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ANTOLOGIA <strong>2009</strong>: 11AUTORI, 11RACCONTI<br />
PREMIO SPECIALE UNDER19<br />
UNIVERSITA’ IULM<br />
A cura di Andrea Chiurato e Lucia Rodler<br />
Marcellino Iovino, Emanuele Arciprete, Elvira Buonocore<br />
Bianca Cianfano, Pierpaolo D’Aprile, Luca Di Bartolomeo<br />
Setaré Kameli, Giovanni Merone, Claudia Migliaccio<br />
Elisa Valdina, Andrea Varsori
PREMIO SPECIALE UNDER19<br />
UNIVERSITA’ IULM<br />
A cura di<br />
Andrea Chiurato e Lucia Rodler
SUBWAY <strong>2009</strong> - Premio Speciale Università IULM - Under19<br />
A cura di Andrea Chiurato e Lucia Rodler<br />
Gli undici racconti pubblicati in questa antologia sono tratti dal corpus delle opere di<br />
Subway-Letteratura <strong>2009</strong>, una manifestazione letteraria ideata e realizzata dalla<br />
Associazione Laboratorio-E20, grazie al patrocinio e al contributo del Comune di<br />
Milano (Assessorato al Tempo Libero) e dell’Università IULM di Milano.<br />
Il presente volume, realizzato in esclusiva per l’Università IULM di Milano, è fuori<br />
commercio e la sua distribuzione avviene, gratuitamente, a cura del Servizio<br />
Orientamento Studenti dell’Ateneo (iulm.orienta@iulm.it).<br />
Progetto Grafico: Michele Marchesi - Solaris Comunicazione<br />
COPERTINA al TRATTO: Nicola Ballarini<br />
www.iulm.it www.subway-letteratura.org
INDICE<br />
INTRODUZIONE di Giovanni Puglisi 5<br />
PREFAZIONE, Scusa ma ti chiedo amore di Lucia Rodler 7<br />
Il testamento di Borges di Marcellino Iovino 11<br />
Il volto dello Straniero di Emanuele Arciprete 19<br />
Migrazioni sulla piazza delle ferrovie di Elvira Buonocore 27<br />
Portami via di Bianca Cianfano 37<br />
Abbi cura di te di Pierpaolo D’Aprile 43<br />
Il berretto verde di Luca Di Bartolomeo 51<br />
Il ritmo lento e regolare della natura di Setaré Kameli 57<br />
JUD di Giovanni Merone 63<br />
Incendiaria sciabolata di Fender Stratocaster di Claudia Migliaccio 73<br />
Immagini dal nulla di Elisa Valdina 79<br />
RACCONTO FUORI CONCORSO<br />
Le foto degli altri di Andrea Varsori 85<br />
POSTFAZIONE, Lo specchio e la vita di Andrea Chiurato 99<br />
GIURIA 103<br />
PARTECIPANTI AL PREMIO 104
INTRODUZIONE<br />
Giovanni Puglisi<br />
Rettore Università IULM<br />
Il Premio Speciale Università IULM Under19 festeggia quest’anno un traguardo<br />
significativo: cinque edizioni. E al giro di boa del primo lustro, alcune considerazioni<br />
sono doverose.<br />
La prima è la consapevolezza del valore culturale della partnership che sta<br />
alla base di questo riconoscimento, quella partnership che accosta il nostro<br />
Ateneo a Subway-Letteratura, manifestazione letteraria che, nata quasi in sordina<br />
a Milano otto anni fa, ha ormai conquistato uno spessore nazionale oltre<br />
che l’affetto di numerosissimi lettori.<br />
Mi piace anche ricordare l’innegabile ruolo di talent scout che l’Università<br />
IULM ha svolto in occasione delle passate edizioni di Subway. Per ben due<br />
volte, nel recente passato, il nostro Premio Speciale è stato assegnato a una<br />
penna esordiente che successivamente ha saputo confermare le proprie<br />
capacità narrative arrivando addirittura a vincere il Campiello Giovani.<br />
Tantissimi gli under 19 che anche quest’anno hanno risposto al nostro bando.<br />
Sono tutti autori al debutto, iscritti alle Scuole Secondarie di II grado, accomunati<br />
dalla passione dello scrivere e dal sogno di vedere pubblicati i loro elaborati.<br />
Un invisibile fil rouge del disagio sembra legare la maggior parte delle<br />
trame delle opere pervenuteci. Da tutta Italia un’intera nuova generazione di<br />
scrittori racconta di paure, di incertezze, di malattie e di sconfitte. E lo fa con<br />
toni crudi o, al limite, disincantati.<br />
La nostra giuria ha avuto il non semplice compito di selezionare l’opera vincitrice<br />
che è poi stata stampata e divulgata gratuitamente in centinaia di migliaia<br />
di copie nelle sempre più numerose città italiane del circuito Subway.<br />
Cosa rende, in fin dei conti, degno di nota un racconto? L’inventio innanzitutto,<br />
ovvero lo spunto di partenza, che deve essere accattivante e originale. Ma<br />
questo non basta, bisogna saper “disporre” il contenuto in modo convincente.<br />
La dispositio è particolarmente complessa e richiede una vera e propria abilità<br />
di scrittura. E poi, va da sé, occorre un’elocutio corretta che metta armonia<br />
5
fra sintassi e logica del pensiero. È proprio su questi criteri che si è basata la<br />
nostra selezione.<br />
Uno, dunque, il racconto vincitore ufficiale. Ma altri nove, altrettanto validi,<br />
quelli che con esso vengono raccolti in questa antologia. Fuori concorso, in via<br />
del tutto eccezionale, il volume accoglie inoltre un undicesimo testo inizialmente<br />
scartato perché troppo lungo rispetto al regolamento, ma poi “ripescato”<br />
perché degno di nota.<br />
L’invito è quello di leggere con attenzione queste brevi opere: sono dirette,<br />
forse acerbe in alcuni casi, ma sicuramente in grado di regalare emozioni.<br />
6
SCUSA MA TI CHIEDO AMORE<br />
Prefazione di Lucia Rodler<br />
Docente Università IULM<br />
Nel 1982, all’età di ottantacinque anni, il sociologo tedesco Norbert Elias (La<br />
solitudine del morente, trad. it. 2005) spiegava come la società contemporanea<br />
fosse diventata incapace di porgere aiuto a chi muore. La solitudine<br />
di un ospedale si sostituiva alla familiarità di una casa e di una comunità che<br />
non trovano spazi, gesti e parole per accompagnare il morente alla soglia<br />
estrema. Così si abbandona la vita in uno stato di abbandono affettivo.<br />
Venticinque anni dopo, nel selezionare undici racconti di ragazzi tra i quattordici<br />
e i diciannove anni – tra i quasi duecento che hanno partecipato alla<br />
quinta edizione del Premio Speciale che l’Università IULM conferisce in<br />
occasione della manifestazione letteraria Subway – la giuria di lettori adulti<br />
ha ripensato ad Elias e alle origini adolescenziali di questa esistenza forzatamente<br />
asettica. L’antologia del <strong>2009</strong> presenta infatti personaggi malati,<br />
stanchi, soli, che stanno in bilico tra la vita e la morte. E il racconto vincitore<br />
è un testamento redatto da chi sente “l’ultima ora avvicinarsi” nel “freddo”<br />
di una “camera d’albergo” (Iovino). Si tratta certo di una finzione, ma essa<br />
rappresenta bene la tonalità complessiva della raccolta.<br />
A conferma di ciò può essere utile osservare lo spazio cittadino: una “nave<br />
sgangherata” (Setaré), uno “scooter elaborato” (Migliaccio) e poi treni rumorosi<br />
(Buonocore) e autobus anonimi (Di Bartolomeo) conducono a un luogo<br />
che ha l’aspetto di una prigione, in senso letterale (il muro, il ghetto e la<br />
dogana di Merone) o metaforico (la ringhiera e la periferia dalle “sterminate<br />
vie cieche” di Buonocore). Prevalgono i luoghi chiusi, freddi, vuoti e soffocanti:<br />
numerosi ospedali (Cianfano, Migliaccio, Di Bartolomeo, Iovino), due<br />
cimiteri (Di Bartolomeo e Iovino), un negozio (Setaré) e poi condomini<br />
inquietanti (Varsori), desolate camere da letto (D’Aprile) o d’albergo (Iovino)<br />
e un monolocale di periferia (Di Bartolomeo). E chi tenta di sfuggire a questa<br />
condizione di impedimento viene violentemente fermato lungo la tangenziale<br />
(Migliaccio) o dinanzi alla dogana (Merone). Una speranza giunge<br />
forse dal mare che, però, va conquistato con fatica e soprattutto condiviso<br />
7
con qualcuno di veramente amico. Esperienza ricordata dalla giovane protagonista<br />
di Immagini dal nulla (“Ricordo la prima vacanza con le mie amiche<br />
al mare”) e vissuta da Cao e Aurora, i personaggi più solari dell’antologia,<br />
quelli di Setaré Kameli.<br />
Questo racconto narra un incontro che segna una trasformazione o, come<br />
direbbe il formalista russo Michail Bachtin (Estetica e romanzo, trad. it.<br />
1979), che avviene sulla soglia: lungo una strada un uomo e una donna<br />
cambiano vita perché si sanno ascoltare (“mi piace come sa ascoltare”). Ma<br />
si tratta di un caso eccezionale. Gli altri personaggi esprimono invece il timore<br />
di superare una qualche soglia, restando chiusi allo stesso modo dei luoghi:<br />
Hans, Giulia, Andy, Jessica, la protagonista che fantastica sul nulla,<br />
quello che rovista tra foto sconosciute, i paesani che attendono lo straniero<br />
condividono la paura dell’altro, a partire da un corpo osservato con sospetto:<br />
un braccialetto (la bimba ebrea di Merone), un colore della pelle (“ebano”<br />
in Setaré, “troppo chiaro” in Buonocore), un berretto (Di Bartolomeo), un<br />
reperto fotografico (Varsori), un mantello (Arciprete). Il fatto è che “mattone<br />
su mattone” ogni individuo erige intorno a sé un muro “impenetrabile”<br />
(D’Aprile): superata da Cao e Aurora, la diversità etnica separa tragicamente<br />
Sara, Anne e Hans (Merone); la distanza anagrafica allontana Giada da<br />
Giulia (D’Aprile), Jessica da Mary (Di Bartolomeo) e la figlia diciassettenne<br />
da “due genitori fin troppo adulti” (Valdina); esistono poi i distacchi sessuali<br />
(l’omosessualità presentata da Merone e Buonocore) e i misteri identitari di<br />
Arciprete, Di Bartolomeo e Varsori.<br />
Ma questa solitudine del vivente (per dirla nel modo di Elias) trova l’espressione<br />
più tragica nel racconto della malattia, dell’invecchiamento e della<br />
morte – occhi spenti, volti segnati, mani immobili, un corpo gelido, spezzato,<br />
ferito, magari solo perché dimenticato nell’ombra (Setaré e Di<br />
Bartolomeo) – che segna la fine di ogni comunicazione, di un amore conquistato<br />
a fatica (Merone), di un rapporto tra figli e genitori (Cianfano,<br />
D’Aprile e Di Bartolomeo), di un’amicizia (Migliaccio). Perciò prevalgono il<br />
monologo e un dialogo abbozzato in forma di preghiera testamentaria: “abbi<br />
cura di te” (D’Aprile), “abbi cura di Sara” (Merone), “perdonami”, “portami<br />
via” (Cianfano), “che t’ho fatto?”, “che t’hanno fatto?” (Buonocore), “papà?”<br />
(Di Bartolomeo). Ma queste “suppliche” sussurrate restano inascoltate e<br />
forse per questo si depositano sulla pagina scritta. Una delle funzioni della<br />
narrativa è infatti quella di offrire un compenso immaginario alle mancanze<br />
della vita reale che in questo caso riguardano la capacità di ascoltare (a tal<br />
proposito con sincero rammarico la giuria ha potuto accogliere solo uno dei<br />
8
molti, validi, racconti che hanno superato il numero di battute previste da<br />
questo bando). Riconoscendo a Cao questa virtù, Aurora sorride, mentre gli<br />
altri personaggi cercano comprensione con minore fortuna. “Scusa ma ti<br />
chiedo amore” potrebbe essere dunque la formula corale di questa antologia<br />
che racconta la difficoltà di avvicinare l’altro, soprattutto quando non si<br />
può volare nemmeno qualche metro in alto nel cielo.<br />
9
Racconto vincitore<br />
Premio Speciale Università IULM - Under19<br />
Marcellino Iovino<br />
Il testamento di Borges<br />
GENERE METAFISICO BORGESIANO<br />
1 RACCONTO DA<br />
8 f e r m a t e
Marcellino Iovino<br />
Ho deciso di scrivere la mia autopresentazione sotto forma d’interrogatorio.<br />
Non chiedetemi perché. È la prima cosa che mi è venuta in mente.<br />
- Come si chiama?<br />
Marcellino Iovino.<br />
- Qual è il titolo del racconto incriminato?<br />
Il testamento di Borges.<br />
- Quando e dove è nato, lei?<br />
A Caserta nel giugno del 1990.<br />
- Dunque Iovino, lei è accusato di aver scritto un pessimo racconto.<br />
Ci parli della sua attività scrittoria.<br />
Non c’è molto da dire. Nel 2006 ho pubblicato una raccolta di poesie, ho<br />
vinto quattro concorsi letterari e ho pubblicato due racconti su riviste on-line.<br />
- Precisi l’imputato quali sono le riviste in questione.<br />
Books Brothers e Terranullius.<br />
- Dunque le piace scrivere?<br />
Un casino. Tuttavia, preferisco la lettura.<br />
- A domanda risponde: tantissimo, ma prediligo la lettura.<br />
Può sedersi, Iovino. Rimetteremo il suo destino nelle mani della giuria del<br />
Premio Subway.<br />
Grazie.<br />
- Venga a testimoniare il protagonista del racconto incriminato.<br />
È lei Jorge Luis Borges, nato a Buenos Aires il 24 agosto 1899?
Il testamento di Borges<br />
Con gratitudine, stima e soprattutto affetto, a Jorge Luis Borges<br />
che, insieme a Louis-Ferdinand Céline e Fedor Dostoevskij,<br />
m’insegna a scrivere.<br />
Debbo la scoperta di questo testo<br />
alla congiunzione di Borges con la mia fantasia...<br />
(dal Testamento di Borges di Marcellino Iovino, 2008)<br />
Ancora, seppur parzialmente, sono Jorge Luis Borges.<br />
Sicuro, proprio quel Borges: l’autore dell’Aleph, delle Finzioni, della Storia universale<br />
dell’infamia, della Storia dell’eternità e di altre opere ingannatrici, che<br />
ingannatrici non sono. Voglio svelare al mondo il mio segreto, dopo averlo abilmente<br />
nascosto per decenni. Adesso che sento l’ultima ora avvicinarsi e la luce<br />
svanire momento dopo momento, voglio donarla agli uomini. Da anni mi giungono<br />
lettere di persone che mi chiedono perché abbia scritto, per gran parte della<br />
mia vita, solo racconti. Rispondo semplicemente dicendo che ho descritto l’infinito,<br />
e solo con il racconto si può descrivere l’infinito. Chi ha letto attentamente il<br />
mio saggio del ’72, Sulla letteratura, sa bene quale sono le mie posizioni a riguardo.<br />
Nel suddetto saggio dimostro come il romanzo sia un genere finito, mentre il<br />
racconto è infinito. Chi scrive un romanzo deve prendere l’infinito del reale e renderlo<br />
finito, dargli un ordine. Un romanzo ha quasi sempre un inizio e una fine,<br />
perciò è un mondo finito. Il racconto, invece, è l’unico genere letterario infinito.<br />
Un buon racconto è una storia che non ha inizio né fine. Per descrivere l’infinito,<br />
se ne traccia un tratto, che è anch’esso infinito. Un racconto è proprio un tratto<br />
d’infinito. Per fare un esempio, il mio racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano<br />
inizia con la preparazione di un omicidio da parte di una spia tedesca, durante<br />
la Prima Guerra Mondiale; l’omicidio si consuma nella parte finale. Tuttavia<br />
infinite azioni avvengono, senza che io le racconti, sia prima dell’inizio del racconto,<br />
sia quando esso è terminato. Cosa ha fatto per tutta la sua vita la spia tedesca<br />
prima di quell’omicidio? E gli uomini prima di lui? E dopo l’omicidio, la guerra<br />
come finirà? E dopo la guerra, cosa accadrà? Sono domande che il lettore<br />
esperto si pone, leggendo il racconto. Senza contare, poi, le infinite possibilità,<br />
che offre il reale, del prima e del dopo. A pagina milleduecentotrentaquattro del<br />
saggio citato prima, concludendo il breve capitolo dedicato al romanzo e al racconto,<br />
scrivo: “Il romanzo è il genere dell’ordine, il racconto del caos”.<br />
Molti, inoltre, mi chiedono come abbia potuto descrivere in maniera tanto preci-<br />
13
sa l’infinito nelle mie pagine. La risposta è semplicissima: l’ho visto. Io ho visto<br />
l’infinito.<br />
Tuttavia l’ho pagato a caro prezzo: sono diventato cieco.<br />
Tutto è accaduto la vigilia di capodanno del 1935 a casa del mio amico, poeta e<br />
scrittore argentino Alvaro Buendìa. Beatriz Viterbo era morta nel 1929. Cinque<br />
lunghi anni erano passati dalla morte della mia amata, ma il suo ricordo mi ossessionava<br />
in una maniera così forte da farmi recare, tutti i giorni, al Cimitero<br />
Monumentale di Buenos Aires e farmi pronunciare disperatamente: “Beatriz,<br />
Beatriz Elena, Beatriz Elena Viterbo, Beatriz amata, Beatriz perduta per sempre,<br />
son io, sono Borges”. Forse fu il suo ricordo a farmi dedicare allo studio della filosofia.<br />
Forse fu la consapevolezza del suo destino, del destino di tutti noi davanti<br />
all’infinito, a darmi lo spunto iniziale della Storia dell’eternità. Il lavoro procedeva<br />
con non poche difficoltà. Mi ero imposto di tracciare un profilo minimo dell’eternità,<br />
senza conoscerla affatto. Una domanda di fondo era necessaria per continuare<br />
il lavoro: è possibile descrivere l’infinito senza conoscerlo? Sottoposi la questione<br />
a diversi amici filosofi, senza mai ottenere una facile risposta. Ricordo addirittura<br />
che nel mese di giugno del 1934 a casa di Alvaro Buendìa, si formarono<br />
sull’argomento, due schieramenti netti: lo schieramento di coloro che pensavano<br />
a priori, gli aprioristi, sosteneva la possibilità di descrivere qualsiasi cosa, pur non<br />
conoscendola; mentre gli aposterioristi (così si chiamarono coloro che ragionavano<br />
a posteriori) sostenevano il contrario. Il capo degli aposterioristi era Gabriel<br />
Llosa, autorevole filosofo, mentre gli aprioristi erano guidati dal giovanissimo<br />
Umberto Oce, professore emerito di Filosofia medioevale all’Università di<br />
Bologna. È necessario ricordare che Umberto, prima di scoprire quale fosse il<br />
vero nome della rosa, era stato un mio allievo. La querelle infiammò la casa di<br />
Buendìa per due giorni, senza che nessuna delle due ipotesi prevalesse sull’altra:<br />
al terzo giorno si venne alle mani. I delicati mobili del salone, nel quale ci riunivamo,<br />
furono sfasciati a colpi di libri. Umberto, nel tentativo di centrare la nuca<br />
di uno degli aposterioristi, distrusse a colpi di Sant’Agostino tre vasi Ming a cui<br />
Buendìa teneva molto. Lo Zarathustra di Nietzsche procurò una settimana di prognosi<br />
a Gabriel Llosa. Qualcuno tra i presenti ha sostenuto che nell’istante in cui<br />
Llosa ha ricevuto il libro di Nietzsche sul capo, prima di svenire, abbia affermato:<br />
“Dio è morto”. Sembra che prontamente Don Alejandro, il parroco del quartiere,<br />
invitato non si sa per quale motivo e da chi, gli abbia risposto: “Per ora è morto<br />
solo Nietzsche e anche tu non te la passi tanto bene”. La lite sarebbe continuata<br />
per ore, se non avessi preso dalla catasta di libri buttati per terra uno qualunque,<br />
l’avessi alzato e avessi gridato: “Signori, calma, prego. Fatelo per Platone”.<br />
In breve tempo, tutti lasciarono la casa di Alvaro Buendìa. Io, Buendìa e Umberto<br />
dopo aver portato Llosa in ospedale, risistemammo il salone. Infine, io e Umberto<br />
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ce ne tornammo a casa. A sancire la pace tra i due schieramenti non era stato un<br />
libro di Platone, ma l’elenco telefonico. Per fortuna nessuno se ne accorse.<br />
Passarono diversi giorni e io rimanevo con il mio dubbio. Ero arrivato a una specie<br />
di conclusione: quella sera, il ragionamento che più mi aveva convinto era<br />
quello degli aposterioristi. L’infinito era descrivibile solo dopo averlo visto. Ragion<br />
per cui la mia Storia dell’eternità non poteva essere scritta. Lo comunicai a<br />
Buendìa, quando mi telefonò per ringraziarmi di aver sedato la rissa e avergli salvato<br />
la casa dalla distruzione. In seguito, passai sei mesi di completa angoscia. Mi<br />
consumava il pensiero di essere completamente incapace di comporre una cosa<br />
che a Beatriz dovevo. Per distrarmi andai a trovare suo marito Julio. Gli portai<br />
una bottiglia di cognac scadente. Sembrava invecchiato di cent’anni dall’ultima<br />
volta in cui l’avevo visto, otto mesi prima. Andavo a trovarlo tre o quattro volte<br />
l’anno, ed egli mi parlava dei tempi in cui frequentavamo l’università io, lui e<br />
Beatriz. Poi mi faceva vedere delle foto e mi raccontava un po’ di lei. Credevo che<br />
un giorno l’avrei trovato morto su quella poltrona rossa, dove si era seduta innumerevoli<br />
volte Beatriz, mentre le leggevo Le mille e una notte. Sapeva che io<br />
avevo amato la moglie, ma non per questo cercava di evitare la mia compagnia:<br />
Beatriz in vita non mi aveva mai rivolto una parola gentile. Me ne andai più vuoto<br />
del solito, lasciando Julio con il suo pacco di ricordi.<br />
Verso metà dicembre del 1934, mi arrivò una telefonata imprevista. Era Alvaro<br />
Buendìa. Non ci sentivamo da mesi.<br />
“Ho quello che cerchi”, mi disse.<br />
“Cosa?”.<br />
“Quello che ti permetterà di scrivere la Storia dell’eternità. Sei libero il trentuno?”.<br />
M’invitò alla festa di capodanno, per mostrarmi quella cosa. Fu la mia rovina e la<br />
mia vittoria, credo. Ci andai poco curioso e molto scettico. Indossai l’abito da gran<br />
gala. La noia della festa veniva interrotta, di tanto in tanto, da qualche minuto di<br />
tango. Iniziai a perdere la pazienza. Se Alvaro voleva farmi uno scherzo, poteva<br />
scegliere un altro momento. Mi calmai quando lo vidi sbucare da chissà dove,<br />
avvolto dalla nuvola di fumo del sigaro che perennemente aveva tra le labbra. Me<br />
ne offrì uno.<br />
“Alvaro, sei ancora in tempo per dirmi che mi vuoi fare uno scherzo”, gli dissi<br />
mentre mi accendeva il sigaro.<br />
“No, per niente”.<br />
“Dov’è, allora?”.<br />
“Che impazienza! Sarà meglio trasferirci nel mio studio”.<br />
Andammo nel suo studio. Chiuse a chiave la porta e aprì la cassaforte nascosta<br />
dietro una tela regalatagli da Matisse. Non mi meravigliai: lo sapevamo tutti che<br />
il Matisse gli celava una cassaforte. Pensai a uno scherzo ben concepito.<br />
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Presto, però, dovetti ricredermi. Dalla cassaforte Alvaro tirò fuori una borsa di<br />
tela. Dalla borsa, una sfera coperta con una stoffa nera.<br />
“Cos’è?”, domandai.<br />
“È l’infinito”, rispose Alvaro.<br />
“Un po’ tondo, non trovi?”, replicai, ridendo, al mio interlocutore.<br />
“Non ci credi, eh? Eppure se tolgo questa stoffa tu vedrai l’universo visto da<br />
fuori”.<br />
“L’universo visto da fuori?”.<br />
“Sì, vedrai tutto di tutti e di tutto e in tutti i tempi. Presenti, passati e futuri.<br />
Sorpreso, Jorge Luis?”.<br />
Il mio volto si fece improvvisamente serio.<br />
“Vedrò anche lei?”.<br />
“Certo”.<br />
“Allora togli la tela, voglio provare”.<br />
“Attento, Borges. Dio non concede un simile dono all’umanità, gratuitamente.<br />
