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Una stagione a Orolai - Sardegna Cultura

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Scrittori di <strong>Sardegna</strong><br />

13


Stampa: Lito Terrazzi, Firenze, settembre 2003<br />

Riedizione dell’opera:<br />

<strong>Una</strong> <strong>stagione</strong> a <strong>Orolai</strong>, Milano,<br />

Istituto di Propaganda Libraria, 1957<br />

Periodico settimanale n. 13<br />

del 29-10-2003<br />

Direttore responsabile: Giovanna Fois<br />

Reg. Trib. di Nuoro n. 1 del 16-05-2003<br />

© Copyright 2003<br />

Ilisso Edizioni - Nuoro<br />

www.ilisso.it - e-mail ilisso@ilisso.it<br />

ISBN 88-87825-66-1<br />

Salvatore Cambosu<br />

UNA STAGIONE<br />

A OROLAI<br />

nota introduttiva di Duilio Caocci


NOTA INTRODUTTIVA<br />

Nei primi anni Cinquanta, all’epoca in cui Salvatore<br />

Cambosu concepì questo romanzo breve, gli scrittori si sentivano<br />

impegnati in prima linea nel processo di “rinnovamento”<br />

che investiva tutta l’Italia. La letteratura, dunque,<br />

si proponeva come strumento di indagine e come luogo di<br />

rappresentazione della realtà sociale e culturale. Non è un<br />

caso che, dinanzi a un futuro che premeva con una forza<br />

d’urto notevole, in questi stessi anni le scienze umane sentissero<br />

la necessità di mettere a punto tutta una serie di paradigmi<br />

utili per una migliore comprensione della struttura<br />

delle culture che avrebbero dovuto accogliere la “rinascita”.<br />

Salvatore Cambosu incarna in modo esemplare il modello<br />

di intellettuale impegnato, concependo ogni atto di<br />

scrittura (dalla saggistica, allo scritto giornalistico, al racconto)<br />

come il tassello di un “progetto”, di un’unica “opera”.<br />

<strong>Una</strong> <strong>stagione</strong> a <strong>Orolai</strong> ci racconta la breve storia di<br />

Cardellino, un fanciullo cresciuto in un paese immaginario<br />

della <strong>Sardegna</strong> centrale e costretto nella trappola delle inerzie<br />

di una tradizione che mostra i primi segni di intacco.<br />

A dire il vero tutto il racconto si concentra nella messa a<br />

fuoco di un momento particolare della vicenda umana di<br />

Cardellino: la fase cruciale (precoce ai tempi) del suo passaggio<br />

dalla spensierata fanciullezza al disincanto della vita<br />

adulta. <strong>Una</strong> linea di confine che in ogni società viene in<br />

vario modo ritualizzata, assumendo per chi la affronta e<br />

per l’intera comunità un rilievo tale da sintetizzare, nei<br />

suoi gesti complessi, i valori profondi della collettività.<br />

Fin dalle prime battute filtra l’atteggiamento straniante<br />

del narratore che ci introduce nello spazio e nel tempo del<br />

racconto con la disposizione didattica di chi conosce la struttura<br />

della comunità di <strong>Orolai</strong>, la separatezza sociologica tra<br />

5


l’antico quartiere degli Scalzi e quello più recente e composito<br />

dei Calzati, la distanza, all’interno del primo dei quartieri,<br />

tra pastori e contadini e, mentre ci descrive con minuzia<br />

la tecnica costruttiva della povera casa del protagonista, talvolta<br />

rinuncia al suo punto di vista “oggettivante” per cedere<br />

la parola ad altri occhi: quelli di Cardellino, in particolare.<br />

E allora ci sorprende lo scarto repentino tra l’abitudine del<br />

giornalista, del demologo da cui il narratore prende a prestito<br />

la tecnica descrittiva analitica, e quella invece folgorante,<br />

sintetica e metaforica del fanciullo incantato dall’associazione<br />

pregnante tra oggetti diversi. Dall’alternanza tra un’attitudine<br />

che ci mostra il «pietrame scabro di granito, disposto<br />

quasi alla rinfusa e senza alcuna malta», e l’altra che afferma<br />

che la casa «somigliava, più che a un’abitazione fabbricata<br />

dal muratore, alla testa tumefatta d’un enorme gatto»,<br />

emerge una distanza, ma anche una complessità, un conflitto<br />

che mette in scena una serie semplificata di opposizioni: la<br />

scienza e la magia, il sincretismo religioso e l’ortodossia cristiana,<br />

la legge e il mondo delle ominìas.<br />

Il narratore è sempre più interessato a classificare e a<br />

rintracciare modelli, piuttosto che a osservare individualità<br />

irriducibili e il suo controllo fermo dell’azione si manifesta<br />

particolarmente nella sostanziale assimilazione della lingua<br />

di tutti i personaggi alla sua.<br />

Tuttavia è proprio il contesto letterario che va oltre il<br />

“progetto” e le rigidità della scienza, consegnando al lettore<br />

personaggi preziosissimi e storie che riescono a essere insieme<br />

“tipiche” e “particolari”.<br />

L’interesse per uno spazio liminale e per le forme iperboliche<br />

traspare nel disegno dei personaggi e delle loro relazioni:<br />

Prospero Sio, il san Terroso di <strong>Orolai</strong>, è prospero di una<br />

prosperità senza misura; la madre del protagonista è totalmente<br />

immersa nel suo ruolo tanto da assumere il nome di<br />

Maria, la madre per eccellenza.<br />

Non è un caso, in quest’ottica, che l’iniziazione al lavoro<br />

di Cardellino sia delegata dal padre a un personaggio, Martino<br />

Pecora, che sta al confine tra il mondo animale e quello<br />

6<br />

umano, rappresentante emblematico dell’erranza dei pastori,<br />

privo com’è di ogni legame con il paese e con i suoi abitanti e<br />

ridotto al grado minimo di dignità nel suo stesso ambiente.<br />

Anche l’azione della Fortuna qui non pare tanto imparziale.<br />

Pare che favorisca il modello stanziale rappresentato<br />

da Domenico, avendo sullo sfondo la parabolica vicenda dei<br />

due fratelli biblici uno dei quali sopravvive all’altro, tanto<br />

più che Abele qui è già una figura di mediazione: è pastore<br />

ma ha il cuore di contadino.<br />

È sufficiente inserire, nel contesto irrigidito delle regole<br />

comunitarie, un personaggio centrifugo come Stefano, che ha<br />

conosciuto la terra e il mare, la miniera e la guerra, perché<br />

l’intreccio dell’iniziazione subisca virate sorprendenti e la<br />

“modernità” metta a nudo le crepe del modello tradizionale.<br />

7<br />

Duilio Caocci


Quel rione quasi trogloditico era stato certamente<br />

il primo nucleo del villaggio di <strong>Orolai</strong>. Lo chiamavano<br />

«degli Scalzi», dai suoi ragazzi che, fin dai loro primi<br />

passi e fin quasi ai quindici anni, andavano a piedi nudi,<br />

in ogni <strong>stagione</strong> e tempo. L’altro rione, meno antico<br />

e più popoloso, era noto col nome di «dei Calzati».<br />

Ma anche qui poche erano le famiglie che potevano<br />

dare le scarpe ai loro bambini: famiglie dei pochi merciai,<br />

del medico e degli impiegati maggiori.<br />

Cardellino era nato nel rione «degli Scalzi», in una<br />

casa che consisteva in una sola stanza a terreno, con un<br />

piccolo cortile davanti e un’area fabbricabile a fianco,<br />

quasi doppia di quella della stanza. La facciata era tutta<br />

bitorzoli e gobbe. Queste svelavano il materiale che<br />

era stato adoperato nella costruzione: pietrame scabro<br />

di granito, disposto quasi alla rinfusa e senza alcuna<br />

malta. Così la casa somigliava, più che a un’abitazione<br />

fabbricata dal muratore, alla testa tumefatta d’un enorme<br />

gatto. L’intonaco non era più di una spalmata di<br />

calce intorno alla porta e a una finestrella; calce che<br />

avrebbe dovuto avere ragione, se non delle malattie,<br />

che spesso sono più forti dell’uomo e dei suoi accorgimenti,<br />

almeno delle formiche, che erano il terrore del<br />

villaggio. La soglia dell’ingresso era sollevata di due o<br />

tre dita sul piano stradale; la porta era di legno, a un<br />

solo battente. Nella metà superiore uno sportello serviva<br />

a dare un po’ più d’aria e di luce alla stanza. Al di<br />

sopra della porta un trave robusto delimitava il vano regolare<br />

di entrata. Il tetto, sporgendo di circa un palmo<br />

con le file diritte delle sue tegole, proteggeva la facciata<br />

9


dalla pioggia e dall’accumularsi della neve. Mancava la<br />

grondaia: e le tegole sporgevano e incanalavano l’acqua<br />

piovana. Questa, riversandosi sul cortiletto, vi faceva<br />

nascere ogni volta un ruscello più o meno vispo e arzillo;<br />

il quale diveniva uno dei numerosi, piccoli affluenti<br />

del torrentaccio che si formava ogni volta, più<br />

o meno gonfio e minaccioso, sul davanti della casa, in<br />

mezzo alla strada. Questo ruscello veniva sfidato ogni<br />

volta con festa da Cardellino e dai suoi amici scalzi del<br />

vicinato: essi vi entravano tutti, nudi fino al ginocchio,<br />

con invidia dei pochi fanciulli calzati dell’altro rione.<br />

Anche le tegole non erano collegate con la malta: ragione<br />

per cui pesavano su di esse, a prova di vento,<br />

grossi ciottoli di granito, soprattutto numerosi vicino<br />

alle parti perimetrali. Le tegole poggiavano su un intreccio<br />

fitto di costole di canne che da lungo tempo<br />

sfidavano l’umidità e le resistevano ancora. Il tetto era<br />

a una falda. La grossa armatura era costituita dalla trave<br />

di colmo e dagli arcarecci: i travicelli seguivano l’inclinazione<br />

della falda, disposti parallelamente, a distanza<br />

di circa un braccio l’uno dall’altro. Il fumo, che<br />

cercava affannosamente e quasi continuamente l’aperto<br />

attraverso il tetto, incontrava, a metà circa della sua<br />

salita, e incensava e, nei momenti di rabbia che dipendevano<br />

dalle correnti esterne, investiva a vortice un graticcio<br />

pensile, sul quale stava a prendere la tinta e ad<br />

asciugare qualche piastra rotonda di formaggio e di ricotta,<br />

insieme con qualche fune di salsiccia che ne penzolava.<br />

Oltrepassata la soglia della casa, era necessario sostare<br />

qualche attimo per abituare la vista alla penombra, acre<br />

di fumo, dell’interno. Un ceppo bruciava lentamente e<br />

continuamente in ogni <strong>stagione</strong>; anche nel tempo caldo<br />

e nel cuore stesso dell’estate: solo che allora veniva<br />

ricoperto accuratamente di cenere perché bruciasse e<br />

diffondesse calore il meno possibile. Esso sostituiva quasi<br />

10<br />

sempre la lucerna alimentata con olio di lentischio e<br />

faceva pensare a un Natale che non sarebbe arrivato<br />

mai. Giaceva in mezzo alla stanza dentro una culla<br />

quadrilatera scavata nel terreno battuto: in alcune occasioni<br />

veniva affiancato da rami e da ramaglia e, quando<br />

questi avvampavano, la stanza si animava di sprazzi e<br />

di ombre. Succedeva così anche quando veniva acceso<br />

il forno per la cottura del pane; ma allora la festa era<br />

più ricca: la bocca sdentata e sganasciata del forno mostrava<br />

tutto il suo palato rosso e mandava luce dorata e<br />

odore buono alla stanza. Lì, a portata di mano, c’era il<br />

treppiede che aspettava, si direbbe senza impazienza, di<br />

essere collocato al centro di un’aiuola di brace e di ricevere<br />

la pentola di terracotta: ma questo non accadeva<br />

tutti i giorni. Alcuni sgabelli di ferula a forma di dado<br />

attorniavano il focolare; altri sgabelli, di sughero, erano<br />

allineati in bell’ordine, sempre in attesa di ospiti che<br />

mai arrivavano, lungo le pareti che brillavano di nerofumo.<br />

In un angolo, sopra una scaletta appoggiata al<br />

forno dormivano le galline e, sotto il forno, alto da<br />

terra quanto un uomo e simile a una rozza mensa di<br />

altare, aveva il suo giaciglio il maiale che, durante il<br />

giorno, se il tempo lo permetteva, vagava con le galline<br />

tra il cortiletto e le strade insieme con gli altri animali<br />

domestici di tutto il villaggio: per lo più altri maiali e<br />

altre galline; ma anche cani, eccettuati quelli che seguivano<br />

gli uomini in campagna. Ogni sera poi ritornavano<br />

dai pascoli amari alle case, a passo stanco, le capre,<br />

le quali, una o due per famiglia, uscivano in branco dal<br />

villaggio ogni giorno, verso l’alba, guidate da un pastore,<br />

dai suoi figli e dai suoi cani, per un compenso che<br />

egli riceveva ogni mese, per capo, dalle famiglie della<br />

comunità.<br />

Le notti erano piene di latrati e di uggiolii; i galli facevano<br />

a sopraffarli con i loro squilli, appena sentivano<br />

l’alba; qualche asino puntualmente, sempre alla stessa<br />

11


ora, dava il segnale della sveglia ai contadini, e subito<br />

gli rispondeva il rintocco d’argento di un’incudine.<br />

<strong>Una</strong> sola nota di gentilezza attenuava l’impressione<br />

di spelonca che dava a prima vista l’interno: era la mole<br />

bianca del letto matrimoniale. In un canto stavano, dritte,<br />

un po’ misteriose come persone rincantucciate, due<br />

stuoie arrotolate; e, a maggiore o minore distanza dal<br />

fuoco, secondo le stagioni, la culla di castagno dove Cardellino<br />

aveva dormito anche dopo svezzato e finché non<br />

era nato un fratellino, a cui era seguita una sorellina.<br />

La culla, adesso, era di questa e toccava a Cardellino<br />

dondolarla, qualche volta, anche a proprio dispetto,<br />

per ordine della mamma.<br />

Siccome il padre di Cardellino era servo pastore<br />

che passava tutto l’anno in campagna, tranne alcune<br />

vacanze di ventiquattro ore ciascuna, da quindici a<br />

venti in tutto l’anno, così era lei, la madre, a fare da capo<br />

famiglia, senza un momento di pace, anche durante<br />

le gravidanze. Era una donna asciutta, tenace, nera quasi,<br />

senz’altra ambizione all’infuori di quella di diventare<br />

la moglie di un pastore emancipato. La chiamavano<br />

Maria «la formica».<br />

A dieci anni dalla sua nascita Cardellino non aveva<br />

conosciuto un mutamento qualsiasi degno di nota nella<br />

struttura di quella specie di ricovero che era la loro casa.<br />

Questa era divenuta sì, via via che egli cresceva, sempre<br />

più angusta per l’arrivo del bambino e della bambina.<br />

Ma non si può dire che Cardellino ne avesse sofferto o<br />

ne soffrisse neppure ora in qualche modo. Il più del<br />

suo tempo, infatti, lo aveva passato, e lo passava ancora,<br />

durante il giorno, fuori di casa: nella piazza, dove<br />

poteva arrivare in quattro salti per mescolarsi e giocare<br />

con tutti gli altri bambini del villaggio. Ma ne aveva<br />

ancora per poco.<br />

12<br />

Solo a sei anni la novità della scuola lo aveva costretto<br />

sulle prime a confrontarsi con invidia col suo<br />

fratellino e coi bambini dell’età di lui, i quali, essi ora<br />

come lui e come i propri coetanei un tempo, erano liberi<br />

di giocare senza restrizioni d’orario, dalla mattina<br />

alla sera, in quella piazza. Ma in breve si era abituato a<br />

quelle ore di prigionia, di cui egli si ripagava, insieme<br />

con i suoi compagni, all’uscita dalla scuola, tutti insieme,<br />

come cani sguinzagliati, su quella piazza.<br />

La piazza era una grande aia sulla quale si svolgeva<br />

tutta la vita del villaggio; dove, come diceva la gente, si<br />

trebbiava in ogni <strong>stagione</strong>: contrattazioni, feste pagane,<br />

mostre d’arte delle stoviglie d’argilla colorate, balli, comizi<br />

elettorali, vaccinazioni del bestiame. Ma era principalmente<br />

sia il luogo d’incontro dei vecchi in cerca di<br />

sole durante l’inverno e di respiro nelle ore d’ombra<br />

nell’estate, sia il campo di giuoco per i fanciulli.<br />

Di lassù si scorgeva quanto di meglio un ragazzo come<br />

Cardellino potesse desiderare. Il monte più alto dell’isola.<br />

La linea, in fondo all’orizzonte, della sua maggior<br />

pianura come un mare lontano. Un sottile nastro d’argento<br />

a quella stessa distanza, che era il suo fiume principale.<br />

Di lassù l’occhio poteva anche vigilare e spiare<br />

ogni arrivo e ogni partenza; ogni nuvola, ogni uccello.<br />

Un giuoco di correnti vi portava il fischio del treno,<br />

spesso con la stessa chiarezza con la quale vi pioveva il<br />

suono delle campane del vicino campanile; l’odore del<br />

carbone della locomotiva e quello dell’incenso della<br />

chiesa; la voce del banditore pubblico e i più alti toni<br />

delle prediche religiose. Lo stesso sole la prediligeva, tanto<br />

che, d’estate, a mezzogiorno, vi si fermava a picco come<br />

un ragno di fuoco.<br />

La sua natura offriva ai ragazzi la materia plastica<br />

per fabbricare case, gallerie e forni; e anche la polvere<br />

per riempire i sacchetti da caricare su carrettini di ferula<br />

e di asfodelo. <strong>Una</strong> parte dello spazio era riservata al<br />

13


giuoco della trottola, che durava tutto l’anno; mentre<br />

stagionali erano gli schioppetti di sambuco, «il paradiso»,<br />

le raganelle e le tabelle della Settimana Santa.<br />

Ma quando la compagnia inforcava i bastoni di ferula<br />

con la testa cavallina lavorata a punta di coltello e<br />

imbracciavano i fucili di canna, tutto il campo le apparteneva.<br />

Era quello il momento in cui qualche vecchio<br />

tirava i remi in barca e se ne andava brontolando:<br />

– Polledrini, polledrini…, – il più delle volte inseguito<br />

dall’abbaiata dei ragazzi.<br />

Il giuoco dei giuochi, infine, quello che impegnava<br />

l’attenzione anche degli anziani, si chiamava «dei banditi<br />

e dei soldati». Era un’esercitazione di valore che su una<br />

pianura nuda come quella, senza boschi e senza cespugli,<br />

senza rupi e senza grotte, – perciò la meno adatta possibile<br />

per gli appiattamenti della forza pubblica e per i nascondigli<br />

dei malandrini, – si apriva con uno scappa e<br />

fuggi generale e si risolveva ogni volta in una baraonda<br />

di veri e propri parapiglia e litigi, con contusi e feriti da<br />

ambo le parti; tanto impegno mettevano tutti in quella<br />

recita. I ruoli si invertivano a ogni nuovo spettacolo, senza<br />

contestazioni, pacificamente, perché l’onore consisteva<br />

per ciascuno solo nel non perderlo col trasgredire o mal<br />

eseguire gli ordini che venivano impartiti agli agenti della<br />

forza pubblica dal capitano, ai banditi dal capo brigante:<br />

capitano e capo brigante che, anche dopo un conflitto a<br />

fuoco in cui uno o tutti e due erano caduti sul campo, si<br />

rialzavano e si stringevano la mano cavallerescamente.<br />

Poiché quasi tutti erano scalzi, restavano esclusi dal<br />

giuoco, e tollerati appena in veste di spettatori, i pochi<br />

che erano calzati. Questi, che in quelle occasioni si sentivano<br />

quasi disonorati di avere le scarpe ai piedi, non<br />

si attentavano tuttavia a togliersele, sebbene morissero<br />

dalla voglia di farlo. Essi infatti ci avevano provato una<br />

volta, ma le scarpe non erano state più ritrovate con loro<br />

scorno e danno e non senza punizioni corporali.<br />

14<br />

I primi ritorni di Cardellino a casa da quella piazza<br />

erano sempre stati annunciati di lontano da piagnistei:<br />

segno che le aveva prese. Ogni volta la madre, senza interrogarlo,<br />

lo aveva punito con mano dura gridandogli:<br />

– Tu, hai il cuore da contadino.<br />

Così Cardellino aveva imparato non troppo tardi a<br />

distinguere il cuore del contadino da quello del pastore,<br />

e a non dare retta alla maestra di dottrina, la quale, sotto<br />

una navata della chiesa, insegnava a colpi di canna a<br />

lui e agli altri ragazzi che alle offese si deve rispondere<br />

solo col perdono.<br />

Ora Cardellino aveva dunque dieci anni, e grandi<br />

avvenimenti si preparavano per lui.<br />

Anzitutto, era arrivato per lui il tempo di lasciare la<br />

scuola. Di essere «scarcerato». Ma, strano a dirsi, se fosse<br />

dipeso da lui, avrebbe rimandato, senza saperne bene<br />

il perché, almeno di qualche settimana, di qualche giorno,<br />

la festa che nei primi anni di scuola aveva affrettato<br />

col desiderio tante volte.<br />

Erano gli ultimi giorni di scuola. La primavera agonizzava<br />

prematuramente a <strong>Orolai</strong>. Come ogni anno,<br />

essa si era corrotta in due o tre settimane dal suo arrivo:<br />

quando il sole era diventato un drago di fuoco: il drago<br />

che solo un San Giorgio a cavallo e lancia avrebbe potuto<br />

calpestare e trafiggere; o che avrebbe potuto ammansire<br />

con una sola parola tutt’al più quel San Giorgio<br />

di Suelli che faceva scaturire le acque dalla roccia e<br />

comandava alle rane e guariva gli infermi e risuscitava i<br />

morti: e tutto questo molto tempo prima dei miracoli<br />

di San Francesco. Purtroppo quel sole in una sola ora<br />

di malignità riusciva a bruciare i grani e a mettere alla<br />

sete il bestiame. I vecchi dicevano che sempre così era<br />

stato in quel territorio più di ossa che di polpa, per il<br />

peccato forse di una specie di Adamo di <strong>Orolai</strong>.<br />

15


Quanti ricordi in quella stanza sotto tetto dove aveva<br />

imparato a leggere e a scrivere. In quanti compagni<br />

s’erano trovati in tutti quegli anni: e ora ciascuno avrebbe<br />

preso una strada: i più quella del contadino; i pochi,<br />

quella del pastore; i pochissimi, quella dell’artigiano.<br />

Soltanto quei due o tre con le scarpe ai piedi stavano<br />

per prendere il volo: già di tre si sapeva che uno sarebbe<br />

andato a imparare da prete; un altro da medico, il terzo<br />

da avvocato.<br />

Ciascuno aveva lasciato un suo ricordo su quelle<br />

panche, col coltello che serviva loro a tanti usi e principalmente<br />

a sbucciare i fichi d’India. Prima di loro l’avevano<br />

fatto altri. L’avrebbero continuato a fare anche altri<br />

dopo di loro. Cardellino pensava a questo e a cose<br />

simili, in quegli ultimi giorni; e si incantava a osservare<br />

le formiche mentre giocavano a un giuoco che ripetevano<br />

ogni anno senza mutamento.<br />

Dal suo banco gli accadeva anche di fissare, in quegli<br />

ultimi giorni, come per non dimenticarlo più, il<br />

quadro plastico appeso alla parete di fronte: la figura di<br />

un piede rugoso e calloso che tante volte lo aveva fatto<br />

pensare alle orme che lasciano i vecchi mendicanti scalzi<br />

sulle strade fangose. E si struggeva di toccare con la<br />

punta di un dito la cima del monte, che tante volte,<br />

spingendo lo sguardo oltre l’inferriata della scuola aveva<br />

scorto, secondo le stagioni, ora come un mucchio di<br />

zucchero, ora come un frate francescano… e accompagnare<br />

con lo sguardo il serpeggiare di quella vena azzurra:<br />

il grande fiume che una volta era un dio degli antichi;<br />

e la corsa di quella vena rossa: la strada ferrata; e<br />

accarezzare con la mano tutta la terra circondata dal<br />

mare. Oh, dover dire, invece: non la rivedrò più. Ma<br />

che cosa aveva?<br />

Anche il vecchio maestro in quei giorni si incantava,<br />

lasciava fare e dire, con un sorriso insolitamente<br />

stanco e malinconico.<br />

16<br />

Eppure buone novità c’erano per aria e tali che<br />

avrebbero dovuto rallegrare molto Cardellino. Ma Cardellino<br />

era mesto. «Forse è vero – pensava – che tutto è<br />

nelle mani del Destino». Lo aveva sentito dire dai vecchi<br />

della piazza. E anche da sua madre. Nato col cuore<br />

di un contadino, lui, e non di un pastore. Forse per<br />

questo gli veniva da piangere al vedere tagliare la gola<br />

all’agnello. Il cuore di un contadino? Il cuore di un pastore?<br />

Non era stato Caino, che lavorava la terra, a uccidere<br />

Abele, che era pastore? Come si spiegava questo?<br />

Gli avveniva di paragonare la sua alla fortuna di Domenico,<br />

suo vicino di banco: il suo migliore amico. Domenico<br />

pochi giorni prima aveva ereditato un campo,<br />

per testamento, da una zia: un piccolo campo. Il fiume<br />

Toro che separava <strong>Orolai</strong> da Ilani gli girava attorno infuriato<br />

