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Antologia 2009 - Iulm

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ANTOLOGIA <strong>2009</strong>: 11AUTORI, 11RACCONTI<br />

PREMIO SPECIALE UNDER19<br />

UNIVERSITA’ IULM<br />

A cura di Andrea Chiurato e Lucia Rodler<br />

Marcellino Iovino, Emanuele Arciprete, Elvira Buonocore<br />

Bianca Cianfano, Pierpaolo D’Aprile, Luca Di Bartolomeo<br />

Setaré Kameli, Giovanni Merone, Claudia Migliaccio<br />

Elisa Valdina, Andrea Varsori


PREMIO SPECIALE UNDER19<br />

UNIVERSITA’ IULM<br />

A cura di<br />

Andrea Chiurato e Lucia Rodler


SUBWAY <strong>2009</strong> - Premio Speciale Università IULM - Under19<br />

A cura di Andrea Chiurato e Lucia Rodler<br />

Gli undici racconti pubblicati in questa antologia sono tratti dal corpus delle opere di<br />

Subway-Letteratura <strong>2009</strong>, una manifestazione letteraria ideata e realizzata dalla<br />

Associazione Laboratorio-E20, grazie al patrocinio e al contributo del Comune di<br />

Milano (Assessorato al Tempo Libero) e dell’Università IULM di Milano.<br />

Il presente volume, realizzato in esclusiva per l’Università IULM di Milano, è fuori<br />

commercio e la sua distribuzione avviene, gratuitamente, a cura del Servizio<br />

Orientamento Studenti dell’Ateneo (iulm.orienta@iulm.it).<br />

Progetto Grafico: Michele Marchesi - Solaris Comunicazione<br />

COPERTINA al TRATTO: Nicola Ballarini<br />

www.iulm.it www.subway-letteratura.org


INDICE<br />

INTRODUZIONE di Giovanni Puglisi 5<br />

PREFAZIONE, Scusa ma ti chiedo amore di Lucia Rodler 7<br />

Il testamento di Borges di Marcellino Iovino 11<br />

Il volto dello Straniero di Emanuele Arciprete 19<br />

Migrazioni sulla piazza delle ferrovie di Elvira Buonocore 27<br />

Portami via di Bianca Cianfano 37<br />

Abbi cura di te di Pierpaolo D’Aprile 43<br />

Il berretto verde di Luca Di Bartolomeo 51<br />

Il ritmo lento e regolare della natura di Setaré Kameli 57<br />

JUD di Giovanni Merone 63<br />

Incendiaria sciabolata di Fender Stratocaster di Claudia Migliaccio 73<br />

Immagini dal nulla di Elisa Valdina 79<br />

RACCONTO FUORI CONCORSO<br />

Le foto degli altri di Andrea Varsori 85<br />

POSTFAZIONE, Lo specchio e la vita di Andrea Chiurato 99<br />

GIURIA 103<br />

PARTECIPANTI AL PREMIO 104


INTRODUZIONE<br />

Giovanni Puglisi<br />

Rettore Università IULM<br />

Il Premio Speciale Università IULM Under19 festeggia quest’anno un traguardo<br />

significativo: cinque edizioni. E al giro di boa del primo lustro, alcune considerazioni<br />

sono doverose.<br />

La prima è la consapevolezza del valore culturale della partnership che sta<br />

alla base di questo riconoscimento, quella partnership che accosta il nostro<br />

Ateneo a Subway-Letteratura, manifestazione letteraria che, nata quasi in sordina<br />

a Milano otto anni fa, ha ormai conquistato uno spessore nazionale oltre<br />

che l’affetto di numerosissimi lettori.<br />

Mi piace anche ricordare l’innegabile ruolo di talent scout che l’Università<br />

IULM ha svolto in occasione delle passate edizioni di Subway. Per ben due<br />

volte, nel recente passato, il nostro Premio Speciale è stato assegnato a una<br />

penna esordiente che successivamente ha saputo confermare le proprie<br />

capacità narrative arrivando addirittura a vincere il Campiello Giovani.<br />

Tantissimi gli under 19 che anche quest’anno hanno risposto al nostro bando.<br />

Sono tutti autori al debutto, iscritti alle Scuole Secondarie di II grado, accomunati<br />

dalla passione dello scrivere e dal sogno di vedere pubblicati i loro elaborati.<br />

Un invisibile fil rouge del disagio sembra legare la maggior parte delle<br />

trame delle opere pervenuteci. Da tutta Italia un’intera nuova generazione di<br />

scrittori racconta di paure, di incertezze, di malattie e di sconfitte. E lo fa con<br />

toni crudi o, al limite, disincantati.<br />

La nostra giuria ha avuto il non semplice compito di selezionare l’opera vincitrice<br />

che è poi stata stampata e divulgata gratuitamente in centinaia di migliaia<br />

di copie nelle sempre più numerose città italiane del circuito Subway.<br />

Cosa rende, in fin dei conti, degno di nota un racconto? L’inventio innanzitutto,<br />

ovvero lo spunto di partenza, che deve essere accattivante e originale. Ma<br />

questo non basta, bisogna saper “disporre” il contenuto in modo convincente.<br />

La dispositio è particolarmente complessa e richiede una vera e propria abilità<br />

di scrittura. E poi, va da sé, occorre un’elocutio corretta che metta armonia<br />

5


fra sintassi e logica del pensiero. È proprio su questi criteri che si è basata la<br />

nostra selezione.<br />

Uno, dunque, il racconto vincitore ufficiale. Ma altri nove, altrettanto validi,<br />

quelli che con esso vengono raccolti in questa antologia. Fuori concorso, in via<br />

del tutto eccezionale, il volume accoglie inoltre un undicesimo testo inizialmente<br />

scartato perché troppo lungo rispetto al regolamento, ma poi “ripescato”<br />

perché degno di nota.<br />

L’invito è quello di leggere con attenzione queste brevi opere: sono dirette,<br />

forse acerbe in alcuni casi, ma sicuramente in grado di regalare emozioni.<br />

6


SCUSA MA TI CHIEDO AMORE<br />

Prefazione di Lucia Rodler<br />

Docente Università IULM<br />

Nel 1982, all’età di ottantacinque anni, il sociologo tedesco Norbert Elias (La<br />

solitudine del morente, trad. it. 2005) spiegava come la società contemporanea<br />

fosse diventata incapace di porgere aiuto a chi muore. La solitudine<br />

di un ospedale si sostituiva alla familiarità di una casa e di una comunità che<br />

non trovano spazi, gesti e parole per accompagnare il morente alla soglia<br />

estrema. Così si abbandona la vita in uno stato di abbandono affettivo.<br />

Venticinque anni dopo, nel selezionare undici racconti di ragazzi tra i quattordici<br />

e i diciannove anni – tra i quasi duecento che hanno partecipato alla<br />

quinta edizione del Premio Speciale che l’Università IULM conferisce in<br />

occasione della manifestazione letteraria Subway – la giuria di lettori adulti<br />

ha ripensato ad Elias e alle origini adolescenziali di questa esistenza forzatamente<br />

asettica. L’antologia del <strong>2009</strong> presenta infatti personaggi malati,<br />

stanchi, soli, che stanno in bilico tra la vita e la morte. E il racconto vincitore<br />

è un testamento redatto da chi sente “l’ultima ora avvicinarsi” nel “freddo”<br />

di una “camera d’albergo” (Iovino). Si tratta certo di una finzione, ma essa<br />

rappresenta bene la tonalità complessiva della raccolta.<br />

A conferma di ciò può essere utile osservare lo spazio cittadino: una “nave<br />

sgangherata” (Setaré), uno “scooter elaborato” (Migliaccio) e poi treni rumorosi<br />

(Buonocore) e autobus anonimi (Di Bartolomeo) conducono a un luogo<br />

che ha l’aspetto di una prigione, in senso letterale (il muro, il ghetto e la<br />

dogana di Merone) o metaforico (la ringhiera e la periferia dalle “sterminate<br />

vie cieche” di Buonocore). Prevalgono i luoghi chiusi, freddi, vuoti e soffocanti:<br />

numerosi ospedali (Cianfano, Migliaccio, Di Bartolomeo, Iovino), due<br />

cimiteri (Di Bartolomeo e Iovino), un negozio (Setaré) e poi condomini<br />

inquietanti (Varsori), desolate camere da letto (D’Aprile) o d’albergo (Iovino)<br />

e un monolocale di periferia (Di Bartolomeo). E chi tenta di sfuggire a questa<br />

condizione di impedimento viene violentemente fermato lungo la tangenziale<br />

(Migliaccio) o dinanzi alla dogana (Merone). Una speranza giunge<br />

forse dal mare che, però, va conquistato con fatica e soprattutto condiviso<br />

7


con qualcuno di veramente amico. Esperienza ricordata dalla giovane protagonista<br />

di Immagini dal nulla (“Ricordo la prima vacanza con le mie amiche<br />

al mare”) e vissuta da Cao e Aurora, i personaggi più solari dell’antologia,<br />

quelli di Setaré Kameli.<br />

Questo racconto narra un incontro che segna una trasformazione o, come<br />

direbbe il formalista russo Michail Bachtin (Estetica e romanzo, trad. it.<br />

1979), che avviene sulla soglia: lungo una strada un uomo e una donna<br />

cambiano vita perché si sanno ascoltare (“mi piace come sa ascoltare”). Ma<br />

si tratta di un caso eccezionale. Gli altri personaggi esprimono invece il timore<br />

di superare una qualche soglia, restando chiusi allo stesso modo dei luoghi:<br />

Hans, Giulia, Andy, Jessica, la protagonista che fantastica sul nulla,<br />

quello che rovista tra foto sconosciute, i paesani che attendono lo straniero<br />

condividono la paura dell’altro, a partire da un corpo osservato con sospetto:<br />

un braccialetto (la bimba ebrea di Merone), un colore della pelle (“ebano”<br />

in Setaré, “troppo chiaro” in Buonocore), un berretto (Di Bartolomeo), un<br />

reperto fotografico (Varsori), un mantello (Arciprete). Il fatto è che “mattone<br />

su mattone” ogni individuo erige intorno a sé un muro “impenetrabile”<br />

(D’Aprile): superata da Cao e Aurora, la diversità etnica separa tragicamente<br />

Sara, Anne e Hans (Merone); la distanza anagrafica allontana Giada da<br />

Giulia (D’Aprile), Jessica da Mary (Di Bartolomeo) e la figlia diciassettenne<br />

da “due genitori fin troppo adulti” (Valdina); esistono poi i distacchi sessuali<br />

(l’omosessualità presentata da Merone e Buonocore) e i misteri identitari di<br />

Arciprete, Di Bartolomeo e Varsori.<br />

Ma questa solitudine del vivente (per dirla nel modo di Elias) trova l’espressione<br />

più tragica nel racconto della malattia, dell’invecchiamento e della<br />

morte – occhi spenti, volti segnati, mani immobili, un corpo gelido, spezzato,<br />

ferito, magari solo perché dimenticato nell’ombra (Setaré e Di<br />

Bartolomeo) – che segna la fine di ogni comunicazione, di un amore conquistato<br />

a fatica (Merone), di un rapporto tra figli e genitori (Cianfano,<br />

D’Aprile e Di Bartolomeo), di un’amicizia (Migliaccio). Perciò prevalgono il<br />

monologo e un dialogo abbozzato in forma di preghiera testamentaria: “abbi<br />

cura di te” (D’Aprile), “abbi cura di Sara” (Merone), “perdonami”, “portami<br />

via” (Cianfano), “che t’ho fatto?”, “che t’hanno fatto?” (Buonocore), “papà?”<br />

(Di Bartolomeo). Ma queste “suppliche” sussurrate restano inascoltate e<br />

forse per questo si depositano sulla pagina scritta. Una delle funzioni della<br />

narrativa è infatti quella di offrire un compenso immaginario alle mancanze<br />

della vita reale che in questo caso riguardano la capacità di ascoltare (a tal<br />

proposito con sincero rammarico la giuria ha potuto accogliere solo uno dei<br />

8


molti, validi, racconti che hanno superato il numero di battute previste da<br />

questo bando). Riconoscendo a Cao questa virtù, Aurora sorride, mentre gli<br />

altri personaggi cercano comprensione con minore fortuna. “Scusa ma ti<br />

chiedo amore” potrebbe essere dunque la formula corale di questa antologia<br />

che racconta la difficoltà di avvicinare l’altro, soprattutto quando non si<br />

può volare nemmeno qualche metro in alto nel cielo.<br />

9


Racconto vincitore<br />

Premio Speciale Università IULM - Under19<br />

Marcellino Iovino<br />

Il testamento di Borges<br />

GENERE METAFISICO BORGESIANO<br />

1 RACCONTO DA<br />

8 f e r m a t e


Marcellino Iovino<br />

Ho deciso di scrivere la mia autopresentazione sotto forma d’interrogatorio.<br />

Non chiedetemi perché. È la prima cosa che mi è venuta in mente.<br />

- Come si chiama?<br />

Marcellino Iovino.<br />

- Qual è il titolo del racconto incriminato?<br />

Il testamento di Borges.<br />

- Quando e dove è nato, lei?<br />

A Caserta nel giugno del 1990.<br />

- Dunque Iovino, lei è accusato di aver scritto un pessimo racconto.<br />

Ci parli della sua attività scrittoria.<br />

Non c’è molto da dire. Nel 2006 ho pubblicato una raccolta di poesie, ho<br />

vinto quattro concorsi letterari e ho pubblicato due racconti su riviste on-line.<br />

- Precisi l’imputato quali sono le riviste in questione.<br />

Books Brothers e Terranullius.<br />

- Dunque le piace scrivere?<br />

Un casino. Tuttavia, preferisco la lettura.<br />

- A domanda risponde: tantissimo, ma prediligo la lettura.<br />

Può sedersi, Iovino. Rimetteremo il suo destino nelle mani della giuria del<br />

Premio Subway.<br />

Grazie.<br />

- Venga a testimoniare il protagonista del racconto incriminato.<br />

È lei Jorge Luis Borges, nato a Buenos Aires il 24 agosto 1899?