Chi lo vede è destinato a non veder più niente, perché vede anche Lui. Non è una<br />
punizione: chi vede Lui non ha bisogno di vedere altro. Non deve vedere altro”.<br />
“Dunque non l’hai mai visto?”.<br />
“No. Tutto quello che so sulla sfera, mi è stato detto da chi me l’ha data”.<br />
“Chi te l’ha data?”.<br />
“Questo non ha importanza; ma, chi me l’ha data, mi ha detto che gli Aztechi la<br />
chiamavano Uqbar, che significa Dio”.<br />
“Voglio provare lo stesso, Alvaro”.<br />
“Pensaci”.<br />
Quasi me l’aspettassi domandai: “Diverrò cieco subito dopo averlo visto?”.<br />
“No, non subito. Ma, in breve tempo, non riuscirai più a distinguere i volti di coloro<br />
che ami: questo è sicuro”.<br />
“Allora ne vale la pena. Fammelo vedere, Alvaro”.<br />
Alvaro si decise. Si bendò gli occhi per resistere alla tentazione di vedere e sollevò<br />
la stoffa dalla sfera.<br />
Fu allora che lo vidi. L’infinito. L’universo. Fu allora che vidi: l’alfa, l’omega, il principio,<br />
la fine, tutte le ragioni, Napoleone, Roma, Atene, Omero; vidi: le mie opere<br />
passate, tigri blu, l’Aleph, la solitudine, mia madre, le mie ultime parole, la mia<br />
cecità, la Storia dell’eternità completa e pubblicata, il volto di Giuda, quello di<br />
Cristo, il mio, il tuo, quello di Alvaro da vecchio, quello di un giovane e sconosciuto<br />
ragazzo italiano, la spada di Alessandro, Socrate, Averroè, la croce, il<br />
pesce, la mezzaluna, l’amore, le stelle, una piramide, un labirinto, uno specchio,<br />
un’enciclopedia, neve, tabacco, sabbia, sangue, la furia di Cortés, quella di<br />
Aguirre, quella di Attila, quella di un bavarese dagli strani baffi, la rosa, la mia<br />
tomba, le Bibbie; fu allora che finalmente vidi lei: Beatriz nella culla, Beatriz al<br />
16
mare, Beatriz che mangia un gelato, Beatriz con Julio, Beatriz ammalata, Beatriz<br />
che gioca, Beatriz che ride, Beatriz che piange, Beatriz che mi fa disperare,<br />
Beatriz che esala l’ultimo respiro, Beatriz che riposa in pace. Infine vidi il volto di<br />
Lui, che annulla nel suo tutti i volti.<br />
Coprii la sfera con la stoffa nera. Alvaro si tolse la benda e mi guardò.<br />
“Allora, che te ne pare?”.<br />
“Strabiliante”, dissi.<br />
“Te lo regalo, tanto io non lo vedrò mai”.<br />
Presi la sfera e la misi nella borsa di tela. Tornammo nel salone, dove avevamo<br />
lasciato tutti gli altri invitati. Dopo la mezzanotte cercai di trovare una scusa e me<br />
ne tornai a casa. Tornato a casa, beneficiai di nuovo della visione della sfera. Da<br />
quel momento l’ho fatto tutti i giorni. Nel 1936 pubblicai, dedicata alla memoria<br />
di Beatriz Elena Viterbo, la Storia dell’eternità. Grazie all’aiuto della sfera la scrissi<br />
in una notte. In seguito dedicai tutta la mia produzione letteraria all’infinito.<br />
Purtroppo come tutti sanno, la profezia di Alvaro si avverò. Della sfera non potei<br />
godere molto. Nel 1938 arrivò il temuto e infausto evento. A causa di un incidente<br />
la mia cecità s’iniziò a manifestare.<br />
Non so perché ho creato queste pagine. Forse ho voluto redimermi dai miei incubi<br />
di uomo maturo del 1938 e di vegliardo ora. Non mi resta molto da vivere, lo<br />
sento. Voglio fare un’ultima confessione: nessuna delle mie opere è inventata.<br />
Tutto è reale: L’Aleph, La biblioteca di Babele, L’immortale… Perché, in un universo<br />
infinito, ci sono infinite possibilità che queste cose esistano.<br />
Forse fu l’amore per Beatriz a ingannarmi, ma ricordo che l’ultima volta che ho<br />
scrutato la sfera ho visto un Borges che ci vedeva e portava sottobraccio, a passeggio,<br />
in riva al mare, Beatriz Viterbo viva e vegeta. I due mi sorridevano e mi<br />
ringraziavano. Chissà, forse, grazie a questo mio gesto, nelle infinite possibilità<br />
del reale, esiste un Borges felice.<br />
Fa freddo in questa camera d’albergo, ho la gola secca a furia di dettare parole.<br />
Lascio questo scritto, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina<br />
nomine, nomina nuda tenemus.<br />
N.B. A questo punto, lettore, se sei stato attento, ti farai domande del tipo: Borges<br />
avrà fatto realmente questo? Cosa avrebbe potuto fare oltre a questo nella vastità<br />
delle possibilità del reale? Borges prima della morte di Beatriz che faceva? E<br />
prima cosa è accaduto? E ancora prima? E prima? E dopo che è successo? E dopo<br />
ancora? E dopo? E in futuro cosa accadrà? E dopo?<br />
17<br />
Jorge Luis Borges<br />
Ginevra, 1984
POSCRITTO DELL’AUTORE<br />
Io, Jorge Luis Borges, dono questo mio scritto in data 14/06/1985 al signor<br />
Gennaro Iovino, sapendo che lo custodirà in maniera attenta.<br />
POSCRITTO DEL 28 LUGLIO 2008<br />
18<br />
Jorge Luis Borges<br />
Buenos Aires, 14 giugno 1985<br />
Ho riprodotto nelle pagine precedenti un vecchio dattiloscritto che, la settimana scorsa,<br />
mio padre ricordò di avere chiuso in cassaforte da ventitre anni. Ho tentato di<br />
fare delle ricerche per verificarne l’autenticità. Non so se il dattiloscritto è apocrifo o<br />
meno. Mio padre mi ha raccontato di averlo ricevuto a Buenos Aires, nel 1985, da<br />
un vecchio con un bastone che parlava un italiano stentato. Il vecchio gli disse:<br />
“Conservalo e dallo a tuo figlio”. Mio padre sorpreso rispose: “Non ho figli. Non sono<br />
nemmeno sposato”. Il vecchio gli assicurò che ne avrebbe avuti. Ho verificato la data<br />
del dattiloscritto, 14 giugno 1985. Dopo un anno esatto Borges morì. Infatti, il grande<br />
scrittore argentino si spegnerà a Ginevra il 14 giugno del 1986. Sono pieno di<br />
dubbi, perché tutto coincide. Resta il fatto che non ho ancora capito come abbia fatto<br />
mio padre a conoscere Borges. Si saranno incontrati in qualche caffè del quartiere<br />
Palermo, frequentavano gli stessi posti. Non sono neanche sicuro che mio padre sia<br />
mai stato a Buenos Aires. Ma questo non glielo chiederò mai.<br />
Mentre leggevo questo dattiloscritto, un lampo perforò la sua mente. “Marcè, il vecchio<br />
mi diede anche una strana sfera e mi disse di dartela. Deve essere da qualche<br />
parte. Quando la trovo te la do”. Stamani l’ha trovata tra le sue cianfrusaglie. È<br />
rimasta lì per ventitre anni, ancora coperta dalla stoffa nera con cui Alvaro<br />
Buendìa si proteggeva la vista. Non so che fine abbia fatto, ammesso che sia realmente<br />
esistito. Ma questo non importa. Oggi ho trascorso tutto il pomeriggio con la<br />
sfera in mano. La tentazione di togliere il velo di stoffa non mi ha abbandonato nemmeno<br />
per un minuto. Infine mi sono deciso. Ho chiuso a chiave la sfera in un vecchio<br />
baule in soffitta. La chiave l’ho nascosta in un posto che mi sforzo di dimenticare<br />
a tutti i costi. La sfera dell’infinito, del tutto; l’universo giace chiuso nel mio<br />
baule, in soffitta, lontano da mani maldestre. Chissà, forse un giorno mi verrà<br />
voglia di ricordare dove ho messo la chiave del baule, salirò in soffitta, toglierò il velo<br />
di stoffa dalla sfera e vedrò.<br />
Marcellino Iovino<br />
28 luglio 2008
Emanuele Arciprete<br />
Il volto dello Straniero<br />
GENERE SURREALE<br />
1 RACCONTO DA<br />
5 f e r m a t e
Emanuele Arciprete<br />
Emanuele Arciprete nasce nell’agosto del 1990 con quasi una settimana di<br />
ritardo. Già da bambino mostra una spiccata predisposizione per il disegno,<br />
grazie alla quale organizza vere e proprie serie di fumetti da condividere con<br />
i propri amici. Al contempo, riceve il battesimo della scrittura, dedicandosi –<br />
ancor prima d’imparare propriamente a scrivere – alla stesura di piccoli racconti<br />
tramite una dettatura al padre. Nel 1999 fonde entrambe le passioni, del<br />
disegno e della scrittura, partecipando al concorso internazionale bandito<br />
dalla città di Bordano, al quale concorre con un racconto illustrato; vince il<br />
terzo premio e negli anni successivi si classifica per due volte al primo posto.<br />
Man mano la scrittura prevale sul resto; egli si dedica alla stesura di racconti<br />
lunghi, ne completa alcuni. I suoi toni si incupiscono frattanto che porta<br />
avanti letture di Poe o d’altri narratori, come Borges, Lovecraft, Schnitzler o<br />
Dostevskij; ma è della poesia ch’egli s’innamora altrettanto profondamente,<br />
allorché sprofonda nei versi di Dante, Baudelaire, Leopardi, Rimbaud; esercitano<br />
una profonda influenza su di lui anche lo studio della filosofia e l’ascolto<br />
di musica varia, dalla classica al metal. Al liceo Emanuele diviene direttore<br />
della sezione di cultura nel giornale scolastico. Ormai la scrittura è mutata<br />
nella sua vita, nel suo desiderio, nella sua pulsione più oscura e assoluta.<br />
Egli scrive per necessità, per saziare il daimon che risiede, insaziabile, all’interno<br />
del suo petto. Il volto dello Straniero è una storia sul procedere della<br />
poesia traverso le menti, sull’avanguardia dei poeti: la loro eredità non viene<br />
compresa, inizialmente, poiché essi non hanno più un vero luogo in cui trovarsi;<br />
sono viandanti, eroi caduti in disgrazia, e sui loro capi pende l’infamia.<br />
L’accettazione completa del loro operare non avverrà mai, se non in un qualche<br />
tempo lontanissimo, ed ecco perciò che i poeti s’offrono come le stanche<br />
ombre d’oggi, ma anche come le aurore di domani.
Il volto dello Straniero<br />
Girava per i paesi una voce remota accompagnata da lievi variazioni. C’era sempre<br />
qualcuno che vi iniettava un particolare in più di sua creazione, seppur la<br />
voce, nell’insieme, non mutasse grandemente: Come? E viene da solo?<br />
I vecchi, trepidanti, attendevano il guizzare di un limpido bagliore negli occhi dei<br />
figli, solo per aggiungere, tra gli altri, una serie di particolari uditi distrattamente<br />
e dei quali nemmeno erano sicuri.<br />
Voci. Le voci che fluttuavano ovunque erano tantissime.<br />
La prima era partita da Est. Poi si era accartocciata contro i monti di Rentinuun,<br />
a Nord, rimbalzando lungo i borghi antichi. Qui innumerevoli lingue l’avevano<br />
elaborata sotto forme diverse, sicché a ogni via la bardatura dello Straniero assumeva<br />
un colore differente e tutti stavano a discutere sulla forma del suo mantello,<br />
quasi fosse costituito da un paio di ali nere, dicevano, di quelle che nemmeno<br />
i diavolacci piazzati di sotto dovevano avere; ma tolto questo, la notizia nuda<br />
e cruda si riduceva al fatto che dopo essere scomparso per molti anni Lui stava<br />
arrivando. Tornava indietro. I vecchi ne avevano sentito parlare dai loro padri, i<br />
quali a loro volta ne avevano sentito qualcosa dai loro nonni e così via sino all’aurora<br />
delle ombre. In tutto ciò la forma dello Straniero non la conosceva nessuno.<br />
Ognuno, però, pur di non perdere credibilità dinanzi ai propri interlocutori, le<br />
attribuiva cose di punto in bianco: chi diceva che sembrasse un serpente, chi un<br />
angelo, o un menestrello impazzito, chi uno stregone o un assassino.<br />
Quando arrivò l’autunno, durante un giorno piovoso ci fu un annuncio che schizzò<br />
per tutte le valli delle Contee Brune: lo Straniero era stato visto procedere per<br />
gli orti di un certo Ottregaglia. Poi, sia di Lui che dello stesso Ottregaglia, non<br />
si era saputo più nulla. Divorati dall’Unica Tenebra!<br />
Ecco perciò un’altra voce che in breve accompagnò il lento e oscuro procedere<br />
dello Straniero: divorava le persone, se ne nutriva e non ne lasciava più niente.<br />
Ogni tanto qualcuno spariva e allora puntualmente la colpa ricadeva su di Lui.<br />
Un uomo, stanco della moglie casa e chiesa, fuggiva con l’amante giovinetta e si<br />
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ifaceva una vita a Ovest, nelle Grandi Capitali, senza lasciar detto alcunché agli<br />
altri? Era stato lo Straniero, senza dubbio! Lo aveva colto sulla via del ritorno dai<br />
campi, all’imbrunire, e se l’era ingoiato in un sol boccone. Benché la verità fosse<br />
piuttosto diversa, tanto di guadagnato per quell’uomo che sarebbe stato ricordato<br />
come un ottimo padre di famiglia nonché un marito devoto.<br />
Dopo la sparizione del buon Ottregaglia – per la quale, tuttavia, si iniziò a sospettare<br />
del contadino suo confinante, ben più probabile artefice del tutto – non si<br />
seppe più nulla dello Straniero.<br />
Trascorsero svariati mesi. Giunse l’inverno e con esso una nuova voce si diffuse<br />
ovunque: Egli era in cerca di qualcosa. In cosa consistesse l’oggetto della sua<br />
ricerca però nessuno lo capiva. Fu il buon Mozelli, acuto artigiano di buone letture,<br />
a suggerire che con ogni probabilità si trattava d’un discepolo. I vecchi allora<br />
impallidirono sul serio: anche quel particolare accompagnava le storie di cui<br />
erano a conoscenza, sebbene durante le loro esistenze non avessero mai avuto<br />
modo di riscontrarne l’autenticità. Questo era quel che sapevano: trascorso un<br />
numero interminabile di anni, lo Straniero intraprendeva una vera e propria<br />
ricerca che lo conduceva attraverso ogni paese. Uno a uno li attraversava tutti, vi<br />
soggiornava per una notte o due, nel caso qualcuno intendesse sfidarlo, e se poi<br />
ciò non avveniva, senza dir nulla andava, silenzioso, avvolto da quell’aria mesta<br />
che lo accompagnava come una sposa fedele. Ignorando in cosa consistesse questa<br />
misteriosa sfida, la maggior parte dei vecchi non esitava affatto a ipotizzare<br />
che l’eventuale sconfitta consistesse in una morte sicura e terribile.<br />
Sul finire dell’inverno, dalle nevi di Echelor si seppe che lo Straniero era giunto<br />
in una locanda e qui aveva pernottato per poco tempo. Il terrore aveva preso il<br />
sopravvento al punto che era stato impossibile agire, organizzata una difesa spicciola,<br />
e semmai provare a cacciarlo o addirittura tentare di ucciderlo. Ma il fatto<br />
inquietante, per cui l’intera vicenda passava di bocca in bocca, era ben altro: un<br />
uomo del paese aveva perso il senno senza motivo, correndo agli usci di tutte le<br />
porte e lagnandosi di sentir delle voci nella sua testa, voci atroci e oscure, le quali<br />
lo incitavano a raccogliere una sfida di cui non sapeva nulla. Quando lo Straniero<br />
fu andato via, quello stesso uomo scomparve misteriosamente. Solo dopo un’estenuante<br />
giornata di ricerche fu trovato coi polsi aperti nascosto in un ripostiglio.<br />
Ciascuno descrisse il suo volto come praticamente inesistente.<br />
Ovviamente ciò andò ad alimentare la sanguinosa fama dello Straniero ma, a<br />
questo punto, era chiaro che qualunque cosa fosse, Egli la cercava – o sarebbe<br />
stato più giusto dire attendeva?<br />
Ben presto, con incredibile rapidità, la sua ombra fu vista arrivare e recarsi in<br />
tanti luoghi diversi.<br />
Sperduto a Sud, esisteva un paesucolo di pietre, pastori e pochi artigiani. Era<br />
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noto, per quei pochi che lo conoscevano, col nome di Poeteja. I vecchi del posto<br />
avevano timore che lo Straniero giungesse fino a loro. Non potendo far nulla per<br />
impedirlo, consigliarono di organizzare una massiccia difesa, nel caso quello si<br />
fosse presentato e di decapitarlo, così da innalzare la fama di Poeteja persino al<br />
di sopra delle Grandi Capitali. L’idea fu in parte appoggiata, ma avevano tutti<br />
troppa paura perché si provasse per davvero a uccidere lo Straniero.<br />
Quando Egli si presentò all’unica taverna di Poeteja, nessuno alzò un solo dito e<br />
cercò di attuare quanto suggerito dai vecchi; rimasero piuttosto a osservarlo, ciascuno<br />
barricato per bene a casa sua, in lontananza, mentre il visitatore scendeva<br />
dal proprio animale – un semplice mulo da campagna, al che in molti si chiesero<br />
come avesse fatto a giungere sin lassù, sulla cima della montagna dove sonnecchiava<br />
il borgo.<br />
Era sera e una leggera pioggia scendeva sui tetti delle abitazioni.<br />
Lo Straniero non si guardò attorno.<br />
Camminò appoggiandosi a un lungo bastone, entrò nella locanda e non uscì più.<br />
Alquanto isolata dalle altre case c’era quella del giovane Samuel, che in quel<br />
momento era a cullarsi tra i respiri della sua compagna. Samuel aveva vent’anni<br />
e aiutava il fabbro del paese; i suoi compaesani lo vedevano così com’era, un<br />
ragazzo alto, coi capelli lunghi e la barba lievemente trascurata. Tutti ignoravano<br />
la sua innata dote di mettere in riga le parole. Ci riusciva come nessun altro,<br />
lui le seduceva e diceva loro quel che dovevano fare, quale ordine assumere,<br />
limava qua, colpiva là, batteva il martello del suo sentimento su quell’unica incudine<br />
di carta. Solo la sua dolce compagna era a conoscenza di una tale, innata,<br />
capacità di Samuel, poiché era stato proprio quello che più l’aveva indotta a innamorarsi<br />
di lui.<br />
La sera in cui giunse lo Straniero, un dolore improvviso lacerò le tempie di<br />
Samuel, al quale diedero la sensazione di sfaldarsi a metà. Emise un gemito e<br />
si piegò su stesso, mentre una voce profonda, tranquilla, s’insinuava tra i suoi<br />
pensieri.<br />
Chi sei?<br />
Sai chi sono. E tu sai cosa sarai fra un anno, fra un’eternità?<br />
Sarò me stesso.<br />
Cioè Nulla, e niente di più.<br />
Cosa vuoi?<br />
Risorgere dentro di te, purché tu ne sia degno.<br />
Io non posso.<br />
Raccogli la sfida.<br />
Di cosa stai parlando, lasciami, va via.<br />
Se io andrò ti perderai dentro te stesso.<br />
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La sua compagna, spaventata, cercò di soccorrere Samuel, che sembrò essere<br />
altrove, le orbite divenute bianche come neve o come la spuma del mare, i denti<br />
che affondavano nelle labbra e il sangue che scuriva la barba bionda. Trascorse<br />
qualche istante, poi il ragazzo tornò se stesso e scoppiò a piangere in modo convulso,<br />
aggrappandosi alla sua donna. Quando si fu calmato, tacque e le domande<br />
di lei non servirono a strappar nulla su quanto fosse accaduto; disse soltanto:<br />
“Sarai linfa per le mie creature. Annegherai nel tessuto dei miei occhi, e lì vivrai<br />
con me”.<br />
Il mattino dopo Samuel si recò nella piazza di pietra, sotto gli angeli scolpiti.<br />
C’era lo Straniero ad attenderlo, avvolto nel manto nero, del suo volto non si<br />
vedeva nulla. I due si studiarono a vicenda alcuni istanti. Restarono fermi come<br />
rocce piantate nel vento, ma era come se sapessero già esattamente quel che<br />
dovevano fare. Lo Straniero si abbassò il cappuccio del manto. Mostrò un volto<br />
anziano, entro cui si raccoglievano i fiumi di tutte le ere e di tutti i tempi, gli occhi<br />
come gemme silenziose, e iniziò a muover le labbra nell’atto di parlare, senza<br />
che però uscisse fuori alcun suono se non l’aria; lo stesso fece Samuel.<br />
Sembravano sputarsi contro parole fatte di nebbia o suoni così antichi, così<br />
distanti, che gli altri di Poeteja, nascosti agli angoli della piazza e intenti a spiare<br />
l’incontro, non erano in grado di ascoltare.<br />
Trascorsi vari istanti, lo Straniero sembrò sorridere; poi il suo manto si svuotò.<br />
Samuel restò immobile a fissare il drappo nero che si raggrinziva adagiandosi<br />
sulla pietra come un fiore reciso. Allora gli altri del paese, del tutto sconvolti,<br />
guardarono nel volto del ragazzo e non videro più lui, ma anche lui, assieme al<br />
volto consumato dell’uomo con cui si era battuto, e assieme ai volti di coloro che<br />
furono e coloro che saranno, simile a uno specchio in pezzi che rifletteva centinaia<br />
d’occhi e bocche, benché il volto fosse uno, e gli occhi due, assieme alla<br />
bocca ch’era pure lei una sola.<br />
Samuel raccolse il manto e lo indossò; poi si recò nella locanda, dove recuperò<br />
un libro scuro nascosto in un panno, assieme a quel vecchio bastone visto da<br />
tutti la sera prima. Nel frattempo la gente di Poeteja si era raggruppata fuori.<br />
Dopo aver assistito a quella scena priva di significato, aveva recuperato un minimo<br />
di coraggio da impiegare in extremis per far qualcosa. Raggiunsero la locanda<br />
e intimarono allo Straniero di uscir fuori, avendo poco prima convenuto che<br />
a sparire non fosse stato Lui stesso, ma il povero Samuel, finito chissà dove negli<br />
stomaci dell’Ombra. Non appena si presentò lo Straniero, a testa alta, fu accolto<br />
da sputi, sassi e minacce. Silenzioso, senza rispondere a nessuno, Egli recuperò<br />
il mulo. Poi andò via curvo su se stesso, poiché nessuno dei paesani ebbe il<br />
coraggio di andar oltre e agire in prima persona.<br />
Di Lui non si seppe più nulla per molti anni. Tornò a far parlare di sé solo quan-<br />
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do parve che stesse nuovamente in cerca di qualcosa.<br />
Ma non bisogna tacere che alcuni giorni dopo i fatti di Poeteja, alquanto improvvisamente<br />
all’interno delle Biblioteche di Ossian venne ritrovato un tomo scuro.<br />
Non era la prima volta che se ne trovavano, e ognuno recava in sé opere stupende<br />
e perfette, date da intrecci di parole, lettere e versi liquidi, come vivi.<br />
Ma di questo parlerà qualcun altro…<br />
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Elvira Buonocore<br />
Migrazioni sulla piazza<br />
delle ferrovie<br />
GENERE STORIA DI UNA PARTENZA E UNA RIFLESSIONE<br />
SOCIALE<br />
1 RACCONTO DA<br />
15 f e r m a t e
Elvira Buonocore<br />
Elvira nasce a Pagani nel novembre del 1989.<br />
Da qualche giorno Berlino Est e Ovest erano di nuovo un’unica città, il muro<br />
era caduto e i Pink Floyd avevano eseguito la loro Another Brick In The Wall<br />
in un concerto rimasto nella storia.<br />
Dopo la scuola media, Elvira sceglie di frequentare il liceo scientifico B.<br />
Mangino, un istituto piccolo e surreale, di un paese altrettanto piccolo e surreale.<br />
Attualmente è iscritta al primo anno del corso di laurea in Lettere<br />
Classiche, all’Università di Napoli Federico II. Vive a Napoli, al quarto piano<br />
di un palazzo fatiscente e invadente, con tre amiche e una tartaruga depressa<br />
di nome Ugo. Ama scrivere ed essere silenziosa, poi guardare intorno e<br />
tornare a scrivere.