e muggente, se era in piena; e senza brio, se era<br />

in magra. E lo isolava. Perciò quel campo aveva un nome<br />

che gli si addiceva: «L’isola». Lo aveva sempre lavorato<br />

suo padre come mezzadro di quella sua zia; ora<br />

avrebbe continuato a lavorarlo come mezzadro, diceva<br />

in celia, di suo figlio; e a Domenico piaceva rimbeccarlo<br />

che ormai la zappa l’aveva lui per il manico. Padre,<br />

madre e figlio erano proprio in cielo in quei giorni. Si<br />

rallegravano sinceramente con loro anche i più miseri<br />

braccianti e i contadini nomadi da un anno all’altro, da<br />

uno a un altro pezzo di terra da lavorare, richiesto e ottenuto<br />

come un’elemosina dal re del villaggio, Prospero<br />

Sio, il quale, per il suo troppo farsi pregare, tutti chiamavano<br />

il Santo Terroso.<br />

– Insomma, Cardellino, puoi ringraziare la fortuna<br />

anche tu. Allegro, Cardellino, – gli diceva Domenico – si<br />

diventa ricchi, tu ed io.<br />

Era che nell’area fabbricabile adiacente alla casa di<br />

Cardellino il muratore aveva già terminato di fabbricare<br />

per loro, con bella pietra squadrata e con calcina,<br />

una stanza intercomunicante con la vecchia «stanza del<br />

17


fumo». Segno che diventavano ricchi davvero. Lo confermavano<br />

tutti i vicini del resto, tra la celia e la malizia,<br />

dicendo che Antonio Poberile metteva già lardo, ingrassava<br />

come il salvadanaio del povero, il porco di Natale.<br />

La stanza nuova con quel sole d’estate nel cuore della<br />

primavera asciugava rapidamente. La madre l’aveva<br />

già inaugurata adibendola a stanza da letto e a magazzino<br />

delle provviste. La vecchia stanza del fumo ora sembrava<br />

troppo povera. E Maria-la-formica aveva anche<br />

fatto dare una mano di rinzaffo alla facciata vecchia,<br />

aveva fatto ritoccare anche il tetto in quei punti che lasciavano<br />

vedere le stelle e passare la pioggia; aveva infine<br />

voluto dotarla a fianco del forno d’una mensola sulla<br />

quale facevano già bella mostra le stoviglie di terracotta<br />

e i pochi ramaioli. Peccato che tutto l’apparecchio restasse<br />

mezzo in ombra. Più fortunati di loro quelli del<br />

lontano Senda, che aveva già lampade luminose che si<br />

accendevano senza fuoco e senza stoppino. La linea ad<br />

alta tensione più vicina passava a chilometri e chilometri<br />

di distanza e a ogni elezione ne promettevano una derivazione<br />

insieme con l’acquedotto e tutto il resto. Così il<br />

buio e il fumo restavano anche nella nuova stanza di<br />

Cardellino, ma, quando di questa veniva aperto l’uscio,<br />

la luce del giorno entrava almeno in quella buia per curiosare,<br />

e il fumo a sua volta si insinuava nell’altra con la<br />

medesima intenzione, a quanto sembrava.<br />

Le vicine erano venute in visita dalla prima sino all’ultima<br />

a fare gli auguri, e alcune non avevano saputo<br />

dissimulare l’invidia per tanto lusso e tanta fortuna.<br />

Anche il contadino era nomade, a <strong>Orolai</strong>. Il contadino<br />

era solito recitare questa filastrocca ai figli: «La<br />

fortuna, sempre lei, ha l’ultima parola. Si sa: ti dai da<br />

fare, ti alzi al canto del gallo, cammini per ore fino al<br />

campo, attacchi i buoi, semini, rifai la stessa strada ogni<br />

18<br />

sera, ceni un po’ d’acqua calda, t’addormenti, ti risveglia<br />

il gallo: partenza di nuovo, la stessa storia sempre,<br />

sempre così; aspetti, scerbi, aspetti ancora, arriva il sole<br />

di primavera, la primavera è di corta vita, arriva la stretta:<br />

tutta la tua fatica in nulla. Perché? Tutto hai fatto<br />

quanto stava in te, ma è la fortuna che non ti ha assistito.<br />

Bisogna ricominciare, giuocare un’altra volta d’azzardo,<br />

arrischiare i semi. Ma se la fortuna ti è compagna,<br />

allora anche il pane ha il sapore suo, e l’acqua quasi ti<br />

dà alla testa come un vino». (C’era già stato qualcuno<br />

che aveva sfidato la fortuna lasciando la strada vecchia e<br />

misera per una nuova sia pure piena di incognite e di<br />

pericoli, perché pretendeva dal vivo che entrasse sottoterra<br />

come la talpa: la miniera che prima lo aveva accettato<br />

e che poi lo aveva licenziato per la crisi del carbone<br />

o del piombo; e ora, ritornato alla terra, lo «smobilitato»<br />

sopportava il disinganno e la miseria sperando in<br />

un tempo migliore che veniva predicato sulle piazze di<br />

quando in quando).<br />

Meglio pastore che contadino, dicevano i contadini.<br />

Il contrario sostenevano i pastori. E gli anziani a<br />

rimproverarli che erano in mano della Fortuna, gli uni<br />

e gli altri. – Tuo padre, pensa, – diceva serio serio Domenico<br />

a Cardellino – dopo tanti anni che ha fatto il<br />

servo, eccolo finalmente da quest’anno pastore per conto<br />

suo. Indipendenti, con un gregge tutto vostro. Mentre<br />

mio padre – celiava Domenico con malinconia – è<br />

mio affittuario: e Dio voglia che riesca a pagarmi ogni<br />

anno l’affitto.<br />

In qualche modo – ammetteva dentro di sé Cardellino<br />

– Domenico aveva ragione.<br />

Era un avvenimento straordinario per i Poberile.<br />

Questo era il cognome del padre di Cardellino. Già da<br />

due generazioni i Poberile nascevano servitori e servitori<br />

morivano. Ecco che uno di loro diventava padrone.<br />

La maggior parte della gente, che era povera, già fissava<br />

19


– quasi per scongiuro a favore del fortunato – una data<br />

nuova e memorabile in quel calendario rustico di <strong>Orolai</strong><br />

chiamandola «l’anno di Antonio Poberile»: cioè l’anno<br />

in cui un povero era stato favorito dalla Fortuna al<br />

punto di poter passare dall’asino al cavallo.<br />

L’asino è il cavallo del povero e significava già qualche<br />

cosa, a <strong>Orolai</strong> e dintorni. Non tutti i poveri, infatti,<br />

ne possedevano uno. Il cavallo invece era lo stesso come<br />

essere benestanti: col cavallo insomma, dicevano, è<br />

come essere a cavallo. Con quell’asino di nuovo acquisto<br />

Antonio Poberile era dunque sulla via fortunata di<br />

potersi presto comprare anche un cavallo; e lo aveva alloggiato<br />

nella corte, sotto la legnaia.<br />

Ma come aveva fatto Antonio Poberile a incantare<br />

la fortuna? Con lo zufolo, forse? Aveva forse scovato il<br />

tesoro di Mauro Bussolo o quello del castello di Burgos?<br />

O gli era andata bene, anzi benissimo, un’impresa<br />

da uomo valente, un’ominía? Dicevano così per dire;<br />

ma i più erano convinti che, pur con l’assistenza della<br />

Fortuna, molto era dipeso dalla vita di guerra che Antonio<br />

aveva sostenuta in tutti quegli anni contro le stagioni<br />

e anche contro il fisco e forse, perché no?, ingegnandosi<br />

anche ai margini del codice penale. E non<br />

piccola parte di merito riconoscevano a Maria-la-formica<br />

che era spesso andata a letto al buio e senza cena.<br />

Così Cardellino nel lasciare la scuola era più fortunato<br />

di tanti altri compagni.<br />

Quel settembre avrebbe ricevuto la verghetta, per<br />

guidare gli agnelli, dalle mani di suo padre, pastore d’un<br />

gregge suo, e non da quelle di un padrone, come era<br />

toccato a suo padre alla sua stessa età.<br />

Già erano pronti gli scarponi con le suole di gomma<br />

e anche il cappottino d’orbace: sorpresa delle sorprese,<br />

l’una e l’altra per lui. Aveva fino ad allora camminato<br />

20<br />

scalzo in tutte le stagioni, come il gallo e il gatto, e con<br />

una sacchetta sulle spalle quando pioveva. Pesavano<br />

come piombo questi scarponi; e costavano un occhio.<br />

– Che tu li consumi con la salute – gli aveva augurato<br />

il calzolaio nell’atto di consegnarglieli. Ora Cardellino<br />

quasi si vergognava, dopo tanto tempo che aveva fatto<br />

parte degli Scalzi, di essere passato ai Calzati. Gli sembrava<br />

quasi di essere un traditore. Ma, infine, una volta<br />

usciti dalla fanciullezza, si deve andare, o contadino o<br />

pastore, per sassi pungenti e taglienti e per pruni, devono<br />

calzarseli, i piedi, il contadino e il pastore. Non abbiamo<br />

lo zoccolo, noi pastori e contadini, come i buoi<br />

e come i cavalli e gli asini: altrimenti si ricorrerebbe al<br />

fabbro, pensava Cardellino, per scacciare la malinconia.<br />

Ma era una malinconia attaccata con la pece, che non<br />

lo lasciava, che nasceva da altro, che gli si notava a colpo<br />

d’occhio. Sua madre rincarava la dose proprio in<br />

quei giorni: che dipendeva da quel suo «cuore» da contadino;<br />

altri avrebbe dato un occhio per quelle scarpe; e<br />

stesse bene attento a non farsele rubare.<br />

L’ultimo giorno di scuola il vecchio maestro, aggirandosi<br />

tra i banchi, si mise a fare in celia il processo a<br />

ognuno: tu questo e questo e quest’altro: un elenco<br />

delle marachelle e delle mancanze che avevano commesse<br />

ciascuno in tutti quegli anni che li aveva «pasturati».<br />

Tu questo, tu quest’altro… Terminato quell’affettuoso<br />

processo, ritornò alla cattedra e li dichiarò tutti<br />

perdonati. Ormai non riusciva più a nascondere una<br />

sua gran fretta di congedarli: forse temeva di commuoversi<br />

troppo alla loro presenza. Aveva fretta, aveva tanto<br />

da fare ancora, si giustificava: chiudere i conti dell’anno<br />

scolastico, concludere le medie, stendere la relazione finale:<br />

tutti promossi. – Ci rivedremo però, di tanto in<br />

tanto; almeno alle feste –. Furono le sue ultime parole;<br />

si avviò alla porta, la spalancò: si vide la strada e con un<br />

gesto la indicò ai ragazzi.<br />

21


I ragazzi sciamarono senza fretta; e senza festa. Ora<br />

il maestro era solo, sulla soglia: accennò un gesto di saluto,<br />

rientrò nella stanza, chiuse la porta. Povero caro<br />

maestro, addio, era il sentimento di Cardellino, in confuso.<br />

Cardellino arrivò a casa accorato; riunì i suoi libri e<br />

i suoi ultimi quaderni, li legò a croce con una cordicella,<br />

li ripose in un armadio a muro che sembrava un loculo;<br />

poi fuggì di casa e arrivò trafelato in piazza.<br />

La piazza brulicava di bambini che giocavano in silenzio.<br />

Se ne indispettì. Si mise a guardare lontano: il<br />

monte più alto dell’isola, il fiume più grande dell’isola,<br />

la pianura più vasta e più verde dell’isola. Non provò<br />

sollievo. Ma già cominciavano ad arrivare alcuni dei<br />

suoi compagni scarcerati e poté dire «taci» al cuore che<br />

abbaiava. Confabularono subito e concertarono una<br />

vendetta: era il cosidetto giuoco del riccio: un giuoco<br />

che non era un giuoco, che era proprio un dispetto,<br />

un sopruso, una vendetta: si mescolarono a quei bambini<br />

che erano intenti a giocare in silenzio, sconvolsero<br />

le loro muricce, i loro forni, pestarono le loro statuette<br />

d’argilla, presero a calci i loro carretti di ferula, li costrinsero<br />

a piangere e a sgombrare la piazza.<br />

Per tutta l’estate Cardellino fu libero di andare di<br />

qua e di là con Domenico: a pescare con lui le trote e le<br />

anguille nel fiume Toro, a bagnarvisi, a dare una mano<br />

al padre di Domenico nella falciatura, a trebbiare nell’aia,<br />

a fare insomma il contadino. Sua madre non gli<br />

chiedeva conto neppure delle notti che passava fuori di<br />

casa con Domenico, in riva al Toro, nella capanna di<br />

frasche che il contadino aveva costruito in un canto dell’isola.<br />

Era bello svegliarsi all’alba come l’uccello nel nido<br />

e guardarsi capovolto nello specchio del fiume. Era stato<br />

fortunato Domenico, pensava Cardellino. Più fortunato<br />

22<br />

di lui. Così si rodeva spesso; ma si guardava dal dirlo a<br />

Domenico per non passare da invidioso. Tanto meno<br />

si sfogava di quel cruccio con sua madre per non sentirsi<br />

svillaneggiare con parole anche più pungenti di<br />

tante altre volte.<br />

L’estate si inoltrò.<br />

«Del resto, – si trovò a consolarsi Cardellino alla fine<br />

– del resto i conti tornano meglio davvero al pastore che<br />

al contadino». Anche Saturnina (era una loro coetanea<br />

vicina di casa) quando le si chiedeva chi volesse meglio<br />

per marito, tra il pastore e il contadino, rispondeva: il<br />

pastore. Del resto, che cosa mangiava il contadino, più<br />

che pane? Pane e coltello, coltello e pane. Inoltre il pastore<br />

non si limitava a servirsi delle trappole di asfodelo<br />

e dei lacci fatti di crine di cavallo per la caccia: «Ha il fucile<br />

da caccia, il pastore», concludeva tra sé.<br />

In quegli ultimi aneliti dell’estate, si annunciò un<br />

odore di pioggia. Si udivano più di frequente le comitive<br />

cantare nella notte. Le loro canzoni preferite erano<br />

quelle di un pirata che voleva partire per farsi ricco e<br />

per comprare con i frutti dell’arrembaggio gli ori alla<br />

sua donna, e quella che diceva: «Appena la <strong>stagione</strong> è<br />

cambiata – vedo tutta la gente in gran subbuglio – non<br />

ce n’è uno che non vada in cerca – di un bel tronco per<br />

farsene un aratro…».<br />

Ai primi di settembre un temporale pazzo scacciò<br />

definitivamente l’estate e richiamò Antonio Poberile a<br />

<strong>Orolai</strong>.<br />

Era arrivato il tempo per il pastore di contrattare il<br />

pascolo invernale per le sue pecore. A quel temporale<br />

spuntarono come i funghi anche altri pastori. Per chiedere<br />

grazia, così essi si esprimevano, a San Terroso. O dicevano<br />

anche: per sciogliere il voto della novena di Caputanni,<br />

e intendevano dire di settembre.<br />

23


Di santi chiamati Terroso ce ne erano pochi nella<br />

contrada. A <strong>Orolai</strong> c’era quello solo, di nome Prospero<br />

Sio, che abitava nel rione «dei Calzati», in una casa cinta<br />

da un muro alto circa due metri, tutta inferriate a<br />

pian terreno e guardata dai cani mastini. Egli aveva ereditato<br />

quella casa e molti terreni insieme con una chiesa<br />

privata e con un campanile le cui campane venivano<br />

sonate, col suo permesso, in occasione di processioni e<br />

di feste solenni o dei funerali dei suoi parenti, i quali,<br />

sebbene poverissimi, erano anch’essi fieri di essere parenti<br />

del Santo al quale la chiesa era dedicata. Questo<br />

Santo soccorreva e sosteneva Prospero Sio mandandogli<br />

sempre maggiori fortune e concedeva ai suoi parenti<br />

poveri la rassegnazione.<br />

Prospero Sio con la rendita di quei fondi di erba<br />

naturale affittata ai contadini ma preferibilmente ai pastori,<br />

e non spendendone affatto per le migliorie, col<br />

favore delle cattive annate che dissestavano questo e<br />

quello costringendoli a ricorrere alla sua banca, era riuscito<br />

in un breve giro di anni a decuplicare l’estensione<br />

delle terre ereditate, tanto che l’agro di <strong>Orolai</strong> era in<br />

gran parte suo: suo si può dire ogni ruscello, ogni fonte,<br />

ogni fuscello. Poiché era anche sarcastico, egli soleva dire<br />

che ormai le preoccupazioni erano sue e soltanto sue:<br />

ridotte a nulla, per merito suo, anche quelle dell’esattore,<br />

il quale ora non aveva da fare altro, per l’imposta<br />

terreni, che notificare a lui, e a lui solo, quasi l’intero<br />

totale del ruolo.<br />

Le preoccupazioni non mancavano neppure a Prospero<br />

Sio. Ma era in tutto l’anno un solo mese quello<br />

che gli toglieva il sonno: il settembre. Superato questo<br />

mese di affanni, negli altri si riposava. A settembre dunque<br />

gli toccava ascoltare duecento e più richieste di terre<br />

da semina e accontentare questo, scontentando quello;<br />

o viceversa. Aperte venti e più licitazioni private senza<br />

candela, per le sue terre da pascolo. Il portone veniva<br />

24<br />

spalancato all’alba e rimaneva aperto fino a vespro alto<br />

durante tutta quella novena. I postulanti si avvicendavano<br />

e si moltiplicavano: e non è detto che chi vi entrava<br />

una prima volta per chiedergli la grazia non vi dovesse<br />

tornare almeno un’altra per sentire la risposta definitiva.<br />

Preferiva trattare coi pastori. Aveva un debole di<br />

cuore per loro. I pastori, sebbene non gliene fossero<br />

grati, avevano perciò la precedenza. Anzitutto, i pastori<br />

erano pochi, rispetto ai contadini. Il contadino, d’altra<br />

parte, poteva aspettare; la pecora, no. Inoltre il pastore<br />

è più solvibile del contadino perché gli faceva garanzia<br />

un altro santo che il pastore, sempre ingrato, chiamava<br />

san Saraceno. Questo altro intercessore era l’industriale<br />

dei caseifici, venuto per lo più dall’oltremare, proprio<br />

come i Saraceni di Mugahîd: intercessore che faceva il<br />

miracolo di far odorare le caparre al pastore, il quale,<br />

annusatele appena, le passava tutte a lui, a Prospero Sio.<br />

Il contadino invece che cosa gli dava? Appena un quarto<br />

del prodotto. E se l’annata falliva? Con chi prendersela?<br />

Con chi rivalersi? Con sant’Isidoro, forse? Che<br />

colpa ne aveva lui se il contadino gli dava tanto scarsa<br />

garanzia?<br />

Prospero Sio stava a sedere sul suo seggiolone a braccioli,<br />

come in trono. «Sembra san Costantino di Sèdilo»,<br />

pensò Cardellino.<br />

L’uomo fumava la pipa e ogni tanto sputava da un<br />

lato, con decoro.<br />

– E bravo Antonio Poberile. Diventiamo ricchi. Me<br />

ne rallegro davvero. E questo è tuo figlio? – domandò<br />

studiando le scarpe di Cardellino.<br />

– Sì, è mio figlio, il maggiore. L’ho condotto qui con<br />

me, dal momento che quest’anno, come si vede dalle<br />

scarpe, entra nel «mare in burrasca».<br />

– Mare in burrasca, hai detto? Eh, voi pastori mettete<br />

sempre le mani avanti, si sa: piangete miseria; la sapete<br />

lunga.<br />

25


Cardellino intanto aveva osservato le mani di San<br />

Terroso: gli sembravano due focacce di fior di farina,<br />

ben lievitate. Gli piaceva quel suo tono tra il calmo e il<br />

furbesco; gli piaceva anche la cassapanca dai piedi di<br />

drago, tinta di sangue di capra, e quel tappeto che la ricopriva:<br />

un prato dove dormivano uccelli strani tra fiori<br />

ancora più strani; gli piaceva soprattutto l’abilità di<br />

cui dava prova quel fumatore sputando da un lato senza<br />

levarsi la pipa di bocca.<br />

– Quante pecore hai? – domandò Prospero Sio, accarezzando<br />

con la sinistra un cane ringhioso intagliato<br />

nel bracciolo del seggiolone.<br />

– Centoventi, – rispose Antonio Poberile.<br />

Qui Cardellino cominciò ad annoiarsi. San Terroso<br />

proponeva un problema d’aritmetica molto complicato<br />

a suo padre prima di concedergli la grazia: lo interrogava<br />

come uno scolaro, lo correggeva con calma, con una<br />

pazienza addirittura da santo. Il suo maestro, invece,<br />

perdeva la pazienza tutte le volte, con lui: l’aritmetica<br />

non era stata mai il suo forte: anzi lo stordiva; ragione<br />

per cui i problemi li aveva sempre copiati dal suo vicino<br />

di banco, dal suo migliore amico, Domenico. Questo<br />

problema che ora stava tanto a cuore ai due uomini era<br />

così complicato che, dopo lunga discussione, non riuscirono<br />

a mettersi d’accordo. Ma tutto sarebbe finito<br />

bene, a giudicare dal fatto che Prospero Sio accommiatò<br />

il pastore dicendogli col migliore suo sorriso:<br />

– Pensaci sopra, dunque, Antonio, e ritorna domani,<br />

possibilmente con i tuoi soci. Se ci accorderemo, mi<br />

firmerete gli effetti. Beninteso, ci vogliono le caparre.<br />

Devo anche avvertirti che ho altre offerte da parte di<br />

pastori forestieri. Ma, a parità di condizioni, non c’è ragione<br />

che non debba preferire voi di casa nostra a quei<br />

forestieri.<br />

Usciti dalla stanza, Cardellino pensò subito a una festa:<br />

il cortile era affollato di postulanti che aspettavano il<br />

26<br />

loro turno, come succede, per la troppa folla, ai santuari.<br />

I più erano contadini. Cardellino li riconosceva dalle<br />

loro toppe multicolori di stoffa dal ginocchio in giù dei<br />

calzoni; e anche dagli scarponi imbullettati. I pastori<br />

erano pochi, con i loro polpacci stretti nei gambali di<br />

cuoio mal conciato, con le loro scarpe con la pianta di<br />

gomma o di pelle di cinghiale. Tutti erano immersi nei<br />

loro pensieri: forse risolvevano mentalmente qualche<br />

problema, un po’ svogliati, un po’ preoccupati, come<br />

succedeva a lui all’ora di aritmetica.<br />

Alcuni giorni dopo il cortile di Prospero Sio era senza<br />

«fedeli».<br />

Ora il ricco di <strong>Orolai</strong> poteva riposare tranquillo sino<br />

a un altro settembre, con le sue cambiali nell’armadio<br />

a muro.<br />

Cominciavano, invece, a quanto sembrava, i guai<br />

per Antonio Poberile e per i suoi soci. Cardellino li sentiva<br />

imprecare per la fune, dicevano, che Prospero Sio<br />

aveva messo loro al collo. C’era anche di peggio: non si<br />

astenevano dall’augurargli ogni male: persino una morte<br />

repentina, senza sacramenti. Intanto, brontola e impreca,<br />

si preparavano a immettersi nel possesso dei pascoli.<br />

Quegli auguri di male a Prospero Sio da parte degli<br />

uomini avrebbero lasciato tranquillo Cardellino. Almeno<br />

fino a un certo punto. Ma sua madre stessa, che era<br />

solita segnarsi a ogni parola che offendesse Dio o i santi,<br />

raccomandava al demonio l’anima di quell’uomo.<br />

Solo ora Cardellino faceva caso che, il Sio, lo maledicevano<br />

anche i vecchi che frequentavano la piazza. E specialmente<br />

zio Lussemburgo.<br />

Questo zio Lussemburgo era un vecchio che da giovane<br />

aveva tentato la fortuna: aveva lasciato il villaggio<br />

e per tanti anni si era seppellito nelle miniere di quel<br />

paese lontano; era poi rimpatriato con un gruzzolo e si<br />

27


era comprato i buoi e il carro. In seguito, di cattivo in<br />

cattivo raccolto, lavorando terreni di Prospero Sio, aveva<br />

perduto tutto. E tutto questo glielo aveva sequestrato<br />

Prospero Sio. Ora Lussemburgo non ci vedeva neppure.<br />

Forse era diventato cieco prima del tempo a causa<br />

di quella delusione e di quell’accoramento. La sua pensione<br />

di invalidità e vecchiaia era irrisoria al punto che<br />

l’aiutava a tirare avanti soltanto per un terzo del mese;<br />

per il resto del tempo lo soccorrevano i suoi vicini, un<br />

po’ l’uno un po’ l’altro.<br />

Fu in quegli ultimi giorni di libertà che Cardellino,<br />

nell’accommiatarsi da tutti, apprese direttamente da lui<br />

che Prospero Sio era già all’inferno in un modo curioso:<br />

c’era e non c’era a <strong>Orolai</strong>: il corpo di quel riccone era lì<br />

nella casa con le inferriate, ma già amministrato dal demonio;<br />

l’anima sua insomma era lontana, nel fuoco dell’inferno.<br />

Sembrandogli, questo, un racconto incredibile,<br />

Cardellino ne chiese spiegazione a sua madre.<br />

Maria-la-formica gli rispose senza esitare:<br />

– Lussemburgo non ha inventato nulla. Non è il<br />

primo caso; e non sarà l’ultimo né a <strong>Orolai</strong> né altrove.<br />

Il tempo di lasciare il villaggio si avvicinava. Erano<br />

già partite le rondini. Già i pastori dei monti più alti<br />

erano passati con i loro greggi, con i loro cavallini pelosi<br />

e i loro cani, diretti alla pianura che si scorgeva dalla<br />

piazza di <strong>Orolai</strong> come una linea morbida e perfetta in<br />

fondo all’orizzonte. Il più alto monte era già bianco, e<br />

il vento recava alla piazza, di quando in quando, l’odore<br />

sottile della sua neve. Gli ultimi fichidindia erano<br />

guardati a vista dai custodi. Dai tetti saliva più abbondante<br />

il fumo. Il sole sembrava malato. Le notti si erano<br />

allungate e fatte rigide, e i cani uggiolavano sempre<br />

più afflitti e numerosi, chiedendo di essere accolti al<br />

caldo delle case. No, non poteva essere che uggiolassero<br />

28<br />

ai morti, come gli avevano fatto credere da ragazzino:<br />

dopo spente tutte le luci, scalzi e invisibili, i morti visitavano<br />

il villaggio e vi si trattenevano fino al primo canto<br />

del gallo. Questo dicevano. E i cani al vederli li temevano<br />

e si lamentavano. Ma non era vero niente. Perché,<br />

infatti, quegli uggiolii li facevano così di frequente e così<br />

pietosi d’inverno e non d’estate? Segno che era il<br />

freddo, non altro, a farglieli fare. Così, a questa conclusione,<br />

arrivò in quei giorni Cardellino, parlandone con<br />

Domenico.<br />

Domenico, il padrone dell’isola, aveva calzato le<br />

scarpe anche lui, imbullettate le sue, pesanti come piombo;<br />

da contadino. I due amici se le guardavano l’un l’altro<br />

e si facevano gli sberleffi, ma era riso che non cuoceva:<br />

si dovevano separare, dovevano percorrere diversa<br />

strada con quelle scarpe.<br />

Il gabbano di Cardellino era pronto, di lana ruvida,<br />

rigida: di orbace nero, col cappuccio. Domenico glielo<br />

volle vedere addosso prima ancora della partenza e disse:<br />

– Sembri un «mamuttone» –. Così era chiamata a<br />

<strong>Orolai</strong> la maschera di carnevale, la cui allegria consisteva<br />

nella tristezza. Anche Domenico era triste. La fanciullezza<br />

se ne era volata.<br />

Quella notte la madre di Cardellino non chiuse occhio<br />

al pensiero che il ragazzo le usciva di casa a quell’età<br />

per andare incontro ai disagi e ai pericoli del pastore<br />

nomade. Sì, lo comprendeva: aveva il cuore da<br />

contadina anche lei, quella notte. Poi, poi si sarebbe<br />

consolata con l’altro figlio, con la bambina che dormiva<br />

ancora in culla e con una creatura che già le batteva<br />

dentro. Non si è mai contenti, si rimproverava. Va forse<br />

in mano di un estraneo? Non va nemmeno in capo<br />

al mondo. Dai pascoli di Pasada potrà sentire anche le<br />

campane. Ma è un fatto che un bambino è sempre un<br />

29


ambino… e pensieri simili, incessanti, andavano e<br />

venivano, si congedavano da lei, ritornavano a lei; così<br />

per tutta la notte.<br />

Cardellino invece dormì tranquillo finché non lo<br />

svegliò l’asino di Quirico Pappa e non gli rispose subito<br />

dalla legnaia il loro Pensamento, l’asino che doveva trasportare<br />

all’ovile lui, un paiolo e il pane delle feste, che<br />

la madre aveva voluto preparare per l’avvenimento. Come<br />

faceva ogni madre quando il figlio partiva soldato.<br />

Maria saltò dal letto, accese il fuoco, gli riscaldò del<br />

caffè. Cantavano già i galli. Si udiva il rintocco d’argento<br />

dell’incudine di Oreste Piana.<br />

Poi lei si fece sull’uscio a guardare il cielo. Dopo le<br />

piogge di quei giorni non c’era una nuvola: le stelle<br />

erano brillanti, ma fredde e lontane. Disse a Cardellino:<br />

– Metti il sellino a Pensamento –. Egli obbedì subito e<br />

ritornò tirandosi dietro la sua cavalcatura. Gli caricarono<br />

il paiolo, la bisaccia del pane. – Indossa il gabbano,<br />

– disse lei. Cardellino obbedì: e si ricordò che Domenico<br />

gli aveva dato della maschera triste per quell’indumento:<br />

sorrise nell’ombra. – Ora va’ con Dio e con Maria,<br />

– disse la madre. Cardellino s’avviò. Ma lei lo richiamò<br />

subito e gli mise al collo il «sebèze»: era un sacchettino<br />

legato a un cordoncino con dentro un frammento di<br />

pietra nera: di quella pietra nera che a <strong>Orolai</strong> era venerata<br />

