia Belvedere,<br />

Bernar<strong>di</strong> Sante detto Buonconsiglio, ci fece marciare inquadrati per<br />

rendere omaggio al monumento dei caduti e anche per incoraggiare<br />

gli incerti: marciammo e cantammo alcuni inni de<strong>di</strong>cati alla libertà:<br />

fu una vera sfida ai nazifascisti!<br />

L’otto settembre 1944, primo anniversario dell’infausto armistizio<br />

portatore in Italia <strong>di</strong> una enorme confusione sociale e politica,<br />

la mia compagnia sabotò <strong>di</strong> nuovo la linea ferroviaria <strong>Padova</strong><br />

– Bassano, producendo gravi danni e <strong>di</strong>struggendo binari, scambi e


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

113<br />

pali telegrafici. Questo colpo fece nascere in me la fiducia assoluta<br />

che alla fine avremmo vinto in quanto i nazifascisti, nonostante<br />

le loro dure repressioni, si <strong>di</strong>mostravano sempre più vulnerabili.<br />

Il 17 settembre vi fu un articolato tentativo <strong>di</strong> sequestro <strong>di</strong> soldati<br />

tedeschi <strong>di</strong> ronda notturna, <strong>di</strong>slocati a Villa Ca’ Dolfin <strong>di</strong> Rosà, per<br />

scambiarli con due nostri attivisti fatti prigionieri mentre <strong>di</strong> notte<br />

facevano volantinaggio per <strong>di</strong>ssuadere i giovani dal rispondere alle leve<br />

fasciste. Dato che noi non avevamo armi pesanti ed equipaggiamento<br />

adatti per assaltare le prigioni e liberare i nostri compagni, il comando<br />

pensò <strong>di</strong> catturare dei Tedeschi per lo scambio.<br />

I Tedeschi facevano la ronda con autoblindo nel percorso fra i paesi <strong>di</strong><br />

Rosà, San Pietro, Tezze, Belvedere e Cusinati delle province <strong>di</strong> <strong>Padova</strong><br />

e Vicenza. Fu così che i tre plotoni della mia compagnia furono<br />

<strong>di</strong>slocati in tre luoghi <strong>di</strong>stanti fra loro, dato che l’autoblindo tedesca,<br />

che faceva il giro, cambiava continuamente i punti <strong>di</strong> partenza e <strong>di</strong><br />

arrivo. I Tedeschi furono attaccati in un punto lontano una decina <strong>di</strong><br />

chilometri da Belvedere, dove si trovava il mio plotone.<br />

Noi aspettammo un bel po’, poi ci fu recapitato l’or<strong>di</strong>ne a mezzo<br />

staffetta <strong>di</strong> ritornare alla base. Venimmo a sapere che l’imboscata<br />

aveva avuto esito negativo per noi, tanto che tre nostri compagni<br />

furono fatti prigionieri, anche se fu ferito un tedesco.<br />

Fino al settembre 1944, il Pellico riuscì a sviluppare una trentina<br />

<strong>di</strong> azioni militari, come poi precisarono i nostri comandanti. Noi<br />

agivamo nei paesi: Belvedere, Tezze sul Brenta, Rossano Veneto,<br />

Rosà, San Pietro <strong>di</strong> Rosà, Cassola, Ezzelino da Romano, Cartigliano,<br />

Bassano del Grappa.<br />

Ora voglio qui ricordare anche il battaglione Mazzini che, agendo<br />

nei territori vicini ai nostri, si <strong>di</strong>stinse per molte imprese. Lo cito<br />

perché il comandante era Masaccio, eroe della Resistenza, persona<br />

che ricordo con ammirata devozione, e del quale parlerò più avanti,<br />

perché <strong>di</strong>venne poi mio comandante <strong>di</strong> brigata.<br />

La battaglia del Grappa<br />

Questo episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> guerra fu molto importante per le sorti della<br />

Resistenza nelle nostre zone dove io ero chiamato a operare.


114 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Lo sterminio fatto dai nazifascisti sul massiccio del Grappa dal 23<br />

al 26 settembre 1944 portò rovinose conseguenze. Non ho certo la<br />

pretesa <strong>di</strong> scrivere la storia <strong>di</strong> quei fatti eccezionali, anche perché<br />

ormai tutto è consolidato e precisato in varie rievocazioni pubbliche.<br />

Desidero solamente fare la cronaca <strong>di</strong> quello che ho visto e sentito<br />

da vicino e <strong>di</strong> quanto la sorte mi ha portato a fare e conoscere.<br />

È con umiltà <strong>di</strong> intenti che mi accingo a richiamare fatti e persone<br />

che ne furono autorevoli e sfortunati protagonisti. È anche<br />

con trepidazione e angoscia che parlo <strong>di</strong> quello che ha segnato<br />

profondamente la mia vita <strong>di</strong> partigiano. Verso la fine del 1944,<br />

fui molto vicino agli epiloghi perigliosi, ma la sorte volle che io<br />

inconsapevolmente non ne fossi <strong>di</strong>rettamente coinvolto, giacché per<br />

ben tre volte, così io ritengo, mi fu salva la vita solo per coincidenze<br />

occasionali.<br />

Dalle nostre parti, come già detto, molti renitenti si rifugiarono sul<br />

Grappa: tra questi giovani renitenti vi fu anche un mio conoscente.<br />

Costui prima <strong>di</strong> salire sul monte venne da me <strong>di</strong>cendomi che il<br />

mio comandante Fricco lo aveva consigliato <strong>di</strong> procurarsi prima<br />

un’arma, perché sul Grappa non c’erano <strong>di</strong>stribuzioni <strong>di</strong> armi,<br />

poiché scarseggiavano. Gli aveva detto anche che io avevo una<br />

pistola personale e che avrei potuto dargliela. Convinto dalle sue<br />

parole che mi chiarirono come quel giovane conoscesse a fondo la<br />

organizzazione del mio plotone, gliela consegnai senza resistenza<br />

anche perché nelle varie azioni militari noi partigiani <strong>di</strong> pianura<br />

venivamo riforniti, <strong>di</strong> volta in volta, <strong>di</strong> armi e munizioni più potenti<br />

<strong>di</strong> una rivoltella.<br />

Quel conoscente salì sul Grappa, lottò contro i nazifascisti, fu<br />

rastrellato e impiccato nell’ecci<strong>di</strong>o del settembre 1944. Al riguardo<br />

seppi poi che, durante il supplizio, per ben due volte si ruppe la<br />

corda del suo capestro e che solo alla terza volta il boia impietoso<br />

riuscì a compiere la sua nefanda opera.<br />

I giovani rifugiati sul Grappa furono inquadrati, oltre che nella<br />

mia brigata “Italia libera”, come già detto, anche in altre, a seconda<br />

delle <strong>di</strong>sposizioni d’animo o amicizie <strong>di</strong> ciascuno. Vi furono<br />

brigate: Garibal<strong>di</strong> – Gramsci, Matteotti, Archeson e Campo Croce


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

115<br />

che erano filiazioni <strong>di</strong> “Italia libera”.<br />

Tra quei partigiani vi erano anche soldati degli eserciti alleati, fuggiti<br />

dai campi <strong>di</strong> concentramento. Costoro però facevano riferimento<br />

alla Commissione Inglese che si trovava in pianura <strong>di</strong>retta da<br />

ufficiali inglesi. Intanto continuava quel mor<strong>di</strong> e fuggi sulle vie <strong>di</strong><br />

comunicazione in pianura, per danneggiare i trasporti nord – sud,<br />

azioni che rinvigorivano i ranghi della Resistenza per la loro efficacia<br />

e che nel contempo mettevano sempre più in pericolo i presi<strong>di</strong>i<br />

nazifascisti del territorio, tanto che il comando tedesco stabilì <strong>di</strong><br />

eliminare in modo ra<strong>di</strong>cale quella situazione.<br />

Visto che il Massiccio del Grappa era il punto <strong>di</strong> forza e il centro<br />

principale dei partigiani, stabilì <strong>di</strong> fare un rastrellamento a tappeto<br />

<strong>di</strong> quella zona per dare un colpo mortale alle formazioni partigiane.<br />

All’inizio del settembre 1944, i Tedeschi pertanto cominciarono<br />

ad ammassare uomini e mezzi per sferrare un attacco a tenaglia<br />

investendo un ampio fronte. I coman<strong>di</strong> partigiani subito ne furono<br />

informati, poi se ne resero conto anche perché i nazifascisti con<br />

ingenti forze rastrellarono il Cansiglio che era una porta <strong>di</strong> fuga<br />

per i <strong>di</strong>fensori del Grappa. Mentre i Tedeschi e i repubblichini <strong>di</strong><br />

Salò ammassavano truppe alla base, i comandanti del Grappa si<br />

pre<strong>di</strong>sponevano per la <strong>di</strong>fesa del Massiccio.<br />

Capitò che i reparti della mia <strong>di</strong>visione “Italia libera” appostati in<br />

montagna chiesero aiuto col ra<strong>di</strong>otelefono a Fricco, comandante<br />

del mio plotone che agiva in pianura. Fricco, uomo pieno <strong>di</strong><br />

ardore, ma nel contempo lucido osservatore degli sviluppi bellici,<br />

volle controllare prima <strong>di</strong> persona come era la situazione. Salì sul<br />

Monte Grappa, ma prima avvisò alcuni <strong>di</strong> noi perché facessero il<br />

passaparola <strong>di</strong> riunirci in una sera stabilita in una certa zona, ora<br />

e luogo precisati, per partire equipaggiati <strong>di</strong> armi e viveri in aiuto<br />

degli amici <strong>di</strong>fensori del Grappa. All’ora stabilita Fricco si presentò<br />

a noi tutto mesto, con i segni del dolore stampati in faccia: non<br />

si poteva salire, bisognava ritornare a casa. Più tar<strong>di</strong> seppi che lui,<br />

accompagnato da uno del luogo, perlustrò il fronte. Vide che i<br />

nazifascisti avevano iniziato l’accerchiamento, constatò l’imponente<br />

numero <strong>di</strong> uomini, armi e automezzi che avevano gli attaccanti, vide


116 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

squadroni <strong>di</strong> ucraini delle SS, battaglioni fascisti, soldati <strong>di</strong> varie<br />

specialità; al contrario verificò che i nostri commilitoni partigiani<br />

non avevano cannoni e mortai, ma solo armi leggere, rilevò che le<br />

postazioni approntate erano assolutamente modeste, si convinse<br />

che l’aiuto <strong>di</strong> pochi uomini, sprovvisti <strong>di</strong> armamento pesante, non<br />

avrebbe mo<strong>di</strong>ficato in alcun modo l’esito dello scontro. Se ne tornò<br />

sconsolato anche perché riuscì a uscire da quel campo <strong>di</strong> battaglia<br />

solo perché gli fece da guida uno che conosceva tutti gli anfratti <strong>di</strong><br />

quei luoghi.<br />

Molto più tar<strong>di</strong> venni anche a conoscenza che il comandante<br />

del battaglione Mazzini, Masaccio, che si trovava in pianura, fu<br />

informato da una donna, che faceva il doppio gioco, <strong>di</strong> quanto<br />

stavano preparando i Tedeschi per eliminare il nodo dei partigiani<br />

sul Grappa. Salì subito e consigliò il Comitato, che raggruppava<br />

i comandanti dei vari reparti <strong>di</strong>slocati nel Massiccio, come è<br />

precisato in alcuni comunicati, <strong>di</strong> fare una lotta <strong>di</strong> movimento,<br />

con ritirate strategiche per salvare quanto più possibile gli uomini<br />

impegnati. Qualcuno del Comitato propose anche <strong>di</strong> abbandonare<br />

temporaneamente il Grappa perché <strong>di</strong> facile accerchiamento.<br />

La maggioranza dei comandanti però fu per la guerra <strong>di</strong> posizione<br />

e <strong>di</strong> resistenza a oltranza. Questo fu dovuto al fatto che un<br />

rappresentante della Missione inglese assicurò rifornimenti <strong>di</strong> armi<br />

pesanti, a mezzo <strong>di</strong> una superfortezza volante, e che era imminente<br />

uno sbarco <strong>di</strong> accerchiamento dei marines nell’alto Adriatico,<br />

per cui il Grappa sarebbe stato una valida testa <strong>di</strong> ponte. Questa<br />

<strong>di</strong>chiarazione fu poi ritenuta sconcertante perché non ebbe seguito.<br />

Dopo molti anni si venne invece a sapere che effettivamente il<br />

primo ministro inglese Churchill, nel 1944, patrocinava uno sbarco<br />

nel Veneto, presso Caorle, e un lancio <strong>di</strong> paracadutisti nella zona del<br />

Grappa.<br />

Questa azione era prevista per tagliare la ritirata dall’Italia delle<br />

truppe tedesche, prima che le armate russe arrivassero in Jugoslavia,<br />

per sottrarre quel paese al comunismo. Gli Americani invece<br />

preferirono lo sbarco in Norman<strong>di</strong>a. La mancanza <strong>di</strong> vali<strong>di</strong> aiuti per<br />

i nostri partigiani del Grappa produsse una conseguenza nefasta.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

117<br />

Tutti noi sapemmo subito che le truppe d’assalto nazifasciste<br />

erano formate da parecchi soldati, ma nessuno pensava fosse<br />

così imponente il numero. La storiografia precisa che erano<br />

quin<strong>di</strong>cimila, perfettamente armati anche <strong>di</strong> cannoni, per snidare<br />

meno <strong>di</strong> millecinquecento patrioti poco armati. Certamente nessun<br />

comandante partigiano, né lo stratega alleato che consigliò la<br />

resistenza ad oltranza, pensarono a una così marcata sproporzione <strong>di</strong><br />

uno contro <strong>di</strong>eci. L’impari lotta durò dal 23 al 26 settembre 1944 e<br />

in quel teatro <strong>di</strong> guerra ben pochi riuscirono a salvarsi.<br />

Vi fu un tremendo ecci<strong>di</strong>o e quei partigiani furono da subito<br />

chiamati “Martiri del Grappa”. Se io avessi ricevuto l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

partire, certamente non sarei qui a parlare <strong>di</strong> quella lotta!<br />

La sorte volle che il Grappa, già famoso per le battaglie della Prima<br />

Guerra Mon<strong>di</strong>ale, <strong>di</strong>venisse anche per la Seconda luogo <strong>di</strong> scontri<br />

eroici e <strong>di</strong> morti gloriose. La storiografia ha scritto che quei quattro<br />

epici giorni del settembre 1944 portarono un risultato terrificante:<br />

171 impiccati, 603 fucilati, 804 deportati nei lager tedeschi, dei quali<br />

600 morirono in Germania, 285 case e stalle date alle fiamme.<br />

Quei soldati delle SS, che erano volontari stranieri, e quei militi<br />

fascisti che erano invece italiani, unitamente ai loro superiori si<br />

<strong>di</strong>mostrarono colmi <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sumanità sconcertante.<br />

Proprio il 26 settembre 1944, fati<strong>di</strong>co giorno finale dell’ecci<strong>di</strong>o,<br />

quando ancora l’esito della battaglia non era <strong>di</strong> dominio pubblico,<br />

mi successe un fatto che non ho mai <strong>di</strong>menticato. Verso le sette e<br />

trenta <strong>di</strong> mattina si presentò a casa mia il camilliano padre Odone<br />

Nicolini, che io ben conoscevo. Mi chiese se potevo accompagnarlo<br />

in bicicletta a Bassano del Grappa: accettai e partimmo. Fu per<br />

me un giorno <strong>di</strong> tensione e <strong>di</strong> paura che superai solo perché quel<br />

religioso mi confortò con la sua forza d’animo sacerdotale veramente<br />

e<strong>di</strong>ficante. Di questo episo<strong>di</strong>o parlerò più avanti nel capitolo che<br />

riguarda il frate camilliano.<br />

Conseguenze della rovinosa battaglia del Grappa<br />

La battaglia del Grappa fu una tremenda lezione per noi partigiani<br />

e un forte monito per gli Alleati. Molti nostri comandanti si


118 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

convinsero della necessità <strong>di</strong> un coor<strong>di</strong>namento generale per creare<br />

una articolata capacità <strong>di</strong> sostegni vicendevoli; gli Alleati si resero<br />

conto che gli Italiani erano sì <strong>di</strong>sposti alla lotta, ma che avevano<br />

bisogno <strong>di</strong> armamenti: fu così che intensificarono i lanci <strong>di</strong> armi ed<br />

esplosivi e non fecero più promesse.<br />

La <strong>di</strong>sfatta del Grappa portò un forte inasprimento dei controlli<br />

nazifascisti specialmente nelle nostre contrade poste alla base delle<br />

Prealpi, dove io vivevo. La Gestapo, la polizia segreta <strong>di</strong> Hitler,<br />

certamente si era accorta che quasi tutti i prigionieri del Grappa<br />

provenivano dai paesi contermini. In aggiunta poi, forse vi fu qualche<br />

notizia compromettente trovata nelle tasche dei reclusi e sicuramente<br />

vi furono delle confessioni estorte con bastonature a sangue. Tutte<br />

quelle rivelazioni spinsero il Comando tedesco a fare continui controlli<br />

sul nostro territorio. Riuscirono a sequestrare armi e a imprigionare<br />

i comandanti <strong>di</strong> alcuni reparti: dovemmo limitare le nostre azioni <strong>di</strong><br />

sabotaggio, però aumentarono le nostre ricognizioni sui movimenti<br />

delle truppe nazifasciste.<br />

Uno dei primi giorni dell’ottobre 1944, verso l’imbrunire, partecipai<br />

a una azione contro una colonna <strong>di</strong> cinque o sei camion portatruppe,<br />

pieni <strong>di</strong> soldati tedeschi armati. Il mio comandante <strong>di</strong> compagnia,<br />

Buonconsiglio, era stato informato dell’itinerario che doveva fare quel<br />

convoglio sulla strada Valsugana, in località Belvedere. Preparò un<br />

agguato. In zona aperta vi era la Villa Ca’ Dolce posta entro un grande<br />

parco cintato. Il comandante Buonconsiglio, io e altri due partigiani<br />

ci nascondemmo all’interno delle mura che fiancheggiavano la strada.<br />

Eravamo forniti <strong>di</strong> grossi chio<strong>di</strong> a tre punte e ci mettemmo <strong>di</strong>stanziati<br />

nel bosco su un lungo tratto <strong>di</strong> strada. Lasciammo passare i due<br />

motociclisti <strong>di</strong> staffetta e poi gettammo i chio<strong>di</strong>. Almeno tre camion<br />

si fermarono. Scappando verso l’aperta campagna sentimmo grida e<br />

imprecazioni.<br />

Pochi giorni dopo fui ricercato da una pattuglia tedesca. Fui però<br />

fortunato perché una omonimia mi salvò. In paese poco lontano da<br />

me abitava un altro Attilio Bizzotto, mio lontano parente che aveva<br />

pressappoco la mia stessa età. Una pattuglia <strong>di</strong> soldati tedeschi si<br />

presentò nella casa dell’altro Attilio per arrestarlo. Trovarono solo la


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

119<br />

madre la quale spiegò ai soldati che il figlio lavorava da meccanico<br />

sotto una <strong>di</strong>tta tedesca. Sicuramente quei soldati controllarono<br />

e certamente pensarono che il nome Attilio Bizzotto fosse stato<br />

erroneamente incluso nelle liste <strong>di</strong> arresto. Infatti nessuno poi venne<br />

a cercarmi.<br />

Subito mio padre venne a sapere <strong>di</strong> quella ricerca, io perciò <strong>di</strong>venni<br />

sempre più vigile ed attento nel tenermi lontano dai soldati tedeschi<br />

per evitare ogni controllo.<br />

Il 18 ottobre i Tedeschi catturarono il mio comandante <strong>di</strong> compagnia<br />

Sante Bernar<strong>di</strong> detto Buonconsiglio. Io, che vivevo alla macchia,<br />

vi<strong>di</strong> da lontano come lo presero: lo snidarono bruciando totalmente<br />

tutta la casa e le a<strong>di</strong>acenze. Fu condotto nella vicina Ca’ Dolfin dove<br />

c’era una prigione e dove facevano i primi interrogatori. Poco dopo<br />

prelevarono dalle loro case il mio comandante Erminio Sgarbossa<br />

detto Fricco, e anche mio fratello Giuseppe; pure essi furono portati<br />

a Ca’ Dolfin.<br />

Visti quei continui imprigionamenti io, su consiglio <strong>di</strong> padre Nicolini,<br />

iniziai a lavorare per i Tedeschi.<br />

Lo stesso consiglio lo ricevettero anche due miei cugini, Galiano<br />

Bizzotto e Angelo Sgarbossa. Fu così che per alcune settimane<br />

facemmo i boscaioli a Lonigo, assieme a una dozzina <strong>di</strong> cittadellesi.<br />

L’abbiamo fatto per avere il tesserino che ci permetteva girare in<br />

tranquillità, senza pericoli <strong>di</strong> arresti, e svolgere nel contempo quelle<br />

incombenze che i nuovi comandanti partigiani ci assegnavano.<br />

Nei boschi tagliammo e sfrondammo, con sega ed ascia, quegli alberi<br />

che i soldati tedeschi <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a ci in<strong>di</strong>cavano. Era un lavoro che<br />

conoscevo personalmente perché d’inverno lo facevo nei campi <strong>di</strong><br />

famiglia. Fra quei soldati <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a c’era un anziano che sicuramente<br />

era un esperto <strong>di</strong> quel mestiere e che mi prese subito a ben volere, visto<br />

come io sapevo ben maneggiare ascia e sega; fu così che mi chiamava<br />

quando c’erano tagli rischiosi.<br />

Noi vivevamo in baracca e avevamo a <strong>di</strong>sposizione cibo e vino.<br />

Successe che un giorno il mio parente Galiano Bizzotto bevve più del<br />

solito e si ubriacò. Cominciò a chiamare “cruchi” i Tedeschi, i quali<br />

sapevano che era una parola italiana offensiva per loro.