Migrazioni sulla piazza delle ferrovie<br />
“Puoi usare anche una pietra, ma con il gesso si colora meglio”.<br />
“E poi?”.<br />
“Ma non ci hai mai giocato, alla settimana?”.<br />
“No”.<br />
Una bimba con il nome di un fiore, piccola come una biglia in un palmo. Se ne<br />
stava piegata sulle ginocchia e guardava l’asfalto caldo, fatto molle sotto il sole.<br />
Poco avanti era più fresco e, sotto l’albero di fichi, sua madre non la lasciava mai<br />
un momento.<br />
Andy tracciava linee sulla terra nera, col gesso faceva diverse caselle e poi ci<br />
metteva i piedi dentro. Contava sulle dita, poi si allontanava per vedere se andava<br />
bene.<br />
“Io la conosco da un sacco di tempo. Me l’hanno insegnata. Veramente già la<br />
sapevo, poi me l’ha fatta vedere anche Giosuè”.<br />
“Chi è Giosuè?”.<br />
“Quel signore con la giacca verde che taglia le piante, che ha messo la medicina<br />
sulle rose di mamma”.<br />
L’estate dominava e non c’era scampo, nemmeno lì in fondo tra l’erba alta. E quel<br />
sole assurdo di ferragosto sapeva di sudore e di limoni, di ghiacciolo alla menta.<br />
Andy aveva preso il Monopoli, ma poi aveva rinunciato a insegnarlo a sua sorella.<br />
È troppo piccola – aveva detto sua madre – certi giochi devi farli con papà, a<br />
lei piacciono ancora le bambole. Poi aveva preso la piccola al collo e, quasi a chiederle<br />
conferma, le aveva detto: “Non è così?”. Poi le aveva stampato un bacio<br />
sulla guancia.<br />
Allora Andy l’aveva trascinata in mezzo al verde e si erano divertiti per un po’ a<br />
prendere vermi col cucchiaio, a raccoglierli in un barattolo di vetro e poi portarli<br />
in giro per casa, come un trofeo. Lui sorrideva, la bambina sempre per mano.<br />
Poi si era ricordato di quel gioco: era facile. E ora sua madre stava seduta e si<br />
faceva aria con un foglio di carta, il volantino di un discount; li guardava e chis-<br />
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sà che pensava, mentre Andy fissava sua sorella, col gesso in mano le chiedeva<br />
un po’ annoiato: “Hai capito?”.<br />
No, non aveva ancora capito. E ormai era quasi ora di mangiare qualcosa, erano<br />
le cinque. Non se ne faceva più niente.<br />
Di fronte a loro, vivevano in due. Un padre vecchio, non conosceva nessuno e si<br />
era portato dietro dal paese un figlio troppo bianco. Lavorava in tipografia, stampava<br />
biglietti da visita sulla grana prescelta, a seconda del cliente e delle sue<br />
tasche, poi tornava a casa con le mani che sapevano di inchiostro e di libri. Il<br />
bambino suonava il pianoforte, ma così bene da chiedersi il perché: tanto non<br />
avrebbe potuto farne niente, tanto era sprecato perché ci vuole la fortuna, in<br />
tutto. Pure a saper fare le cose che servono. E a Claude serviva imparare il lavoro<br />
di suo padre e basta; ma al vecchio non interessava molto, e pensava ai contributi<br />
per la pensione, che a lui comunque non sarebbe servita.<br />
Era di pomeriggio e a quell’ora la gente riposa. Almeno così dicono le madri,<br />
quando i figli alzano troppo la voce o giocano a pallone contro i muri delle case.<br />
Andy faceva il pagliaccio, col panino all’olio in una mano oscillava a braccia aperte,<br />
poi fingeva di cadere tra i rami e sua sorella rideva. Si era messo in tasca un<br />
cowboy con le gambe aperte, una fionda rossa, nuova e bellissima.<br />
“Un elefante si dondolava sopra il filo di una ragnatela e, vedendo la cosa interessante,<br />
andò a chiamare un altro elefante”.<br />
I piedi di Claude ciondolavano, persi nel vuoto. Si era messo sul balcone, con la<br />
faccia schiacciata nelle linee della ringhiera, si guardava le scarpe da ginnastica<br />
e pensava che forse era meglio non camminarci, per non sporcarle.<br />
“Due elefanti si dondolavano sopra il filo di una ragnatela e, vedendo la cosa interessante,<br />
andarono a chiamare un altro elefante”.<br />
Andy sentì cantare e si mise a guardare. Fissava il bambino che sembrava di plastica,<br />
o forse era di ceramica, non capiva; le gambe erano magre come i rami secchi<br />
che bruciavano a Santa Lucia e se avesse provato a camminare, forse sarebbe<br />
caduto. Claude aveva gli occhi tutti presi dai gabbiani e non si chiedeva che<br />
ci facessero lì, perché erano così tanto vicini e troppo lontani dal mare; li guardava<br />
e immaginava un aquilone verde acqua.<br />
“Tre elefanti si dondolavano sopra il filo di una ragnatela e, vedendo la cosa interessante,<br />
andarono a chiamare un altro elefante. Ma che fai? Che vuoi?”.<br />
Andy aveva preso il suo cowboy rosso e aveva lanciato uno dei finti piombini che<br />
aveva in tasca. “Vieni? Ho il Monopoli”, aveva detto per convincerlo.<br />
Era diventata un’abitudine, darsi appuntamento al balcone, quando la sera le vie<br />
sotto casa si illuminavano di giallo e non c’era altro da fare che sentire i treni<br />
ancora partire.<br />
E c’era freddo, quell’inverno più che altre volte Claude era tentato di tornare<br />
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dentro, in casa e farsi caldo con le mani tra le gambe, accanto alla stufa. Poi<br />
avrebbe messo un pentolino sul fuoco con dentro dell’acqua e se ne sarebbe<br />
stato lì, ad aspettare che il tè gli riscaldasse la gola per farlo addormentare.<br />
Ma era così normale, ormai, vedersi come da sempre, con la faccia tra le mani e<br />
i gomiti sulla ringhiera, che non riusciva mai a trovare un motivo valido per chiudere<br />
le imposte e mettere un punto a tutta quella amicizia.<br />
“Si gela, stasera”, avrebbe esordito così, Andy. E si sarebbe alzato il bavero del<br />
cappotto, cercando di coprirsi il naso freddo. Claude lo sapeva, e nemmeno<br />
aveva bisogno di immaginare come sarebbe andata e cosa avrebbero detto, in<br />
mezzo al silenzio e alle linee di luce, sterminate vie cieche di quella città, che non<br />
aveva pietà per nessuno.<br />
Andy si sarebbe sfregato le mani e soffiandoci dentro avrebbe detto qualcosa.<br />
Niente di importante.<br />
“Già. Perché non ti compri un cappello?”, Claude diceva sempre quello che era<br />
giusto fare, e ogni volta i suoi consigli lo facevano sentire uno stupido. Anche<br />
quella sera gli avrebbe offerto il suo cappello e lui avrebbe rifiutato.<br />
“Sì, non lo so. Dovrei. Domani ci vado”. Andy avrebbe guardato da un’altra parte,<br />
verso il mare alle sue spalle e oltre l’alto palazzo giallo che si stagliava accanto,<br />
troppo vicino.<br />
“Sì, dai. Prendi il mio. Te lo lancio, tanto non mi serve”, così avrebbe detto<br />
Claude, che indossava il suo maglione di lana, prugna, un po’ largo, che si tirava<br />
sulle dita lunghe.<br />
“No, no. Non ti toglierei mai quell’aria da principe del Galles”, e Andy avrebbe<br />
riso, sotto la sciarpa si sarebbe preso gioco di lui. “Poi, con questo freddo, ne<br />
preferirei uno di lana, o meglio ancora un colbacco”.<br />
Il cappello di Claude era a scacchi, un berretto irlandese beige che si portava<br />
sempre dietro, anche quando non c’entrava col resto. E sotto il suo sorriso era<br />
bianco e un poco scavato, faceva gelare.<br />
“Come ti pare. Comunque, volevo dirti… Ma che fai?”. Non c’era mai tono di rimprovero<br />
in quello che diceva, ma ogni volta Andy si sentiva scrutato fino al midollo.<br />
Claude era una coscienza che non giudicava, si limitava a guardare quasi con<br />
interesse e pareva chiedersi fino a che punto sarebbe arrivato quella volta.<br />
E quella sera Andy avrebbe preso il suo pacchetto di sigarette dalla tasca dei<br />
pantaloni, senza smettere di guardare altrove. Avrebbe detto qualcosa su un<br />
libro, delle pagine trovate in una parte della sua biblioteca, nella parte a scaffale<br />
chiuso.<br />
“È la parte chiusa, quella che fa angolo con i libri di mio padre. Lo devi vedere,<br />
ti piace di sicuro”, poi Andy avrebbe alzato lo sguardo e avrebbe riso ancora di<br />
Claude e della sua faccia. Lui avrebbe pensato al passato, a quanto era uguale a<br />
prima.<br />
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“Ne vuoi una? Ti vedo che stai lì, a concupire. Dai, prova…”, e lo sapeva che non<br />
avrebbe accettato.<br />
“Tu sei scemo forte. Comunque, volevo dirti, per le lezioni di piano, lascia stare<br />
guarda. Non fa per te”. Claude parlava di tutto, ed era tutto preparato. E intanto<br />
guardava Andy portarsi il filtro alla bocca e tirare poco, poi il fumo si confondeva<br />
con quello che usciva dalla sua bocca, in quel freddo prematuro di novembre.<br />
“Come non fa per me?”. Andy non ci credeva mai troppo e pareva non fare caso<br />
a quello che Claude gli diceva. Sembrava non fare caso mai a niente.<br />
“Io vengo lo stesso, prima o poi imparo. E poi ho già comprato tutti i libri e gli<br />
spartiti, che dico a mio padre?”.<br />
“Dio, che dice a suo padre!”. Claude avrebbe abbozzato la sua ironia, che quasi<br />
mai funzionava.<br />
“Fai poco lo stronzo! Mio padre me la fa pagare e poi non la smette di dire che<br />
perdo tempo. Io vengo lo stesso”, così Andy avrebbe salvato le sue lezioni private<br />
di piano e la sua amicizia infantile.<br />
Claude lo sapeva, anche quella sera che non era in vena di vedere nessuno, si<br />
immaginava fermo sul balcone, come sempre. E non gli andava di parlare con<br />
qualcuno, avrebbe voluto solo dormire o magari andarsene via, andare a vedere<br />
da dove venivano i suoi capelli troppo biondi, quegli occhi chiari e immobili.<br />
“Dico solo che dovresti almeno essere curioso. Dovresti chiederti qualcosa;<br />
da dove viene tutto questo talento?”. Solo il giorno prima Andy aveva parlato<br />
troppo.<br />
“Non viene da nessuna parte. È mio e basta. E poi non è nemmeno chissà cosa.<br />
Ma poi, che c’entra?”, e Claude gli aveva detto di sparire.<br />
Si era sentito frustrato e avvilito. Ridicolo, più di tutto. Perché poi non era vero<br />
che non gli importava. Avrebbe voluto lasciare tutto e andarsene a fare il musicista<br />
in giro per l’Europa; avrebbe vissuto di quello che il suo cappello riusciva a<br />
riempire, come sempre del resto.<br />
Ma si sentiva così trattenuto da qualcosa. E quel giorno sarebbe andato da<br />
Andy, bussando forte alla sua porta di mogano e gli avrebbe volentieri spaccato<br />
la faccia.<br />
Poi non ce l’aveva fatta. E ora stava lì, a fissare il nero torbido del tè fingendo di<br />
non sentire. Andy si era affacciato e lo chiamava senza stancarsi; cercava di farsi<br />
sentire solo da lui. Claude sorrise un attimo pensando al suo sforzo, se lo immaginò<br />
guardare in giro per vedere se intorno tutto taceva.<br />
“Claude, oh! Ma che fai? Dormi?”. Andy non si stancava. Era una vita che lo<br />
chiamava.<br />
Certe amicizie finiscono all’improvviso, perché i fatti hanno deciso così. Alcune<br />
invece non si stancano mai di essere come all’inizio, quando qualcuno ti allunga<br />
32
la mano e ti dice il suo nome, o ti accompagna per un tratto e poi se ne va, salutando<br />
da lontano.<br />
Ma pensare agli amici bambini fa piangere il cuore delle madri. Perché non è<br />
giusto sperare, e loro lo fanno sempre; perché sanno che è difficile restare come<br />
allora, che nient’altro si aggiunga a quella quiete.<br />
“Ma è uno scherzo? Esci, non posso urlare. Ti devo dire una cosa”. Claude attendeva<br />
fermo, la mano ancora sulla manopola del gas, ma dentro qualcosa fremeva.<br />
Voleva che la smettesse, voleva essere lasciato in pace.<br />
“Oh, ti ho fatto qualcosa? Non ho detto niente, dai. Ma è per le sigarette? Guarda<br />
che non ho preso il vizio, lo faccio solo qualche volta, per passare il tempo. Che<br />
cazzo, però, almeno rispondi”, sul suo tè nero Claude piangeva in silenzio. Aveva<br />
lacrime calde, come quelle degli altri lì, in quel paese convulso; piangeva da solo,<br />
perché non aveva con chi farlo, e Andy non poteva capire.<br />
Era tutta una vita, ancora così breve e vissuta di fretta, tutti quegli anni che dalla<br />
casa di fronte, dalla strada, Andy lo chiamava e non restava mai senza fiato. E<br />
quando Claude non rispondeva, correva da lui e bussava alla sua porta, gridando<br />
qualcosa.<br />
“Posso entrare? Signore, mi scusi, posso un attimo dire una cosa a Claude? Se<br />
sta studiando, posso aspettare qui”. Andy era educato, ma per finta. Sapeva come<br />
fare per farsi benvolere dagli adulti, e sapeva che ostentare la sua parlata perfetta<br />
poteva rivelarsi un’arma vincente. Così, con gli occhi puntati in quelli del vecchio<br />
tipografo, riusciva a ottenere sempre quello che voleva, e poteva passare il<br />
tempo col piccolo pianista che provava ancora, al piano di sopra.<br />
“Che fai?”, Andy era salito di corsa e aveva spalancato la porta. Aveva gli occhi<br />
grandi e sembravano volere regalare qualcosa, di lì a poco. “Se vieni con me, ti<br />
faccio vedere una cosa. Ti piace, sicuro! Non lo so io perché ti piacciono certe<br />
cose però, se ti faccio vedere questa, impazzisci. Vieni!”, e se l’era portato via,<br />
tirandolo per un braccio e saltando per le scale.<br />
“Mamma, mamma apri!”. Sua madre aveva aperto la porta, aveva abbozzato un<br />
sorriso e aveva detto di far piano. Ma Andy era già andato via, in una stanza grande<br />
e gialla e piena di quadri e tende e lì, in quel punto in cui ora Andy sorrideva<br />
e applaudiva, c’era un vero pianoforte, intero. Un pianoforte con la coda.<br />
“Io ho un pianoforte grande! Vedi. Guarda, siediti”. Andy era felice e compiaciuto.<br />
Claude si era avvicinato ma non l’aveva toccato.<br />
“È bello”, aveva detto e se n’era andato via.<br />
“Se vuoi, quando mi faccio grande, te lo do. Ma non dirlo a mamma”, Andy gli<br />
aveva sussurrato in un orecchio. Claude aveva fatto un cenno d’assenso con la<br />
testa. E poi si erano già dimenticati.<br />
Quella era una promessa da bambini.<br />
33
Ora Claude era alto e sottile, una linea bianca sulla carta da parati che negli anni<br />
si scollava. E sotto gli occhi qualche volta aveva segni neri, cerchi scuri e sfiniti.<br />
Aveva bisogno di poco, ma nessuno sapeva cosa. Di qualcuno, forse. Eppure non<br />
si era mai sentito davvero solo, non prima di ora. Stava ancora tremando e, mentre<br />
prendeva una fetta di limone, avrebbe voluto essere feroce e fare a pugni con<br />
qualcuno.<br />
Poi si asciugò gli occhi, le sue occhiaie si erano fatte rosse e profonde. Andy<br />
sarebbe tornato, perché non aveva capito; aveva smesso di urlare, aveva chiuso<br />
le sue finestre. Claude aveva smesso di odiarlo.<br />
Ebbe il tempo di bussare una sola volta. Entrò che era una furia. Quando Claude<br />
aprì, vide che aveva il fiato corto per le scale e per la corsa sulla strada; fuori era<br />
freddo ma non avrebbe mai nevicato, non lì con il mare e le isole intorno, non<br />
dove al mattino attraccava l’aliscafo e la gente era così tanta e diversa che a qualcuno<br />
faceva paura. Andy lo guardava fisso ed era risentito, ma solo per la fatica.<br />
La mano poggiata al muro, coi suoi capelli neri che si erano incollati alla fronte<br />
e il peso del suo respiro affannoso nel petto, Claude avrebbe voluto fermarsi a<br />
guardare.<br />
“Entra”. Si spostò per lasciarlo entrare, poi chiuse la porta senza aggiungere<br />
altro.<br />
“Ma che hai? Cos’è, ti gira male stasera?”.<br />
Claude beveva il suo tè e guardava il piccolo televisore, davano i numeri del lotto.<br />
Il volume era basso e la tizia che elencava i numeri vincenti era tinta di biondo.<br />
“È passato tuo padre, stamattina. Voleva pagare le lezioni private, ha insistito ma<br />
io ho rifiutato. Sembra invecchiato”.<br />
“Perché non li hai presi? Potevano farti comodo. E poi mi dai lezioni, è il<br />
minimo”.<br />
“Non ne ho bisogno, invece. Sto per vincere alla lotteria”. Claude aveva in bocca<br />
un sapore acido e nefasto, richiamava sensazioni assopite, di una vita fa.<br />
Guardava lo schermo e la sua faccia era ferma, come quella volta tra le righe del<br />
balcone.<br />
“Ma che dici? Tu non hai mai capito niente”.<br />
“Questa è una notizia”. Claude si passò una mano tra i capelli, non poteva<br />
crederci.<br />
“Ma che t’ho fatto?”. Andy lo guardava dritto in faccia, una figura nera tra lui e il<br />
televisore. Aveva ancora il cappotto addosso e le scarpe erano fradice, i calzini<br />
bagnati. “Dio santo, Claude! Ti ho solo detto che forse dovresti fare qualcosa,<br />
che forse è arrivato il momento di uscire di casa. Fai vedere che lo sai usare,<br />
quel maledetto pianoforte. Ci hai buttato il sangue, lì sopra. Io non capisco. Ma,<br />
a quanto pare, non sono fatti miei”.<br />
“Stamattina è passato tuo padre. Dopo sono andato al Conservatorio, ma mi è<br />
34
andata male. Forse non sono molto simpatico, forse vado bene solo per aspettare”.<br />
Andy non capiva, non capiva cosa diavolo stava dicendo.<br />
“Per aspettare le macchine che passano. Poi si fermano e io salgo e non mi serve<br />
più la lotteria, e nemmeno i soldi di tuo padre”. Claude disse tutto con disgusto.<br />
Andy si avvicinò senza ritegno, con una mano gli strinse la faccia urlando: “Che<br />
cazzo dici? Cosa cazzo dici?”. Poi si allontanò ed era già cambiato.<br />
Quel paese non aveva coscienza. Multietnico e razzista, una contraddizione vera<br />
e pericolosa, che faceva male a tutti. Claude aveva un segno rosso, una riga sicura<br />
sotto il labbro. Andy si avvicinò di nuovo. “Che hai fatto qui?”, la sua voce era<br />
malferma, aveva paura. “Che t’hanno fatto?”. Claude non rispondeva, Andy lo<br />
seguì immaginare ancora un aquilone verde acqua.<br />
È quando si carica di valori etici la diversità, che nasce il razzismo. E il bianco di<br />
Claude sapeva di terre troppo lontane per essere comprese, ricordava la faccia<br />
di un mercante d’armi o di un assassino. Quella mattina, davanti alla bella facciata<br />
del Conservatorio, un violinista senza capelli gli aveva urlato contro il suo<br />
sangue e la sua patria anonima.<br />
“Numero jolly 5”, la donna tinta aveva quasi finito. Claude sentiva odore di tabacco<br />
e fumo, che s’era incollato ai capelli di Andy; ne spostò una ciocca e ritrovò<br />
quel profumo sulla sua faccia e sotto la lingua.<br />
Dietro la spalla di Claude, la parete era verde e sapeva di umido. Linee sottili si<br />
diramavano dall’angolo in alto, si stendevano con calma maligna su tutto il muro.<br />
Andy guardava e lì si rifugiò nel pensiero di un male che forse un poco se ne<br />
andava, grazie a lui. Restò fermo a ricambiare tutto l’amore che poteva, anche<br />
quando Claude gli fu più vicino e le sue mani erano eterne come quando, sul<br />
piano. Come ora, nei suoi pantaloni a quadri.<br />
Sulla strada volano i gabbiani. Si sono spinti troppo oltre, negli anni finiranno col<br />
raggiungere l’interno della città, lasceranno i loro escrementi a fare da concime<br />
e forse ricrescerà qualcosa di migliore.<br />
Claude cammina nel silenzio che è intorno. Piazza Garibaldi è invasa di uccelli,<br />
piccoli punti neri oscillano in alto e passano da un lato all’altro del cielo. Non<br />
sono gabbiani, quelli non ci sono più per lui. Solo migrazioni, sulla piazza delle<br />
ferrovie.<br />
35
Bianca Cianfano<br />
Portami via<br />
GENERE BREVE RACCONTO DI CRESCITA<br />
1 RACCONTO DA<br />
2 f e r m a t e
Bianca Cianfano<br />
Mi chiamo Bianca Cianfano, vivo a Bari e frequento il quarto anno presso un<br />
istituto tecnico-commerciale della mia città. Ho diciassette anni e tramite la<br />
scrittura, non cerco di creare altri mondi ma di esaminare bene il mio. Mi<br />
piace analizzarne tutti gli aspetti più profondi, le sfumature, gli spigoli, le<br />
sfaccettature, le schegge più svariate, le cose più banali e quelle più importanti.<br />
Cercare le cause degli accadimenti e cosa influenza il modo di pensare<br />
della gente, i perché che mi pongo, le risposte alle mie domande, per<br />
capire le persone e spaziare nella realtà. Quando scrivo non evado dal mio<br />
mondo per entrare in quello di qualcun altro ma, al contrario, esploro il mio<br />
universo per cercare di comprenderlo a fondo, immedesimandomi sempre<br />
nei miei personaggi, ma senza renderli simili a me, anzi. Differenziandoli e<br />
diversificandoli, ponendomi il problema di essere, di agire e pensare come<br />
loro. Li creo per criticarli o solo per sentirli vicino a me, vicino ai problemi che<br />
ci amareggiano. Risolvendoli insieme. O perdendo le sfide.<br />
Io sono i miei racconti. Io sono i miei personaggi. Io sono le mie storie.
Tremilionicinquecentomilasettecentoquarantacinque.<br />
Tremilionicinquecentomilasettecentoquarantasei.<br />
Portami via<br />
Respiri. Aria che, aspra, mi irrita le narici, pungente, acre, immobile.<br />
Respiri. Inutili. Ma pur sempre respiri. Meccanici, ritmici, inesistenti. Ma<br />
respiri.<br />
I miei occhi, serrati da troppo tempo, non riescono a riaprirsi e come macigni<br />
suggellano il mio sonno profondo. Così perennemente chiusi che ho dimenticato<br />
persino il colore della luce del sole.<br />
Le mie mani. Abbandonate pesantemente su un lenzuolo sterile e ruvido, sembrano<br />
essere staccate dal mio corpo. Non so più toccare. Dio, non so più nemmeno<br />
toccare.<br />
Sono cerebralmente morta da dodici anni. In trappola nel mio corpo senza vita,<br />
dove muoio ogni giorno di più. Una lenta agonia, che mi succhia via ciò che mi<br />
resta, secondo dopo secondo, che fa scivolare inesorabilmente dalle mie dita<br />
la vita che già da tempo non ho.<br />
Vivere vuol dire respirare? Vivere vuol dire solo esistere?<br />
Mia madre viene a trovarmi ogni giorno, sempre alla stessa ora, per lo stesso<br />
lasso di tempo. E piange, ogni giorno, sempre alla stessa ora, per lo stesso<br />
lasso di tempo. E io la ascolto. Ascolto il suono delle sue lacrime che rimbomba<br />
vagamente nella mia testa, ormai vuota. Forse mi tocca, mi sfiora, mi stringe.<br />
Ma io non me ne accorgo. Io non sono più nel mio corpo ormai. Non<br />
rispondo più a nessuno stimolo, a nessuna carezza. E mia madre piange, non<br />
tanto perché non vuole farmi morire, ma perché dentro di lei sa il calvario che<br />
passo ogni istante.<br />
“Guardare e non toccare”, mi diceva sempre da piccola.<br />
Già. Io non guardo mamma. E non tocco nemmeno. Ubbidisco. Ubbidisco alle<br />
singole mansioni che il mio corpo deve svolgere. Niente più. Sono vittima di<br />
39
me stessa. Non ho più niente per me, se non il desiderio di dire basta.<br />
Di piangere.<br />
A volte vorrei poterlo fare. Ma non ci riesco. Non ce la faccio, non ho più lacrime<br />
da versare.<br />
Non posso neppure piangere. Tutto viene trattenuto dentro, da una morsa che<br />
mi attanaglia lo stomaco, mi intorpidisce le membra e mi strazia il cuore. Sono<br />
prigioniera in questa gabbia di carne, muscoli, sangue e ossa che non riconosco<br />
più come un nido. Ma solo come una tortura.<br />
Vorrei morire. Perché in fondo muoio ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni<br />
secondo. Che senso ha tenermi legata a questo letto squallido e freddo? Vorrei<br />
volare via. Via, via da questo corpo, via da questa stanza, via da questo buio,<br />
via da questa vita finita ormai da tempo, verso un altro nome, un altro mondo,<br />
un’altra aria. Un altro respiro.<br />
Fresco, bramato, ardente, sicuro, mio, caldo, vivo, vero.<br />
Sì, sempre aria che attraversa le mie narici. Ma pur sempre un respiro.<br />
Anche mio marito mi viene a trovare ogni giorno. A lui regalo sempre il solito<br />
muto e cieco silenzio. Credo che mi baci la fronte, ma io non posso sentirlo.<br />
E che vita è questa? Non poter sentire l’amore sulla pelle, non poter amare e<br />
volere amore. Non sapere nemmeno più che volto abbia, l’amore. E cercarlo,<br />
ogni notte infinita, in ogni angolo di buio, in ogni sfocato, volubile ricordo.<br />
Instancabilmente, disperatamente, perennemente.<br />
Cercarlo nei miei occhi spenti, nelle mie mani immobili, sul mio corpo gelido.<br />
Cercarlo senza fine, senza trovarlo mai. Ma sapere soltanto di averlo amato.<br />
“Finché morte non ci separi”.<br />
Non sono morta. Ma nemmeno viva. Sono eternamente sospesa in uno spazio<br />
cupo, su un filo sottile e lucido. Tagliente. Mi chiedo come sarebbe morire.<br />
Sarei libera? O solo vittima dei miei peccati? Sarei uguale agli altri? O avrei un<br />
posto d’onore tra i sofferenti?<br />
Certo, sarebbe più dolce. Sarebbe più accogliente.<br />
Sarebbe meglio morire, che vivere in un eterno frammento.<br />
E avere in testa sempre le stesse parole.<br />
Sempre la stessa canzone d’amore.<br />
Sempre gli stessi ricordi. Sempre gli stessi film.<br />
E l’anima. L’unica cosa che ci è concesso di possedere all’infinito.<br />
Sporca, slabbrata, strappata, dilaniata.<br />
Ma anima. Chiusa dentro una me, che vuole che qualcuno la lasci andare. Per<br />
essere libera.<br />
E un pensiero mi attraversa la testa.<br />
“Tu fai solo scelte sbagliate! Non sai vivere!”.<br />
Sì, mamma. Avevi ragione.<br />
40
Scusami, perché non ho avuto abbastanza tempo per dimostrare che sbagliavi.<br />
Perché non ho saputo fare le scelte giuste. Perché non ti ho salutato, prima<br />
di partire. Perché ho creduto che la vita fosse una favola e invece nessun felici<br />
e contenti. Perché ti ho lasciata sola. Perché non ho saputo vivere.<br />
E adesso non so morire.<br />
Ma nonostante questo, ti prego, perdonami. Non lasciarmi qui.<br />
Ti prego.<br />
Portami via.<br />
41
Pierpaolo D’Aprile<br />
Abbi cura di te<br />
GENERE PERCORSO DI FORMAZIONE<br />
1 RACCONTO DA<br />
4 f e r m a t e
Pierpaolo D’Aprile<br />
Che dire? Mi chiamo Pierpaolo D’Aprile e sono nato nel febbraio del 1990.<br />
Ho quindi diciannove anni e forse la mia giovane età mi ha portato a raccontare<br />
una storia verosimile ma che evidenzia, tra il disincanto rispetto agli<br />
altri valori, anche la disillusione nei confronti dell’amore vittima della mercificazione<br />
e dell’accontentarsi, come ogni cosa in questo momento.<br />
Abbi cura di te è l’invito di un padre privato dalla morte del proprio ruolo, l’invito<br />
alla figlia di cui si sente finalmente parte solo adesso che sta per abbandonarla.<br />
Sentimento comune la difficoltà nei rapporti, che si traduce in incomunicabilità<br />
anche in quelle relazioni indiscutibili perché ci sono date, e<br />
anche un padre e una figlia possono divenire estranei l’uno all’altra.