Il testamento di Borges<br />

Con gratitudine, stima e soprattutto affetto, a Jorge Luis Borges<br />

che, insieme a Louis-Ferdinand Céline e Fedor Dostoevskij,<br />

m’insegna a scrivere.<br />

Debbo la scoperta di questo testo<br />

alla congiunzione di Borges con la mia fantasia...<br />

(dal Testamento di Borges di Marcellino Iovino, 2008)<br />

Ancora, seppur parzialmente, sono Jorge Luis Borges.<br />

Sicuro, proprio quel Borges: l’autore dell’Aleph, delle Finzioni, della Storia universale<br />

dell’infamia, della Storia dell’eternità e di altre opere ingannatrici, che<br />

ingannatrici non sono. Voglio svelare al mondo il mio segreto, dopo averlo abilmente<br />

nascosto per decenni. Adesso che sento l’ultima ora avvicinarsi e la luce<br />

svanire momento dopo momento, voglio donarla agli uomini. Da anni mi giungono<br />

lettere di persone che mi chiedono perché abbia scritto, per gran parte della<br />

mia vita, solo racconti. Rispondo semplicemente dicendo che ho descritto l’infinito,<br />

e solo con il racconto si può descrivere l’infinito. Chi ha letto attentamente il<br />

mio saggio del ’72, Sulla letteratura, sa bene quale sono le mie posizioni a riguardo.<br />

Nel suddetto saggio dimostro come il romanzo sia un genere finito, mentre il<br />

racconto è infinito. Chi scrive un romanzo deve prendere l’infinito del reale e renderlo<br />

finito, dargli un ordine. Un romanzo ha quasi sempre un inizio e una fine,<br />

perciò è un mondo finito. Il racconto, invece, è l’unico genere letterario infinito.<br />

Un buon racconto è una storia che non ha inizio né fine. Per descrivere l’infinito,<br />

se ne traccia un tratto, che è anch’esso infinito. Un racconto è proprio un tratto<br />

d’infinito. Per fare un esempio, il mio racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano<br />

inizia con la preparazione di un omicidio da parte di una spia tedesca, durante<br />

la Prima Guerra Mondiale; l’omicidio si consuma nella parte finale. Tuttavia<br />

infinite azioni avvengono, senza che io le racconti, sia prima dell’inizio del racconto,<br />

sia quando esso è terminato. Cosa ha fatto per tutta la sua vita la spia tedesca<br />

prima di quell’omicidio? E gli uomini prima di lui? E dopo l’omicidio, la guerra<br />

come finirà? E dopo la guerra, cosa accadrà? Sono domande che il lettore<br />

esperto si pone, leggendo il racconto. Senza contare, poi, le infinite possibilità,<br />

che offre il reale, del prima e del dopo. A pagina milleduecentotrentaquattro del<br />

saggio citato prima, concludendo il breve capitolo dedicato al romanzo e al racconto,<br />

scrivo: “Il romanzo è il genere dell’ordine, il racconto del caos”.<br />

Molti, inoltre, mi chiedono come abbia potuto descrivere in maniera tanto preci-<br />

13


sa l’infinito nelle mie pagine. La risposta è semplicissima: l’ho visto. Io ho visto<br />

l’infinito.<br />

Tuttavia l’ho pagato a caro prezzo: sono diventato cieco.<br />

Tutto è accaduto la vigilia di capodanno del 1935 a casa del mio amico, poeta e<br />

scrittore argentino Alvaro Buendìa. Beatriz Viterbo era morta nel 1929. Cinque<br />

lunghi anni erano passati dalla morte della mia amata, ma il suo ricordo mi ossessionava<br />

in una maniera così forte da farmi recare, tutti i giorni, al Cimitero<br />

Monumentale di Buenos Aires e farmi pronunciare disperatamente: “Beatriz,<br />

Beatriz Elena, Beatriz Elena Viterbo, Beatriz amata, Beatriz perduta per sempre,<br />

son io, sono Borges”. Forse fu il suo ricordo a farmi dedicare allo studio della filosofia.<br />

Forse fu la consapevolezza del suo destino, del destino di tutti noi davanti<br />

all’infinito, a darmi lo spunto iniziale della Storia dell’eternità. Il lavoro procedeva<br />

con non poche difficoltà. Mi ero imposto di tracciare un profilo minimo dell’eternità,<br />

senza conoscerla affatto. Una domanda di fondo era necessaria per continuare<br />

il lavoro: è possibile descrivere l’infinito senza conoscerlo? Sottoposi la questione<br />

a diversi amici filosofi, senza mai ottenere una facile risposta. Ricordo addirittura<br />

che nel mese di giugno del 1934 a casa di Alvaro Buendìa, si formarono<br />

sull’argomento, due schieramenti netti: lo schieramento di coloro che pensavano<br />

a priori, gli aprioristi, sosteneva la possibilità di descrivere qualsiasi cosa, pur non<br />

conoscendola; mentre gli aposterioristi (così si chiamarono coloro che ragionavano<br />

a posteriori) sostenevano il contrario. Il capo degli aposterioristi era Gabriel<br />

Llosa, autorevole filosofo, mentre gli aprioristi erano guidati dal giovanissimo<br />

Umberto Oce, professore emerito di Filosofia medioevale all’Università di<br />

Bologna. È necessario ricordare che Umberto, prima di scoprire quale fosse il<br />

vero nome della rosa, era stato un mio allievo. La querelle infiammò la casa di<br />

Buendìa per due giorni, senza che nessuna delle due ipotesi prevalesse sull’altra:<br />

al terzo giorno si venne alle mani. I delicati mobili del salone, nel quale ci riunivamo,<br />

furono sfasciati a colpi di libri. Umberto, nel tentativo di centrare la nuca<br />

di uno degli aposterioristi, distrusse a colpi di Sant’Agostino tre vasi Ming a cui<br />

Buendìa teneva molto. Lo Zarathustra di Nietzsche procurò una settimana di prognosi<br />

a Gabriel Llosa. Qualcuno tra i presenti ha sostenuto che nell’istante in cui<br />

Llosa ha ricevuto il libro di Nietzsche sul capo, prima di svenire, abbia affermato:<br />

“Dio è morto”. Sembra che prontamente Don Alejandro, il parroco del quartiere,<br />

invitato non si sa per quale motivo e da chi, gli abbia risposto: “Per ora è morto<br />

solo Nietzsche e anche tu non te la passi tanto bene”. La lite sarebbe continuata<br />

per ore, se non avessi preso dalla catasta di libri buttati per terra uno qualunque,<br />

l’avessi alzato e avessi gridato: “Signori, calma, prego. Fatelo per Platone”.<br />

In breve tempo, tutti lasciarono la casa di Alvaro Buendìa. Io, Buendìa e Umberto<br />

dopo aver portato Llosa in ospedale, risistemammo il salone. Infine, io e Umberto<br />

14


ce ne tornammo a casa. A sancire la pace tra i due schieramenti non era stato un<br />

libro di Platone, ma l’elenco telefonico. Per fortuna nessuno se ne accorse.<br />

Passarono diversi giorni e io rimanevo con il mio dubbio. Ero arrivato a una specie<br />

di conclusione: quella sera, il ragionamento che più mi aveva convinto era<br />

quello degli aposterioristi. L’infinito era descrivibile solo dopo averlo visto. Ragion<br />

per cui la mia Storia dell’eternità non poteva essere scritta. Lo comunicai a<br />

Buendìa, quando mi telefonò per ringraziarmi di aver sedato la rissa e avergli salvato<br />

la casa dalla distruzione. In seguito, passai sei mesi di completa angoscia. Mi<br />

consumava il pensiero di essere completamente incapace di comporre una cosa<br />

che a Beatriz dovevo. Per distrarmi andai a trovare suo marito Julio. Gli portai<br />

una bottiglia di cognac scadente. Sembrava invecchiato di cent’anni dall’ultima<br />

volta in cui l’avevo visto, otto mesi prima. Andavo a trovarlo tre o quattro volte<br />

l’anno, ed egli mi parlava dei tempi in cui frequentavamo l’università io, lui e<br />

Beatriz. Poi mi faceva vedere delle foto e mi raccontava un po’ di lei. Credevo che<br />

un giorno l’avrei trovato morto su quella poltrona rossa, dove si era seduta innumerevoli<br />

volte Beatriz, mentre le leggevo Le mille e una notte. Sapeva che io<br />

avevo amato la moglie, ma non per questo cercava di evitare la mia compagnia:<br />

Beatriz in vita non mi aveva mai rivolto una parola gentile. Me ne andai più vuoto<br />

del solito, lasciando Julio con il suo pacco di ricordi.<br />

Verso metà dicembre del 1934, mi arrivò una telefonata imprevista. Era Alvaro<br />

Buendìa. Non ci sentivamo da mesi.<br />

“Ho quello che cerchi”, mi disse.<br />

“Cosa?”.<br />

“Quello che ti permetterà di scrivere la Storia dell’eternità. Sei libero il trentuno?”.<br />

M’invitò alla festa di capodanno, per mostrarmi quella cosa. Fu la mia rovina e la<br />

mia vittoria, credo. Ci andai poco curioso e molto scettico. Indossai l’abito da gran<br />

gala. La noia della festa veniva interrotta, di tanto in tanto, da qualche minuto di<br />

tango. Iniziai a perdere la pazienza. Se Alvaro voleva farmi uno scherzo, poteva<br />

scegliere un altro momento. Mi calmai quando lo vidi sbucare da chissà dove,<br />

avvolto dalla nuvola di fumo del sigaro che perennemente aveva tra le labbra. Me<br />

ne offrì uno.<br />

“Alvaro, sei ancora in tempo per dirmi che mi vuoi fare uno scherzo”, gli dissi<br />

mentre mi accendeva il sigaro.<br />

“No, per niente”.<br />

“Dov’è, allora?”.<br />

“Che impazienza! Sarà meglio trasferirci nel mio studio”.<br />

Andammo nel suo studio. Chiuse a chiave la porta e aprì la cassaforte nascosta<br />

dietro una tela regalatagli da Matisse. Non mi meravigliai: lo sapevamo tutti che<br />

il Matisse gli celava una cassaforte. Pensai a uno scherzo ben concepito.<br />

15


Presto, però, dovetti ricredermi. Dalla cassaforte Alvaro tirò fuori una borsa di<br />

tela. Dalla borsa, una sfera coperta con una stoffa nera.<br />

“Cos’è?”, domandai.<br />

“È l’infinito”, rispose Alvaro.<br />

“Un po’ tondo, non trovi?”, replicai, ridendo, al mio interlocutore.<br />

“Non ci credi, eh? Eppure se tolgo questa stoffa tu vedrai l’universo visto da<br />

fuori”.<br />

“L’universo visto da fuori?”.<br />

“Sì, vedrai tutto di tutti e di tutto e in tutti i tempi. Presenti, passati e futuri.<br />

Sorpreso, Jorge Luis?”.<br />

Il mio volto si fece improvvisamente serio.<br />

“Vedrò anche lei?”.<br />

“Certo”.<br />

“Allora togli la tela, voglio provare”.<br />

“Attento, Borges. Dio non concede un simile dono all’umanità, gratuitamente.<br />

Chi lo vede è destinato a non veder più niente, perché vede anche Lui. Non è una<br />

punizione: chi vede Lui non ha bisogno di vedere altro. Non deve vedere altro”.<br />

“Dunque non l’hai mai visto?”.<br />

“No. Tutto quello che so sulla sfera, mi è stato detto da chi me l’ha data”.<br />

“Chi te l’ha data?”.<br />

“Questo non ha importanza; ma, chi me l’ha data, mi ha detto che gli Aztechi la<br />

chiamavano Uqbar, che significa Dio”.<br />

“Voglio provare lo stesso, Alvaro”.<br />

“Pensaci”.<br />

Quasi me l’aspettassi domandai: “Diverrò cieco subito dopo averlo visto?”.<br />

“No, non subito. Ma, in breve tempo, non riuscirai più a distinguere i volti di coloro<br />

che ami: questo è sicuro”.<br />

“Allora ne vale la pena. Fammelo vedere, Alvaro”.<br />

Alvaro si decise. Si bendò gli occhi per resistere alla tentazione di vedere e sollevò<br />

la stoffa dalla sfera.<br />

Fu allora che lo vidi. L’infinito. L’universo. Fu allora che vidi: l’alfa, l’omega, il principio,<br />

la fine, tutte le ragioni, Napoleone, Roma, Atene, Omero; vidi: le mie opere<br />

passate, tigri blu, l’Aleph, la solitudine, mia madre, le mie ultime parole, la mia<br />

cecità, la Storia dell’eternità completa e pubblicata, il volto di Giuda, quello di<br />

Cristo, il mio, il tuo, quello di Alvaro da vecchio, quello di un giovane e sconosciuto<br />

ragazzo italiano, la spada di Alessandro, Socrate, Averroè, la croce, il<br />

pesce, la mezzaluna, l’amore, le stelle, una piramide, un labirinto, uno specchio,<br />

un’enciclopedia, neve, tabacco, sabbia, sangue, la furia di Cortés, quella di<br />

Aguirre, quella di Attila, quella di un bavarese dagli strani baffi, la rosa, la mia<br />

tomba, le Bibbie; fu allora che finalmente vidi lei: Beatriz nella culla, Beatriz al<br />

16


mare, Beatriz che mangia un gelato, Beatriz con Julio, Beatriz ammalata, Beatriz<br />

che gioca, Beatriz che ride, Beatriz che piange, Beatriz che mi fa disperare,<br />

Beatriz che esala l’ultimo respiro, Beatriz che riposa in pace. Infine vidi il volto di<br />

Lui, che annulla nel suo tutti i volti.<br />

Coprii la sfera con la stoffa nera. Alvaro si tolse la benda e mi guardò.<br />

“Allora, che te ne pare?”.<br />

“Strabiliante”, dissi.<br />

“Te lo regalo, tanto io non lo vedrò mai”.<br />

Presi la sfera e la misi nella borsa di tela. Tornammo nel salone, dove avevamo<br />

lasciato tutti gli altri invitati. Dopo la mezzanotte cercai di trovare una scusa e me<br />

ne tornai a casa. Tornato a casa, beneficiai di nuovo della visione della sfera. Da<br />

quel momento l’ho fatto tutti i giorni. Nel 1936 pubblicai, dedicata alla memoria<br />

di Beatriz Elena Viterbo, la Storia dell’eternità. Grazie all’aiuto della sfera la scrissi<br />

in una notte. In seguito dedicai tutta la mia produzione letteraria all’infinito.<br />

Purtroppo come tutti sanno, la profezia di Alvaro si avverò. Della sfera non potei<br />

godere molto. Nel 1938 arrivò il temuto e infausto evento. A causa di un incidente<br />

la mia cecità s’iniziò a manifestare.<br />

Non so perché ho creato queste pagine. Forse ho voluto redimermi dai miei incubi<br />

di uomo maturo del 1938 e di vegliardo ora. Non mi resta molto da vivere, lo<br />

sento. Voglio fare un’ultima confessione: nessuna delle mie opere è inventata.<br />