120 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Uno della guar<strong>di</strong>a lo prese, lo portò nel suo ufficio forse per punirlo o<br />

per denunciarlo. Io allora ricorsi al tedesco che mi portava simpatia e<br />

gli spiegai, come potevo, che il parente era ubriaco e che non sapeva<br />

quel che <strong>di</strong>ceva. Fortunatamente costui si interpose, spiegò che la<br />

causa era il troppo vino bevuto: il parente fu rilasciato.<br />

In quel torno <strong>di</strong> tempo si <strong>di</strong>stinse nel tenerci un po’ allegri, l’altro mio<br />

cugino Angelo Sgarbossa.<br />

Egli era un insegnante, era l’organista della chiesa, amava <strong>di</strong>r facezie<br />

e organizzare comme<strong>di</strong>e: ci tenne un po’ <strong>di</strong>stesi con le sue trovate.<br />

Finito il lavoro, dopo alcune settimane ci rimandarono a casa senza<br />

però ritirarci il tesserino, forse perché pensavano <strong>di</strong> richiamarci, invece<br />

fortunatamente non ci chiamarono più a far lavori. Intanto mio padre<br />

e la cugina Clara Sgarbossa giornalmente andavano a Ca’ Dolfin in<br />

bici per portare da mangiare ai reclusi Giuseppe ed Erminio.<br />

I contenitori dei cibi erano dei pentolini speciali <strong>di</strong> lamiera smaltata,<br />

allora molto usati dagli operai che pranzavano sul posto <strong>di</strong> lavoro.<br />

Erano <strong>di</strong> forma piatta, oblunga e avevano la capacità <strong>di</strong> circa un litro.<br />

Sopra avevano infilata a cannocchiale una scodellina: in pratica si<br />

versava sotto la minestra, sopra nella scodellina il companatico.<br />

Il pentolino aveva un coperchio, che serrava ermeticamente il<br />

contenuto, ed era manovrato da un grosso pomolo. Questo non era<br />

avvitato o saldato ma stampato col restante, per cui aveva all’interno<br />

una cavità e un foro. Qui mio padre e la Clara nascondevano i<br />

messaggi, oggi <strong>di</strong>remmo i “pizzini”, e chiudevano il foro con mollica.<br />

Le varie ispezioni non riuscirono mai a trovare alcunché perché il<br />

pentolino prima <strong>di</strong> partire veniva immerso per vario tempo in acqua<br />

calda, non solo per riscaldare il cibo, ma anche per provocare una forte<br />

evaporazione che formava all’interno un velo continuo <strong>di</strong> goccioline. In<br />

aggiunta poi portavano anche tabacco trinciato e cartine per sigarette:<br />

allora era molto comune arrotolare da sé le cartine per farsi le sigarette.<br />

Il trinciato lo ricavavamo dalle foglie <strong>di</strong> tabacco che andavamo a<br />

comperare nei paesetti dell’alto Brenta e che sminuzzavamo con le<br />

forbici da potare le viti. Tutto questo era per creare un forte legame coi<br />

reclusi perché essi si sentissero sorretti dall’amore dei parenti. Dopo<br />

alcune settimane mio fratello fu liberato, il cugino Fricco invece fu


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

121<br />

mandato a Vicenza nella prigione <strong>di</strong> San Biagio, luogo dove io poi<br />

accompagnai varie volte il padre Nicolini.<br />

Tra ottobre e novembre 1944 mi capitò un fatto che avrei voluto<br />

finisse in modo migliore. Una mattina, ritornando dalla casa<br />

dell’ingegnere Brunetta che custo<strong>di</strong>vo, entrando nella nostra stalla<br />

mi si pararono davanti due soldati nazisti della SS: stavano parlando<br />

col cugino Galiano perché cercavano un soldato inglese che era<br />

fuggito dal campo <strong>di</strong> concentramento e l’avevano visto aggirarsi nei<br />

nostri paraggi. Non mi inquisirono perché mostrai il tesserino <strong>di</strong><br />

lavoro rilasciatomi dai Tedeschi, però pretesero che io aprissi tutte le<br />

porte che essi vedevano: ispezionarono dappertutto. Non trovarono<br />

il soldato e se ne partirono con le loro motociclette, visibilmente<br />

contrariati. Quando cessò il rumore dei motori Galiano mi <strong>di</strong>sse:<br />

”Ce la siamo cavata bene” e, senza profferir parola, mi condusse in<br />

un localetto defilato che noi usavamo come cantina. Aperta la porta<br />

vi<strong>di</strong> un soldato inglese a cavalcioni <strong>di</strong> una botte. Si cominciò a parlare<br />

con mezze parole e molti gesti. Mi parve in affanno e così cercai <strong>di</strong><br />

fargli capire che andavo a prendergli dei viveri. Credendo <strong>di</strong> essermi<br />

spiegato, io e Galiano andammo nella mia cucina a fare i prelievi.<br />

Ritornati con un pacchetto <strong>di</strong> pane, salame e vino, non lo trovammo:<br />

era fuggito. Rimasi sconcertato, io ce l’avevo messa tutta per <strong>di</strong>rgli che<br />

eravamo amici e che gli avrei procurato del cibo per aiutarlo nella fuga<br />

verso i boschi montani, ma non ero riuscito a spiegarmi!<br />

Inverno 1944 – 1945<br />

La per<strong>di</strong>ta del Grappa e i successivi rastrellamenti <strong>di</strong> uomini e armi<br />

spinsero i comandanti superstiti a riorganizzare i resti dei reparti<br />

rimasti. Fu così che Masaccio, comandante del battaglione Mazzini,<br />

all’inizio <strong>di</strong> ottobre riuscì a riunire i vari gruppi nella nuova brigata<br />

“I Martiri del Grappa”. Il comandante eletto fu Masaccio stesso, io<br />

<strong>di</strong>venni membro <strong>di</strong> questa nuova formazione perché vi confluirono<br />

i resti <strong>di</strong> “Italia libera”. Furono intensificati i collegamenti con gli<br />

Alleati e questi, certamente convinti <strong>di</strong> non aver dato sufficienti aiuti<br />

prima della battaglia del Grappa, risposero con massicci aviolanci<br />

soprattutto <strong>di</strong> esplosivi. Iniziarono meto<strong>di</strong>ci e mirati sabotaggi per


122 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

<strong>di</strong>sarticolare i rifornimenti alle truppe nazifasciste, per creare panico<br />

e <strong>di</strong>sorientamento fra le truppe che controllavano il territorio e anche<br />

per infervorare i patrioti.<br />

Mentre infuriava la lotta senza quartiere contro i nazifascisti, l’8<br />

febbraio 1945 <strong>di</strong>venne realtà quello che vari comandanti partigiani<br />

auspicavano da tempo: la creazione <strong>di</strong> un Comando Unico Veneto.<br />

Ben sei brigate, prima operanti in modo autonomo, e fra queste la<br />

“Martiri del Grappa”, furono unificate nella nuova <strong>di</strong>visione “Monte<br />

Grappa”. Per il comando fu chiamato un colonnello dell’ex esercito<br />

italiano che era fuggito dai lager tedeschi e si era rifugiato nelle prealpi<br />

venete: egli prese il nome <strong>di</strong> battaglia Pizzoni.<br />

Contemporaneamente fu istituito il CLNV (Comitato <strong>di</strong> Liberazione<br />

Nazionale del Veneto) formato da rappresentanti <strong>di</strong> tutti i partiti <strong>di</strong><br />

allora (DC – PCI – PSI – PLI – PRI – PdA), il cui capo <strong>di</strong>venne<br />

l’avv. Gavino Saba<strong>di</strong>n. La nuova <strong>di</strong>rezione impresse da subito una<br />

<strong>di</strong>namicità organica e simultanea tale da <strong>di</strong>sorientare i Tedeschi<br />

<strong>di</strong>ssuadendoli dal ricorrere a ritorsioni sistematiche.<br />

La forte pressione contro i Tedeschi e i fascisti risvegliò in molti<br />

giovani l’amore alla libertà, per cui sorsero nuovi gruppi pronti alla<br />

lotta. Mi fa piacere ora ricordare che il mio concitta<strong>di</strong>no avv. Gavino<br />

Saba<strong>di</strong>n riuscì a favorire la formazione <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> tre brigate che<br />

egli denominò tutte “Damiano Chiesa”.<br />

Il più famoso e spettacolare caso <strong>di</strong> sabotaggio fu quello contro il<br />

ponte vecchio <strong>di</strong> Bassano il cosiddetto ponte degli alpini, che era<br />

l’unico ponte rimasto in pie<strong>di</strong> sul fiume Brenta, dopo che gli Alleati<br />

avevano <strong>di</strong>strutto tutti gli altri con bombardamenti aerei.<br />

Questo attacco fu fatto dalla mia Brigata Martiri del Grappa, su or<strong>di</strong>ne<br />

del Comando Unico Veneto, e <strong>di</strong> esso parlerò dettagliatamente nel<br />

capitolo Masaccio. Mentre succedevano questi fatti io ero fortemente<br />

impegnato nel porgere aiuti alla famiglia del mio comandante<br />

<strong>di</strong> plotone Fricco. Suo padre, mio zio, conduceva e lavorava<br />

personalmente un podere <strong>di</strong> una decina <strong>di</strong> campi forniti <strong>di</strong> una stalla<br />

con quattro bovini. Quando Fricco fu imprigionato, nell’ottobre, suo<br />

padre cominciò a deperire essendo fortemente inquieto perché erano<br />

note le mortali bastonature a sangue usate dagli inquirenti.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

123<br />

Il sei gennaio del 1945 morì <strong>di</strong> crepacuore. Io che avevo già iniziato<br />

ad aiutarlo alle prime avvisaglie della malattia, sentii l’obbligo morale<br />

<strong>di</strong> assumermi tutti i lavori agricoli della famiglia <strong>di</strong> Fricco. L’ho fatto<br />

anche perché i miei fratelli Gaspare e Giuseppe, pur continuando a<br />

fare il loro mestiere <strong>di</strong> falegname, davano un aiuto a mio padre nei<br />

lavori agricoli. I fratelli del cugino erano invece scolari o studenti. Fu<br />

così che ogni giorno governavo la stalla, mungevo le vacche, lavoravo<br />

i campi; poi, quando potevo, davo anche una mano a mio padre nella<br />

nostra stalla: ovvero la giornata piena <strong>di</strong> lavoro.<br />

Alla morte dello zio Agostino Sgarbossa, il camilliano Odone Nicolini<br />

volle <strong>di</strong> persona avvisare il figlio Erminio perché era molto amico <strong>di</strong><br />

tutta la famiglia. Io lo accompagnai in bici fino alle prigioni <strong>di</strong> Vicenza.<br />

Non partecipai al colloquio del sacerdote col prigioniero, però nel<br />

ritorno il Nicolini mi <strong>di</strong>sse come erano andate le cose. Dopo aver<br />

confortato il detenuto, Nicolini si rivolse al <strong>di</strong>rigente della prigione<br />

esprimendogli il desiderio <strong>di</strong> tutti i parenti che chiedevano la presenza<br />

del figlio ai funerali. La prima risposta fu un no, poi <strong>di</strong>alogando e<br />

insistendo Nicolini ottenne la proposta <strong>di</strong> lasciarlo partire, purché<br />

fosse stato accompagnato da due soldati della SS, ma Fricco non<br />

accettò quella proposta.<br />

Talvolta dopo il lavoro <strong>di</strong>urno mi fermavo dalla zia fino a tar<strong>di</strong> e spesso<br />

a dormire là, per ascoltare ra<strong>di</strong>o Londra, andando in una casa vicina<br />

posta in mezzo ai campi, dalla quale si poteva controllare se arrivavano<br />

le ispezioni, proprio come facevo prima quando il comandante Fricco<br />

era libero. Rimanevo <strong>di</strong> notte dagli Sgarbossa anche perché la zia e<br />

i cugini avevano paura, e la presenza <strong>di</strong> un uomo giovane dava loro<br />

coraggio. Io poi continuavo a tenermi informato delle azioni militari<br />

partigiane dai vecchi amici, anche se non ero <strong>di</strong>rettamente chiamato<br />

dai miei comandanti, giacché sapevano delle mie gravose incombenze,<br />

d’altra parte i partigiani più impegnati erano gli artificieri. Venni anche<br />

a sapere che, nonostante la mancanza <strong>di</strong> Fricco, i contatti ra<strong>di</strong>o erano<br />

aumentati come anche i rifornimenti che piovevano dal cielo. Fu allora<br />

che mi tornò alla mente una frase detta da Fricco quando alla sera<br />

andavo da lui per ascoltare ra<strong>di</strong>o Londra e/o ricevere or<strong>di</strong>ni. Una volta<br />

improvvisamente <strong>di</strong>sse: “I fratelli Rocco fanno un buon lavoro”.


124 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Lì per lì non feci nessun collegamento con la ra<strong>di</strong>otelefonia della<br />

Resistenza, poi lentamente mi resi conto che i Rocco lavoravano<br />

nei collegamenti con gli Alleati. Sulle prime io ritenevo che da noi<br />

i contatti con gli angloamericani fossero tenuti solamente da Fricco,<br />

anche perché come ho già detto ero stato presente ad alcune sue<br />

trasmissioni in inglese; poi però, quando Fricco fu imprigionato e<br />

sentendo che i collegamenti continuavano capii che questi erano<br />

opera dei fratelli Rocco, Angelo e Elio. Ho tratto questa conclusione<br />

perché sapevo che Angelo era un ra<strong>di</strong>otelegrafista dei sommergibili.<br />

Io e i Rocco abitavamo vicini e prima della guerra ho giocato con<br />

Elio, il più giovane, che era mio coetaneo: io abitavo a Ca’ Moro,<br />

loro a Belvedere, due frazioni contermini però con comuni e province<br />

<strong>di</strong>verse. Mio papà quando, andava nella filanda sita a Belvedere, io lo<br />

accompagnavo. Là trovavo Elio Rocco, perché suo padre era uno della<br />

filanda, e così giocavamo assieme.<br />

Dopo la guerra non li ho più visti, ma venni a conoscere la loro grande<br />

e utile attività svolta per i partigiani del nord – est. Il loro gruppo<br />

d’azione era chiamato Missione MRS (Mazzini Rocco Service) sul<br />

quale ho ricevuto poi delle precisazioni. Il Marini si chiamava Renato,<br />

era <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, e prestava il suo servizio come ufficiale dell’aviazione.<br />

Costui e Angelo Rocco si trovavano al Sud d’Italia quando gli Alleati<br />

la invasero. Si misero subito a <strong>di</strong>sposizione degli angloamericani che,<br />

nell’ottobre 1943, li trasportarono via mare fino a S. Benedetto del<br />

Tronto, dove nottetempo sbarcarono con ricetrasmittenti. Saliti<br />

lentamente al nord arrivarono nella nostra zona. Contattarono l’avv.<br />

Saba<strong>di</strong>n <strong>di</strong> Cittadella e iniziarono la loro preziosa opera informativa<br />

assieme a Elio Rocco ed altri.<br />

A poco a poco l’attività si estese in varie parti delle province <strong>di</strong><br />

Vicenza, Treviso, Venezia, <strong>Padova</strong>. Queste trasmissioni davano forti<br />

preoccupazioni ai Tedeschi e le SS tentarono parecchie volte <strong>di</strong><br />

interromperle facendo perquisizioni per scovare le apparecchiature.<br />

Arrivarono perfino a fare un blitz nella Basilica del Santo a <strong>Padova</strong> che<br />

godeva anche allora del privilegio <strong>di</strong> extraterritorialità.<br />

Ai fratelli Rocco e al Marini fu concessa la medaglia d’argento al valor<br />

militare.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

125<br />

Aprile 1945<br />

Per noi della <strong>di</strong>visione Monte Grappa fu il mese della riscossa<br />

generale, perché si riuscì a risolvere situazioni precarie e pericolose<br />

prima dell’arrivo delle armate alleate nelle nostre terre. Si sapeva<br />

da Ra<strong>di</strong>o Londra che ai primi <strong>di</strong> aprile 1945 l’esercito russo era<br />

arrivato ai confini dell’Austria, allora regione annessa al Grossreich<br />

hitleriano, e che gli Alleati partiti dal sud Italia stavano per arrivare<br />

al nostro fiume Po. Così pure si sapeva che tutto il territorio<br />

germanico era sottoposto a una violenta pressione delle armate<br />

alleate sul fronte ovest e <strong>di</strong> quelle russe sul fronte est. Ormai le<br />

reazioni dei nazifascisti ai vari e continui sabotaggi erano deboli<br />

e non venivano più puniti con feroci rappresaglie: forse sentivano<br />

ormai imminente il loro sfacelo. Io che avevo vissuto appartato nei<br />

primi mesi del 1945, svolgendo pesanti impegni parentali, sentii<br />

dentro il mio spirito l’urgente bisogno <strong>di</strong> fare qualcosa per la Libertà<br />

come negli anni precedenti. Così mi presentai al CLN <strong>di</strong> Cittadella<br />

per essere impegnato in qualche azione della Resistenza. Gli eventi<br />

<strong>di</strong> quella seconda metà <strong>di</strong> aprile furono un susseguirsi <strong>di</strong> piccoli e<br />

gran<strong>di</strong> episo<strong>di</strong> che ho vissuto in modo esaltante tanto da non fissare<br />

completamente nei ricor<strong>di</strong> tutti i nomi e le date che caratterizzarono<br />

quei giorni. In quel torno <strong>di</strong> tempo venni a sapere che il mio primo<br />

comandante Negri era arrivato a casa e che partecipava alle battaglie<br />

finali. Il Negri, imprigionato, bastonato e condannato a morte<br />

dal tribunale fascista <strong>di</strong> Bassano, fu fortunosamente prima posto<br />

in carcere duro e poi inviato nei lager nazisti. Fu mandato in un<br />

campo <strong>di</strong> concentramento del sud – est della Germania, in pratica<br />

nell’Austria orientale, dove arrivarono ai primi <strong>di</strong> aprile le armate<br />

russe così tutti i prigionieri furono liberi. Negri, sempre molto<br />

determinato, si mise in cammino e presto arrivò a casa.<br />

Soprattutto nella seconda metà <strong>di</strong> quell’aprile i partigiani scatenarono<br />

una <strong>di</strong>ffusa guerriglia tra il Brenta e il Piave. Riuscirono a cacciare o<br />

a fare prigionieri tedeschi e fascisti. Qua e là reparti repubblichini,<br />

per rifarsi una verginità, affiancarono i partigiani.<br />

Il 28 aprile fu un giorno cruciale per Cittadella e, per meglio capire<br />

gli eventi, mi permetto fare delle precisazioni topografiche sulla mia


126 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

città. Essa aveva e ha il centro storico con numerosi abitanti cintato<br />

completamente da mura me<strong>di</strong>oevali, con tutto attorno varie frazioni<br />

tra le quali Ca’ Moro luogo della mia residenza. Entro le mura vi era<br />

la vita pulsante <strong>di</strong> tutto il Comune con la sede municipale. Quando<br />

ancora non esistevano le attuali numerose autostrade, Cittadella era<br />

uno snodo stradale <strong>di</strong> importanti vie <strong>di</strong> comunicazione. Da sud a<br />

nord è attraversata dalla Statale <strong>Padova</strong>-Trento e da ovest a est da<br />

quella che collega Vicenza a Treviso.<br />

Quel giorno ventotto fu per noi cittadellesi pieno <strong>di</strong> tragiche paure<br />

che io ho vissuto da vicino.<br />

Il CLN ormai governava il centro storico e aveva provveduto per la<br />

sua <strong>di</strong>fesa. Le porte delle mura erano sbarrate da tronchi <strong>di</strong> alberi,<br />

cavalli <strong>di</strong> frisia e sacchetti <strong>di</strong> sabbia, là erano <strong>di</strong>slocate pattuglie <strong>di</strong><br />

controllo, come anche sulle mura. Proprio quella mattina passai<br />

prima a chiedere notizie <strong>di</strong> Erminio, mio capo plotone imprigionato<br />

a Vicenza, poi andai in municipio per mettermi a <strong>di</strong>sposizione<br />

del CLN che vi risiedeva. Per primo incontrai Bino Rebellato,<br />

comandante partigiano, che alla mia richiesta <strong>di</strong> come andavano<br />

le cose, scosse energicamente la testa: lo vi<strong>di</strong> molto preoccupato.<br />

Dalle varie staffette che arrivavano e partivano venni a sapere che<br />

una lunga colonna <strong>di</strong> truppe tedesche con camion e carri armati<br />

era in marcia <strong>di</strong> avvicinamento da <strong>Padova</strong> verso <strong>di</strong> noi. La colonna<br />

poi si era fermata a Ca’ Nave, a pochi chilometri dal centro, e da<br />

là fu inviato in avanscoperta un reparto che si presentò nel primo<br />

pomeriggio alla porta <strong>Padova</strong> del castello. Dopo aver appostato<br />

alcuni plotoni <strong>di</strong> fucilieri e un cannone, un sottufficiale tedesco<br />

superò i primi sbarramenti, ma fu fermato da un patriota armato<br />

con un fucile mitragliatore.<br />

Era costui il partigiano avvocato Carmelio Conz che era stato<br />

liberato il giorno prima dalle carceri <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, dopo tre mesi <strong>di</strong><br />

reclusione, e che era ritornato a casa. In quella mattina stessa si era<br />

messo a <strong>di</strong>sposizione del CLN, che l’aveva <strong>di</strong>rettamente incaricato<br />

<strong>di</strong> andare a presiedere porta <strong>Padova</strong>, dove avrebbe trovati altri<br />

partigiani, consegnandogli armi e munizioni.<br />

Conz iniziò un <strong>di</strong>alogo col tedesco fatto <strong>di</strong> mezze parole e <strong>di</strong> molti


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

127<br />

gesti, mentre nel contempo mandò una staffetta a cercare padre<br />

Nicolini che era il consueto interlocutore con i Tedeschi. Il fatto era<br />

che i Tedeschi volevano entrare entro le mura senza combattere, sia<br />

perché quello era un luogo che si prestava a una eventuale <strong>di</strong>fesa, sia<br />

perché dovevano congiungersi là con altre due colonne provenienti<br />

da est e ovest per formare poi un fronte <strong>di</strong> sbarramento nella vicina<br />

Fontaniva, a sinistra del Brenta. Nell’attesa dell’arrivo dell’interprete<br />

furono precisati i motivi del contendere: i Tedeschi volevano entrare<br />

nel centro città. Conz rispose che era cosa impossibile perché era<br />

presieduto da duemila uomini armati e che se i Tedeschi volevano<br />

andare verso nord, dovevano girare attorno alle mura.<br />

Col Nicolini poi il <strong>di</strong>alogo si fece serrato. Intanto un ufficiale tedesco<br />

chiese anche la presenza al <strong>di</strong>alogo del Sig. Angelo Pasquale, del quale<br />

conosceva la probità, per essere rassicurato sulla veri<strong>di</strong>cità <strong>di</strong> quanto<br />

veniva detto. Quell’ufficiale conosceva bene il Pasquale perché costui,<br />

avendo una fabbrica <strong>di</strong> liquori, andava <strong>di</strong> persona in Germania a<br />

comperare le essenze che gli abbisognavano e ogni volta soggiornava<br />

nell’albergo gestito dal padre <strong>di</strong> quel tenente. Arrivò per partecipare<br />

alla <strong>di</strong>scussione anche il generale comandante delle truppe ferme<br />

sulla strada per Cittadella. Costui poco dopo però venne a sapere<br />

per ra<strong>di</strong>otelefono che la <strong>di</strong>visione proveniente da Ovest, sulla strada<br />