PAOLO<br />
45<br />
Abbi cura di te<br />
L’ultimo raggio di sole comincia a declinare sul vetro piegandosi in un angolo<br />
sempre più vicino allo zero per poi spegnersi. Finalmente sarà più semplice<br />
respirare: la calura estiva sta abbandonando la stanza portando via con sé<br />
anche i rumori lì fuori. Una nuova notte, di nuovo silenzio, di nuovo l’agonia<br />
data dal desiderio di un po’ di riposo, ma ancora una volta i dolori stroncheranno<br />
qualsiasi mio tentativo, dilanierò ancora i seni di Giulia, scavati dal<br />
tempo e, mentre io farò tutto questo, lei chiuderà definitivamente le palpebre<br />
pur non volendo: con sempre maggior frequenza le sbatterà, si sfioreranno<br />
cercandosi prima, unendosi dopo; l’indomani il suo volto sarà macchiato dall’alone<br />
di tristezza perché rea di non esser riuscita a vegliare su suo marito, ma<br />
io terrò gli occhi socchiusi fingendo di dormire e, dopo aver sospirato, la vedrò<br />
sentirsi sempre meno colpevole.<br />
Non ho mai amato i punti di vista, c’è ne stato sempre solo uno per me, il mio,<br />
di anno in anno si è elevato sempre più fino a toccare il metro e ottantatre,<br />
quella era la verità, ogni cosa mi appariva sempre medesima nelle forme, nei<br />
colori, nei modi; io mi muovevo fiero per la strada guardando il cielo, mi ritrovavo<br />
spesso a osservare chi mi stava di fronte dall’alto in basso compiacendomi<br />
del disagio che incuteva la mia fisicità, e non solo le cose o le persone,<br />
anche i rapporti si nutrivano di quella convinzione che tutto fosse così come<br />
apparisse. Io una spanna sopra gli altri per poter controllare e dominare ogni<br />
persona che mi è intorno, così da non osservare più mia moglie, avendo la presunzione<br />
di conoscere ogni singolo centimetro di quel corpo. Mentre di mia<br />
figlia non guardavo che il volto, a sedici anni ancora disegnato da quei tratti flebili<br />
che regalano ingenuità. Rivedevo quella bimba di soli cinque anni che gridava<br />
più forte affinché la spingessi fino a toccare il cielo con la punta dei piedi,<br />
così lei diceva ogni sabato pomeriggio al parco. Non appena scendeva giù, pro-
prio in quell’attimo, lei girava il capo per regalarmi un sorriso, il pegno per una<br />
nuova spinta!<br />
Circa due mesi fa, il mio punto di vista si è incrinato, giù giù fin quasi a toccare<br />
il suolo, come un verme mi rotolo tra le federe; mi rigiro creando delle volute,<br />
nascondendo il viso sotto il lenzuolo per poi rispuntare dopo qualche minuto,<br />
non trovo pace! Il mio sguardo si è piegato fino a sfiorare il suolo e un nuovo<br />
mondo si è aperto dinanzi, avidamente ne ho ammirato le forme, i contorni, gli<br />
spazi, i colori, alla smaniosa ricerca del particolare, che di giorno in giorno si<br />
è resa sempre più intensa. Delle volte mi capita di esserne così avido che i miei<br />
occhi mi puniscono tanto da negarsi, l’immagine diviene opaca, il particolare<br />
si nasconde nel duplicarsi e nell’amalgamarsi delle forme, mi arrendo affondando<br />
la testa nel cuscino, cercando la frescura del lato vuoto.<br />
Il corpo di Giulia sta cedendo, ha sempre i capelli arruffati raccolti in una crocchia<br />
improvvisata, il viso sempre più segnato dall’irrompere dei fiumi della vita<br />
che scavano i loro letti intorno ai suoi occhi gelidi, arricciano la fronte e ne<br />
modificano la bocca. Solo da qui ho visto come il tempo stia agendo anche su<br />
di lei privandola di quella bellezza che non mi ha mai fatto desiderare altro.<br />
Sempre da qui il ricordo di Giada si è modificato, il volto ha lasciato spazio al<br />
corpo, così nuovo, quel suo andamento rachitico e maldestro si è evoluto in<br />
una sfacciata femminilità, si è fatta alta, le anche fertili e i seni gonfi.<br />
Puntualmente passa davanti alla porta intorno alle otto di sera, senza più guardarmi<br />
mi saluta, sbatte la porta e sento veloce il tonfo dei suoi passi giù per le<br />
scale; nel pieno silenzio, sento anche il portone aprirsi e l’immagino andar via,<br />
con i suoi vestitini corti, le magliette tirate, preda di qualche lupo cattivo.<br />
Preda di sé.<br />
GIADA<br />
Non ne posso più! È già mezzora che mi si dimena sopra! Così maldestro! Ogni<br />
tanto si blocca e mi guarda negli occhi per controllare che mi stia divertendo,<br />
demente! Devo far finta di sorridere per non bloccarlo nuovamente con la speranza<br />
che venga al più presto così da poter andar via.<br />
Sì, dai! Vai così… mi tocca pure fingere. Diamine, comincia di nuovo con le<br />
scuse. Non ti preoccupare, fai pure, io sarò qui inerme sotto il tuo corpo. E pensare<br />
che lo avevo desiderato tanto, erano mesi che progettavo tutto nei minimi<br />
dettagli, piegata a tutto e a tutti pur di averlo qui con me. Che delusione! Dai,<br />
Giulia aspetta un momentino, si sta contraendo, che non sia la volta buona? Il<br />
respiro si fa più affannoso… Niente. Ma come si fa a essere così lenti?<br />
È il più bello, da quell’attimo in cui ho sbirciato dalla porta in palestra l’ho desi-<br />
46
derato, ho desiderato le sue labbra così grandi, le sue braccia cosi lunghe tanto<br />
da immaginarmi, un giorno, stritolata tra di esse, le sue spalle cosi possenti da<br />
farmi vibrare. In classe ho imparato a conoscerlo e per quanto superbo, egocentrico<br />
e nauseabondo, lo desideravo come nessun altro, ogni volta che mi<br />
stava vicino sentivo lo stomaco raggomitolarsi, il suo profumo come oppio mi<br />
saliva su per le narici. Non era solo il suo corpo, c’era qualcosa in Lui di così<br />
oscuro e ambiguo da attirare perennemente la mia attenzione tra le pareti scolastiche,<br />
per poi contemplarlo ancora per tutto il pomeriggio e poi ancora nel<br />
letto per abbandonarmi al piacere prima ancora che alla notte.<br />
Non sapevo cosa significasse amare, ma di sicuro Lui riusciva a dominarmi, a<br />
farmi ignobilmente sua senza neppure guardarmi per un solo istante.<br />
Poi venne quel dieci dicembre di due anni fa, il tabù delle sue labbra, io poco<br />
più che adolescente, fu svelato grazie al fortuito roteare di una vuota bottiglia.<br />
Non appena mi si fermò dinanzi il tappo rosso sul suo volto cadde un’espressione<br />
di profondo ribrezzo, i suoi compagni ghignavano. Imbarazzata e felice<br />
subito mi tirai su. Lui, trascinato dalle mani di chi gli stava vicino, fu issato e,<br />
una volta vicino, serrò la sua mano intorno al mio polso stringendola con forza<br />
e mi sussurrò all’orecchio: “È una delle cose più rivoltanti che potesse capitarmi<br />
quella di baciarti, quindi non appena mi avvicinerò con le labbra, tu scostati.<br />
Nessuno se ne accorgerà!”.<br />
Mi guardai intorno, aspettavano tutti avidi quel sacrificio, le loro facce apparivano<br />
contorte in ghigni mostruosi, avrei voluto andar via, ma Lui era lì e forse<br />
non mi sarebbe mai più capitato di averlo. Era ancora così bello, non mi importava<br />
di ciò che aveva detto. Lui era così bello, io ancora una bimbetta irrequieta<br />
con il vestito macchiato di cioccolato e due fossette enormi che mi scavavano<br />
le guance.<br />
Lui si avvicinò, devo scansarmi – pensai – oppure si arrabbierà. Rimasi ferma,<br />
le sue labbra si serrarono alle mie che si mossero veloci nella ricerca della<br />
combinazione più adatta, cercava di allontanarsi, io le serrai ancor di più fino a<br />
quando non mi spinse giù lasciando volare nell’aria un sonoro schiocco che<br />
fece alzare le risate di tutti gli altri ora seduti in cerchio. Raccolsi le gambe tra<br />
le braccia e recuperai la mia posizione con il viso chino sulle ginocchia fin<br />
quando non venne la mamma per portarmi a casa.<br />
Pensavo che quel gesto avrebbe disciolto in me ogni minimo sentimento, invece<br />
lo aveva ancor più acceso: lo inseguivo per la scuola, seguivo tutte le partite<br />
della sua squadra, era diventato per me un’ossessione ma non conoscevo il<br />
modo per riaverlo.<br />
È stato Marco il primo, ricordo ancora l’ebbrezza di potere che provavo ogni<br />
volta che ero sola con lui, strisciava lento su di me facendo attenzione a calibrare<br />
ogni suo gesto, alcune volte dopo ore andavo via fingendo un mal di testa<br />
47
e lui subito mi richiamava il giorno dopo alla ricerca nuovamente di me, del<br />
mio corpo, ma restava sempre Lui il mio obbiettivo. Dopo Marco ci sono stati<br />
tanti altri, non m’importava cosa pensassero, finalmente sentivo di esser potente,<br />
di avere il controllo e nessuno rideva più di me. Qualche giorno fa mi ha<br />
chiamato anche Lui, avevo vinto io questa volta, so che gli interessa solo il mio<br />
corpo ma avrei potuto averlo, anche lui soggiogato da me. Avrei voluto amarlo,<br />
ma non gli sarebbe bastato e se questo risultava l’unico modo per amarlo,<br />
per farlo mio, questo sarebbe bastato a me… lo avrei amato così.<br />
Tra queste coperte, tutto ciò mi sembra solo uno stupido lontano capriccio,<br />
anche Lui mio, anche con Lui ho vinto. Cosa è l’amore rispetto all’ebbrezza<br />
della vittoria? L’ennesimo tassello della mia collezione.<br />
“Ahi!”.<br />
“Pretendi forse che perda tutta la serata con te? Passami il reggiseno, è lì”.<br />
“Ma tu sei tutta matta…”.<br />
Si sta rivestendo, il suo corpo è sempre lo stesso di quel giorno, solo ancora<br />
più bello e quell’espressione stranita lo rende così buffo.<br />
“…ti stavi divertendo e poi mi hai spinto giù dal letto ridendo… Sei proprio una<br />
gran troia”.<br />
Ha sbattuto la porta con violenza. È andato via finalmente. Mi stavo divertendo?<br />
Peccato che tu non sappia leggere i miei pensieri, altrimenti non ne saresti<br />
così certo. Che stupido. Dov’è la maglietta? Eccola lì. Sta squillando il telefono,<br />
ricordo di averlo messo… Lì. Cazzo! La mamma, cosa vorrà adesso?<br />
“Pronto”.<br />
“Giada, sono la mamma!”.<br />
“Cosa vuoi?”.<br />
“Devi tornare al più presto a casa”.<br />
“Come tornare? Se sono appena uscita!”.<br />
“Giada ti ho chiesto di tornare a casa”.<br />
“Uffa! Ma perché?”.<br />
“Se ti ho chiesto di tornare a casa ci sarà un motivo”.<br />
“Non m’importa, ci sono gli altri che mi aspettano, ci vediamo dopo”.<br />
“Giada ti ordino di tornare a casa, papà sta male!”.<br />
Patetica, mi ordina di tornare…<br />
“Sì lo so che ha una strana influenza ma torno tra un po’, non vi preoccupate”.<br />
“Giada ritorna immediatamente… papà sta molto male”.<br />
“Cazzo, mamma adesso hai proprio rotto, ci vediamo dopo ciao!”.<br />
“Giada! Torna adesso! Tuo padre sta… morendo”.<br />
48
GIULIA<br />
Delle volte, sentendo orrore, penso a lei come se fosse morta; ho ornato la<br />
casa di ogni sua foto, ogni istante che trascorro tra queste mura ho i suoi occhi<br />
che mi scrutano, che mi cercano. Ho una sua foto sempre con me, ne ho fatti<br />
duplicati da disperdere in auto, nelle borse, tra le mie carte, un paio sulla scrivania,<br />
tre nel portamonete: una scattata da Paolo appena venuta al mondo, una<br />
nel suo primo giorno di scuola, l’ultima con i suoi lunghi capelli biondi.<br />
Ricordo ancora quell’anno in campagna e il suo terzo compleanno. Sorrido<br />
ripensando a quella sua gran gelosia nei confronti del mio cappellino di paglia,<br />
lo aveva scovato in un’antica cassa e subito, ancora impolverato, lo aveva calato<br />
sulla testa tirandolo giù fino a metà viso tanto da nascondere gli occhi e<br />
cominciando a starnutire. Allungai la mano per tirarlo via, ma pur continuando<br />
a starnutire, scostò il capo. Dovetti contrattare con lei per circa mezz’ora prima<br />
di riaverlo indietro per ripulirlo e, per tutto il tempo, mi guardò stizzita contorcere<br />
le dita con un panno sul cappello. Io sorridevo, proprio come adesso,<br />
guardandola e tutto ciò non faceva altro che farla arrabbiare di più. Il colore<br />
rosso si disperse sul suo volto non appena le ridiedi il cappello, allungò le sue<br />
braccia al collo e mi baciò, quel sorriso che recideva il suo viso si stagliava<br />
come un papavero tra le spighe piegate al vento.<br />
Quella sua gelosia si spense in un giorno, ma quelle poche ore di passione la<br />
portarono a serrarsi il copricapo a ogni rivolo di vento, a ogni mano maldestra<br />
che avrebbe potuto portarglielo via. Questo suo essere così sfuggente faceva<br />
divertire tutti quanti, mentre lei, imbronciata, raggiungeva gli scalini sul retro,<br />
strizzava gli occhi e sbuffava. Avida, introversa, decisa, ha sentito gli altri sempre<br />
come una forza oscura pronta a farle del male, anche me, sua madre e, per<br />
quanto volessi penetrare in quel suo mondo, era sempre lei l’usciere a decidere<br />
quando aprirmi la porta.<br />
Col passare degli anni, mattone su mattone ha murato quella porta, divenendo<br />
impenetrabile, la vedo aggirarsi per casa come un’entità, un ectoplasma che ha<br />
sostituito mia figlia ma che di quella bambina non ha che qualche tratto. Ho<br />
paura di non riuscire più a farla di nuovo mia, mi crogiolo nel ricordo, eppure<br />
lei è lì. Come reagirai, piccola? Papà sta per andare via, resteremo sole io e te.<br />
Lo so, avremmo dovuto dirtela prima la verità, ma papà non voleva renderti<br />
ancora più triste, questo era il suo ultimo atto di difesa prima di non poterti<br />
difendere più. Io, io non ti ho detto niente perché ho paura, ho paura di rimanere<br />
sola con te, ho paura di noi due… sole.<br />
49
PAOLO<br />
Pensavo che anche questa notte sarebbe scivolata via come le altre, tra i miei<br />
lamenti soffocati nei seni incavati di Giulia e i dolori. Questi, invece, hanno<br />
mollato, ogni rumore mi sembra sempre più ovattato, sono terribilmente stanco<br />
e la vista si è fatta opaca, solo un dolore lancinante alla testa mi molesta.<br />
Dovrei esserne contento, al contrario sento che questa agonia sta per terminare,<br />
portando con sé anche quello che resta di me. Giulia piange, mi è vicina,<br />
mi tiene la mano ma il suo tocco si fa sempre più lontano e con la bocca impastata<br />
le dico di star calma. L’ho sentita urlare prima, sicuramente parlava con<br />
Giada, la mia piccola Giada che solo in questi giorni ho scoperto non più così<br />
piccola. Ogni volta ho pensato che le sarebbe bastato sempre, come da bambina,<br />
un regalo per farle tornare il sorriso e ho scoperto che tutto ciò non<br />
basta. È sempre scura in volto, non ha amore! Stupidamente ritenevo che il<br />
solo esserle padre presupponesse tutto il mio amore per lei e ora è troppo<br />
tardi. Giulia è spaventata, sconfitta e distrutta, disincantata, sente sua figlia<br />
come un’estranea e per quanto certi rapporti ci siano dati essi non richiedono<br />
minore attenzione. Giada si è illusa del fatto che l’amore non conti, che possa<br />
bastare altro, ma sarà dilaniata quando scoprirà la bugia di questo compromesso.<br />
Per fortuna potrà scoprirlo solo quando sarà veramente innamorata e<br />
le sue pene si allevieranno presto, il rimorso forse no!<br />
Strano, potrei anche pensare che tutto ciò mi sia servito per conoscere mia<br />
moglie e mia figlia, ma resta il fatto che ora che le ho conosciute non vorrei<br />
andar via: è crudele tutto ciò!<br />
La chiave gira nella toppa, è Giada e sta correndo qui, è spaventata, ora la conosco<br />
bene. Per la prima volta si sta accorgendo che suo padre la sta lasciando e,<br />
per quanto si aggrappi al mio corpo, non riuscirà a trattenermi qui, non ce la<br />
faremo, piccola! Paolo, è qui la sua guancia, sforzati, puoi riuscirci, è l’ultimo<br />
atto, accumula tutte le forze perché tra qualche istante non ti serviranno più.<br />
Come è morbida e dolce la sua guancia ora che la bacio. Si è abbandonata sul<br />
mio sterno, i suoi capelli oro abbondano su di me.<br />
“Giada”, sussurro. “Giada”. Ha scostato la testa, ha sentito la mia voce.<br />
Aspetta, non adesso, ancora un attimo! Giulia non piangere è tua figlia e saprai<br />
cavartela. È così terribilmente difficile, loro piangono e io non posso difenderle,<br />
le sto abbandonando e tutto sta per finire.<br />
“Giada non ti accontentare mai di quello… della vita. E… Abbi cura di te!”.<br />
50
Luca Di Bartolomeo<br />
Il berretto verde<br />
GENERE TRAGICOMICO<br />
1 RACCONTO DA<br />
4 f e r m a t e
Luca Di Bartolomeo<br />
Io e la scrittura ci siamo incontrati per caso un paio di anni fa sul ponte di<br />
Messina a metà strada tra il Paese della Cuccagna e l’Isola che non c’è.<br />
Aveva l’auto in panne ma io, che mi intendo di motori, riuscii fortunatamente<br />
a risolvere il guasto e ad aiutarla a ripartire.<br />
Da allora siamo diventati amanti.<br />
Ci corteggiamo a suon di sostantivi e metafore, giocando col gusto e il giusto,<br />
scambiando l’apparenza con la realtà.<br />
Il nostro, fondamentalmente, è un rapporto di complicità. Ci completiamo<br />
come il sole e la luna e anche nel nostro gioco siamo sinceri, come la luce.<br />
Tra di noi non esistono ansie né paranoie, ma solo attese, indispensabili per<br />
sorprenderci. Ci piace scoprire sempre nuove cose e siamo una coppia piuttosto<br />
intraprendente.<br />
Per questo motivo i miei generi preferiti sono il giallo, specialmente quello<br />
classico, capace di trasmettermi l’adrenalina e il senso di aspettativa comune<br />
a un vero corteggiamento, e la poesia, con la quale posso sorprendere<br />
le parole e me stesso in sempre nuove sperimentazioni.<br />
Di conseguenza, per il genere giallo, il mio autore preferito è l’Agatha<br />
Christie delle storie di Poirot, mentre per la poesia i miei gusti non conoscono<br />
restrizioni. Infine, per quanto riguarda la narrativa, il mio autore preferito<br />
è sicuramente Gabriel Garcia Marquez, che coniuga nelle sue storie prosa,<br />
poetica e suspense.<br />
Anche questo mio racconto, nel suo piccolo, cercherà, come ogni buon giallo<br />
o poesia, di creare in voi un senso di attesa e di stupirvi: la sorpresa, naturalmente,<br />
è tutta nel finale.<br />
Dunque, buona lettura e… attenti al berretto verde!
Il berretto verde<br />
Si tuffò nell’orizzonte sbiadito. Lo sguardo era un petalo che si era posato sull’ultimo<br />
respiro della luce.<br />
Mary era una signora dall’improbabile età che viveva con sua figlia Jessica in<br />
un monotono monolocale monouso nel cuore della periferia di New York.<br />
Si era trasferita in quella città quasi trent’anni prima quando la figlia era ancora<br />
in fasce. Jessica dunque era cresciuta nella casa dove ancora abitava insieme<br />
alla madre, e che ora sosteneva grazie al suo lavoro d’insegnante di nuoto.<br />
Un giorno, prima di andare al lavoro, Jessica chiese alla madre di recarsi a<br />
Times Square per ritirare un pacchetto che aveva ordinato ma che non aveva<br />
mai potuto ritirare a causa della mancanza di tempo. Sicché Mary che, nonostante<br />
la sua età, era ancora abbastanza autonoma e capace, si vestì con cura<br />
e scese in strada per aspettare il pullman che l’avrebbe condotta in centro. Il<br />
pullman arrivò puntuale come sempre, undici e trenta precise. Mary salì a<br />
bordo esitante e si guardò attorno per scovare un posto libero. All’improvviso,<br />
quasi alla fine dell’autobus, vide suo marito, col suo solito berretto verde, farle<br />
cenno di sedersi accanto a lui. Subito lo raggiunse.<br />
“Ciao Jack. Che ci fai qui?”.<br />
Ma lui non rispose.<br />
“Sei silenzioso. Ah, forse ho capito: Brown ti ha fatto arrabbiare un’altra volta.<br />
Te lo dico sempre che ti devi licenziare da quello là. Vabbé non pensiamoci.<br />
Andiamo a casa”.<br />
Alla 5th Ave Station salì il controllore.<br />
“Biglietti prego”, disse rivolgendosi a Mary.<br />
“Ecco a lei”, disse. Poi, indicando il posto accanto al suo: “Per lui pago io. Sa,<br />
ha avuto una brutta giornata oggi”.<br />
Il controllore la guardò con una smorfia e scese al Bryant Park.<br />
In breve l’autobus superò la fermata vicina a Times Square. Intanto Mary<br />
53
osservava divertita dal finestrino le sensuali colline della Maremma toscana,<br />
volgendo di tanto in tanto lo sguardo verso suo marito, sempre taciturno.<br />
“Ti ricordi quando siamo andati la prima volta al Duomo di Firenze?”.<br />
Quella notte, al telefono di casa Powell: “Pronto la signora Jessica Powell?”.<br />
“Sì, sono io agente. Avete trovato mia madre?”, domandò agitata.<br />
“Sì, l’abbiamo trovata alla Port Authority Bus Terminal. Gli autisti ci hanno<br />
detto di averla vista dopo la chiusura, quando hanno cominciato a pulire i pullman.<br />
Stava tranquillamente seduta tra gli ultimi posti. E ci hanno anche detto<br />
che quando l’hanno invitata a scendere ha cominciato a parlare di un paese italiano<br />
e ha ordinato una pizza. Secondo noi si è solo addormentata durante la<br />
corsa e forse non si era ripresa dal sogno”.<br />
“Ok, ok, ma adesso sta bene?”.<br />
“Sì, tutto bene. È qui al distretto. Può venire a prenderla”.<br />
“Ok, vengo subito”.<br />
Jessica ritrovò la madre ciondolante su una sedia del commissariato.<br />
“Che cosa è successo?”, le chiese.<br />
“L’agente ha detto che mi sono addormentata”, rispose svegliandosi.<br />
“Ok, domani mi racconti”, concluse lei con insolita calma. “Andiamo a casa”.<br />
L’indomani mattina.<br />
“Mamma sei pronta?”.<br />
“A fare che cosa?”, chiese Mary.<br />
“Andiamo dal signor Mattews”.<br />
“Ma chi, il dottore?”.<br />
“Sì”.<br />
“E che andiamo a fare?”.<br />
“Voglio chiedergli qualcosa su ieri”.<br />
“Ma no, non è stato niente. Mi sarò addormentata”.<br />
“Comunque ho già preso un appuntamento. È tra mezz’ora”.<br />
Il dottor Mattews era uno psicologo della New York University, che riceveva su<br />
appuntamento in uno studio privato non molto distante dal Roosevelt Hospital.<br />
Lo studio del dottore era molto spazioso, luminoso e ben arredato.<br />
Mary si trovò subito a suo agio.<br />
“Oh, signora Powell, che piacere rivederla!”, esordì il medico.<br />
“Purtroppo non posso dire altrettanto”, disse la donna.<br />
“Mamma, non essere scortese”, la zittì Jessica. “Scusate dottore”.<br />
“Si figuri. Ma ditemi, come mai questa visita?”, chiese sogghignante.<br />
“Siamo venute per quel problema a cui le accennavo ieri sera”, rispose Jessica<br />
riverente.<br />
54
“Ah, già. Allora prego signora, si accomodi”. disse a Mary indicandole il lettino.<br />
La donna obbedì annoiata.<br />
“Allora, vediamo un po’…”, ripeteva lo pseudomedico osservando ora gli occhi<br />
stanchi di Mary, ora auscultandole il cuore, ora rivolgendole qualche sciocca<br />
domanda.<br />
“Bene, bene… anzi male”.<br />
“Che significa dottore?”, chiese Jessica con la faccia preoccupata.<br />
“Mi dispiace ma sua madre ha una malattia molto grave”, sentenziò.<br />
“Non mi dica questo, dottore”, lo interruppe spaventata.<br />
“Purtroppo è una brutta malattia, signorina”, ripeté il dottor Mattews.<br />
“E come si chiama?”, chiese, nascondendo malamente la curiosità.<br />
“Nostalgia”, concluse imperturbabile.<br />
“Oh mio Dio”, esclamò sul punto di svenire. “Ma ditemi dottore, si può curare?”.<br />
“Vedremo. Intanto fatele prendere queste compresse due volte al giorno. Mi<br />
raccomando”, disse a Jessica porgendole un piccolo flaconcino.<br />
“Non si preoccupi, dottore, farò in modo che le prenda ogni giorno”.<br />
Intanto Mary li guardava divertita.<br />
Il giorno dopo Jessica chiese di nuovo alla madre di recarsi a Times Square.<br />
“Prima però prendi la pillola. Ecco tieni”, disse porgendogliela con un bicchiere<br />
d’acqua. “Mi raccomando, per qualsiasi cosa chiamami. Siamo intese?”.<br />
“Sì”, disse Mary seccata.<br />
“Ok, allora ci vediamo oggi. Ciao”.<br />
“Ciao”.<br />
Alle undici e trenta passò il pullman. Mary vi salì di fretta. Questa volta era<br />
ansiosa di vedere suo marito. Lo trovò tra gli ultimi posti, sempre silenzioso.<br />
“Ciao”, lo salutò, come sempre ricambiata dal suo silenzio.<br />
A un certo punto però il marito si girò di scatto e le disse: “Ora devo andare”.<br />
“Ma no aspetta, resta a guardare questo bel cielo azzurro con me”, lo pregò,<br />
indicando la coltre di fumo che li avvolgeva.<br />
“Addio”, concluse lui baciandole la fronte.<br />
Sparì. E Mary dovette scendere sconsolata alla fermata di Times Square.<br />
Jessica aveva da poco finito il suo turno alla piscina. Decise allora di andare al<br />
supermarket per fare un po’ di spesa. Sulla via, però, si imbatté in un ingorgo<br />
e, mentre era bloccata in macchina a pigiare con forza il clacson, si accorse del<br />
cimitero alla sua destra. Pensò che erano quasi due anni che non vi entrava,<br />
occupata com’era dai numerosi impegni. Decise allora che quella era la volta<br />
buona per impegnare il suo tempo in qualcosa di utile. Scrollandosi di dosso le<br />
auto che le stavano appiccicate, parcheggiò accanto all’entrata.<br />
55
Lì trovò la solita fioraia dallo sguardo gentile, comprò cinque tulipani e si avviò<br />
dritta verso una tomba grigia proprio di fronte all’ingresso.<br />
“Chi era?”, la spaventò una voce. Alle sue spalle un uomo di mezza età, nascosto<br />
dalla sua ombra, aspettava una risposta.<br />
“Mio padre”, disse piano indicando l’epitaffio sulla tomba. Jack Powell.<br />
12-11-1932 † 30-03-1999. “È morto dieci anni fa”.<br />
“Mi dispiace”, disse il vecchio. “Ma come è successo?”.<br />
“A quell’epoca i miei genitori avevano deciso di fare una vacanza in Italia, perché<br />
mia madre desiderava da sempre vedere quel paese di cui aveva tanto sentito<br />
parlare.<br />
A marzo dunque partirono con l’aereo. Durante il viaggio però mio padre ebbe<br />
un infarto e morì”, disse volgendo lo sguardo alla tomba.<br />
“Oh, mi dispiace”.<br />
“Già. E lei come mai qui?”, chiese, ancora in quella posizione.<br />
“Per mia figlia”, rispose lui.<br />
“Oh, mi dispiace, come è successo?”, domandò senza voltarsi.<br />
“Stava dimenticando”.<br />
“Una brutta malattia allora, problemi mentali?”, concluse lei.<br />
“Sì, forse”.<br />
A un certo punto, sentì la presenza del vecchio assottigliarsi sempre più e i<br />
suoi passi recedere come un fruscio di foglie. Sicché si girò di scatto.<br />
Il vecchio se ne stava andando, lasciandola sola.<br />
Cominciò dunque a osservare la sua andatura a intervalli lenti, le spalle un<br />
poco chinate, il cappello familiare. E, con un filo di voce, stupita di sé, supplicò:<br />
“Papà?”.<br />
Ma il berretto verde si allontanava verso la fermata dell’autobus.<br />
56
Setaré Kameli<br />
Il ritmo lento e regolare della<br />
natura<br />
GENERE NARRATIVO<br />
1 RACCONTO DA<br />
6 f e r m a t e
Setaré Kameli<br />
Ho diciotto anni e mi chiamo Setarè, stranezza dovuta al fatto che mio padre<br />
è nato e cresciuto a Teheran. Forse è per questo, forse è per la straordinaria<br />
apertura dei miei genitori o per la grande cultura iraniana che fa dell’ospitalità<br />
e dello scambio i valori supremi, che sono sempre stata attratta da<br />
tutto ciò che è diverso, che è altro, che a noi pare lontano o inconcepibile.<br />
Mi affascinano le danze popolari, gli strumenti tradizionali, i paesaggi a cui<br />
non siamo abituati e le persone provenienti da angoli di mondo lontani. Mi<br />
piace viaggiare, partire senza meta perché quella si costruisce durante il<br />
percorso attraverso gli incontri, le suggestioni, la fiducia. E se viaggiare è<br />
guardare il mondo, capirlo, entrare in connessione con esso, allora credo<br />
che viaggiare sia un’arte. E credo fermamente che, per me, la scrittura scaturisca<br />
da questo: ogni volto, ogni voce, ogni albero o fiume o montagna raccontano<br />
una storia che si può prendere, interpretare, filtrare attraverso la<br />
nostra rete di cultura, idee e convinzioni per raccontare qualcosa al mondo<br />
e immettere così un po’ di noi stessi in quel mondo che ci ricambia con infinite<br />
emozioni, che rende possibili le nostre esperienze, che ci ricorda continuamente<br />
quanto sia importante la sintonia col tutto. E ogni incontro, a<br />
modo suo, contribuisce alla nostra crescita, alla nostra apertura mentale,<br />
alla nostra maturità e alla nostra vita. Perché la vita è continuo, inarrestabile<br />
scambio. Credo che il mio racconto, e in generale il mio modo di scrivere,<br />
riflettano questa mia visione del mondo… o almeno è questo che vorrei,<br />
un giorno, riuscire a fare.