fin dall’antichità perché aveva il potere di preservare<br />

dagli sgambetti del demonio chi ne portava addosso.<br />

E, dopo che gli ebbe attaccato al collo l’amuleto, si sentì<br />

tranquilla, lo congedò definitivamente dicendo: – Va’ in<br />

buon’ora, e Nostra Signora t’accompagni –. Poi soggiunse<br />

mentalmente auguri su auguri: per il lavoro che fosse<br />

ricompensato; per il corpo che fosse preservato dalle malattie;<br />

per il bestiame che si moltiplicasse e non fosse mai<br />

toccato dalla moria, dal malocchio, dalla bardana.<br />

Intanto l’asino si era dileguato in fondo alla strada,<br />

ma la madre non rientrò in casa finché al barlume delle<br />

30<br />

stelle non fu scomparso il cappuccio puntuto, da folletto,<br />

di Cardellino.<br />

Ora la madre chiuse la porta, si sedette accanto al<br />

focolare e s’accorse che piangeva. «Hai il cuore da contadina,<br />

va’» si svillaneggiò. Così a poco a poco ritrovò il<br />

suo cuore vero, quello di tutti i giorni, il cuore che le<br />

obbediva subito, appena gli comandava di tacere.<br />

Era già l’alba quando Cardellino fu in vista della capanna.<br />

I cani dei soci gli abbaiarono furiosi; ma, a un<br />

fischio, si rabbonirono dando segno d’aver compreso<br />

che Cardellino era uno di casa e che da quel momento<br />

gli dovevano obbedire.<br />

Suo padre scaricò l’asino e disse a Martino Pecora:<br />

– Questo è il mio ragazzo. Si chiama Vincenzo, ma tutti<br />

lo conosciamo come Cardellino. Te lo affido, attento a<br />

non guastarmelo con le tue storie sul Maligno.<br />

Martino Pecora era vecchio e curvo. Si sollevò un<br />

poco, si fece il segno della croce; poi rispose: – Anche<br />

tu sei entrato nella «comarca» di Stalino?<br />

Antonio Poberile gli rispose ridacchiando: – E che<br />

ci avresti da perdere? Benvenuto sia a <strong>Orolai</strong>: lo ospiterebbe<br />

alla grande Prospero Sio. Peccato, ti dico, che di<br />

mezzo ci sia il mare.<br />

Cardellino rideva di nascosto. Quante volte aveva<br />

giocato a scrivere col carbone sulle parti bianche dei<br />

muri lebbrosi di <strong>Orolai</strong>: W Stalin; a dispetto dei W ragaz-<br />

zi «calzati» che invece scrivevano: Stalin. Per quelle<br />

scritte col W dritto il parroco minacciava l’inferno, per<br />

l’altro capovolto prometteva il paradiso.<br />

Martino Pecora, invece, che era campagnolo effettivo,<br />

riteneva per sentito dire che quel nome fosse l’ultimo<br />

titolo che il demonio avesse assunto per sé: così, appena<br />

lo sentiva, si segnava. – Il demonio si colloca sempre in<br />

mezzo agli uomini, prende il posto che si è accaparrato<br />

31


il mercoledì in mezzo alla settimana – era solito dire.<br />

– Dio di quando in quando si tira addirittura in disparte<br />

– spiegava – per lasciarlo fare. È allora che arrivano<br />

le alluvioni, la siccità, le morie, le tempeste di terra e di<br />

mare, i ricatti, le estorsioni, ogni malanno –. Egli non<br />

si rammentava quanto tempo fosse passato da quando,<br />

all’età di Cardellino, era diventato pastorello anche lui.<br />

Diceva: dal tempo del non-mai, e si stringeva nelle<br />

spalle. Carriera non ne aveva fatta molta, neppure come<br />

servo. Questo arrivò a considerarlo anche un pastorello<br />

come Cardellino. Sapeva, sì, mungere le pecore, e<br />

tosarle e curarle, era abile nel fare il formaggio, era insomma<br />

un vero pastore, Martino; ma, niente salario: e<br />

continuava a fare il pastorello per il boccone, quasi per<br />

la carità, senza protestare, senza idea di meritare di più.<br />

Era come la pecora, e Pecora perciò lo chiamavano: come<br />

lei, che si accontenta dell’erba e riproduce in un anno,<br />

se la <strong>stagione</strong> è propizia, tanto capitale quanto vale,<br />

con il latte, la lana e l’agnello. Gli stava come dipinto<br />

quel nomignolo a Martino. Al sentirselo dare egli si inteneriva<br />

come per una carezza o una lode. Era nato da<br />

una ragazza che, per essere caduta in fallo, era stata cacciata<br />

di casa dai genitori e dai fratelli. Padre gli era stato<br />

uno di quei pastori nomadi che appaiono una volta e<br />

poi scompaiono come le comete, e come queste portano<br />

male. Tant’è, la ragazza era morta in parto. Martino<br />

era stato così raccolto dalla strada da un pastore che se<br />

lo voleva allevare e addomesticare né più né meno come<br />

un cane, per farsi servire gratis. Ma questo pastore<br />

morì proprio quando Martino aveva raggiunto già l’età<br />

giusta per sdebitarsi facendo il pastorello a patto di<br />

boccone. Martino non restò in mezzo alla strada. Trovò<br />

subito un pastore che lo assunse perché era candido e<br />

perché non aveva nessuno che, dopo il suo tirocinio di<br />

ragazzo, potesse avanzare pretese di salario per lui e tirarlo.<br />

Martino non andò a scuola. Di lui si ricordarono<br />

32<br />

solo quando fu di leva; fu riformato per deficienza di<br />

statura, e da allora nessuno si rammentò più di lui;<br />

nemmeno le malattie. Il suo parlare dopo tanti anni di<br />

solitudine e di silenzio si avvicinava molto al belare:<br />

strascicava la vocale e. Alla sua età e con la sua abilità<br />

era ancora un pastorello al servizio di Nicola Meriagro,<br />

uno dei soci di Antonio Poberile. Martino sapeva tanto<br />

bene il fatto suo ed era tanto economico, fidato e parco<br />

nel vitto, che Nicola Meriagro non lo avrebbe ceduto a<br />

nessun prezzo, con la gelosia del cacciatore per il suo<br />

prode cane da caccia. Il solo pericolo per il vecchio era<br />

che presto cadesse sfinito, inabile e inservibile molto<br />

prima della morte, col rischio di ricevere, come diceva<br />

in casi simili la gente, la «paga del bue domito», cioè la<br />

ricompensa che riceve il bue da lavoro, dopo essersi logorato<br />

per anni: di essere mandato al beccaio che persino<br />

il suo cuoio vende al conciatore, che a sua volta lo<br />

riduce in strisce per la schiavitù di altri buoi, o in legacci<br />

per gli scarponi dei nomadi. Martino, si intende,<br />

non sospettava nemmeno un simile pericolo, e così viveva<br />

senza l’assillo d’un domani incerto.<br />

Ancora prima della sua iniziazione Cardellino aveva<br />

visitato, con curiosità e con desiderio di abitarne una,<br />

tante capanne. Ora che non aveva più motivo di sognarsela,<br />

il suo cuore abbaiava alla casa di <strong>Orolai</strong> come<br />

il cane alla luna. Forse perché le aveva dato l’addio solo<br />

poche ore prima. Passerà, passerà, si diceva. E intanto<br />

chiudendo gli occhi rivedeva <strong>Orolai</strong>. La casa, la casa di<br />

pietra era in quel gregge, sia pure rognoso, di molte altre<br />

case… Il pastore era il campanile. Alla prima voce<br />

delle campane, tutte le mattine, ognuno apriva la porta<br />

di strada, attizzava il fuoco che aveva dormito tutta la<br />

notte sotto la cenere, lasciava uscire la capra. Talachè, la<br />

loro capra, si incamminava verso la piazza: lì l’incontro<br />

33


con le sue compagne e a un fischio del pastore la partenza<br />

del branco in subbuglio per i pascoli magri e<br />

amari. Ci si poteva rivolgere la parola da porta a porta.<br />

Ma qui? La loro capanna. Un’altra capanna laggiù, di<br />

altri pastori come loro, che si movevano piccoli come<br />

formiche nella distanza. E sua madre, la formica, che<br />

cosa faceva a quell’ora? A quell’ora tutti i bambini cominciavano<br />

a invadere la piazza. E questo sole di ora,<br />

di qui, di Pasada, c’era anche lì, ma era più vicino, a<br />

<strong>Orolai</strong>. Era già accorato e al punto di piangere.<br />

– Che fai? – gli gridò qualcuno.<br />

Era suo padre.<br />

Cardellino si raggomitolò, vergognoso.<br />

– Va’ ad appiccare il gabbano, piuttosto. E tu, santo<br />

di legno, – continuò a gridare Antonio Poberile a Martino<br />

– anche tu con le mani in mano. Ti manca il tempo<br />

di interessarti del ragazzo? Non gli vuoi bene? Non<br />

ti va a genio? Almeno per incominciare, insegnagli il<br />

nome delle pecore. Chi lo può fare meglio di te?<br />

Martino si raggomitolò per il piacere che gli faceva<br />

sul dorso ingobbito quasi come una carezza la voce di<br />

quel grande pastore che lo eleggeva istruttore di suo figlio.<br />

Gli dava quella prova di fiducia Antonio Poberile,<br />

grazie a Dio.<br />

Martino aveva i pensieri pigri, le parole anche più<br />

pigre. Poi si rizzò e disse: – Va bene, Antonio. Ora ci<br />

siamo. Sempre che Nicola sia avvertito –. (Intendeva dire<br />

il suo padrone).<br />

Cardellino intanto si era liberato dal gabbano e lo<br />

aveva appeso a un ramo forcuto, ficcato in terra, davanti<br />

alla bocca della capanna. Era l’attaccapanni per i giorni<br />

asciutti. Ne pendeva una mastruca un po’ spelacchiata,<br />

e Martino indicandogliela disse: – È il mio gabbano.<br />

Antonio Poberile intanto si era allontanato, e il vecchio<br />

disse a Cardellino, indicandogli la capanna: – È la<br />

nostra casa.<br />

34<br />

Cardellino si mise a osservarla attentamente. Le altre<br />

volte l’aveva guardata di sfuggita, nell’insieme. Ora che<br />

doveva abitarla gli piaceva conoscerla, frugarla. Cominciò<br />

a contarne i rami, le frasche, i fuscelli. Era come un<br />

grosso nido, a forma di cono. (Come si trova il volume<br />

del cono? Si trovò per un momento di nuovo a scuola.<br />

Eppure quei banchi, quella lavagna, quei compagni…<br />

Basta, non ci voleva pensare, non doveva. – Taci – disse<br />

al cuore dandosi alla parte sinistra del petto un leggero<br />

colpo con la mano aperta). La base quasi circolare era di<br />

terra battuta. Sopra vi sonnecchiava, come nello scasso<br />

rettangolare nel pavimento, anch’esso di terra battuta,<br />

della casa di <strong>Orolai</strong>, il ceppo. Alcuni sgabelli lo attorniavano<br />

formati di pale di sughero sovrapposte. Tronchi e<br />

tronchi aguzzati erano conficcati nel terreno lungo la<br />

circonferenza. Era allegro, adesso, Cardellino. Era quasi<br />

tentato di ridere alle spalle del vecchio servo, facendogli<br />

delle domande di geometria o anche di storia. (– Ma<br />

non è bello – lo rimproverò sua madre in quel momento,<br />

quasi gli fosse arrivata vicino come in un sogno, –<br />

zio Martino non è andato mai a scuola; è stato meno<br />

fortunato di te, è buono, è onesto, è un vecchio da rispettare<br />

–). I tronchi si incontravano alto al vertice del<br />

cono. Di lassù pendeva sulla linea dell’altezza, a perpendicolo<br />

sul focolare, un fil di ferro che reggeva una tavola,<br />

più povera del graticcio che faceva da baldacchino<br />

nella casa del fumo di <strong>Orolai</strong>, e sul quale prendevano<br />

fumo e asciugavano alcune fiscelle di formaggio fresco.<br />

Alcune stuoie di biodo erano arrotolate, dritte, in un<br />

canto. Non un pezzo di specchio, non un’unghia di sapone,<br />

non un’immagine di santo, non un Crocifisso.<br />

Solo due ferri consunti di cavallo e un paio di corna a<br />

luna, secche, di bue modicano. In una specie di nicchia<br />

scoprì il mastello della salamoia. In un altro, lì accanto,<br />

spiedi e posate di legno e bicchieri di sughero e una saliera,<br />

pure di sughero. Cardellino fermò lo sguardo più a<br />

35


lungo su due fucili e due cartuccere che pendevano da<br />

un cavicchio: disse fra sé allegramente: – Un giorno o<br />

l’altro verrà a visitarci Domenico; e andremo insieme a<br />

caccia –. Lì dentro non c’era più niente da vedere. Uscì<br />

dalla capanna. In corrispondenza del piede dei rami<br />

conficcati nel terreno erano appoggiate pesanti pietre<br />

che dovevano impedire al vento di sradicare la capanna<br />

e di portarsela in braccio; così come, a sfidare e vincere<br />

il vento che tentava di scoperchiare le case di <strong>Orolai</strong>,<br />

erano le pietre che pesavano sulle tegole. Lo scheletro<br />

era rivestito, intessuto di paglia, verso la cima, di oleandro<br />

ai lati, di rovo alla base. Non era una casa, non era<br />

neppure un nido. Era una cuccia, meno di una cuccia.<br />

Ma i pastori antichi non avevano case forti? Essi certo<br />

erano giganti, avevano quattro occhi e quattro braccia:<br />

almeno così erano dipinti nel diario scolastico. E così<br />

lui, Cardellino, se li era immaginati fatti, per tanto tempo,<br />

finché il maestro non aveva loro spiegato che quelle<br />

erano fotografie di statuette di bronzo conservate come<br />

reliquie nel Museo di una grande città lontana che<br />

specchiava i suoi palazzi e le sue torri nel mare: immagini<br />

di guerrieri e di comandanti antichi, simboli della<br />

forza che essi avevano e dell’intelligenza di moltiplicarla<br />

con le loro macchine elementari come rulli e piani<br />

inclinati, per trasportare fin sulle alture massi, anche di<br />

tonnellate, con cui innalzavano le loro case ciclopiche,<br />

quelle torri cave, quei loro castelli. Dal tetto a volta di<br />

questi, al quale si saliva per una scala interna, si potevano<br />

scorgere altre torri e, dall’una all’altra, con le lingue<br />

del fuoco che vi accendevano sul tetto, parlavano, gridavano,<br />

si avvertivano l’un l’altro delle allegrezze e soprattutto<br />

dei pericoli che correvano in comune, quando<br />

arrivava dal mare lo straniero per farla da padrone o<br />

per predare. Così, a Cardellino tornava a mente la lezione<br />

del maestro del villaggio. Così, egli ora comprendeva<br />

quanto sia bello sapere le cose antiche; così,<br />

36<br />

rimpiangeva un tempo che se ne era volato come l’uccello<br />

della primavera.<br />

Nella distanza Cardellino scorse uno di quei castelli<br />

antichi. Martino gli disse che quello era la casa dell’orco;<br />

ma che, essendo l’orco morto da più di un secolo<br />

senza eredi, era passato di mano in mano, anche in potere<br />

di banditi, finché se l’era appropriato Prospero Sio<br />

insieme con tutta la contrada.<br />

Cardellino pensò alle mani di Prospero Sio, focacce<br />

gonfie e bianche; le paragonò con quelle del vecchio<br />

Martino che erano lì sotto i suoi occhi come due foglie<br />

grandi di quercia: solo che il verde era molto stinto,<br />

sbiancato dal molto loro pescare nel latte e nel siero bollente.<br />

– Ora, andiamo, – disse Martino e gli fece strada<br />

verso il chiuso mandriano. Il sole era già alto e aveva<br />

asciugato in parte dalla rugiada le erbe. Le pecore avevano<br />

riposato durante la notte ed erano impazienti di<br />

uscire per sfamarsi.<br />

– Non dare retta alla pecora, Cardellino: la pecora è<br />

matta. Se non ha fame, le piace far la signora. Solo la<br />

fame la scuote e la manda a pascolare e allora, a lasciarla<br />

fare, non bada neppure all’erba bagnata che le fa male<br />

–. E, mentre così parlava, metteva da parte alcuni rami<br />

e alcune pietre poggiati su un fascio di rovi. Poi<br />

sollevò questo fascio con una forca, e così la breccia fu<br />

aperta. – La vedi, – disse, – questa che fa di tutto per<br />

essere la prima a uscire? Si chiama Semprinventana.<br />

Il gregge straripò belando. Erano quasi tutte bianche,<br />

col pelo un po’ ispido e con un ciuffo in testa. Le<br />

teste erano leggere; le facce corte ed esili; le orecchie<br />

piccole e mobilissime e le portavano dritte, quasi tutte.<br />

Alcune erano senza corna, altre armate. Gli arieti con le<br />

corna rivolte a spira camminavano superbi. Già alcune<br />

erano ferme a brucare; le più si spargevano a ventaglio.<br />

Il loro collo era esile, il torace un po’ stretto, l’addome<br />

37


sviluppato, gli arti un po’ lunghi e sottili con forti articolazioni.<br />

Le loro unghie lasciavano il segno sul terreno<br />

tanto erano dure.<br />

– Camminano e camminano, – disse Martino, –<br />

da levante a ponente e da ponente a levante; va la pecora<br />

matta e non si stanca mai –. E sorrideva come un<br />

bambino contento, segno che le diceva matte, ma voleva<br />

loro bene. Cominciò poi a indicargliele a una a<br />

una. Quella che le piaceva sbandarsi era Spassiosa: la<br />

migliore mammella. E quella nera Fagabbona che, prima<br />

di lasciarsi mungere, bisognava prometterle il trifoglio,<br />

altrimenti faceva bizzarrie. E quella di pelo giallo<br />

era Safantasima. E quella col naso dipinto Nasipintada.<br />

E Corruttosa quella che non rideva mai, non faceva<br />

ghiribizzi ed era nera come una vedova, più nera di<br />

Santicca…<br />

E l’elenco continuava. Cardellino ascoltava quella<br />

lezione nuova col cuore da pastore e insieme col puntiglio<br />

di potere, dopo avere imparato quella lezione, fare<br />

una sorpresa a suo padre al più presto, dandogli un saggio<br />

della sua forte memoria.<br />

Giornata, quella, piena, densa di impressioni nuove.<br />

Sulla sera Cardellino si trovò stanco, col cuore gonfio<br />

di nostalgia. Il sole si era messo a rotolare, e un freddo<br />

ventaglio di ombre si era aperto sulla campagna.<br />

Non era rimasto vivo alla fine che un punto rosso, là in<br />

fondo: il fuoco dei pastori della capanna lontana; e qui<br />

il loro fuoco, nella loro capanna, fuoco allegro, senza<br />

fiamme. Di tanto in tanto, ora, i cani guaivano. Non<br />

una stella. Desiderò di vedere la luna: e gli tornarono<br />

subito in mente le filastrocche che sua madre gli aveva<br />

insegnate; che lei poi aveva insegnate al secondo nato e<br />

ora ripeteva alla bambina. La luna porta fortuna se la<br />

scorgiamo stando in piedi, sottile come una falce. Alla<br />

luna si può chiedere tutto: la salute, la forza del ferro,<br />

l’abilità del muflone. E si prometteva di farlo alla prima<br />

38<br />

occasione; ma bisognava indovinare l’ora, che vale più<br />

che l’alzarsi presto, come diceva zio Lussemburgo. Martino<br />

stava accanto al fuoco con le mani parate come fa il<br />

prete all’altare in certi momenti della messa: sembrava<br />

gli raccomandasse di essere buono. I pensieri di Cardellino<br />

erano già sul punto di prendere di nuovo il volo<br />

verso la casa di <strong>Orolai</strong>, quando i cani, tutti insieme,<br />

ruppero ad abbaiare festosi e si slanciarono nel buio.<br />

Erano suo padre e Bernardo Gosio e un terzo uomo<br />

che dapprima egli non riconobbe. Quello sconosciuto<br />

era Nicola Meriagro, il terzo socio, padrone di Martino.<br />

Questo Nicola Meriagro possedeva, oltre le sue<br />

centotrenta pecore, anche una piccola vigna, qualche<br />

centinaio di ceppi che erano gran cosa in un villaggio<br />

dove i più non ne possedevano alcuno. Essi costituivano<br />

una grave preoccupazione per lui, al tempo dell’uva<br />

matura. Non per le volpi che non vi arrivavano, ma per<br />

i ragazzi che allora le giravano attorno (l’aveva fatto anche<br />

Cardellino) con l’idea di saccheggiarla e l’avrebbero<br />

invasa e spogliata in poco tempo, se il guardiano salariato<br />

non fosse stato lì pronto a minacciare d’impallinarli<br />

col fucile di Nicola Meriagro. Questi reggeva a<br />

spalla una bisaccia di pelo di capra tessuta in un paese<br />

montanino, dove si mangia ancora, soprattutto in tempo<br />

di carestia, un pane di penitenza fatto con argilla<br />

rossa e ghiande. Chi ne mangia, diceva la gente, vive fino<br />

a cent’anni, se non muore prima. Quando entrarono,<br />

salutarono Martino con un brontolio cagnesco, al<br />

quale il vecchio rispose: – Ave Maria.<br />

Nel tempo che Cardellino mise a considerare l’angustia<br />

della capanna per cinque persone, Nicola Meriagro<br />

aveva già tratto dalla bisaccia salsicce e focacce e le<br />

aveva deposte su un tagliere che aveva prelevato dall’armadio<br />

a nicchia. Ne aveva tirato fuori anche una piccola<br />

damigiana e l’aveva posata con estrema delicatezza alla<br />

sua destra, non molto distante dal fuoco.<br />

39


Martino, dopo averla guardata a lungo, disse, strizzando<br />

un occhio a Cardellino e subito dopo alla damigiana:<br />

– Abbiamo festa, cuore mio –. Ma nessuno degli<br />

uomini lo degnò di una risposta. La loro fisionomia, anzi,<br />

escludeva che avesse qualche fondamento la conclusione<br />

pigra, un po’ golosa e insieme infantile di Martino.<br />

Ma Martino che era sicuro del fatto suo, insistette<br />

dicendo: – Col vino si canta, si balla, si ride –. Lo lasciarono<br />

senza risposta anche questa volta.<br />

Aggiunsero tutti, un po’ l’uno un po’ l’altro, come<br />

compissero un rito, della legna e della ramaglia al fuoco.<br />

Le fiamme si alzarono allegre, arruffate come galli.<br />

Si sedettero intorno, sugli sgabelli.<br />

A un tratto Bernardo Gosio, col diritto che gli dava<br />

l’essere, dei tre, il più anziano, si rivolse a Cardellino e<br />

gli disse con voce tra solenne e buffonesca:<br />

– Alzati e ascolta, pastore-da-fare.<br />

Cardellino obbedì subito, quasi di soprassalto.<br />

Bernardo stese una mano verso un angolo, raccolse<br />

una verghetta di olivastro forcuta, gliela mostrò e gli domandò<br />

con cipiglio:<br />

– Vincenzo, figlio di Antonio Poberile e di Mariala-formica,<br />

vuoi tu in legittima moglie questa cornuta<br />

per pasturare gli agnelli?<br />

Cardellino restò. Zio Bernardo, nonostante fosse aggrottato,<br />

forse aveva voglia e solo voglia di canzonarlo.<br />

Ma erano seri, quasi minacciosi anche gli altri due; persino<br />

Martino si dava un’aria d’importanza.<br />

– Allora? – domandò Bernardo Gosio, serio come<br />

prima.<br />

Cardellino, con l’animo ormai preparato a ricevere<br />

la beffa, rispose timido:<br />

– Sì, che la voglio.<br />

Rimase deluso. Nessuno rise.<br />

Bernardo gli consegnò la verghetta.<br />

40<br />

– Ognuno di noi, – riprese con voce grave, – è passato<br />

per queste strette. Press’a poco all’età tua. Ma tu,<br />

grazie a Dio, più fortunato di noi, ricevi la verghetta di<br />

guardiano, come figlio di pastore proprietario indipendente.<br />

Noi cominciammo per il pane e per la fetta di<br />

latte cagliato. Pasturerai agnelli tuoi. In questo mare in<br />

burrasca, mettitelo bene in testa, non ti dovrai più ricordare<br />

della casa dove sei nato, se non quelle due o tre<br />

volte l’anno: Natale, Carnevale, Pasqua. Questo, il primo<br />

punto. Secondo, se il cuore abbaia, lascialo abbaiare;<br />

se lui abbaia ancora, e tu ordinagli di tacere come al<br />

cane quando brontola senza motivo. Intesi? Ognuno<br />

ha la sua sorte segnata cento e più anni prima della sua<br />

nascita. Chi ha stabilito così è un giudice senza appello<br />

e che sa il fatto suo… Presto avrai un asino tutto per te:<br />

sarà il tuo compagno di viaggio. Farete insieme la spola<br />

tra l’ovile e il caseificio. E trattalo bene, che vale quanto<br />

pesa, per questo servizio.<br />

A questo punto Nicola Meriagro sturò la damigiana<br />

piena di vino: la piegò, ne versò in un cucchiaione di<br />

sughero, da questo ne fece scorrere un po’ sul fuoco augurando:<br />

– Buona fortuna allo sposo –. Gli altri fecero<br />

eco: – Buona fortuna.<br />

Poi, prima «lo sposo» e via via gli altri, in ordine di<br />

età, cominciando da Martino, si passarono in cerchio il<br />

cucchiaione e sorseggiarono di quel vino.<br />

A questo punto, Bernardo riprese la parola:<br />

– Ci hanno insegnato i nostri padri che qui c’è una<br />

legge che vale per tutte: «Hai occhi e sei cieco, hai orecchie<br />

e sei sordo, hai lingua e sei muto». Se ti interroga<br />

la Giustizia, fa’ il tonto, lo stupido, il melenso, il cascato<br />

dalla luna: hai il cervello di ricotta. Ti domanda se<br />

hai visto? E tu: no. Se hai udito, e tu: no. Hai la lingua?<br />

E tu: no. Sempre no. Sempre negare, negare tutto. Coi<br />

no, non si stende verbale… Ce la fecero giurare sul<br />

fuoco i nostri padri questa legge; giurala anche tu.<br />

41


Cardellino stese la mano sul fuoco e disse:<br />

– Giuro.<br />

Allora i tre uomini uscirono in coro in un oh!, con i<br />

volti rischiarati. Anzi Nicola gridò subito ilare che Martino<br />

aveva ragione: essere davvero festa grande. Soggiunse<br />

malinconico: – Considerati fortunato, Antonio,<br />

sei proprio fortunato –. Gli passò sul volto un velo di<br />

tristezza. La ragione era che il suo matrimonio era rimasto<br />

senza frutto. Promesse a Santi, rimedi magici: tutto<br />

inutile. Sfortunato si sentiva in quel momento anche<br />

Bernardo, al quale la casa si era riempita di femmine, e<br />

quel maschio che gli era nato gli era morto che appena<br />

cominciava a mettere i primi passi.<br />

Intanto Martino aveva tratto brace di sotto al ceppo<br />

e ora la sparpagliava con un tizzone in modo da formare<br />

un’aiuola ardente; poi vi posò sopra una graticola, e<br />

su questa mise ad arrostire le salsicce. Al buon odore i<br />

cani misero tutti il muso alla bocca della capanna.<br />

Cardellino ora si sentiva cresciuto di statura. Quasi<br />

pronto per la leva, – gli venne da pensare con ilarità.<br />

Era già entrato nel loro cerchio di vecchi soldati, di valenti,<br />

come dicevano, di bassa forza. Bastava il più piccolo<br />

pretesto, un po’ d’allegria perché si raccontassero le<br />

loro avventure di guerra, e le loro storie di reduci, essi,<br />

salvo Martino che, lo sapevano tutti, era stato riformato.<br />

– Beato te, Martino, che non hai conosciuto quel<br />

fuoco – gli dicevano, ora. Essi, invece, erano passati per<br />

quell’inferno e ne erano usciti vivi come la salamandra.<br />

Conclusione: ne erano ritornati con un pugno di mosche,<br />

maledetta la guerra. Cardellino, sul filo dell’idea<br />

di quelle guerre, al veder bruciare nel fuoco che aveva<br />

davanti un fuscello che ora si torceva e da rosso già moriva<br />

nero, si rammentò della lapide dei caduti, con tanti<br />

nomi: là, nella piazza di <strong>Orolai</strong>; e si rammentò di sua<br />

madre… Disse al cuore: – Taci – e sollevò gli occhi dal<br />

fuoco. Di fronte scorse un chiarore oltre la bocca della<br />

42<br />

capanna, un chiarore come d’una lampada a olio, grande,<br />

immensa. Comprese che cosa era e, con la mente di<br />

nuovo a sua madre, che forse in quel momento pensava<br />

a lui, si alzò con la verghetta forcuta in mano e si affacciò<br />

alla bocca della capanna. Qualche stella era come<br />

brace in mezzo al cielo di cenere. <strong>Una</strong> falce di luna affilatissima<br />