Tutto è reale: L’Aleph, La biblioteca di Babele, L’immortale… Perché, in un universo<br />

infinito, ci sono infinite possibilità che queste cose esistano.<br />

Forse fu l’amore per Beatriz a ingannarmi, ma ricordo che l’ultima volta che ho<br />

scrutato la sfera ho visto un Borges che ci vedeva e portava sottobraccio, a passeggio,<br />

in riva al mare, Beatriz Viterbo viva e vegeta. I due mi sorridevano e mi<br />

ringraziavano. Chissà, forse, grazie a questo mio gesto, nelle infinite possibilità<br />

del reale, esiste un Borges felice.<br />

Fa freddo in questa camera d’albergo, ho la gola secca a furia di dettare parole.<br />

Lascio questo scritto, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina<br />

nomine, nomina nuda tenemus.<br />

N.B. A questo punto, lettore, se sei stato attento, ti farai domande del tipo: Borges<br />

avrà fatto realmente questo? Cosa avrebbe potuto fare oltre a questo nella vastità<br />

delle possibilità del reale? Borges prima della morte di Beatriz che faceva? E<br />

prima cosa è accaduto? E ancora prima? E prima? E dopo che è successo? E dopo<br />

ancora? E dopo? E in futuro cosa accadrà? E dopo?<br />

17<br />

Jorge Luis Borges<br />

Ginevra, 1984


POSCRITTO DELL’AUTORE<br />

Io, Jorge Luis Borges, dono questo mio scritto in data 14/06/1985 al signor<br />

Gennaro Iovino, sapendo che lo custodirà in maniera attenta.<br />

POSCRITTO DEL 28 LUGLIO 2008<br />

18<br />

Jorge Luis Borges<br />

Buenos Aires, 14 giugno 1985<br />

Ho riprodotto nelle pagine precedenti un vecchio dattiloscritto che, la settimana scorsa,<br />

mio padre ricordò di avere chiuso in cassaforte da ventitre anni. Ho tentato di<br />

fare delle ricerche per verificarne l’autenticità. Non so se il dattiloscritto è apocrifo o<br />

meno. Mio padre mi ha raccontato di averlo ricevuto a Buenos Aires, nel 1985, da<br />

un vecchio con un bastone che parlava un italiano stentato. Il vecchio gli disse:<br />

“Conservalo e dallo a tuo figlio”. Mio padre sorpreso rispose: “Non ho figli. Non sono<br />

nemmeno sposato”. Il vecchio gli assicurò che ne avrebbe avuti. Ho verificato la data<br />

del dattiloscritto, 14 giugno 1985. Dopo un anno esatto Borges morì. Infatti, il grande<br />

scrittore argentino si spegnerà a Ginevra il 14 giugno del 1986. Sono pieno di<br />

dubbi, perché tutto coincide. Resta il fatto che non ho ancora capito come abbia fatto<br />

mio padre a conoscere Borges. Si saranno incontrati in qualche caffè del quartiere<br />

Palermo, frequentavano gli stessi posti. Non sono neanche sicuro che mio padre sia<br />

mai stato a Buenos Aires. Ma questo non glielo chiederò mai.<br />

Mentre leggevo questo dattiloscritto, un lampo perforò la sua mente. “Marcè, il vecchio<br />

mi diede anche una strana sfera e mi disse di dartela. Deve essere da qualche<br />

parte. Quando la trovo te la do”. Stamani l’ha trovata tra le sue cianfrusaglie. È<br />

rimasta lì per ventitre anni, ancora coperta dalla stoffa nera con cui Alvaro<br />

Buendìa si proteggeva la vista. Non so che fine abbia fatto, ammesso che sia realmente<br />

esistito. Ma questo non importa. Oggi ho trascorso tutto il pomeriggio con la<br />

sfera in mano. La tentazione di togliere il velo di stoffa non mi ha abbandonato nemmeno<br />

per un minuto. Infine mi sono deciso. Ho chiuso a chiave la sfera in un vecchio<br />

baule in soffitta. La chiave l’ho nascosta in un posto che mi sforzo di dimenticare<br />

a tutti i costi. La sfera dell’infinito, del tutto; l’universo giace chiuso nel mio<br />

baule, in soffitta, lontano da mani maldestre. Chissà, forse un giorno mi verrà<br />

voglia di ricordare dove ho messo la chiave del baule, salirò in soffitta, toglierò il velo<br />

di stoffa dalla sfera e vedrò.<br />

Marcellino Iovino<br />

28 luglio 2008


Emanuele Arciprete<br />

Il volto dello Straniero<br />

GENERE SURREALE<br />

1 RACCONTO DA<br />

5 f e r m a t e


Emanuele Arciprete<br />

Emanuele Arciprete nasce nell’agosto del 1990 con quasi una settimana di<br />

ritardo. Già da bambino mostra una spiccata predisposizione per il disegno,<br />

grazie alla quale organizza vere e proprie serie di fumetti da condividere con<br />

i propri amici. Al contempo, riceve il battesimo della scrittura, dedicandosi –<br />

ancor prima d’imparare propriamente a scrivere – alla stesura di piccoli racconti<br />

tramite una dettatura al padre. Nel 1999 fonde entrambe le passioni, del<br />

disegno e della scrittura, partecipando al concorso internazionale bandito<br />

dalla città di Bordano, al quale concorre con un racconto illustrato; vince il<br />

terzo premio e negli anni successivi si classifica per due volte al primo posto.<br />

Man mano la scrittura prevale sul resto; egli si dedica alla stesura di racconti<br />

lunghi, ne completa alcuni. I suoi toni si incupiscono frattanto che porta<br />

avanti letture di Poe o d’altri narratori, come Borges, Lovecraft, Schnitzler o<br />

Dostevskij; ma è della poesia ch’egli s’innamora altrettanto profondamente,<br />

allorché sprofonda nei versi di Dante, Baudelaire, Leopardi, Rimbaud; esercitano<br />

una profonda influenza su di lui anche lo studio della filosofia e l’ascolto<br />

di musica varia, dalla classica al metal. Al liceo Emanuele diviene direttore<br />

della sezione di cultura nel giornale scolastico. Ormai la scrittura è mutata<br />

nella sua vita, nel suo desiderio, nella sua pulsione più oscura e assoluta.<br />

Egli scrive per necessità, per saziare il daimon che risiede, insaziabile, all’interno<br />

del suo petto. Il volto dello Straniero è una storia sul procedere della<br />

poesia traverso le menti, sull’avanguardia dei poeti: la loro eredità non viene<br />

compresa, inizialmente, poiché essi non hanno più un vero luogo in cui trovarsi;<br />

sono viandanti, eroi caduti in disgrazia, e sui loro capi pende l’infamia.<br />

L’accettazione completa del loro operare non avverrà mai, se non in un qualche<br />

tempo lontanissimo, ed ecco perciò che i poeti s’offrono come le stanche<br />

ombre d’oggi, ma anche come le aurore di domani.


Il volto dello Straniero<br />

Girava per i paesi una voce remota accompagnata da lievi variazioni. C’era sempre<br />

qualcuno che vi iniettava un particolare in più di sua creazione, seppur la<br />

voce, nell’insieme, non mutasse grandemente: Come? E viene da solo?<br />

I vecchi, trepidanti, attendevano il guizzare di un limpido bagliore negli occhi dei<br />

figli, solo per aggiungere, tra gli altri, una serie di particolari uditi distrattamente<br />

e dei quali nemmeno erano sicuri.<br />

Voci. Le voci che fluttuavano ovunque erano tantissime.<br />

La prima era partita da Est. Poi si era accartocciata contro i monti di Rentinuun,<br />

a Nord, rimbalzando lungo i borghi antichi. Qui innumerevoli lingue l’avevano<br />

elaborata sotto forme diverse, sicché a ogni via la bardatura dello Straniero assumeva<br />

un colore differente e tutti stavano a discutere sulla forma del suo mantello,<br />

quasi fosse costituito da un paio di ali nere, dicevano, di quelle che nemmeno<br />

i diavolacci piazzati di sotto dovevano avere; ma tolto questo, la notizia nuda<br />

e cruda si riduceva al fatto che dopo essere scomparso per molti anni Lui stava<br />

arrivando. Tornava indietro. I vecchi ne avevano sentito parlare dai loro padri, i<br />

quali a loro volta ne avevano sentito qualcosa dai loro nonni e così via sino all’aurora<br />

delle ombre. In tutto ciò la forma dello Straniero non la conosceva nessuno.<br />

Ognuno, però, pur di non perdere credibilità dinanzi ai propri interlocutori, le<br />

attribuiva cose di punto in bianco: chi diceva che sembrasse un serpente, chi un<br />

angelo, o un menestrello impazzito, chi uno stregone o un assassino.<br />

Quando arrivò l’autunno, durante un giorno piovoso ci fu un annuncio che schizzò<br />

per tutte le valli delle Contee Brune: lo Straniero era stato visto procedere per<br />

gli orti di un certo Ottregaglia. Poi, sia di Lui che dello stesso Ottregaglia, non<br />

si era saputo più nulla. Divorati dall’Unica Tenebra!<br />

Ecco perciò un’altra voce che in breve accompagnò il lento e oscuro procedere<br />

dello Straniero: divorava le persone, se ne nutriva e non ne lasciava più niente.<br />

Ogni tanto qualcuno spariva e allora puntualmente la colpa ricadeva su di Lui.<br />

Un uomo, stanco della moglie casa e chiesa, fuggiva con l’amante giovinetta e si<br />

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ifaceva una vita a Ovest, nelle Grandi Capitali, senza lasciar detto alcunché agli<br />

altri? Era stato lo Straniero, senza dubbio! Lo aveva colto sulla via del ritorno dai<br />

campi, all’imbrunire, e se l’era ingoiato in un sol boccone. Benché la verità fosse<br />

piuttosto diversa, tanto di guadagnato per quell’uomo che sarebbe stato ricordato<br />

come un ottimo padre di famiglia nonché un marito devoto.<br />

Dopo la sparizione del buon Ottregaglia – per la quale, tuttavia, si iniziò a sospettare<br />

del contadino suo confinante, ben più probabile artefice del tutto – non si<br />

seppe più nulla dello Straniero.<br />

Trascorsero svariati mesi. Giunse l’inverno e con esso una nuova voce si diffuse<br />

ovunque: Egli era in cerca di qualcosa. In cosa consistesse l’oggetto della sua<br />

ricerca però nessuno lo capiva. Fu il buon Mozelli, acuto artigiano di buone letture,<br />

a suggerire che con ogni probabilità si trattava d’un discepolo. I vecchi allora<br />

impallidirono sul serio: anche quel particolare accompagnava le storie di cui<br />

erano a conoscenza, sebbene durante le loro esistenze non avessero mai avuto<br />

modo di riscontrarne l’autenticità. Questo era quel che sapevano: trascorso un<br />

numero interminabile di anni, lo Straniero intraprendeva una vera e propria<br />

ricerca che lo conduceva attraverso ogni paese. Uno a uno li attraversava tutti, vi<br />

soggiornava per una notte o due, nel caso qualcuno intendesse sfidarlo, e se poi<br />

ciò non avveniva, senza dir nulla andava, silenzioso, avvolto da quell’aria mesta<br />

che lo accompagnava come una sposa fedele. Ignorando in cosa consistesse questa<br />

misteriosa sfida, la maggior parte dei vecchi non esitava affatto a ipotizzare<br />

che l’eventuale sconfitta consistesse in una morte sicura e terribile.<br />

Sul finire dell’inverno, dalle nevi di Echelor si seppe che lo Straniero era giunto<br />

in una locanda e qui aveva pernottato per poco tempo. Il terrore aveva preso il<br />

sopravvento al punto che era stato impossibile agire, organizzata una difesa spicciola,<br />

e semmai provare a cacciarlo o addirittura tentare di ucciderlo. Ma il fatto<br />

inquietante, per cui l’intera vicenda passava di bocca in bocca, era ben altro: un<br />

uomo del paese aveva perso il senno senza motivo, correndo agli usci di tutte le<br />

porte e lagnandosi di sentir delle voci nella sua testa, voci atroci e oscure, le quali<br />

lo incitavano a raccogliere una sfida di cui non sapeva nulla. Quando lo Straniero<br />

fu andato via, quello stesso uomo scomparve misteriosamente. Solo dopo un’estenuante<br />

giornata di ricerche fu trovato coi polsi aperti nascosto in un ripostiglio.<br />

Ciascuno descrisse il suo volto come praticamente inesistente.<br />

Ovviamente ciò andò ad alimentare la sanguinosa fama dello Straniero ma, a<br />

questo punto, era chiaro che qualunque cosa fosse, Egli la cercava – o sarebbe<br />

stato più giusto dire attendeva?<br />

Ben presto, con incredibile rapidità, la sua ombra fu vista arrivare e recarsi in<br />

tanti luoghi diversi.<br />

Sperduto a Sud, esisteva un paesucolo di pietre, pastori e pochi artigiani. Era<br />

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noto, per quei pochi che lo conoscevano, col nome di Poeteja. I vecchi del posto<br />

avevano timore che lo Straniero giungesse fino a loro. Non potendo far nulla per<br />

impedirlo, consigliarono di organizzare una massiccia difesa, nel caso quello si<br />

fosse presentato e di decapitarlo, così da innalzare la fama di Poeteja persino al<br />

di sopra delle Grandi Capitali. L’idea fu in parte appoggiata, ma avevano tutti<br />

troppa paura perché si provasse per davvero a uccidere lo Straniero.<br />

Quando Egli si presentò all’unica taverna di Poeteja, nessuno alzò un solo dito e<br />

cercò di attuare quanto suggerito dai vecchi; rimasero piuttosto a osservarlo, ciascuno<br />

barricato per bene a casa sua, in lontananza, mentre il visitatore scendeva<br />

dal proprio animale – un semplice mulo da campagna, al che in molti si chiesero<br />

come avesse fatto a giungere sin lassù, sulla cima della montagna dove sonnecchiava<br />

il borgo.<br />

Era sera e una leggera pioggia scendeva sui tetti delle abitazioni.<br />

Lo Straniero non si guardò attorno.<br />

Camminò appoggiandosi a un lungo bastone, entrò nella locanda e non uscì più.<br />

Alquanto isolata dalle altre case c’era quella del giovane Samuel, che in quel<br />

momento era a cullarsi tra i respiri della sua compagna. Samuel aveva vent’anni<br />

e aiutava il fabbro del paese; i suoi compaesani lo vedevano così com’era, un<br />

ragazzo alto, coi capelli lunghi e la barba lievemente trascurata. Tutti ignoravano<br />

la sua innata dote di mettere in riga le parole. Ci riusciva come nessun altro,<br />

lui le seduceva e diceva loro quel che dovevano fare, quale ordine assumere,<br />

limava qua, colpiva là, batteva il martello del suo sentimento su quell’unica incudine<br />

di carta. Solo la sua dolce compagna era a conoscenza di una tale, innata,<br />

capacità di Samuel, poiché era stato proprio quello che più l’aveva indotta a innamorarsi<br />

di lui.<br />

La sera in cui giunse lo Straniero, un dolore improvviso lacerò le tempie di<br />