Vicenza – Cittadella, era stata attaccata e fermata dai partigiani prima<br />

<strong>di</strong> arrivare alla riva destra del Brenta, cioè prima <strong>di</strong> Fontaniva.<br />

Volle andare a controllare <strong>di</strong> persona: capì che le due colonne non<br />

potevano riunirsi, accettò le proposte fattegli a mezzo <strong>di</strong> padre<br />

Nicolini. Il giorno 28 stava per finire.<br />

I Tedeschi passarono al <strong>di</strong> fuori delle mura verso nord, i partigiani non<br />

fecero alcun attacco e ai Tedeschi furono restituiti quella quarantina<br />

<strong>di</strong> soldati e ufficiali che erano stati imprigionati durante la liberazione<br />

del centro storico. Noi cittadellesi avevamo superato il pericolo <strong>di</strong><br />

essere prima bombardati dai Tedeschi, che volevano entrare nella<br />

roccaforte, e poi dagli Alleati che avrebbero sicuramente bombardato<br />

pesantemente Fontaniva e Cittadella, se i Tedeschi fossero riusciti ad<br />

attestarsi sul Brenta. Finalmente passò l’incubo e io tornai a casa.<br />

Se qualcuno poi volesse sapere in toto lo sviluppo <strong>di</strong> quelle trattative,


128 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

può leggerle nel libro <strong>di</strong> Guerrino Citton “Il prete partigiano” (che è<br />

padre Odone Nicolini) da pagina 257 a pagina 268.<br />

Il giorno dopo ritornai dai cugini per andare assieme a prelevare<br />

Erminio dalle prigioni <strong>di</strong> San Biagio a Vicenza. Avevo pensato<br />

che Vicenza fosse stata liberata, perché la colonna tedesca era stata<br />

fermata dai partigiani a vari chilometri da quella città proprio sui<br />

confini della provincia <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>.<br />

Andammo in bici io, Clara e qualche amico. Arrivati vedemmo<br />

uscire dal portone delle prigioni un gruppetto <strong>di</strong> detenuti, fra questi<br />

Erminio. Che gioia! Teneva in mano solo un oggetto che poi capii<br />

essere <strong>di</strong> mollica <strong>di</strong> pane rafferma sostenuta da stecchini: lo aveva<br />

fatto per passare il tempo e lo tenne per ricordo. Lo montammo a<br />

turno sulle nostre bici.<br />

Arrivammo a casa nel primo pomeriggio, trovammo tutti in grande<br />

festa: erano arrivati gli Alleati! Per noi ritornati da Vicenza per i<br />

parenti e per gli amici doppia festa e doppia allegria. L’Erminio, ex<br />

Fricco, fu subito richiesto dal CLN per fare l’interprete, perché il<br />

responsabile militare della città usava un inglese con tante parole in<br />

gergo e non sempre veniva capito dall’interprete.<br />

Così fu chiamato Erminio che conosceva molto bene ogni espressione<br />

in lingua inglese avendo fatto le scuole inferiori e superiori in America.<br />

Ricordo che lui mi <strong>di</strong>sse parecchie volte la prima frase che tradusse <strong>di</strong><br />

quell’ufficiale alleato: “Se dovete uccidere dei fascisti per ven<strong>di</strong>carvi dei<br />

torti subiti fatelo entro domani (30 aprile); poi non sarà più concesso<br />

uccidere, ma solo fare prigionieri”. A Cittadella però nessuno fu ucciso<br />

nonostante quella possibilità sancita dal comandante militare.<br />

Intanto quella colonna che aveva aggirata Cittadella e le altre<br />

provenienti da Est e che dovevano congiungersi, furono furiosamente<br />

attaccate dai partigiani ormai armati anche <strong>di</strong> armi pesanti. Le<br />

compatte schiere tedesche si sfaldarono, furono fatti tanti prigionieri<br />

consegnati poi agli Americani.<br />

Molti soldati tedeschi però riuscirono a fuggire fra i campi,<br />

organizzandosi fra loro in gruppi per raggiungere la Germania<br />

a pie<strong>di</strong>. Anche il nostro CLN si preoccupò <strong>di</strong> rastrellarli. Io fui<br />

mandato come capopattuglia assieme ad altri due per andare in bici


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

129<br />

a Rossano. Trovammo solo nel bivio Cassola – Rosà due giovanissimi<br />

italiani vestiti con la <strong>di</strong>visa dei battaglioni M che si <strong>di</strong>rigevano a<br />

pie<strong>di</strong> verso Treviso, certamente per ritornare a casa. Erano <strong>di</strong>messi e<br />

silenziosi, nessuno li aveva aiutati.<br />

Li perquisimmo, rovesciammo i loro zaini, non trovammo armi né<br />

oggetti rubati: decidemmo <strong>di</strong> lasciarli andare. Personalmente mi<br />

fecero pena, erano due giovani spaventati desiderosi solo <strong>di</strong> ritornare<br />

agli affetti familiari, che volontariamente avevano abbandonato<br />

convinti dai sogni <strong>di</strong> gloria della propaganda fascista: per me erano<br />

due pulcini implumi.<br />

Poco dopo noi elementi della compagnia Belvedere, assieme ad altri<br />

<strong>di</strong> una brigata Damiano Chiesa, ricevemmo l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> andare a<br />

rastrellare dei soldati tedeschi visti a Villa Favera e a Ca’ Tron, nella<br />

periferia <strong>di</strong> Cittadella. Partimmo in una cinquantina ben armati, in<br />

corriera seguita da un’altra corriera vuota per caricare gli eventuali<br />

prigionieri.<br />

Prima andammo a Villa Favera dove c’era una grande officina meccanica<br />

approntata dall’esercito tedesco; vi trovammo un folto gruppo <strong>di</strong><br />

soldati armati ed equipaggiati per la partenza. I nostri responsabili,<br />

come avevano ricevuto gli or<strong>di</strong>ni, si misero a <strong>di</strong>alogare coi Tedeschi.<br />

Questi, dopo aver chiarito che sarebbero stati fatti prigionieri con il<br />

rispetto assoluto <strong>di</strong> tutte le garanzie internazionali, deposero le armi.<br />

Furono caricati nella corriera, che ci aveva seguiti, per essere condotti<br />

dai carabinieri <strong>di</strong> Cittadella e poi consegnati ai vincitori. Alcuni<br />

dei nostri rimasero in sito per raccogliere le armi, io e tutti gli altri<br />

partimmo per Ca’ Tron nel comune <strong>di</strong> Santa Croce Bigolina.<br />

Mentre stavo salendo in corriera un soldato tedesco mi si avvicinò e<br />

mi <strong>di</strong>sse: “Io sono Jacob, quel soldato che ha ricevuto i tuoi documenti<br />

mentre mi chiamava tua cugina: ebbene io ho sempre saputo che tu<br />

eri un partigiano. Ti chiedo solo il piacere <strong>di</strong> farmi consegnare agli<br />

angloamericani e non ai russi!”. Rimasi sconcertato. Subito mi rivi<strong>di</strong><br />

tutto trepidante davanti a due soldati tedeschi, mentre in tasca avevo<br />

una bomba a mano e una pistola. Sentii ancora le parole della cugina<br />

Elia Marsan. Forse quel soldato mi aveva detta la verità giacché mi<br />

lasciò libero dopo quel breve <strong>di</strong>alogo che certamente non poteva essere


130 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

esaustivo. Subito pensai <strong>di</strong> essere stato molto più fortunato <strong>di</strong> quanto<br />

credessi d’esserlo stato dopo quell’incontro mattutino. Comunque fui<br />

contento che quei Tedeschi cadessero nelle mani degli angloamericani,<br />

i soli d’altra parte che arrivarono da noi. Capii che quei soldati<br />

conoscevano solo la propaganda nazista!<br />

Eliminati dalla circolazione Tedeschi e repubblichini, tutti noi<br />

partigiani tornammo agli impegni familiari. Io non chiesi <strong>di</strong> ritornare<br />

a fare il carabiniere, ritorno che certamente mi avrebbero concesso,<br />

ormai preferivo la vita <strong>di</strong> borghese. Continuai a coltivare la campagna.<br />

A completamento dei miei ricor<strong>di</strong> sento il dovere <strong>di</strong> parlare in modo<br />

un po’ dettagliato <strong>di</strong> coloro che ho incontrato nei duri anni della<br />

Resistenza e che hanno colpito la mia mente e il mio cuore. Sono<br />

due persone che mi hanno infuso equilibrio, volontà e coraggio per<br />

superare le <strong>di</strong>fficoltà della vita.<br />

Padre Odone Nicolini<br />

Padre Nicolini nacque nel Trentino il 6 agosto 1903, quando quella<br />

provincia faceva parte dell’impero austroungarico <strong>di</strong> Francesco<br />

Giuseppe. Imparò anche la lingua tedesca che nell’ultima guerra gli<br />

fu utilissima nel periodo 1943-45 quando nell’Italia centro – nord<br />

comandavano i nazifascisti. La sua vocazione fu tar<strong>di</strong>va. Fece il soldato<br />

<strong>di</strong> leva nell’esercito italiano come artigliere, poi lavorò in famiglia fino<br />

al 1930 quando iniziò gli stu<strong>di</strong> in seminario.<br />

Cedette al fratello i suoi averi e nel 1935 entrò nella congregazione<br />

dei Camilliani: quei religiosi che portano sul pettorale della loro veste<br />

una grande croce rossa. Il 5 luglio 1942 fu consacrato sacerdote nel<br />

convento <strong>di</strong> Mottinello <strong>di</strong> Rossano Veneto. Dato che i Camilliani<br />

sono ministri degli infermi, fu destinato a compiere la sua missione<br />

nell’ospedale <strong>di</strong> Cittadella.<br />

Durante le mie licenze <strong>di</strong> carabiniere cominciai a conoscerlo perché<br />

accompagnavo sovente una sorella nell’ospedale della mia città, in<br />

quanto soffriva <strong>di</strong> un malanno cutaneo che aveva continuamente<br />

bisogno del bisturi. Quando poi ritornai dopo l’armistizio, lo<br />

incontrai spesso e <strong>di</strong>venimmo amici perché lui dava un fraterno<br />

aiuto agli sbandati e ai partigiani. Per questa sua utile opera fu poi


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

131<br />

chiamato “Il prete dei partigiani”, come è scritto nel corposo libro<br />

<strong>di</strong> Guerrino Citton, uscito nel 2004, che tratteggia la vita e l’opera<br />

<strong>di</strong> questo sacerdote camilliano. Dato però che io <strong>di</strong>alogavo con lui,<br />

specie quando lo accompagnavo in bici nelle sue missioni a favore dei<br />

prigionieri dei nazifascisti, credo poter <strong>di</strong>re che padre Nicolini non era<br />

organico con la Resistenza, ma era un prete senza paura fornito <strong>di</strong> un<br />

alto senso sacerdotale che lo portava a consolare e ad aiutare gli afflitti.<br />

Ritornando ora a quell’in<strong>di</strong>menticabile 26 settembre 1944 quando<br />

lo accompagnai a Bassano del Grappa, ricordo che era una giornata<br />

<strong>di</strong> sole e che pedalavamo affiancati non essendovi nessun via <strong>vai</strong> <strong>di</strong><br />

rotabili: così potemmo parlare. Padre Nicolini mi <strong>di</strong>sse che era venuto<br />

a conoscenza che, nella caserma Reatto <strong>di</strong> Bassano, erano stati fucilati<br />

sette giovani <strong>di</strong>etro le mura e che i loro corpi giacevano seminu<strong>di</strong><br />

per lasciarli a vista come monito ai prigionieri che non volevano<br />

confessare e come <strong>di</strong>ssuasione per tutti. Continuò <strong>di</strong>cendomi che<br />

intendeva lavarli, rivestirli e bene<strong>di</strong>rli. Nei pressi <strong>di</strong> Rosà vedemmo<br />

una pattuglia armata formata da due militi fascisti e due soldati<br />

tedeschi che controllavano il traffico. Subito mi allarmai perché io<br />

non avevo nessun lasciapassare.<br />

Il padre vistomi pensieroso e incerto mi sussurrò: “Non preoccuparti,<br />

non succederà nulla, la mia veste è un lasciapassare”. Infatti non ci<br />

furono chiesti documenti e passammo.<br />

Arrivati nei pressi <strong>di</strong> Bassano vedemmo da lontano, al centro della<br />

strada, un gruppo <strong>di</strong> persone: civili, soldati tedeschi e militi fascisti;<br />

mi allarmai molto. Dissi a padre Nicolini: “Non me la sento <strong>di</strong><br />

continuare la strada con lei, torno in<strong>di</strong>etro”. Questa volta mi rispose:<br />

“Va bene, fa quello che ti detta la mente”. Certamente anche lui<br />

mostrò grossa preoccupazione, ma lui era un sacerdote che doveva<br />

compiere un atto <strong>di</strong> misericor<strong>di</strong>a verso dei morti. Così lui continuò e<br />

io ritornai prendendo le stra<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> campagna. Alla sera si seppe quello<br />

che era successo in quel memorabile giorno. Padre Odone Nicolini fu<br />

un indomito, mise a repentaglio la sua vita per poter confortare ben<br />

trentun giovani ammassati su un camion e condannati al capestro fra<br />

gli alberi del viale Venezia <strong>di</strong> Bassano.<br />

I Tedeschi erano incattiviti e totalmente spietati, non volevano dar


132 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

spazio al sacerdote, il quale però perorando con forza le sue motivazioni<br />

riuscì a salire sul camion e confortare quei morituri.<br />

Se io fossi rimasto con lui, cosa mi sarebbe successo?<br />

Certamente avrei subito un tremendo interrogatorio e chissà come<br />

sarebbe andata a finire! Per quella giornata padre Nicolini rilasciò nel<br />

1946 alla Corte d’Assise <strong>di</strong> Vicenza, che giu<strong>di</strong>cava quel fatto, una<br />

relazione piena <strong>di</strong> nobiltà d’animo, <strong>di</strong> angoscia e nel contempo <strong>di</strong><br />

fermezza sacerdotale, come è riportato nel libro “La Resistenza tra il<br />

Brenta e il Piave” <strong>di</strong> Gianfranco Corletto.<br />

In seguito accompagnai <strong>di</strong>verse volte in bicicletta il sacerdote a Vicenza<br />

per visitare i prigionieri che erano rinchiusi nelle carceri <strong>di</strong> San Biagio.<br />

Verso metà ottobre 1944 <strong>di</strong> mattina, dopo che padre Nicolini aveva<br />

visitato i detenuti, vi fu un bombardamento aereo.<br />

Fu così che egli mi <strong>di</strong>sse: “Aspettiamo la fine <strong>di</strong> ogni allarme per<br />

ritornare, nell’attesa an<strong>di</strong>amo a pranzare da una famiglia amica che<br />

mi ha già invitato tante volte”. Andammo. Durante la siesta riprese<br />

il bombardamento, i padroni <strong>di</strong> casa andarono nel rifugio, noi<br />

rimanemmo, fu così che Nicolini mi raccontò cosa gli era successo a<br />

Bassano in quel famoso 26 settembre. Mi <strong>di</strong>sse esattamente quello che<br />

poi riferì in tribunale in modo magistralmente evocativo.<br />

Mi precisò anche che, grazie alle forti pressioni dei Vescovi <strong>di</strong> Vicenza,<br />

<strong>Padova</strong>, dell’abate <strong>di</strong> Bassano e anche dello stesso Commissario del<br />

Comune <strong>di</strong> Bassano, erano state sospese ben cinquanta impiccagioni<br />

<strong>di</strong> partigiani decise per la sera del 27 settembre, e anche che fu permessa<br />

la sepoltura dei sette fucilati nella caserma Reatto e <strong>di</strong> togliere dagli<br />

alberi del viale i trentun impiccati; tutti quei morti furono sepolti nel<br />

cimitero. Ogni volta che facevo quei viaggi ritornavo a casa col cuore<br />

gonfio <strong>di</strong> tristezza e <strong>di</strong> impotenza perché i <strong>di</strong>scorsi evocativi erano<br />

sempre pieni <strong>di</strong> dolori.<br />

In un percorso fatto sempre nell’ottobre 1944 ci fermammo a Bolzano<br />

Vicentino perché il padre voleva visitare un carcerato rinchiuso in una<br />

villa dei <strong>di</strong>ntorni <strong>di</strong> quel paese. A delle donne che uscivano dalla<br />

prima messa, padre Nicolini chiese la strada più breve per arrivare<br />

alla villa dove erano inse<strong>di</strong>ati i Tedeschi. Subito le donne si misero a<br />

piangere e ci raccontarono. I custo<strong>di</strong> <strong>di</strong> quella villa erano soldati delle


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

133<br />

SS che avevano addestrato dei cani per sbranare le persone: facevano<br />

finta <strong>di</strong> lasciar liberi dei poveri <strong>di</strong>sgraziati prigionieri e poi, quando<br />

costoro erano nei campi per ritornarsene a casa, aizzavano contro <strong>di</strong><br />

loro i cani che <strong>di</strong>laniavano i corpi <strong>di</strong> quei poveretti, lasciando insepolti<br />

i loro resti. Proprio quella mattina alcune donne avevano visto un<br />

corpo straziato insepolto.<br />

Non so se al padre fosse arrivata prima la notizia <strong>di</strong> quei misfatti, certo<br />

che ammutolì. Il padre però andò ugualmente a visitare il carcerato<br />

che conosceva. I soldati tedeschi gli risposero che quella persona era<br />

stata trasferita. La sua faccia era visibilmente impietrita, ma con me<br />

non fece commenti né io gli chiesi niente perché il raccapriccio in<br />

entrambi era molto evidente. In novembre poi ritornai a Vicenza e<br />

questa volta se non avessi avuto il tesserino del lavoro, avrei passato<br />

molti guai. Io, assieme a Padre Nicolini e a due mie cugine, sorelle <strong>di</strong><br />

Erminio, andai a trovare Fricco, imprigionato a San Biagio e all’arrivo<br />

incappai in un pasticcio.<br />

Le guar<strong>di</strong>e fasciste lasciarono passare il padre e non noi tre; le cugine<br />

andarono per i fatti loro e io in una chiesa vicina in attesa che il<br />

camilliano finisse la sua visita. Io, impaziente, uscii per controllare,<br />

proprio in quel momento passava una pattuglia <strong>di</strong> repubblichini, si<br />

fermarono per controllare i miei documenti. Lessero che io lavoravo<br />

per i Tedeschi, ma anche che ero stato carabiniere. Così mi condussero<br />

dentro nei loro uffici e cominciarono a farmi proposte per aderire<br />

alla repubblica <strong>di</strong> Salò. Io rispondevo sempre che i miei genitori<br />

erano vecchi e che io ero il solo che potesse lavorare i campi e farli<br />

produrre. Mi proposero perfino <strong>di</strong> farmi nominare maresciallo e<br />

mettermi a capo <strong>di</strong> una stazione carabinieri in una citta<strong>di</strong>na vicina.<br />

Finalmente dopo parecchie ore, alle sei <strong>di</strong> sera mi rilasciarono. Quelle<br />

insistenze mi convinsero sempre più che io ero nella giusta posizione<br />

e che il fascismo avrebbe avuto ancora una vita molto breve, dato<br />

che mi proposero <strong>di</strong> saltare tutti i gra<strong>di</strong> dei sottufficiali e premiare<br />

per una adesione, trasformando un modesto e giovane carabiniere<br />

in un maresciallo, cioè in uno che poteva <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> parecchia<br />

autorità. Dovetti fare la strada da solo perché gli altri erano ripartiti<br />

non sapendo dove io fossi andato e temendo nel contempo della


134 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

mia sorte. Quando arri<strong>vai</strong>, verso le ventuno, tro<strong>vai</strong> i familiari in<br />

apprensione, perché dai miei compagni <strong>di</strong> viaggio era stato detto loro<br />

che i repubblichini mi avevano arrestato. Fortunatamente il tesserino<br />

<strong>di</strong> lavoro mi salvò! In cuor mio ringraziai padre Nicolini che mi<br />

aveva consigliato, come già detto, <strong>di</strong> procurarmene uno lavorando<br />

per i Tedeschi. Data la stima generale <strong>di</strong> cui godeva Nicolini, egli<br />

sapeva tutto ciò che succedeva ai partigiani e alle loro famiglie da<br />

Cittadella a Bassano. Era continuamente in moto con la sua bicicletta<br />

per provvedere ai bisogni. La sua veste, contrassegnata da una grande<br />

croce rossa, svolazzava ovunque.<br />

In questo suo girare spesso mi chiamava per accompagnarlo, anche<br />

se io poi rimanevo uno spettatore che non conosceva le varie vicende<br />

che lui voleva <strong>di</strong>panare. Quando all’inizio del 1945 lavoravo per la<br />

famiglia <strong>di</strong> Erminio, spesso rimanevo a dormire dalla zia perché,<br />

come ho già precisato, lei e le sue giovani figlie avevano paura; allora<br />

io dormivo nella stanza <strong>di</strong> nonno Giuseppe, già molto anziano.<br />

Rimanevo colà volentieri perché oltre ad avere l’occasione <strong>di</strong> ascoltare<br />

ra<strong>di</strong>o Londra, avevo anche il piacere <strong>di</strong> godere della compagnia <strong>di</strong><br />

padre Nicolini. Egli infatti veniva dalla madre <strong>di</strong> Erminio almeno<br />

due volte alla settimana: “per bere il caffè”, ma era per dare conforto<br />

e trasmettere ottimismo. Così <strong>di</strong> chiacchere in chiacchere venni a<br />

conoscere nomi e fatti della Resistenza <strong>di</strong> cui io avevo una vaga<br />

conoscenza. Evidentemente aveva fiducia in me.<br />

Fu così che venni a conoscere la storia <strong>di</strong> alcuni sacerdoti e <strong>di</strong> alcune<br />

donne che operarono in modo efficace con i partigiani.<br />

Venni a sapere la storia <strong>di</strong> Don Giuseppe Menegon, parroco <strong>di</strong><br />