appariva, scompariva, finché entrò in un campo<br />

pulito, mietuto. Cardellino fece come sua madre;<br />

accennò un segno di croce e chiese alla giovane luna,<br />

sottovoce come pregasse, la salute ferma, la forza del<br />

ferro, l’agilità del muflone.<br />

Ma già lo richiamavano a prendere parte alla cena.<br />

Rientrò, occupò il suo posto. Seduti in cerchio, ora masticavano<br />

in silenzio e di tanto in tanto si passavano in<br />

cerchio il cucchiaione di vino. E Cardellino non poteva<br />

rifiutare. Il vino non tardò a lavorarlo: così sentì presto<br />

un ronzio di macina nella testa e poi un languore, un<br />

sonno, un così gran sonno che cadde dallo sgabello.<br />

Suo padre disse ridendo:<br />

– Non prenderà moglie quest’anno.<br />

Bernardo barbugliò, cercando di celiare:<br />

– Come hai detto? Ma se si è sposato. Guarda la<br />

tua nuora, – e indicava la verghetta che ancora Cardellino<br />

teneva in pugno, immerso nel sonno.<br />

Allora Nicola cominciò a cantare, a improvvisare<br />

versi, a combinare ottave, diceva. E in ottave approssimative<br />

gli rispondevano ora l’uno ora l’altro dei due soci.<br />

E tutto il succo dei loro canti era che Antonio Poberile<br />

era l’uomo più fortunato della terra perché aveva un<br />

figlio, un figlio maschio, uno che sarebbe stato un uomo,<br />

un uomo che si scaccerebbe le mosche, un valente<br />

nelle «ominias». Antonio teneva loro testa con gli argomenti<br />

dell’eremita di san Teodoro che a tutti, anche a<br />

quelli che gli lesinavano l’obolo, prometteva (o minacciava?)<br />

che Dio, presto o tardi, si rammenta di ogni cristiano.<br />

43


Pochi giorni dopo venne a trovarli un pastore che<br />

pascolava il suo gregge a poca distanza. Era anche lui<br />

un «fedele» di Prospero Sio, uno dei tanti pastori da lui<br />

messi in croce. Aveva in mano una Bibbia e uno scapolare.<br />

Cercava un suo maialetto. – Come andato in fumo,<br />

– concluse.<br />

Martino si scoprì senza invito per primo e stese la<br />

mano sul libro pronunciando queste parole: – Né visto<br />

né fatto né consigliato –. Altrettanto fecero e dissero il<br />

padre di Cardellino e i suoi soci. Al giuramento purgativo<br />

partecipò col cuore tranquillo anche Cardellino.<br />

Il ricercatore riprese la sua strada per continuare<br />

l’inchiesta. Ripassò da loro sulla sera e, dato conto del<br />

risultato delle sue ricerche dicendo: – Sarà stato il Maligno<br />

–, passò oltre, diretto al suo ovile.<br />

L’uomo non s’era allontanato di molti passi che Martino<br />

disse a Cardellino: – È di faccia nera e cornuto, coi<br />

piedi di capra e con la coda di bue, e puzza di zolfo. Dicono<br />

che parli, ma non è vero: è muto. Opera. Sa farsi<br />

cane, acqua, vento, fuoco; ma Dio, no. A sua volta, Dio<br />

può fare di lui quello che vuole, solo che non lo può<br />

cambiare da quello che è diventato.<br />

E mentre così diceva, teneva il piede sinistro accavallato<br />

sul destro, per tenerlo lontano da sé e dagli altri.<br />

Gli altri erano stati a sentire in atteggiamento ironico,<br />

ma dentro ciascuno s’era risvegliato il ragazzo che ha<br />

paura del Nemico. Quasi a loro insaputa si trovarono<br />

anch’essi, senza invito di Martino, col piede sinistro accavallato<br />

sul destro. E Cardellino aveva fatto altrettanto.<br />

Bernardo attizzò il fuoco alla fine e disse:<br />

– E noi, per disperdere le belve, ricorrevamo al fuoco<br />

acceso. Quando eravamo in Africa, intendo dire.<br />

– Andate tutti all’inferno, – ridacchiò Nicola Meriagro.<br />

– Io dico che con questo fuoco si può fare di<br />

meglio: arrostire per esempio del lardo e delle salsicce.<br />

Che puzzo e puzzo di zolfo; discorsi da tenere di notte.<br />

44<br />

La notte è fatta per riposare, beninteso, dopo che si è<br />

cenato bene.<br />

Nel tempo che Nicola andò dicendo tutto questo,<br />

Martino aveva già preparato la graticola. Non tardò a levarsi<br />

nel silenzio il buon odore dell’arrosto con lo scoppiettio<br />

del grasso sulla brace. I cani mendicavano quell’odore<br />

all’usciolo della capanna.<br />

Sempre lui, Nicola Meriagro, mescolò il nero col<br />

bianco dicendo: – Questo odore consola i vivi e anche i<br />

morti.<br />

A questo punto chiamò di fuori una voce. I cani<br />

abbaiarono furiosamente: gente che non conoscevano.<br />

Bernardo imbracciò il fucile, s’affacciò a metà di fuori,<br />

fece tacere i cani con un fischio, gridò:<br />

– Chi è?<br />

Dall’ombra uscì uno gridando allegramente:<br />

– Non mi riconosci, fratello? Non sono forse uno<br />

di famiglia?<br />

– Vieni avanti, vieni; ma chi ti aspettava stanotte? –<br />

rispose Bernardo e disse a quei di dentro: – È Stefano.<br />

Stefano, appena entrato, si liberò da una mantella<br />

corta. Era monco del braccio destro e molto più giovane<br />

di suo fratello. Data quella sua mutilazione, si era<br />

assoggettato a fare l’aiutante di suo fratello e veniva a<br />

prendere servizio, col consenso degli altri due soci, alla<br />

pari quasi con Cardellino; come mezzo uomo, quanto<br />

al salario.<br />

L’arrivo di Stefano fu una festa per Cardellino. Stefano<br />

sapeva cantare, ridere, imbracciare il fucile, fare<br />

quasi tutto anche senza quel braccio. Era agilissimo:<br />

saltava, a forza di schiena e a piè pari, le muricce alte a<br />

petto d’uomo. Gli piaceva sbalordire Cardellino facendo<br />

il verso di molti animali domestici e della selva; ma<br />

spesso si rannuvolava e si appartava standosene, muto<br />

45


e nero, con gli occhi fissi a terra, come a meditare una<br />

vendetta. Bastava allora chiamarlo o toccarlo che si rivoltava<br />

come un cane infido. Cardellino gli voleva bene<br />

per tutte quelle sue abilità e per quel braccio che aveva<br />

perduto. Era curioso di sapere come gli fosse capitata<br />

quella disgrazia, ma non osava fargli quella domanda.<br />

Aspettava che fosse lui a parlargliene per primo. Quel<br />

momento, però, non arrivava mai: e così, un giorno<br />

che Stefano gli sembrò più disposto del solito alle confidenze,<br />

si fece coraggio e gli domandò come «quello»<br />

gli fosse successo. Stefano si rabbuiò, lo guardò torvo;<br />

poi si ricompose e disse amaro: – Cosa da nulla. Lo<br />

scherzo di una bomba.<br />

Cardellino pensò subito a un mutilato di guerra di<br />

<strong>Orolai</strong> che ogni mese, appena riscuoteva la pensione, e<br />

finché non le aveva dato fondo, faceva baldoria e nei<br />

fumi del vino gridava le parole più ingiuriose a nemici<br />

invisibili.<br />

Stefano lo chiamò vicino a sé.<br />

– La conosco meglio di tutti questa storia. Un giorno<br />

o l’altro qualcuno te la racconterebbe a modo suo.<br />

Avrai sentito dire di me che non ho la testa a posto.<br />

Ad albero caduto… Basta, mio padre era contadino.<br />

Ho incominciato da contadino, io; non da pastorello.<br />

Eravamo due fratelli, Bernardo ed io e tre sorelle. Nostro<br />

padre faceva il contadino al cinque uno, perché<br />

non possedeva nemmeno un’unghia di terra. Vita da<br />

non augurare a nessuno, nemmeno al cane, quella del<br />

senzaterra. Un anno qui, un altro là, come un’anima di<br />

penitenza… Li avrai sentiti qualche volta, i contadini<br />

raminghi, scalpitare come cavalli, nelle mattine gelate,<br />

battendo il selciato con i loro scarponi ferrati. «Alzati,<br />

Stefano» chiamava mio padre. Potevo avere tutto al più<br />

dieci anni. Cantavano a quell’ora i primi galli. Dovevamo<br />

arrivare al campo prima dell’alba. Cominciai da allora<br />

le mie marce. Dovevano venire le altre… Arrivavamo<br />

46<br />

al campo. Lavorare fino a vespro inoltrato con la sola<br />

interruzione a mezzogiorno, il tempo d’ingoiare un<br />

boccone, pane e basta. Poi un’altra marcia e si era di<br />

nuovo a casa. Cena di acqua calda, scalzarti, gettarti<br />

sulla stuoia; il letto era per loro: mio padre, mia madre.<br />

Un altro, nascosto da un lenzuolo appeso, era per le sorelle.<br />

Bernardo era già pastorello ed era stato slattato, come<br />

te ora; io, sulla stuoia, coi piedi nudi rivolti al fuoco.<br />

Sonno di pietra. «Alzati, è tardi» chiamava mio padre.<br />

Possibile che fosse già l’ora? Qualche volta che mi ribellavo,<br />

lui perdeva la pazienza e mi scrollava. E così di alba<br />

in alba, questa era la semina, e questa è ancora per i<br />

senzaterra. Quanta acqua non è passata nel Toro, eppure<br />

i senzaterra ci sono ancora, ci sono sempre stati e<br />

sempre ci saranno, finché non saremo fatti terra noi e<br />

quelli che verranno. Mi fanno ridere quelli che ascoltano<br />

le promesse di oggi. Promesse oggi, promesse domani.<br />

Basta; dicevo che la semina è terminata. Ma c’è un<br />

però. Salvo che la Fortuna nelle settimane che seguono<br />

non ti combini lo scherzo, lo scherzo di far del dicembre<br />

un mese di estate, col sole che spacca: allora, la terra<br />

va in polvere, e gli uccelli si beccano i semi. La semina<br />

sprecata. Tutto da capo. Senz’unghia di colpa tua.<br />

Altro seme da arrischiare. Alzati, Stefano, e alzati, che è<br />

tardi… Questo ci accadde, e non una volta sola. Le cattive<br />

annate insomma vincevano le buone… E noi sempre<br />

a combattere con la mala sorte… Poi morì mio padre:<br />

io continuai da contadino, Bernardo tentò da servo<br />

pastore. Proprio verso quel tempo scoppiò la guerra.<br />

Bernardo non lo presero per l’ernia. Poi venne il mio<br />

turno. Mi prendono, mi vestono; per farla breve eccomi<br />

di tappa in tappa nel paese di Stalin. Tutto neve: una neve<br />

alta come le case di <strong>Orolai</strong>. Toccavi il ferro e ti bruciava,<br />

toccavi la pietra e ti spellava… <strong>Una</strong> neve speciale:<br />

un freddo rovente. Adesso mi chiederai: come hai fatto<br />

a salvarti? E io ti rispondo: camminando camminando,<br />

47


come fanno i morti ogni notte, almeno quelli dei nostri<br />

paesi che hanno questa abitudine, lo avrai sentito dire.<br />

Camminando camminando, mi addormentai. Quando<br />

mi svegliai, ero in un convento: e facevo domande a<br />

me stesso, come se io fossi un altro: in che modo sei diventato<br />

frate e quando, Stefano? Questo è l’altro mondo,<br />

mi rispondevo. Questa è l’infermeria del paradiso.<br />

Insomma non facevo che parlare a me stesso, e io mi<br />

ascoltavo come se dovessi rispondere. Meglio non so<br />

spiegartelo. Passò tanto tempo e sentivo i frati cantare…<br />

Poi mi raccapezzai: il delirio della febbre era passato:<br />

mi dissero dopo un lungo riposo che la guerra era<br />

terminata e che potevo tornare. Mi rimisi in marcia e<br />

cammina cammina arrivai al mare. Lì mi presero sul<br />

piroscafo e per mare e per terra arrivo a <strong>Orolai</strong>. Mi aveva<br />

preceduto a cavallo, indovina chi? Non lo indovineresti<br />

mai: mastro Giovanni. Spero che tu sappia come è<br />

fatto. E allora, secondo i suoi ordini, mangiavamo erba:<br />

era una magnifica <strong>stagione</strong> di trifoglio: e mio fratello e<br />

gli altri pastori se lo lasciavano rubare dalle donne e<br />

non avevano il cuore di denunciarle, per pascolo abusivo,<br />

secondo la legge… Che cosa resti a fare qui, Stefano,<br />

mi dico alla fine. Qui, a breve scadenza, ci lasci<br />

quella pelle che hai riportato bene o male dall’Ucraina.<br />

Ed ecco che vengo a sapere di certi posti disponibili<br />

nelle miniere. Dico: lì ci si seppellisce vivi, ma si guadagna,<br />

si mangia, ci si diverte pure. È così che presi e mi<br />

feci minatore. Altro cristiano nato con la camicia, il<br />

minatore. Un diavolo condannato. Un borghese in<br />

trincea. Sempre odore di morte sente il minatore: ogni<br />

momento a chiedersi: sarò vivo nel tempo che conto fino<br />

a dieci? C’erano i turni: chi entrava di notte, chi di<br />

giorno. Io entravo di giorno e così, addio sole. È un<br />

brutto momento quando ti accorgi che la notte non è<br />

più notte e il giorno non è più giorno, sempre le ossa<br />

rotte, sempre la morte intorno. Questa è la canzone del<br />

48<br />

minatore, e non fa allegria a cantarla. Non ero io il solo<br />

contadino per la verità che dopo la guerra avesse tentato<br />

quell’altra guerra. Negli stanzoni eravamo in tanti.<br />

Nei momenti più tristi, stesi a letto, si pensava alle nostre<br />

case e, con tutto che esse sono quello che sono, le<br />

sospiravamo mille volte perché almeno lì, nei nostri<br />

paesi, c’era un fuoco a cui parare le mani. Basta. Ma,<br />

ora che ci ripenso, in miniera almeno si mangiava e si<br />

poteva fare anche qualche passo più lungo di quello<br />

della gamba di un contadino. Di turno in turno, di<br />

rimpianto in rimpianto; un giorno ci chiamano e ci dicono:<br />

dovete avere pazienza, il carbone non si vende<br />

più, colpa della crisi, che è la malattia degli affari, delle<br />

vendite e delle compere. A casa, a casa, si smobilita. Era<br />

un secondo dopoguerra per tanti di noi: soprattutto<br />

per i minatori improvvisati come eravamo noi, pastori,<br />

contadini, pescatori che avevamo lasciato chi questo<br />

paese chi quello… Mi fa uno di Terra: «A passo a passo<br />

arriviamo a Terra che ha il mare vicino e anche le peschiere.<br />

Ci siamo improvvisati minatori, potremo fare<br />

anche più facilmente i pescatori. Lì c’è il fiume con le<br />

trote e le anguille. C’è una peschiera con le capanne a<br />

riva. Li conosci i tucul?» mi chiese. Lui che aveva fatto<br />

la campagna contro il Negus diceva non c’era grande<br />

differenza tra gli uni e le altre. Ora lo so anch’io che cosa<br />

sono i tucul. Somigliano molto a queste nostre capanne.<br />

Arrivati là: «Di chi è questo mare?» gli chiedo.<br />

«È d’un tale che l’affitta ai pescatori» mi risponde. Dico:<br />

«È come Prospero Sio che al mio paese affitta il suo<br />

mare d’erba». Come questo succeda e glielo lascino fare<br />

oggi che è oggi non l’ho ancora compreso: un re antico,<br />

pare, glielo ha permesso. E chi non aveva per pescare<br />

l’autorizzazione dai suoi agenti non pescava e, chi sì,<br />

questi del pescato gli doveva versare un quarto. Hanno<br />

un santo da pregare anche i pescatori. San Pescoso, ah,<br />

ah! Allora il mio amico mi fa: «Conosco un minatore<br />

49


delle miniere di piombo qui vicino che mi può buscare<br />

dinamite». Gli faccio: «E io ci sto, ma se ci va male?».<br />

«Pazienza», mi dice. «E sia, pazienza», rispondo. Così io<br />

ci ho perduto una mano; lui, più pratico e forse più<br />

fortunato di me, la vita…<br />

In pochi giorni Cardellino si impadronì dei nomi e<br />

delle abitudini delle pecore, dei segreti del caglio, della<br />

temperatura giusta del latte da cagliare, della maniera<br />

di far la pasta col poco latte che lavoravano aspettando<br />

il molto dopo la nascita degli agnelli e il moltissimo<br />

dopo il loro svezzamento. Anche Stefano si divertiva a<br />

imparare da pastore.<br />

Era un novembre incredibile. <strong>Una</strong> primavera fuori<br />

<strong>stagione</strong>. A certe ore il sole scottava come d’estate. – Questo<br />

sole – diceva Martino – non è buono.<br />

Quel sole durò settimane. Le pecore pregne cominciarono<br />

a cercare l’acqua avidamente. L’erba era come<br />

salata. Il prato brucato prendeva il colore dell’estate: del<br />

campo bruciato da un incendio. Tutti cominciarono ad<br />

impensierirsi.<br />

Era la siccità, il flagello ciclico che da secoli e secoli<br />

inaridiva le erbe e le coltivazioni e decimava il bestiame.<br />

Ma il suo tempo vero era da aprile a settembre, più<br />

deleterio al contadino che al pastore.<br />

Si misero a spiare il cielo, gli uomini e il ragazzo. Facevano<br />

sogni arruffati e la mattina se li riferivano l’un<br />

l’altro e ne davano un’interpretazione luttuosa. I giorni<br />

seguirono asciutti ad altri anche più asciutti.<br />

<strong>Una</strong> sera Cardellino rabbrividì di paura: Bernardo<br />

aveva in mano un teschio che aveva prelevato dall’ossario<br />

del cimitero di <strong>Orolai</strong> con l’intenzione di rimetterlo<br />

al suo posto dopo la pioggia. Andarono insieme al Toro.<br />

Il letto del fiume sembrava un ossario. Immersero il<br />

teschio in una pozza fangosa con tutte le precauzioni e<br />

50<br />

tutti gli accorgimenti, in maniera che a un improvviso<br />

rovescio del cielo la corrente non lo travolgesse e trasportasse<br />

fino al mare.<br />

Il giorno dopo fu Cardellino a scorgere una nuvola<br />

gentile nel cielo azzurro e a darne avviso agli uomini.<br />

Bernardo gridò: – Ecco il lievito –. In poco, infatti, si<br />

aggiunsero a quella nuvoletta due o tre batuffoli di lana<br />

sporca che in breve fermentarono e si gonfiarono. Poche<br />

ore dopo il cielo era carico e teso. Come inebriati<br />

dall’odore della pioggia, parlavano con gli occhi accesi,<br />

parlavano e discutevano senza mai fermarsi. E Cardellino<br />

ascoltava col cuore in festa. Altre volte il miracolo<br />

non era venuto; congetturavano: forse perché il teschio<br />

non era di un cristiano morto in grazia di Dio. Questa<br />

volta, invece, per merito di quello sconosciuto, la pioggia<br />

non si sarebbe fatta aspettare. Già brontolava il tuono<br />

tra balenii di fulmini. Uno scroscio e fumo. Ma sul<br />

più bello si levò un vento che spazzò tutto di colpo.<br />

Nel cielo un sole accecante che asciugò ogni goccia.<br />

Venne la notte, e le stelle nel cielo sgombro sembravano<br />

cresciute di numero. I traditi non si sapevano né<br />

rassegnare né consolare: si alzavano di ora in ora per<br />

spiare quel cielo e sempre lo trovavano stellato.<br />

Giorni e notti asciutti si aggiunsero a notti e giorni<br />

asciutti. A <strong>Orolai</strong> e dintorni si faceva di tutto per richiamare<br />