Il ritmo lento e regolare della natura<br />
Mi hanno insegnato a sentirmi un pezzo d’ombra, un frammento di notte, una<br />
striscia d’ebano, il negativo di una foto a colori, quel negativo che nessuno<br />
nota. Ironia della sorte, mi chiamo Cao. “Come Cacao”, mi presento sorridendo;<br />
ma il mio sorriso ha un retrogusto amaro, come un caffè poco zuccherato.<br />
Eppure è bianco, il mio sorriso è straordinariamente bianco.<br />
Sono arrivato qui su una nave sgangherata, avevo sei anni e nessuno a fianco,<br />
o almeno, nessuno nelle cui vene scorresse il mio stesso sangue… eppure in<br />
Senegal la parentela è un concetto relativo, più che il DNA conta l’affetto: si<br />
può essere fratelli in un momento difficile, in un abbraccio, in un rullo di tamburi,<br />
in uno sguardo, in una mano nera tesa, in un sorriso bianco.<br />
Eccezionalmente bianco.<br />
Ho sempre pensato che i denti siano la parte migliore di un corpo: sanno<br />
masticare del buon cibo, sanno nascondersi dietro due labbra carnose, sanno<br />
affacciarsi timidamente, oppure esplodere in una risata col loro abbagliante<br />
luccichio: bianco.<br />
Bianco come quelle persone che escono dai centri estetici soddisfatti del loro<br />
nuovo, fiammante color aragosta. Mi hanno sempre fatto sorridere; è assurdo<br />
come gli uomini sentano sempre l’esigenza di cambiare se stessi: se fossero<br />
nati con la pelle scura, probabilmente non si piacerebbero, sono gli sforzi per<br />
ottenerla a rendere la bellezza così affascinante, io lo so bene. Ogni giorno, in<br />
piedi dietro la mia bancarella, vedo donne di tutte le età che lasciano scorrere<br />
i miei gioielli fra le dita, osservandoli con cura da ogni angolazione: qualcuna<br />
commenta, qualcuna li prova e rivolge alle altre un insistente “come mi sta?”,<br />
qualcuna, di tanto in tanto, prova a sgraffignare qualcosa. La mia bancarella è<br />
strapiena di oggetti luccicanti, generosi specchi di sguardi entusiasti. Ma io<br />
sono ebano, e resto nell’ombra.<br />
Sono stanca, stanca di tutto. Stanca delle fredde luci al neon che illuminano i<br />
59
vestiti, quelli che ogni giorno provo a vendere: li illuminano per renderli più<br />
belli, perché le signore che mi cercano fra gli scaffali soltanto per chiedermi<br />
“come mi sta?” intuiscano già la risposta. Sono stanca del vuoto chiacchiericcio<br />
che ronza per le strade, stanca dell’aria irrespirabile, del mare così vicino eppure<br />
così lontano, reso irraggiungibile dai mille impegni che paralizzano le mie<br />
giornate. Sono stanca delle risate fredde e inconsistenti, quelle che distendono le<br />
labbra in un largo sorriso, quelle che emettono uno stridulo rumore ma lasciano<br />
gli occhi più freddi del metallo, sono stanca di scendere di casa per una birra e<br />
per far finta di star bene.<br />
Però c’è una cosa, in questa città, che davvero mi fa star bene: è la pelle tesa di<br />
una tammorra e il trillo vibrante dei suoi sonagli, le voci calde e le sorde castagnette<br />
che la accompagnano. I balli sul tamburo sono parte dell’anima di noi<br />
napoletani, e sono in molti a impegnarsi perché la tradizione non cada nel<br />
dimenticatoio: in primavera decine di feste popolari la cui origine si perde nell’aria<br />
immobile delle campagne campane rallegrano l’aria e l’animo della gente.<br />
Ma adesso è ancora febbraio.<br />
Oggi gli affari vanno male, davvero male: hanno comprato un solo paio di orecchini<br />
e rubato una collana. La giornata volge al termine, mentre batto la mia<br />
rabbia sulla pelle tesa del mio bongo e le persone neanche mi vedono, scivolando<br />
indifferenti sul marciapiede asfissiato dall’asfalto.<br />
Oggi c’era il sole, un freddo sole invernale, e il cielo era azzurro, di un azzurro<br />
limpido e trasparente… ma l’unica luce che ho visto era quella al neon del negozio,<br />
e adesso è troppo tardi: offuscate da una patina viola inquinamento, spuntano<br />
già le prime stelle. Un sordo suono di tamburi scivola nell’aria, mi lascio<br />
trasportare.<br />
S’è avvicinata alla mia bancarella, cosa vorrà?<br />
Non sono tamburi, è un solo bongo.<br />
Ha un bel cappotto verde acqua.<br />
Però, che maestria… sembrava il suono di quattro tamburi.<br />
Mi guarda, s’avvicina. Forse non sono invisibile come pensavo.<br />
Invece è solo.<br />
60
Il suo sguardo mi trapassa. I suoi occhi brillano più di tutti i miei finti smeraldi.<br />
Le sue mani, le sue mani, un’opera d’arte. L’anima sa mostrarsi nelle parti più<br />
impensate.<br />
Sorride. I miei gioielli non sono che ammassi di cenere di fronte alla sua luce.<br />
Guarda come suona, la pelle del tamburo obbedisce alle sue mani, quasi fossero<br />
una cosa sola.<br />
Sorrido.<br />
“Sei bravo”. Quanta luce nel suo sorriso.<br />
È passato un mese e sono ancora ebano, ma l’ebano non è più invisibile: adesso<br />
è un legno pregiato. Si chiama Aurora, e non potrebbe esserci nome più<br />
adatto a lei, che splende come il sole al mattino. Ogni sera parliamo, a volte<br />
prova a suonare: ha un tocco delicato e fermo, mi piace guardarla imparare.<br />
È in gamba, davvero. E mi piace come sa ascoltare… i più ormai l’hanno dimenticato,<br />
non sanno cos’è un discorso: conoscono solo le chiacchiere vuote. Gli ho promesso<br />
che lo porterò a una festa popolare, è la cura migliore per chi è malato di<br />
pregiudizi, per chi ancora non è entrato in contatto con la vera anima di Napoli.<br />
La prendo in giro, dico che qui non c’è calore. La gente è fredda e disinteressata.<br />
“Vedremo”, mi sorride. “Vedremo”.<br />
È maggio, l’aria profuma. È maggio e a Maiori, in costiera amalfitana, c’è la<br />
festa più bella di tutte, la Madonna dell’Avvocata.<br />
“Mi piace, perché devi saperla conquistare”.<br />
“Conquistare?”.<br />
“Si parte al mattino e il sentiero che s’inerpica sul monte richiede tre ore di<br />
cammino”.<br />
Stiamo salendo, sono esterrefatto. Il panorama è indescrivibile.<br />
“Soffri di vertigini?”.<br />
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“Vertigini?!? No, soffro di brividi”.<br />
“Di brividi?”.<br />
“Sì… perché questo è lo spettacolo più bello del mondo”.<br />
Sorrido della sua incredulità e penso che abbia ragione: il mare visto da un sentiero<br />
a picco sulla sua distesa azzurra è davvero lo spettacolo più bello del mondo.<br />
Dove mi ha portato? È fantastico. Arriviamo in cima e ad accoglierci è una gran<br />
festa: dovunque braci accese, tammorre che suonano, gente che balla. Ballano<br />
al ritmo lento e regolare della natura. Ci offrono da mangiare e da bere, e se<br />
rifiutiamo s’offendono… sono incredibili.<br />
“Ti piace? Questa è Napoli, te la presento”.<br />
Sorrido, lei è incredibile. I suoi occhi brillano come fili d’erba impreziositi da<br />
mille gocce di rugiada.<br />
Sorrido, lui sorride. Una pantera, un tronco d’ebano, un sorriso più luminoso del<br />
sole, ha ritrovato un pizzico di felicità.<br />
“Mi sento a casa”.<br />
Sorrido. La casa è l’ospitalità della gente, è ballare a piedi nudi sul terreno, è il<br />
ritmo vibrante di mille tamburi… è il ritmo lento e regolare della natura.<br />
62
Giovanni Merone<br />
JUD<br />
GENERE RACCONTO DRAMMATICO<br />
1 RACCONTO DA<br />
10 f e r m a t e
Giovanni Merone<br />
Scrivere è sempre stata una passione da quando ero piccolo, un amore che<br />
mi è stato infuso principalmente da mia madre. Ricordo ancora i pomeriggi<br />
passati con lei, quando frequentavo ancora le elementari e mi aiutava<br />
pazientemente a svolgere i compiti che mi venivano assegnati a scuola: ogni<br />
volta che c’era da scrivere qualcosa, mia madre era lì con me e mi aiutava<br />
a spingere sempre più in là l’orizzonte della mia fantasia. Una passione,<br />
quella per la scrittura, cresciuta insieme a me, che ha trovato in un’insegnante,<br />
conosciuta durante il mio percorso di formazione, ossigeno puro che<br />
ne ha alimentato la fiamma. Al giorno d’oggi, il progetto Subway rappresenta<br />
una sfida per me, un modo per mettermi alla prova, per ricordarmi che<br />
anche essendo iscritto al secondo anno del corso di laurea di Medicina e<br />
Chirurgia, ciò non vuol dire che le uniche cose che scriverò tra qualche anno<br />
saranno solo i referti medici.<br />
Il racconto che propongo si chiama JUD, ed è una storia in cui ho creduto<br />
e credo molto. Il tema principale che pervade la storia è essenzialmente<br />
l’amore: quello tra un uomo e una donna, tra un fratello e una sorella, l’amore<br />
per chi riteniamo diverso da noi, l’amore che dovrebbe stringere<br />
come un unico abbraccio tutta l’umanità. Il racconto è ambientato durante<br />
il periodo nazista, ma non prendetelo come qualcosa di estremamente<br />
veridico dal punto di vista storico: la storia è stata modellata per donare<br />
l’emozione massima a me che scrivevo e, spero, anche a coloro che lo<br />
leggeranno. Sebbene la voglia di essere selezionato sia tanta, sarebbe<br />
per me già un enorme traguardo se Hans e Anne (i due protagonisti della<br />
storia) vi accompagnassero lungo la lettura, come hanno accompagnato<br />
me mentre scrivevo.
65<br />
JUD<br />
“Dai, colpiscilo! Che c’è, ti manca il coraggio?”.<br />
“Scommettiamo?”.<br />
“Dieci che non riesci neanche a centrarlo!”.<br />
Hans era concentratissimo: prese la mira, tese il braccio e lanciò la pietra. E ci<br />
riuscì. Il ragazzo colpito si rifugiò velocemente nel vicolo.<br />
“Questo è culo, però!”, esclamò Franz.<br />
“Ma quale culo! Obiettivo centrato in pieno, alla testa! Su, sgancia i soldi!”,<br />
rispose Hans.<br />
Hans e Franz erano al settimo cielo: erano sul muro! Joseph, il padre di Hans,<br />
faceva la guardia proprio lì e li aveva portati a vedere finalmente il ghetto di cui<br />
parlava tutta la città.<br />
“Dai Anne, si può sapere cos’hai? Ci stai tenendo il broncio da quando siamo<br />
arrivati!”, esclamò Hans, rivolto a una ragazza dai folti capelli biondi e dalla carnagione<br />
estremamente chiara. La ragazza si voltò e lo fissò nei suoi penetranti<br />
occhi scuri.<br />
“Lo sai che non volevo venire qua!”, rispose.<br />
“Ma come? Ma ti rendi conto dove sei? Lo sai che tra qualche mese qui confluiranno<br />
ebrei da tutte le parti d’Europa?”.<br />
“Oh, sai che bello! Guarda, quasi non mi reggo in piedi dall’emozione!”, ribatté<br />
sarcastica.<br />
“Ah, vero! Com’è che dici tu? «Gli ebrei sono come noi»! A volte dimentico che<br />
hai avuto il barbaro coraggio di diventare amica di uno di loro! Chissà cosa ne<br />
penserebbe tuo fratello, che è partito per il fronte con i tedeschi… può darsi<br />
che lui sarebbe riuscito a farti ragionare!”.<br />
Gli occhi di Anne si infiammarono: con uno scatto si voltò verso Hans e lo<br />
afferrò per la collottola.<br />
“Non osare!”, disse a denti stretti.<br />
Rimasero così a fissarsi, viso a viso, per qualche secondo.
“Allora, chi scende con me?”, esclamò Hans, cercando di cambiare discorso.<br />
“Papà mi ha dato una pistola e ha detto che se vogliamo possiamo fare un giro<br />
nel ghetto!”.<br />
Anne, con sorpresa di Hans, decise di seguirlo, ma Franz non volle accodarsi:<br />
la scusa ufficiale era che si annoiava, ma Hans ed Anne sapevano bene che<br />
Franz aveva paura di addentrarsi tra i vicoli del ghetto.<br />
I due ragazzi scesero delle scalette ripide e incominciarono a gironzolare.<br />
Cucito sulla giubba avevano la scritta ARI, “Ariano”: era l’unico modo per passeggiare<br />
tranquillamente per le stradine di quel quartiere. Procedevano a<br />
passo spedito, fiancheggiando quelle case diroccate dalle quali ogni tanto scorgevano<br />
persone nascondersi al loro passaggio. Ma il silenzio tombale in cui si<br />
muovevano, fu ben presto rotto da delle urla. Hans ed Anne si voltarono: nel<br />
casale a fianco una giovane donna dalla folta chioma ramata, distesa su un<br />
mucchio di paglia, li guardò ed esalò il suo ultimo respiro. Quello sguardo li<br />
aveva fulminati e la scena che si presentava ai loro occhi era agghiacciante: tra<br />
le braccia della donna, una bimba con un panno lurido a mo’ di pannolino piangeva<br />
e si dimenava. Al polso, come la madre, recava un marchio segnato nella<br />
carne: JUD, per “Juden”, “Ebreo”.<br />
Anne si avvicinò per prendere la bambina, ma Hans intervenne.<br />
“Che cosa fai?”, esclamò.<br />
“Sei forse cieco? Non vedi che questa bambina ha appena perso sua mamma?<br />
La voglio portare da tuo padre, non possiamo lasciarla qui!”, gli rispose Anne.<br />
“Qua mi sa che la cieca sei tu! Non vedi cos’ha sul polso? Non vedi che è una<br />
sporca ebrea? Farà la fine che merita! E adesso andiamocene da qui, ne ho<br />
abbastanza di questo posto!”.<br />
Ma mentre Hans trascinava Anne con forza per tornare indietro scorse, per la<br />
prima volta da quando conosceva la ragazza, un’ombra di disprezzo sul suo<br />
volto.<br />
Quella notte Hans non riusciva a dormire. Era rimasto lì, disteso sul letto, a fissare<br />
il soffitto della sua stanza: sapeva bene che cosa lo tormentava, ma<br />
ammetterlo era difficile. Eppure, nel giro di un’ora, con la giubba ARI e la tessera<br />
di riconoscimento del padre, era sgattaiolato fuori dalla finestra. In pochi<br />
minuti fu davanti alle porte del ghetto. Con la tessera del padre e il suo aspetto<br />
più da ventenne che da diciassettenne, entrare fu un gioco da ragazzi. Arrivò<br />
di corsa al casale della mattina: la mamma era ancora lì, con la bocca rimasta<br />
contratta in uno spasimo di dolore, ma la bimba non c’era più. Con una punta<br />
di delusione, Hans incominciò a frugare per la stanza, quando, d’un tratto,<br />
sentì dei rumori e vide un’ombra muoversi furtiva da dietro le finestre.<br />
Spaventato, prese in mano la pistola e urlò: “Chi va là?”.<br />
“Scemo, abbassa quella pistola”, gli rispose una voce familiare.<br />
66
Hans sembrava non credere ai suoi occhi quando dal buio della stanza vide<br />
emergere la sagoma di Anne con la bimba in braccio.<br />
“Lo sapevo che saresti venuto!”, esclamò la ragazza. “Dì la verità: i sensi di<br />
colpa ti stavano distruggendo…”.<br />
“Come sei arrivata fin qui?”, domandò sbigottito.<br />
“Beh, tu hai tuo padre”, rispose, osservando la giubba di Hans. “Io il mio amico<br />
ebreo: i suoi consigli si sono rivelati più utili di quanto tu creda…”.<br />
“Ok, ok… colpito e affondato. Ma adesso abbiamo un bel problema: dove<br />
nascondiamo la bambina?”.<br />
“A questo ci ho già pensato io, la porterò a casa mia”.<br />
“Ma dove la nascondi a casa tua?”, domandò perplesso Hans.<br />
“Fidati, ho un piano”.<br />
“Ok… allora ci vediamo domani a casa tua per discutere meglio il da farsi”.<br />
Entrambi si salutarono così, tornando alle loro rispettive abitazioni.<br />
Il mattino seguente, come promesso, Hans andò a casa di Anne.<br />
“Allora? Dov’è la bimba?”, le chiese appena la vide.<br />
“L’ho nascosta nella casetta che costruimmo insieme sull’albero”, rispose.<br />
Fu un vero tuffo nel passato per Hans: si era completamente dimenticato di<br />
quel rifugio che avevano costruito quand’erano piccoli. Ma d’altronde, oramai<br />
non ricordava neanche più da quanti anni lui e Anne erano amici. Anne era praticamente<br />
la sua amica da sempre: c’era sempre stata per lui come lui c’era<br />
sempre stato per lei. Nonostante le mille differenze e incomprensioni che a<br />
volte li dividevano, li univa un legame forte.<br />
“Guai se i miei genitori sapessero di Sara”, disse Anne.<br />
“Sara?”, domandò Hans.<br />
“Sì, Sara: ho deciso di chiamarla così. Ho letto su un libro che Sara in ebraico<br />
significa «principessa». Con tutti gli altri principi e le altre principesse come<br />
lei, Sara un giorno dovrà avere la forza di perdonare quello che la nostra gente<br />
sta facendo loro”.<br />
Hans non sapeva cosa dire. Tutti gli insegnamenti ricevuti gli avevano inculcato<br />
che lui era superiore, perfetto, puro; ma ora guardando gli occhi della<br />
bambina che aveva di fronte si sentì debole, fragile. Quegli occhi sembravano<br />
chiedere scusa per qualcosa di non commesso.<br />
“Uffa, ecco che ricomincia a piangere!”, esclamò Anne. “Dai tienila un po’ tu,<br />
può darsi che con te si calmi”.<br />
“Io? No, no… ho paura di farle male, non so neanche come tenerla in braccio!”,<br />
rispose Hans.<br />
“Ti faccio vedere io”.<br />
Anne gli adagiò quel fagottino tra le braccia: a quel contatto, Hans sentì come<br />
un’esplosione all’altezza dello stomaco, nei pressi del cuore. Incominciò ad<br />
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accarezzare con un dito la mano piccola e paffuta della bimba: Sara smise di<br />
piangere e, mentre accennava un sorriso, prese a stringere il dito di Hans.<br />
“Oh, ma sei proprio forte!”, esclamò il ragazzo.<br />
Anne accarezzò la fronte di Sara e, sorridendo, alzò lo sguardo negli occhi<br />
commossi di Hans.<br />
“Sì, è proprio una bimba forte”, rispose.<br />
Qualche mese dopo<br />
“Ma come si è fatta grande la nostra Sara! Questa bimba cresce sempre di più<br />
ogni giorno che passa!”, esclamò Hans, spostando dalla fronte della piccina<br />
quella che oramai era diventata una bella chioma ramata.<br />
Era passato qualche mese, Hans e Anne erano riusciti a prendersi segretamente<br />
cura della piccola Sara. Ogni giorno cercavano di rubare un po’ di cibo<br />
dalla dispensa per poter sfamare la bambina, e ogni notte, dopo aver fatto credere<br />
ai propri genitori di essere andati a letto, fuggivano al rifugio per passare<br />
la notte con la piccina. Ma per quanto fossero abbastanza abili, erano consapevoli<br />
di essere equilibristi che si muovevano su di un filo sospeso nel vuoto.<br />
“Li senti questi rumori?”, domandò Anne.<br />
“Certo che li sento… ma perché ti preoccupi? Staranno fucilando qualcuno,<br />
come al solito”, rispose Hans.<br />
“Dobbiamo andarcene da qui”, ribatté secca la ragazza.<br />
“Ah sì? E come ce ne andiamo… volando? Ti devo forse ricordare che l’unico<br />
modo per uscire dalla città è passare dalla dogana? Lì controllano chi è ebreo<br />
e Sara ha il marchio JUD sul polso!”.<br />
“Potremmo uscire dal lato del bosco senza farci vedere dalle SS. Se non ci<br />
vedono non ci costringeranno a passare per la dogana!”.<br />
“E poi una volta fuori che facciamo?”, obiettò Hans. “Tutta la nazione è in mano<br />
ai tedeschi!”.<br />
“Ogni notte, fuori dalla città, c’è un italiano che aiuta gli ebrei, li nasconde nella<br />
sua ambasciata! Me l’ha detto il mio amico ebreo…”.<br />
“Basta! Basta!”, esclamò arrabbiato il ragazzo, interrompendo Anne. “Ma possibile<br />
che ogni volta ripetiamo sempre le stesse cose? E poi chi è questo dannato<br />
amico ebreo? È presente in tutti i nostri discorsi… non ne posso più!”.<br />
Anne si affacciò dal rifugio: ogni volta che Hans parlava del suo amico, lei si<br />
rabbuiava. Il ragazzo osservò il volto di Anne, illuminato dalla fioca luce di una<br />
candela mossa dal vento: il viso incorniciato da quei folti capelli biondi aveva<br />
lo stesso chiarore della luna che la ragazza ammirava alta nel cielo.<br />
“Non esiste nessun amico ebreo”, sentenziò laconica Anne.<br />
A quelle parole, Hans posò la bimba nella culla che le aveva costruito, e si<br />
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avvicinò perplesso alla ragazza, sedendosi al suo fianco.<br />
“Fu qui che lo scoprii”, continuò Anne. “Avevo deciso di seguirlo perché ultimamente<br />
si comportava in modo sempre più strano e la notte lo sentivo fuggire<br />
dalla finestra della sua camera per farvi ritorno sempre più tardi. Non potevo<br />
credere ai miei occhi quando vidi mio fratello, disteso sul pavimento del<br />
rifugio, baciarsi appassionatamente con un altro uomo”.<br />
Hans la fissò sbigottito.<br />
“Ma mi sa che non sono stata l’unica a vederlo”, proseguì Anne, con gli occhi<br />
gonfi di lacrime. “Dopo qualche giorno mio padre lo cacciò di casa, dandogli<br />
del sodomita e denunciandolo alle autorità”.<br />
Hans abbracciò Anne, che singhiozzava sempre più forte, mentre con una<br />
mano le accarezza i suoi chiari capelli.<br />
“Ti prometto che andremo via da qui, Anne”, affermò deciso il ragazzo. “E porteremo<br />
con noi tuo fratello dal ghetto”.<br />
“Mio fratello non è più nel ghetto”, replicò secca Anne.<br />
Hans capì. Comprese finalmente che il “ragazzo ebreo” di cui tanto aveva parlato<br />
Anne, era oramai solo un fantasma.<br />
“Ha tentato la fuga qualche settimana prima che trovassimo Sara, ma è stato<br />
ammazzato”.<br />
Hans asciugò le lacrime dal viso angelico di Anne; solo ora che la vedeva così<br />
fragile, si rendeva conto di quanto fosse stupenda la sua amica.<br />
“Noi ce la faremo, te lo prometto”, rispose il ragazzo. “Scapperemo da questa<br />
città e saremo finalmente felici”.<br />
Hans la guardò a lungo negli occhi, in quegli occhi verdi colmi di lacrime che<br />
avevano tanto sofferto e si accorse di quanto le loro labbra fossero vicine.<br />
Il pianto della piccola Sara riportò bruscamente i due ragazzi alla realtà, e la<br />
realtà era peggio del previsto: solo allora si resero conto che il padre di Anne,<br />
Heinrich, era salito sulla casetta e li stava fissando.<br />
“Cosa ci fa lui qua? E perché quella schifosa ebrea è con voi?”, urlò ad Anne,<br />
mollandole un sonoro ceffone.<br />
“Perché non rispondi! Parla!”, ripeté gridando.<br />
Al secondo schiaffo Hans non ci vide più: con tutta la forza che aveva nelle<br />
mani, sferrò un pugno al padre di Anne. Heinrich dopo aver barcollato per<br />
qualche secondo, perse l’equilibrio e cadde tramortito giù dal rifugio, ai piedi<br />
dell’albero.<br />
“Ti sei fatta molto male?”, domandò Hans, accarezzandole la guancia.<br />
“No, non ti preoccupare”, rispose Anne, sorridendogli. “Ma ora dobbiamo pensare<br />
a scappare. Appena mio padre riprenderà conoscenza non esiterà a<br />
denunciare la presenza di Sara alle SS”.<br />
Hans annuì, avvolse Sara in una coperta e corse con Anne verso casa sua, dove<br />
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in una borsa cercò di raccogliere tutto quello che poteva: cibo, acqua, farmaci,<br />
indumenti, una matita e un foglio che infilò nella tasca dei pantaloni.<br />
Anne e Hans, con Sara in braccio, si incamminarono così per le strade buie.<br />
Con l’aiuto delle tenebre la città aveva indossato la sua solita veste di dolore.<br />
La flebile luce di qualche lampione contornava di mostruoso le ombre delle SS<br />
che sorvegliavano le strade; il vento sembrava trapassare i corpi come un<br />
pugnale; il silenzio aveva il rumore della misericordia non ascoltata.<br />
Hans e Anne erano arrivati, davanti a loro c’era la dogana: una fila di persone<br />
aspettava di uscire dalla città. I due ragazzi cercarono di sgattaiolare dal lato<br />
del bosco senza farsi vedere, ma una SS fischiò. Erano stati visti. Il soldato si<br />
avvicinò.<br />
“Dove credevate di andare?”, chiese sospettoso, puntandogli il fucile contro.<br />
“Volevamo uscire dalla città”, rispose Hans, cercando di mantenere il sangue<br />
freddo.<br />
“Dovete fare la fila e passare alla dogana, non lo sapete?”, domandò sempre più<br />
diffidente.<br />
“Vorrà dire che vi accompagnerò personalmente”, concluse beffarda la SS.<br />
I ragazzi, scortati dal soldato, si misero in fila.<br />
“Cosa facciamo adesso?”, bisbigliò Anne.<br />
“Ho un’idea, ma mi devi promettere che qualsiasi cosa accada alla dogana, tu<br />
non farai nulla”, rispose Hans.<br />
“Questo non me lo puoi chiedere e non te lo posso promettere”, ribatté la<br />
ragazza.<br />
“Fidati di me, Anne”, sussurrò il ragazzo. “Andrà tutto bene”.<br />