Samuel, al quale diedero la sensazione di sfaldarsi a metà. Emise un gemito e<br />

si piegò su stesso, mentre una voce profonda, tranquilla, s’insinuava tra i suoi<br />

pensieri.<br />

Chi sei?<br />

Sai chi sono. E tu sai cosa sarai fra un anno, fra un’eternità?<br />

Sarò me stesso.<br />

Cioè Nulla, e niente di più.<br />

Cosa vuoi?<br />

Risorgere dentro di te, purché tu ne sia degno.<br />

Io non posso.<br />

Raccogli la sfida.<br />

Di cosa stai parlando, lasciami, va via.<br />

Se io andrò ti perderai dentro te stesso.<br />

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La sua compagna, spaventata, cercò di soccorrere Samuel, che sembrò essere<br />

altrove, le orbite divenute bianche come neve o come la spuma del mare, i denti<br />

che affondavano nelle labbra e il sangue che scuriva la barba bionda. Trascorse<br />

qualche istante, poi il ragazzo tornò se stesso e scoppiò a piangere in modo convulso,<br />

aggrappandosi alla sua donna. Quando si fu calmato, tacque e le domande<br />

di lei non servirono a strappar nulla su quanto fosse accaduto; disse soltanto:<br />

“Sarai linfa per le mie creature. Annegherai nel tessuto dei miei occhi, e lì vivrai<br />

con me”.<br />

Il mattino dopo Samuel si recò nella piazza di pietra, sotto gli angeli scolpiti.<br />

C’era lo Straniero ad attenderlo, avvolto nel manto nero, del suo volto non si<br />

vedeva nulla. I due si studiarono a vicenda alcuni istanti. Restarono fermi come<br />

rocce piantate nel vento, ma era come se sapessero già esattamente quel che<br />

dovevano fare. Lo Straniero si abbassò il cappuccio del manto. Mostrò un volto<br />

anziano, entro cui si raccoglievano i fiumi di tutte le ere e di tutti i tempi, gli occhi<br />

come gemme silenziose, e iniziò a muover le labbra nell’atto di parlare, senza<br />

che però uscisse fuori alcun suono se non l’aria; lo stesso fece Samuel.<br />

Sembravano sputarsi contro parole fatte di nebbia o suoni così antichi, così<br />

distanti, che gli altri di Poeteja, nascosti agli angoli della piazza e intenti a spiare<br />

l’incontro, non erano in grado di ascoltare.<br />

Trascorsi vari istanti, lo Straniero sembrò sorridere; poi il suo manto si svuotò.<br />

Samuel restò immobile a fissare il drappo nero che si raggrinziva adagiandosi<br />

sulla pietra come un fiore reciso. Allora gli altri del paese, del tutto sconvolti,<br />

guardarono nel volto del ragazzo e non videro più lui, ma anche lui, assieme al<br />

volto consumato dell’uomo con cui si era battuto, e assieme ai volti di coloro che<br />

furono e coloro che saranno, simile a uno specchio in pezzi che rifletteva centinaia<br />

d’occhi e bocche, benché il volto fosse uno, e gli occhi due, assieme alla<br />

bocca ch’era pure lei una sola.<br />

Samuel raccolse il manto e lo indossò; poi si recò nella locanda, dove recuperò<br />

un libro scuro nascosto in un panno, assieme a quel vecchio bastone visto da<br />

tutti la sera prima. Nel frattempo la gente di Poeteja si era raggruppata fuori.<br />

Dopo aver assistito a quella scena priva di significato, aveva recuperato un minimo<br />

di coraggio da impiegare in extremis per far qualcosa. Raggiunsero la locanda<br />

e intimarono allo Straniero di uscir fuori, avendo poco prima convenuto che<br />

a sparire non fosse stato Lui stesso, ma il povero Samuel, finito chissà dove negli<br />

stomaci dell’Ombra. Non appena si presentò lo Straniero, a testa alta, fu accolto<br />

da sputi, sassi e minacce. Silenzioso, senza rispondere a nessuno, Egli recuperò<br />

il mulo. Poi andò via curvo su se stesso, poiché nessuno dei paesani ebbe il<br />

coraggio di andar oltre e agire in prima persona.<br />

Di Lui non si seppe più nulla per molti anni. Tornò a far parlare di sé solo quan-<br />

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do parve che stesse nuovamente in cerca di qualcosa.<br />

Ma non bisogna tacere che alcuni giorni dopo i fatti di Poeteja, alquanto improvvisamente<br />

all’interno delle Biblioteche di Ossian venne ritrovato un tomo scuro.<br />

Non era la prima volta che se ne trovavano, e ognuno recava in sé opere stupende<br />

e perfette, date da intrecci di parole, lettere e versi liquidi, come vivi.<br />

Ma di questo parlerà qualcun altro…<br />

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Elvira Buonocore<br />

Migrazioni sulla piazza<br />

delle ferrovie<br />

GENERE STORIA DI UNA PARTENZA E UNA RIFLESSIONE<br />

SOCIALE<br />

1 RACCONTO DA<br />

15 f e r m a t e


Elvira Buonocore<br />

Elvira nasce a Pagani nel novembre del 1989.<br />

Da qualche giorno Berlino Est e Ovest erano di nuovo un’unica città, il muro<br />

era caduto e i Pink Floyd avevano eseguito la loro Another Brick In The Wall<br />

in un concerto rimasto nella storia.<br />

Dopo la scuola media, Elvira sceglie di frequentare il liceo scientifico B.<br />

Mangino, un istituto piccolo e surreale, di un paese altrettanto piccolo e surreale.<br />

Attualmente è iscritta al primo anno del corso di laurea in Lettere<br />

Classiche, all’Università di Napoli Federico II. Vive a Napoli, al quarto piano<br />

di un palazzo fatiscente e invadente, con tre amiche e una tartaruga depressa<br />

di nome Ugo. Ama scrivere ed essere silenziosa, poi guardare intorno e<br />

tornare a scrivere.


Migrazioni sulla piazza delle ferrovie<br />

“Puoi usare anche una pietra, ma con il gesso si colora meglio”.<br />

“E poi?”.<br />

“Ma non ci hai mai giocato, alla settimana?”.<br />

“No”.<br />

Una bimba con il nome di un fiore, piccola come una biglia in un palmo. Se ne<br />

stava piegata sulle ginocchia e guardava l’asfalto caldo, fatto molle sotto il sole.<br />

Poco avanti era più fresco e, sotto l’albero di fichi, sua madre non la lasciava mai<br />

un momento.<br />

Andy tracciava linee sulla terra nera, col gesso faceva diverse caselle e poi ci<br />

metteva i piedi dentro. Contava sulle dita, poi si allontanava per vedere se andava<br />

bene.<br />

“Io la conosco da un sacco di tempo. Me l’hanno insegnata. Veramente già la<br />

sapevo, poi me l’ha fatta vedere anche Giosuè”.<br />

“Chi è Giosuè?”.<br />

“Quel signore con la giacca verde che taglia le piante, che ha messo la medicina<br />

sulle rose di mamma”.<br />

L’estate dominava e non c’era scampo, nemmeno lì in fondo tra l’erba alta. E quel<br />

sole assurdo di ferragosto sapeva di sudore e di limoni, di ghiacciolo alla menta.<br />

Andy aveva preso il Monopoli, ma poi aveva rinunciato a insegnarlo a sua sorella.<br />

È troppo piccola – aveva detto sua madre – certi giochi devi farli con papà, a<br />

lei piacciono ancora le bambole. Poi aveva preso la piccola al collo e, quasi a chiederle<br />

conferma, le aveva detto: “Non è così?”. Poi le aveva stampato un bacio<br />

sulla guancia.<br />

Allora Andy l’aveva trascinata in mezzo al verde e si erano divertiti per un po’ a<br />

prendere vermi col cucchiaio, a raccoglierli in un barattolo di vetro e poi portarli<br />

in giro per casa, come un trofeo. Lui sorrideva, la bambina sempre per mano.<br />

Poi si era ricordato di quel gioco: era facile. E ora sua madre stava seduta e si<br />

faceva aria con un foglio di carta, il volantino di un discount; li guardava e chis-<br />

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sà che pensava, mentre Andy fissava sua sorella, col gesso in mano le chiedeva<br />

un po’ annoiato: “Hai capito?”.<br />

No, non aveva ancora capito. E ormai era quasi ora di mangiare qualcosa, erano<br />

le cinque. Non se ne faceva più niente.<br />

Di fronte a loro, vivevano in due. Un padre vecchio, non conosceva nessuno e si<br />

era portato dietro dal paese un figlio troppo bianco. Lavorava in tipografia, stampava<br />

biglietti da visita sulla grana prescelta, a seconda del cliente e delle sue<br />

tasche, poi tornava a casa con le mani che sapevano di inchiostro e di libri. Il<br />

bambino suonava il pianoforte, ma così bene da chiedersi il perché: tanto non<br />

avrebbe potuto farne niente, tanto era sprecato perché ci vuole la fortuna, in<br />

tutto. Pure a saper fare le cose che servono. E a Claude serviva imparare il lavoro<br />

di suo padre e basta; ma al vecchio non interessava molto, e pensava ai contributi<br />

per la pensione, che a lui comunque non sarebbe servita.<br />

Era di pomeriggio e a quell’ora la gente riposa. Almeno così dicono le madri,<br />

quando i figli alzano troppo la voce o giocano a pallone contro i muri delle case.<br />

Andy faceva il pagliaccio, col panino all’olio in una mano oscillava a braccia aperte,<br />

poi fingeva di cadere tra i rami e sua sorella rideva. Si era messo in tasca un<br />

cowboy con le gambe aperte, una fionda rossa, nuova e bellissima.<br />

“Un elefante si dondolava sopra il filo di una ragnatela e, vedendo la cosa interessante,<br />

andò a chiamare un altro elefante”.<br />

I piedi di Claude ciondolavano, persi nel vuoto. Si era messo sul balcone, con la<br />

faccia schiacciata nelle linee della ringhiera, si guardava le scarpe da ginnastica<br />

e pensava che forse era meglio non camminarci, per non sporcarle.<br />

“Due elefanti si dondolavano sopra il filo di una ragnatela e, vedendo la cosa interessante,<br />

andarono a chiamare un altro elefante”.<br />

Andy sentì cantare e si mise a guardare. Fissava il bambino che sembrava di plastica,<br />

o forse era di ceramica, non capiva; le gambe erano magre come i rami secchi<br />

che bruciavano a Santa Lucia e se avesse provato a camminare, forse sarebbe<br />

caduto. Claude aveva gli occhi tutti presi dai gabbiani e non si chiedeva che<br />

ci facessero lì, perché erano così tanto vicini e troppo lontani dal mare; li guardava<br />

e immaginava un aquilone verde acqua.<br />

“Tre elefanti si dondolavano sopra il filo di una ragnatela e, vedendo la cosa interessante,<br />

andarono a chiamare un altro elefante. Ma che fai? Che vuoi?”.<br />

Andy aveva preso il suo cowboy rosso e aveva lanciato uno dei finti piombini che<br />

aveva in tasca. “Vieni? Ho il Monopoli”, aveva detto per convincerlo.<br />

Era diventata un’abitudine, darsi appuntamento al balcone, quando la sera le vie<br />

sotto casa si illuminavano di giallo e non c’era altro da fare che sentire i treni<br />

ancora partire.<br />

E c’era freddo, quell’inverno più che altre volte Claude era tentato di tornare<br />

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dentro, in casa e farsi caldo con le mani tra le gambe, accanto alla stufa. Poi<br />

avrebbe messo un pentolino sul fuoco con dentro dell’acqua e se ne sarebbe<br />

stato lì, ad aspettare che il tè gli riscaldasse la gola per farlo addormentare.<br />

Ma era così normale, ormai, vedersi come da sempre, con la faccia tra le mani e<br />

i gomiti sulla ringhiera, che non riusciva mai a trovare un motivo valido per chiudere<br />

le imposte e mettere un punto a tutta quella amicizia.<br />

“Si gela, stasera”, avrebbe esordito così, Andy. E si sarebbe alzato il bavero del<br />

cappotto, cercando di coprirsi il naso freddo. Claude lo sapeva, e nemmeno<br />

aveva bisogno di immaginare come sarebbe andata e cosa avrebbero detto, in<br />

mezzo al silenzio e alle linee di luce, sterminate vie cieche di quella città, che non<br />

aveva pietà per nessuno.<br />

Andy si sarebbe sfregato le mani e soffiandoci dentro avrebbe detto qualcosa.<br />

Niente di importante.<br />

“Già. Perché non ti compri un cappello?”, Claude diceva sempre quello che era<br />

giusto fare, e ogni volta i suoi consigli lo facevano sentire uno stupido. Anche<br />

quella sera gli avrebbe offerto il suo cappello e lui avrebbe rifiutato.<br />

“Sì, non lo so. Dovrei. Domani ci vado”. Andy avrebbe guardato da un’altra parte,<br />

verso il mare alle sue spalle e oltre l’alto palazzo giallo che si stagliava accanto,<br />

troppo vicino.<br />

“Sì, dai. Prendi il mio. Te lo lancio, tanto non mi serve”, così avrebbe detto<br />

Claude, che indossava il suo maglione di lana, prugna, un po’ largo, che si tirava<br />

sulle dita lunghe.<br />

“No, no. Non ti toglierei mai quell’aria da principe del Galles”, e Andy avrebbe<br />

riso, sotto la sciarpa si sarebbe preso gioco di lui. “Poi, con questo freddo, ne<br />

preferirei uno di lana, o meglio ancora un colbacco”.<br />

Il cappello di Claude era a scacchi, un berretto irlandese beige che si portava<br />

sempre dietro, anche quando non c’entrava col resto. E sotto il suo sorriso era<br />

bianco e un poco scavato, faceva gelare.<br />

“Come ti pare. Comunque, volevo dirti… Ma che fai?”. Non c’era mai tono di rimprovero<br />

in quello che diceva, ma ogni volta Andy si sentiva scrutato fino al midollo.<br />

Claude era una coscienza che non giudicava, si limitava a guardare quasi con<br />

interesse e pareva chiedersi fino a che punto sarebbe arrivato quella volta.<br />