Loria – Treviso. Fu tra<strong>di</strong>to da uno che il sacerdote aveva soccorso, fu<br />

imprigionato prima a Treviso poi a <strong>Padova</strong>. Fortunatamente per lui, fu<br />

inquisito dal giu<strong>di</strong>ce nazista Albrecht Kaiser, responsabile del tribunale<br />

militare <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> che aveva anche la supervisione <strong>di</strong> tutti i tribunali<br />

veneti. Dopo un lungo interrogatorio sul filo dei <strong>di</strong>ritti e dei doveri<br />

dei citta<strong>di</strong>ni verso il proprio Stato, quel giu<strong>di</strong>ce assolse don Menegon<br />

dalle accuse e si proclamò un suo estimatore perché fu conquistato, lui<br />

ateo, dalla ineccepibile coerenza <strong>di</strong> quel sacerdote.<br />

Questa stima servì a Menegon e a Nicolini per salvare la vita a dei


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

135<br />

partigiani, fra questi i miei comandanti Moro e Buonconsiglio.<br />

Questi due preti riuscirono talvolta a superare le <strong>di</strong>sposizioni <strong>di</strong><br />

Perillo, il temuto capo del tribunale militare <strong>di</strong> Bassano, talaltra a<br />

far cambiare idea allo stesso Perillo. Padre Nicolini, oltre a ricordare<br />

vari sacerdoti che salvarono parecchi giovani, raccontò anche la storia<br />

<strong>di</strong> alcune donne che si pro<strong>di</strong>garono a fare da staffetta fra i reparti<br />

dei partigiani. Ricordo qui con particolare commozione quanto mi<br />

<strong>di</strong>sse Nicolini riguardo ai miei due comandanti sopra ricordati, e<br />

che dopo anni tro<strong>vai</strong> anche scritto a pagina 123 nel libro <strong>di</strong> Franco<br />

Corletto “Masaccio”. I Tedeschi sapevano già tutto della Resistenza<br />

nelle nostre zone, volevano però la conferma dal Buonconsiglio che<br />

<strong>di</strong>speratamente non parlava.<br />

Negri in prigione a Bassano, già condannato a morte, fu portato a<br />

confronto con Buonconsiglio che era nelle prigioni <strong>di</strong> Ca’ Dolfin dove<br />

era stato bastonato lungamente e ridotto a una larva umana.<br />

Davanti a tutti gli inquisitori Negri si assunse ogni responsabilità<br />

invitando l’amico a <strong>di</strong>re tutto. Buonconsiglio svenne, poi confessò<br />

quanto sapeva. Ebbero salva la vita: Negri dopo un mese fu spe<strong>di</strong>to in<br />

Germania, Buonconsiglio nelle prigioni <strong>di</strong> San Biagio a Vicenza.<br />

Padre Nicolini fu sempre un ascoltato interlocutore sia a favore<br />

dei partigiani prima, che dopo per i nazifascisti: era il suo spirito<br />

sacerdotale che gli faceva mettere davanti a ogni cosa la persona<br />

umana. Alcuni esempi che ho riscontrato <strong>di</strong> persona: verso la fine<br />

della guerra, due fascisti repubblichini <strong>di</strong>sertarono a Bassano. Ripresi<br />

furono condannati a morte da Perillo. Il camilliano esortò e argomentò<br />

con quell’inquisitore finché il Perillo inviò i due in una prigione sul<br />

Garda, da dove poco dopo uscirono vivi.<br />

Dopo l’arrivo degli Alleati il Nicolini salvò un collaborazionista<br />

fascista: alcune persone con percosse continue, lo trascinavano lungo<br />

la strada per lu<strong>di</strong>brio. La folla li aizzava, padre Nicolini strappò dalle<br />

mani dei giustizieri l’in<strong>di</strong>viduo e lo portò via con sé, salvandogli la<br />

vita. Per me fu una persona eccezionale che mi <strong>di</strong>ede un forte aiuto<br />

spirituale e psicologico durante la Resistenza.<br />

A padre Nicolini fu concessa, per i suoi meriti eccezionali, la<br />

medaglia d’argento al valor militare e varie città gli dettero la


136 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

citta<strong>di</strong>nanza onoraria. Per chi desidera ampliare la conoscenza<br />

dell’opera <strong>di</strong> padre Nicolini c’è il libro “Padre Odone Nicolini il<br />

prete dei partigiani” <strong>di</strong> Guerrino Citton stampato nel 2004 a cura<br />

del comune <strong>di</strong> Fontaniva (Vicenza).<br />

Masaccio<br />

Fra i comandanti partigiani che ho conosciuto, quello che mi ha<br />

colpito in modo totale, è stato Masaccio. Lo conoscevo <strong>di</strong> nome<br />

quando era comandante del battaglione “Mazzini”, poi lo conobbi<br />

<strong>di</strong> persona e cominciai ad ammirarlo. Per me egli impersonò il<br />

condottiero impavido perché, dopo il famoso e burrascoso settembre<br />

1944 portatore <strong>di</strong> morti e <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> organici fra noi partigiani,<br />

riuscì a riorganizzarci in modo perfetto. Di questo eroe, medaglia<br />

d’oro della Resistenza, parla <strong>di</strong>ffusamente Gianfranco Corletto nel suo<br />

libro, appunto intitolato “Masaccio”, e<strong>di</strong>to nel 1965 da Neri Pozza.<br />

Masaccio era il nome <strong>di</strong> battaglia del professore Primo Visentin,<br />

nato a Riese – Treviso – nel 1913. Ebbe una vita giovanile misera.<br />

Salì pian piano la scala dell’insegnamento, prima <strong>di</strong>plomandosi<br />

maestro elementare e poi laureandosi in lettere a <strong>Padova</strong>: così passò<br />

prima dai bambini poi agli studenti delle scuole tecniche superiori.<br />

Mobilitato per la guerra, non accettò <strong>di</strong> fare il corso allievi ufficiali,<br />

allora fu inquadrato nell’esercito regio come soldato <strong>di</strong> artiglieria.<br />

Dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, partecipò da subito alla<br />

Resistenza col nome <strong>di</strong> battaglia Masaccio. Prese questo nomignolo<br />

perché era amante della pittura e aveva stu<strong>di</strong>ato a fondo il pittore del<br />

‘400 con quel nome.<br />

Il professore organizzò un gruppo <strong>di</strong> partigiani in un battaglione che<br />

chiamò “Mazzini”, perché si sentiva come quel patriota del nostro<br />

Risorgimento, cioè essere un combattente per amor <strong>di</strong> Patria. Si<br />

<strong>di</strong>mostrò un comandante attento, anche se un po’ irruento, che<br />

stu<strong>di</strong>ava e programmava le azioni militari, badando nel contempo<br />

alla salvaguar<strong>di</strong>a dei suoi uomini. Fu per questa sua visione realistica<br />

che Masaccio, all’inizio del settembre 1944, aveva consigliato i<br />

comandanti delle formazioni rifugiate sul Grappa <strong>di</strong> condurre una<br />

guerriglia mobile piuttosto che fare una resistenza ad oltranza.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

137<br />

Malauguratamente non fu ascoltato e vi fu l’ecci<strong>di</strong>o <strong>di</strong> molti patrioti.<br />

Il 5 ottobre 1944, alle quattro del mattino, presso il cimitero<br />

<strong>di</strong> Castion <strong>di</strong> Loria, Masaccio riunì i comandanti superstiti del<br />

<strong>di</strong>sastroso rastrellamento del monte Grappa. Tanto parlò che tutti<br />

accettarono <strong>di</strong> costituire una nuova brigata, riunendo tutti i gruppi<br />

col nome “Martiri del Grappa”, e che operasse a cavallo delle province<br />

<strong>di</strong> Vicenza e Treviso con centro il massiccio del Grappa, ormai faro<br />

<strong>di</strong> gloria per tutti: sia per i martiri della prima guerra mon<strong>di</strong>ale<br />

che per quelli della Resistenza. I miei comandanti, parteciparono a<br />

quella riunione così noi tutti del plotone <strong>di</strong> Fricco facemmo parte<br />

della nuova brigata. Masaccio ne <strong>di</strong>venne il capo e scrisse subito un<br />

lungo e articolato or<strong>di</strong>ne del giorno relativo alla Costituzione del<br />

nuovo corpo <strong>di</strong> volontari; poi il giorno dopo un altro rivolto alle<br />

popolazioni del Grappa, del Brenta, del Piave. Sono due bollettini<br />

che danno la misura <strong>di</strong> come fossero chiare e valide le sue idee<br />

sulla organizzazione partigiana e <strong>di</strong> quanto fosse consapevole della<br />

necessità <strong>di</strong> informazione dei citta<strong>di</strong>ni. Questa opera <strong>di</strong> educazione<br />

popolare l’ampliò con l’uscita, il primo gennaio 1945, della “Gazzetta<br />

pedemontana” che dopo poco fu sostituita, con orizzonti più ampi,<br />

dalla “Gazzetta del Patriota”. Fu una attività efficace perché portò il<br />

popolo a conoscere da vicino la lotta contro i nazifascisti.<br />

Masaccio continuò la sua opera organizzativa ed insieme educativa<br />

con parecchi altri bollettini <strong>di</strong> servizio. Parlava anche <strong>di</strong> onestà,<br />

obbe<strong>di</strong>enza, coscienza, solidarietà, coraggio.<br />

Raccomandava ai combattenti <strong>di</strong> praticare queste virtù perché chi<br />

lottava per la libertà e la democrazia, doveva essere motivato da idealità.<br />

L’azione militare della sua brigata iniziò il 12 ottobre 1944 e continuò<br />

ininterrotta, con parecchie decine <strong>di</strong> azioni, fino alla vittoria finale.<br />

Poco dopo la creazione della nuova brigata, il mio comandante <strong>di</strong><br />

battaglione Negri, fu imprigionato; fu sostituito da Bill, Andrea<br />

Cocco, suo vice. Anche lui si <strong>di</strong>mostrò un coraggioso comandante<br />

tanto che <strong>di</strong>venne l’aiuto <strong>di</strong> Masaccio.<br />

Io ebbi l’occasione, per alcune volte, <strong>di</strong> incontrare <strong>di</strong> persona Masaccio<br />

nelle riunioni che promuoveva per istruirci sui mo<strong>di</strong> e i meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> lotta.<br />

Furono per me lezioni illustrative che mi entusiasmarono per il fascino


138 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

che emanavano le parole e il volto del capo. Fu fautore nel creare una<br />

organizzazione che riunisse tutte le brigate che operavano nel Veneto<br />

centrale tra <strong>Padova</strong>, Vicenza e Treviso. Finalmente l’unione arrivò l’8<br />

febbraio 1945 quando fu istituita la <strong>di</strong>visione Monte Grappa, formata<br />

da sei brigate, sotto un unico comando militare e politico.<br />

Inse<strong>di</strong>atosi il comando della Divisione, subito fu elaborato un<br />

piano strategico <strong>di</strong> sabotaggi per <strong>di</strong>sorientare e <strong>di</strong>sgregare le forze<br />

nemiche. Vi furono azioni mirate nei territori sotto la giuris<strong>di</strong>zione<br />

del Comando Unico. Vi fu anche, il 17 febbraio 1945, un successo<br />

strabiliante dei miei comandanti Masaccio e Bill – il primo<br />

comandante della brigata Monte Grappa, il secondo del battaglione<br />

Silvio Pellico – che con duecentocinquanta chilogrammi <strong>di</strong> esplosivo<br />

danneggiarono irrime<strong>di</strong>abilmente il ponte vecchio <strong>di</strong> Bassano, detto<br />

anche ponte degli alpini. Lo racconta Bill nel libro <strong>di</strong> Gianfranco<br />

Corletto nelle pagine 154 – 156. Certo noi lo sapemmo dopo, ma<br />

questo fatto, congiuntamente ad altri sabotaggi contemporanei,<br />

sollevarono gli animi <strong>di</strong> tutti, specie <strong>di</strong> noi partigiani, perché<br />

capimmo che erano arrivati gravi scricchiolii per la potenza tedesca.<br />

A me piace ricordare quell’azione perché si sviluppò con una<br />

progressione che oggi <strong>di</strong>remmo cinematografica, giacché degli episo<strong>di</strong><br />

simili sono stati raccontati in film <strong>di</strong> guerra. I quattor<strong>di</strong>ci sabotatori,<br />

vestiti da soldati tedeschi o repubblichini e Masaccio con <strong>di</strong>visa da<br />

ufficiale, <strong>di</strong>visi in due squadre, passarono indenni fra la folla ove<br />

c’erano anche militari nazifascisti. Quella azione temeraria rovinò<br />

il ponte, che fu restaurato solo dopo la guerra, purtroppo ebbe<br />

uno strascico penoso con l’uccisione, per ritorsione, <strong>di</strong> tre giovani<br />

innocenti prelevati dalle prigioni. Oggi sul ponte <strong>di</strong> Bassano c’è una<br />

placca bronzea che ricorda il fatto con questa parole:<br />

“Per salvare la città da minacciato bombardamento aereo il 17 febbraio<br />

1945 Masaccio - prof. Primo Visentin da Riese Pio X - con un pugno<br />

<strong>di</strong> volontari della libertà, questo ponte fece saltare. Per rappresaglia il<br />

22 febbraio 1945 Alberti Federico, Lunar<strong>di</strong> Cesare, Zavagnin Antonio<br />

qui furono fucilati dai nazifascisti”.<br />

Masaccio morì da un colpo <strong>di</strong> fucile proprio nel giorno della vittoria.<br />

A ricordo <strong>di</strong> questo eroe della Resistenza, le brigate partigiane Martiri


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

139<br />

del Grappa e Cesare Battisti donarono all’Università <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> una<br />

statua per onorare il professor Primo Visentin – Masaccio, che si era<br />

laureato in quell’ateneo, e che ora si trova nell’atrio del Bo.<br />

La statua del celebre scultore Arturo Marini raffigura Palinuro,<br />

personaggio virgiliano che fu pilota del fuggiasco Enea da Troia in<br />

fiamme, che però vinto dal sonno cadde in acqua e morì, proprio in<br />

vista delle coste d’Italia.<br />

Questa mitica figura, emblematica <strong>di</strong> una sicura rotta, simboleggia<br />

Masaccio comandante partigiano intrepido che portò la Resistenza<br />

veneta alla riscossa, dopo il <strong>di</strong>sastroso rastrellamento nazifascista sul<br />

Monte Grappa del settembre 1944, e che poi morì quando ormai la<br />

Libertà era sicura.<br />

Ritorna la pace<br />

Mentre detto le mie memorie sono passati sessantacinque anni dal<br />

fati<strong>di</strong>co aprile 1945 che apportò all’Italia la pace e, assieme, anche quella<br />

democrazia che era stata soffocata per oltre un ventennio dal fascismo<br />

<strong>di</strong> Mussolini. Se si chiedesse ora ai giovani cosa è stata per gli Italiani<br />

quella pace, certamente i più ci guarderebbero con occhi interrogatori;<br />

solo pochi avrebbero le semplici conoscenze dei libri <strong>di</strong> storia stu<strong>di</strong>ati.<br />

Per noi invece, che abbiamo sofferto e lottato per la pace, è stata anche<br />

una grande festa, una esplosione <strong>di</strong> gioia, <strong>di</strong> entusiasmo e <strong>di</strong> frenetica<br />

attività. Avevamo perso cinque anni <strong>di</strong> vita entro una fornace che<br />

aveva bruciato le nostre speranze e i nostri desideri. Quando quel<br />

fuoco <strong>di</strong>struggitore fu spento dall’eroismo <strong>di</strong> tanti, ci riprendemmo il<br />

nostro destino. Abbiamo vissuto quei primi anni da liberi, con impeto,<br />

con voglia <strong>di</strong> rifarci, <strong>di</strong> lavorare per un domani migliore, senza voltarci<br />

in<strong>di</strong>etro a chiedere giustificazioni o spiegazioni.<br />

Deposte le armi <strong>di</strong>ventammo solerti citta<strong>di</strong>ni operatori.<br />

È stato certamente per questa ansia <strong>di</strong> agire per ricostruire che noi<br />

combattenti guardammo solo verso il futuro, <strong>di</strong>mentichi ormai del<br />

passato. Solo ora, ormai appagati del lavoro fatto durante la nostra<br />

vita, desideriamo ricordare le nostre vicissitu<strong>di</strong>ni perché siano <strong>di</strong><br />

insegnamento alle nuove generazioni.<br />

Io uscito fortunatamente, <strong>di</strong>rei quasi miracolosamente, indenne ho


140 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

<strong>di</strong>menticato tutti gli affanni della guerra fino a che l’amico Giuseppe<br />

Trevisan mi ha convinto a esplorare dentro <strong>di</strong> me e a raccontare le mie<br />

memorie, anche perché mi ha ripetuto tante volte che le miserie delle<br />

guerre devono essere monito per il futuro.<br />

Nel 1945 mi immersi nei lavori dei campi <strong>di</strong> mio padre, anche perché<br />

non volli chiedere <strong>di</strong> essere riammesso nell’arma dei carabinieri: ormai<br />

preferivo la vita borghese che dava tante possibilità <strong>di</strong> agire a seconda<br />

delle proprie ambizioni.<br />

Nel 1946 alle prime elezioni amministrative fui eletto consigliere<br />

comunale <strong>di</strong> Cittadella, quale rappresentante della mia frazione <strong>di</strong><br />

Ca’ Moro. Ciò mi fece partecipare in modo <strong>di</strong>retto alle nuove vicende<br />

per creare una società <strong>di</strong>versa da quella fascista. Un giorno, quando<br />

ormai cercavo un lavoro autonomo, incontrai un commilitone che<br />

aveva trovato un posto sicuro. Mi spiegò che la sua ricerca fu facilitata<br />

dall’Associazione <strong>di</strong> assistenza dei carabinieri in congedo <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>.<br />

Mi iscrissi e tro<strong>vai</strong> quasi subito lavoro.<br />

Nel 1952 il comune <strong>di</strong> Monselice si era rivolto alla Associazione<br />

chiedendo dei nominativi per scegliere e assumere un vigile urbano.<br />

Mi chiamarono, accettai e feci un anno <strong>di</strong> prova, nell’anno successivo<br />

ebbi il posto stabile nell’organico, in seguito a un regolare concorso.<br />

Nel 1954 mi sposai con Agnese, anche lei <strong>di</strong> Cittadella, e venimmo<br />

ad abitare a Monselice. Nacquero quattro figli e nel contempo<br />

cominciammo anche a costruire la nostra casa. Furono anni intensi<br />

<strong>di</strong> lavoro. Io usavo le ferie agostane per fare il vigile sussi<strong>di</strong>ario prima<br />

a Piove <strong>di</strong> Sacco, per alcuni anni, e poi a Ortisei, in Val Gardena.<br />

Agnese aveva aperto un laboratorio per la produzione <strong>di</strong> maglie<br />

<strong>di</strong> lana. Andato in pensione nel 1979 con la legge 336 a favore<br />

dei combattenti, continuai a lavorare come vigile sussi<strong>di</strong>ario per<br />

il comune <strong>di</strong> Ortisei non solo in agosto, ma anche negli altri mesi<br />

turistici dell’estate e dell’inverno.<br />

Di questa parentesi <strong>di</strong> servizio a Ortisei mi piace ricordare la grande<br />

umana affabilità del Presidente Pertini. Egli d’estate villeggiava a<br />

Selva <strong>di</strong> Val Gardena e spesso si recava a Ortisei, accompagnato dalla<br />

sua scorta, per prendere la funivia dell’Alpe <strong>di</strong> Siusi. Ricordo che<br />

una domenica, essendo <strong>di</strong> servizio davanti alla chiesa parrocchiale


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

141<br />

mentre la folla usciva dalla chiesa, prontamente fermai il percorso<br />

delle auto per dar modo alla gente <strong>di</strong> attraversare la strada. Il caso<br />

volle che lasciassi passare le auto <strong>di</strong> scorta del Presidente e fermassi<br />

invece proprio la sua. Ripristinato il passaggio delle auto, il Presidente<br />

si affacciò al finestrino, mi salutò e mi lodò pubblicamente perché<br />

ero stato impeccabile nel mio servizio. Volle anche stringermi la<br />

mano. Un’altra volta accadde che vi<strong>di</strong> Pertini uscire da una farmacia:<br />

si <strong>di</strong>rigeva senza scorta verso <strong>di</strong> me. Mi <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> non <strong>di</strong>re a nessuno<br />

che l’avevo visto. E aggiunse: “Sono peggio <strong>di</strong> un prigioniero!”. Dopo<br />

mezz’ora lo vi<strong>di</strong> ripassare con la scorta. Vedendomi mi fece un cenno<br />

<strong>di</strong> saluto con la mano: seppi poi che era stato a salutare i Catores (un<br />

gruppo <strong>di</strong> volontari <strong>di</strong> soccorso alpino) e che era stato raggiunto dalla<br />

sua scorta dopo un’affannosa ricerca. Inoltre ebbi modo <strong>di</strong> parlare con<br />

lui in altre occasioni perché mi invitò più volte a bere un caffè con lui<br />

e alcuni carabinieri presso il Caffè Haiti dove andava abitualmente.<br />

Ritiratomi definitivamente dal lavoro a Ortisei, cominciai a fare<br />

volontariato in alcune associazioni <strong>di</strong> Monselice, smettendo qualche<br />

anno fa.<br />

Sono tranquillo e sereno: la continua occupazione del tempo, che ha<br />

contrassegnata la mia vita, mi ha dato un vigore costante per superare<br />

le <strong>di</strong>fficoltà. Penso che la vita possa dare sicurezza, libertà, benessere<br />

e amore soprattutto se si è volonterosi, attivi e consapevoli dei propri<br />

limiti.<br />

Partigiani cittadellesi illustri<br />

Ritengo che noi partigiani dell’Alta padovana dobbiamo sempre<br />

ricordare anche due cittadellesi perché essi, prima, durante e dopo<br />

la guerra, hanno impersonato l’anima veneta insofferente <strong>di</strong> ogni<br />

ingiustizia. Gavino Saba<strong>di</strong>n, animatore politico della Resistenza,<br />

e Bino Rebellato, cantore dei nostri sacrifici, sono due personalità<br />

entrate ormai nella nostra storia.<br />

Desidero qui parlare <strong>di</strong> loro perché essi sono stati due punti <strong>di</strong><br />

riferimento, per le loro capacità, <strong>di</strong>sponibilità e nobiltà <strong>di</strong> propositi,<br />