le nuvole. Anche in altri villaggi e in altre contrade<br />

lontane. Si ricorse inutilmente a sant’Isidoro che, essendo<br />

stato lavoratore della terra, era, dei santi, quello<br />

che più potesse comprendere i bisogni del contadino.<br />

Che cosa rispose sant’Isidoro? Nulla. Ricorsero a san<br />

Francesco che, dei Santi, è quello che più conosce le tribolazioni<br />

dei pastori. Che cosa rispose san Francesco?<br />

Nulla. Ricorsero allora alle preghiere antiche, alle più<br />

antiche che si conoscessero, più antiche dello stesso Gesù<br />

Cristo: invocavano Maimone e gli ricordavano che<br />

l’erba moriva e morivano i semi, e così sarebbero morti<br />

51


anche gli agnelli e insieme i fanciulli. Che cosa rispose<br />

Maimone? Nulla. Invocarono san Giorgio cavaliere e gli<br />

promettevano grandi focacce. Che cosa rispose san<br />

Giorgio? Nulla. Immersero teschi e teschi in altre pozze.<br />

E non ne fu nulla. Allora conclusero finalmente che era<br />

un anno di quelli scritti nel calendario di mastro Giovanni,<br />

l’uomo dal cavallo nero sellato, ambasciatore della<br />

fame. Era certo in arrivo un altro anno Dodici, quando<br />

la gente povera non ci vede più alla luce del sole.<br />

Solo a metà dicembre, quando nacquero i primi<br />

agnelli, si levò un vento ilare che si cacciò avanti a urli<br />

e a fischi un gregge di nuvole. La gente diceva: – Si salverebbe<br />

il salvabile –. Poi, quel vento incalzò tanto il<br />

suo gregge di pecorelle che lo spinse oltre l’orizzonte lasciandosi<br />

dietro un arcobaleno. Pastori e contadini con<br />

le loro donne e i loro bambini, fuori di sé tutti dalla<br />

rabbia, lo maledicevano per quella beffa.<br />

Solo allora parvero rendersi conto che ogni filo d’erba<br />

era bruciato, che i sentieri erano polverosi, che lo<br />

stesso Bambino sarebbe nato in un’estate stralunata.<br />

– Un bel Natale, non c’è che dire – bofonchiavano.<br />

E si sfogavano alle spalle di chi ha le entrate sicure in<br />

bello e brutto tempo: l’impiegato, il parroco, e i giudici<br />

e il prefetto e più ancora Prospero Sio e il padrone dei<br />

caseifici, Italo Bini. – Noi, peccatori; essi no – concludevano<br />

con sarcasmo. E non levavano più gli occhi a<br />

quel cielo sterile.<br />

Cominciarono a nascere gli agnelli. Per contratto<br />

essi dovevano passare ad Italo Bini che li spediva ogni<br />

anno ai grandi mercati; ma Italo Bini questa volta li rifiutava<br />

perché erano rachitici. Così veniva a mancare ai<br />

pastori una parte dell’entrata. I pastori si abbassarono a<br />

rubare a Prospero Sio le pale carnose e succulente dei<br />

fichidindia e le davano come mangime alle pecore: così<br />

52<br />

dovettero impegnarsi a pagargliele a parte, se volevano<br />

evitarsi una denuncia penale. Gli agnelli furono sacrificati<br />

di pochi giorni, purché si salvassero le madri.<br />

Cardellino storceva lo sguardo da tanto sangue. Li<br />

sgozzavano e li vendevano al macellaio a poco prezzo.<br />

Poiché era vicino il Natale egli si rammentava che Erode<br />

aveva fatto fare una strage di bambini. Ma era un’altra<br />

cosa, lo comprendeva bene: Erode non era stato uno<br />

preso, afferrato alla gola dall’urgenza di salvare le madri<br />

degli innocenti. Ma perché, proprio quell’anno in cui<br />

cominciavano una nuova vita da pastori indipendenti,<br />

Dio aveva permesso all’inferno quel brutto scherzo?<br />

Farselo spiegare forse da suo padre e dai suoi soci che<br />

erano diventati muti? Solo Stefano avrebbe potuto rispondergli,<br />

ma infine era forse lui il più intrattabile di<br />

tutti: lui, che se ne andava ogni giorno lungo il Toro e<br />

non faceva che cantare brutte canzoni.<br />

La vigilia di Natale Cardellino portò a dorso d’asino<br />

a <strong>Orolai</strong> sei agnelli sgozzati, tutti pelle e ossa: due<br />

per ciascuna delle loro famiglie.<br />

Sua madre non gli fece nessuna domanda e gli permise<br />

di portare a Domenico uno di quegli agnelli.<br />

Domenico non era in casa, in quel momento. La<br />

madre di lui appese quei pochi chili di carne magra e<br />

pallida a un cavicchio e gli contraccambiò il regalo con<br />

una focaccia di uva passa. Cardellino ringraziò, le augurò<br />

il buon Natale e corse via in cerca del suo migliore<br />

amico. Sperava d’incontrarlo in piazza. E così fu.<br />

Il loro incontro non fu festoso. Mastro Giovanni<br />

non era in nessun luogo ed era dappertutto, persino i<br />

più piccini ne sentivano la presenza; l’odore suo: di corno<br />

bruciato. Subito concertarono di andare alla messa<br />

del gallo insieme. Intanto potevano scendere all’isola del<br />

Toro. Volevano lasciare di proposito la piazza, perché i<br />

53


loro giuochi erano finiti. Passarono davanti alla porta<br />

della scuola: la guardarono, non si dissero nulla, tirarono<br />

dritto, presero il sentiero dell’isola.<br />

Il sentiero precipitava a valle. A destra e a sinistra i<br />

seminati erano aridi, polverosi. Non un uomo. Non una<br />

voce. Soltanto stornelli, striduli, affamati, a stormi.<br />

– Tutto beccato – disse Domenico.<br />

Traversarono il Toro quasi a piede asciutto e arrivarono<br />

nell’isola. Vi trovarono il contadino: era invecchiato,<br />

stanco, eppure si dava da fare con una latta piena<br />

di acqua. – Per non restare solo coi pensieri – spiegò<br />

– prendo l’acqua al fiume e la spargo –. Il padre di Domenico<br />

aveva gli occhi da febbricitante: sembrava un<br />

uomo che fosse tornato a un giuoco che facevano i<br />

bambini del villaggio, il giuoco dell’ortolano.<br />

– Abbiamo l’agnello per Natale, padre, – disse Domenico.<br />

– Ce lo ha portato Cardellino.<br />

L’uomo disse con una voce lontana:<br />

– Non sarà sempre così. Tornerà il bel tempo. Anzi,<br />

– si corresse, – è persino troppo bello.<br />

Tutta l’isola era in polvere. Era necessario seminarla<br />

di nuovo. L’uomo faceva quasi paura, ora, versando<br />

quella poca acqua sui semi morti.<br />

Poi i ragazzi si bagnarono nel fiume. Si asciugarono<br />

al sole. Avevano come perduto la lingua. Non sapevano<br />

che dirsi. Solo di una prossima visita di Domenico alla<br />

capanna parlarono due o tre volte, e Cardellino se la fece<br />

promettere e ripromettere. Si accommiatarono infine<br />

dall’uomo. Il contadino rimase lì con la sua latta in<br />

mano a guardarli. A un tratto parve risentirsi, posò la<br />

latta, gridò: – Diteglielo voi al Bambino che ci aiuti almeno<br />

nella seconda semina –. Essi gli fecero cenno di<br />

sì, ripresero il sentiero, un po’ sollevati.<br />

Ritornati a <strong>Orolai</strong>, non si divisero. Aspettarono insieme<br />

la sera, per lo più taciturni, pensando alla stella<br />

di Oriente.<br />

54<br />

Al primo tocco la trovarono alla porta della chiesa:<br />

era già pronta a salpare. E salpò a un segnale come di<br />

gregge scampanellante. Era la ruota di campanelle della<br />

chiesa. Sul tabernacolo una tendina nascondeva una<br />

piccola stalla. Era tutto pronto quello che occorre per<br />

festeggiare l’arrivo del Bambino. Era alle mosse di cantare<br />

anche il cieco Raimondo che da anni e anni faceva il<br />

primo corista. Ma non c’era il cuore di altri anni: non<br />

c’era la speranza del seme che sarà come una fiamma<br />

verde al primo sole di primavera; né quella delle agnelle<br />

che sopravvivono e crescono per diventare le madri di<br />

altri agnelli da sgozzare. Forse la stella non sarebbe arrivata<br />

all’altare, tutto era possibile quell’anno.<br />

Ma la stella viaggiava per gioco di fili, lenta, a lente<br />

tappe. A mezzanotte scoppiò un tuono di fucilate, come<br />

se fossero arrivati i briganti: e la stella era all’altare.<br />

Allora Raimondo intonò un’antica nenia: la Madre raccomandava<br />

al Bambino di non lamentarsi dei leggeri<br />

panni, perché verrebbe per lui un tempo anche più doloroso:<br />

quello dei chiodi alle mani e ai piedi, e della corona<br />

di spine, e della lancia al costato, e degli sputi, e<br />

dell’aceto mescolato a calcina.<br />

Era nato il Bambino, e la Madre già lo piangeva<br />

morto. E Cardellino pensava agli agnelli di corta vita, e<br />

Domenico ai semi morti, bruciati dal sole.<br />

Il giorno degli Innocenti restò nell’ovile col vecchio<br />

Martino soltanto Stefano, che non aveva voluto saperne<br />

di seguirli in città. Con quel congresso avrebbero<br />

fatto un buco nell’acqua; questo il suo pronostico.<br />

Partiti a cavallo alla prima alba, imbacuccati nei loro<br />

cappotti di orbace nero, con i cappucci puntuti rialzati<br />

sembravano gente di inferno. Neri anche i cavalli,<br />

finché non fu come se qualcuno fosse riuscito a incendiare,<br />

a levante, il bosco umido. Era l’aurora.<br />

55


Cardellino non stava nella pelle, nonostante la tristezza<br />

muta dei tre uomini. In groppa a Savia, la giumenta<br />

montata da suo padre, ogni tanto ritraeva bruscamente<br />

indietro la faccia, perché il ruvido panno del<br />

cappotto del cavaliere in sella gli raspava il naso. Anche<br />

questo faceva parte del divertimento, in quella<br />

mattina rigida. Era la prima volta che andava in città,<br />

Cardellino. Finalmente. L’aveva sognato tante volte<br />

quel viaggio, lui; da fare insieme col suo migliore amico<br />

Domenico: e l’avevano rimandato d’accordo di volta<br />

in volta concludendo che «c’era più tempo che non<br />

acqua». Ed ecco che Cardellino era un po’ maliconico,<br />

ora, solo perché il fiume del tempo era passato e continuava<br />

a passare, e Domenico non faceva quel viaggio<br />

con lui. Tutto non si può avere a questo mondo, pensava.<br />

Domenico era padrone di un’isola, era contadino,<br />

poteva starsene al villaggio, allontanarsene per il<br />

suo lavoro, ritornare la sera, rivedere la mamma, dormire<br />

sul materasso e non sulla stuoia come era toccato<br />

a lui. Era un’altra sorte, quella di Domenico. Ognuno<br />

per la sua strada.<br />

Ed ecco i cavalli camminavano, camminavano; solerti,<br />

per riscaldarsi. I piedi non se li sentiva, nonostante<br />

le pezze di lino e gli scarponcini, Cardellino. Certo<br />

loro, lui e Domenico, quel viaggio in città se lo erano<br />

sempre sognato in circostanze meno tristi. E col trenino,<br />

non a cavallo. Col trenino chiuso, che mangia carbone<br />

per biada e urla come un porco scannato, specialmente<br />

ai passaggi a livello. Aveva sentito dire che gli<br />

alberi fuggono, che le cantoniere anche, che la gente<br />

dentro le vetture non fa che raccontare, ciascuno, i suoi<br />

mali al vicino. Ma infine, arrivare si sarebbe arrivati lo<br />

stesso, quella mattina, in quella città con prefetto, vescovo,<br />

tribunale, carceri e caserme. Peccato, – si diceva<br />

in segreto – peccato che Domenico non sia figlio di pastore.<br />

Ci saremmo incontrati oggi al congresso. Ma che<br />

56<br />

era propriamente quel congresso? Un buco nell’acqua,<br />

aveva detto Stefano.<br />

Ora il sole era salito e metteva davanti agli occhi di<br />

Cardellino i campi morti, nudi di erba, un disastro in<br />

ogni luogo. Gli spigriva i pensieri: non era annata quella<br />

di erba che facesse da pane alla pecora e diventasse il<br />

sangue-bianco che il pastore si sogna nei grandi caldai<br />

del caseificio. Ché ogni pensiero del pastore è lì, nella<br />

mammella gonfia della pecora, e nel belato del suo<br />

agnello che nasce prospero, e nell’abbondanza del sangue-bianco<br />

da versare all’industriale che gli ha dato gli<br />

anticipi «da odorare», come diceva Stefano, e da passare<br />

subito a Prospero Sio per i pascoli. E piace al pastore anche<br />

tuffarci dentro le mani nella quantità che amministra<br />

per il formaggio da provvista per casa, per il companatico:<br />

le belle piastre e le belle pere di formaggio messe<br />

poi ad affumicare come le salsicce sopra il canniccio della<br />

casa del fumo. Di buone mani il pastore, come di<br />

buone mani la sua donna, come sua madre che preparava<br />

il pane biscotto e più e più quello delle feste. E vedeva<br />

la bocca spalancata del forno e il suo palato d’oro alla<br />

luce della fiamma. E, dentro, i bei palloni gonfi che poi<br />

l’assistente dell’infornatrice apre orlo orlo a punta di<br />

coltello, come si tagliano i fogli del libro nuovo: così da<br />

ogni pallone due lune sottili che lei sovrappone e che<br />

luna su luna formano via via un cilindro.<br />

A un tratto i cavalli nitrirono. Erano sbucati da una<br />

scorciatoia altri cavalieri, imbacuccati anch’essi, anch’essi<br />

diretti al congresso, tristi in volto. Si scambiarono<br />

grugniti di saluto. Poi un drappello si distanziò dall’altro<br />

lungo la scorciatoia maggiore verso la città, come<br />

andassero a conquistarla, a saccheggiarla con i loro fucili<br />

sull’arcione. Erano tristi, muti. E Cardellino non aveva<br />

più voglia di inseguire i pensieri suoi di poco prima.<br />

Si mise a fare il lutto anche lui. Un buco nell’acqua?<br />

Ma perché Stefano aveva detto così? Povero Stefano.<br />

57


Forse Stefano voleva che le cose andassero bene, ma temeva<br />

la Sorte che quell’anno s’era svegliata di malumore,<br />

e non c’erano stati santi che l’avessero convertita.<br />

Forse Stefano l’aveva detto per rabbia, lui che non le<br />

perdonava di averlo macinato e pestato nel mortaio, e<br />

poi gli aveva fatto perdere una mano, e macchiato gli<br />

aveva anche il cartellino penale. Aveva il cuore gonfio,<br />

ora, Cardellino, tanto che quasi piangeva; no, non era<br />

né il bruciore della sbucciatura alla punta del naso né le<br />

morsicature dell’aria rigida, no. Era quel pensiero del<br />

rio pescoso, della bomba della peschiera proibita che<br />

lo faceva lacrimare, e meno male che poteva nascondersi<br />

dietro le spalle di suo padre. Cuore da contadino,<br />

taci, cuore da cane. In quel punto suo padre si voltò un<br />

poco di fianco e senza guardarlo disse portando la mano<br />

alla punta del cappuccio per un accenno di saluto:<br />

– Il Redentore –. E gli mostrava con la mano un albero<br />

nudo, distinto in mezzo al bosco, sulla cresta alberata.<br />

Cardellino si portò anche lui la mano alla punta del<br />

cappuccio: il cuore gli balzò nel petto. Ne aveva sentito<br />

parlare tante volte di quella statua alta sette metri, che<br />

con la punta della croce imbracciata come una bandiera<br />

toccava le nuvole del cielo. Scorse di lì a poco i due<br />

campanili della città che facevano la guardia alla grande<br />

chiesa cattedrale tutta di zucchero e col tetto di corallo.<br />

Udì una campana suonare ad agonia, battere uno,<br />

due… otto colpi. Tale quale, come quando ad <strong>Orolai</strong><br />

spirava un’anima. Le otto. I cavalli ora erano impazienti,<br />

sentivano forse odore di greppia venire dalle case del<br />

quartiere rustico della città, di nome Agresto, che già si<br />

scorgeva come un armento vecchio da svendere al macello.<br />

Già si leggeva l’ora sul quadrante dell’orologio,<br />

dell’orologio di tutti. A <strong>Orolai</strong> invece erano senza torre,<br />

erano senza orologio. Lì facevano da orologio gli asini e<br />

i galli e l’incudine di Oreste Piana. O si andava a chiedere<br />

l’ora a casa del parroco che aveva una pendola della<br />

58<br />

forma di una cassa da morto messa di dritto. O dalla<br />

serva di Prospero Sio che possedeva un Rosckoff a tegamino,<br />

ma era preciso, come la Morte.<br />

Erano in città. Presero una straduccia; una delle straducce<br />

selciate. I ferri dei cavalli le battevano, e gente<br />

s’affacciava agli usci. Arrivarono dall’amico che abitava<br />

appunto in quel quartiere rustico, e che si chiamava<br />

Raimondo Benena.<br />

Raimondo Benena si fece subito in quattro, li aiutò<br />

a ricoverare i cavalli sudati sotto una tettoia e ad approvendarli;<br />

offrì agli amici dell’acquavite e ne fece bere<br />

anche a Cardellino dicendogli: – Bevi, diavoletto, che<br />

mette sangue –. Poi comparvero la moglie di zio Raimondo<br />

Benena, Lorenza, con una corona di figlie vestite<br />

di porpora e col viso da melagrana, come quelle<br />

dell’orco Malfante; e dicevano, una dopo l’altra, con un<br />

inchino: – Benvenuto agli ospiti –. Poi, i quattro uscirono,<br />

e Cardellino li seguì come al guinzaglio.<br />

Il bello cominciò proprio allora per quella strada lastricata,<br />

pietra scalpellata accostata a pietra scalpellata<br />

come al pavimento della chiesa di <strong>Orolai</strong>, e palazzi, ai<br />

fianchi che la casa di Prospero Sio al confronto era da<br />

povero. Gli uomini col cappuccio (ora, tutti lo avevano<br />

calato) non si contavano più: tutti pastori rovinati che<br />

si salutavano appena, come bofonchiassero. Era una<br />

processione senza croce, senza santo, senza canti, e la<br />

chiesa era quella, con la scritta grande: Cinema-teatro.<br />

C’erano lì, all’ingresso, cartelli colorati: indiani con i<br />

fucili issati correvano alla sfrenata e urlanti come cavalieri<br />

alla festa di San Domenico a <strong>Orolai</strong>.<br />

Entrarono. <strong>Una</strong> voce scandiva alto uno due tre, uno<br />

due tre. C’era per altare un palco che molto somigliava<br />

a quello che a <strong>Orolai</strong> preparavano per farvi salire i grandi<br />

poeti improvvisatori d’ottave, sempre alla festa di San<br />

Domenico. C’erano un’asta di metallo lucente che riceveva<br />

la voce di quello che contava uno due tre e che<br />

59


gliela torceva come lino; e nella sala sedie e sedie come<br />

nemmeno in casa Sio, e ognuno vi prendeva posto, chi<br />

primo arrivava, senza preferenze. Anche loro, i quattro<br />

pastori, con in testa Raimondo Benena che sembrava<br />

di casa. – Siedi qui, Cardellino, – gli disse. Era caldo lì<br />

dentro: c’era odore di sigaro e di pipa, e con tanta gente<br />

venuta direttamente dagli ovili anche odore di siero e<br />

di caseificio.<br />

Da quel momento tutto fu strano per Cardellino.<br />

Salì sul palco una vedova che sembrava Nostra Signora<br />

dei Sette Dolori e disse all’orecchio dell’asta metallica<br />

che aveva perduto le pecore e che aveva mandato i figli,<br />

il maggiore aveva quindici anni, a cercarsi il pane,<br />

di porta in porta. Disse e si chiuse la bocca con la sua<br />

benda nera.<br />

Salì un pastore: le sue pecore avevano perduto il<br />

senno di madri, non riconoscevano i figli nati rachitici<br />

e li respingevano lontano da sé a colpi di muso, con<br />

odio. Disse, si fece da parte e restò lì in mezzo al palco<br />

come impalato.<br />

Salì un altro, e poi un altro e un altro ancora: e dicevano<br />

la loro storia di cambiali, di falliti, finché tutti<br />

gli altri in sala ruppero a urlare: – Basta, basta, vogliamo<br />

mangimi. Abbiamo firmato le cambiali. Mangimi,<br />

mangimi –. Fece in tempo uno a gridare al microfono:<br />

– E se no, qualcuno seguirà la sorte di Massimo Ru.<br />

Cardellino, anche lui, sapeva che Massimo Ru aveva<br />

già la testa d’oro: cinque milioni di taglia sulla testa.<br />

O portarlo legato vivo, o anche morto: cinque milioni<br />

per la pelle di Massimo Ru.<br />

Ora tutti sfollavano brontolando e minacciando, e<br />

Cardellino temeva che si fosse fatto davvero un buco<br />

nell’acqua, come aveva pronosticato Stefano. Avrebbe<br />

anche pianto, se non si fosse trovato in mezzo a tanti<br />

pastori dal cuore coraggioso che si preparavano a ritornare<br />

agli ovili per la strada per la quale erano venuti.<br />

60<br />

Al suo ritorno all’ovile, Cardellino trovò una sorpresa:<br />

un uomo gigantesco, con gli occhi azzurri e con<br />

un mitra sulle ginocchia sedeva fuori della capanna.<br />

Suo padre lo tirò in disparte e gli disse: – È Massimo<br />

Ru –. Fin da ragazzo lo chiamavano Valentia. Era di<br />

Quilica, villaggio soprattutto di pastori che svernavano<br />

ogni anno con grandi greggi alle marine lasciando, nelle<br />

case, prigionieri della neve, i loro vecchi ormai inabili,<br />

i figli minori e le donne. A tutto pensavano queste,<br />

con coraggio e con parsimonia, durante la loro assenza.<br />

Il loro ritorno era una festa, più o meno spensierata, secondo<br />

la fortuna della «campagna» dell’anno.<br />

L’uomo aveva incominciato sotto il sospetto di avere<br />

partecipato a una rapina a mano armata nella pianura<br />

che si scorgeva in fondo all’orizzonte dalla piazza di<br />

<strong>Orolai</strong>. Chiamato in caserma perché si giustificasse,<br />

aveva preferito darsi alla latitanza per meglio, a quanto<br />

diceva, prepararsi il piano di difesa. Non risultarono<br />

prove contro di lui; ma lo cercavano lo stesso per mandarlo,<br />

come sospetto, in un’isola lontana. Massimo Ru,<br />

però, isola per isola, preferì non passare il mare, anche<br />

a costo di dover fare la vita del cinghiale braccato. Passava<br />

il tempo, e non lo prendevano. Intanto i furti e le<br />

estorsioni, che da lungo tempo erano sporadici, si facevano<br />

di mese in mese più frequenti e temerari. Molti<br />

venivano attribuiti ai giovani reduci, che, partiti alcuni<br />

anni prima senz’arte né parte, ora o erano svogliati, o<br />

nudi come vermi per disoccupazione: tutti, comunque,<br />

esasperati e non disposti a morire, come dicevano, nella<br />

cenere. Non erano rispettati nemmeno i buoi da lavoro<br />

dei contadini, tutto il loro bene. Fossero o no autori di<br />

tali imprese quei giovani, un Massimo Ru latitante aveva<br />

le spalle larghe tanto che le più gliele addebitavano o<br />

in proprio o come capo di quelle bande. Massimo, a<br />

quanto si sapeva, aveva ammonito questo e quello di<br />

non lanciare il sasso e poi nascondere la mano. Uno di<br />

61


questi, certo Morosino, il quale, secondo lui, era un<br />

furfante da strapazzo e per di più confidente dei «fratelli<br />

Branca»; stanco così di vivere. Glielo mandò a dire<br />

non una sola volta. Ed ecco che Massimo, ormai stanco<br />

di avvertirlo, gli si mette alle calcagna e lo sorprende<br />

una sera in flagrante con la refurtiva: un giogo da lavoro<br />

d’un padre di famiglia. Morosino si vede perduto: fa<br />

l’atto di uccidere Massimo con una roncola dal manico<br />

lungo e si prende una sventagliata di mitra. Era quello,<br />

sembra, il primo omicidio di Massimo che se lo addossò<br />

mandando a dire alla Giustizia di averlo commesso<br />

per purgare la campagna di quella vergogna di ladro e<br />

di confidente. Di qui la sua rovina. Gli misero un prezzo:<br />

la taglia cominciò a far gola a questo e a quello:<br />

Massimo li attendeva al varco e li uccideva prima di<br />

farsi uccidere. La taglia così era salita alle stelle.<br />

Ora, quell’uomo che Cardellino si vedeva davanti<br />

aveva «la testa d’oro». Sedeva lì, tranquillo, senza peccati<br />

sulla coscienza, stando almeno alle apparenze, senza rimorsi.<br />

Forse lo aveva spinto fin là la nostalgia del vicino<br />

Natale. Certo sapeva che gli uomini della capanna mai<br />

si sarebbero macchiati di tradimento. Erano uomini di<br />

onore Antonio Poberile e i suoi soci. Un cane nero e peloso<br />

gli stava vicino in allarme, anche se il suo padrone<br />

si fidava tanto. Ma forse era soltanto, la sua, diffidenza<br />

verso i cani dell’ovile che a buon conto si erano aggruppati<br />

e stavano attenti agli ordini dei padroni.<br />

L’uomo con la testa d’oro si era informato a monosillabi<br />

dei loro guai e aveva trovato parole di simpatia.<br />

Loro non gliele avevano contraccambiate. Poi si era ammutolito.<br />

Imbruniva. Si alzò di scatto. Chiamò Bernardo da<br />

parte e gli parlò brevemente all’orecchio. Bernardo gli<br />

rispose sottovoce portandosi la mano al petto. L’altro accennò<br />

un gesto di saluto a tutti, partì veloce seguito dal<br />

suo cane, disparve.<br />

62<br />

Poco dopo arrivò Stefano con una fascina sulle spalle<br />

e sembrava, nell’ombra, un cespuglio che camminasse.<br />

I tre uomini lo circondarono tempestandolo di domande,<br />

svillaneggiandolo, maledicendolo, minacciandolo<br />

d’impiccarlo a un albero. Il più accanito dei tre<br />

era il fratello, Bernardo, che lo chiamava la vergogna<br />

del parentado.<br />

Cardellino aveva il cuore in gola per Stefano. Suo<br />

padre, scopertolo rincantucciato in fondo alla capanna,<br />

gli gridò: – E tu guardati bene dall’avvicinarti da<br />

oggi a questo straccio, capito? –. Poi, come pentito di<br />

avere detto troppo, soggiunse con voce meno alterata:<br />

– A ogni buon conto, tu non hai visto, né sentito nulla;<br />

intesi? –. Cardellino si raggomitolò ancora di più, e quelli<br />

ripresero a fare il processo a Stefano. Dalle loro frasi<br />

rotte e sibilline afferrò dal suo nascondiglio l’accusa che<br />

gli movevano: Massimo Ru era stato da loro poco prima<br />

per chiedere che mettessero le pastoie a quel polledro<br />

matto di Stefano, il quale gli risultava che avesse avvicinato<br />

certi giovinastri che macchinavano di fargli la pelle<br />

per così riscuotere «il denaro di Giuda». E quando tutta<br />

la tempesta si fu sfogata su Stefano, saltò a difenderlo<br />

Antonio Poberile: – Ora può anche bastare. Stefano, dopo<br />

tutto, è un uomo d’onore, non una spia. È stata<br />

un’alzata di testa. Lo ha cavalcato Malabestia. Può succedere<br />

a chiunque. Specialmente nel dopoguerra. Ne sappiamo<br />

tutti qualche cosa, no?<br />

Gli altri due non dicevano nulla. Era un silenzio di<br />

approvazione. Ora Stefano aveva rialzato la testa e li<br />

guardava in faccia da pari a pari. Il cielo si era rasserenato<br />

sopra di lui: lo comprendeva dal modo come tutti<br />

gli guardavano la manica floscia della giacchetta: ormai<br />

la colpa essi, compreso lo stesso Cardellino, che fino a<br />

ieri giocava in piazza, la attribuivano in cuor loro alle<br />

avversità, alle persecuzioni della sorte, a quella guerra<br />

che continuava silenziosa. Persino il vecchio servo aveva<br />

63


vagamente compreso nella sua semplicità di uomo degradato<br />

a sereno animale, e con accento tremulo, molto<br />

vicino al belato, fece eco a parole ai pensieri dei tre pastori<br />

e di Stefano, e al sentimento di Cardellino: – Maledetta<br />

la guerra da Dio e dai Santi, come ha detto tante<br />

volte l’eremitano di san Teodoro –. Era, questo eremitano,<br />

il custode di quella chiesa di campagna, il quale viveva<br />

di elemosina e passava ogni anno anche negli ovili,<br />

col suo Santo in una cassetta a vetri. Passava l’eremitano,<br />

riponeva nella bisaccia viveri e denaro, lasciava la benedizione<br />

del Santo, invitava alla festa ognuno, chi rispondeva<br />

alla sua cerca e chi no. Era san Teodoro uno dei molti<br />

santi di campagna, piccoli e modesti, che hanno una sola<br />

giornata di sole in tutto l’anno. E questo avviene<br />

quando appunto i festaioli col pievano in testa vanno a<br />

trovarlo nel giorno del suo genetliaco, e gli dicono messa,<br />

e gli cantano le lodi in coro, e poi gli fanno banchetti<br />

e balli intorno a suon di fisarmonica sino alle funzioni<br />

del vespro; dopo le quali, lo salutano sommessamente e<br />

gli promettono di rivisitarlo a distanza di un anno.<br />

Quello che accadde di straordinario subito dopo le<br />

parole di Martino Pecora (ma forse tutto era incominciato<br />

durante il processo) finì con il suggellare quella loro<br />

alleanza contro un nemico comune e insieme a riconciliarli<br />

con Dio, con Stefano, con se stessi. Un brontolio<br />

lontano. Uscirono all’aperto. Quel cielo sterile da tanto<br />

tempo e fuori di <strong>stagione</strong>, quella specie di specchio stregato<br />

era già percorso da torme di nuvole a cui faceva da<br />

lume la luna che nasceva. La luna saliva veloce con altre<br />

e altre nuvole. Si udì un brontolio lontano. Arrivò un<br />

odore incredibile.<br />

Tutti ora guardavano le nuvole che fermentavano<br />

rapidamente. Brontolò il tuono e cominciò una festa di<br />

serpi d’argento. La pioggia non tardò a scrosciare. Si ripararono<br />

nella capanna, cenarono; pioveva ininterrottamente;<br />

si distesero sulle stuoie. Pioveva allegramente.<br />

64<br />

Cardellino non poteva prendere sonno. Era contento.<br />

La pace era ritornata. Anche l’isola di Domenico ecco<br />

che si impastava come una torta. La torta fu portata<br />

sul vassoio di legno sulla tavola di Domenico, che era<br />

una grande lastra di granito, in mezzo all’isola con le<br />

fiammelle verdi degli steli già spuntati alla pioggia nuova.<br />

Passò di lì a poco Massimo Ru che andava a caccia<br />

col suo cane; ma le volpi e le lepri gli passavano sotto il<br />

naso: il cane non ubbidiva, il mitra faceva sempre cilecca.<br />

Poi stanco, avvilito, Massimo disse: – Stefano è morto<br />

–: e giù uno scroscio di pianto.<br />

Si svegliò. La pioggia cadeva a dirotto. Si raccapezzò<br />

quasi subito. Stefano era lì, supino, accanto a lui: il suo<br />

petto si alzava e si abbassava; non era fermo come quello<br />

dei morti che aveva veduti altre volte nelle case di<br />

<strong>Orolai</strong>, distesi sopra un tavolo, vestiti a festa coi piedi rivolti<br />