E quella sera Andy avrebbe preso il suo pacchetto di sigarette dalla tasca dei<br />

pantaloni, senza smettere di guardare altrove. Avrebbe detto qualcosa su un<br />

libro, delle pagine trovate in una parte della sua biblioteca, nella parte a scaffale<br />

chiuso.<br />

“È la parte chiusa, quella che fa angolo con i libri di mio padre. Lo devi vedere,<br />

ti piace di sicuro”, poi Andy avrebbe alzato lo sguardo e avrebbe riso ancora di<br />

Claude e della sua faccia. Lui avrebbe pensato al passato, a quanto era uguale a<br />

prima.<br />

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“Ne vuoi una? Ti vedo che stai lì, a concupire. Dai, prova…”, e lo sapeva che non<br />

avrebbe accettato.<br />

“Tu sei scemo forte. Comunque, volevo dirti, per le lezioni di piano, lascia stare<br />

guarda. Non fa per te”. Claude parlava di tutto, ed era tutto preparato. E intanto<br />

guardava Andy portarsi il filtro alla bocca e tirare poco, poi il fumo si confondeva<br />

con quello che usciva dalla sua bocca, in quel freddo prematuro di novembre.<br />

“Come non fa per me?”. Andy non ci credeva mai troppo e pareva non fare caso<br />

a quello che Claude gli diceva. Sembrava non fare caso mai a niente.<br />

“Io vengo lo stesso, prima o poi imparo. E poi ho già comprato tutti i libri e gli<br />

spartiti, che dico a mio padre?”.<br />

“Dio, che dice a suo padre!”. Claude avrebbe abbozzato la sua ironia, che quasi<br />

mai funzionava.<br />

“Fai poco lo stronzo! Mio padre me la fa pagare e poi non la smette di dire che<br />

perdo tempo. Io vengo lo stesso”, così Andy avrebbe salvato le sue lezioni private<br />

di piano e la sua amicizia infantile.<br />

Claude lo sapeva, anche quella sera che non era in vena di vedere nessuno, si<br />

immaginava fermo sul balcone, come sempre. E non gli andava di parlare con<br />

qualcuno, avrebbe voluto solo dormire o magari andarsene via, andare a vedere<br />

da dove venivano i suoi capelli troppo biondi, quegli occhi chiari e immobili.<br />

“Dico solo che dovresti almeno essere curioso. Dovresti chiederti qualcosa;<br />

da dove viene tutto questo talento?”. Solo il giorno prima Andy aveva parlato<br />

troppo.<br />

“Non viene da nessuna parte. È mio e basta. E poi non è nemmeno chissà cosa.<br />

Ma poi, che c’entra?”, e Claude gli aveva detto di sparire.<br />

Si era sentito frustrato e avvilito. Ridicolo, più di tutto. Perché poi non era vero<br />

che non gli importava. Avrebbe voluto lasciare tutto e andarsene a fare il musicista<br />

in giro per l’Europa; avrebbe vissuto di quello che il suo cappello riusciva a<br />

riempire, come sempre del resto.<br />

Ma si sentiva così trattenuto da qualcosa. E quel giorno sarebbe andato da<br />

Andy, bussando forte alla sua porta di mogano e gli avrebbe volentieri spaccato<br />

la faccia.<br />

Poi non ce l’aveva fatta. E ora stava lì, a fissare il nero torbido del tè fingendo di<br />

non sentire. Andy si era affacciato e lo chiamava senza stancarsi; cercava di farsi<br />

sentire solo da lui. Claude sorrise un attimo pensando al suo sforzo, se lo immaginò<br />

guardare in giro per vedere se intorno tutto taceva.<br />

“Claude, oh! Ma che fai? Dormi?”. Andy non si stancava. Era una vita che lo<br />

chiamava.<br />

Certe amicizie finiscono all’improvviso, perché i fatti hanno deciso così. Alcune<br />

invece non si stancano mai di essere come all’inizio, quando qualcuno ti allunga<br />

32


la mano e ti dice il suo nome, o ti accompagna per un tratto e poi se ne va, salutando<br />

da lontano.<br />

Ma pensare agli amici bambini fa piangere il cuore delle madri. Perché non è<br />

giusto sperare, e loro lo fanno sempre; perché sanno che è difficile restare come<br />

allora, che nient’altro si aggiunga a quella quiete.<br />

“Ma è uno scherzo? Esci, non posso urlare. Ti devo dire una cosa”. Claude attendeva<br />

fermo, la mano ancora sulla manopola del gas, ma dentro qualcosa fremeva.<br />

Voleva che la smettesse, voleva essere lasciato in pace.<br />

“Oh, ti ho fatto qualcosa? Non ho detto niente, dai. Ma è per le sigarette? Guarda<br />

che non ho preso il vizio, lo faccio solo qualche volta, per passare il tempo. Che<br />

cazzo, però, almeno rispondi”, sul suo tè nero Claude piangeva in silenzio. Aveva<br />

lacrime calde, come quelle degli altri lì, in quel paese convulso; piangeva da solo,<br />

perché non aveva con chi farlo, e Andy non poteva capire.<br />

Era tutta una vita, ancora così breve e vissuta di fretta, tutti quegli anni che dalla<br />

casa di fronte, dalla strada, Andy lo chiamava e non restava mai senza fiato. E<br />

quando Claude non rispondeva, correva da lui e bussava alla sua porta, gridando<br />

qualcosa.<br />

“Posso entrare? Signore, mi scusi, posso un attimo dire una cosa a Claude? Se<br />

sta studiando, posso aspettare qui”. Andy era educato, ma per finta. Sapeva come<br />

fare per farsi benvolere dagli adulti, e sapeva che ostentare la sua parlata perfetta<br />

poteva rivelarsi un’arma vincente. Così, con gli occhi puntati in quelli del vecchio<br />

tipografo, riusciva a ottenere sempre quello che voleva, e poteva passare il<br />

tempo col piccolo pianista che provava ancora, al piano di sopra.<br />

“Che fai?”, Andy era salito di corsa e aveva spalancato la porta. Aveva gli occhi<br />

grandi e sembravano volere regalare qualcosa, di lì a poco. “Se vieni con me, ti<br />

faccio vedere una cosa. Ti piace, sicuro! Non lo so io perché ti piacciono certe<br />

cose però, se ti faccio vedere questa, impazzisci. Vieni!”, e se l’era portato via,<br />

tirandolo per un braccio e saltando per le scale.<br />

“Mamma, mamma apri!”. Sua madre aveva aperto la porta, aveva abbozzato un<br />

sorriso e aveva detto di far piano. Ma Andy era già andato via, in una stanza grande<br />

e gialla e piena di quadri e tende e lì, in quel punto in cui ora Andy sorrideva<br />

e applaudiva, c’era un vero pianoforte, intero. Un pianoforte con la coda.<br />

“Io ho un pianoforte grande! Vedi. Guarda, siediti”. Andy era felice e compiaciuto.<br />

Claude si era avvicinato ma non l’aveva toccato.<br />

“È bello”, aveva detto e se n’era andato via.<br />

“Se vuoi, quando mi faccio grande, te lo do. Ma non dirlo a mamma”, Andy gli<br />

aveva sussurrato in un orecchio. Claude aveva fatto un cenno d’assenso con la<br />

testa. E poi si erano già dimenticati.<br />

Quella era una promessa da bambini.<br />

33


Ora Claude era alto e sottile, una linea bianca sulla carta da parati che negli anni<br />

si scollava. E sotto gli occhi qualche volta aveva segni neri, cerchi scuri e sfiniti.<br />

Aveva bisogno di poco, ma nessuno sapeva cosa. Di qualcuno, forse. Eppure non<br />

si era mai sentito davvero solo, non prima di ora. Stava ancora tremando e, mentre<br />

prendeva una fetta di limone, avrebbe voluto essere feroce e fare a pugni con<br />

qualcuno.<br />

Poi si asciugò gli occhi, le sue occhiaie si erano fatte rosse e profonde. Andy<br />

sarebbe tornato, perché non aveva capito; aveva smesso di urlare, aveva chiuso<br />

le sue finestre. Claude aveva smesso di odiarlo.<br />

Ebbe il tempo di bussare una sola volta. Entrò che era una furia. Quando Claude<br />

aprì, vide che aveva il fiato corto per le scale e per la corsa sulla strada; fuori era<br />

freddo ma non avrebbe mai nevicato, non lì con il mare e le isole intorno, non<br />

dove al mattino attraccava l’aliscafo e la gente era così tanta e diversa che a qualcuno<br />

faceva paura. Andy lo guardava fisso ed era risentito, ma solo per la fatica.<br />

La mano poggiata al muro, coi suoi capelli neri che si erano incollati alla fronte<br />

e il peso del suo respiro affannoso nel petto, Claude avrebbe voluto fermarsi a<br />

guardare.<br />

“Entra”. Si spostò per lasciarlo entrare, poi chiuse la porta senza aggiungere<br />

altro.<br />

“Ma che hai? Cos’è, ti gira male stasera?”.<br />

Claude beveva il suo tè e guardava il piccolo televisore, davano i numeri del lotto.<br />

Il volume era basso e la tizia che elencava i numeri vincenti era tinta di biondo.<br />

“È passato tuo padre, stamattina. Voleva pagare le lezioni private, ha insistito ma<br />

io ho rifiutato. Sembra invecchiato”.<br />

“Perché non li hai presi? Potevano farti comodo. E poi mi dai lezioni, è il<br />

minimo”.<br />

“Non ne ho bisogno, invece. Sto per vincere alla lotteria”. Claude aveva in bocca<br />

un sapore acido e nefasto, richiamava sensazioni assopite, di una vita fa.<br />

Guardava lo schermo e la sua faccia era ferma, come quella volta tra le righe del<br />

balcone.<br />

“Ma che dici? Tu non hai mai capito niente”.<br />

“Questa è una notizia”. Claude si passò una mano tra i capelli, non poteva<br />

crederci.<br />

“Ma che t’ho fatto?”. Andy lo guardava dritto in faccia, una figura nera tra lui e il<br />

televisore. Aveva ancora il cappotto addosso e le scarpe erano fradice, i calzini<br />

bagnati. “Dio santo, Claude! Ti ho solo detto che forse dovresti fare qualcosa,<br />

che forse è arrivato il momento di uscire di casa. Fai vedere che lo sai usare,<br />

quel maledetto pianoforte. Ci hai buttato il sangue, lì sopra. Io non capisco. Ma,<br />

a quanto pare, non sono fatti miei”.<br />

“Stamattina è passato tuo padre. Dopo sono andato al Conservatorio, ma mi è<br />

34


andata male. Forse non sono molto simpatico, forse vado bene solo per aspettare”.<br />

Andy non capiva, non capiva cosa diavolo stava dicendo.<br />

“Per aspettare le macchine che passano. Poi si fermano e io salgo e non mi serve<br />

più la lotteria, e nemmeno i soldi di tuo padre”. Claude disse tutto con disgusto.<br />

Andy si avvicinò senza ritegno, con una mano gli strinse la faccia urlando: “Che<br />

cazzo dici? Cosa cazzo dici?”. Poi si allontanò ed era già cambiato.<br />

Quel paese non aveva coscienza. Multietnico e razzista, una contraddizione vera<br />

e pericolosa, che faceva male a tutti. Claude aveva un segno rosso, una riga sicura<br />

sotto il labbro. Andy si avvicinò di nuovo. “Che hai fatto qui?”, la sua voce era<br />

malferma, aveva paura. “Che t’hanno fatto?”. Claude non rispondeva, Andy lo<br />

seguì immaginare ancora un aquilone verde acqua.<br />

È quando si carica di valori etici la diversità, che nasce il razzismo. E il bianco di<br />

Claude sapeva di terre troppo lontane per essere comprese, ricordava la faccia<br />

di un mercante d’armi o di un assassino. Quella mattina, davanti alla bella facciata<br />

del Conservatorio, un violinista senza capelli gli aveva urlato contro il suo<br />

sangue e la sua patria anonima.<br />

“Numero jolly 5”, la donna tinta aveva quasi finito. Claude sentiva odore di tabacco<br />

e fumo, che s’era incollato ai capelli di Andy; ne spostò una ciocca e ritrovò<br />

quel profumo sulla sua faccia e sotto la lingua.<br />

Dietro la spalla di Claude, la parete era verde e sapeva di umido. Linee sottili si<br />

diramavano dall’angolo in alto, si stendevano con calma maligna su tutto il muro.<br />

Andy guardava e lì si rifugiò nel pensiero di un male che forse un poco se ne<br />

andava, grazie a lui. Restò fermo a ricambiare tutto l’amore che poteva, anche<br />

quando Claude gli fu più vicino e le sue mani erano eterne come quando, sul<br />

piano. Come ora, nei suoi pantaloni a quadri.<br />

Sulla strada volano i gabbiani. Si sono spinti troppo oltre, negli anni finiranno col<br />

raggiungere l’interno della città, lasceranno i loro escrementi a fare da concime<br />

e forse ricrescerà qualcosa di migliore.<br />

Claude cammina nel silenzio che è intorno. Piazza Garibaldi è invasa di uccelli,<br />

piccoli punti neri oscillano in alto e passano da un lato all’altro del cielo. Non<br />

sono gabbiani, quelli non ci sono più per lui. Solo migrazioni, sulla piazza delle<br />

ferrovie.<br />

35


Bianca Cianfano<br />

Portami via<br />

GENERE BREVE RACCONTO DI CRESCITA<br />

1 RACCONTO DA<br />

2 f e r m a t e


Bianca Cianfano<br />

Mi chiamo Bianca Cianfano, vivo a Bari e frequento il quarto anno presso un<br />

istituto tecnico-commerciale della mia città. Ho diciassette anni e tramite la<br />

scrittura, non cerco di creare altri mondi ma di esaminare bene il mio. Mi<br />

piace analizzarne tutti gli aspetti più profondi, le sfumature, gli spigoli, le<br />

sfaccettature, le schegge più svariate, le cose più banali e quelle più importanti.<br />

Cercare le cause degli accadimenti e cosa influenza il modo di pensare<br />

della gente, i perché che mi pongo, le risposte alle mie domande, per<br />

capire le persone e spaziare nella realtà. Quando scrivo non evado dal mio<br />

mondo per entrare in quello di qualcun altro ma, al contrario, esploro il mio<br />

universo per cercare di comprenderlo a fondo, immedesimandomi sempre<br />

nei miei personaggi, ma senza renderli simili a me, anzi. Differenziandoli e<br />

diversificandoli, ponendomi il problema di essere, di agire e pensare come<br />

loro. Li creo per criticarli o solo per sentirli vicino a me, vicino ai problemi che<br />

ci amareggiano. Risolvendoli insieme. O perdendo le sfide.<br />

Io sono i miei racconti. Io sono i miei personaggi. Io sono le mie storie.