<strong>di</strong> noi giovani fervorosi, ma anche talvolta inesperti.<br />

Non pretendo certo che queste mie modeste parole possano aggiungere


142 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

gloria e fama a questi due valorosi combattenti per la Libertà<br />

d’Italia, desidero solo rendere a loro un mio tributo reverenziale,<br />

e nel contempo riconoscente, per quello che essi hanno fatto a me<br />

infondendomi coraggio, pazienza e ardore.<br />

Gavino Saba<strong>di</strong>n, 1890 – 1980. Fu l’avvocato che aiutò sempre i più<br />

deboli. Prima della Grande Guerra fondò da noi le leghe bianche<br />

a <strong>di</strong>fesa dei conta<strong>di</strong>ni e dei piccoli proprietari, una volta molto<br />

numerosi. Quando il fascismo soppresse le leghe, concentrò la sua<br />

opera a sostegno della “Federazione piccoli proprietari”, la sola<br />

permessa dal duce. Queste sue attività gli portarono notorietà e stima.<br />

Il 25 luglio 1943, caduto Mussolini, subito iniziò la sua opera per<br />

raccogliere volontari a <strong>di</strong>fesa delle patrie sorti. Venuto poi l’armistizio<br />

dell’8 settembre, raccolse attorno a sé persone <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse tendenze<br />

politiche e fondò il gruppo organizzativo <strong>di</strong> lotta contro i Tedeschi:<br />

anche da noi a Cittadella nacque il CLN.<br />

Fu il responsabile cattolico e capo del nuovo organismo. Lavorò con<br />

costanza, oculatezza e forza nella organizzazione dei volontari, tanto<br />

da formare, come già detto, tre brigate che lui chiamò “Damiano<br />

Chiesa”. Riteneva che questo valoroso combattente della prima guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale fosse il più emblematico eroe sia come combattente contro<br />

i Tedeschi, sia come fervente cristiano.<br />

Saba<strong>di</strong>n <strong>di</strong>venne anche responsabile del CLN veneto e dopo la guerra<br />

Prefetto pro tempore <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>. Poi fino alla sua morte, dovuta a un<br />

incidente, fu un noto e capace <strong>di</strong>rigente amministrativo <strong>di</strong> vari enti<br />

pubblici. Fu insignito <strong>di</strong> parecchie onorificenze.<br />

Albino Rebellato, detto Bino, 1914 – 2004. Fu insegnante, poeta,<br />

scrittore ed e<strong>di</strong>tore. Divenne un punto <strong>di</strong> riferimento della cultura<br />

veneta e nazionale. Fu comandante partigiano della terza compagnia<br />

della brigata “Damiano Chiesa” e stretto collaboratore del responsabile<br />

del CLN Gavino Saba<strong>di</strong>n.<br />

Fu insignito <strong>di</strong> vari riconoscimenti pubblici.<br />

Mi piace riportare a suo ricordo l’inno che scrisse per la nostra<br />

<strong>di</strong>visione “Monte Grappa” che esalta il valore partigiano.<br />

Sono versi che riecheggiano la passione e l’amore per la Libertà della<br />

Patria, proprio come quelli dei poeti del nostro Risorgimento.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Tutti i petti un sol grido percosse<br />

e <strong>di</strong> giovani forti una schiera<br />

d’ogni parte cantando si mosse<br />

impugnando una sola ban<strong>di</strong>era.<br />

La ban<strong>di</strong>era nell’ombra sepolta<br />

che ora palpita libera al vento<br />

e l’Italia che tutta n’è avvolta<br />

è <strong>di</strong> voci e <strong>di</strong> squilli un concento.<br />

Torturati derisi inseguiti,<br />

nella fede che illumina e crea<br />

in un solo concor<strong>di</strong>, riuniti,<br />

già gli eventi pieghiamo all’Idea.<br />

Dai quaranta impiccati a Bassano<br />

s’è levata una voce potente<br />

e Dio scese a guidarci la mano,<br />

d’ognun fece una folgore ardente.<br />

Fucilate, impiccate, legate!<br />

Rinchiudeteci dentro una fossa:<br />

ma un ardore <strong>di</strong> fe<strong>di</strong> inviolate<br />

si <strong>di</strong>sserra immortale dall’ossa.<br />

Su dal sangue, dall’orrido inferno<br />

che <strong>di</strong> sangue cosparse la terra<br />

sorge a spegnere amore fraterno,<br />

dell’orgoglio tirannico l’era.<br />

Ritornello (dopo ciascuna strofa)<br />

Sono infrante le nostre catene:<br />

libertà, libertà! Libertà<br />

che l’umano avvalora nel bene,<br />

<strong>di</strong> bellezza fulgor, verità.<br />

143


144 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Tesserino <strong>di</strong> riconoscimento del 7 gennaio 1942 firmato dal colonnello comandante<br />

la mia legione Dino Tabellini, ottenuto subito dopo essere stato promosso da<br />

allievo a carabiniere.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Roma, 1 aprile 1943, stazione Ostiense. Picchetto d’onore della mia quarta<br />

compagnia per l’arrivo del Primo Ministro Ungherese, alleato dell’Italia, ricevuto<br />

dal Capo del Governo Mussolini. Io sono in seconda fila, <strong>di</strong>etro al terzo carabiniere<br />

partendo da sinistra.<br />

Io con la <strong>di</strong>visa nera come è l’attuale, per svolgere mansioni fra il pubblico, e con la<br />

<strong>di</strong>visa grigio-verde con pantaloni alla cavallerizza e gambali per servizio <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne.<br />

145


146 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Roma 1942. Il picchetto della mia IV compagnia, con ban<strong>di</strong>era e banda in testa,<br />

marciamo per andare a fare la guar<strong>di</strong>a d’onore alla residenza del re Vittorio Emanuele III.<br />

Roma, mattinata del 19 luglio 1943. La grande caserma dove alloggiavano la mia<br />

legione e il comando generale dei carabinieri. Nel cortile, due compagnie <strong>di</strong> allievi,<br />

promossi carabinieri, prestano giuramento alla presenza del Generale Comandante<br />

dell’Arma Azolino Hazon.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

147<br />

Il generale dei carabinieri<br />

Azolino Hazon, perito<br />

mentre prestava aiuto alla<br />

popolazione romana durante il<br />

bombardamento pomeri<strong>di</strong>ano<br />

del 19 luglio 1943. Gli fu<br />

concessa la medaglia d’argento<br />

alla memoria.<br />

Roma, 21 luglio 1943. Funerali<br />

del generale Azolino Hazon.<br />

La salma è posta sull’affusto <strong>di</strong><br />

un cannone trainato da muli. Il<br />

picchetto d’onore è formato dal<br />

gruppo <strong>di</strong> carabinieri a cavallo.


148 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Roma, notte tra l’8 e il 9 settembre 1943. Noi carabinieri della legione <strong>di</strong> stanza<br />

nella Caserma Comando, fummo armati e trasportati con camion presso la Basilica<br />

<strong>di</strong> San Paolo fuori le mura. Qui siamo rimasti circa due ore, accovacciati in attesa <strong>di</strong><br />

or<strong>di</strong>ni per far sloggiare da Cecchignola truppe tedesche, le quali improvvisamente<br />

avevano occupato quello snodo stradale. Disegni <strong>di</strong> B. Mardegan.<br />

Trincea costruita a <strong>di</strong>fesa <strong>di</strong> Roma congiungente la Basilica <strong>di</strong> San Paolo con il<br />

ponte della Magliana. Camminamento usato dalla nostra legione carabinieri, IV<br />

compagnia in testa, per riconquistare la posizione strategica occupata dai tedeschi.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

149<br />

Il capitano Orlando<br />

de Tommaso,<br />

comandante della<br />

mia IV compagnia<br />

carabinieri, morto da<br />

eroe il 9 settembre<br />

1943 durante la<br />

battaglia per ricacciare<br />

le truppe tedesche che<br />

tentavano <strong>di</strong> occupare<br />

Roma entrando dal<br />

ponte della Magliana<br />

<strong>di</strong> Cecchignola e poi<br />

seguire il percorso<br />

della trincea fino al<br />

cuore della città.<br />

È la prima medaglia<br />

d’oro della Resistenza.<br />

Motivazione della medaglia d’oro al valor militare<br />

Comandante <strong>di</strong> compagnia allievi carabinieri impegnata per la <strong>di</strong>fesa della<br />

capitale, nella riconquista <strong>di</strong> importante caposaldo che truppe tedesche avevano<br />

strappato dopo sanguinosa lotta a reparto <strong>di</strong> altra arma, mosse all’attacco con slancio<br />

superbo, trasfondendo nei suoi giovanissimi gregari grande entusiasmo ed alto<br />

spirito combattivo, dopo tre ore <strong>di</strong> aspra ed alterna lotta, in un momento decisivo<br />

delle sorti del combattimento, per trascinare il suo reparto inchiodato dal fuoco<br />

nemico a poche centinaia <strong>di</strong> metri dall’obiettivo e lanciarlo contro l’ultimo ostacolo,<br />

non esitava a balzare in pie<strong>di</strong> allo scoperto, sulla strada furiosamente battuta,<br />

affrontando coscientemente il supremo sacrificio. Colpito a morte da una raffica <strong>di</strong><br />

arma automatica, cadeva gridando ai suoi carabinieri: “Avanti! Viva l’Italia!”.<br />

Il suo grido e il suo olocausto, galvanizzando il reparto, lo portarono d’impeto,<br />

in una nobile gara <strong>di</strong> eroismi, alla riconquista dell’obiettivo.


150 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Il mio portasigarette sul cui coperchio<br />

ho inciso con la punta della baionetta<br />

la data, il luogo e il nome del<br />

commilitone, che mi sono trovato a<br />

fianco, al termine della battaglia <strong>di</strong><br />

Cecchignola del 9 settembre 1943.<br />

Roma, Altare della Patria. Mentre ero <strong>di</strong> picchetto d’onore presso questo sacrario il 18<br />

settembre 1943, arrivò dal Veneto la madre <strong>di</strong> un mio commilitone, che era in quel<br />

momento <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a, la quale <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> volere portare a casa suo figlio: fu in quel momento<br />

che io decisi <strong>di</strong> abbandonare il servizio militare. Partii da Roma il 22 settembre ‘43.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

151<br />

Il 10 aprile 1944 io e mio fratello Giuseppe <strong>di</strong>ventammo parte integrante delle<br />

formazioni Partigiane. Qui mio fratello, artigliere <strong>di</strong> montagna con obici da<br />

75/13 quando partecipava alla guerra dei Balcani. È ritratto nel 1942, assieme ad<br />

altri fa il presentat-arm con le canne degli obici che pesavano Kg 105 ciascuna,<br />

escluso naturalmente ogni altro accessorio. Mio fratello è il secondo da sinistra.<br />

Monte Grappa, 25-26-27 settembre 1944, vi fu la più grande battaglia campale<br />

della Resistenza Veneta: poco meno <strong>di</strong> 1.500 patrioti contro circa 15.000 soldati<br />

tedeschi e fascisti. Quasi tutti i partigiani morirono, i tedeschi incen<strong>di</strong>arono<br />

molte case e stalle. Si noti sopra i pochi resistenti e sotto i molti soldati nazifascisti<br />

all’attacco con armi pesanti. Disegno <strong>di</strong> B. Mardegan.


152 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Padre Nicolini sale sul camion per confortare i giovani che vengono portati in<br />

un viale <strong>di</strong> Bassano del Grappa per essere impiccati. Tarda mattinata del 26<br />

settembre 1944.<br />

I giovani impiccati appesi agli alberi <strong>di</strong> un viale ora chiamato “Viale dei Martiri”.<br />

Inizio del supplizio ore 15 del 26 settembre 1944. Disegni <strong>di</strong> B. Mardegan.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Bassano del Grappa, ponte vecchio detto degli Alpini, sabotato dai partigiani<br />

comandati da Masaccio per evitare i bombardamenti aerei degli alleati che<br />

avrebbero causato gravi danni alla città. Per rappresaglia il 22 febbraio 1945<br />

furono fucilati dai nazifascisti: Federico Alberti, Cesare Lunar<strong>di</strong> e Antonio<br />

Zavagnin.<br />

Bassano del Grappa, 17 febbraio 1945. Il comandante Masaccio assieme ad altri<br />

partigiani, tutti travestiti da soldati tedeschi, trasportano con un carrettino tirato<br />

da biciclette, 150 kg <strong>di</strong> esplosivo per fare saltare il ponte vecchio detto “degli<br />

Alpini”. Disegni <strong>di</strong> B. Mardegan.<br />

153


154 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Foglio matricolare da cui risulta la mia attività <strong>di</strong> Partigiano (ve<strong>di</strong> immagine<br />

seguente).


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

155<br />

Parte del foglio<br />

matricolare da cui<br />

risulta la mia attività <strong>di</strong><br />

Partigiano.<br />

Reparto: Brigata Martiri<br />

della Libertà.<br />

Conferimento della<br />

croce <strong>di</strong> guerra.


156 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Dichiarazione del <strong>di</strong>stretto militare <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> per la concessione della croce <strong>di</strong><br />

guerra.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Dichiarazione del <strong>di</strong>stretto militare <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> per la concessione della croce <strong>di</strong><br />

guerra.<br />

157


158 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Tessera rilasciatami perché partigiano.


Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Certificato <strong>di</strong> Patriota rilasciatomi dal comandante americano maresciallo<br />

Alexander, controfirmato dal comandante della mia <strong>di</strong>visione Monte Grappa<br />

e da un ufficiale alleato con timbro del CVL – Comitato Veneto <strong>di</strong> Liberazione.<br />

A sinistra, padre Odone Nicolini, frate camilliano, che fu <strong>di</strong> grande aiuto per<br />

molti partigiani, per questo fu chiamato “Il prete dei partigiani”.<br />

A destra, sacerdoti veneti che operarono nella zona: Don Giuseppe Menegon,<br />

Don Francesco Mascotto, Don Carlo Davanzo, Don Anselmo Riello.<br />

159


160 Attilio Bizzotto - Ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un carabiniere combattente per la libertà<br />

Masaccio, Medaglia d’oro al valor militare<br />

Motivazione<br />

Masaccio, nome <strong>di</strong><br />

battaglia del prof. Primo<br />

Visentin, nato nel 1913<br />

a Riese (Treviso), è stato<br />

il mio comandante <strong>di</strong><br />

Brigata, Martiri del<br />

Grappa, dall’ottobre<br />

1944, dopo l’ecci<strong>di</strong>o del<br />

settembre.<br />

Una fucilata lo uccise<br />

sul finire della guerra.<br />

È medaglia d’oro della<br />

Resistenza.<br />

Fin dall’inizio del movimento cospirativo, organizzò le formazioni armate,<br />

trascinando con l’esempio, con l’entusiasmo e con l’ar<strong>di</strong>mento le squadre dei giovani<br />

da lui inquadrate.<br />

Comandante <strong>di</strong> Brigata, partecipò alle più ardue azioni <strong>di</strong> lotta e <strong>di</strong> sabotaggio e la<br />

sua audacia non conobbe ostacoli, né pericoli.<br />

A poche ore dalla liberazione, mentre intimava la resa ad un forte gruppo <strong>di</strong> tedeschi<br />

asserragliati, cadde colpito a morte, chiudendo da eroe la sua adamantina vita<br />

de<strong>di</strong>cata al luminoso ideale della Patria libera.<br />

Il suo nome, consacrato dal sacrificio, è assurto a simbolo della zona del Grappa.<br />

25 aprile 1945


Memorie <strong>di</strong> guerra<br />

<strong>di</strong> un soldato del Genio<br />

1942 – 1945<br />

1944, aggregato alle truppe americane<br />

LINO BELLUCO<br />

Classe 1923<br />

Monselice – PD – Via Trento Trieste


162 Lino Belluco - Memorie <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> un soldato del Genio<br />

Sono Lino Belluco, nato il 6 aprile 1923 a Monselice in via Savellon<br />

Mulini, dove erano i campi coltivati da mio padre agricoltore.<br />

Soldato <strong>di</strong> leva, fui chiamato alle armi nel settembre 1942, mentre<br />

frequentavo il liceo classico “Tito Livio” <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>. Fui destinato al 14°<br />

reggimento del Genio <strong>di</strong> stanza nella caserma Fantuzzi <strong>di</strong> Belluno.<br />

Ebbi una lunga e accurata preparazione tecnica, sia per essere in grado<br />

<strong>di</strong> ricevere e trasmettere con l’alfabeto Morse i vari <strong>di</strong>spacci militari, sia<br />

per conoscere dettagliatamente le attrezzature <strong>di</strong> una stazione ra<strong>di</strong>omarconista<br />

mobile, cioè posta su automezzo.<br />

Contemporaneamente dovetti fare anche servizio <strong>di</strong> caserma per assolvere<br />

i quoti<strong>di</strong>ani impegni che richiede una comunità militare e per le solite<br />

esercitazioni tattico-militari.<br />

Un giorno ero il caporale capoposto del picchetto <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a. Fui<br />

chiamato dalla sentinella, che si trovava nella garitta a fianco del portone<br />

principale, la quale mi in<strong>di</strong>cò un signore <strong>di</strong> bassa statura con una grossa<br />

valigia che stava avvicinandosi. Osser<strong>vai</strong> ben bene quell’uomo che<br />

lentamente camminava verso <strong>di</strong> noi. Con grande sorpresa lo riconobbi:<br />

era il professor Lino Lazzaroni, mio insegnante <strong>di</strong> italiano al liceo <strong>di</strong><br />

<strong>Padova</strong>. Gli corsi incontro e, pieno <strong>di</strong> commozione, lo abbracciai. Era<br />

stato richiamato ed assegnato alla mia caserma. Il professore faceva parte<br />

<strong>di</strong> quegli ultimi scaglioni <strong>di</strong> anziani chiamati alle armi: il fascismo aveva<br />

raschiato il fondo del barile.<br />

Nella tarda estate del 1943 noi genieri, assieme a tanti altri soldati <strong>di</strong> varie<br />

specializzazioni, fummo destinati alla <strong>di</strong>fesa della Corsica.<br />

Partimmo da Belluno in treno <strong>di</strong> buona mattina e alla sera arrivammo al<br />

porto <strong>di</strong> La Spezia. Avevamo appresso tutto il nostro equipaggiamento<br />

militare e le stazioni ra<strong>di</strong>o-marconiste. Io, oltre allo zaino, portavo anche<br />

una pesante valigia piena <strong>di</strong> libri scolastici con l’idea <strong>di</strong> poter stu<strong>di</strong>are<br />

nelle pause libere dal servizio, come avevo fatto in caserma.<br />

I piazzali <strong>di</strong> quel porto erano pieni <strong>di</strong> una moltitu<strong>di</strong>ne eterogenea <strong>di</strong><br />

soldati, carichi <strong>di</strong> zaini e armi. Dormimmo all’ad<strong>di</strong>accio.<br />

Il giorno dopo lentamente ci stiparono in una nave: alla fine eravamo<br />

millecinquecento soldati impossibilitati anche <strong>di</strong> muoverci, proprio come<br />

le sar<strong>di</strong>ne in barile!<br />

Salpammo solo a notte inoltrata per non subire attacchi aerei Alleati;


Lino Belluco - Memorie <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> un soldato del Genio<br />

163<br />

finalmente arrivammo <strong>di</strong> mattina presto a Bastia in Corsica.<br />

Lo sbarco durò parecchie ore. A pie<strong>di</strong>, come al solito, arrivammo in un grande<br />

campo oappena fuori dalla cinta citta<strong>di</strong>na: era il centro <strong>di</strong> smistamento<br />

per le varie destinazioni. Il campo era pressoché sguarnito <strong>di</strong> servizi, così<br />

dovemmo allestire le tende, con i teli in dotazione, per dormire.<br />

Rimanemmo là qualche giorno ad oziare e poi a grattarci il corpo per i<br />

numerosi parassiti che infestavano quel luogo: erano il lascito in regalo e<br />

la risultanza <strong>di</strong> tutti quelli che erano passati <strong>di</strong> là prima <strong>di</strong> noi.<br />

Fortunatamente ci spostarono: andammo nella periferia <strong>di</strong> una citta<strong>di</strong>na<br />

che si chiamava Corte, dove trovammo uno spiazzo abbastanza attrezzato,<br />

così potemmo lavarci e ripulirci. Mancavano fabbricati e così ci<br />

attendammo <strong>di</strong> nuovo. Innalzammo gran<strong>di</strong> tende che contenevano nove<br />

brande per il riposo <strong>di</strong> noi soldati: era un luogo tranquillo. Ma la quiete fu<br />

interrotta abbastanza presto dall’armistizio dell’8 settembre 1943.<br />

I nostri coman<strong>di</strong> non accettarono la richiesta <strong>di</strong> collaborazione<br />

avanzata dalle truppe tedesche presenti nell’isola, così scoppiò il<br />

conflitto tra noi e i nazisti. Vi furono combattimenti ravvicinati<br />

per circa un mese. Gli assalti tedeschi erano violenti con l’uso <strong>di</strong><br />

fanteria, artiglieria e mezzi blindati che causarono <strong>di</strong>struzioni e morti<br />

fra noi Italiani. Più i Tedeschi insistevano nei loro attacchi, più in<br />

noi si sviluppava un sentimento <strong>di</strong> ripulsa verso i nuovi nemici e ci<br />

sentivamo motivati a sconfiggere proprio coloro che avevano messo a<br />

ferro e fuoco l’Europa, creando macerie e lutti a non finire.<br />

In uno <strong>di</strong> quegli attacchi successe a me un fatto che ho sempre considerato<br />

miracoloso.<br />

Mentre eravamo in perlustrazione sul territorio, una improvvisa bordata<br />

<strong>di</strong> cannonate tedesche colpì il nostro campo e, in particolare, centrò<br />

appieno la mia tenda rovinando ogni cosa compresi i miei libri: se<br />

fossimo stati all’interno saremmo stati sfracellati, proprio come lo<br />

furono le brande e gli zaini.<br />

I Tedeschi, constatato che non sarebbero mai stati capaci <strong>di</strong> neutralizzarci,<br />

o forse perché avevano bisogno <strong>di</strong> altri soldati in Italia, se ne andarono<br />

dalla Corsica alla fine dell’ottobre 1943.<br />

Vi fu una pausa ristoratrice e sistemammo ogni danno, con mio <strong>di</strong>spiacere<br />

però i libri erano andati tutti perduti.