alla porta, sempre lì e già tanto lontani.<br />

Così l’anno vecchio si congedava con la pioggia<br />

senza essere salutato e rimpianto, e la gente invece salutò<br />

il primo giorno piovoso dell’anno nuovo, meno<br />

sfiduciata per il detto dei loro antichi: «Dall’alba conosci<br />

il giorno e anche l’anno». I contadini già si ritrovavano<br />

il coraggio di rischiare altro seme. Ma i pastori<br />

erano sotto l’incubo delle cambiali che erano nelle mani<br />

di Prospero Sio, di Luigi Perete, di Lorenzo Muzi, di<br />

Gianuario Musa e di pochi altri come loro, in villaggi<br />

come <strong>Orolai</strong>.<br />

Bernardino Gosio in quei giorni era partito per Austalé,<br />

dove era re e dòmino Luigi Perete, il quale faceva<br />

anche il banchiere al trenta uno, e lo aspettavano di ritorno<br />

al più tardi la notte dei tre Re. Questa volta c’era<br />

aria di funerale nella capanna: anche Stefano era soprappensiero.<br />

Il tempo non passava mai; erano taciturni;<br />

ogni tanto uno esplorava da un’altura il riapparire<br />

65


di Bernardo. Arrivò così anche la notte dei tre Re e di<br />

Bernardo nemmeno l’ombra. Erano tutti tristi, tristi<br />

come la notte, quella sera, muti attorno al fuoco. Se<br />

non ci fosse stato Martino, che ogni tanto aggiungeva<br />

un ramo, il fuoco forse si sarebbe spento. Stavano sul<br />

punto di srotolare le stuoie e di buttarsi distesi, ed ecco,<br />

potevano essere le undici, Bernardo. I cani gli fecero<br />

festa nel buio correndogli incontro all’odore. Gli<br />

amici gli fecero largo posto nella capanna come non<br />

mai: lui gettò il cappotto in un canto e disse senza attendere<br />

domande: – Voi avrete già cenato; io no –.<br />

Avendogli Martino risposto che no, che non avevano<br />

cenato neanche loro nell’aspettarlo, Bernardo fece un<br />

viso allegro. Graticola al fuoco, solito arrosto di salsicce,<br />

pane e vino.<br />

Cenato, Bernardo trasse dalla casacca di orbace un<br />

portafoglio bisunto di cuoio, e, apertolo, da quella specie<br />

di fisarmonica cavò un foglietto rettangolare che<br />

subito fece passare dall’uno all’altro in cerchio, raccomandando<br />

a ciascuno, con grande serietà, di odorarlo.<br />

A Cardellino, per motivi di età, arrivò per ultimo. Era la<br />

prima volta che Cardellino vedeva un’immaginetta simile,<br />

con bollo tondo e scrittura a stampa e parole e cifra<br />

scritte a mano: sotto, questo era il più bello, la firma di<br />

Bernardo Gosio dal basso verso l’alto, come un solco<br />

storto; e a sinistra anche le zampe di mosca della firma<br />

di suo padre: Antonio Poberile. E quando la ebbe odorata<br />

né più né meno degli altri, Bernardo gli domandò:<br />

– Che odore hai sentito? –. Cardellino non rispose, proprio<br />

non sapeva che rispondere. Ma Bernardo lo trasse<br />

d’impaccio: – Dio ti dia la fortuna di non trovarti nella<br />

necessità di firmarne mai una in vita tua. Dopo che hai<br />

fatto l’esperienza di averne firmato almeno una, allora<br />

cominci a sentire il suo vero odore, che non è odore di<br />

carta e di inchiostro, ma è odore tra di corno bruciato e<br />

di sangue di povero. E ora, coraggio, gettala nel fuoco<br />

66<br />

come una cattiva fattura, di quelle che «legano» uomini<br />

e animali e gli levano ogni energia. Su, coraggio.<br />

Cardellino la gettò nel fuoco, e tutti gli occhi fissarono<br />

il fuoco che la divorava.<br />

A questo punto Bernardino Gosio si tirò su la casacca<br />

col gesto del sacerdote che mette la cappa e cominciò<br />

a predicare:<br />

– C’era una volta ad Austalé, terra di pastori afflitti,<br />

un ricco, anzi un riccone, che si chiamava Luigi Perete.<br />

Possedeva bestiame di ogni genia, con corna e senza<br />

corna, e terre sue in sovrabbondanza dove pascolarle.<br />

Era venuto dal nulla, come Toti Merre, altro riccone,<br />

di cui era figlioccio di battesimo e suo pulcino. E chi<br />

era questo Toti Merre? Era, come ho detto, il primo di<br />

Austalé e dintorni, al tempo che Luigi Perete camminava<br />

scalzo; scalzo come i galli e come i ragazzi di nascita<br />

bassa di <strong>Orolai</strong>. Allora sì, quelli erano tempi che erano<br />

in fiore le grandi razzie e gli assalti alle diligenze a cavalli;<br />

tempi che arrivarono prosperi e fortunati sino alla<br />

maturità di Luigi Perete. Muore Toti Merre, e chi ne<br />

prende il posto? Naturalmente, il suo figlioccio di battesimo,<br />

il suo pulcino, Luigi Perete. Ma i Coia avevano<br />

aumentato la forza nelle caserme: bracci-di-re a piedi e<br />

a cavallo e anche fantaccini, di quelli di cui, poi, col<br />

grigioverde, abbiamo fatto parte noi, col nome di Buffa.<br />

E così Luigi Perete, sempre innocente come l’acqua,<br />

sedette più volte al banco degli imputati, ma con buoni<br />

avvocati e con la lezione degli alibi che aveva imparata<br />

dalla buonanima del suo padrino, la sua innocenza<br />

usciva dalla curia ogni volta chiara come il sole. Ora,<br />

Luigi Perete ha i suoi anni, s’è messo con Dio, è del<br />

partito dell’ordine, la sua voce è la più alta nel coro di<br />

quelli che gridano che è tempo di ritornare alle forche<br />

dei boia per impiccare i malfattori. Ma poi, quando si è<br />

sfogato a parole, il cuore lo tradisce. I meriti sono meriti.<br />

Luigi Perete è un cuore d’oro. Prova ne sia che, se<br />

67


uno ha un debito antico da pagare, come ne aveva uno<br />

una volta Bernardino Gosio di <strong>Orolai</strong> (carico di figlie e<br />

senza un figlio maschio: che non lo poteva soffrire), un<br />

debito, dico, verso Lorenzo Muzi e, se questo Lorenzo<br />

Muzi non vuol saperne più di pazientare, e solo è disposto<br />

a dare respiro se il trenta uno (tutto costa sempre<br />

più caro) Bernardino accetta che sia portato al quaranta…<br />

allora che accade? Accade che Bernardino Gosio<br />

prende tempo per pensarci, corre a cavallo da Luigi Perete<br />

che è un cuore d’oro e infatti gli dà il denaro al<br />

trenta uno con cambiale avallata da Antonio Poberile,<br />

ritira la cambiale da Lorenzo Muzi, corre a cavallo perché<br />

ha fatto tardi: lo aspettano i soci per la notte dei tre<br />

Re, bruciano la fattura, si mettono a cenare, bevono, e<br />

Bernardino si mette a predicare: «C’era una volta ad<br />

Austalé…».<br />

Scoppiò un coro di risa. Rise anche Cardellino, perché<br />

anche lui aveva compreso, se non tutto tutto, almeno<br />

questo: che le cambiali legano come le «fatture» e<br />

che non basta il sebeze, (quel sebeze che sua madre gli<br />

aveva messo al collo la mattina che aveva incominciato<br />

la vita del pastore), non basta, no, a ritirare le cambiali.<br />

E così pensando si immalinconì: gli era presente quella<br />

mattina…<br />

Ma già erano ricominciati gli onori alla damigiana: si<br />

passavano la ciotola in cerchio e di mano in mano arrivò<br />

fino a lui che ce n’era un sorso; ma era il meglio, perché<br />

chi beve allo stesso bicchiere al quale hanno bevuto altri<br />

come fratelli, ebbene l’ultimo, chi sa poi se era vero,<br />

verrà ad apprendere presto o tardi tutti i loro segreti.<br />

A un tratto i cani abbaiarono. Che era che non era,<br />

a quell’ora? Stefano con gli occhi lucidi disse: – Saranno<br />

i re Magi –. I cani erano furiosi. <strong>Una</strong> voce di fuori:<br />

– Siamo amici! Aspettate amici? –. Bernardo si fece sull’usciolo,<br />

richiamò i cani, rispose: – Benvenuti gli amici,<br />

avanzate –. Sbucarono dal buio due incappucciati.<br />

68<br />

Erano due pastori della capanna lontana: uno di essi,<br />

entrando, disse allegramente, indicando la damigiana:<br />

– A quanto sembra, siamo arrivati in buon punto –. Fu<br />

fatto loro posto ed entrarono subito in allegria anche<br />

loro. Bernardo riempì la ciotola e la passò a uno dei<br />

due che bevve e subito la passò al compagno. Restituita<br />

la ciotola a Bernardo, questi disse, forbendosi la bocca<br />

col dorso della mano, e con voce incolore: – Avrete saputo<br />

la novità anche voi, hanno sequestrato il figlio di<br />

Cosimo Pegusino, questo pomeriggio. Ne vogliono tre<br />

milioni –. Commentò Antonio Poberile: – Proprio a<br />

lui doveva toccare. Ricco è ricco, ma è un pastore che<br />

paga pascoli, e liquido non ne deve avere tanto, specie<br />

in queste circostanze…<br />

Il commento cadde nel vuoto. Un’altra volta Martino<br />

armeggiava: graticola, arrosto di salsicce, in onore<br />

degli ospiti. Il vino al calore del fuoco li lavorò molto<br />

presto. Uno degli ospiti cominciò a mugolare; a poco a<br />

poco fissando il fuoco presero a mugolare prima l’uno,<br />

poi l’altro, poi l’altro ancora: tutti ora mugolavano in<br />

coro, facevano organo: e uno, quello che aveva recato la<br />

notizia del sequestro del bambino, intonava con una<br />

bella voce squillante: «I tre re dell’Oriente con apparato<br />

mai visto portan doni a Gesù Cristo di argento mirra e<br />

oro… il Bambino, diridoro, il Bambino diridoro…».<br />

Nessuno si avvide che Cardellino era all’usciolo della<br />

capanna dando loro le spalle. Il freddo della notte gli<br />

snebbiava la mente. Ascoltava quel coro che non sapeva<br />

se fosse di allegria o di vendetta e pensava accorato a<br />

quel bambino prigioniero, sulla cui testa pesava una taglia<br />

da scriversi con tanti zeri, molto vicina a quella che<br />

valeva la vita di Massimo Ru. «Il Bambino diridoro, il<br />

Bambino diridoro…» continuavano a cantare gli uomini<br />

alle sue spalle, fermi su quelle parole sole, da quando<br />

vi erano arrivati: e di là non avanzavano né ritornavano<br />

indietro come legati da una fattura. Quel bambino di<br />

69


Gurule, quella taglia, l’altra taglia, quella del bandito<br />

che braccavano come un cinghiale che danneggia gli<br />

orzi, quel suo cane nero sempre in allarme, quel buio<br />

davanti alla capanna che sembrava pece d’inferno…<br />

Questa volta il cuore lo tradì, e forse anche il vino: e si<br />

mise a piangere, poteva farlo di nascosto. I singulti lo<br />

scotevano: anche se quegli uomini avessero badato a<br />

lui, certo avrebbero pensato che cantasse con loro la<br />

canzone di quel viaggio antico e che segnasse il ritmo<br />

agitando le spalle.<br />

Nei giorni seguenti arrivarono alla capanna altre notizie<br />

di quel bambino prigioniero, ma vaghe, confuse,<br />

contraddittorie.<br />

A <strong>Orolai</strong> e in tutta la contrada non c’era altro argomento,<br />

ma veniva trattato sottovoce dagli adulti e dagli<br />

stessi ragazzi. Questi ultimi si mettevano nei panni dell’ostaggio,<br />

senza tuttavia arrivare a figurarsi il terrore<br />

che egli potesse avere provato e il pericolo che correva.<br />

Piuttosto facevano confronti con i casi di rapimento di<br />

cui era arrivata notizia persino a <strong>Orolai</strong> da città d’Europa<br />

e d’America. Ora andavano a sentire la radio del<br />

parroco e ascoltavano la lettura del giornale del medico.<br />

L’una e l’altra dicevano che era tempo di farla finita con<br />

tutta quella contrada; che ci voleva un carabiniere per<br />

ogni abitante; che anzi si rendeva urgente deportare<br />

Gurulesi, Astulesi, Orolesi con tutti i loro vicini, dai<br />

vecchi ai lattanti e poi bruciarne le case. I ragazzi erano<br />

contenti di tutto quel chiasso, di quel finimondo. Stefano<br />

diceva a Cardellino che, secondo lui, tutto era<br />

questione di lasciar passare il tempo, e che il ragazzo sarebbe<br />

stato restituito purché suo padre, che se non era<br />

denaroso aveva buone terre per garantire anche prestiti<br />

alla Perete, e che sapeva le buone usanze, non avesse<br />

fatto causa comune con la Giustizia.<br />

70<br />

Passavano i giorni. La famiglia dell’ostaggio, a quanto<br />

si diceva, s’era messa segretamente nelle mani di<br />

«amici», un comitato clandestino di agenti investigativi<br />

privati per trattare il riscatto e ottenere una ragionevole<br />

riduzione della taglia. La polizia e i carabinieri lavoravano,<br />

invece, a sorprendere i malviventi e a tagliare la strada<br />

agli «amici», pur sapendo che in un probabile conflitto<br />

a fuoco Gianuario Pegusino poteva rimanerci.<br />

Ma Gianuario Pegusino fu protetto da qualche santo.<br />

Cardellino lo seppe da Domenico il quale, approfittando<br />

delle secche di gennaio, mantenne la promessa<br />

che aveva fatto a Cardellino il giorno di Natale. Mancavano<br />

pochi giorni a carnevale. Tutti gli fecero un’accoglienza<br />

festosa. Stefano lo salutò addirittura come «re<br />

dell’isola del Toro». E, dicevano gli altri, il titolo gli<br />

spettava di diritto, secondo catasto. Lo fecero sedere su<br />

uno sgabello e gli si misero davanti, seduti anche loro,<br />

in atteggiamento di ascolto. Domenico ebbe appena<br />

cominciato a raccontare che essi, come si fossero dati<br />

una voce, estrassero da una saccoccia ciascuno un coltello.<br />

I coltelli erano affilati e appuntiti, col manico<br />

d’osso: e si diedero a scorticare verghette di olivastro<br />

che a mano a mano gettavano via come cose inutili.<br />

Dunque Gianuario Pegusino era stato ritrovato alla<br />

fontana del pioppo. Domenico aveva visto con i suoi<br />

occhi il camion sul quale veniva trasportato alle carceri<br />

giudiziarie, dette La Rotonda, un uomo che aveva i polsi<br />

tanto larghi, che le manette appena bastavano a prenderglieli.<br />

– Il camion era piccolo per uno come lui, – diceva<br />

Domenico.<br />

Gli uomini uscirono in uno studiato grido di stupore<br />

come si fossero dati la voce. Domenico insistette<br />

che era la verità. Allora Stefano in celia: – Eh, voi contadini<br />

avete la fantasia sbrigliata, siete portati a esagerare,<br />

si sa, a fare di una mosca un elefante –. Bernardo gli<br />

diede sulla voce: – Lasciatelo terminare, figli di Dio; ne<br />

71


ho conosciuto uno io, quando ero ragazzo, di ladri di<br />

bambini che, allora, è vero, non c’erano ancora i camion,<br />

eppure per corporatura dava punti all’orco Malfante.<br />

Basta; continua pure, Domenico.<br />

– Dunque, – riprese Domenico, – fu lungo la strada<br />

asfaltata che erano scaglionati, nascosti, un trecento fucili:<br />

quasi tutti cacciatori. Era così l’ordine della polizia.<br />

Le operazioni le principiarono di notte. I ricattatori volevano<br />

che la somma fosse loro consegnata dallo zio del<br />

ragazzo. E infatti Ignazio Pegusino, zio del ragazzo, ordine<br />

sempre dei valenti, si mise a percorrere la strada da<br />

Gurule a Ospile. Il cavallo doveva essere bianco, così era<br />

prescritto nella lettera, nella lettera anonima: e bianco<br />

era. Là, a Ospile, il trenino trova la salita, lo sapete bene:<br />

e là, prima di affrontarla, fa provvista d’acqua alla maniera<br />

del cammello. Così diceva il nostro maestro: ti<br />

rammenti, Cardellino? Basta, a questo punto l’uomo del<br />

cavallo, sempre camminando lungo l’asfaltata, doveva<br />

arrivare all’alba. Sempre secondo gli ordini.<br />

Gli uomini si guardarono negli occhi e Stefano commentò:<br />

– Bella zuppa.<br />

– Il cavallo bianco, – riprese Domenico, – percorreva<br />

quella strada. La notte non era tanto scura. Chi l’ha<br />

visto dice che il cavallo sembrava un fantasma. Ignazio<br />

Pegusino faceva il tonto in mezzo a tanti fucili scaglionati.<br />

Passo passo, col denaro che portava in una bisaccia,<br />

un bel pacco di biglietti da mille, duemila ne volevano i<br />

ricattatori non uno di meno, lo zio del ragazzo viaggiò<br />

sempre, e nessuno lo fermava. «Accidenti», dicevano i<br />

fucili, «sta’ a vedere che li vogliono proprio al rifornitore,<br />

i duemila biglietti». E così fu. Giusto all’alba Ignazio Pegusino<br />

era lì e si sente chiamare. Si guarda attorno: e chi<br />

c’era? C’era un uomo, quel gigante; proprio quello che<br />

ho visto io che col suo peso faceva scricchiolare il camion.<br />

Poteva passare per un carbonaio, perché la faccia<br />

se la era tinta con la fuliggine. «Accidenti, come è grande<br />

72<br />

quest’uomo nero» fa Ignazio Pegusino smontando da<br />

cavallo. «Hai con te il denaro?» fa quello. «E come no?»<br />

gli risponde Ignazio Pegusino. «L’ho qui nella bisaccia.<br />

Ecco il pacchetto». L’altro prende il pacchetto, se lo fa<br />

ballare in mano, dice: «Magari che tu non mi prenda per<br />

tonto. Ma due milioni, qui, non ci sono. Avete sbagliato<br />

contando?». «Sbagliato? Non abbiamo sbagliato», fa l’altro,<br />

«ma era la prima cosa che volevo dirti e non me ne<br />

hai dato il tempo. Infatti solo la metà ne abbiamo rimediato».<br />

«Poveretti, vi comprendo, vi siete rovinati», disse<br />

l’uomo nero. «Ma cerca di comprendere» gli spiegò Ignazio<br />

Pegusino. «Lo sapete bene che mio fratello non è ricco<br />

di liquido: che l’ha colpito la siccità dell’altr’anno e<br />

anche quella di quest’inverno: e che il bestiame glielo ha<br />

messo in terra la nevicata, e che ha perduto una lite per<br />

colpa di falsi testimoni». «Accidenti, come avvocato, dico<br />

io, puoi dare dei punti al primo. Ma la verità è un’altra:<br />

che il padre del ragazzo, sua madre, tu, tutti voi, malanno<br />

che vi prenda, il bambino lo avete valutato a prezzo<br />

di montone. Vi si è chiesto della carta, dopo tutto; non<br />

dell’oro. Va’, va’ al diavolo tu con tutto il tuo parentado».<br />

Ma a questo punto, eccone un altro, ma piccolo, questo,<br />

e con la faccia pulita: «Lascia correre», dice «prendi questi<br />

per ora, purché s’impegnino a versare la differenza fra<br />

un mese, facciamo anche tre, ma che li versino». L’uomo<br />

nero gli diede retta, ma prese lui il pacchetto, lo slegò,<br />

contò, disse: «L’acconto è giusto e puoi andartene». «Come,<br />

e il ragazzo?» fa Ignazio Pegusino. «Secondo te, dovevamo<br />

portartelo nella bisaccia. Spero saprai che pesa<br />

più del tuo pacchetto», disse l’uomo nero e ridacchiò.<br />

«Se non vi è d’incomodo andate a prendervelo alla fontana<br />

del pioppo» e, senz’ascoltare altre domande che<br />

Ignazio Pegusino gli faceva, s’avviò col suo socio verso il<br />

bosco. Ignazio Pegusino allora che fa? A passo a passo<br />

torna verso il suo cavallo: gli è vicino, finge d’inciampare,<br />

si getta a terra bocconi. Proprio in quell’istante parte<br />

73


una scarica di mitra e qualche colpo di moschetto. L’uomo<br />

piccolo cadde e non si rialzò più. L’uomo nero vistosi<br />

perduto cominciò a chiedere misericordia; belava come<br />

un agnello e prima sembrava un leone. E poi legato e<br />

ammanettato fece da guida fino al nascondiglio e trovarono<br />

Genuario. Il bello è che ieri notte a Gurule tutti<br />

quei trecento armati e altri di Gurule fecero banchetto.<br />

A mezzanotte non ce n’era uno che potesse stare su una<br />

gamba sola. E così quando il padre del ragazzo diede lui<br />

il segnale con uno sparo del suo fucile, non ci pensarono<br />

su troppo gli altri a scaricare i loro a gloria, come fosse la<br />

notte di Natale.<br />

Cardellino aspettò che gli uomini facessero qualche<br />

commento, ora che il suo amico aveva finito di raccontare.<br />

Ma neppure Stefano aprì bocca. Erano neri, corrucciati,<br />

muti, come se non fossero per nulla contenti<br />

che le cose fossero andate come erano andate.<br />

Pochi giorni dopo, una visita inaspettata all’ovile:<br />

sua madre e la zia Maddalena. Che era mai successo?<br />

Cardellino non tardò a comprendere che sua madre<br />

si era mossa dal villaggio solo per accompagnare l’amica.<br />

La zia Maddalena e suo marito Bernardo ora si erano<br />

appartati sotto la quercia che era poco distante dalla<br />

capanna. Parlottavano. Presto alzarono la voce: lei<br />

raccomandandogli di abbassarla e di non fare scandali;<br />

lui urlando che lo scandalo era bell’e pronto e che non<br />

lo facesse ridere. Loro? Li avrebbe scannati tutti e due.<br />

– La galera? – urlava. – <strong>Una</strong> buona volta sarà finita.<br />

– Ormai la cosa è fatta, – insisteva la zia Maddalena.<br />

– Ah, sì? E li difendi anche? E il denaro dove lo<br />

trovi?<br />

– Il denaro? Proprio quest’anno non ci voleva certo,<br />

– disse lei remissiva. – Siamo giustificati dall’annata,<br />

Bernardo. Lo faremo all’alba, come gente in lutto.<br />

74<br />

L’uomo continuò a brontolare, ma come fa il tuono<br />

dopo la tempesta; si aggiustò il cappotto; tornarono insieme<br />

tranquilli alla capanna.<br />

Cardellino vide col cuore in festa che ormai erano<br />

rassegnati, anzi, contenti l’uno e l’altra, di essere nonni.<br />

Fu anzi sua madre a congratularsi in celia, annunziando<br />

persino che anche lei ne sentiva battere uno dentro.<br />

Cardellino a questa notizia arrossì, corse via, si accovacciò<br />

dietro un cespuglio come una lepre, bocconi. Vide<br />

alcuni timidi fili d’erba. Erano nati dal cuore della terra,<br />

a quella pioggia tardiva; doveva nascere il figlio della<br />

figlia dello zio Bernardo e della zia Maddalena: Elena,<br />

fidanzata di Serafino. Sarebbe arrivato un ospite anche<br />

in casa sua e sarebbero stati così in quattro figli. Il quarto<br />

battesimo. Restava solo da sapere se sarebbe stato un<br />

fratellino o una sorellina.<br />

Qualche settimana dopo Cardellino notò con tenerezza<br />

che erano spuntati molti altri fili d’erba. Nasceva<br />

con loro un’altra volta la speranza. Martino afferrava le<br />

bestie per il collo a una a una, se le cacciava tra le gambe,<br />

si curvava e, alzando loro le poppe, le mungeva torcendo<br />

i capezzoli verso il secchio. La pecora munta s’imbrancava<br />

di nuovo con un mezzo belato. Così una dopo<br />

l’altra. Stefano lo aiutava nella mungitura, e faceva del<br />

suo meglio con quella sola mano.<br />

Cardellino partiva con l’asino ogni mattina per il<br />

caseificio più vicino, che era uno dei tanti gestiti da Italo<br />

Bini. Pensamento era grasso e potente e il trasporto<br />

di quei bidoni pieni gli era un giuoco. Secondo Stefano,<br />

lui e il ragazzo sembravano fatti l’uno per l’altro, contenti<br />

insieme di fare la spola tra l’ovile e il caseificio e viceversa.<br />

Cardellino era solito cantare lungo il sentiero,<br />

anche nelle giornate di maltempo. Ogni mattina arrivava<br />

di buon umore a quella specie di chiesa campestre<br />

75


che era il caseificio: solo che odorava di siero, anziché di<br />

incenso. Vi si davano convegno altri asini e anche cavalli<br />

pelosi con i loro conducenti, in prevalenza giovani e<br />

ragazzi. Era possibile barattarsi l’un l’altro un giornale e<br />

qualche rotocalco, ognuno ritirava la bolletta del latte<br />

conferito, riceveva notizie, ne dava, riprendeva la strada.<br />

Cardellino era impaziente di conoscere Italo Bini.<br />

Ma Italo Bini aveva i suoi agenti e non si faceva vedere.<br />

Allora ne chiese a Onorato Bellapè, un giovane pastore<br />

che tutti chiamavano Cremlino, perché era dalla parte<br />

dei «rossi». – Italo Bini, – gli disse Bellapè – sta bene<br />

dove sta. Che ci guadagnerebbe a venire da queste parti<br />

quando abita a Roma in un grande palazzo? Giuro che<br />

gli darebbe nausea questo odore di siero e grande noia<br />

questo fumo verde. Gli basta che sia presente per lui<br />

Giuliano Bersè, che avrai visto qualche volta col giacchettone<br />

di pelle: uomo venuto di fuori alla nuda, ora<br />

può buttare milioni dalla finestra, e ha anche un figlio<br />

avvocato, il quale va predicando per le piazze che il<br />

mondo è malato e che per guarirlo occorre ritornare a<br />

Cristo. Ma ti dico io che Cristo era povero come noi,<br />

mentre Giuliano Bersè gli affari continuerà a farseli lo<br />

stesso prendendo al collo i pastori, per quanto il figlio<br />

vada predicando la povertà; e sono mezzo convinto che<br />

alla eredità non ci rinuncerà quel suo figlio come fece<br />

invece da parte sua san Francesco. Sai che cosa ci vorrebbe?<br />

Invece di chiacchiere, ci vorrebbe «lui». Ma c’è<br />

di mezzo il mare. E intanto il tempo passa; ma chi sa<br />

che dopo un’altra guerra vinta da chi dico io le cose<br />

non vadano come dovrebbero andare.<br />

Ma che cosa voleva di preciso Onorato Bellapè? Mettere<br />

tutto in comune?<br />

Discorso lungo, da non parlarne ai ragazzini, gli disse<br />

Bellapè. Se ne voleva sapere di più, o averne qualche<br />

idea, ne chiedesse a Martino Pecora che era un pastore<br />

all’antica e che forse aveva sentito parlare di un tempo,<br />

76<br />

in cui i contadini e i pastori formavano una sola famiglia<br />

a <strong>Orolai</strong> e altrove.<br />

Cardellino si rivolse al vecchio Martino, e Martino<br />

gli rispose: – Sì, c’è stata la repubblica, quando ciascuno<br />

poteva fare tutto quello che gli veniva in mente senza<br />

però disturbare il vicino. Ma allora non c’erano i treni<br />

come adesso, non c’erano i caseifici, non c’erano i<br />

fucili a retrocarica. Quelli sì che eran tempi.<br />

Il giorno di sant’Antonio Stefano si recò a <strong>Orolai</strong><br />

per riscaldarsi al grande fuoco che veniva ogni anno acceso<br />

in piazza con la legna che ogni famiglia offriva sottraendola<br />

volentieri dalla sua provvista invernale. Per lui<br />

i santi c’erano e ci dovevano restare. Era stato sant’Antonio<br />

a salvarlo durante la pesca da un peggiore infortunio,<br />

e, giacché il voto lo aveva fatto, ora era andato a<br />

scioglierlo. Era bella quella fiamma, dolce quel calore.<br />

Ognuno vi si poteva accostare, ognuno alla fine poteva<br />

portarsi a casa qualche carbone spento e un po’ di cenere,<br />

con i quali tenere a distanza il demonio e le malattie<br />

lente e sottili.<br />

Quella sera invece Cardellino si sentiva come orfano.<br />

Aggiungeva al fuoco ogni tanto un qualche fuscello<br />

che fiammeggiasse: lo vedeva farsi verme d’oro che si<br />

torceva, impallidiva, si inceneriva. Era quella la sua festa<br />

di sant’Antonio, quell’anno. <strong>Una</strong> volta, quando era<br />

bambino e non aveva ancora giurato in nome della lingua,<br />

degli occhi, dell’udito, del cuore come non più suoi<br />

– quanto tempo era passato da allora? – una volta anche<br />

lui s’era riscaldato a quel fuoco di tutti. Beato Stefano.<br />

Ma anche, povero Stefano, che aveva perduto un braccio<br />

e non se lo meritava. Aveva toccato la neve che scotta<br />

come il fuoco, era andato da ponente a levante e da<br />

levante a ponente sino a lavorare sottoterra e nelle acque<br />

vietate. Così pensava Cardellino. E lo rivedeva andare<br />

77


lungo il Toro, e gli sembrava di sentirlo cantare, anche se<br />

era assente, quella sera, lungo il fiume, come se piangesse<br />

o imprecasse. Domani, al suo ritorno, si sarebbe fatto<br />

raccontare com’era andata la festa, e questo lo consolava.<br />

Arriva la sera del domani, e Stefano non si vede.<br />

Aspetta aspetta, e Stefano non si fa vivo. Cardellino<br />

avrebbe voluto chiederne a suo padre o a uno degli altri<br />

uomini. Ma poiché nessuno ne parlava più, nessuno se<br />

ne ricordava più, forse era meglio non immischiarsene.<br />

Questo per una settimana.<br />

<strong>Una</strong> mattina, finalmente ecco Stefano di nuovo in<br />

riva al Toro che cantava e abbeverava una cavalla col suo<br />

polledrino. Era una cavalla baia, balzana ai posteriori; il<br />

figlio era sauro, di padre orientale.<br />

Cardellino s’innamorò subito del piccolo polledro,<br />

che però era troppo bisbetico e non si lasciava accarezzare.<br />

– Ti piacerebbe giocarci? – gli domandò Stefano.<br />

– Troppo presto, troppo presto. Ma ti piace davvero?<br />

– Certo, – rispose Cardellino. – Magari fosse mio.<br />

– Chi sa, – disse Stefano sibillinamente, avviando al<br />

bosco la cavalla.<br />

La cavalla riluttava, ma Stefano la mise presto alla<br />

ragione. Cardellino li vide scomparire tra gli alberi. Inseguendo<br />

un suo pensiero, ritornò alla capanna. Prese<br />

e controllò i documenti di proprietà. Quei due animali<br />

non vi erano registrati. In quelle loro carte figurava il<br />

bestiame legittimo. La cavalla e il cavallino, Stefano<br />

dunque li aveva portati via a qualcuno? Era una brutta<br />

storia; e se passava «la colonna» che era tanto meticolosa<br />

nell’esaminare quei libretti?<br />

Da quel momento Cardellino si lasciò prendere dalla<br />

curiosità di vedere il nascondiglio che Stefano aveva<br />

scelto. Lasciò passare un giorno e notò che Stefano trascorreva<br />

buona parte delle notti fuori della capanna.<br />

Quella mattina, vinto ormai dalla curiosità, Cardellino<br />

entrò nel bosco. Il bosco era silenzioso come una<br />

78<br />

chiesa al momento dell’Elevazione. A mano a mano<br />

che vi si inoltrava sentiva bisbigli di gente nascosta chi<br />

sa dove, chi sa in quale cespuglio, sopra quale albero.<br />

Le querce toccavano il cielo: alcune, antiche, sembravano<br />

di pietra, altre, dell’età almeno dei nonni che cercavano<br />

ora il sole ora il fresco sulla piazza di <strong>Orolai</strong>. I quercioli<br />