Tremilionicinquecentomilasettecentoquarantacinque.<br />

Tremilionicinquecentomilasettecentoquarantasei.<br />

Portami via<br />

Respiri. Aria che, aspra, mi irrita le narici, pungente, acre, immobile.<br />

Respiri. Inutili. Ma pur sempre respiri. Meccanici, ritmici, inesistenti. Ma<br />

respiri.<br />

I miei occhi, serrati da troppo tempo, non riescono a riaprirsi e come macigni<br />

suggellano il mio sonno profondo. Così perennemente chiusi che ho dimenticato<br />

persino il colore della luce del sole.<br />

Le mie mani. Abbandonate pesantemente su un lenzuolo sterile e ruvido, sembrano<br />

essere staccate dal mio corpo. Non so più toccare. Dio, non so più nemmeno<br />

toccare.<br />

Sono cerebralmente morta da dodici anni. In trappola nel mio corpo senza vita,<br />

dove muoio ogni giorno di più. Una lenta agonia, che mi succhia via ciò che mi<br />

resta, secondo dopo secondo, che fa scivolare inesorabilmente dalle mie dita<br />

la vita che già da tempo non ho.<br />

Vivere vuol dire respirare? Vivere vuol dire solo esistere?<br />

Mia madre viene a trovarmi ogni giorno, sempre alla stessa ora, per lo stesso<br />

lasso di tempo. E piange, ogni giorno, sempre alla stessa ora, per lo stesso<br />

lasso di tempo. E io la ascolto. Ascolto il suono delle sue lacrime che rimbomba<br />

vagamente nella mia testa, ormai vuota. Forse mi tocca, mi sfiora, mi stringe.<br />

Ma io non me ne accorgo. Io non sono più nel mio corpo ormai. Non<br />

rispondo più a nessuno stimolo, a nessuna carezza. E mia madre piange, non<br />

tanto perché non vuole farmi morire, ma perché dentro di lei sa il calvario che<br />

passo ogni istante.<br />

“Guardare e non toccare”, mi diceva sempre da piccola.<br />

Già. Io non guardo mamma. E non tocco nemmeno. Ubbidisco. Ubbidisco alle<br />

singole mansioni che il mio corpo deve svolgere. Niente più. Sono vittima di<br />

39


me stessa. Non ho più niente per me, se non il desiderio di dire basta.<br />

Di piangere.<br />

A volte vorrei poterlo fare. Ma non ci riesco. Non ce la faccio, non ho più lacrime<br />

da versare.<br />

Non posso neppure piangere. Tutto viene trattenuto dentro, da una morsa che<br />

mi attanaglia lo stomaco, mi intorpidisce le membra e mi strazia il cuore. Sono<br />

prigioniera in questa gabbia di carne, muscoli, sangue e ossa che non riconosco<br />

più come un nido. Ma solo come una tortura.<br />

Vorrei morire. Perché in fondo muoio ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni<br />

secondo. Che senso ha tenermi legata a questo letto squallido e freddo? Vorrei<br />

volare via. Via, via da questo corpo, via da questa stanza, via da questo buio,<br />

via da questa vita finita ormai da tempo, verso un altro nome, un altro mondo,<br />

un’altra aria. Un altro respiro.<br />

Fresco, bramato, ardente, sicuro, mio, caldo, vivo, vero.<br />

Sì, sempre aria che attraversa le mie narici. Ma pur sempre un respiro.<br />

Anche mio marito mi viene a trovare ogni giorno. A lui regalo sempre il solito<br />

muto e cieco silenzio. Credo che mi baci la fronte, ma io non posso sentirlo.<br />

E che vita è questa? Non poter sentire l’amore sulla pelle, non poter amare e<br />

volere amore. Non sapere nemmeno più che volto abbia, l’amore. E cercarlo,<br />

ogni notte infinita, in ogni angolo di buio, in ogni sfocato, volubile ricordo.<br />

Instancabilmente, disperatamente, perennemente.<br />

Cercarlo nei miei occhi spenti, nelle mie mani immobili, sul mio corpo gelido.<br />

Cercarlo senza fine, senza trovarlo mai. Ma sapere soltanto di averlo amato.<br />

“Finché morte non ci separi”.<br />

Non sono morta. Ma nemmeno viva. Sono eternamente sospesa in uno spazio<br />

cupo, su un filo sottile e lucido. Tagliente. Mi chiedo come sarebbe morire.<br />

Sarei libera? O solo vittima dei miei peccati? Sarei uguale agli altri? O avrei un<br />

posto d’onore tra i sofferenti?<br />

Certo, sarebbe più dolce. Sarebbe più accogliente.<br />

Sarebbe meglio morire, che vivere in un eterno frammento.<br />

E avere in testa sempre le stesse parole.<br />

Sempre la stessa canzone d’amore.<br />

Sempre gli stessi ricordi. Sempre gli stessi film.<br />

E l’anima. L’unica cosa che ci è concesso di possedere all’infinito.<br />

Sporca, slabbrata, strappata, dilaniata.<br />

Ma anima. Chiusa dentro una me, che vuole che qualcuno la lasci andare. Per<br />

essere libera.<br />

E un pensiero mi attraversa la testa.<br />

“Tu fai solo scelte sbagliate! Non sai vivere!”.<br />

Sì, mamma. Avevi ragione.<br />

40


Scusami, perché non ho avuto abbastanza tempo per dimostrare che sbagliavi.<br />

Perché non ho saputo fare le scelte giuste. Perché non ti ho salutato, prima<br />

di partire. Perché ho creduto che la vita fosse una favola e invece nessun felici<br />

e contenti. Perché ti ho lasciata sola. Perché non ho saputo vivere.<br />

E adesso non so morire.<br />

Ma nonostante questo, ti prego, perdonami. Non lasciarmi qui.<br />

Ti prego.<br />

Portami via.<br />

41


Pierpaolo D’Aprile<br />

Abbi cura di te<br />

GENERE PERCORSO DI FORMAZIONE<br />

1 RACCONTO DA<br />

4 f e r m a t e


Pierpaolo D’Aprile<br />

Che dire? Mi chiamo Pierpaolo D’Aprile e sono nato nel febbraio del 1990.<br />

Ho quindi diciannove anni e forse la mia giovane età mi ha portato a raccontare<br />

una storia verosimile ma che evidenzia, tra il disincanto rispetto agli<br />

altri valori, anche la disillusione nei confronti dell’amore vittima della mercificazione<br />

e dell’accontentarsi, come ogni cosa in questo momento.<br />

Abbi cura di te è l’invito di un padre privato dalla morte del proprio ruolo, l’invito<br />

alla figlia di cui si sente finalmente parte solo adesso che sta per abbandonarla.<br />

Sentimento comune la difficoltà nei rapporti, che si traduce in incomunicabilità<br />

anche in quelle relazioni indiscutibili perché ci sono date, e<br />

anche un padre e una figlia possono divenire estranei l’uno all’altra.


PAOLO<br />

45<br />

Abbi cura di te<br />

L’ultimo raggio di sole comincia a declinare sul vetro piegandosi in un angolo<br />

sempre più vicino allo zero per poi spegnersi. Finalmente sarà più semplice<br />

respirare: la calura estiva sta abbandonando la stanza portando via con sé<br />

anche i rumori lì fuori. Una nuova notte, di nuovo silenzio, di nuovo l’agonia<br />

data dal desiderio di un po’ di riposo, ma ancora una volta i dolori stroncheranno<br />

qualsiasi mio tentativo, dilanierò ancora i seni di Giulia, scavati dal<br />

tempo e, mentre io farò tutto questo, lei chiuderà definitivamente le palpebre<br />

pur non volendo: con sempre maggior frequenza le sbatterà, si sfioreranno<br />

cercandosi prima, unendosi dopo; l’indomani il suo volto sarà macchiato dall’alone<br />

di tristezza perché rea di non esser riuscita a vegliare su suo marito, ma<br />

io terrò gli occhi socchiusi fingendo di dormire e, dopo aver sospirato, la vedrò<br />

sentirsi sempre meno colpevole.<br />

Non ho mai amato i punti di vista, c’è ne stato sempre solo uno per me, il mio,<br />

di anno in anno si è elevato sempre più fino a toccare il metro e ottantatre,<br />

quella era la verità, ogni cosa mi appariva sempre medesima nelle forme, nei<br />

colori, nei modi; io mi muovevo fiero per la strada guardando il cielo, mi ritrovavo<br />

spesso a osservare chi mi stava di fronte dall’alto in basso compiacendomi<br />

del disagio che incuteva la mia fisicità, e non solo le cose o le persone,<br />

anche i rapporti si nutrivano di quella convinzione che tutto fosse così come<br />

apparisse. Io una spanna sopra gli altri per poter controllare e dominare ogni<br />

persona che mi è intorno, così da non osservare più mia moglie, avendo la presunzione<br />

di conoscere ogni singolo centimetro di quel corpo. Mentre di mia<br />

figlia non guardavo che il volto, a sedici anni ancora disegnato da quei tratti flebili<br />

che regalano ingenuità. Rivedevo quella bimba di soli cinque anni che gridava<br />

più forte affinché la spingessi fino a toccare il cielo con la punta dei piedi,<br />

così lei diceva ogni sabato pomeriggio al parco. Non appena scendeva giù, pro-


prio in quell’attimo, lei girava il capo per regalarmi un sorriso, il pegno per una<br />

nuova spinta!<br />

Circa due mesi fa, il mio punto di vista si è incrinato, giù giù fin quasi a toccare<br />

il suolo, come un verme mi rotolo tra le federe; mi rigiro creando delle volute,<br />

nascondendo il viso sotto il lenzuolo per poi rispuntare dopo qualche minuto,<br />

non trovo pace! Il mio sguardo si è piegato fino a sfiorare il suolo e un nuovo<br />

mondo si è aperto dinanzi, avidamente ne ho ammirato le forme, i contorni, gli<br />

spazi, i colori, alla smaniosa ricerca del particolare, che di giorno in giorno si<br />

è resa sempre più intensa. Delle volte mi capita di esserne così avido che i miei<br />

occhi mi puniscono tanto da negarsi, l’immagine diviene opaca, il particolare<br />

si nasconde nel duplicarsi e nell’amalgamarsi delle forme, mi arrendo affondando<br />

la testa nel cuscino, cercando la frescura del lato vuoto.<br />

Il corpo di Giulia sta cedendo, ha sempre i capelli arruffati raccolti in una crocchia<br />

improvvisata, il viso sempre più segnato dall’irrompere dei fiumi della vita<br />

che scavano i loro letti intorno ai suoi occhi gelidi, arricciano la fronte e ne<br />

modificano la bocca. Solo da qui ho visto come il tempo stia agendo anche su<br />

di lei privandola di quella bellezza che non mi ha mai fatto desiderare altro.<br />

Sempre da qui il ricordo di Giada si è modificato, il volto ha lasciato spazio al<br />

corpo, così nuovo, quel suo andamento rachitico e maldestro si è evoluto in<br />

una sfacciata femminilità, si è fatta alta, le anche fertili e i seni gonfi.<br />

Puntualmente passa davanti alla porta intorno alle otto di sera, senza più guardarmi<br />

mi saluta, sbatte la porta e sento veloce il tonfo dei suoi passi giù per le<br />

scale; nel pieno silenzio, sento anche il portone aprirsi e l’immagino andar via,<br />

con i suoi vestitini corti, le magliette tirate, preda di qualche lupo cattivo.<br />

Preda di sé.<br />

GIADA<br />

Non ne posso più! È già mezzora che mi si dimena sopra! Così maldestro! Ogni<br />

tanto si blocca e mi guarda negli occhi per controllare che mi stia divertendo,<br />

demente! Devo far finta di sorridere per non bloccarlo nuovamente con la speranza<br />

che venga al più presto così da poter andar via.<br />

Sì, dai! Vai così… mi tocca pure fingere. Diamine, comincia di nuovo con le<br />

scuse. Non ti preoccupare, fai pure, io sarò qui inerme sotto il tuo corpo. E pensare<br />

che lo avevo desiderato tanto, erano mesi che progettavo tutto nei minimi<br />

dettagli, piegata a tutto e a tutti pur di averlo qui con me. Che delusione! Dai,<br />

Giulia aspetta un momentino, si sta contraendo, che non sia la volta buona? Il<br />

respiro si fa più affannoso… Niente. Ma come si fa a essere così lenti?<br />

È il più bello, da quell’attimo in cui ho sbirciato dalla porta in palestra l’ho desi-<br />

46


derato, ho desiderato le sue labbra così grandi, le sue braccia cosi lunghe tanto<br />

da immaginarmi, un giorno, stritolata tra di esse, le sue spalle cosi possenti da<br />

farmi vibrare. In classe ho imparato a conoscerlo e per quanto superbo, egocentrico<br />

e nauseabondo, lo desideravo come nessun altro, ogni volta che mi<br />

stava vicino sentivo lo stomaco raggomitolarsi, il suo profumo come oppio mi<br />

saliva su per le narici. Non era solo il suo corpo, c’era qualcosa in Lui di così<br />

oscuro e ambiguo da attirare perennemente la mia attenzione tra le pareti scolastiche,<br />

per poi contemplarlo ancora per tutto il pomeriggio e poi ancora nel<br />

letto per abbandonarmi al piacere prima ancora che alla notte.<br />

Non sapevo cosa significasse amare, ma di sicuro Lui riusciva a dominarmi, a<br />

farmi ignobilmente sua senza neppure guardarmi per un solo istante.<br />

Poi venne quel dieci dicembre di due anni fa, il tabù delle sue labbra, io poco<br />

più che adolescente, fu svelato grazie al fortuito roteare di una vuota bottiglia.<br />

Non appena mi si fermò dinanzi il tappo rosso sul suo volto cadde un’espressione<br />

di profondo ribrezzo, i suoi compagni ghignavano. Imbarazzata e felice<br />

subito mi tirai su. Lui, trascinato dalle mani di chi gli stava vicino, fu issato e,<br />

una volta vicino, serrò la sua mano intorno al mio polso stringendola con forza<br />

e mi sussurrò all’orecchio: “È una delle cose più rivoltanti che potesse capitarmi<br />

quella di baciarti, quindi non appena mi avvicinerò con le labbra, tu scostati.<br />