164 Lino Belluco - Memorie <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> un soldato del Genio<br />

Rimanemmo in attesa <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ni per essere impiegati, truppa combattente,<br />

a fianco degli alleati angloamericani e francesi.<br />

Venne il 1944 e in Campania si svilupparono lunghi e sanguinosi<br />

combattimenti. Attorno a Montecassino i Tedeschi <strong>di</strong>fendevano la<br />

linea Gustav contro un gruppo <strong>di</strong> <strong>di</strong>visioni americane, inglesi, polacche<br />

e francesi. Le battaglie più aspre si svilupparono nel mese <strong>di</strong> febbraio<br />

ed ebbero il loro culmine con la <strong>di</strong>struzione della grande abbazia <strong>di</strong><br />

Montecassino, avvenuta il 15 febbraio 1944. In quei frangenti noi fummo<br />

spostati dalla Corsica alla Campania, ove sbarcammo imme<strong>di</strong>atamente<br />

dopo il devastante bombardamento <strong>di</strong> Cassino.<br />

Il mio contingente <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>o-marconisti fu aggregato all’armata americana<br />

che ci fornì <strong>di</strong>vise e attrezzature. Io fui impiegato come capo squadra in<br />

una stazione mobile posta su una jeep.<br />

Facevo collegamenti fra il comando italiano e i nostri soldati in prima<br />

linea, attraversando pericoli <strong>di</strong> ogni sorta. Quando arrivammo nelle<br />

Marche, in un’azione <strong>di</strong> avanscoperta, fui colpito dolorosamente da<br />

un fatto. Con la mia squadra dovevo fare un servizio <strong>di</strong> collegamento<br />

durante una battaglia. Il mio amico e collega Banzato, anche lui capo<br />

pattuglia, ma in quel momento a riposo, volle sostituirmi in quella<br />

azione ritenuta molto pericolosa. Era più anziano <strong>di</strong> me e forse si sentiva<br />

più esperto; insistette molto e volle partire al posto mio. Andò, ritornò<br />

steso sulla jeep ferito gravemente: gli fu amputata una gamba.<br />

Risalimmo lentamente lo stivale, occupando una alla volta le varie linee<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa ideate dal comandante tedesco Kesselring. Arrivammo a Castel<br />

San Pietro alla fine <strong>di</strong> marzo 1945.<br />

Qui ci fermammo brevemente, rimanendo in attesa <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ni, mentre<br />

altri soldati partirono per liberare il Veneto e il Friuli. Poco dopo il<br />

mio gruppo <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>o-marconisti, assieme ad altri soldati, fu inviato a<br />

Dobbiaco per controllare la zona frontaliera tra l’Austria e l’Alto A<strong>di</strong>ge.<br />

Poco dopo la vittoria finale dell’aprile 1945 io fui congedato.<br />

I trasporti per arrivare a casa erano allora molto problematici, per questo<br />

il mio comando permise a me e ad altri miei conterranei <strong>di</strong> ritornare a<br />

casa in jeep, con l’intesa <strong>di</strong> riconsegnare l’automezzo al comando tappa<br />

più vicino. Arrivati allegri e contenti nel centro <strong>di</strong> Monselice, tro<strong>vai</strong><br />

amici e conoscenti coi quali ci abbracciammo.


Lino Belluco - Memorie <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> un soldato del Genio<br />

165<br />

Uno mi avvisò che mio padre Ferruccio era stato ricoverato<br />

all’ospedale <strong>di</strong> Monselice per una ferita infertagli da un colpo <strong>di</strong><br />

fucile, sparato da un soldato tedesco in ritirata: così corsi a salutare<br />

per primo mio padre che fortunatamente tro<strong>vai</strong> quasi del tutto<br />

guarito, tanto che fu <strong>di</strong>messo poco dopo.<br />

Ripresi subito gli stu<strong>di</strong> liceali interrotti, ritro<strong>vai</strong> il professore Lino<br />

Lazzaroni, ormai amico <strong>di</strong> naia; successivamente mi laureai in scienze<br />

agrarie all’Università <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>.<br />

Infine, non posso non ricordare con commozione i soldati che sono<br />

morti da eroi, parecchi dei quali miei amici, fra questi la medaglia d’oro<br />

Bruno Bussolin <strong>di</strong> Monselice, caduto sul Monte S. Michele d’Abruzzo<br />

il 19 maggio 1944.<br />

Abbiamo combattuto per avviare la vita <strong>di</strong> noi Italiani a un lungo<br />

periodo <strong>di</strong> pace. L’Europa unita come una grande nazione nacque anche<br />

dal nostro sacrificio <strong>di</strong> soldati.<br />

Epilogo della lotta in Corsica<br />

Pochi anni fa l’amico Giuseppe Trevisan mi fece leggere un articolo<br />

in fotocopia, del giornale “La Nazione”, con la cronaca <strong>di</strong> Livorno<br />

dell’11 giugno 1963, che aveva come titolo Arrivano le 620 salme<br />

dei Caduti in Corsica. La nave Stromboli trasportava a Livorno,<br />

proveniente da Bastia <strong>di</strong> Corsica, le cassette ossario dei soldati<br />

italiani caduti durante i combattimenti dopo l’8 settembre 1943<br />

contro le truppe tedesche. Con una solenne cerimonia quelle spoglie<br />

furono tumulate in parte nel sacrario del cimitero della Cigna ed<br />

altre nei cimiteri dei paesi natii dei soldati. Il sindaco <strong>di</strong> Livorno fece<br />

un proclama ai citta<strong>di</strong>ni: mi piace ricordarne l’ultima parte, perché<br />

ha rinnovato in me una profonda commozione.<br />

L’amministrazione saluta riverente le gloriose vittime dell’ultima guerra<br />

ed invita la citta<strong>di</strong>nanza a rendere tributi <strong>di</strong> onore ai resti mortali <strong>di</strong><br />

questi Italiani che offrirono la loro giovinezza nella <strong>di</strong>fesa della libertà e<br />

della in<strong>di</strong>pendenza del nostro Paese.<br />

Non pensavo che i morti in quegli scontri, dei quali io fui un fortunato<br />

sopravvissuto, fossero 620 commilitoni tutti morti per una sola parola:<br />

No, detta ai Tedeschi che chiedevano <strong>di</strong> collaborare.


166 Lino Belluco - Memorie <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> un soldato del Genio<br />

1943, Caserma Fantuzzi <strong>di</strong> Belluno. Gruppo <strong>di</strong> soldati del Genio Ra<strong>di</strong>otelegrafisti.<br />

Da destra io sono il terzo. Il primo a sinistra è il commilitone Bonzato, che perse una<br />

gamba quando tutti e due combattevamo nel centro Italia al comando degli Alleati<br />

contro l’armata tedesca. Bonzato volle sostituirmi e fu ferito durante una battaglia.<br />

Estate 1944. La jeep americana in dotazione alla mia squadra, comandata da me,<br />

caporale, primo accosciato da destra.


Un sopravissuto del campo<br />

<strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

CARLO FRIZZARIN<br />

nato a Monselice il 4-XI-1923<br />

deceduto il 26-VIII-2001


168 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Ricerche fatte da Giuseppe Trevisan<br />

Premessa<br />

Quando mi sono de<strong>di</strong>cato alle ricerche delle memorie <strong>di</strong> questo<br />

amico ritenevo avesse lasciato un proprio <strong>di</strong>ario, come <strong>di</strong>verse persone<br />

mi avevano assicurato. Chiesi allora alla moglie, la quale subito mi<br />

precisò che non c’era nessun <strong>di</strong>ario personale, ma che vi erano due<br />

libri custo<strong>di</strong>ti gelosamente da suo marito che li considerava come<br />

<strong>di</strong>ari dei suoi patimenti nel campo <strong>di</strong> Zeithain. Fu così che lessi<br />

come testimonianze <strong>di</strong> Carlo Frizzarin due libri-<strong>di</strong>ario: uno <strong>di</strong> un<br />

sacerdote cappellano e l’altro <strong>di</strong> una crocerossina.<br />

Io poi rinvenni gli articoli giornalistici che avevo raccolti per mia<br />

documentazione sui lager, i quali mi sono serviti per confrontarli con<br />

i libri <strong>di</strong>ario. Leggendo il tutto mi sono convinto <strong>di</strong> poter descrivere<br />

con sufficiente precisione la vita tormentata <strong>di</strong> questo amico a<br />

Zeithain. Mancano certamente gli episo<strong>di</strong> che hanno segnato<br />

profondamente Carlo e i suoi commilitoni in quel Kranklager<br />

(campo degli ammalati), ritengo però poter fare ugualmente un<br />

quadro realistico, perché mi sento anche aiutato dalla mia esperienza<br />

<strong>di</strong>retta dei lager nazisti<br />

Il lager <strong>di</strong> Zeithain<br />

Soprattutto dalla lettura dei due libri ricevuti, mi sono fatto un’idea<br />

precisa <strong>di</strong> cosa fosse stato il Reserve Lazaret, come lo chiamavano<br />

i Tedeschi. Era uno dei tanti lager con baracche e letti a castello<br />

<strong>di</strong> legno, sempre pieni <strong>di</strong> cimici, circondato da cavalli <strong>di</strong> frisia,<br />

con guar<strong>di</strong>ania costante <strong>di</strong> soldati armati. In più aveva <strong>di</strong>fferenze<br />

specifiche <strong>di</strong> controllo dato che era a<strong>di</strong>bito a ospedale per malattie<br />

contagiose: era appunto un lazzaretto. Si trovava sulla sponda destra<br />

del fiume Elba e <strong>di</strong>pendeva dallo Stammlager IV B <strong>di</strong> Mühlberg/<br />

Elba, in Sassonia, dal quale <strong>di</strong>stava una decina <strong>di</strong> chilometri.<br />

Quello Stalag (abbreviazione <strong>di</strong> Stammlager) era molto grande,<br />

e lo deduco perché colà furono immatricolati circa trecentomila


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

169<br />

prigionieri. Questo calcolo è stato fatto, considerando le matricole<br />

delle piastrine dei nostri novecento soldati deceduti in quel lazzaretto<br />

che erano arrivati quasi per ultimi, infatti esse portano dei numeri<br />

superiori al 260 000.<br />

Luca Airol<strong>di</strong>, il frate francescano cappellano <strong>di</strong> Zeithain, precisò nel<br />

suo libro-<strong>di</strong>ario che quel campo conteneva, alla fine del 1943 circa<br />

6000 russi e poi polacchi, serbi qualche centinaio <strong>di</strong> francesi, inglesi,<br />

americani, perfino un centinaio <strong>di</strong> in<strong>di</strong>ani e infine circa duemila<br />

italiani, molti dei quali provenivano dei Balcani.<br />

Il relatore continua <strong>di</strong>cendo che ogni nazionalità aveva il proprio<br />

reparto, separato dai restanti da un reticolato alto tre metri, e che le<br />

baracche degli italiani erano <strong>di</strong>vise in tre serie: quelle della me<strong>di</strong>cina<br />

in<strong>di</strong>cate con A, quelle della chirurgia col B e infine quelle delle<br />

malattie infettive – soprattutto TBC – con la C. L’Airol<strong>di</strong> completa<br />

la presentazione del campo Lazaret – Zeithain scrivendo:<br />

Un ospedale… penserà qualcuno, e teoricamente lo era, ma quanto<br />

<strong>di</strong>versa era la realtà! Se le baracche rigurgitavano <strong>di</strong> ammalati… e se<br />

ogni baracca aveva il suo me<strong>di</strong>co curante e suoi infermieri, mancava<br />

assolutamente tutto il resto. Un ospedale beffa! Basti pensare poi che,<br />

se mancavano quasi totalmente le me<strong>di</strong>cine, mancavano pure i cibi<br />

sufficienti.<br />

Su quest’ultimo argomento io ho fatto poi un confronto con quello<br />

che ricevevo negli Arbeitslager (campi <strong>di</strong> lavoro). I prigionieri<br />

ammalati ricevevano circa il 60% <strong>di</strong> quello che ottenevamo noi<br />

prigionieri lavoratori. Valga come esempio: io ricevevo 250 grammi<br />

<strong>di</strong> pane al giorno, loro 150 grammi!<br />

Fortunatamente, anche in quel campo gli italiani potevano<br />

arrangiarsi, facevano cioè baratti con gli stranieri che ricevevano i<br />

pacchi dalla Croce Rossa, oppure con astuzia e sotterfugi riuscivano<br />

ad accaparrarsi qualcosa da mettere sotto i denti.<br />

A Zeithain, ove mancavano tantissime cose e ove era presente<br />

solo la morte giornaliera, vi furono tanti italiani eroici. A partire<br />

da coloro che sapevano <strong>di</strong> dover morire, ai me<strong>di</strong>ci, infermieri,<br />

crocerossine e cappellani. I primi morivano con la pace degli eroi,<br />

tutti gli altri si pro<strong>di</strong>gavano con abnegazione a dare sollievo, nel


170 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

modo migliore possibile, in quell’infernale campo.<br />

Colà morirono novecento italiani le cui spoglie furono quasi<br />

tutte inumate in un camposanto ben organizzato, che dopo circa<br />

cinquant’anni ha permesso il ritrovamento <strong>di</strong> tutte le salme. Il<br />

merito va soprattutto al cappellano del campo e ai suoi soldati<br />

aiutanti, fra i quali penso vi sia stato anche l’amico Carlo Frizzarin.<br />

Quel sacerdote volle le singole fosse molto profonde, poiché temeva<br />

che quel terreno sabbioso subisse stravolgimenti nel caso il vicino<br />

fiume Elba straripasse.<br />

I russi, arrivati in quel luogo nell’aprile 1945, vi fecero un grande<br />

campo d’aviazione demolendo tutto ciò che impe<strong>di</strong>va lo spianamento<br />

e quin<strong>di</strong> anche il cimitero. Quella zona poi passò sotto alla Germania<br />

Est, il cui governo non permise mai <strong>di</strong> fare controlli per riesumare<br />

le salme.<br />

Solo nel 1989, quando vi fu la caduta del muro <strong>di</strong> Berlino e la<br />

riunificazione tedesca, furono consentite le ricerche e il recupero<br />

delle tombe.<br />

Testimonianza del cappellano<br />

Il francescano padre Luca Airol<strong>di</strong> cappellano del lazzaretto <strong>di</strong><br />

Zeithain, scrisse nel 1962 il libro-<strong>di</strong>ario Zeithain campo <strong>di</strong> morte,<br />

dove 900 nostri invocavano ancora Italia, e<strong>di</strong>to dalla Scuola<br />

tipografica Artigianelli <strong>di</strong> Pavia. Da subito quel libro <strong>di</strong>venne per<br />

Carlo Frizzarin il <strong>di</strong>ario della sua prigionia, tanto da considerarlo<br />

espressione personale del suo calvario. Quel libro è certamente un<br />

<strong>di</strong>ario importante, scritto <strong>di</strong> nascosto durante la prigionia ed è a<br />

mio giu<strong>di</strong>zio, una formidabile ed eloquente testimonianza <strong>di</strong> quanto<br />

<strong>di</strong> esecrabile abbia fatto il nazismo, nella inutile e sanguinosissima<br />

guerra scatenata dalla follia <strong>di</strong> Hitler per le sue manie <strong>di</strong> grandezza.<br />

Quel sacerdote autore è stato, oltre che un infaticabile ministro <strong>di</strong><br />

Cristo, anche un preciso, paziente ed attento osservatore <strong>di</strong> quello<br />

che vedeva e <strong>di</strong> quello che era costretto a fare.<br />

A partire da pagina 129, nelle 220 pagine della sua opera, scrisse il<br />

susseguirsi continuo e inarrestabile elenco delle morti avvenute nel<br />

lazzaretto. Annotò non solo le generalità <strong>di</strong> tutti i defunti, ma anche


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

171<br />

ciò che riusciva a conoscere <strong>di</strong> quei soldati moribon<strong>di</strong>: segno della<br />

sua costante e incessante assistenza a quei poveri destinati a morire<br />

perché mancanti cibo e <strong>di</strong> me<strong>di</strong>cine. I primi italiani morti a Zeithain<br />

furono inumati nel cimitero dello Stalag IV B. Poi, monsignor Ezio<br />

Ghi<strong>di</strong>ni, cappellano <strong>di</strong> quel campo base, ottenne dai tedeschi <strong>di</strong><br />

costruire il cimitero degli italiani a Zeithain, nel quale, a partire<br />

dal 2 febbraio 1944, furono sepolti quasi novecento nostri militari.<br />

L’organizzatore fu il francescano, aiutato però da parecchi nostri<br />

prigionieri che scavarono le fosse, costruirono le casse, le croci e i<br />

cippi <strong>di</strong> riconoscimento.<br />

I morti venivano rinchiusi nu<strong>di</strong> nella cassa con al collo mezza<br />

piastrina identificativa dello Stalag IV B, che aveva anche il numero<br />

<strong>di</strong> matricola del defunto. Il francescano fu così scrupoloso che annotò<br />

sul proprio <strong>di</strong>ario i numeri delle piastrine e delle tombe, facendo nel<br />

contempo una precisa planimetria.<br />

Questi accorgimenti furono molto utili, cinquant’anni dopo, quando<br />

vi fu la riesumazione. Certamente Carlo Frizzarin, generoso qual era,<br />

contribuì in modo fattivo a quest’opera <strong>di</strong> misericor<strong>di</strong>a: non a caso<br />

conservava quel libro come una reliquia!<br />

Dal resoconto dei deceduti ho constatato che a Zeithain la TBC infierì<br />

su quasi tutti gli italiani, segno della molto scarsa alimentazione.<br />

Il 2 febbraio 1945 vi morirono sette nostri soldati provenienti dallo<br />

Stalag XVII A, che era il mio. Sicuramente quel mio campo base, sito<br />

poco <strong>di</strong>stante dalla Cecoslovacchia, fu sgomberato quando l’armata<br />

russa arrivò in quella regione. In quei giorni io mi trovavo in un<br />

arbeitslager, <strong>di</strong>stante circa 100 chilometri verso ovest: dove i russi<br />

arrivarono solo all’inizio dell’aprile 1945.<br />

Zeithain invece fu liberato dai russi verso la fine <strong>di</strong> quel mese.<br />

Subito i russi migliorarono le cure per gli ammalati anche se<br />

purtroppo gli italiani continuarono a morire, date le loro gravi<br />

con<strong>di</strong>zioni. Intanto coloro che potevano muoversi sciamarono fuori<br />

dal campo e lentamente se ne tornarono in Patria, come fece Carlo<br />

Frizzarin, che ritornò all’inizio del luglio 1945.<br />

Padre Airol<strong>di</strong> continuò ad aiutare gli ammalati anche sotto i russi e<br />

riuscì a far curare i più bisognosi negli ospedali <strong>di</strong> Praga.


172 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

A furia <strong>di</strong> richieste si scontrò con il responsabile russo del <strong>di</strong>stretto;<br />

fu così che per non avere noie con l’autorità russa dovette fuggire il<br />

15 giugno 1945 da Zeithain. Dopo aver salutato ammalati e sanitari<br />

rimasti nel campo, partì verso ovest travestito da soldato francese,<br />

per ottenere aiuti e non essere sottoposto a interrogatori, dato che in<br />

quella zona vi era allora mescolanza <strong>di</strong> militari <strong>di</strong> varie nazionalità.<br />

Arrivò dagli Alleati con il suo pesante zaino pieno <strong>di</strong> ricor<strong>di</strong><br />

personali dei molti defunti, compreso il suo prezioso <strong>di</strong>ario che era<br />

riuscito a scrivere ed a salvare dalle perquisizioni, nascondendolo fra<br />

gli arre<strong>di</strong> sacri. Arrivato in Italia, pian piano ricercò i familiari dei<br />

morti, consegnando a loro quanto aveva portato con sé.<br />

Padre Airol<strong>di</strong> per lunghi anni operò intensamente per il rientro in<br />

Italia <strong>di</strong> quelle salme che lui e i suoi aiutanti avevano seppellito.<br />

Purtroppo rimase una voce inascoltata; vuoi perché allora da noi<br />

i ricor<strong>di</strong> dolorosi erano tantissimi, vuoi perché Zeithain era nella<br />

Germania dell’Est che non permetteva controlli. Fu così che il<br />

francescano nel 1962 pubblicò il suo libro-<strong>di</strong>ario per scuotere<br />

le coscienze. In Italia ottenne sì una risonanza, ma non scosse<br />

minimamente il governo della Germania dell’Est.<br />

Testimonianza <strong>di</strong> una crocerossina<br />

Vittoria Maria Zeme fu crocerossina volontaria a Zeithain. Durante<br />

la sua prigionia scrisse il proprio <strong>di</strong>ario in un’agen<strong>di</strong>na che riuscì<br />

sempre a nascondere, nonostante le varie perquisizioni subite. Solo<br />

nel febbraio 1994 fece stampare il libro-<strong>di</strong>ario dal titolo Il tempo <strong>di</strong><br />

Zeithain 1943-1944, <strong>di</strong>ario <strong>di</strong> una crocerossina internata volontaria<br />

in un lager lazzaretto nazista, lo stampatore fu Alberti libraio e<strong>di</strong>tore,<br />

Verbania-Intra.<br />

La Zeme in questo libro non solo parla dell’opera sacerdotale <strong>di</strong> Luca<br />

Airol<strong>di</strong>, confermando anche la tristissima con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> vita in quel<br />

campo, ma in un certo modo completa il <strong>di</strong>ario del francescano,<br />

perché racconta anche la riesumazione delle salme avvenuta negli<br />

anni 1989-90 (il sacerdote era morto nell’ottobre del 1985).<br />

Nella prefazione l’autrice, che porta il numero <strong>di</strong> matricola 256 569<br />

dello Stalag IV B, <strong>di</strong>ce:


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

173<br />

Questo mio <strong>di</strong>ario mi ricordava <strong>di</strong> essere una persona, non un numero,<br />

e mi avrebbe ricordato un giorno, se mai avessi potuto salvarmi e<br />

salvarlo, <strong>di</strong> essere stata protagonista e testimone <strong>di</strong> un evento storico,<br />

assurdo, terribile, che non doveva assolutamente ripetersi.<br />

Il libro ha una presentazione chiara ed efficace <strong>di</strong> un ex prigioniero -<br />

internato IMI - che ben interpreta la situazione e i sentimenti <strong>di</strong> noi<br />

soldati lasciati in balia dell’ignavia <strong>di</strong> coloro che avevano il potere,<br />

quando, l’8 settembre 1943, hanno firmato l’armistizio.<br />

La crocerossina snoda il <strong>di</strong>ario della sua assistenza ai malati piena<br />

nell’intimo <strong>di</strong> un grande dolore per le gravi deficienze assistenziali,<br />

anche se cercava <strong>di</strong> essere sempre sorridente con coloro che avevano<br />

tanto bisogno <strong>di</strong> conforto.<br />

Pure lei cominciò ad avere forti problemi <strong>di</strong> salute, per alte febbri<br />

che durarono mesi interi, tanto che alla fine del maggio 1944 fu<br />

inclusa nel treno violetto per il rientro in Italia <strong>di</strong> 150 ammalati.<br />