erano immobili, qua e là così fitti da dissuaderlo<br />

dall’inoltrarsi in cerca della cavalla e del suo polledrino.<br />

Le difficoltà di farsi strada in quell’intrico cominciavano<br />

già ad attenuarsi: gli occhi gli si andavano abituando via<br />

via alla penombra. Ma presto s’avvide d’essersi troppo<br />

inoltrato. Era prigioniero. Il sentiero? Sparito. Da quale<br />

parte era venuto? Non c’era uno a cui rivolgersi. Andò<br />

avanti come a tentoni. Gli occhi non gli servivano più.<br />

Pensò per un attimo a Lussemburgo, pensò ai minatori,<br />

a Stefano quando s’era fatto talpa. Dov’era Stefano?<br />

Comprese alla fine che non gli restava altro se non di<br />

chiamarlo. Il cuore gli saltò in gola a uno strido d’uccello:<br />

la paura gli fece gridare alto il nome di Stefano.<br />

Il silenzio sembrò più grande. Gridò ancora. Nessuna<br />

risposta. Si voltò e scorse un chiarore incerto: era la<br />

bocca di una grotta. Che fare? Chiamò un’altra volta.<br />

Silenzio. Rabbrividì: sempre le grotte sono abitate da<br />

spiriti. Ma una volta aveva letto che le grotte sono abitate<br />

da pipistrelli e da animali ciechi; e anche che le grotte<br />

gli scienziati le esplorano. Chiamò ancora più forte: questa<br />

volta gli sembrò che il bosco si fosse messo in ascolto<br />

con tutti i suoi alberi alzatisi in punta di piedi. Guardò<br />

in alto: scorse uno spicchio sottile di cielo. All’improvviso<br />

scoppiò un nitrito dalla parte della grotta, ma un nitrito<br />

sbagliato. Subito dopo un’ombra e un nitrito: era<br />

Stefano, che, dopo averlo beffato, rincarò: – Coraggio,<br />

Cardellino, attento agli spiriti maligni: un’altra volta bada<br />

ai fatti tuoi, però. La prima si perdona, comunque.<br />

Seguimi –. E così dicendo si diresse verso la grotta. All’imboccatura<br />

Stefano armeggiò nel buio: accese una<br />

79


lampada da minatore e riprese la strada facendogli lume<br />

di tratto in tratto. Non era una strada, era piuttosto una<br />

callaia, fiancheggiata di rovi. Passo passo si trovarono di<br />

fronte a una parete. Dall’alto, come dal parapetto di un<br />

pozzo scendeva una fune di luce: Cardellino spinse lo<br />

sguardo quanto più poté verso l’alto: vide alcune stelle.<br />

Come era arrivata la notte se fuori aveva lasciato il sole a<br />

molte e molte ore lontano dal tramonto? Questo poteva<br />

succedere solo in caso di eclissi.<br />

– Non è notte, non temere – gli fece Stefano. – È cosa<br />

che capita in ogni caso simile a chi guarda dal fondo<br />

di un pozzo. E a proposito tu, qui, ci sei stato e non ci<br />

sei stato; tu non hai veduto nulla, va bene? –. – Va bene<br />

– rispose Cardellino e subito Stefano mutò registro e con<br />

vera allegria si mise a cantare dirigendosi con la lampada<br />

accesa in mano, verso l’uscita. Così, si trovarono nel bosco<br />

e a Cardellino sembrò di essersi svegliato da un sogno,<br />

dopo quanto aveva visto e perché si trovò davanti la<br />

cavalla e il polledrino, in mezzo agli alberi: esso sciolto,<br />

essa impastoiata.<br />

Stefano spense la lampada, imboccò senza esitazione<br />

un sentiero e furono presto all’aperto. Li aspettava una<br />

sorpresa: Martino Pecora li avvertì che Massimo Ru era<br />

stato ucciso. Glielo aveva riferito uno sconosciuto che<br />

era passato poco prima, facendo il nome del «buon valente»:<br />

Gerolamo Murrazza.<br />

No, non era stato Gerolamo Murrazza a far la pelle<br />

a Massimo Ru. La gente diceva che quasi di certo Dio<br />

aveva concesso a quel «figlio di mala sorte» di entrare in<br />

Purgatorio. Questo, perché pochi momenti prima di essere<br />

ucciso, Massimo aveva fatto una buona azione. Per<br />

una buona azione Dio apre le grandi braccia al peccatore<br />

e non gli nega un posto in Purgatorio. Se non avesse<br />

dato retta al cuore, Massimo non si sarebbe fidato tanto<br />

80<br />

del pastore né si sarebbe lasciato sorprendere e uccidere<br />

da lui. Tutti sapevano il nome di questo pastore, ma<br />

nessuno lo pronunciava: lo nominavano per allusione o<br />

per perifrasi: «quello, il buon valente, il rivale» e simili;<br />

così come, invece di dire il demonio, dicevano, per tenerlo<br />

lontano, «la bestia, la volpe, lo zio» e simili. Dicevano<br />

anche: – Uccidere un cristiano è mestiere della<br />

Morte, ed è ufficio suo, datole da Dio –. E poi qui c’era<br />

di mezzo il tradimento, con l’avidità del denaro della<br />

taglia. E questo non riuscivano a perdonarlo all’uccisore.<br />

Sì, Massimo ne aveva fatto a piedi e a cavallo, ma infine<br />

da quale punto era partito? Quanti senza montura<br />

avevano cercato di ucciderlo? Uno della Giustizia, sì, è<br />

pagato per questo, è il suo dovere. Ma uno che non veste<br />

divisa, un cittadino privato che uccide per lucro è<br />

un verme della terra. Così concludevano.<br />

Dal racconto della vecchia Raimonda e da altre fonti<br />

s’era potuto ricostruire come fossero andate le cose<br />

quella notte. Era una notte di tempesta, e Massimo Ru<br />

andava a Selvaplana. Al bivio di Selvaplana, all’alba, lo<br />

aspettava il suo caro amico Teodoro Padente, un amico<br />

d’infanzia, il quale gli aveva mandato a dire che doveva<br />

avvertirlo in un orecchio di un agguato che gli si stava<br />

preparando. Questo caro amico, tutti ora lo giuravano,<br />

lo aspettava, invece, per fargli la pelle, per decorarlo di<br />

medaglia di piombo: e così riscuotere la taglia. Massimo<br />

era stato avvertito in tempo del tranello (anche questo<br />

si era saputo da qualcuno che lo aveva avvertito in<br />

tempo, che era poi la sua amante). E Massimo, tra credere<br />

e non credere, si voleva sincerare e si era diretto<br />

quella sera a Selvaplana per decorare lui l’amico di medaglia<br />

di piombo, nel caso che fosse atteso davvero da<br />

un cacciatore all’agguato.<br />

Cammina cammina, verso la mezzanotte, sotto la<br />

pioggia, fu vicino al casolare di quell’altro suo amico<br />

di infanzia, Saverio Farè, morto nella guerra che era<br />

81


terminata non molti mesi prima. Era caduto in battaglia,<br />

Saverio Farè, con onore. Era partito col cuore mezzo<br />

in festa, perché sapeva che era in viaggio il suo primo<br />

bambino.<br />

A quanto dunque raccontava la madre del valoroso<br />

soldato, Massimo picchiò alla porta a quell’ora. Pioveva<br />

a dirotto. Lo doveva avere richiamato il lume acceso e<br />

attirato il ricordo dell’amico morto in battaglia. La giovane<br />

vedova aveva partorito alcuni giorni prima; le due<br />

donne erano sole in quel casolare sperso. Tutto era avvenuto<br />

senza la levatrice, felicemente. Massimo, apertogli,<br />

si era reso conto lì per lì che esse avevano bisogno di tutto;<br />

e subito subito di una scodella di brodo, la puerpera<br />

e anche lei, la vecchia. – Allora Massimo Ru, – raccontava<br />

questa, – è scomparso sotto la pioggia che si era calmata.<br />

Il vento si era calmato anch’esso e in tanto tempo<br />

che non dormivo mi tradì il sonno. Mi svegliò, poi, un<br />

picchio: era di nuovo lui, inzuppato, fradicio, allegro,<br />

con un agnello sgozzato sulle spalle. Mi aiutò a mettere<br />

l’acqua nella pentola, riattizzò il fuoco, diceva ogni momento:<br />

«Lasciate fare a me»; mise la pentola sul treppiede<br />

e la carne nell’acqua. Allora volle vedere il bambino;<br />

mi disse: «Sembra una pera grinzosa, quanto vi somiglia,<br />

zia mia». Poi disse addio. Nella notte udii i suoi passi<br />

che si allontanavano. Mi misi a piangere non per mio figlio<br />

che è certamente nella Gloria, ma per lui piangevo,<br />

nato in mala luna. In quel punto il bambino cominciò a<br />

piangere anche lui e non la finiva più. Poco dopo una<br />

fucilata mi disse che era successo qualcosa di male a quel<br />

povero figlio. Mia nuora disse: «Non è niente di buono».<br />

Io la tranquillizzai. L’acqua nel silenzio bubbolava.<br />

La mattina c’era tutta la Giustizia vicino a casa nostra e<br />

voleva sapere questo e voleva sapere quest’altro. Che cosa<br />

potevo riferire se non che il povero morto ci aveva lasciato<br />

un po’ di denaro e portato l’agnello; e che poi gli<br />

avevano sparato? Oh, Dio gli avrà perdonato per la sua<br />

82<br />

buona azione: Dio ha il cuore d’oro… Era lì con le mani<br />

giunte sotto la guancia e con la testa sopra una pietra,<br />

che, povero figlio, aveva trascinato con le sue mani<br />

per farsene un guanciale e così morire da cristiano. L’altro,<br />

il buon valente, aveva solo pensato a colpirlo alle<br />

spalle, aveva lasciato sole le pecore ed era corso dove lui<br />

sapeva per riscuotere il denaro maledetto. Prima gli aveva<br />

dato l’agnello per noi, poi se lo era fatto pagare con<br />

la sua pelle…<br />

Nessuno sapeva davvero dove l’uccisore si fosse nascosto.<br />

Forse aveva già preso il largo col suo premio per<br />

goderselo lontano e per morire nel suo letto.<br />

Ma anche quell’avvenimento fu dimenticato in breve<br />

tempo e nei giorni seguenti Stefano riprese a cantare<br />

lungo la riva del Toro. Cardellino avrebbe voluto chiedergli<br />

notizie della cavalla e del polledrino: li avrebbe<br />

riveduti volentieri. Stefano lo deluse informandolo che<br />

madre e figlio erano ritornati in possesso del loro padrone,<br />

perché questi si era messo una mano sulla coscienza<br />

e gli aveva versato la «polizza».<br />

– Già, la polizza: anche a tuo padre e a Bernardo eccetera<br />

il governo, onesto com’è, ne diede una dopo la<br />

smobilitazione; e anche il pacco vestiario. Oh bella, erano<br />

ritornati dalla guerra vivi e mezzo nudi. Tienine conto<br />

perciò: se un giorno ti manderanno a fare la guerra,<br />

fissatelo bene in mente, cerca come prima cosa di non<br />

lasciarci la pelle; e, ammettiamo che ti andasse bene, fa’<br />

di tutto per ritornarne mutilato: per un braccio o per<br />

una gamba di meno non ti mancherà la pensione vitalizia.<br />

Te lo dico per esperienza mia, per questo moncone,<br />

per il mio cartellino penale macchiato. E così niente lavoro,<br />

niente porto d’armi. Ma il permesso di cantare<br />

non me lo toglie nessuno e anche quello di un fucile<br />

abusivo.<br />

83


Detto questo, lo condusse a una quercia vicina. Dal<br />

piede dell’albero rimosse un sasso: la quercia in quel<br />

punto era forata. Stefano spinse il braccio dentro il foro<br />

e ne trasse un fucile senza cani. Vi soffiò sopra, quasi lo<br />

baciò.<br />

– Un giorno ne avrai uno anche tu, – disse Stefano.<br />

– Toccalo, prendilo, è una piuma.<br />

– Ora siamo figli di febbraio – diceva Martino.<br />

Egli intendeva dire che si era in un mese pericoloso<br />

per il pastore.<br />

Gli uomini si assentavano molto spesso dalla capanna.<br />

Cardellino continuava a fare la spola tra l’ovile e il caseificio.<br />

Stefano s’era fatto signore col suo hammerless e<br />

ritornava ogni tanto ora con un gatto selvatico, ora con<br />

una volpe, ora con una lepre. Un giorno fu anche più<br />

fortunato: prese un cinghiale e nella capanna si fece festa.<br />

Verso la metà del mese cominciarono a passare carovane<br />

di braccianti dirette a Garosine per deviare il<br />

Matzeu, un verme, un rivoletto da nulla che non era segnato<br />

neppure nelle mappe, eppure era lui che rodeva<br />

di nascosto le fondamenta della valle e che era già riuscito<br />

a far slittare le case di Garosine. Gli abitanti erano<br />

stati ripetutamente diffidati; ma lì erano nati, dicevano,<br />

e lì volevano morire. Insieme con i lavori per la deviazione<br />

del fiume erano stati appaltati anche quelli per la<br />

costruzione d’un nuovo villaggio in un punto salvo dalla<br />

frana.<br />

Ma troppi erano i disoccupati e il lavoro non bastava.<br />

Chi non veniva assunto entrava in furore, in un<br />

furore astratto che lo spingeva a concepire i peggiori propositi.<br />

Esclusa ogni idea di togliersi la vita, ritenuta<br />

un’infamia per chi arrivava a quel mal passo e un disonore<br />

per i suoi consanguinei superstiti, esclusa l’idea anche<br />

di stendere la mano come un mendicante, umiliazione<br />

84<br />

delle umiliazioni, ogni altra tentazione trovava un terreno<br />

fertile.<br />

<strong>Una</strong> sera Bernardo ritornò alla capanna inferocito<br />

contro Fulvio Pietri, figlio dell’impresario dei lavori di<br />

Garosine. Lo chiamavano «il Gobbo» per la sua testa<br />

incassata nelle spalle e una leggera deviazione della<br />

schiena. Si sapeva che di un anno era caduto di braccio<br />

alla balia; si sapeva anche che era malato di cuore. Bernardo<br />

era fuori di sé. Lo aveva pregato e ripregato «quel<br />

tronco tarlato» di assumere Serafino, che ora aveva a<br />

carico, oltre sua madre malata e inabile, anche Elena in<br />

quello stato.<br />

Allora Nicola Meriagro si sentì come provocato a<br />

tenzone: a chi più potesse passare per sfortunato. Contesa<br />

non nuova. Quante volte sui palchi infiorati, alle<br />

feste patronali, in <strong>Orolai</strong> e nei villaggi vicini e lontani,<br />

i poeti estemporanei, chiamati a tener gara a premio,<br />

non avevano conteso sul tema del pastore e del contadino<br />

e dell’artigiano eccetera: a chi spettasse la palma<br />

del martirio e quasi un monumento in piazza e un posto<br />

segnalato, in premio, nell’altra vita.<br />

Il tema di Nicola e di Bernardo era certo diverso: e<br />

mai la giuria lo avrebbe proposto in piazza: due pastori,<br />

a chi dei due fosse più nemica la sorte. E gli altri ora<br />

formavano il pubblico, compreso Cardellino.<br />

– Soffri e crepa, soffri e muto, no – disse Nicola.<br />

– La verità è che l’hanno guardata ai raggi. Aprire, bisogna<br />

aprire… – e faceva il gesto come di tagliarsi l’addome<br />

con la mano a coltello. – I raggi… E le medicine<br />

che non ho ancora finito di pagare. I medici, l’ospedale…<br />

Siamo ricchi, no?<br />

E Cardellino pensava alla zia Lucia, moglie dello<br />

zio Nicola: la rivedeva nella sua mole: obesa, flemmatica,<br />

la chiamavano «il vascello».<br />

– Deve farsi aprire – riprese Bernardo. – Senza perder<br />

tempo. La spesa? Ora parla il Sindaco: Tu hai tante<br />

85


pecore, un cavallo e vuoi essere compreso nella lista dei<br />

poveri? Aoh! Giustizia maledetta.<br />

Qui si trovarono tutti d’accordo; anche Stefano in<br />

cuor suo; ma gli piaceva recitare il contrario standosene<br />

muto e con un sorriso sarcastico a fior di labbra. Accadde<br />

lì per lì una cosa strana, quasi paurosa. Fecero<br />

causa comune con Nicola, Antonio e Bernardo imprecando<br />

e minacciando. E che avevano fatto bene persino<br />

a sequestrare il bambino, gridavano.<br />

Cardellino vide a questo punto il vecchio servo farsi<br />

di nascosto il segno della croce; se ne accorse anche Nicola<br />

che, afferrato d’impeto un tizzone acceso, glielo scagliò.<br />

Fu Stefano a deviarlo: il tizzone urtò contro la parete<br />

di frasche della capanna mandando scintille: e già Nicola<br />

imprecava di nuovo di vergogna, e insieme di rabbia.<br />

Nonostante la <strong>stagione</strong> iniqua, anche quell’anno in<br />

quei villaggi non lasciavano passare le domeniche di<br />

carnevale senza mascherarsi da buoi e bifolchi: da mamuttones.<br />

Cardellino finalmente, come gli spettava di diritto,<br />

in una di quelle domeniche, ebbe la sua vacanza. <strong>Orolai</strong><br />

era in subbuglio e in scompiglio. Anche l’aria di neve<br />

aizzava chi stava per strada ad agitarsi per vincere il<br />

freddo.<br />

Dopo avere riabbracciato sua madre, andò da Elena<br />

per recarle i saluti dello zio Bernardo. Era curioso, strada<br />

facendo, di vederla come fosse cambiata. Ma fu deluso:<br />

Elena era andata in città in cerca di farsi assegnare<br />

alla Maternità e Infanzia un corredino per suo figlio<br />

che era vicino ad arrivare. Pensò al grembo di sua madre<br />

e al battesimo, ai due battesimi: due feste con dolci<br />

fatti in casa e pane soffice, non biscotto, come quello<br />

dell’ovile: e corse da Domenico. Lo trovò in casa che<br />

era sul punto di uscire.<br />

86<br />

Andarono dunque insieme a vedere i mamuttones.<br />

C’era sempre più aria di neve. Aria di tempesta.<br />

I mamuttones erano tutti incappottati e ciascuno<br />

con la faccia coperta da una maschera di corteccia o di<br />

sughero. Parte formavano un armento col campano al<br />

collo, con una bandoliera di sonagli e con la vita stretta<br />

da cinghie e da funi; parte la facevano da bifolchi che<br />

seguivano quell’armento tenendo in pugno le redini e il<br />

pungolo. Erano neri, luttuosi, bestie e uomini: un armento<br />

di prigionieri che a colpi ritmici di spalla scotevano<br />

campani e bubboli e battevano il passo insieme,<br />

tristi, rassegnati, come dicessero: è finita. I bifolchi erano<br />

incomprensibilmente tristi non meno dei prigionieri,<br />

come condannati a guidarli per tutta l’eternità. Lo<br />

stesso pubblico assisteva al loro passaggio, come a quello<br />

di un funerale.<br />

Più tardi Cardellino poté anche sorridere: alcuni<br />

bambini, come se non appartenessero al villaggio di<br />

<strong>Orolai</strong>, si erano improvvisati mamuttones, ma senza<br />

campani né bubboli né cinghie: gridavano in coro: dindon,<br />

din-don con bandoliere di frittelle cotte nell’olio<br />

di lentischio. Sulla sera cominciò a nevicare, e <strong>Orolai</strong><br />

diventò quasi bello.<br />

Fu una nevicata massiccia.<br />

Non c’era forse più niente da fare quell’anno. Si doveva<br />

morire tutti, e basta. Stefano non usciva più dalla<br />

capanna e occupava il suo tempo a preparare col coltello<br />

maschere di sughero. Lavorava con veleno aiutandosi<br />

con le ginocchia e ingegnandosi con la mano sinistra.<br />

Suo padre e gli altri due uomini avevano abbandonato i<br />

greggi al loro destino: ci pensasse Martino, se voleva;<br />

scomparivano e riapparivano misteriosamente e ogni<br />

volta si provavano le maschere di Stefano. Cardellino ne<br />

avrebbe voluto avere una anche per sé; ma non tardò a<br />

87


comprendere che di soppiatto si preparavano a una di<br />

quelle imprese che si chiamano ominias, dove un uomo<br />

dà la misura di quanto è valente.<br />

La neve continuava a cadere. Martino Pecora era<br />

l’unico che la considerasse e che, ogni tanto, guardando<br />

il cielo, si facesse in quattro per le pecore.<br />

S’avvicinava l’ora dell’impresa. Cardellino lo indovinò<br />

dai quattro cavalli sellati che una sera sparirono<br />

con loro. La capanna divenne grandissima: il fuoco<br />

non la riscaldava: con la sola compagnia di Martino cominciò<br />

a lasciarsi soverchiare dalla paura. Il cuore non<br />

gli ubbidiva più. Seguiva il viaggio di quei cavalieri armati.<br />

Soltanto Stefano non era armato del suo hammerless.<br />

A quell’ora la neve aveva certamente imbiancato i<br />

loro cappotti e le groppe dei cavalli. Li accompagnò col<br />

pensiero per ore e ore e intanto Martino, cosa che non<br />

aveva fatto mai, fingeva di dormire e scorreva le poste di<br />

un rosario di nascosto. A una cert’ora i cani si ripararono<br />

tutti nella capanna. Cardellino si sentì più sicuro.<br />

Gli occhi gli si chiusero. Si trovò su una strada bianca<br />

di polvere fredda: era neve sfarinata. Cavalieri con in<br />

groppa le loro spose; e uomini e donne e bambini e<br />

mendicanti vi camminavano senza lasciare un’impronta.<br />

E Cardellino diceva: – Siamo tutti morti. Morti anche<br />

i cavalli –. C’era da averne paura, ma aveva un cuore<br />

da pastore. Un labaro precedeva il corteo, da solo,<br />

verde come la prima erba. E il suo cuore era con san<br />

Francesco: – Fateci la grazia di un buon carnevale –<br />

chiedeva. Ma san Francesco non rispondeva. Tuttavia<br />

avrebbe risposto – a quanto diceva quella gente – appena<br />

fosse apparsa la sua casa con in cima la croce. E cammina<br />

cammina, la gente cantava canzoni tristi di dietro<br />

le maschere, finché la voce del santo si fece sentire come<br />

una campana che parlasse: Cardellino, Cardellino – dindondava<br />

– tu verrai presto in paradiso. Allora Cardellino<br />

si rammentò chiaramente che parole simili Gesù Cristo<br />

88<br />

le aveva rivolte dalla croce al buon ladrone: dunque lui<br />

non era ancora morto, era il solo vivo in mezzo a tanti<br />

cavalieri malinconici, a tante malinconiche spose, e<br />

uomini e donne e bambini e mendicanti malinconici<br />

tutti, e tutti a piedi, e tutti morti. Così si risvegliò di soprassalto.<br />

Ma i tre non erano in viaggio per <strong>Orolai</strong> dove passare<br />

quell’ultima domenica di carnevale. Andavano a<br />

far carnevale a Garosine, alla terra che cammina. Il più<br />

allegro, ma di un’allegria fosca, era Stefano che canticchiava<br />

canzonacce di guerra e di pace, di sotto il cappuccio.<br />

Due o tre volte suo fratello lo rimbeccò. A chi<br />

voleva darla ad intendere che era in vena di sberleffi?<br />

Doveva comprenderla una buona volta che erano in<br />

ballo. In un ballo molto serio. Le scorciatoie si incastravano<br />

l’una nell’altra, sconvolte, sassose, piene di insidie<br />

per la neve. Stefano continuava a canticchiare e il fratello<br />

in un impeto d’ira gli gridò: – Basta per Dio, spàrati<br />

–. – Magari – rispose Stefano, – avessi un fucile,<br />

come voi –. Successe un lungo silenzio. Ora Stefano ripensava<br />

a certe notti di guerra, con la neve; e con a sua<br />

disposizione uno, dieci fucili e la compagnia di certi<br />

morti, povera carne cristiana. «Pazienza, Stefano» si diceva.<br />

E gli venne quasi da ridere e da piangere insieme<br />

al ricordo di quei giorni e al ricordo che Cardellino diceva<br />

pazienza a sé e all’asino nel fare la spola tra l’ovile e<br />

il caseificio. «Che bell’età, Cardellino» almanaccava ora<br />

Stefano malinconicamente, «che bell’età la tua, beato<br />

te, che san Francesco ti salvi dall’andare in guerra». Gli<br />

altri tre erano anche essi in preda a pensieri amari: le<br />

loro persone, la famiglia e ancora la famiglia, e san<br />

Francesco, e ancora san Francesco. Perché san Francesco<br />

è l’unico dei santi che comprenda i pastori e li protegga.<br />

Era forse loro la colpa? Che cosa sono le cambiali?<br />

89


Sentenze di morte. Le cartelle dell’esattore? Anch’esse<br />

sentenze di morte. Non erano già stati messi in croce?<br />

Volevano forse diventar ricchi? Ma san Francesco non<br />

aveva bisogno di quelle domande, eppure gliele facevano<br />

lo stesso e glielo perdonasse, perché rispondesse loro<br />

di sì, che li avrebbe aiutati a portare a termine l’impresa<br />

con le mani nette di sangue. No, san Francesco<br />

non poteva volere la loro rovina: che andasse in fumo<br />

il lavoro di tutta la loro vita, in quella prima <strong>stagione</strong><br />

della loro indipendenza. Lui era un santo vero, un santo<br />

di cuore.<br />

Alla svolta di Arulè era già l’alba. Proprio in quei<br />

pressi sbucò Serafino che li condusse a una grotta. Vi<br />

era un gran fuoco acceso, si rifocillarono, bevvero del<br />

vino, si distesero sul terreno per un breve riposo.<br />

Serafino li risvegliò dopo qualche ora: e i quattro<br />

ripresero la strada per Garosine. Serafino stette a guardarli<br />

finché non furono spariti; poi si rimbucò nella<br />

grotta.<br />

Il terreno era insidioso, tutto piccoli baratri, fossi e<br />

fenditure. La neve era gelata: i cavalli camminavano<br />

guardinghi. Fecero lunga strada e furono finalmente in<br />

vista del villaggio. Venivano già gridi e un suono di fisarmonica:<br />

il ballo era incominciato. Si coprirono i volti<br />

con la maschera, si calarono il cappuccio, si diressero<br />

a Garosine. La piazza ribolliva di mamuttones. Ogni<br />

tanto un manipolo faceva prigioniero uno spettatore e<br />

lo condannava a pagare da bere conducendolo a una<br />

canova vicina. I quattro si mescolarono al ballo diabolico<br />

dandosi ogni tanto avvisi e facendosi segni. A mano<br />

a mano il ballo divenne frenetico. A un tratto, il Gobbo:<br />

e i quattro lo fecero prigioniero a volo. Il prigioniero<br />

non si ribellava, si lasciava anzi portare in braccio<br />

con grande allegria. Non ebbe il tempo di raccapezzarsi<br />

che si trovò bendato, e poco dopo sopra un cavallo, in<br />

arcione, abbracciato dall’uomo che stava in sella.<br />

90<br />

Le ore passavano e la neve continuava a cadere senza<br />

vento al monte e al piano, seppelliva le pecore affamate<br />

nel loro recinto, schiacciava la capanna. I cani si erano<br />

del tutto arresi e ora si contendevano un posto accanto<br />

al fuoco. Martino col rosario in mano gettava ogni tanto<br />

un’occhiata fuori dell’usciolo e biascicava scongiuri.<br />

Cardellino gli guardava le mani ossute e a rastrello, cercava<br />

le preghiere dell’infanzia e non le trovava: non gliele<br />

lasciava trovare il pensiero di dove essi fossero a quell’ora<br />

e che cosa fosse loro successo. Guardava i cani<br />

arresisi come gatti, i cani gli rispondevano con sguardi<br />

smorti. Di quando in quando il silenzio era incrinato<br />

dal gemito, dallo schiocco di qualche tizzone morso dalle<br />

fiamme. Ogni volta un tuffo al cuore di Cardellino.<br />

A mano a mano che s’avvicinava la sera cominciarono le<br />

apparizioni. <strong>Una</strong> volpe mise il muso all’usciolo della capanna<br />