Hans le strinse forte la mano e con un sorriso cercò di infonderle la speranza<br />
che animava il suo cuore. Ma mentre Anne non lo vedeva, prese una pietra affilata<br />
da terra e, dopo averci armeggiato e averla gettata, pescò la matita e il<br />
foglio dalla tasca dei suoi pantaloni: scrisse molto velocemente qualcosa che<br />
infilò repentinamente tra le coperte della piccola Sara, prima di stamparle un<br />
dolce bacio sulla fronte e darla in braccio ad Anne. Era il loro turno.<br />
“Qual è il vostro nome?”, domandò il doganiere.<br />
“Siamo Hans, Anne e Sara Konig”, rispose Anne.<br />
“Motivo del viaggio?”.<br />
“Dobbiamo far visita ad alcuni parenti”.<br />
Il doganiere li scrutò a lungo.<br />
“Mostratemi i polsi, compreso quello della bambina!”, esclamò.<br />
“Ma come… non vede che siamo ariani?”, rispose Anne, cercando di guadagnare<br />
tempo.<br />
Il doganiere puntò il fucile contro di loro.<br />
“Poche storie! Noi dobbiamo controllare chiunque esca dalla città, soprattutto<br />
70
ora, dato che poco tempo fa qualcuno ha denunciato un ebreo in fuga con due<br />
ariani. Vi ripeto, mostratemi i polsi!”.<br />
Hans sentì la sua anima risalire dal profondo: un giorno l’uomo avrebbe guardato<br />
a tutto ciò con orrore e si sarebbe vergognato di ogni sua azione; forse<br />
avrebbe capito che non esiste una razza ma un unico cuore, comune a tutta<br />
l’umanità.<br />
“Sono io l’ebreo che cercate!”, esclamò Hans.<br />
Tirò indietro la manica della maglia e mostrò i segni che si era impresso poco<br />
fa con la pietra sul suo polso: JUD.<br />
“Ho costretto questi due ariani a venire con me per facilitarmi la fuga”, continuò.<br />
Anne era inebetita, scossa dal folle gesto del suo amico. Ma Hans le sorrise,<br />
come non le aveva mai sorriso prima: le vennero in mente le parole che il suo<br />
amico aveva pronunciato poco prima. Amare lacrime caddero dai suoi occhi e<br />
bagnarono la fredda strada.<br />
Hans fu subito portato via dal soldato. Neanche un saluto, un abbraccio, un<br />
bacio: l’avrebbero portato via e non sarebbe mai più tornato indietro.<br />
Nella confusione generale che si era creata, Anne riuscì ad abbandonare la<br />
città senza che il doganiere controllasse né il suo polso né, soprattutto, il polso<br />
della piccola Sara. Ed era mentre si allontanava che sentì rimbombare gli spari:<br />
come suo fratello, anche Hans ora non c’era più.<br />
Nella boscaglia che limitava la città scorse Giorgio, l’italiano che le avrebbe<br />
aiutate: Anne si voltò per l’ultima volta a guardare la sua città, stringendo forte<br />
a sé Sara. Si stava incamminando verso il bosco, quando dovette fermarsi:<br />
qualcosa era caduto dalla coperta della bambina. Lo raccolse: scritte a matita<br />
su un foglio c’erano queste parole: “Abbi cura di Sara. Ti amo”.<br />
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Claudia Migliaccio<br />
Incendiaria sciabolata<br />
di Fender Stratocaster<br />
GENERE STORIA DI UNA LENTA FUGA SENZA DIREZIONE<br />
1 RACCONTO DA<br />
4 f e r m a t e
Claudia Migliaccio<br />
Mi chiamo Claudia Migliaccio e da ottobre abito a Pavia perché frequento la<br />
facoltà di Infermieristica. In realtà vivo due vite parallele, credo come ogni<br />
universitario nella mia stessa situazione: a Como torno ogni weekend fra gli<br />
amici di sempre, fra il lavoro in un bar del centro e i vari impegni, mentre a<br />
Pavia sopravvivo alle lezioni e mi convinco sempre di più di aver fatto la<br />
scelta giusta. Avrei preferito una facoltà come Lettere, mi vedevo bene come<br />
giornalista, ma ho scelto la possibilità di avere a breve un lavoro per cui mi<br />
sento portata e vivere fuori casa.<br />
Come ogni persona che scrive, amo leggere di tutto, anche se la predilezione<br />
per i gialli è retaggio di un’infanzia passata sui Piccoli Brividi. Adoro<br />
allo stesso modo i vinili, in particolare quelli di De Andrè: mi emoziona<br />
appoggiare la puntina sul disco e aspettare che le note invadano la casa<br />
(rigorosamente vuota, eccezion fatta per il padrone degli LP che sarebbe<br />
mio padre). Purtroppo la canzone di Janis Joplin e Jimi Hendrix –<br />
Summertime – che ho trascritto nel racconto, ho potuto ascoltarla solo in formato<br />
mp3 (che insulto, lo so!): me ne sono innamorata molto tempo fa,<br />
quando, a dire il vero, volevo fare la “ribelle”, chiaramente con scarsissimi<br />
risultati, perché in fin dei conti rimanevo una secchiona, vestita però da<br />
“scappata di casa”. Ancora oggi, come la poesia dei testi di De Andrè, mi<br />
paralizza ascoltare quell’assolo: certe fughe immaginarie credo siano possibili<br />
attraverso le pagine di un Libro o attraverso la Musica. E questi quattromilacentonovantanove<br />
caratteri sono stati partoriti, per sfortuna di coloro<br />
che leggeranno, mentre quella chitarra suonava nella mia testa, la sera del<br />
giorno in cui ho scoperto che un mio carissimo amico era morto.
Incendiaria sciabolata di Fender<br />
Stratocaster<br />
Era troppo stanca quella sera per uscire di nuovo, anche solo per una birra<br />
veloce. Si era accontentata della soddisfazione del turno in Croce Rossa a scarrozzare<br />
settantenni lamentosi vittime del passare dei giorni, di tornare a casa<br />
nell’orgoglio di quella divisa e di andare a dormire, sperava, sonni tranquilli.<br />
Verso le due il cellulare sotto al cuscino vibrava, ma pensava fosse la sua immaginazione.<br />
Mai avrebbe creduto che, da quel momento in poi, anche solo un<br />
accenno di movimento del telefonino l’avrebbe svegliata di soprassalto per poi<br />
controllare che non ci fosse davvero una chiamata.<br />
Mattino seguente, cambio dell’ora in una normalissima ansiogena quinta liceo<br />
pre-esame di maturità.<br />
“Babi… il Cece… Non c’è più”. Silenzio. “Ieri il Fari mi chiamava ma pensavo<br />
fosse ubriaco e non gli ho risposto. Era sulla tangenziale dove Cece ha fatto<br />
l’incidente. Era lì da solo, c’era l’ambulanza, i vigili. È rimasto tutta notte in<br />
ospedale. Mi ha detto che ha provato a chiamare anche te…”.<br />
Perché su venti persone era lei la prima a essere avvisata? Neanche una lacrima<br />
nell’isteria di diciottenni catapultati nella merda della presa di coscienza<br />
dell’inesorabilità del destino.<br />
Su quelle corsie tanto larghe il suo scooter elaborato correva sicuro verso casa,<br />
ma l’asfalto si era portato via quel sorriso da dolce e romantico delinquente.<br />
Anche lei era salita su quella moto, rigorosamente senza casco, per farsi portare<br />
da lui fino alla macchina parcheggiata fuori da scuola. Quante volte aveva<br />
fatto la tangenziale e per quanto tempo ancora si sarebbe ricordata di lui nel sottopasso,<br />
con il peso della moto che gli soffocava l’ultimo respiro.<br />
Aveva trattenuto il dolore fino alla sera, quando si accorgeva che lo spietato<br />
distacco improvviso era credersi forti e ritrovarsi irrimediabilmente deboli. Si<br />
sentiva smarrita alla ricerca di quel qualcosa che le era stato strappato con violenza<br />
provocandole una ferita che si riempiva di sangue che sgorgava senza<br />
freno, che lasciava una traccia sul corpo, che il tempo mai avrebbe spazzato<br />
75
via. Una lama le lacerava la pelle, in un connubio di sensazioni, di piacere e stupore,<br />
di odore acre e di un intenso colore rosso vermiglio.<br />
Summertime, time, time,<br />
Child, the living’s easy.<br />
Fish are jumping out<br />
And the cotton, Lord,<br />
Cotton’s high, Lord so high.<br />
Una domanda si disegnava sulle sue labbra e le sue orecchie percepivano l’ossessione<br />
che scandiva ogni secondo: Perché? Perché? Perché? Perché? E allora<br />
rivangava nel passato, nella memoria repressa, alla ricerca di un motivo che<br />
potesse spiegare un così grande dolore e, convinta che esistesse, si aggrappava<br />
a una piccola e insignificante certezza e la domanda trovava risposta. La<br />
consapevolezza di un errore c’era, come un’ombra meschina la guardava e le<br />
buttava addosso dubbi e nuove domande, lasciando che le lacrime lavassero<br />
quel sangue in un muto incontro-scontro di dolore e piacere. Nessun rumore,<br />
nessun singhiozzo strozzato, come in un film muto degli anni Venti, di due<br />
canini che affondano nel collo di una donna che senza forze si lascia andare,<br />
piacevolmente stupita, in dolce punto di morte.<br />
Your daddy’s rich<br />
And your ma is so good-looking, baby.<br />
She’s a-looking good now,<br />
Hush, baby, baby, baby, baby now,<br />
No, no, no, no, no, no, no,<br />
Don’t you cry, don’t you cry.<br />
Si risvegliava da quell’ascesa mistica e, catapultata nel buio silenzioso, immobile<br />
si guardava lo squarcio nella pelle e sbirciando cercava una risposta più<br />
soddisfacente, più veritiera… ma non c’era. Mentre ne prendeva coscienza,<br />
avvertiva un lento disgregarsi dell’anima, il suo impercettibile dissolversi che<br />
si dilatava nel tempo. Seguiva l’accordo struggente di un mancino Jimi<br />
Hendrix le cui dita si fondevano eternamente con le corde metalliche, mentre<br />
una voce femminile, resa roca da un’infinità di droghe, urlava il suo dolore.<br />
Allora tutto iniziava a prendere un senso: il momento di paralisi, il susseguirsi<br />
di brividi che arrivavano fino alle dita che stringevano quella Fender<br />
Stratocaster avvolta dalle fiamme, svanivano. Quell’assolo era una sciabola che<br />
squarciava le note.<br />
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One of these mornings<br />
You’re gonna rise, rise up singing,<br />
You’re gonna spread your wings, child,<br />
And take, take to the sky,<br />
Lord, the sky.<br />
Uniche due possibilità: un salto nel vuoto, o una fuga improvvisata.<br />
But until that morning,<br />
Honey, n-n-nothing’s going to harm ya,<br />
No, no, no no, no no, no…<br />
Don’t you cry cry.<br />
Piangeva mentre partiva. Non aveva meta. Le veniva in mente una vecchia<br />
amica che le aveva spedito un racconto: parlava di un principe che lasciava la<br />
sua città per scoprire gli immensi territori di cui era padrone e che ogni sera<br />
che si accampava, mandava uno dei suoi sette cavalieri in modo che portassero<br />
notizie alla sua terra natia. Ma i calcoli erano rigorosi, iniziava a trattarsi di<br />
anni, e le lettere che ogni volta uno dei suoi messaggeri portava, erano ingiallite<br />
dal tempo e raccontavano di persone di cui aveva un vago ricordo, di gioie<br />
e di dolori che il tempo gli aveva reso estranei.<br />
77
Elisa Valdina<br />
Immagini dal nulla<br />
GENERE RACCONTO DI UN’EMOZIONE<br />
1 RACCONTO DA<br />
5 f e r m a t e
Elisa Valdina<br />
Io non so autopresentarmi, non riesco a scrivere di me, o almeno non so<br />
farlo con consapevolezza. In ogni cosa che scrivo traspare qualcosa di me.<br />
Ma lo faccio “di nascosto”, lo faccio con la speranza che il lettore non si<br />
accorga che di sottofondo c’è la melodia dei miei pensieri. Ora sono davanti<br />
a questo schermo da ormai due ore. E su di me non riesco a scrivere niente,<br />
è quella maschera, quella maschera che tutti indossiamo, qualcuno<br />
riesce a toglierla facilmente, qualcuno fa più fatica, per qualcuno è impossibile.<br />
Io penso di far parte della terza categoria, ci provo a toglierla, a lasciarla<br />
scivolare delicatamente o a strapparla con forza, ma niente. Ricordo di<br />
una poesia studiata quando ero alle medie, di Cecco Angiolieri: “S’i fossi<br />
foco, arderei ‘l mondo” .<br />
Ho deciso di accendermi una sigaretta e provare a fare come lui.<br />
Raccontare me stessa immaginando se fossi qualcos’altro.<br />
E se fossi un oggetto cosa sarei? Una macchina da scrivere, amo il suo profumo<br />
di vecchio, amo il rumore dei tasti.<br />
E se fossi un colore che colore sarei? Sarei l’arancione, perché il mio abito<br />
da sposa sarà arancione.<br />
E se fossi una città? Se fossi una città sarei Firenze, perché l’aria di Firenze<br />
è la vera aria italiana, perché Firenze non è Nord e non è Sud. Firenze è<br />
arte, ogni forma d’arte.<br />
E se fossi una canzone? Sarei ogni giorno una canzone diversa, oggi sono<br />
Stupido Hotel, Vasco Rossi.<br />
E se fossi una moto? Sarei una Harley Davidson, perché ho un carattere<br />
che fa rumore, che ama la strada e la velocità, ma non l’eccesso.<br />
E se fossi un fiore? Se fossi un fiore sarei un girasole, perché ho bisogno<br />
dei miei punti di riferimento.<br />
E se fossi un libro? Quanto vorrei essere un libro! Se fossi un libro tra le<br />
parole non ci sarebbero spazi bianchi, alcune parole non avrebbero senso,<br />
per dare al lettore la possibilità di usare tutta la fantasia che vuole.<br />
Se fossi Elisa… e sono Elisa, scriverei tutta la vita.
Immagini dal nulla<br />
Un anziano, molto anziano. È seduto immobile su una panchina all’ombra di<br />
più alberi, erano ulivi, o la mia fantasia li ha disegnati come se lo fossero. La<br />
panchina è di pietra. Fa caldo, è il dieci agosto. Da qui il mare non si vede, ma<br />
spero di arrivarci presto. È una stradina di campagna, è una di quelle stradine<br />
fatte come piacciono a me. Una di quelle strade piene di buche, sembra il<br />
deserto, perché in queste strade non incroci mai altre macchine. È una di quelle<br />
stradine che lascia il segno. Sono in macchina con la mia famiglia, una sorella<br />
di quattordici anni, che è ancora troppo piccola per notare quanto può emozionare<br />
una strada di campagna, lei ha il suo iPod e tutto va bene, due genitori<br />
fin troppo adulti per notare che la loro figlia diciassettenne lascia scivolare<br />
una lacrima lungo il viso per la semplicità di un paesaggio, ma per loro tutto va<br />
bene. Il segno che questa stradina lascerà a mio padre sarà il nervoso per la<br />
macchina sporca di terra, il segno che lascerà a me è quello di una tranquillità<br />
dell’anima. L’anziano ha un bastone in una mano, l’altra mano è appoggiata<br />
alla gamba. Ha una camicia verde scuro, quasi sul colore militare, è sbiadita,<br />
anch’essa vecchia. Non ho fatto in tempo a notare il colore dei pantaloni, ma li<br />
immagino marroni, di lino. Guarda fisso un punto, ma è come se non lo vedesse.<br />
È la differenza tra vedere e guardare. Se fossi stata brava a disegnare, avrei<br />
immortalato quella scena in un dipinto. Un dipinto dai tratti fini, ma ben definiti.<br />
Se fossi stata in macchina da sola, mi sarei fermata, sarei scesa e mi sarei<br />
seduta di fianco a lui. Non avrei detto una parola, perché la compagnia non<br />
sempre è fatta da un discorso, avrei iniziato a fissare quel suo stesso punto,<br />
imbattendomi in un viaggio di fantasia o realtà tra i miei pensieri. In quella<br />
situazione forse avrei trovato il coraggio di prendere la via per quel labirinto<br />
che è la mia mente. Quel labirinto fatto di pensieri. È la mia mente ma, paradossalmente,<br />
per quanto mia è sconosciuta. Ho provato a entrare in quel labirinto,<br />
ma la paura di perdermi al suo interno è sempre stata talmente forte da<br />
farmi tornare indietro. E così so poco e niente di esso, so poco e niente di me<br />
81
stessa. Chissà in quali pensieri era perso lui, chissà se lui lo conosce il suo labirinto.<br />
Potrebbe essere perso in milioni di ricordi, in milioni di sogni, perché<br />
anche gli anziani e gli adulti possono sognare, solo che troppo spesso se lo<br />
dimenticano. Forse sta ricordando la sua giovinezza. Forse pensa a qualche<br />
caro lontano o a qualche viaggio fatto in passato, forse pensa a qualcuno che<br />
se ne è già andato.<br />
Lo vedo solo. Penso a un uomo di ottantacinque anni solo. Mi fa paura la vecchiaia.<br />
Mi fa paura la solitudine. Ecco, ho una fottutissima paura di rimanere<br />
sola. Per quanto quella solitudine, quell’essere anziana sia solo un immagine<br />
lontana, lontanissima, a me fa paura già adesso.<br />
“Papà, papà fammi scendere, fammi scendere vado a vivere con lui!!”.<br />
Ma anche lui un giorno se ne andrà e quel giorno rimarrei io sola. Non voglio<br />
più scendere.<br />
Egoista, egoista, egoista.<br />
Finalmente vedo il mare. Siamo arrivati.<br />
L’anziano è ormai lontano.<br />
Amo la sabbia sotto i piedi, scotta, ma è delicata. La Puglia è bella, il mare è<br />
fantastico. Sì è vero, il mare è sempre fantastico quando non lo vedi da un anno<br />
intero, ma quello della Puglia lo è di più.<br />
Sistemo l’asciugamano dove mio padre decide di mettere l’ombrellone, sto ben<br />
attenta che neanche un po’ d’ombra sfiori il mio asciugamano. Mi spoglio, fiera<br />
del mio nuovo costume, fiera di come sta bene sul mio corpo. Corro verso la<br />
riva. È una cosa che faccio dalla prima volta che ho visto il mare. Da bambina<br />
la corsa finiva diretta in acqua, ora preferisco stendermi sulla riva, preferisco<br />
sentire l’acqua che arriva ai miei piedi, a volte è dolce e mi solletica delicatamente<br />
le dita, a volte è violenta, come se il mare fosse arrabbiato e l’acqua arriva<br />
fino alle caviglie. Sdraiata sul bagnasciuga guardo il cielo e cerco di vedere<br />
cosa le nuvole disegnano per me quel giorno. Anche questo è un gioco che<br />
facevo spesso da bambina, lo facevo con mia sorella, e chissà perché non vedevamo<br />
mai le stesse cose. A riva c’è sempre un po’ di quel venticello, sdraiata<br />
mi accarezza totalmente il corpo. La carezza del vento è paragonabile a quella<br />
di uno sconosciuto che vedendoti una sola volta nella vita decide di avvicinarsi<br />
e accarezzarti, senza dire una parola, lo fa in modo delicato, per nulla invadente,<br />
quasi non la tocca la guancia, non è il contatto con la pelle, è lo spostamento<br />
d’aria che si crea tra la mano e la guancia.<br />
La giornata la trascorro così, sdraiata a riva. Ogni tanto mi alzo e mi tuffo. Una<br />
nuotata veloce e poi torno a occuparmi della mia abbronzatura.<br />
L’anziano non va via dai miei pensieri però. Ho visto così tante persone anziane<br />
nella mia vita, perché lui mi ha colpito così tanto?<br />
Avrei tanto desiderato perdermi in quei suoi occhi, gli occhi degli anziani sono<br />
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quelli che hanno visto più cose, e mille di più ne hanno da raccontare.<br />
Avrei voluto sapere tutto della sua vita, volevo mi raccontasse della sua giovinezza,<br />
avrei voluto sapere dei suoi amori, perdermi nel sentirlo parlare dei suoi<br />
figli, avrei passato ore, giorni ad ascoltarlo. E se nella sua vita avesse viaggiato<br />
tanto? Volevo che mi raccontasse ogni minimo particolare dei luoghi da lui<br />
visitati.<br />
Rimane fisso nei miei pensieri per tutta la giornata. Si sa che i giovani hanno<br />
molta fantasia, ma io ho scoperto quel giorno di averne un mare, anzi un oceano<br />
di fantasia. Quel pover’uomo ha cambiato nome diciotto volte nel giro di<br />
una giornata, ha avuto venti figli, ha visitato tutto il mondo, combattuto guerre<br />
ed è guarito dalle malattie peggiori conosciute al giorno d’oggi.<br />
Ho inventato tante e più storie su di lui, era il protagonista sempre, ma alla fine<br />
finiva sempre per essere solo. Finiva sempre a vivere in una vecchia casa di<br />
campagna, solo.<br />
Non amo le vacanze con i miei genitori. Le trovo sempre noiose, e poi finisco<br />
per rovinarle anche a loro. Mi rendo conto di essere un peso da portare in<br />
vacanza, divento capricciosa, non apprezzo niente, e se apprezzo qualcosa non<br />
lo dico, come se non volessi dare loro la soddisfazione di stare bene. Come se<br />
volessi farli sentire in colpa di avermi trascinata con loro.<br />
La cosa che amo di più del mare è la sera. Quando torni a casa dopo un’intera<br />
giornata in spiaggia, la pelle è bollente, ma l’aria è fredda. È come la sensazione<br />
della febbre. Sensazione di stanchezza. Il profumo del mare rimane sulla<br />
pelle, anche il sapore. Spesso prima di fare la doccia appoggio delicatamente il<br />
naso e la bocca sulle braccia, e amo quel misto di sapori e odori di mare, l’odore<br />
del sole misto al sapore del sale. Dopo la notte di San Lorenzo e i falò sulla<br />
spiaggia è l’emozione estiva più bella. Si sta avvicinando quel momento. Ormai<br />
sono le sette di sera e dalla spiaggia dove siamo al residence ci vuole un’ora di<br />
strada in macchina, quindi decidiamo di tornare.<br />
Peccato. È l’orario più bello per vivere il mare. Ricordo la prima vacanza con le<br />
mie amiche al mare. Gli orari della spiaggia erano totalmente diversi da quelli<br />
vissuti nelle vacanze con i miei genitori. Si andava in spiaggia verso le sei di<br />
pomeriggio, si risaliva in casa verso le nove e mezza per la cena. Poi si usciva<br />
per la notte e, dopo essere andate a ballare, si tornava in spiaggia per dormire.<br />
Rientravamo a casa quando i galli iniziavano a cantare. La spiaggia del tramonto<br />
e quella dell’alba sono un paradiso.<br />
Sono in macchina. Mi guardo nello specchietto retrovisore, mi vedo tutta rossa<br />
e spero che prima o poi diventi abbronzatura, di quelle dorate, quelle da copertina.<br />
Incrocio lo sguardo di mio padre, torno al mio posto, di fianco al finestrino,<br />
guardo fuori e intanto assaporo la mia pelle.<br />
A metà del viaggio, quando finalmente ho convinto mio padre a mettere il mio<br />
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cd di Vasco Rossi, immersa nel cantare Stupendo, sento la macchina rallentare,<br />
siamo sulla stradina che sporcherà entrambe le fiancate, e sporche rimarranno<br />
fino al ritorno a Milano. C’è una macchina che va verso la spiaggia.<br />
Come ho già detto la strada è stretta, ci passa a malapena l’Alfa di mio padre,<br />
la macchina che abbiamo di fronte è più piccola, una Bravo blu elettrico, bisogna<br />
fare una serie di manovre per riuscire a passare entrambe. Mi volto.<br />
E non so perché lo faccio, dall’incidente fatto con mio padre qualche anno<br />
prima, non riesco a fare neanche un chilometro in macchina senza avere gli<br />
occhi fissi sulla strada.<br />
C’è una tavola enorme, e tanta gente. Si sentono le voci e le risate, forse per<br />
quello mi sono girata a guardare fuori dal finestrino. È una tavolata enorme,<br />
saranno venti persone, senza contare tutti i bambini che corrono intorno al<br />
tavolo. Sorrido. È il Sud. Il Sud e le sue famiglie.<br />
Guardo bene la tavola, e proprio mentre mio padre riparte, vedo lui, l’anziano.<br />
È a capotavola. Ancora una volta non riesco a notare i particolari, mi è sembrato<br />
di vederlo sorridere.<br />
Anzi sono sicura che stesse sorridendo. Era con la sua famiglia, e c’era allegria<br />
su quella tavola.<br />
Non è solo. I miei erano stati solo viaggi inutili.<br />
Sono felice. Felice di essermi sbagliata.<br />
Per la prima volta sento che non era importante che io avessi ragione, per la<br />
prima volta sono felice per lo star bene di uno sconosciuto, per la prima volta<br />
sento uno sconosciuto la persona a me più vicina di tutto il mondo.<br />
84
Andrea Varsori<br />
Le foto degli altri<br />
GENERE RIFLESSIONE NOIR<br />
1 RACCONTO DA<br />
9 f e r m a t e<br />
Racconto fuori concorso
Andrea Varsori<br />
Andrea Varsori nasce a Treviso nel 1989, e comincia a scrivere brevi racconti<br />
a partire dalle elementari. Pratica studi classici nel liceo della propria<br />
città, ma i suoi interessi lo spingono a esplorare l’ambiente metropolitano<br />
contemporaneo, nelle sue sfumature più nere e più ruvide e nel suo carattere<br />
più nuovo o più alienante. È semifinalista al Premio Campiello Giovani<br />
2008. Attualmente frequenta la facoltà di Scienze Politiche dell’Università<br />
degli Studi di Bologna.