Nel suo libro descrive anche il giorno precedente la partenza, quando<br />

le fu estratto il dente del giu<strong>di</strong>zio che le procurava atroci dolori. Il<br />

me<strong>di</strong>co privo <strong>di</strong> strumenti, dovette estrarre il dente con una tenaglia<br />

da falegname, senza nessun anestetico: e questo era un ospedale!<br />

Finalmente alla sera del 3 giugno 1944 il treno partì. Arrivò a Verona<br />

la sera del 6 giugno. Gli ammalati furono <strong>di</strong>stribuiti in vari ospedali;<br />

però l’impatto sulla popolazione <strong>di</strong> quei relitti umani, suscitò un<br />

così grande sconcerto fra gli abitanti italiani da allarmare le autorità<br />

nazifasciste. Ne derivò che la promessa fatta <strong>di</strong> riportare in Italia<br />

altri ammalati, fu annullata per timore <strong>di</strong> sommosse.<br />

Evidentemente l’assistenza ai malati nei campi ospedali tedeschi era<br />

molto <strong>di</strong>versa da quella descritta dalla propaganda mussoliniana!<br />

La crocerossina parlando poi del cappellano Luca Airol<strong>di</strong>, scrive che<br />

quel francescano si era molto pro<strong>di</strong>gato dopo la guerra, con costanza<br />

e in tutte le <strong>di</strong>rezioni, per portare in patria i caduti <strong>di</strong> Zeithain.<br />

Solamente nel 1972 riuscì ad avere un permesso dal governo della<br />

Germania dell’Est, che una delegazione della Croce Rossa potesse<br />

controllare il sito dove si trovava il cimitero.<br />

Fra i partecipanti vi furono anche padre Airol<strong>di</strong> e la crocerossina<br />

Maria Vittoria Zeme. Al riguardo, costei scrive nel libro:


174 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Partimmo pieni <strong>di</strong> speranza per Zeithain, ma il regime poliziesco della<br />

Repubblica Democratica Tedesca – DDR - rese inutile il nostro viaggio<br />

perché non potemmo fare ricerche. Fummo condotti davanti a una<br />

stele, che era un monumento sepolcrale per i caduti russi del lager 304<br />

(così era la denominazione ufficiale <strong>di</strong> Zeithain fino al gennaio 1944),<br />

là erano sepolti in grande fosse comuni 150 000 (centocinquantamila)<br />

soldati russi.<br />

Qualsiasi commento è superfluo!<br />

Continuando la Zeme precisa che finalmente, dopo la caduta<br />

del muro <strong>di</strong> Berlino e la riunificazione della Germania, nel 1989<br />

l’associazione italiana “Onorcaduti” ebbe il permesso <strong>di</strong> eseguire<br />

ricerche del camposanto ormai coperto dalla grande base aerea<br />

russa, che aveva nascosto ogni segnacolo <strong>di</strong> quello che era stato<br />

Zeithain.<br />

Vi furono lunghe indagini e alla fine fu trovata in profon<strong>di</strong>tà la cassa<br />

da morto <strong>di</strong> un soldato italiano, il cui scheletro era contrassegnato<br />

dalla piastrina <strong>di</strong> zinco dello Stalag IV B col numero <strong>di</strong> matricola.<br />

Con l’ausilio della planimetria e delle annotazioni del cappellano<br />

Airol<strong>di</strong>, fu possibile fare una riesumazione generale, con una<br />

ricognizione precisa, <strong>di</strong> tutte le salme. I resti furono riposti<br />

singolarmente in piccoli cofani contrassegnati da nome e in<strong>di</strong>rizzo<br />

dei defunti e trasportati nel grande cimitero militare <strong>di</strong> Re<strong>di</strong>puglia,<br />

dove si svolse una solenne celebrazione, con la presenza delle<br />

Autorità dello Stato Italiano. Molti parenti dei caduti chiesero il<br />

trasferimento dei resti nei cimiteri dei paesi <strong>di</strong> origine; le salme<br />

rimaste furono tumulate nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare <strong>di</strong><br />

Bari, da dove non potranno più essere rimosse. Padre Airol<strong>di</strong> non<br />

ebbe la consolazione <strong>di</strong> vedere compiuto il proprio desiderio: egli<br />

morì nel 1985.<br />

Sicuramente Carlo Frizzarin conosceva bene la crocerossina, anzi<br />

<strong>di</strong> certo l’ha aiutata nell’esplicazione del suo impegno umanitario:<br />

ne sono sicuro sia perché, conoscendo la <strong>di</strong>sponibilità <strong>di</strong> Carlo,<br />

ritengo l’abbia sostenuta laddove c’era qualche bisogno <strong>di</strong> forza<br />

fisica, sia perché c’è in proposito una cronaca giornalistica <strong>di</strong> cui<br />

parlerò più avanti.


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Documenti e interviste <strong>di</strong> Carlo Frizzarin<br />

175<br />

Dai documenti che allego risulta che Carlo Frizzarin fu arruolato<br />

per il servizio <strong>di</strong> leva il 28 giugno 1942 e subito lasciato in<br />

congedo illimitato provvisorio perché figlio <strong>di</strong> agricoltore: fu<br />

infatti considerato necessario per i lavori nei parecchi campi che<br />

suo padre aveva in affitto a Monselice in via Savellon Retratto.<br />

Ricevette la chiamata alle armi il 15 gennaio 1943 e fu assegnato<br />

all’Ottavo Reggimento <strong>di</strong> Artiglieria <strong>di</strong> Corpo D’Armata. Dopo<br />

breve addestramento il 23 aprile 1943 venne inviato in territorio<br />

<strong>di</strong> guerra nei Balcani. Fu ricoverato nel successivo luglio, dapprima<br />

in un ospedale da campo e poi ad Atene in Grecia. Ritengo sia<br />

stato per febbri malariche, come successe ad altri <strong>di</strong> stanza in quei<br />

luoghi.<br />

Certamente non fu per affezioni polmonari poiché egli riuscì a<br />

sopravvivere in un lazzaretto tedesco, ove molti italiani trovarono<br />

la morte a causa tisi. All’armistizio dell’8 settembre 1943 Carlo si<br />

trovava ancora in ospedale e finì subito prigioniero dei tedeschi.<br />

Nell’ottobre successivo fu internato nello Stammlager IV B <strong>di</strong><br />

Mühlberg/Elbe col numero <strong>di</strong> matricola 264 742.<br />

Dopo poco tempo fu trasferito nel Lazaret <strong>di</strong> Zeithain, <strong>di</strong>pendente<br />

dal campo <strong>di</strong> concentramento <strong>di</strong> base, nel quale Carlo trascorse<br />

parecchi mesi e che è stato il luogo principale della sua prigionia.<br />

Colà dovette fortemente lottare per sopravvivere in quell’infernale<br />

situazione: era internato in un ospedale non <strong>di</strong> guarigione ma <strong>di</strong><br />

morte.<br />

Dopo i brevi riassunti dei due <strong>di</strong>ari che illustrano la terribile vita<br />

dei duemila malati contagiosi italiani, internati nel Lazaret <strong>di</strong><br />

Zeithain, ora presento all’attenzione del lettore alcune interviste,<br />

apparse sui giornali negli anni ’90, fatte a Carlo Frizzarin e<br />

riguardanti il periodo della sua prigionia. Alcune descrivono il<br />

recupero delle salme dal cimitero italiano a Zeithain, altre invece<br />

riportano la viva voce del Frizzarin, quando parla <strong>di</strong> se stesso.<br />

Questi articoli giornalistici riba<strong>di</strong>scono le tremende vicissitu<strong>di</strong>ni<br />

cui furono sottoposti i nostri soldati in quel lazzaretto.


176 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Ora che Carlo non c’è più, ritengo cosa migliore riportare le<br />

interviste integrali, soprattutto perché in quegli scritti traspare<br />

con chiarezza l’esistenza <strong>di</strong> un suo profondo coinvolgimento vivo<br />

ancora dopo cinquant’anni. Le sue parole sono l’eco commossa<br />

degli antichi sacrifici sofferti nel campo <strong>di</strong> morte.<br />

Sul Gazzettino <strong>di</strong> domenica 9 settembre 1991 venne pubblicato un<br />

lungo articolo della cronaca <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>. Il titolo è: Tornano le salme<br />

<strong>di</strong> 25 deportati. Sono 850 gli Italiani morti tra il 1943 e il 1945<br />

nel campo <strong>di</strong> Zeithain nell’ex Germania Est. Previsto entro ottobre il<br />

rientro in Italia sul colle <strong>di</strong> Re<strong>di</strong>puglia. Parla un sopravvissuto.<br />

Il cronista Clau<strong>di</strong>o Bertoncin scrisse: Oggi Carlo Frizzarin vive a<br />

Monselice. Nella sua mente c’è il ricordo tragicamente lucido dei mesi<br />

bui trascorsi in quelle squallide baracche <strong>di</strong> legno a Zeithain, stipati<br />

all’inverosimile l’uno sull’altro su letti a castello sconquassati.<br />

E poi la fame. Il giorno del mio ventesimo compleanno, il 4<br />

novembre del 1943, ho venduto l’orologio in cambio <strong>di</strong> sei filoni<br />

<strong>di</strong> pane nero. Il rancio quoti<strong>di</strong>ano consisteva in un paio <strong>di</strong> patate<br />

ed una fettina <strong>di</strong> pane.<br />

A Zeithain il gruppo <strong>di</strong> italiani iniziò ad arrivare il 12 ottobre 1943:<br />

venivano dalla Grecia, parecchi colpiti da malaria contratta durante<br />

la campagna d’Albania.<br />

Eravamo stati fatti prigionieri all’ospedale <strong>di</strong> Atene. Ci hanno<br />

caricati in treno <strong>di</strong>cendo che ci avrebbero portati in Italia. Dopo<br />

giorni e giorni <strong>di</strong> viaggio, dal portone scorrevole del carro merci,<br />

dove ci avevano sistemati, vedemmo l’insegna <strong>di</strong> Innsbruck. Ci<br />

mettemmo a piangere: avevamo capito che la nostra destinazione<br />

era la Germania e che solo Dio sapeva cosa ci sarebbe capitato.<br />

Il lavoro dei campi è stato la salvezza <strong>di</strong> Carlo Frizzarin.<br />

In tre uomini andavamo a lavorare sui campi vicini al campo <strong>di</strong><br />

Zeithain: raccoglievamo asparagi assieme a una quin<strong>di</strong>cina <strong>di</strong><br />

donne tedesche. Furono queste che, senza farsi vedere, ci passavano<br />

qualche fetta <strong>di</strong> pane, qualcosa da mettere sotto i denti: eravamo<br />

degli scheletri.<br />

Ad Atene, prima <strong>di</strong> lasciare la Grecia, Carlo Frizzarin aveva voluto<br />

confessarsi. Fin da adesso, gli <strong>di</strong>sse il cappellano, considerati assolto per


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

177<br />

tutto quello che ruberai per riuscire a restare in pie<strong>di</strong>, purché il tuo<br />

gesto non sia <strong>di</strong> danno per altri che sono nelle tue stesse con<strong>di</strong>zioni.<br />

I preti, durante la prigionia, erano la nostra unica speranza, confida<br />

il monselicense sopravvissuto agli orrori della tirannia tedesca…<br />

Il giornalista Renato Malaman, sul giornale Il Mattino, cronaca <strong>di</strong><br />

<strong>Padova</strong> del 23 novembre 1991, scrive:<br />

Carlo Frizzarin è l’unico sopravvissuto padovano del campo <strong>di</strong> Zeithain.<br />

In tutti questi anni è stato, e continua ad essere, il prezioso punto <strong>di</strong><br />

riferimento per i familiari <strong>di</strong> tanti defunti del famigerato campo che si<br />

trovava nella ex DDR. A favorire il recupero degli 840 corpi sono stati,<br />

oltre le Autorità Federali Tedesche, anche il libro-<strong>di</strong>ario del francescano<br />

Luca Airol<strong>di</strong> <strong>di</strong> Pavia. Carlo Frizzarin da Zeithain ha portato come<br />

souvenir una cicatrice nell’anima. Di quel calvario ha fissato ogni<br />

particolare. Frizzarin era giunto a Zeithain con una tradotta <strong>di</strong> carri<br />

bestiame sigillato alla partenza da Atene. Il viaggio durò parecchi<br />

giorni, eravamo privi <strong>di</strong> cibo, durante le soste la gente ci lanciava<br />

qualcosa da mangiare. Frizzarin è stato internato prima nel terribile<br />

Stalag a Mühlberg-Elbe (era lo Stammlager IV B, dove provvedevano<br />

per le immatricolazioni), poi quasi subito, a Zeithain.<br />

“Nel campo la vita era un inferno, si moriva <strong>di</strong> fame. Per spartirci<br />

in otto un filone <strong>di</strong> pane usavamo un ru<strong>di</strong>mentale bilancino.<br />

Durante l’inverno, con il gelo, ci costringevano ad uscire dalle<br />

baracche completamente nu<strong>di</strong> per andare a fare la doccia.<br />

Loro nel frattempo <strong>di</strong>sinfettavano gli ambienti dove eravamo<br />

costretti a vivere, mettendo tutto sottosopra. Letti e indumenti<br />

risultavano poi ricoperti <strong>di</strong> un fasti<strong>di</strong>oso unguento. Nessuno<br />

comunque cedette alla tentazione <strong>di</strong> arruolarsi alla Wermarcht,<br />

sarebbe stato grave, anche se qualcuno in quel modo avrebbe<br />

salvata la vita. La fame era uno spettro quoti<strong>di</strong>ano. Un giorno<br />

assaltammo un camion <strong>di</strong> fettucce <strong>di</strong> barbabietole rinsecchite;<br />

le nascondemmo nei berretti. I pacchi viveri da casa arrivavano<br />

raramente. Ed erano anche un pericolo. Un nostro compagno,<br />

dopo aver mangiato avidamente il contenuto, durante la notte<br />

ci rimise le penne. Ormai eravamo talmente denutriti che<br />

ingurgitare cibi provocava fatali lesioni all’intestino.”


178 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

L’ultimo riscontro giornalistico è del 14 febbraio 1995.<br />

Sempre il cronista Renato Malaman scrisse sul Mattino, un lungo<br />

titolo a tutta pagina:<br />

Un ex internato <strong>di</strong> Monselice ritrova una collega <strong>di</strong> prigionia, lei<br />

è piemontese ex crocerossina e sui patimenti del campo nazista <strong>di</strong><br />

Zeithain ha scritto un libro <strong>di</strong> memorie.<br />

Riporto ora la cronaca:<br />

Monselice. Emozionatissimi, si sono sentiti al telefono dopo che lui<br />

aveva ricevuto il suo libro-<strong>di</strong>ario. Ora vorrebbero incontrarsi.<br />

Un contatto a sorpresa mezzo secolo dopo l’olocausto. Protagonisti un<br />

ex detenuto del lager <strong>di</strong> Zeithain, il monselicense Carlo Frizzarin<br />

oggi settantaduenne, e una crocerossina, che rifiutò l’adesione alla<br />

RSI (Repubblica Sociale Italiana <strong>di</strong> Salò). Maria Vittoria Zeme da<br />

Pallanza, città sulla sponda del lago Maggiore.<br />

Entrambi sono tra i pochi sopravvissuti del terribile campo <strong>di</strong><br />

concentramento che si trovava vicino a Lipsia. Se lo ricorda bene<br />

Carlo Frizzarin quella giovane crocerossina, dall’espressione spesso<br />

sorridente, che tanto conforto ha regalato ai dannati <strong>di</strong> Zeithain. E la<br />

notizia che anche lei è sopravvissuta ai tragici giorni dell’internamento<br />

nel lager gli ha aperto il cuore.<br />

L’ho saputo grazie al suo libro-<strong>di</strong>ario che l’Associazione Nazionale Ex<br />

Internati mi ha fatto recapitare – spiega Frizzarin –; “con il libro<br />

mi è stato spe<strong>di</strong>to anche il recapito dell’autrice. Le ho telefonato.<br />

È stata una grande emozione. Ci piacerebbe anche incontrarci.<br />

Vedremo…”<br />

L’articolo continua.<br />

Carlo Frizzarin è la ban<strong>di</strong>era vivente dei sopravvissuti del campo<br />

<strong>di</strong> Zeithain. Ha de<strong>di</strong>cato molte energie alla conservazione e alla<br />

<strong>di</strong>vulgazione della memoria <strong>di</strong> quel luogo <strong>di</strong> sofferenze, perché le<br />

nuove generazioni non <strong>di</strong>mentichino cos’è stato il genoci<strong>di</strong>o nazista.<br />

Ha parlato ai ragazzi delle scuole della sua esperienza. Lo scorso anno<br />

era in prima fila, issando il cartello col nome del lager, all’incontro con<br />

il presidente Scalfaro svoltosi a Terranegra (<strong>Padova</strong>, ove c’è il Tempio<br />

dell’Internato Ignoto). Carlo Frizzarin ora è felice <strong>di</strong> riscontrare che<br />

anche altri non vogliono che si <strong>di</strong>mentichi il Lazaret <strong>di</strong> Zeithain.


Riflessioni<br />

Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

179<br />

Quando ho iniziato a raccogliere notizie del prigioniero Carlo<br />

Frizzarin ero dubbioso <strong>di</strong> riuscire a trovare dei riscontri che mi<br />

permettessero <strong>di</strong> ricostruire le sue vicissitu<strong>di</strong>ni, interpretando nel<br />

contempo il suo stato d’animo. Lo temevo poi perché ognuno<br />

<strong>di</strong> noi prigionieri ha vissuto il proprio calvario con reazioni<br />

particolari e soggettive, dovute sia alla personale preparazione<br />

e formazione mentale, sia anche alle situazioni contingenti da<br />

superare.<br />

Ritengo che Carlo abbia vissuto le sue giornate da uomo <strong>di</strong><br />

grande fede e <strong>di</strong> forte tempra, badando e cercando <strong>di</strong> superare<br />

le <strong>di</strong>fficoltà giorno per giorno, senza nessun scoraggiamento,<br />

dando nel contempo aiuto ai più deboli. Sono convinto <strong>di</strong> questo<br />

perché ho visto Carlo Frizzarin operare con impegno a servizio<br />

degli altri.<br />

Lo ricordo anche per la sua devozione alla Madonna <strong>di</strong> Medjugorie<br />

(Croazia), per la quale egli incessantemente lavorò per <strong>di</strong>vulgare<br />

la sua devozione.<br />

Alla fine <strong>di</strong> questa mia ricerca mi sono persuaso <strong>di</strong> aver interpretato<br />

le lunghe sofferenze <strong>di</strong> Carlo in modo corretto.<br />

Certo la sua presenza avrebbe potuto far conoscere tanti episo<strong>di</strong><br />

che avrebbero circostanziato al meglio i lunghi patimenti e le sue<br />

reazioni. Comunque ritengo che queste mie note, ricavate da<br />

più fonti, <strong>di</strong>mostrino come Carlo Frizzarin abbia saputo reagire<br />

con determinazione ad avversità davvero terribili, riuscendo a<br />

ritornare con un corpo ancora sano. A me rimane la fiducia che<br />

la prigionia <strong>di</strong> Carlo, piena <strong>di</strong> dolori e stenti, serva <strong>di</strong> monito<br />

alle nuove generazioni per <strong>di</strong>ssuaderle sempre e comunque dal<br />

compiere atti <strong>di</strong> forza perché questi, inesorabilmente, portano<br />

particolari lutti e rovine.


180 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Foglio matricolare del <strong>di</strong>stretto militare <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> ove si possono riscontrare i dati<br />

anagrafici e le notizie militari <strong>di</strong> Carlo Frizzarin.


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Questionario del <strong>di</strong>stretto militare <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, redatto dopo il rientro dalla<br />

prigionia. Si può rilevare che il lager era Mühlberg/Elbe – contrassegnato IV B –<br />

e che la matricola <strong>di</strong> Carlo Frizzarin era 264 742.<br />

181


182 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Copertina del libro Zeithain, campo <strong>di</strong> morte del cappellano francescano Luca<br />

Airol<strong>di</strong> stampato nel 1962. Da notare che il titolo è stato scritto su una pagina<br />

del suo <strong>di</strong>ario compilato in prigionia.


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Il francescano padre Luca Maria Airol<strong>di</strong> (1910-1985), durante la sua prigionia.<br />

Si notino le sue vesti raccogliticce strette da una fascia nera, segno del cordone<br />

caratteristico dei frati dell’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> San Francesco.<br />

183


184 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Un funerale a Zeithain. Si vedono il portale <strong>di</strong> legno fatto dai prigionieri e il<br />

carro agricolo per il trasporto della cassa, coperta dalla ban<strong>di</strong>era italiana che allora<br />

aveva lo scudo sabaudo con la croce.<br />

Cimitero italiano <strong>di</strong> Zeithain. Sullo sfondo tumuli con le croci, in primo piano<br />

tombe senza croci data la mancanza <strong>di</strong> assi per costruirle.


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Una pagina del lbro-<strong>di</strong>ario dell’Airol<strong>di</strong>. Si vuol <strong>di</strong>mostrare come il cappellano<br />

raccogliesse i dati dei defunti. I morti italiani <strong>di</strong> luglio 1944 furono 58,<br />

quelli <strong>di</strong> agosto 75.<br />

185


186 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

L’avviso del comune <strong>di</strong> Monselice per annunciare il ritorno della salma <strong>di</strong> Gino<br />

Sadocco, morto a Zeithain l’1 aprile 1944. Carlo Frizzarin in quell’occasione<br />

tenne il <strong>di</strong>scorso commemorativo.


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

La copertina del libro stampato nel 1994, della crocerossina Maria Vittoria<br />

Zeme con il suo piastrino <strong>di</strong> prigionia n° 256 569 dello stalag IV B. I piastrini si<br />

potevano <strong>di</strong>videre in due parti: uno per l’identificazione, l’altro per l’anagrafe.<br />

187


188 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Foto della crocerossina conosciuta da Carlo Frizzarin.