ma non entrò, forse per la paura dei cani: i cani<br />

non le abbaiarono, ma la volpe non ritornò indietro e<br />

se ne andò a morire chi sa dove. Arrivò una lepre, e fu<br />

lo stesso: anch’essa non entrò e scomparve per andare a<br />

morire chi sa dove. Passò una cerbiatta, s’affacciò, stette<br />

alquanto incerta, poi scosse la bella testa, parve dire:<br />

– Morire si deve morire – ed entrò. I cani non le fecero<br />

nulla. Il cuore di Cardellino cominciò a battere come alla<br />

fiaba del Mondo Sottosopra: «C’è una notte dell’anno,<br />

la notte del Santo Nommai che cessano tutti i guai,<br />

ma gli uomini dormono alla morta e all’alba quando si<br />

risvegliano se li ritrovano alla porta…». Che succedeva?<br />

Poi comprese che tutto era un giuoco crudele della neve.<br />

Che loro erano ancora in viaggio, che le pecore morivano,<br />

che sua madre era lontana in pensiero per lui,<br />

per tutti loro. E Domenico? Pensava, Domenico, a lui,<br />

alla neve che li seppelliva? E loro dove erano, che cosa<br />

pensavano a quell’ora? La neve continuava a cadere, i<br />

cani erano invecchiati, la cerbiatta sonnecchiava a testa<br />

bassa, la neve continuava a cadere, la notte si avvicinava.<br />

91


Il fuoco se ne moriva: anche se la sua fiamma guizzava,<br />

era svigorito il suo calore e sembrava il moribondo del<br />

quale aveva sentito dire tante volte che proprio in quegli<br />

ultimi momenti che sta per spegnersi come una candela<br />

consunta, l’anima gli si riaccende in un guizzo e lui dice<br />

esultante: – Sento che sono guarito –. La neve li seppelliva.<br />

La morte era vicina, fredda come la neve. La neve…<br />

All’improvviso si alzò nel silenzio un richiamo incredibile:<br />

– Aoh, aoh –. Martino, convinto di essersi ingannato,<br />

domandò a Cardellino: – Hai sentito? –. Cardellino<br />

non ebbe il tempo di rispondergli di sì, che già la<br />

voce arrivò più da vicino: – Aoh, c’è gente? –. E nello<br />

stesso tempo apparve davanti all’usciolo un fantoccio di<br />

sale, un uomo vestito di neve, che disse: – Grazie a Dio<br />

– e si scrollava di dosso la neve. Entrò. I cani non si<br />

mossero, la cerbiatta nemmeno. – Grazie a Dio – sospirò,<br />

liberandosi da una bisaccia di utensili di faggio:<br />

mestole e vassoi. Già rianimato dal calore, notò la cerbiatta<br />

e i cani ed esclamò: – Si sono arresi, poveri animali<br />

–. E quasi spariva in una nuvola di fumo: fumava<br />

dai piedi che aveva fasciati di stracci, fumava dalla casacca,<br />

fumava dai capelli.<br />

– Come mai? – gli domandò Martino.<br />

– Mi ha sorpreso in mezzo alla strada che ero vicino<br />

ad Austalé, – rispose il mercante, – mi si è girato l’orizzonte,<br />

ho camminato all’incerta, non sono pratico dei<br />

luoghi. Sparitami la strada principale, ho continuato a<br />

camminare per ore, mi sono fasciato i piedi stracciando<br />

una coperta che avevo da anni per i miei viaggi, non ho<br />

incontrato né vivi né morti… Ora sono qui, grazie a<br />

Dio. Che tempo, eh, – concluse massaggiandosi i polpacci.<br />

E, aspettato invano una risposta, domandò: – Come<br />

mai, così soli?<br />

Allora Martino fu pronto a mentire:<br />

– Gli uomini sono fuori per dare le frasche alle pecore.<br />

92<br />

La notte era già arrivata. Tutto arrivava. Loro soli<br />

non arrivavano… E i pensieri di Cardellino andavano<br />

e venivano, partivano e ritornavano. Si erano smarriti?<br />

Avevano trovato rifugio in qualche capanna col fuoco<br />

acceso? Come era andata?<br />

Martino intanto aveva messo al fuoco la graticola<br />

con sopra qualche fetta di lardo. Il mercante trasse dalla<br />

sua bisaccia del pane e cominciò ad affettarlo con un<br />

coltello a punta. Martino accostò al fuoco anche una<br />

ciotola piena d’acqua e sbirciava la cerbiatta. L’ospite<br />

offrì del suo pane: il ragazzo e il vecchio lo rifiutarono<br />

con un diniego della testa. L’altro si servì dalla graticola<br />

con la punta del coltello, cominciò a masticare e<br />

gettava di tanto in tanto qualche boccone ai cani attento<br />

a non farli litigare. La cerbiatta si era inginocchiata<br />

in fondo alla capanna. Martino mise un dito<br />

nella ciotola; disse: – È tiepida –. Cercò la cerbiatta, le<br />

si accostò, si chinò, la accarezzò con le sue mani tremule,<br />

la scosse per darle da bere almeno un po’ di<br />

quell’acqua tiepida, si tirò su sospirando. – Non c’è<br />

più, – disse. Allora il mercante propose di non buttarla<br />

via, ché era carne mandata da Dio. Cardellino balzò<br />

in piedi gridando: – No, no –. Il mercante interrogò<br />

rapidamente con gli occhi Martino: Martino rispose:<br />

– È fatto così, questa creatura, ha ribrezzo del sangue,<br />

non è altro. Si chiama Vincenzo, ma noi lo conosciamo<br />

come Cardellino –. Cardellino aveva ripreso il suo<br />

posto a sedere e teneva nascosto il volto tra le mani. Il<br />

mercante disse: – Se è così, se è così… – e non sapeva<br />

aggiungere altro, e intanto copriva delicatamente la<br />

cerbiatta col suo gabbano. Poi, come riprendendo il filo<br />

del discorso e con l’intenzione di allontanare dalla<br />

mente di Cardellino l’idea del sangue, disse: – Che<br />

tempo, eh! Senza più regola né misura. Le stagioni sottosopra.<br />

La siccità ieri, la neve oggi, l’alluvione domani,<br />

male sopra male. Ora s’imputa la bomba atomica,<br />

93


ma io poco ci credo. Se ne parlava, di queste stagioni<br />

rovesciate da quando io ero ragazzo come te, Cardellino.<br />

E te ne posso dare la prova raccontandoti una storia<br />

di allora. Ce la raccontavano soprattutto quando,<br />

venuto settembre, cominciava il castigo della siccità come<br />

quest’anno. Era la Madre che parlava alla Montagna.<br />

Ma forse tu la conosci già, Cardellino –. Cardellino<br />

istintivamente si aprì scostando le mani dal viso. Il<br />

mercante colse sorridente un segno di no e disse: – E,<br />

dunque, non pioveva da mesi e mesi, e la terra si era<br />

tutta spaccata. E la Madre corse dal pastore e gli disse:<br />

«Pastore, salvami il bambino che muore, dammi un po’<br />

di latte». Rispose il pastore con la voce dolente: «Cristiana,<br />

guarda il prato, guarda il cielo: mi sono nati gli<br />

agnelli, e gli agnelli mi sono morti perché le madri erano<br />

asciutte. E molte di esse sono morte di fame e di sete.<br />

Perdonami, cristiana». Corse la Madre al ruscello e,<br />

da tanto che era disperata, cominciò a rimproverarlo:<br />

«Hai fatto morire la pecora e il suo agnello, così mio figlio<br />

morirà per colpa tua». E il ruscello le mostrò il suo<br />

greto che sembrava un ossario e disse: «Vedi come sono<br />

ridotto, perdonami, sorella». Corse la Madre più disperata<br />

che mai dalla Montagna, le si inginocchiò davanti<br />

e disse: «Tu che hai la provvista nascosta, da’ l’acqua al<br />

ruscello, che la dia alla pecora, che dia il latte all’agnello,<br />

e a mio figlio che muore». La Montagna sospirò: «Con<br />

tutto il cuore lo farei, cristiana; ma una goccia ch’è una<br />

goccia non mi è rimasta, colpa del pecoraio, colpa del<br />

carbonaio, colpa del taglialegna, colpa della capra, colpa<br />

del cattivo che ha appiccato l’incendio. Perdonami,<br />

cristiana». Madre e figlio morirono, come la pecora e il<br />

suo agnello.<br />

Il mercante si avvide subito che avrebbe fatto meglio<br />

a non raccontarla, si pentì di aver fatto scendere<br />

un velo di mestizia sul volto del bambino e cercò di rimediare:<br />

– Non disperiamo mai, però, non disperiamo.<br />

94<br />

I boschi possono ritornare, con l’aiuto di Dio, se l’uomo<br />

si aiuta. E se l’uomo è di buona volontà, allora anche<br />

i Santi si muovono a cuore sicuro: non gli sembra<br />

vero di perorare una causa già vinta, e a Dio non sembra<br />

vero di aprire la sua mano come un fiore.<br />

Cardellino mandò subito un pensiero a san Francesco,<br />

al santo dei pastori. Dove erano essi a quell’ora?<br />

Il mercante sentì il suo pensiero? Chi sa. Domandò il<br />

mercante: – Ma questi uomini non ritornano? –. Rispose<br />

Martino: – Ho detto che hanno molto da fare,<br />

ne avranno fino all’alba –. Disse il mercante: – È troppo<br />

giusto. Allora, ci possiamo stendere a dormire, la<br />

notte è fatta anche per questo; se pure restassimo a occhi<br />

aperti, non per questo cesserebbe di nevicare. Speriamo<br />

che Dio aiuti tutti in questa notte, speriamo. Loro<br />

stanno facendo di tutto, dunque, all’addiaccio – e<br />

nel tempo che aveva impiegato a dire questo, aveva srotolato<br />

una stuoia per sé, una per Cardellino, e aggiunto<br />

legna al fuoco. Si sdraiò. Anche Cardellino si distese,<br />

dandogli le spalle. In quel punto si levò un po’ di vento:<br />

lo si comprese dal frusciare della neve: Cardellino si<br />

mise ad ascoltare, mandò un pensiero a san Francesco<br />

sperando che venisse a trovarlo in sogno per consolarlo<br />

con una risposta, con un sorriso. La musica, ora, era<br />

dolce, anche il fuoco aveva ripreso l’antico vigore, venne<br />

furtivo, a passo scalzo, il Sonno e gli stese addosso il<br />

suo mantello. Era Martino che lo aveva coperto cautamente<br />

con un sacco di lana e che aveva fatto sdraiare<br />

sui suoi piedi uno dei cani, il più peloso.<br />

Quando si risvegliò stentò a credere ai propri occhi.<br />

Gli uomini dormivano pesantemente sulle stuoie: suo<br />

padre, lo zio Bernardo, lo zio Nicola, Martino stesso.<br />

Soltanto Stefano mancava. Meraviglia, il mercante era<br />

sparito: eppure non se lo era sognato; sparita anche la<br />

cerbiatta: eppure era entrata poche ore prima nella capanna<br />

ed era morta senza un lamento. Meraviglia anche:<br />

95


fuori della capanna, oltre l’usciolo, splendeva la neve, ma<br />

la musica del nevischio di poche ore prima era cessata.<br />

La stanchezza delle sere avanti, la contentezza per il ritorno<br />

di suo padre e degli amici, il tepore della capanna<br />

furono più forti della curiosità di approfondire il mistero<br />

di tante assenze: gli occhi gli si chiusero. E san Francesco<br />

disse a lui e a Martino: – Vi voglio con me in paradiso<br />

–. A lui non sembrò vero di poter fare subito<br />

quella scampagnata e disse di sì; Martino, invece, rispose:<br />

– Per me accetterei l’invito, ma come si fa? Lasciare<br />

sole le pecore, lo sapete bene che c’è la neve e che, se sotto<br />

la neve c’è pane, sotto la neve la pecora muore, quando<br />

il pecoraio non l’assiste anche a costo di distruggere il<br />

bosco –. Allora san Francesco si strinse nelle spalle e<br />

sparì. E lui, Cardellino, a quella conclusione, rimase<br />

scontento e insieme contento: era un’occasione sfumata,<br />

era una scortesia a san Francesco; ma anche Martino<br />

aveva ragione: non poteva mancare alla consegna che gli<br />

avevano dato loro, prima di partire. Dove erano a quell’ora?<br />

Gli rinasceva l’angoscia della loro sorte e gli crebbe<br />

a tal punto che si svegliò di soprassalto.<br />

Lo avevano svegliato forse anche i rumori degli uomini<br />

dentro la capanna. Fece in tempo a vedere suo padre<br />

e gli altri due uscire e dirigersi verso il bosco. Si<br />

alzò, li vide internarvisi. Poco dopo ne sbucò Stefano<br />

che gli sorrise e gli fece un cenno allegro, come si fa al<br />

cane quando lo si chiama guardandolo negli occhi e<br />

stropicciando pollice e indice della mano tesa in avanti.<br />

Cardellino gli corse incontro allegramente. Ma, appena<br />

gli fu vicino, notò che Stefano si era rannuvolato come<br />

se si fosse d’un tratto rammentato delle sue disgrazie: la<br />

guerra, la neve rovente, la miniera, il rio proibito, il<br />

braccio perduto.<br />

Poi si rinfrancò. Stefano gli gettò il braccio sano<br />

sulle spalle, lo attirò a sé e cominciò a parlargli all’orecchio:<br />

– Un’imbasciata importante per te. Devi partire<br />

96<br />

subito, andare al caseificio per far controllare queste<br />

bollette. Non ci quadrano, ci dev’essere uno sbaglio.<br />

Saranno quattro soldi, ma per gente come noi e in quest’annata…<br />

Nello stesso tempo, consegnerai a Serafino,<br />

che troverai lì, questa fiaschetta di sughero: è il<br />

mio dono di nozze, altro non ho potuto, ma c’è la storia<br />

che ho scritto a punta di coltello: la casetta, la sposa<br />

alla porta, è il mio augurio, che la Fortuna lo assista –.<br />

Così dicendo, gliela consegnò. Ebbe un attimo di esitazione,<br />

poi disse: – Ma infine, non siamo tutti una famiglia?<br />

Non ci devono essere segreti fra noi. Dal momento<br />

che hai giurato, che sei giudizioso… –. Riprese<br />

in mano la sua fiaschetta, se la accostò al petto e la<br />

tenne stretta col moncone, diede con la sinistra un giro<br />

a un cerchio: la pala circolare del fondo gli rimase<br />

in mano e gliela mise avanti come un vassoio. Sopra<br />

c’era un biglietto. – Leggilo pure, – disse. Cardellino<br />

prese e spiegò il biglietto. Era una letterina. La scrittura<br />

era di mano istruita. «Caro padre», lesse con gli occhi<br />

Cardellino, «mi trovo vivo e sano in mani che non<br />

mi fanno mancare nulla. Attento a non avvertire la<br />

Giustizia: le cose si complicherebbero. Deposita entro<br />

tre giorni da quando riceverai questo biglietto cinque<br />

milioni nella grotta di Pietrafitta. Per te non sono nulla,<br />

per me… lo sai. Mi raccomando a te con tutto il<br />

cuore. Tuo figlio Fulvio».<br />

Cardellino cominciò a tremare. Stefano gli tolse di<br />

mano il biglietto, lo piegò, lo rimise al suo posto, armeggiò<br />

col cerchietto, disse: – Ecco fatto –. Lo frustò<br />

con lo sguardo, riprese imperioso: – Ora, siamo in ballo:<br />

cambiali, debiti, disastro… ciascuno per sé e Dio<br />

per tutti. Va bene? Va’, scuotiti e in gamba –. Gli diede<br />

un leggero colpo sulla spalla. Cardellino si avviò. Stefano<br />

lo richiamò subito e gli disse: – Prendi anche le bollette.<br />

Serafino sa anche di queste. Va’, torna presto, sono<br />

qui ad aspettarti; ti farò vedere la tana, al ritorno…<br />

97


Cardellino partì spedito. Qualcosa, qualcuno gli dava<br />

ora la smania di far presto, di non fare attendere Serafino.<br />

La neve si scioglieva, il cielo si liberava già dai<br />

suoi veli lividi. Gli fu presente a un tratto che la fretta<br />

gliela metteva la contentezza che il prigioniero fosse vivo<br />

e sano, che gli uomini non gli facessero mancare nulla,<br />

che presto sarebbe stato restituito a suo padre. Entro tre<br />

giorni da quando riceverai questo biglietto… Quanto<br />

prima incontrerò Serafino, tanto meglio per quello della<br />

tana e per tutti. I debiti, i disastri, le cambiali di Prospero<br />

Sio. Di quando in quando gettava uno sguardo alla<br />

fiaschetta: alla casetta incisa a punta di coltello, alla sposa<br />

sulla porta, faceva una corserella, non vedeva l’ora di<br />

arrivare, di passare tutto a Serafino, di sentirsi libero da<br />

quel peso importante, di ritornare, di vedere in faccia<br />

quello della tana. La neve si scioglieva, qualche ruscelletto<br />

cominciava a brillare come un filo d’argento. E cammina<br />

e affretta, e pensa e rimugina, ecco il tetto del caseificio:<br />

il comignolo fumava. Serafino era lì. Poche le<br />

persone. Non c’era lo scompiglio di prima della nevicata:<br />

la neve aveva ucciso molte pecore, le superstiti erano<br />

rimaste secche, in quei giorni e stentavano a rianimarsi.<br />

Quel crocchio era di giovani mandati dagli anziani forse<br />

a chiedere notizie: se avrebbero chiuso la campagna,<br />

o a chiudere i conti, o a chiedere che cosa dovevano fare,<br />

chi sa. Avvicinatosi, Cardellino ebbe un tuffo al cuore:<br />

si parlava del sequestro del Gobbo. Uno soprattutto<br />

sembrava assediato: – La Giustizia è tutta a Garosine.<br />

La caccia è incominciata. Uno ne incontrano, uno ne<br />

fermano. Interrogatori che non finiscono mai… Trovarne<br />

uno che non abbia un alibi in tasca sarà difficile; e,<br />

chi ha fatto la cosa, di alibi ne avrà da vendere. Tracce?<br />

È stato fatto sotto la neve che cadeva, e la gente era tutta<br />

ubriaca. Un bello scherzo di carnevale. Ma infine…<br />

Serafino si avvicinò a Cardellino e gli chiese a voce<br />

alta le bollette. – Che carriera, – gli disse un conoscente;<br />

98<br />

– sei diventato segretario di tuo suocero: la contabilità,<br />

grazie a Dio, non ti darà molto da fare, quest’anno. A noi<br />

no, di certo… –. La fiaschetta scottava in mano a Cardellino:<br />

la teneva il più possibile nascosta alla curiosità<br />

di quel crocchio. Serafino gliela prese in silenzio, la ripose<br />

negligentemente nella sua bisaccia: – Va bene, – gli<br />

disse sottovoce, – di’ a mio suocero che Elena sta bene e<br />

lo saluta; addio.<br />

Cardellino riprese la sua strada. Non si voltò. Ora<br />

era più tranquillo: il suo dovere lo aveva fatto. Tutto<br />

sarebbe finito in un momento. Niente interrogatori,<br />

niente arresti, niente fermi, niente spari, niente ferite,<br />

niente sangue. L’uccello sarebbe ritornato al suo nido.<br />

Le cambiali pagate, il tempo bello, la tranquillità in casa<br />

e nella capanna, la festa del battesimo del figlio di<br />

Serafino e di Elena, e quella per la nascita nuova in casa<br />

sua, e la moglie di zio Nicola guarita, avrebbero ricomperato<br />

le pecore in sostituzione delle morte, Stefano<br />

non avrebbe più parlato con rancore delle sue disgrazie,<br />

avrebbe detto: – La Fortuna si è pentita – come aveva<br />

letto due anni prima nel suo libro: di quel legnaiolo<br />

perseguitato dalle disgrazie che aveva la pazienza di<br />

Giobbe e che alla fine, nella gamba di un tavolino di<br />

noce tarlato che gli aveva lasciato in eredità un vecchio<br />

amico burlone nel suo testamento, rinvenne un gruzzolo,<br />

una colonnina di monete d’oro lunga quanto era<br />

lunga l’anima di quella gamba di legno tarlata, e disse:<br />

– La Fortuna si è pentita –. Il maestro diceva che non è<br />

vero che la Fortuna vuole fare tutto, bisogna che uno si<br />

dia anche da fare, e resistere alle avversità altrimenti la<br />

Fortuna fa una piroetta e via da un’altra parte, ché così<br />

le ordina Dio. La Fortuna… E l’isola, a Domenico,<br />

non gli era arrivata come un dono? Era figlio di fortuna,<br />

Domenico. In questa ultima circostanza la neve<br />

gliela aveva protetta: sotto la neve pane, ma la pecora<br />

muore sotto la neve…<br />

99


In questi e altri pensieri simili arrivò alla capanna.<br />

Stefano era lì di sentinella. Comprese subito che Cardellino<br />

aveva portato a termine la consegna, gli andò incontro,<br />

gli passò il braccio valido sulle spalle, lo condusse<br />

per la radura: il sole era caldo, aveva già sciolto ogni<br />

ghiacciolo che non fosse ancora nelle ombre. Stefano<br />

non parlava. Non gli chiedeva nulla. Allora Cardellino<br />

disse: – Manda a dire Serafino al suocero che Elena sta<br />

bene e che lo saluta –. Stefano non rispose nulla. Camminava,<br />

Stefano, tenendogli strette le spalle, come l’Angelo<br />

che guida Tobia. La figura era nel libro stesso dove<br />

il legnaiolo diceva: – La Fortuna si è pentita –. Quel silenzio<br />

cominciò a impensierire Cardellino. Arrivati al<br />

bosco, Stefano staccò il suo fucile da un tronco d’albero,<br />

lo imbracciò. «Ora», pensò Cardellino, «mi condurrà<br />

alla tana». La tana doveva essere la grotta dal fondo<br />

della quale si vedeva il cielo stellato anche di pieno<br />

giorno. Si meravigliò: Stefano prendeva un’altra direzione,<br />

lo conduceva verso il fiume. Se ne udiva già il gorgoglio.<br />

Il Toro era già in corsa. Giunti alla riva, Stefano<br />

glielo indicò; disse: – Era malato di cuore, non gli ha<br />

resistito, è in viaggio, già lontano.<br />

– No, no, perché l’hai fatto, che cosa ti aveva fatto?<br />

– gridò Cardellino: e già correva lungo la riva, in gara<br />

col fiume.<br />

Allora Stefano si lanciò a correre dietro di lui e gridava:<br />

– Fermati, dove vai? Fermati o ti…<br />

Ormai Cardellino era in preda a due paure: a quella<br />

che san Francesco li avesse abbandonati, e a quella che<br />

Stefano, prendendolo, lo percuotesse e lo gettasse nel fiume.<br />

Stefano correva e gridava, Cardellino fuggiva atterrito.<br />

Stefano, invelenito, uscì in una maledizione, si fermò,<br />

imbracciò il fucile, lo levò alto in aria, fece partire due<br />

colpi a spavento. Cardellino sfagliò, scivolò, cadde nel fiume.<br />

Stefano diede un alto grido, lanciò l’arma nel fiume,<br />

vide sparire Cardellino, si mise a correre lungo la riva, ma<br />

il fiume non si fermava, andava, correva verso il mare.<br />

100<br />

I due corpi viaggiarono insieme per lungo tratto.<br />

Poi, si divisero la sorte. Il prigioniero non fu più ritrovato.<br />

Cardellino, invece, si arenò nei pressi dell’isola del<br />

suo migliore amico.<br />

Fu il padre di Domenico a ripescarlo dal fango, a<br />

riportarlo sul carro a buoi, lentamente perché il piccolo<br />

morto non patisse dei sobbalzi, lo depose sulle braccia<br />

della madre, alla porta della casa piena di pianto. Le<br />

campane rintoccavano lente: prima il grido della minore,<br />

come quello di un uccello ferito, ripetuto a intervalli<br />

più volte, poi un accordo con la maggiore ripetuto anch’esso<br />

più e più volte, infine di nuovo il grido della<br />

minore. Passava quel pianto sui tetti di <strong>Orolai</strong> sotto un<br />

cielo di cristallo.<br />

Ora Cardellino era composto sulla cassapanca, nella<br />

stanza del fumo. Così tutti potevano vederlo dalla strada.<br />

Sua madre, seduta per terra, con le mani sul ventre<br />

gonfio, comandava il coro delle donne, che, sedute per<br />

terra anch’esse, facevano corona. Di tanto in tanto una<br />

si alzava e cantava: «Cardellino, di’ a Francesco che l’abbiamo<br />

sempre nel cuore». La madre aveva il privilegio di<br />

gridare da sola: «Figlio, figlio mio». Poi si levava un’altra<br />

e cantava: «Cardellino, di’ a Elisabetta che l’abbiamo<br />

sempre nel cuore». E la madre aveva il privilegio di gridare<br />

da sola: «Figlio, figlio mio». E ognuna mandava un<br />

saluto al suo morto più caro, e ognuna poi cadeva a sedere<br />

sulla terra dura.<br />

Gli amici di Cardellino, molti dei quali erano ancora<br />

scalzi, venivano a guardare e fissavano in pianto<br />

quelle sue scarpe nuove, rivolte verso l’uscita, sprecate.<br />

E il morto era lì, col petto fermo, sempre lì e già tanto<br />

lontano. Solo Domenico non si faceva vedere: voleva<br />

tutto per sé il ricordo del suo più caro amico.<br />

101


BIBLIOTHECA SARDA<br />

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