Le foto degli altri<br />
Rovisto ferocemente nell’ennesimo cassetto, senza curarmi molto della confusione<br />
che creo in quel perfetto ordine che, senza dubbio, doveva aver richiesto<br />
anni per essere messo a punto. Agendine, fogli, block–notes, penne, diari, qua e<br />
là qualche pezzo di carta strappato; tiro fuori tutto e lo butto per terra con una<br />
violenza quasi casuale, come se non mi accorgessi neppure di estrarre quelle<br />
cose come frattaglie da un animale macellato, e di gettarle sul pavimento con<br />
forza e accanimento. Cerco, cerco, cerco ancora; quel cassetto mi pare, per un<br />
momento, un pozzo infinito, esattamente come tutti quelli che ho setacciato<br />
prima, una scatola senza fine, piena di bugie e di allucinazioni multicolori.<br />
Ma continuo. È una la cosa che cerco, e che voglio. Di certo il rispetto per l’ordine<br />
in cui lui aveva sistemato i suoi oggetti non mi ferma, a questo punto credo<br />
di averlo messo da parte dopo l’inizio della mia piccola, furiosa indagine.<br />
Sorridendo tra me e me, mi ritrovo a pensare a lui. Lui.<br />
Non è in casa, ora.<br />
Chissà dov’è, in questo momento.<br />
Un lampo di colore, dei lembi di figure spuntano, quasi sul fondo del cassetto.<br />
Il sorriso diventa immediatamente un ghigno.<br />
Foto.<br />
Foto.<br />
Sono volti che spuntano nella nebbia dell’ignoto, paesaggi dai colori brillanti<br />
nel grigio di un’esistenza tetragona, volti, espressioni, sorrisi, segnali lampeggianti<br />
di qualche significato che è svanito nell’aria come il fumo di un foglio di<br />
carta che brucia, un foglio su cui erano segnate cose di certo molto importanti<br />
una volta. Ora non più.<br />
Foto.<br />
Personalmente, le amo. Sono straordinarie. Si riesce a capire moltissimo della<br />
persona che ne è soggetto, e anche di chi le ha fatte, e di chi stava intorno in<br />
quel momento, anche se era stato preso per sbaglio, anche se era solo un<br />
87
osservatore casuale. Anzi, soprattutto se lo era.<br />
Non pensiate che io sia un patito, o che anzi soltanto creda alla fotografia dei<br />
professionisti. Per lo più, invece, non mi piace. Si tratta quasi sempre di foto<br />
manipolate; bene o male, è l’idea, il carattere, l’umore di chi le scatta ad influenzarle,<br />
e loro ne escono compromesse, anche perché chi le scatta è fuori dalla<br />
scena che vuole rappresentare. Non che sia necessariamente un male: anzi,<br />
dimostra quanto ricchi e vari possano essere i prodotti della fotografia! Ma,<br />
francamente, a interessare il sottoscritto non è quello che pensa il professionista.<br />
È l’uomo, è la donna, e cosa ci sta dentro, quando, dove, come, perché.<br />
Per questo, tra tutte le foto, amo soprattutto quelle domestiche.<br />
Sì, loro. Gli scatti di casa. Le diapositive delle vacanze. Gli album di famiglia.<br />
Le pellicole per ricordare una giornata.<br />
Sono le più sincere. Vengono fatte sul momento, senza tanto pensarci. A volte<br />
in posa, a volte no; tutte, però, rivelatrici. Anche se sembrano apparentemente<br />
uguali, contengono un tracciato nascosto: come se la carta fotografica sulla<br />
quale sono state stampate in realtà fosse fatta di due strati, e nello strato più<br />
interno ci fosse un messaggio, scritto magari con la stilografica, una confessione.<br />
Come una scrittura inconscia in immagini. Un continuo susseguirsi di<br />
splendenti ritratti, tutti maturati nel buio di camere oscure.<br />
Questo non è il lavoro di un fotografo che, anche se in buona fede, anche dopo<br />
essersi reso invisibile, osserva e immortala una normalità. Questi sono lavori<br />
del tutto accidentali. Questa è la normalità.<br />
Chi trova queste foto noiose, senza pensarci avrà capito qualcosa di fondamentale<br />
su questo mondo.<br />
Parlo come un esperto. E, modestamente, lo sono abbastanza in questo genere<br />
di foto. Anni di esperienza.<br />
Ma, in quel momento, parlavo come un pazzo… Perché stavo recitando questo<br />
stesso discorso, da solo, in quell’appartamento vuoto. Come se cercassi di<br />
convincere qualcuno. E invece io non ero pazzo; e non stavo cercando di convincere<br />
nessuno, un cazzo di nessuno; anche perché nessuno c’era, in quel fottuto<br />
appartamento.<br />
Di sicuro lui non c’era.<br />
Forse, non c’era più nessuno in tutto il fottuto palazzo.<br />
O almeno, per me era come se non ci fosse.<br />
Ma dovevo sbrigarmi…<br />
Raccolsi con entrambe le mani tutto quell’insieme di carte, fotografiche o no,<br />
e lo rovesciai senza molta cura sul tavolo al centro della sala, sgomberandolo<br />
con un colpo di avambraccio dalle cose inutili che c’erano sopra. Il tonfo fu<br />
notevole, e risuonò per tutta la casa: qualche foto uscì dagli album o scivolò<br />
dalle copertine, tra le quali s’era nascosta anni prima; vidi, con un fugace<br />
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sguardo, alcune immagini svolazzare per aria, indugiare e scendere piano<br />
oppure precipitare sul pavimento, rovesciandosi nell’atterraggio. Non vi feci<br />
caso; anzi, le ignorai deliberatamente. Quella era, ogni volta, la mia “selezione<br />
naturale” delle foto da guardare. Quelle che cadevano, evidentemente, non<br />
meritavano la mia considerazione.<br />
E poi ne avevo già molte da visionare.<br />
Osservai con attenzione lo spettacolo che avevo davanti, cercando di trovare<br />
da qualche parte un angolino a cui aggrapparmi, l’inizio di un sentiero da percorrere<br />
attraverso la vita di lui. C’erano album grandi, con copertine floreali di<br />
cartoncino rigido, classici per le foto di famiglia e per le vacanze da adulto.<br />
Album più sottili, scuri, di plastica liscia, con immagini brillanti di cuccioli e di<br />
fiori: questi parevano più infantili, ingenui, primitivi; forse li aveva ereditati dai<br />
genitori. Album piccoli e minuscoli, quelli regalati dai negozi di fotografia<br />
quando si vanno a ritirare i propri scatti. E poi, carte sparse: composizioni fatte<br />
al computer, calendari e manifesti da appendere in camera; foto vere e proprie,<br />
nel classico formato 15x22; infine fogli normali, immagini digitali stampate dal<br />
computer, forse all’ultimo minuto, forse giusto per averne una copia cartacea,<br />
forse solo perché tanto avere foto lucide o opache è la stessa cosa. Sopra tutto<br />
ciò, polvere, molta polvere. Si era infilata nel cassetto, tra gli album, tra le pagine.<br />
Forse era un po’ anche quella che avevo movimentato nella mia ricerca di<br />
prima; comunque, non mi dava fastidio.<br />
Cercai ancora un po’ con lo sguardo quella superficie di colori e di rumori attutiti<br />
dal tempo, e infine trovai, sotto a un marasma di fogli probabilmente recenti,<br />
che avevo appena sollevato con minima curiosità, la foto giusta per iniziare.<br />
Era lui, al centro, con gli sci in mano. Tutto intorno, neve a non finire, sul pendio<br />
di una montagna. Sullo sfondo, in lontananza, le cime rocciose e per lo più<br />
bianche, un po’ sfocate, per colpa del tempo o di chi ha scattato in quel momento,<br />
un amico che forse non ne sapeva molto di fotografia. Il cielo non si vedeva<br />
quasi; però, nei piccoli angoli in cui si riusciva a scorgere, era bello, azzurro. Lui<br />
sorrideva, bardato in completa attrezzatura da sci, forse con un po’ di fiatone.<br />
Io non ero mai stato sulla neve. L’unica neve che avevo conosciuto era quella<br />
cittadina, infida, umida più della pioggia, grigia di smog assorbito. Cadeva<br />
lenta, pallida, tra i palazzoni, in tristi e solitarie giornate d’inverno; per lo più si<br />
scioglieva prima di toccare terra, e riusciva ad attaccarsi al terreno solo dopo<br />
ore; ne veniva giù abbastanza per far innervosire tutti gli adulti, ma non per far<br />
felice qualche bambino. Era ghiaccio, più che neve; e il giorno dopo spariva,<br />
annichilita dal freddo (ma non troppo freddo), lasciando dietro di sé solo alcuni<br />
relitti, grandi mucchi biancastri agli angoli dei parcheggi, montagnole che<br />
si abbassavano e si scurivano sempre di più col passare dei giorni e con l’aumentare<br />
dell’inquinamento.<br />
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Quella neve, invece, era candida e pareva fresca, caduta da poco. Potevo quasi<br />
immaginare di prenderla in mano, e sentirla sbriciolarsi teneramente tra le mie<br />
dita mentre sfregavo indice e pollice; e intanto solo un lieve tepore sulle guance<br />
arrossate, mentre osservavo lui e la sua compagnia di amici (tra cui, forse,<br />
anche la sua ragazza) ridere, scherzare, e poi ripartire, sciando verso valle.<br />
Scossi la testa, risvegliandomi da quella visione, e misi la foto in un angolo<br />
sgombro del tavolo, riservandola per dopo. Frugai un po’ nel punto in cui l’avevo<br />
trovata, e in effetti scoprii una serie di immagini sparse, tutte riconducibili<br />
alla stessa uscita sulla neve. Non doveva aver avuto luogo più di qualche<br />
anno prima; non c’erano infatti differenze tra il volto che aveva allora e il volto<br />
che aveva in quel momento. Dovevano essere colleghi di lavoro, o amici di vecchia<br />
data, forse dell’università, forse delle superiori. Comunque, sorridevano<br />
tutti, e parevano divertirsi un mondo.<br />
C’era una foto che li ritraeva in gruppo, forse scattata da un estraneo, o forse<br />
da un amico che aveva accettato l’onere, restando fuori. Mi chiesi se anche<br />
quell’amico si stava divertendo, quel giorno. Gli altri comunque sì, in ogni<br />
caso; e lo si capiva subito, dalle loro pose, dalle posizioni che avevano assunto<br />
uno rispetto agli altri, dagli occasionali abbracci tra ragazzi e ragazze, dalla<br />
spontanea felicità che promanava dai loro volti.<br />
Quella era una cosa particolare. Non era raro trovare, nelle foto domestiche,<br />
gente che sorrideva; anzi, tutto il contrario, il sorriso faceva chiaramente parte<br />
della posa. Doveva far capire che andava bene, che, nonostante tutto, la situazione<br />
era ok: divertente, normale o tollerabile. Era integrato nella lieve ipocrisia<br />
generale che circonda i soggetti di quel tipo di scatti: sia che fosse spontaneo,<br />
sia che fosse forzato. In fondo, tutti ci teniamo a ricordare i momenti belli,<br />
negli anni a venire; e tutti vogliamo ricordare noi stessi nel nostro stato d’animo<br />
migliore, non in quelli peggiori.<br />
Comunque, sul momento quella fotografia mi colpì per quella caratteristica.<br />
Poi, persi interesse; e la rimisi nel mucchio.<br />
Scavai ancora in quel punto, come un archeologo che vada a fondo negli strati<br />
del terreno per arrivare al reperto che gli interessa, alla scoperta della sua<br />
vita. Trovai un altro di quegli album sottili, dalle pagine nere, con in copertina<br />
due delfini che saltavano fuori dall’acqua, allegramente, con quella specie di<br />
immobile sorriso sulla bocca. Lo aprii, e le mie previsioni si rivelarono esatte:<br />
erano immagini di almeno venti, trenta anni prima, con etichette negli angoli<br />
delle pagine, sulle quali erano scritti, con una calligrafia femminile, luoghi e<br />
date da collegare a ciò che vi era contenuto.<br />
“Primo compleanno. Casa di nonna Camilla”. Una foto in particolare, tra le tre<br />
di quella facciata, spiccava: quella in mezzo. Un bimbetto, coi radi capelli scuri,<br />
una faccia paffuta, un gradevole colorito rosa e un vestitino piuttosto ricercato,<br />
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stava al centro, quasi come in una ben congegnata composizione di un dipinto<br />
di corte del ‘700. Lo teneva in braccio quella che immaginavo essere nonna<br />
Camilla, la più bassa del gruppo, sorridente e orgogliosa; attorno a lei, stretti<br />
quasi a disputarsi il pargolo, c’erano gli altri tre nonni e, lievemente contrariati<br />
ma non abbastanza per rovinare la foto ricordo, i genitori. La madre aveva il<br />
pancione: stava aspettando un altro bambino.<br />
Sfogliai le pagine, e la festa di compleanno finì, quasi subito. Davanti ai miei<br />
occhi, gli anni passarono, all’inizio lentamente, poi sempre più veloci: si partiva<br />
da varie foto di lui da piccolo, quasi una pagina ogni mese di vita, e man<br />
mano che lui diventava grande, sempre meno paffuto e sempre più normale,<br />
le occasioni di ritrarlo diminuivano, forse a vantaggio del fratello. Quest’ultimo<br />
spuntava, qua e là, sempre più frequente e, in quel momento, avrei voluto<br />
avere sottomano le sue foto per controllare come cambiavano col tempo. Il<br />
maggiore, comunque, era per lo più felice; qualche volta faceva una faccina<br />
perplessa, come fanno i bambini quando si trovano di fronte qualcosa di strano<br />
e nuovo, cioè quasi sempre; una o due volte si vedeva che era reduce da un<br />
gran pianto e forse solo il seno della madre era riuscito a calmarlo.<br />
Quell’album finì e presi quello sotto. Fortunatamente era la diretta continuazione:<br />
ebbi modo di partecipare a tutte le feste di compleanno, dall’epoca dell’asilo,<br />
quando aveva ancora attorno i genitori festanti, due nonni e solo una<br />
nonna (certo non nonna Camilla, e non ci voleva molto a capire il motivo della<br />
sua assenza), fino all’ultimo anno delle elementari, quando soffiava a fatica<br />
sulle candeline della torta, attorniato da almeno una ventina di bambini festanti.<br />
Erano tutti vestiti in maschera, chi con mantelli neri svolazzanti, chi con cappelli<br />
a punta, alcuni con costumi sgargianti e altri con semplici lenzuoli con dei<br />
buchi per gli occhi. Forse compiva gli anni a febbraio? Comunque, mi resi<br />
conto che doveva essere stata una festa riuscita: anche se non sono certo un<br />
grande esperto in questo genere di cose.<br />
Non avevo mai avuto un grande talento a organizzare feste.<br />
Ma non era stata colpa mia. Io l’avrei avuto. Se non fosse stato per…<br />
Un secondo, solo un brivido di rabbia, di vecchio rancore. Lo sentii scorrere<br />
in me, direttamente dallo stomaco, si propagava per il petto, le braccia, la testa,<br />
e si nascondeva nella mia mente. Lo conoscevo bene. Sarebbe rimasto lì, fino<br />
alla fine, nel suo covo, a impedirmi di ragionare con chiarezza, a distrarmi e ad<br />
assistere ai miei tentativi di non pensare a lui. Tutto inutile.<br />
Cazzo.<br />
Scossi di nuovo la testa, e cercai freneticamente l’album delle medie, che doveva<br />
di sicuro essere là in giro… Ma era come scomparso. Ne aprii un po’, giusto<br />
per controllare. Mi ritrovai con tra le mani una laurea. Qualche foto prima<br />
della discussione della tesi: smorfie caricaturali di paura, pacche sulle spalle,<br />
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finte risse con gli amici; uno di questi, in particolare, aveva un volto che avevo<br />
già visto da qualche parte.<br />
Forse un compagno delle elementari, dieci anni dopo?<br />
Mi soffermai un po’ sul volto. Il colore dei capelli, il naso, gli zigomi. Sì, poteva<br />
essere proprio lui.<br />
E andai avanti. Una foto, una sola, di lui durante l’esame finale: in giacca e cravatta,<br />
seduto davanti ai professori, preso di tre quarti dalla macchina fotografica;<br />
pareva comodo e calmo, mentre allargava le braccia e forse gesticolava,<br />
come se stesse spiegando come si mette in moto una lavatrice. Invece, due<br />
scatti dopo, aveva in mano una laurea in Ingegneria Edile. Pareva piuttosto<br />
soddisfatto. Abbracciava, sorridendo, una ragazza, con ogni probabilità la sua<br />
ragazza a quel tempo. Ogni dubbio scomparve quando li vidi baciarsi nell’immagine<br />
successiva.<br />
Quello era uno dei pochi album grandi e rigidi e io lo avevo aperto solamente<br />
a metà. Evidentemente, lo aveva organizzato negli anni successivi alla fine<br />
dello studio, nel periodo in cui si era appena trovato un lavoro; e aveva voluto<br />
organizzare queste sue memorie che, in effetti, erano molto ricche.<br />
C’erano, infatti, centinaia di foto, di tutti i tipi possibili, scattate in qualsiasi<br />
luogo: bar, pizzerie, discoteche, locali, musei, movimentati appartamenti universitari<br />
e lindi corridoi di aziende; insieme ad amici e amiche, compagni e<br />
compagne di corso, gente conosciuta in una notte e per una notte, e individui<br />
che lo avevano accompagnato per cinque anni di lezioni ed esami. Qua e là,<br />
ancora i genitori, visibilmente invecchiati; poco più spesso, il fratello, che evidentemente<br />
andava a trovarlo qualche volta per divertirsi e conoscere la vita<br />
da fuorisede; meno spesso, i nonni, ormai uno o due e, raramente, dei professori<br />
accigliati.<br />
Mi resi conto in quel momento che esaminare tutte quelle foto avrebbe richiesto<br />
ore e ore. Tutti gli album rigidi, infatti, erano praticamente pieni e dedicati<br />
ognuno a uno specifico periodo: università, biennio e triennio delle superiori;<br />
addirittura, la sola gita a Berlino dell’ultimo anno ne aveva uno a sé! Erano<br />
pagine stracolme di ricordi, esuberanti di fotogrammi catturati al passato; a<br />
ogni facciata, era un nuovo volto che faceva capolino sorridendo, un altro professore<br />
che tentava di spiegare, un ulteriore monumento che saltava fuori, e<br />
innumerevoli foto di gruppo. Camere d’albergo, aule di scuola, amici intimi,<br />
ex-ragazze, corridoi, feste di compleanno, ritrovi al solito pub, anomale serate<br />
in discoteca, scherzi, cazzate, momenti di stanchezza, gente addormentata in<br />
corriera, il cortile della scuola, il cambio dell’ora, le foto rubate durante le<br />
lezioni, molte sigarette, qua e là qualche canna… Tutto, tutto era stato stampato;<br />
tutto era stato “pubblicato”, messo là dentro, quasi una foto per ogni giorno<br />
di scuola, quasi un’intera vita. Erano dieci anni dell’esistenza di lui che<br />
92
erano lì, fissati davanti ai miei occhi, dietro le copertine di plastica che li proteggevano,<br />
oppure nascosti nelle loro tane, pronti ad apparire, a essere evocati,<br />
a colpire la mia immaginazione, a trafiggere il mio spirito roso, dentro, dalla<br />
rabbia e dall’invidia.<br />
Per un attimo mi sembrò che quegli album avessero una vita propria. Mi pareva<br />
di sentirli pulsare, ed era come se potessi vederli, in quello stesso istante,<br />
aprirsi e sfogliarsi da soli, correndomi incontro per farsi vedere, per agganciarsi<br />
al mio sguardo che ormai voleva fuggirne, per catturarlo e tenerlo stretto<br />
in una morsa atroce, fatta di troppi sorrisi, di troppo divertimento, di troppo<br />
passato.<br />
Lanciai un urlo.<br />
La breve visione scomparve e loro, quelle centinaia di pagine rilegate che mi<br />
erano parse per pochi attimi come esseri viventi, fin troppo viventi, si adagiarono<br />
sul tavolo, immobili, lì dove li avevo lasciati. Ora ne erano aperti almeno<br />
quattro, o cinque.<br />
Sospirai. Andava sempre così quando facevo qualcosa del genere. E dire che,<br />
le ultime volte, la situazione era persino migliorata. C’erano tempi in cui continuavo<br />
a urlare per una decina di minuti, dopo che sempre la stessa allucinazione<br />
mi penetrava la mente, illudendo i miei sensi.<br />
Il che, qualche volta, mi aveva portato quasi nei guai. Per fortuna, ero riuscito<br />
a tirarmene fuori; per fortuna, visitavo sempre palazzi e condomini vuoti, senza<br />
alcuna anima dentro se non chi mi interessava conoscere… O, anche se c’era<br />
qualcuno, era come se non esistesse.<br />
Per fortuna ce l’avevo sempre fatta.<br />
Altrimenti i demoni mi avrebbero preso.<br />
Quel pensiero mi diede subito sollievo e potei trovare il coraggio di tornare al<br />
tavolo.<br />
Con la mano toccai, lentamente, quelle foto. Percepii con attenzione la superficie<br />
fresca e liscia della plastica e la calda ruvidezza della carta. Accarezzai,<br />
senza fretta, quegli album che qualche minuto prima mi avevano spaventato a<br />
morte; cercai di badare se ci fosse in loro la minima reazione e, avendo visto<br />
che in effetti rimanevano immobili sotto il tocco delle mie mani, continuai a<br />
sfiorarli coi polpastrelli, dominandoli.<br />
Erano solo pezzi di carta; sì, ricordi, ma vulnerabili.<br />
Infiammabili, ad esempio.<br />
Ero di nuovo sicuro di me. E avevo la sensazione di dominare quegli album.<br />
Tornai a sfogliarli io, con calma, quasi svogliatamente. Cercai di non farmi toccare<br />
più da quei frammenti di vite passate; li osservai, freddamente, passandoli<br />
al setaccio, analizzandoli. Mi resi conto che evidentemente quelle erano proprio<br />
tutte le foto che doveva aver fatto con la sua macchina, probabilmente<br />
93
digitale, dato che c’erano anche scatti di soli monumenti, immagini imbarazzanti,<br />
pose venute male, o semplicemente foto mosse e incomprensibili. Erano<br />
gli scarti, la feccia delle foto domestiche; ciò che veniva rimosso, cancellato<br />
per sempre perché inutile, perché non valeva la pena di tenere quelle cose.<br />
Non rispondevano ad alcun canone di bellezza spicciola, anzi, spesso lo contraddicevano.<br />
Erano le opere più incidentali, più involontarie, più spontanee di<br />
tutte; spesso causate solo da un errore: e, per questo motivo, erano le più pregnanti,<br />
le più sincere. Anche se non sempre, e non solo loro.<br />
Aveva voluto salvarle tutte, per averne comunque sempre una copia, perché<br />
non rimanessero vittima di qualche virus, di una formattazione, di una cancellazione<br />
maldestra.<br />
O forse, inconsciamente, aveva voluto archiviarle, e mettere così la parola fine<br />
a un segmento della sua vita.<br />
In realtà, succedevano spesso cose del genere: lui non era l’unico ad aver fatto<br />
una così grande quantità di fotografie; la mia parte più razionale, quella che<br />
non si faceva con leggerezza suggestionare dalla pura quantità dei ricordi, in<br />
realtà non era affatto stupita.<br />
Ci riflettei su.<br />
Foto domestiche.<br />
Sotto quest’etichetta raggruppiamo una grande varietà di immagini fotografiche.<br />
Foto di famiglia. Foto di classe. Foto di lavoro. Foto del tempo libero.<br />
Foto, foto, foto, foto.<br />
Quante foto.<br />
Era, ed è, come se bisognasse soddisfare una domanda in continua espansione<br />
e quindi produrre su scala industriale scatti su scatti.<br />
Se ne produce; è un’inflazione.<br />
Il che non era e non è un male, per uno come me, che ne ha, per modo di dire<br />
ovviamente, la mania.<br />