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

189<br />

In alto.<br />

Nimis (U<strong>di</strong>ne).<br />

Raduno dei<br />

sopravvissuti<br />

da Zeithain,<br />

con qualche<br />

loro familiare,<br />

probabilmente<br />

a metà degli<br />

anni ’70. Padre<br />

Airol<strong>di</strong> seduto,<br />

Carlo Frizzarin<br />

in pie<strong>di</strong>, il<br />

primo da destra.<br />

1992. Ritorno della salma <strong>di</strong> Gino Sadocco. Carlo Frizzarin a sinistra, c’ è poi<br />

Italo, il fratello <strong>di</strong> Gino Sadocco.


190 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

1995. Carlo Frizzarin nell’incontro al Tempio <strong>di</strong> Terranegra – <strong>Padova</strong> – col<br />

presidente della repubblica Scalfaro. Tiene in mano il cartello del lager Zeithain<br />

con le foto dei tre cappellani del campo IV B.


Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo <strong>di</strong> morte <strong>di</strong> Zeithain<br />

Carlo Frizzarin nei primi anni ’90.<br />

191


Appen<strong>di</strong>ce<br />

Lettere alla moglie<br />

<strong>di</strong> un prigioniero in Germania<br />

GIOVANNI GAZZEA<br />

nato a Monselice il 20-VIII-1913<br />

deceduto il 7-III-1991


194 Appen<strong>di</strong>ce<br />

Il monselicenze Giovanni Gazzea, classe 1913, è stato un soldato<br />

fatto prigioniero dai tedeschi nel settembre 1943 in Albania.<br />

Fu internato nello Stalag VI D sito a Dortmund in Vestfalia,<br />

ricevendo la matricola 72296.<br />

Ritornò in Patria il 5 agosto 1945.<br />

Fu insegnante <strong>di</strong> lettere e preside delle scuole me<strong>di</strong>e “Guinizzelli”<br />

<strong>di</strong> Monselice.<br />

Si riportano qui, in or<strong>di</strong>ne cronologico, le lettere che scrisse alla<br />

moglie Fernanda. Esse formano un percorso <strong>di</strong> affetti e ricor<strong>di</strong><br />

dove traspare il suo animo sensibile e delicato senza evidenziare le<br />

terribili <strong>di</strong>fficoltà nelle quali viveva nei famigerati lager nazisti.<br />

______________<br />

Mia carissima Danda, lo spazio che mi è concesso è insufficiente<br />

al desiderio, al bisogno <strong>di</strong> comunicarti mie notizie. Bisognerà<br />

fare <strong>di</strong> necessità virtù ed accontentarci. Di salute sto benissimo,<br />

come mi auguro <strong>di</strong> te, <strong>di</strong> Giuliana e <strong>di</strong> tutti. Questo è l’essenziale.<br />

Basta a darci una certa qual tranquillità. Deponiamo tutte le<br />

nostre speranze nella bontà e misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Dio. Preghiamo,<br />

tesoro caro. Il Signore non mancherà <strong>di</strong> soccorrerci, <strong>di</strong> assisterci<br />

col suo potentissimo aiuto. Immagina l’ansietà con cui aspetto<br />

la risposta. Scrivimi <strong>di</strong> tutti e <strong>di</strong> tutto. Inutile che ti elenchi le<br />

cose che desidero sapere. Hai sgomberato la casa? Ti sei ritirata<br />

presso tuo papà? E Giuliana? E il suo occhietto? Che <strong>di</strong>ce ora del<br />

suo papà? Oh, Danda mia, le lunghe ore che passeremo insieme<br />

a raccontarci, riportandoci col pensiero, in ore <strong>di</strong> felicità, a questi<br />

giorni duri e amari! Sono assieme a Rocca, Bettio e Garbo. Stiamo<br />

tutti benone e a volte, facendo buon viso a cattivo giuoco, siamo<br />

<strong>di</strong> buon umore.<br />

Saluti a tutti. Bacioni alla mia Lisia.<br />

Ti abbraccio<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 19.12.43)


Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie <strong>di</strong> un prigioniero in Germania<br />

195<br />

18 gennaio 1944<br />

Mia cara, dopo quanto ti scrissi nella lettera e nella prima<br />

cartolina non saprei, date le circostanze <strong>di</strong> tempo e <strong>di</strong> luogo,<br />

che cosa altro raccontarti, se non l’ardentissimo mio desiderio <strong>di</strong><br />

sapere prestissimo notizie <strong>di</strong> te, <strong>di</strong> Giuliana e <strong>di</strong> tutti e soprattutto<br />

<strong>di</strong> riabbracciarti, magari domani. Ti rinnovo l’assicurazione che<br />

godo ottima salute e che sono al riparo da qualsiasi pericolo.<br />

Saluti a tutti.<br />

Bacioni a te e Giuliana<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 18.2.44)<br />

18 gennaio 1944<br />

Mia cara, lo spazio ristretto della lettera non mi ha concesso<br />

<strong>di</strong> de<strong>di</strong>care un pensierino alla mia Lisia. Cara, puoi facilmente<br />

immaginare quanto la desidero. Oh, se tu potessi mandarmi una<br />

sua foto recente, e anche tua. Nel pacco, <strong>di</strong> cui ti parlai nella<br />

lettera, non <strong>di</strong>menticare un po’ <strong>di</strong> tabacco e cartine e sigarette, se<br />

ce ne sono. A confezionare il pacco fatti aiutare dai miei parenti.<br />

Spero lo faranno volentieri. Rispon<strong>di</strong>mi subito subito. Prega, mia<br />

cara, che il Signore ci conceda <strong>di</strong> rivederci presto.<br />

Bacia Lisia. Saluti a tutti. Ti abbraccio<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 18.2.44)<br />

Danda carissima, ancora non ho ricevuto risposta alla mia del 25<br />

novembre u.s. Ogni giorno che passa si acuisce in me il desiderio<br />

<strong>di</strong> sapere <strong>di</strong> voi notizie buone e copiose. Spero tu abbia ricevuto e<br />

<strong>di</strong> ricevere pure io fra giorni, anche e soprattutto perché qualche<br />

lettera dall’Italia è arrivata. Di salute, mia cara, sto molto bene<br />

davvero, come quando mi trovavo in Italia ed in Grecia. Sono<br />

<strong>di</strong>magrito un pochettino, ma non ho sino ad ora avuto il minimo<br />

<strong>di</strong>sturbo. Col trascorrere dei giorni, in virtù <strong>di</strong> quello spirito <strong>di</strong><br />

adattamento corporale e spirituale ch’è intrinseco ad ogni anima


196 Appen<strong>di</strong>ce<br />

umana, anche il morale è migliorato un po’. E’ giovato e giova<br />

non poco la speranza <strong>di</strong> sapere presto vostre notizie ed in principal<br />

modo la speranza che la misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong>vina guar<strong>di</strong> all’umanità<br />

ormai così duramente provata e la sua bontà ponga presto fine<br />

ad ogni tribolazione. Mia cara insieme a questa lettera ti spe<strong>di</strong>sco<br />

un modulo buono per la spe<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un pacco. Istruzioni<br />

concernenti la spe<strong>di</strong>zione e l’imballaggio le trovi stampate sul<br />

modulo stesso. Attenti ad esse scrupolosamente. Una cassettina <strong>di</strong><br />

legno è l’imballaggio più consigliabile. Il peso non deve superare i<br />

5 kg. Che cosa voglio? 2 canottiere – 2 paia <strong>di</strong> mutan<strong>di</strong>ne – 3 paia<br />

<strong>di</strong> calze – degli aghi – del filo – un servizio completo per barba,<br />

qualche pezzo <strong>di</strong> sapone da bucato, del Mom o altra polvere<br />

insetticida, un po’ <strong>di</strong> farina bianca, 1 kg. <strong>di</strong> fagioli, un po’ <strong>di</strong> pane<br />

biscottato, del pepe, e qualche cosa altro che puoi trovare.<br />

Non <strong>di</strong>menticare qualche pacchetto <strong>di</strong> tabacco.<br />

Baci<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 17.2.44)<br />

Mia carissima, ancora sono privo <strong>di</strong> tue notizie. Sono ormai sette<br />

mesi che non so nulla <strong>di</strong> voi. Immagina se il morale può essere<br />

alto. Almeno fossi certo che tu hai ricevuto le due lettere e le due<br />

cartoline che ti ho scritto e questa che come le precedenti viene a<br />

<strong>di</strong>rti che <strong>di</strong> salute sto benissimo e che <strong>di</strong> nient’altro vivo che del<br />

più ardente dei desideri <strong>di</strong> rivederti presto, presto, prestissimo. Ti<br />

penso, ti sogno giorno e notte e sono in preda alla più tormentata<br />

delle ansietà per il buio nel quale vivo su quanto concerne la tua<br />

vita e quella della mia adorata piccola Giuliana. Anche stavolta<br />

ti invio un modulo, buono per la spe<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un pacco. Mi<br />

necessita sopra ogni altra cosa del sapone. Fa l’impossibile per<br />

mandarmene. Vorrei inoltre del filo, degli aghi, un paio <strong>di</strong> forbici,<br />

uno spazzolino da denti, una matita copiativa, un quaderno<br />

grosso, un pettine e <strong>di</strong> biancheria: una camicia, qualche fazzoletto,<br />

due paia <strong>di</strong> calze e possibilmente un paio <strong>di</strong> pantofole col fondo in


Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie <strong>di</strong> un prigioniero in Germania<br />

197<br />

cuoio. Sono senza scarpe. Gli zoccoli <strong>di</strong> legno mi fanno sanguinare<br />

i pie<strong>di</strong>. Non <strong>di</strong>menticarti <strong>di</strong> mandarmi del Mom. Gra<strong>di</strong>rei, se ti<br />

riesce trovarlo, un po’ <strong>di</strong> tabacco e cartine. Spe<strong>di</strong>rò una cartolina<br />

agli zii <strong>di</strong> Villa perché ti <strong>di</strong>ano qualche cosuccia da includere nel<br />

pacco. A te chiedo un po’ <strong>di</strong> riso, un po’ <strong>di</strong> marmellata, un po’ <strong>di</strong><br />

cioccolato e del pane biscottato e del latte condensato. Abbiamo<br />

bisogno <strong>di</strong> cibi sostanziosi.<br />

Saluti a tutti. Vi bacio<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice dell’8.3.44)<br />

23 marzo 1944<br />

Mia cara, ho ricevuto ieri 22 la tua del 27 - 12 - 43 e la cartolina del<br />

17 - 2 - 44. C’è un po’ <strong>di</strong> <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne nella posta. Pazienza. Castello<br />

e Casarin si trovano in un altro campo. Di loro non abbiamo<br />

notizie dall’ottobre scorso. Ti spe<strong>di</strong>sco un altro modulo, il 4°.<br />

Almeno 1 arriverà. Mandami pane – farina, fagioli e qualche altra<br />

cosa <strong>di</strong> buono. Sempre un po’ <strong>di</strong> tabacco. I parenti ti aiuteranno.<br />

Baci a te e Lisia<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 19.4.44)<br />

8 maggio 1944<br />

Mia cara, in data 6 c. m. ho ricevuto la tua del 9/3 e il secondo<br />

pacco. Grazie infinite <strong>di</strong> tutto. Preziosa la camicia e più i sandali.<br />

Ora posseggo biancheria sufficiente per il cambio e sono contento.<br />

Di salute, mia cara, sto benone. Qui nulla <strong>di</strong> nuovo. Si aspetta<br />

sempre e con ansia crescente il grande giorno, vicino o lontano, Dio<br />

solo lo sa. Ti spe<strong>di</strong>sco ancora un modulo per il pacco. Mandami<br />

tutto pane e un po’ <strong>di</strong> marmellata. Muoio dalla voglia <strong>di</strong> un piatto<br />

<strong>di</strong> risotto o pasta asciutta. Ma se impossibile, pazienza.<br />

Bacioni a tutti<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 29.5.44)


198 Appen<strong>di</strong>ce<br />

1 giugno 1944<br />

Mia carissima Danda, ti rinnovo innanzi tutto l’assicurazione<br />

che sto bene. Ho una fame da lupo. In queste ultime settimane<br />

mi sono anche ingrassato. Il lavoro non mi riesce più tanto<br />

pesante come durante i mesi dell’inverno. Confido molto nella<br />

bontà e misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong>vina e nella efficacissima intercessione<br />

dei nostri genitori, che <strong>di</strong> lassù sicuramente ci guardano. Tale<br />

fiducia mi fa bene sperare in una fine rapida e buona. Sarà stata<br />

una dura esperienza, atta a renderci più lieti i giorni che verranno<br />

e che vivremo tanto vicini. Oh, se tu sapessi il mio fantasticare<br />

durante le ore <strong>di</strong> lavoro e durante quelle <strong>di</strong> riposo! Ma non<br />

mi allungo perché lo spazio è troppo breve. Ti racconterò, ti<br />

racconterò. Mia cara, proprio stasera ho ricevuto comunicazione<br />

che mi è arrivato un pacco. Ancora non me lo hanno consegnato<br />

perciò non so <strong>di</strong>rti se è quello degli zii o il tuo. A rigore dovrebbe<br />

essere quello degli zii. Sono ansioso <strong>di</strong> averlo per conoscerne<br />

il contenuto. A proposito quando mi spe<strong>di</strong>sci un pacco nella<br />

lettera che precede o segue imme<strong>di</strong>atamente la spe<strong>di</strong>zione,<br />

descrivimi dettagliatamente il contenuto per sod<strong>di</strong>sfare la mia<br />

naturale curiosità. Aldo dà buone notizie? Non mi è possibile<br />

scrivergli. Quali novità a Monselice? E gli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gianni<br />

come vanno? Giorgino è stato promosso? Manda i miei saluti<br />

al Rettore del Collegio e a tutti i parenti. Vorrei tanto fare una<br />

lunga chiacchierata con tuo papà.<br />

Baci a te e Giuliana<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 21.6.44)<br />

7 luglio 1944<br />

Mia carissima, dopo quasi un mese <strong>di</strong> silenzio m’è arrivata, due<br />

giorni fa, una tua cartolina del 16/6. M’hanno risollevato non<br />

poco il morale le buone notizie <strong>di</strong> cui mi fu apportatrice. Anche<br />

la mia salute è sempre ottima. Lo stato <strong>di</strong> magrezza non è tanto


Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie <strong>di</strong> un prigioniero in Germania<br />

199<br />

impressionante quanto quella mia frase t’ha fatto immaginare.<br />

Non preoccuparti. Supererò. Il cuore me ne dà la più assoluta<br />

certezza. Pacchi ne ho ormai ricevuti 5. Il 4 e il 5 insieme. Gli<br />

zii sono stati davvero molto solleciti e generosi: pane, pasta,<br />

fagioli, lardo, salame, farina. Ho vissuto un paio <strong>di</strong> settimane<br />

mangiando […] mente. Peccato che tutto abbia presto fine e<br />

sopraggiungano sempre troppo presto i giorni della sola razione<br />

e delle solite zuppe <strong>di</strong> verdura. Pazienza. Se è vero che i pacchi<br />

finiscono presto è altrettanto vero che pure i giorni passano<br />

veloci e, Dio voglia, non sia lontano quello della fine. Di Bettio<br />

ti ho già detto in altre mie. Gli altri, Rocca e Garbo, stanno<br />

benone. Quali novità costì? Che ne è <strong>di</strong> Aldo, <strong>di</strong> […] ? Salutami<br />

tutti <strong>di</strong> cuore. Ricambia i saluti a zia Stella. E Giulianuccia mia?<br />

Cara, ho tanta fede nelle sue preghiere. Quanto desidero vederla<br />

e insieme a lei te, che amo tanto. Le vostre foto sono la mia più<br />

cara compagnia.<br />

Vi abbraccio insieme con tutto l’amore <strong>di</strong> cui è capace il cuore.<br />

Gianni<br />

7 agosto 1944<br />

Danda cara, sono ancora privo <strong>di</strong> vostre notizie dal 16/6. Mi<br />

consola, un tantino, il fatto che nelle mie con<strong>di</strong>zioni sono quasi<br />

tutti al campo. Mi auguro che lo stato <strong>di</strong> salute vostro sia pari<br />

al mio. Da un mese sono a riposo, cioè non lavoro; grazie alla<br />

carezza <strong>di</strong> una stanga <strong>di</strong> acciaio sul dorso del piede destro. Ne avrò<br />

per un mesetto ancora. Intanto passano i giorni e si approssima<br />

la fine. Il giorno del Santo Natale vorrei mangiare i tortellini<br />

alla bolognese, ed ascoltare la poesiola d’occasione, declamata<br />

da Giuliana. Ti prego <strong>di</strong> provvedere in merito. Conviene essere<br />

ottimisti. Il pacco, che mi avrai, sicuramente, spe<strong>di</strong>to, il mese<br />

scorso, col modulo <strong>di</strong> giugno, non l’ho ancor ricevuto. Nel mese<br />

<strong>di</strong> luglio ci hanno dato due moduli. Il secondo l’ho mandato<br />

agli zii <strong>di</strong> Villa. Non mancheranno <strong>di</strong> accontentarmi e, sono


200 Appen<strong>di</strong>ce<br />

certo, lo faranno molto volentieri. Quali novità costì? E’ tornato<br />

nessuno dalla Germania? Aldo, come sta? che cosa scrive? dove<br />

si trova attualmente? La nostra casetta è sempre in or<strong>di</strong>ne? Ti<br />

raccomando caldamente i miei libri. […] cresce bene? Oramai<br />

è una donnetta. Ha già iniziato il suo quarto anno. Saluti<br />

cor<strong>di</strong>alissimi a tutti; in particolare a Stella, Dante, Lina, Toni,<br />

famiglia Toso ecc. ecc.<br />

Baci ed abbracci a te e Lisia<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 20.9.44)<br />

19 agosto 1944<br />

Danda carissima, immagino l’ansia con cui attenderai questa<br />

mia, per conoscere quale fu la scelta, <strong>di</strong> cui ti parlai nell’ultima.<br />

Nessuna. Non ci hanno messo al bivio. E allora? A quanto sembra<br />

saremo civili entro il 31 del c. m. Ti darò notizie più precise e più<br />

dettagliate in avvenire, quando, naturalmente, sarò in grado <strong>di</strong><br />

potertele fornire. Nell’ultima <strong>di</strong>menticai <strong>di</strong> <strong>di</strong>rti che ho ricevuto<br />

la tua lettera dell’1 luglio e la cartolina del 6. Felice dell’ottima<br />

salute che godete. Ti ringrazio <strong>di</strong> cuore degli auguri. Anch’io il<br />

30 giugno ho pensato più che gli altri giorni alla mia Lisia e mi<br />

sono ripromesso <strong>di</strong> festeggiarla per quel dì anniversario anche<br />

quanto non mi è stato possibile sino ad ora. Tu non puoi pensare<br />

quanto forte sia il desiderio <strong>di</strong> rivederla. Di salute sto benissimo.<br />

L’appetito non mi manca. Il piede, che mi ha concesso e mi<br />

concede tanti giorni <strong>di</strong> prezioso riposo, guarisce bene. Ci hanno<br />

sospeso la spe<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> moduli per pacchi. Perciò perdute tutte<br />

le speranze. Attendo il nuovo in<strong>di</strong>rizzo <strong>di</strong> Aldo per scrivergli.<br />

Non tenermi all’oscuro <strong>di</strong> nulla, bello o brutto, che vi riguarda.<br />

Ti raccomando vivamente. Salutami tutti <strong>di</strong> cuore. Bacioni<br />

infiniti a […].<br />

Ti abbraccio, tuo<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 25.9.44)


Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie <strong>di</strong> un prigioniero in Germania<br />

201<br />

24 settembre 1944<br />

Danda carissima, giorni fa ti scrissi che la questione inerente<br />

il mio passaggio a civile era rimasta in sospesa, grazie al piede,<br />

e che non sarei più tornato al vecchio campo. Invece… eccoti<br />

l’ennesima prova della vanità delle nostre credenze. Entro il<br />

30 c. m. tutti saremo civili e ritorneremo al campo originario.<br />

L’amico Pulito è già partito. M’è <strong>di</strong>spiaciuto assai staccarmi da<br />

lui. Ci siamo lasciati con la promessa <strong>di</strong> incontrarci presto a<br />

Monselice e <strong>di</strong> festeggiare debitamente l’incontro. Ritornando<br />

al 1242 <strong>di</strong>fficilmente ritornerò al duro lavoro <strong>di</strong> prima. Il<br />

piede non mi consente ancora <strong>di</strong> camminare spe<strong>di</strong>tamente e<br />

soprattutto <strong>di</strong> rimanere ritto 12 ore. Non so prevedere quale<br />

lavoro, quale sorte mi attenderà. Id<strong>di</strong>o <strong>di</strong>sporrà <strong>di</strong> me ed io sarò<br />

contento della sua volontà. Intanto ci sia concesso sperare che<br />

la sua infinita bontà ponga presto fine al flagello che <strong>di</strong>lania da<br />

tanti anni questa povera umanità. Ritornando al 1242 spero<br />

<strong>di</strong> ricominciare a ricevere regolarmente tue notizie e magari<br />

qualche pacco. Ho letto sul nostro giornale che potete spe<strong>di</strong>re,<br />

senza modulo, da due a tre pacchi al mese, <strong>di</strong> 5 kg. ciascuno, o <strong>di</strong><br />

viveri, o <strong>di</strong> vestiario. Te ne domando uno <strong>di</strong> vestiario: 2 o 3 paia<br />

<strong>di</strong> calze grosse, una camicia, un pullover, un vestito vecchio, un<br />

paio <strong>di</strong> mutande, filo, sapone,dentifricio. In<strong>di</strong>rizzalo al 1242.<br />

Saluti e baci, tuo<br />

Gianni<br />

(Timbro postale <strong>di</strong> Monselice del 21.11.44)


202 Appen<strong>di</strong>ce<br />

Foglio matricolare dal quale si conosce il curriculum militare dal 1933 al 1945,<br />

dove si può rilevare che, pur essendo laureato, non ha frequentato il corso<br />

Allievi Ufficiali perché non fornito <strong>di</strong> istruzione premilitare, allora considerata<br />

obbligatoria dal fascismo.


Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie <strong>di</strong> un prigioniero in Germania<br />

Continuazione del Foglio matricolare con il percorso militare fino al 6 ottobre<br />

1945, quando fu posto in congedo.<br />

203


204 Appen<strong>di</strong>ce<br />

Lettere <strong>di</strong> Giovanni Gazzea alla moglie Fernanda, spe<strong>di</strong>te dallo Stammlager VI D,<br />

matricola 72296.

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