Nessuno se ne accorgerà!”.<br />

Mi guardai intorno, aspettavano tutti avidi quel sacrificio, le loro facce apparivano<br />

contorte in ghigni mostruosi, avrei voluto andar via, ma Lui era lì e forse<br />

non mi sarebbe mai più capitato di averlo. Era ancora così bello, non mi importava<br />

di ciò che aveva detto. Lui era così bello, io ancora una bimbetta irrequieta<br />

con il vestito macchiato di cioccolato e due fossette enormi che mi scavavano<br />

le guance.<br />

Lui si avvicinò, devo scansarmi – pensai – oppure si arrabbierà. Rimasi ferma,<br />

le sue labbra si serrarono alle mie che si mossero veloci nella ricerca della<br />

combinazione più adatta, cercava di allontanarsi, io le serrai ancor di più fino a<br />

quando non mi spinse giù lasciando volare nell’aria un sonoro schiocco che<br />

fece alzare le risate di tutti gli altri ora seduti in cerchio. Raccolsi le gambe tra<br />

le braccia e recuperai la mia posizione con il viso chino sulle ginocchia fin<br />

quando non venne la mamma per portarmi a casa.<br />

Pensavo che quel gesto avrebbe disciolto in me ogni minimo sentimento, invece<br />

lo aveva ancor più acceso: lo inseguivo per la scuola, seguivo tutte le partite<br />

della sua squadra, era diventato per me un’ossessione ma non conoscevo il<br />

modo per riaverlo.<br />

È stato Marco il primo, ricordo ancora l’ebbrezza di potere che provavo ogni<br />

volta che ero sola con lui, strisciava lento su di me facendo attenzione a calibrare<br />

ogni suo gesto, alcune volte dopo ore andavo via fingendo un mal di testa<br />

47


e lui subito mi richiamava il giorno dopo alla ricerca nuovamente di me, del<br />

mio corpo, ma restava sempre Lui il mio obbiettivo. Dopo Marco ci sono stati<br />

tanti altri, non m’importava cosa pensassero, finalmente sentivo di esser potente,<br />

di avere il controllo e nessuno rideva più di me. Qualche giorno fa mi ha<br />

chiamato anche Lui, avevo vinto io questa volta, so che gli interessa solo il mio<br />

corpo ma avrei potuto averlo, anche lui soggiogato da me. Avrei voluto amarlo,<br />

ma non gli sarebbe bastato e se questo risultava l’unico modo per amarlo,<br />

per farlo mio, questo sarebbe bastato a me… lo avrei amato così.<br />

Tra queste coperte, tutto ciò mi sembra solo uno stupido lontano capriccio,<br />

anche Lui mio, anche con Lui ho vinto. Cosa è l’amore rispetto all’ebbrezza<br />

della vittoria? L’ennesimo tassello della mia collezione.<br />

“Ahi!”.<br />

“Pretendi forse che perda tutta la serata con te? Passami il reggiseno, è lì”.<br />

“Ma tu sei tutta matta…”.<br />

Si sta rivestendo, il suo corpo è sempre lo stesso di quel giorno, solo ancora<br />

più bello e quell’espressione stranita lo rende così buffo.<br />

“…ti stavi divertendo e poi mi hai spinto giù dal letto ridendo… Sei proprio una<br />

gran troia”.<br />

Ha sbattuto la porta con violenza. È andato via finalmente. Mi stavo divertendo?<br />

Peccato che tu non sappia leggere i miei pensieri, altrimenti non ne saresti<br />

così certo. Che stupido. Dov’è la maglietta? Eccola lì. Sta squillando il telefono,<br />

ricordo di averlo messo… Lì. Cazzo! La mamma, cosa vorrà adesso?<br />

“Pronto”.<br />

“Giada, sono la mamma!”.<br />

“Cosa vuoi?”.<br />

“Devi tornare al più presto a casa”.<br />

“Come tornare? Se sono appena uscita!”.<br />

“Giada ti ho chiesto di tornare a casa”.<br />

“Uffa! Ma perché?”.<br />

“Se ti ho chiesto di tornare a casa ci sarà un motivo”.<br />

“Non m’importa, ci sono gli altri che mi aspettano, ci vediamo dopo”.<br />

“Giada ti ordino di tornare a casa, papà sta male!”.<br />

Patetica, mi ordina di tornare…<br />

“Sì lo so che ha una strana influenza ma torno tra un po’, non vi preoccupate”.<br />

“Giada ritorna immediatamente… papà sta molto male”.<br />

“Cazzo, mamma adesso hai proprio rotto, ci vediamo dopo ciao!”.<br />

“Giada! Torna adesso! Tuo padre sta… morendo”.<br />

48


GIULIA<br />

Delle volte, sentendo orrore, penso a lei come se fosse morta; ho ornato la<br />

casa di ogni sua foto, ogni istante che trascorro tra queste mura ho i suoi occhi<br />

che mi scrutano, che mi cercano. Ho una sua foto sempre con me, ne ho fatti<br />

duplicati da disperdere in auto, nelle borse, tra le mie carte, un paio sulla scrivania,<br />

tre nel portamonete: una scattata da Paolo appena venuta al mondo, una<br />

nel suo primo giorno di scuola, l’ultima con i suoi lunghi capelli biondi.<br />

Ricordo ancora quell’anno in campagna e il suo terzo compleanno. Sorrido<br />

ripensando a quella sua gran gelosia nei confronti del mio cappellino di paglia,<br />

lo aveva scovato in un’antica cassa e subito, ancora impolverato, lo aveva calato<br />

sulla testa tirandolo giù fino a metà viso tanto da nascondere gli occhi e<br />

cominciando a starnutire. Allungai la mano per tirarlo via, ma pur continuando<br />

a starnutire, scostò il capo. Dovetti contrattare con lei per circa mezz’ora prima<br />

di riaverlo indietro per ripulirlo e, per tutto il tempo, mi guardò stizzita contorcere<br />

le dita con un panno sul cappello. Io sorridevo, proprio come adesso,<br />

guardandola e tutto ciò non faceva altro che farla arrabbiare di più. Il colore<br />

rosso si disperse sul suo volto non appena le ridiedi il cappello, allungò le sue<br />

braccia al collo e mi baciò, quel sorriso che recideva il suo viso si stagliava<br />

come un papavero tra le spighe piegate al vento.<br />

Quella sua gelosia si spense in un giorno, ma quelle poche ore di passione la<br />

portarono a serrarsi il copricapo a ogni rivolo di vento, a ogni mano maldestra<br />

che avrebbe potuto portarglielo via. Questo suo essere così sfuggente faceva<br />

divertire tutti quanti, mentre lei, imbronciata, raggiungeva gli scalini sul retro,<br />

strizzava gli occhi e sbuffava. Avida, introversa, decisa, ha sentito gli altri sempre<br />

come una forza oscura pronta a farle del male, anche me, sua madre e, per<br />

quanto volessi penetrare in quel suo mondo, era sempre lei l’usciere a decidere<br />

quando aprirmi la porta.<br />

Col passare degli anni, mattone su mattone ha murato quella porta, divenendo<br />

impenetrabile, la vedo aggirarsi per casa come un’entità, un ectoplasma che ha<br />

sostituito mia figlia ma che di quella bambina non ha che qualche tratto. Ho<br />

paura di non riuscire più a farla di nuovo mia, mi crogiolo nel ricordo, eppure<br />

lei è lì. Come reagirai, piccola? Papà sta per andare via, resteremo sole io e te.<br />

Lo so, avremmo dovuto dirtela prima la verità, ma papà non voleva renderti<br />

ancora più triste, questo era il suo ultimo atto di difesa prima di non poterti<br />

difendere più. Io, io non ti ho detto niente perché ho paura, ho paura di rimanere<br />

sola con te, ho paura di noi due… sole.<br />

49


PAOLO<br />

Pensavo che anche questa notte sarebbe scivolata via come le altre, tra i miei<br />

lamenti soffocati nei seni incavati di Giulia e i dolori. Questi, invece, hanno<br />

mollato, ogni rumore mi sembra sempre più ovattato, sono terribilmente stanco<br />

e la vista si è fatta opaca, solo un dolore lancinante alla testa mi molesta.<br />

Dovrei esserne contento, al contrario sento che questa agonia sta per terminare,<br />

portando con sé anche quello che resta di me. Giulia piange, mi è vicina,<br />

mi tiene la mano ma il suo tocco si fa sempre più lontano e con la bocca impastata<br />

le dico di star calma. L’ho sentita urlare prima, sicuramente parlava con<br />

Giada, la mia piccola Giada che solo in questi giorni ho scoperto non più così<br />

piccola. Ogni volta ho pensato che le sarebbe bastato sempre, come da bambina,<br />

un regalo per farle tornare il sorriso e ho scoperto che tutto ciò non<br />

basta. È sempre scura in volto, non ha amore! Stupidamente ritenevo che il<br />

solo esserle padre presupponesse tutto il mio amore per lei e ora è troppo<br />

tardi. Giulia è spaventata, sconfitta e distrutta, disincantata, sente sua figlia<br />

come un’estranea e per quanto certi rapporti ci siano dati essi non richiedono<br />

minore attenzione. Giada si è illusa del fatto che l’amore non conti, che possa<br />

bastare altro, ma sarà dilaniata quando scoprirà la bugia di questo compromesso.<br />

Per fortuna potrà scoprirlo solo quando sarà veramente innamorata e<br />

le sue pene si allevieranno presto, il rimorso forse no!<br />

Strano, potrei anche pensare che tutto ciò mi sia servito per conoscere mia<br />

moglie e mia figlia, ma resta il fatto che ora che le ho conosciute non vorrei<br />

andar via: è crudele tutto ciò!<br />

La chiave gira nella toppa, è Giada e sta correndo qui, è spaventata, ora la conosco<br />

bene. Per la prima volta si sta accorgendo che suo padre la sta lasciando e,<br />

per quanto si aggrappi al mio corpo, non riuscirà a trattenermi qui, non ce la<br />

faremo, piccola! Paolo, è qui la sua guancia, sforzati, puoi riuscirci, è l’ultimo<br />

atto, accumula tutte le forze perché tra qualche istante non ti serviranno più.<br />

Come è morbida e dolce la sua guancia ora che la bacio. Si è abbandonata sul<br />

mio sterno, i suoi capelli oro abbondano su di me.<br />

“Giada”, sussurro. “Giada”. Ha scostato la testa, ha sentito la mia voce.<br />

Aspetta, non adesso, ancora un attimo! Giulia non piangere è tua figlia e saprai<br />

cavartela. È così terribilmente difficile, loro piangono e io non posso difenderle,<br />

le sto abbandonando e tutto sta per finire.<br />

“Giada non ti accontentare mai di quello… della vita. E… Abbi cura di te!”.<br />

50


Luca Di Bartolomeo<br />

Il berretto verde<br />

GENERE TRAGICOMICO<br />

1 RACCONTO DA<br />

4 f e r m a t e


Luca Di Bartolomeo<br />

Io e la scrittura ci siamo incontrati per caso un paio di anni fa sul ponte di<br />

Messina a metà strada tra il Paese della Cuccagna e l’Isola che non c’è.<br />

Aveva l’auto in panne ma io, che mi intendo di motori, riuscii fortunatamente<br />

a risolvere il guasto e ad aiutarla a ripartire.<br />

Da allora siamo diventati amanti.<br />

Ci corteggiamo a suon di sostantivi e metafore, giocando col gusto e il giusto,<br />

scambiando l’apparenza con la realtà.<br />

Il nostro, fondamentalmente, è un rapporto di complicità. Ci completiamo<br />

come il sole e la luna e anche nel nostro gioco siamo sinceri, come la luce.<br />

Tra di noi non esistono ansie né paranoie, ma solo attese, indispensabili per<br />

sorprenderci. Ci piace scoprire sempre nuove cose e siamo una coppia piuttosto<br />

intraprendente.<br />

Per questo motivo i miei generi preferiti sono il giallo, specialmente quello<br />

classico, capace di trasmettermi l’adrenalina e il senso di aspettativa comune<br />

a un vero corteggiamento, e la poesia, con la quale posso sorprendere<br />

le parole e me stesso in sempre nuove sperimentazioni.<br />

Di conseguenza, per il genere giallo, il mio autore preferito è l’Agatha<br />

Christie delle storie di Poirot, mentre per la poesia i miei gusti non conoscono<br />

restrizioni. Infine, per quanto riguarda la narrativa, il mio autore preferito<br />

è sicuramente Gabriel Garcia Marquez, che coniuga nelle sue storie prosa,<br />

poetica e suspense.<br />

Anche questo mio racconto, nel suo piccolo, cercherà, come ogni buon giallo<br />

o poesia, di creare in voi un senso di attesa e di stupirvi: la sorpresa, naturalmente,<br />

è tutta nel finale.<br />

Dunque, buona lettura e… attenti al berretto verde!