Però è un fenomeno unico. Causato forse, tra le altre cose, dall’imporsi della<br />
macchina fotografica digitale. I giapponesi, quando venivano in Italia a fotografare<br />
anche i piccioni di piazza San Marco o la più corrosa pietra dei Fori<br />
Romani, non stavano semplicemente facendo turismo: ci volevano avvertire.<br />
Poveri giapponesi… Non siamo riusciti a capirli.<br />
Ora è un’effervescenza di foto. Esuberanti di vita e di voglia di immortalarla,<br />
scattiamo, sapendo che comunque se si sbaglia c’è possibilità di cancellare e<br />
fare come se non fosse successo nulla; correndo per fermare quel presente<br />
che la disillusione e il realismo ci convincono a valorizzare, ma che non abbiamo<br />
i mezzi per poter fermare e vivere davvero. Nessun mezzo, se non le foto.<br />
A volte penso che lo si faccia per questo, per porre rimedio allo scorrere inesorabile<br />
del tempo che, da gran signore e da gran bastardo, passa più veloce-<br />
94
mente, si sa, nelle occasioni più felici.<br />
A volte penso che si tratti semplicemente di un comportamento ormai talmente<br />
diffuso tra tutti, che lo si mette in atto e basta, senza più alcun riferimento a<br />
eventuali motivazioni profonde. E quasi certamente è anche questo.<br />
A volte invece penso che sia solo un modo per fronteggiare un’insicurezza<br />
comune, dominante: un’insicurezza sul proprio status sociale. È qualcosa di<br />
chiaramente molto importante ed enfatizzato nella nostra società, ma spesso è<br />
messo in dubbio: non si può mai essere sicuri riguardo al proprio status, c’è<br />
sempre qualcuno che può vantare di essere più popolare o di avere più conoscenze,<br />
e il timore di rimanere soli e isolati è sempre dietro l’angolo; e quindi,<br />
per scacciarlo, per mostrare che comunque anche noi abbiamo un sacco di<br />
amici e abbiamo avuto un sacco di esperienze con molte altre persone, facciamo<br />
foto. E le esibiamo. A mo’ di amuleto.<br />
Certo, questo magari accade di più in rete. Netlog, Badoo, Flickr, Facebook…<br />
Luoghi virtuali in cui si condividono anche o solo le proprie immagini. Siti per<br />
mantenere legami, e per crearne di nuovi; ma siti soprattutto in cui si appare,<br />
si deve apparire, e si deve costruire la propria apparenza: siti in cui si devono<br />
mostrare le proprie foto migliori, e nella maggior quantità possibile, perché in<br />
quel contesto diventano un puro fatto numerico, una gara con gli altri utenti,<br />
con i propri “amici”. Avere poche foto sul profilo fa vedere poco di te stesso:<br />
per analogia, è come se tu stesso fossi piatto, e la tua vita fosse stata cosa da<br />
poco, ridotta giusto a qualche momento speciale in mezzo a un mare di grigio<br />
che non vale neppure la pena di riportare su Internet. E quindi bisogna pubblicare,<br />
postare, inviare, caricare; mettere su foto e organizzare album, per<br />
mostrare di essere esistito, di essere stato da qualche parte e di essersi pure<br />
divertiti; per ottenere commenti e collegamenti in altre pagine. Bisogna dimostrare<br />
di aver vissuto, e di averlo fatto nella società, nel mondo.<br />
È come se il paradigma fosse: più foto = più vita.<br />
Nel virtuale, come nel reale.<br />
La vita diviene la sua rappresentazione.<br />
Chiaramente quello che avevo tra le mani in quel momento non era un caso da<br />
mondo virtuale, ma da mondo reale.<br />
Profondamente reale.<br />
Dannatamente reale.<br />
La puzza mi risvegliò dalla riflessione in cui ero caduto. Un odore strano, che<br />
sul momento non seppi identificare. Solo dopo un po’ lo riconobbi.<br />
Osservai ancora il tavolo sconvolto dalla massa delle foto, delle carte e dei raccoglitori.<br />
A fatica si riusciva a vedere, qua e là, il legno.<br />
Non potevo fermarmi per molto ancora in quell’appartamento vuoto, vuoto,<br />
vuoto. Mi sarebbe molto piaciuto perderci ancora un po’ di tempo; in certi<br />
95
punti facevano capolino immagini interessanti, donne in biancheria intima, una<br />
posa romantica sulla spiaggia, scherzi da feste del diciottesimo compleanno.<br />
Tutte cose che avrei visto volentieri, perché a me per lo più ignote. Ma non era<br />
il momento.<br />
L’urlo poteva aver attirato l’attenzione di qualcuno. Forse i demoni stavano per<br />
arrivare. Dovevo sgombrare tutto e sbrigarmi.<br />
Feci come al solito. Tirai su le foto, esattamente come le avevo prese dal cassetto<br />
dove le avevo trovate; a fatica, riuscivo a tenerle tutte tra le mie braccia:<br />
questa volta, ero ben attento che non me ne cadesse nessuna.<br />
Mi misi nel mezzo dell’ampio soggiorno, su un colorato tappeto persiano e le<br />
mollai lì, per terra; tra tutte quelle tonalità brillanti, mi pareva che fosse il luogo<br />
migliore dove farle giacere per l’ultima volta.<br />
Tirai fuori, da sotto il cappotto, la bottiglietta piena che porto sempre con me;<br />
svitai il tappo, e la capovolsi sulla pila scomposta di fotografie, lasciando che<br />
tutta la benzina contenuta dentro si rovesciasse sui ricordi di lui e che il contenitore<br />
si svuotasse completamente.<br />
Accesi un fiammifero.<br />
E diedi inizio al rogo.<br />
Le fiamme guizzarono alte sulle gite scolastiche, sulle settimane bianche, sui<br />
matrimoni, sulle notti d’amore, sulla sua tenera età, sulle foto banali di tutti i<br />
giorni, sulle diapositive come sulle immagini ad alta definizione. Si nutrirono<br />
della carta normale e del cartoncino rigido, prima; poi della carta fotografica;<br />
infine arsero la plastica che teneva imprigionati ancora molti scatti e anche i<br />
più nascosti dovettero rassegnarsi a divenire cenere, piegandosi, accartocciandosi,<br />
liquefacendosi. Divamparono sulla sua vita, rubarono anni di ricordi<br />
ormai inutili, ormai senza padrone e, piano, piano, si calmarono, si rifugiarono<br />
in braci sparse in mezzo alla montagna di polvere nera, si accanirono contro<br />
gli ultimi rimasugli di figure e paesaggi, mentre altre loro sorelle nascevano<br />
sul tappeto, pronte a devastare anche quella selva di colori.<br />
L’odore di fumo e di bruciato era ormai diventato insopportabile, quello era il<br />
solito segnale che mi faceva capire che era ora di andare. Andare, prima che<br />
la situazione diventasse troppo pericolosa; prima che qualche essere vivente<br />
tornasse in quel palazzo forse deserto, e si accorgesse di qualcosa; prima<br />
soprattutto che i demoni in divisa blu arrivassero, e mi scovassero, con le loro<br />
mani viscide.<br />
Uscii dal soggiorno ormai soffocato dall’oscuro e polveroso rogo e attraversai<br />
l’androne di quell’appartamento vuoto. Senza di lui.<br />
Lui non c’era più, se n’era andato da qualche ora ormai.<br />
Giaceva con la gola squarciata, immerso nel classico mare di sangue che circonda<br />
tutti i cadaveri dei gialli. Il suo volto non era più sorridente, i suoi denti<br />
96
ianchi non mostravano gioia; più che altro, sorpresa, l’ultimo grottesco sentimento<br />
che aveva provato prima di andarsene.<br />
No, neppure i suoi ricordi servivano più. Tranne quell’ultima foto.<br />
La foto di lui, sorridente, circondato dalla neve e dalle montagne.<br />
La posai sul petto ormai senza vita; quella era la mia firma.<br />
Avrebbero imparato a riconoscerla.<br />
La sua vita, i suoi ricordi, ora, servivano a me.<br />
Scomparvi nell’androne delle scale.<br />
97
LO SPECCHIO E LA VITA<br />
UN BILANCIO PROVVISORIO DEL PREMIO SPECIALE<br />
UNIVERSITÀ IULM UNDER19<br />
Postfazione di Andrea Chiurato<br />
Assegnista di Ricerca Università IULM<br />
Nel ripercorrere la storia di un concorso letterario le cifre – di partecipanti, di<br />
lettori, di copie stampate… – godono sempre di un certo fascino. Forse per<br />
un’abitudine caratteristica del mercato editoriale è sui numeri che i più disparati<br />
attori dietro la pubblicazione di un libro, dal marketing ai talent scout,<br />
si trovano d’accordo.<br />
Ed effettivamente il <strong>2009</strong> segna un traguardo importante nella breve storia<br />
del Premio Speciale Università IULM Under19. Si tratta infatti della quinta<br />
edizione di un’antologia nata all’interno della più ampia esperienza di<br />
Subway-Letteratura (che negli anni si è differenziata sia sul territorio – raggiungendo<br />
le maggiori città italiane – sia nelle forme artistiche, dalla poesia<br />
all’illustrazione editoriale), con l’intenzione di offrire uno spazio per promuovere<br />
la creatività e dare voce ai talenti più giovani. Un anniversario importante<br />
che ci invita a un primo, provvisorio bilancio.<br />
Il racconto vincitore di quest’anno è un dichiarato omaggio critico a uno dei<br />
più grandi autori della prima metà del Novecento, lo scrittore argentino J. L.<br />
Borges, impostosi sulla ribalta internazionale – ben al di là dei confini nazionali<br />
di un “realismo magico” ancora a venire – con le due raccolte di Finzioni<br />
(1944) e l’Aleph (1949).<br />
Il caso di Iovino costituisce un paradosso sotto diversi punti di vista.<br />
Da un lato è il coronamento di un filone storico e particolarmente fortunato<br />
tra gli Under 19, ovvero la metafiction. Racconti narcisistici, racconti allo<br />
specchio che recuperano l’etimologia del “testo” (textum) in quanto tessitura,<br />
paziente lavoro di composizione e intreccio colto nel suo continuo farsi e<br />
disfarsi. Una tematica antichissima, a cui già Omero strizzava l’occhio nell’opera<br />
mai compiuta della paziente Penelope, moglie di Ulisse.<br />
Dall’altro costituisce il frutto maturo di una tendenza di lungo periodo ma, nel<br />
panorama di quest’anno, si rivela essere un caso isolato, apparentemente<br />
99
marginale. Quasi a suggerire come la raggiunta maturità di questo filone, il<br />
suo imporsi sul primo gradino del podio, comporti nello stesso tempo un<br />
(inevitabile? fisiologico?) esaurimento.<br />
Le ragioni di tale paradosso sono difficilmente riconducibili a una causa evidente.<br />
Sicuramente la metafiction, nel variegato panorama degli Under 19<br />
ha rappresentato una sorta di genere feticcio. Un feticcio utile nell’esorcizzare<br />
le paure (prima tra tutte quella che H. Bloom definiva, in un’azzeccata<br />
metafora psicologica, “l’angoscia dell’influenza”) e le insicurezze di chi<br />
muove i primi passi sugli accidentati sentieri della narrativa.<br />
Inoltre tale formula si dimostra particolarmente in sintonia con lo “spirito del<br />
tempo” postmoderno ben lungi dall’esaurirsi nella produzione letteraria e<br />
non di questo inizio millennio. Basti pensare al vero e proprio boom di remake,<br />
prequel e sequel a cui ci ha abituato la produzione hollywoodiana degli<br />
ultimi anni…<br />
Eppure, nonostante gli innumerevoli vantaggi di una simile predilezione, la<br />
metafiction mostra la corda di fronte ad un’altra, sempre più pressante esigenza:<br />
ovvero il bisogno quasi “fisico” di raccontare una storia. Una storia<br />
personale.<br />
Il che sembrerebbe ovvio e scontato parlando di racconti brevi. Ma non<br />
serve andare oltre a due esempi più che noti, James Joyce e Raymond<br />
Carver, per ricordarci come una short story possa essere anche qualcos’altro:<br />
la resa di uno stato d’animo, uno scorcio su un’atmosfera o su un attimo<br />
sospeso nel tempo. Un attimo fatto anche, o soprattutto, di quel nobile niente<br />
caro a Flaubert, ovvero la noia. Un attimo senza azione, ovvero senza sviluppo<br />
narrativo.<br />
Ecco i nostri Under 19, e il caso di Iovino ne è forse la più lampante dimostrazione,<br />
si dimostrano quanto mai attaccati alla necessità e, diciamolo<br />
sinceramente, al “piacere” insito nello storytelling. Il maggior pregio che<br />
possiamo riconoscere al bizzarro “testamento” capitato tra le nostre mani<br />
è quello – tra mille allusioni, citazioni e scatole cinesi – di restituirci una<br />
fantasiosa ricostruzione degli ultimi giorni di un Borges meno “mostro<br />
sacro” e più uomo. Insinuandosi là dove già Manzoni indicava un terreno<br />
fertile, tra le pieghe della Storia con la “S” maiuscola, in cerca di tutti quei<br />
dettagli, di quelle piacevoli inezie, di tutto quello insomma che non è stato<br />
ancora raccontato.<br />
Un caso isolato dicevamo, ma isolato rispetto a cosa?<br />
Il raffronto è quanto mai utile e pone in evidenza un altro filone difficilmente<br />
classificabile, ma ben presente fin dagli inizi della nostra esperienza.<br />
100
Un filone che, in assenza di un’etichetta più tecnica, potremmo definire<br />
“esistenziale”.<br />
Si tratta infatti di storie che trovano la loro linfa vitale nella quotidianità.<br />
Storie spesso dal retrogusto amaro, che insistono nel raccontarci non tanto<br />
una presunta normalità quanto innumerevoli forme di “diversità”. Siamo qui<br />
ben lontani dall’immagine dell’adolescenza a cui ci ha abituato la recente<br />
cinematografia e narrativa italiana.<br />
Ci troviamo di fronte ad atmosfere che concedono poco o nulla allo spirito<br />
amarcord di Notte prima degli esami (2006) e tanto meno al catalogo di luoghi<br />
comuni sulle diatribe amorose tra bulli di borgata e ragazze di buona<br />
famiglia (Tre metri sopra il cielo, pubblicato nell’ormai lontano 1992, ma<br />
impostosi all’attenzione del grande pubblico solo nel 2004).<br />
La sensibilità dei nostri autori si dimostra più vicina agli stimoli dell’immediata<br />
attualità. Difficile separare Portami via dalle recenti polemiche sul fine vita<br />
suscitate dal caso Englaro, o negare come la figura dell’Altro in Il ritmo lento<br />
e regolare della natura ci richiami alla mente il lato più umano del “problema”<br />
dell’immigrazione.<br />
In generale gli Under 19 sembrano essere in piena sintonia con i loro cugini<br />
maggiori: in entrambi i casi assistiamo a un comune ripiegamento dalla<br />
sfera del sociale a quella del privato. Non stupisce dunque l’esaurirsi di<br />
tematiche legate al mondo del lavoro e della scuola, rispetto a un prepotente<br />
riaffermarsi della dimensione familiare.<br />
Attraverso il rapporto tra genitori e figli (Abbi cura di te, Immagini dal nulla),<br />
nelle amicizie difficili o spezzate (Migrazioni sulla piazza delle ferrovie,<br />
L’incendiaria sciabolata di Fender Stratocaster, JUD) si delinea in filigrana<br />
una lotta quotidiana alla ricerca di una qualsiasi forma di rapporto o di<br />
comunicazione. Una comune difficoltà a cui si cerca di dare voce con espedienti<br />
formali estremamente diversi ma, in qualche modo, complementari.<br />
Da un lato l’insistenza quasi ossessiva su una “voce” isolata, sul punto di<br />
vista di un unico personaggio; dall’altro la faticosa ricerca di un “dialogo”,<br />
con scambi di battute spesso ridotto all’osso in cui ogni parola trova il suo<br />
valore nell’essenzialità, nella sua lotta nascosta con il silenzio.<br />
La nostra rassegna non sarebbe però completa se ignorassimo quei racconti<br />
che, per ragioni diverse, non vogliono o non possono conformarsi alla<br />
tendenza dominante. Ci troviamo qui in territori limitrofi, finora scarsamente<br />
esplorati dagli Under 19, ovvero nei territori della cosiddetta letteratura “di<br />
consumo”.<br />
Qui dove possiamo trovare un thriller quanto mai riuscito come Le foto degli<br />
altri. Un thriller sia ben chiaro e non un noir, come vorrebbe la moda più<br />
101
ecente, perché qui il cuore del racconto, la sua ragione d’essere non si<br />
trova tanto nell’esplorare territori (come la periferia) o personalità marginali<br />
(poliziotti in crisi e serial killer sempre più improbabili) quanto piuttosto nella<br />
perfetta resa di quell’“ossessione psicologica” che secondo Edgar Allan Poe<br />
stava alla base di ogni short story.<br />
Chi invece preferisse atmosfere fantasy non potrà non apprezzare Il volto<br />
dello Straniero. Gli appassionati di Shannara e Dragonlance si troveranno a<br />
casa nelle Contee Brune di Emanuele Arciprete. Là dove si aggirano minacciosi<br />
spettri senza nome e si respira un’atmosfera dal sapore vagamente tolkeniano.<br />
Insomma, a prescindere da oziose considerazioni e tassonomie critiche, il<br />
menù di quest’anno è quanto mai vario, a voi la scelta…<br />
102
Giuria del Premio Speciale Under19<br />
Presidente: Lucia Rodler<br />
Caterina Angeretti<br />
Luca Barbarito<br />
Andrea Chiurato<br />
Stefano D'Andrea<br />
Diego Dotari<br />
Mauro Ferraresi<br />
Andrea Montisci<br />
Ariela Mortara<br />
Francesco Priano<br />
Silvia Ravazzoni<br />
Anna Re<br />
Marida Rizzuti<br />
103
Partecipanti al Premio<br />
Marco Aglietti<br />
Emanuele Arciprete<br />
Barbara Ardizzone<br />
Alessia Asaro<br />
Alessia Aulicino<br />
Mena Avitabile<br />
Marco Baldini<br />
Valentina Balducci<br />
Andrea Paola Baluta<br />
Laura Bernardi<br />
Leonardo Biagetti<br />
Mara Biasillo<br />
Elisa Bisignano<br />
Giulia Boezi<br />
Francesco Bonicelli<br />
Serena Boschi<br />
Francesco Boso<br />
Rosalba Botte<br />
Nunzia Bove<br />
Alessio Briguglio<br />
Fabio Brinchi Giusti<br />
Désirée Bruna<br />
Elvira Buonocore<br />
Nadia Burzotta<br />
Assunta Cammarota<br />
Alessia Cannì<br />
Anna Giulia Caragli<br />
Elettra Carnelli<br />
Bianca Cianfano<br />
Angela Maria Cimmino<br />
Valerio Cinque<br />
Federica Cirillo<br />
Giuseppina Colella<br />
Umberto Confalonieri<br />
104<br />
Danilo Conti<br />
Fabrizio Coppola<br />
Salvatore Cracolici<br />
Alessandro Ĉulev<br />
Carlo D'Acquisto<br />
Alice D'Ambrosio<br />
Pierpaolo D'Aprile<br />
Marta De Filippis<br />
Silvia De Leonibus<br />
Danilo De Luca<br />
Chiara Del Zanno<br />
Luca Di Bartolomeo<br />
Alma Di Lonardo<br />
Marianna Donato<br />
Cristina Drigani<br />
Eugenia Durante<br />
Maria D'Urzo<br />
Elettra Esposito<br />
Valentina Esposito<br />
Cristina Fabiani<br />
Annalisa Faragli<br />
Federico Farina<br />
Carmen Fasanelli<br />
Arianna Fraccaro<br />
Claudia Frisoni<br />
Miriam Galati<br />
Laura Gallo<br />
Gloria Gaspari<br />
Vincenzo Gatta<br />
Gabriele Gatto<br />
Erica Gazzoldi<br />
Ilaria Genesini<br />
Roberta Marie Gentile<br />
Giulia Giaimis
Chiara Giorgi<br />
Eleonora Gironi Carnevale<br />
Daniele Giusi<br />
Carlotta Godano<br />
Aurora Grammatico<br />
Alice Guglielmo<br />
Giuseppe Gullo<br />
Giulia Iannarilli<br />
Sara Ingrassia<br />
Marcellino Iovino<br />
Margaret Jaci Jungton<br />
Setarè Kameli<br />
Marco La Sala<br />
Eleonora Latini<br />
Sara Lauri<br />
Federico Maria Limbiase<br />
Adriana Liotta<br />
Fiorenzo Lo Presti<br />
Chiara Lonoce<br />
Silvia Loppa<br />
Beatrice Lora<br />
Mario Luca<br />
Carlotta Macario<br />
Daniela Maggiori<br />
Stella Sherifat Ebellina Makanju<br />
Sara Manfredi<br />
Valerio Mango<br />
Gaspare Maniscalco<br />
Vickiano Mansende<br />
Antonio Marchese<br />
Martina Maretto<br />
Filomena Marino<br />
Damiano Mario<br />
Elena Giulia Massaggia<br />
105<br />
Marina Massaro<br />
Claudio Mastrangelo<br />
Gianpiero Matone<br />
Giovanni Merone<br />
Davide Messana<br />
Claudia Migliaccio<br />
Marina Migliaccio<br />
Maria Fontana Milato<br />
Sean Orso Miyakawa<br />
Arianna Mochella<br />
Valeria Mollica<br />
Celeste Montalto<br />
Marilisa Montemurro<br />
Ilaria Morelli<br />
Matteo Morsetti<br />
Giada Muraro<br />
Luca Musumeci<br />
Gianluca Nativo<br />
Giada Nespoli<br />
Giulia Nicora<br />
Mara Nicosia<br />
Chiara Ortisi<br />
Ilaria Padovan<br />
Antonia Paladino<br />
Lorenzo Palmucci<br />
Francesca Pantano<br />
Arianna Pantuso<br />
Donato Paolino<br />
Michelangelo Paolino<br />
Carlotta Papale<br />
Veronica Passalacqua<br />
Massimiliano Passeri<br />
Ilaria Passiatore<br />
Melania Pastano
Andreana Pastena<br />
Francesco Patanè<br />
Angelo Salvator Pemberton<br />
Aurora Pera<br />
Natascha Perrotta<br />
Alessandra Persico<br />
Giuliano Pesce<br />
Adriano Pinci<br />
Jacopo Pradel<br />
Monica Pragliola<br />
Elena Prati<br />
Matteo Primavera<br />
Roberta Pugno<br />
Cosmin Puiu<br />
Santo Purello<br />
Giulia Quinci<br />
Valentina Radaelli<br />
Korina Michell Ramirez<br />
Gianluca Raneri<br />
Caterina Rapini<br />
Rebecca Reina<br />
Antonia Riccio<br />
Virginia Nadine Rivolo<br />
Edoardo Rosadini<br />
Christopher Sacchi<br />
Luisa Sacco<br />
Laura Salerno<br />
Chiara Saliceti<br />
Francesca Santucci<br />
Loris Sbrollini<br />
Anna Scampicchio<br />
Pietro Schirò<br />
Mariarosa Semprebuono<br />
Giovanni Sepe<br />
Immacolata Sepe<br />
Tobia Sgnaolin<br />
Beatrice Simeone<br />
Davide Somachini<br />
Daniela Spada<br />
Martina Spampinato<br />
106<br />
Irene Spinelli<br />
Martin Sportelli<br />
Melissa Spreafico<br />
Lucrezia Stella<br />
Mariagrazia Talarico<br />
Roberta Tammaro<br />
Veronica Tona<br />
Martina Tortora<br />
Annalisa Tovagliari<br />
Davide Trani<br />
Erica Trapani<br />
Davide Vaccaro<br />
Elisa Valdina<br />
Andrea Varsori<br />
Anita Vicenzi<br />
Silvia Vitali<br />
Mariafabiola Zugliani
Finito di stampare nel mese di ottobre <strong>2009</strong><br />
da Vela Web S.r.l. di Binasco (MI)
Tempo Libero<br />
Premio Speciale Under19. Questa antologia rappresenta uno spaccato<br />
sociale della magmatica realtà verso cui la recente cinematografia<br />
e narrativa italiana dimostra un rinnovato interesse. Lontano<br />
dai clichés e dagli stereotipi, Subway Under19 cerca di dare voce a<br />
una letteratura scritta dai giovani per i giovani.<br />
Un’intenzione premiata dal crescente successo dell’iniziativa promossa<br />
dall’Università IULM, che propone in questo volume il racconto<br />
vincitore del Premio, pubblicato e diffuso nei luoghi di transito<br />
delle maggiori città italiane, con una tiratura da vero bestseller (oltre<br />
300.000 copie), insieme alle altre dieci Opere che la giuria<br />
dell’Ateneo milanese ha selezionato tra le quasi duecento pervenute<br />
in concorso da tutta Italia.<br />
Un invisibile fil rouge del disagio sembra legare la maggior parte delle trame<br />
delle opere pervenuteci. Da tutta Italia un’intera nuova generazione di scrittori<br />
racconta di paure, di incertezze, di malattie e di sconfitte. E lo fa con toni crudi<br />
o, al limite, disincantati.<br />
Dall’Introduzione di Giovanni Puglisi, Rettore Università IULM<br />
“Scusa ma ti chiedo amore” potrebbe essere dunque la formula corale di questa<br />
antologia che racconta la difficoltà di avvicinare l’altro, soprattutto quando<br />
non si può volare nemmeno qualche metro in alto nel cielo.<br />
Dalla Prefazione di Lucia Rodler, Docente Università IULM