Il berretto verde<br />

Si tuffò nell’orizzonte sbiadito. Lo sguardo era un petalo che si era posato sull’ultimo<br />

respiro della luce.<br />

Mary era una signora dall’improbabile età che viveva con sua figlia Jessica in<br />

un monotono monolocale monouso nel cuore della periferia di New York.<br />

Si era trasferita in quella città quasi trent’anni prima quando la figlia era ancora<br />

in fasce. Jessica dunque era cresciuta nella casa dove ancora abitava insieme<br />

alla madre, e che ora sosteneva grazie al suo lavoro d’insegnante di nuoto.<br />

Un giorno, prima di andare al lavoro, Jessica chiese alla madre di recarsi a<br />

Times Square per ritirare un pacchetto che aveva ordinato ma che non aveva<br />

mai potuto ritirare a causa della mancanza di tempo. Sicché Mary che, nonostante<br />

la sua età, era ancora abbastanza autonoma e capace, si vestì con cura<br />

e scese in strada per aspettare il pullman che l’avrebbe condotta in centro. Il<br />

pullman arrivò puntuale come sempre, undici e trenta precise. Mary salì a<br />

bordo esitante e si guardò attorno per scovare un posto libero. All’improvviso,<br />

quasi alla fine dell’autobus, vide suo marito, col suo solito berretto verde, farle<br />

cenno di sedersi accanto a lui. Subito lo raggiunse.<br />

“Ciao Jack. Che ci fai qui?”.<br />

Ma lui non rispose.<br />

“Sei silenzioso. Ah, forse ho capito: Brown ti ha fatto arrabbiare un’altra volta.<br />

Te lo dico sempre che ti devi licenziare da quello là. Vabbé non pensiamoci.<br />

Andiamo a casa”.<br />

Alla 5th Ave Station salì il controllore.<br />

“Biglietti prego”, disse rivolgendosi a Mary.<br />

“Ecco a lei”, disse. Poi, indicando il posto accanto al suo: “Per lui pago io. Sa,<br />

ha avuto una brutta giornata oggi”.<br />

Il controllore la guardò con una smorfia e scese al Bryant Park.<br />

In breve l’autobus superò la fermata vicina a Times Square. Intanto Mary<br />

53


osservava divertita dal finestrino le sensuali colline della Maremma toscana,<br />

volgendo di tanto in tanto lo sguardo verso suo marito, sempre taciturno.<br />

“Ti ricordi quando siamo andati la prima volta al Duomo di Firenze?”.<br />

Quella notte, al telefono di casa Powell: “Pronto la signora Jessica Powell?”.<br />

“Sì, sono io agente. Avete trovato mia madre?”, domandò agitata.<br />

“Sì, l’abbiamo trovata alla Port Authority Bus Terminal. Gli autisti ci hanno<br />

detto di averla vista dopo la chiusura, quando hanno cominciato a pulire i pullman.<br />

Stava tranquillamente seduta tra gli ultimi posti. E ci hanno anche detto<br />

che quando l’hanno invitata a scendere ha cominciato a parlare di un paese italiano<br />

e ha ordinato una pizza. Secondo noi si è solo addormentata durante la<br />

corsa e forse non si era ripresa dal sogno”.<br />

“Ok, ok, ma adesso sta bene?”.<br />

“Sì, tutto bene. È qui al distretto. Può venire a prenderla”.<br />

“Ok, vengo subito”.<br />

Jessica ritrovò la madre ciondolante su una sedia del commissariato.<br />

“Che cosa è successo?”, le chiese.<br />

“L’agente ha detto che mi sono addormentata”, rispose svegliandosi.<br />

“Ok, domani mi racconti”, concluse lei con insolita calma. “Andiamo a casa”.<br />

L’indomani mattina.<br />

“Mamma sei pronta?”.<br />

“A fare che cosa?”, chiese Mary.<br />

“Andiamo dal signor Mattews”.<br />

“Ma chi, il dottore?”.<br />

“Sì”.<br />

“E che andiamo a fare?”.<br />

“Voglio chiedergli qualcosa su ieri”.<br />

“Ma no, non è stato niente. Mi sarò addormentata”.<br />

“Comunque ho già preso un appuntamento. È tra mezz’ora”.<br />

Il dottor Mattews era uno psicologo della New York University, che riceveva su<br />

appuntamento in uno studio privato non molto distante dal Roosevelt Hospital.<br />

Lo studio del dottore era molto spazioso, luminoso e ben arredato.<br />

Mary si trovò subito a suo agio.<br />

“Oh, signora Powell, che piacere rivederla!”, esordì il medico.<br />

“Purtroppo non posso dire altrettanto”, disse la donna.<br />

“Mamma, non essere scortese”, la zittì Jessica. “Scusate dottore”.<br />

“Si figuri. Ma ditemi, come mai questa visita?”, chiese sogghignante.<br />

“Siamo venute per quel problema a cui le accennavo ieri sera”, rispose Jessica<br />

riverente.<br />

54


“Ah, già. Allora prego signora, si accomodi”. disse a Mary indicandole il lettino.<br />

La donna obbedì annoiata.<br />

“Allora, vediamo un po’…”, ripeteva lo pseudomedico osservando ora gli occhi<br />

stanchi di Mary, ora auscultandole il cuore, ora rivolgendole qualche sciocca<br />

domanda.<br />

“Bene, bene… anzi male”.<br />

“Che significa dottore?”, chiese Jessica con la faccia preoccupata.<br />

“Mi dispiace ma sua madre ha una malattia molto grave”, sentenziò.<br />

“Non mi dica questo, dottore”, lo interruppe spaventata.<br />

“Purtroppo è una brutta malattia, signorina”, ripeté il dottor Mattews.<br />

“E come si chiama?”, chiese, nascondendo malamente la curiosità.<br />

“Nostalgia”, concluse imperturbabile.<br />

“Oh mio Dio”, esclamò sul punto di svenire. “Ma ditemi dottore, si può curare?”.<br />

“Vedremo. Intanto fatele prendere queste compresse due volte al giorno. Mi<br />

raccomando”, disse a Jessica porgendole un piccolo flaconcino.<br />

“Non si preoccupi, dottore, farò in modo che le prenda ogni giorno”.<br />

Intanto Mary li guardava divertita.<br />

Il giorno dopo Jessica chiese di nuovo alla madre di recarsi a Times Square.<br />

“Prima però prendi la pillola. Ecco tieni”, disse porgendogliela con un bicchiere<br />

d’acqua. “Mi raccomando, per qualsiasi cosa chiamami. Siamo intese?”.<br />

“Sì”, disse Mary seccata.<br />

“Ok, allora ci vediamo oggi. Ciao”.<br />

“Ciao”.<br />

Alle undici e trenta passò il pullman. Mary vi salì di fretta. Questa volta era<br />

ansiosa di vedere suo marito. Lo trovò tra gli ultimi posti, sempre silenzioso.<br />

“Ciao”, lo salutò, come sempre ricambiata dal suo silenzio.<br />

A un certo punto però il marito si girò di scatto e le disse: “Ora devo andare”.<br />

“Ma no aspetta, resta a guardare questo bel cielo azzurro con me”, lo pregò,<br />

indicando la coltre di fumo che li avvolgeva.<br />

“Addio”, concluse lui baciandole la fronte.<br />

Sparì. E Mary dovette scendere sconsolata alla fermata di Times Square.<br />

Jessica aveva da poco finito il suo turno alla piscina. Decise allora di andare al<br />

supermarket per fare un po’ di spesa. Sulla via, però, si imbatté in un ingorgo<br />

e, mentre era bloccata in macchina a pigiare con forza il clacson, si accorse del<br />

cimitero alla sua destra. Pensò che erano quasi due anni che non vi entrava,<br />

occupata com’era dai numerosi impegni. Decise allora che quella era la volta<br />

buona per impegnare il suo tempo in qualcosa di utile. Scrollandosi di dosso le<br />

auto che le stavano appiccicate, parcheggiò accanto all’entrata.<br />

55


Lì trovò la solita fioraia dallo sguardo gentile, comprò cinque tulipani e si avviò<br />

dritta verso una tomba grigia proprio di fronte all’ingresso.<br />

“Chi era?”, la spaventò una voce. Alle sue spalle un uomo di mezza età, nascosto<br />

dalla sua ombra, aspettava una risposta.<br />

“Mio padre”, disse piano indicando l’epitaffio sulla tomba. Jack Powell.<br />

12-11-1932 † 30-03-1999. “È morto dieci anni fa”.<br />

“Mi dispiace”, disse il vecchio. “Ma come è successo?”.<br />

“A quell’epoca i miei genitori avevano deciso di fare una vacanza in Italia, perché<br />

mia madre desiderava da sempre vedere quel paese di cui aveva tanto sentito<br />

parlare.<br />

A marzo dunque partirono con l’aereo. Durante il viaggio però mio padre ebbe<br />

un infarto e morì”, disse volgendo lo sguardo alla tomba.<br />

“Oh, mi dispiace”.<br />

“Già. E lei come mai qui?”, chiese, ancora in quella posizione.<br />

“Per mia figlia”, rispose lui.<br />

“Oh, mi dispiace, come è successo?”, domandò senza voltarsi.<br />

“Stava dimenticando”.<br />

“Una brutta malattia allora, problemi mentali?”, concluse lei.<br />

“Sì, forse”.<br />

A un certo punto, sentì la presenza del vecchio assottigliarsi sempre più e i<br />

suoi passi recedere come un fruscio di foglie. Sicché si girò di scatto.<br />

Il vecchio se ne stava andando, lasciandola sola.<br />

Cominciò dunque a osservare la sua andatura a intervalli lenti, le spalle un<br />

poco chinate, il cappello familiare. E, con un filo di voce, stupita di sé, supplicò:<br />

“Papà?”.<br />

Ma il berretto verde si allontanava verso la fermata dell’autobus.<br />

56


Setaré Kameli<br />

Il ritmo lento e regolare della<br />

natura<br />

GENERE NARRATIVO<br />

1 RACCONTO DA<br />

6 f e r m a t e


Setaré Kameli<br />

Ho diciotto anni e mi chiamo Setarè, stranezza dovuta al fatto che mio padre<br />

è nato e cresciuto a Teheran. Forse è per questo, forse è per la straordinaria<br />

apertura dei miei genitori o per la grande cultura iraniana che fa dell’ospitalità<br />

e dello scambio i valori supremi, che sono sempre stata attratta da<br />

tutto ciò che è diverso, che è altro, che a noi pare lontano o inconcepibile.<br />

Mi affascinano le danze popolari, gli strumenti tradizionali, i paesaggi a cui<br />

non siamo abituati e le persone provenienti da angoli di mondo lontani. Mi<br />

piace viaggiare, partire senza meta perché quella si costruisce durante il<br />

percorso attraverso gli incontri, le suggestioni, la fiducia. E se viaggiare è<br />

guardare il mondo, capirlo, entrare in connessione con esso, allora credo<br />

che viaggiare sia un’arte. E credo fermamente che, per me, la scrittura scaturisca<br />

da questo: ogni volto, ogni voce, ogni albero o fiume o montagna raccontano<br />

una storia che si può prendere, interpretare, filtrare attraverso la<br />

nostra rete di cultura, idee e convinzioni per raccontare qualcosa al mondo<br />

e immettere così un po’ di noi stessi in quel mondo che ci ricambia con infinite<br />

emozioni, che rende possibili le nostre esperienze, che ci ricorda continuamente<br />

quanto sia importante la sintonia col tutto. E ogni incontro, a<br />

modo suo, contribuisce alla nostra crescita, alla nostra apertura mentale,<br />

alla nostra maturità e alla nostra vita. Perché la vita è continuo, inarrestabile<br />

scambio. Credo che il mio racconto, e in generale il mio modo di scrivere,<br />

riflettano questa mia visione del mondo… o almeno è questo che vorrei,<br />

un giorno, riuscire a fare.


Il ritmo lento e regolare della natura<br />

Mi hanno insegnato a sentirmi un pezzo d’ombra, un frammento di notte, una<br />

striscia d’ebano, il negativo di una foto a colori, quel negativo che nessuno<br />

nota. Ironia della sorte, mi chiamo Cao. “Come Cacao”, mi presento sorridendo;<br />

ma il mio sorriso ha un retrogusto amaro, come un caffè poco zuccherato.<br />

Eppure è bianco, il mio sorriso è straordinariamente bianco.<br />

Sono arrivato qui su una nave sgangherata, avevo sei anni e nessuno a fianco,<br />

o almeno, nessuno nelle cui vene scorresse il mio stesso sangue… eppure in<br />

Senegal la parentela è un concetto relativo, più che il DNA conta l’affetto: si<br />

può essere fratelli in un momento difficile, in un abbraccio, in un rullo di tamburi,<br />

in uno sguardo, in una mano nera tesa, in un sorriso bianco.<br />

Eccezionalmente bianco.<br />

Ho sempre pensato che i denti siano la parte migliore di un corpo: sanno<br />

masticare del buon cibo, sanno nascondersi dietro due labbra carnose, sanno<br />

affacciarsi timidamente, oppure esplodere in una risata col loro abbagliante<br />

luccichio: bianco.<br />

Bianco come quelle persone che escono dai centri estetici soddisfatti del loro<br />

nuovo, fiammante color aragosta. Mi hanno sempre fatto sorridere; è assurdo<br />

come gli uomini sentano sempre l’esigenza di cambiare se stessi: se fossero<br />

nati con la pelle scura, probabilmente non si piacerebbero, sono gli sforzi per<br />

ottenerla a rendere la bellezza così affascinante, io lo so bene. Ogni giorno, in<br />

piedi dietro la mia bancarella, vedo donne di tutte le età che lasciano scorrere<br />

i miei gioielli fra le dita, osservandoli con cura da ogni angolazione: qualcuna<br />

commenta, qualcuna li prova e rivolge alle altre un insistente “come mi sta?”,<br />

qualcuna, di tanto in tanto, prova a sgraffignare qualcosa. La mia bancarella è<br />

strapiena di oggetti luccicanti, generosi specchi di sguardi entusiasti. Ma io<br />

sono ebano, e resto nell’ombra.<br />

Sono stanca, stanca di tutto. Stanca delle fredde luci al neon che illuminano i<br />

59


vestiti, quelli che ogni giorno provo a vendere: li illuminano per renderli più<br />

belli, perché le signore che mi cercano fra gli scaffali soltanto per chiedermi<br />

“come mi sta?” intuiscano già la risposta. Sono stanca del vuoto chiacchiericcio<br />

che ronza per le strade, stanca dell’aria irrespirabile, del mare così vicino eppure<br />

così lontano, reso irraggiungibile dai mille impegni che paralizzano le mie<br />

giornate. Sono stanca delle risate fredde e inconsistenti, quelle che distendono le<br />

labbra in un largo sorriso, quelle che emettono uno stridulo rumore ma lasciano<br />

gli occhi più freddi del metallo, sono stanca di scendere di casa per una birra e<br />

per far finta di star bene.<br />

Però c’è una cosa, in questa città, che davvero mi fa star bene: è la pelle tesa di<br />

una tammorra e il trillo vibrante dei suoi sonagli, le voci calde e le sorde castagnette<br />

che la accompagnano. I balli sul tamburo sono parte dell’anima di noi<br />

napoletani, e sono in molti a impegnarsi perché la tradizione non cada nel<br />

dimenticatoio: in primavera decine di feste popolari la cui origine si perde nell’aria<br />

immobile delle campagne campane rallegrano l’aria e l’animo della gente.<br />

Ma adesso è ancora febbraio.<br />

Oggi gli affari vanno male, davvero male: hanno comprato un solo paio di orecchini<br />

e rubato una collana. La giornata volge al termine, mentre batto la mia<br />

rabbia sulla pelle tesa del mio bongo e le persone neanche mi vedono, scivolando<br />

indifferenti sul marciapiede asfissiato dall’asfalto.<br />

Oggi c’era il sole, un freddo sole invernale, e il cielo era azzurro, di un azzurro<br />

limpido e trasparente… ma l’unica luce che ho visto era quella al neon del negozio,<br />

e adesso è troppo tardi: offuscate da una patina viola inquinamento, spuntano<br />

già le prime stelle. Un sordo suono di tamburi scivola nell’aria, mi lascio<br />

trasportare.<br />

S’è avvicinata alla mia bancarella, cosa vorrà?<br />

Non sono tamburi, è un solo bongo.<br />

Ha un bel cappotto verde acqua.<br />

Però, che maestria… sembrava il suono di quattro tamburi.<br />

Mi guarda, s’avvicina. Forse non sono invisibile come pensavo.<br />

Invece è solo.<br />

60


Il suo sguardo mi trapassa. I suoi occhi brillano più di tutti i miei finti smeraldi.<br />

Le sue mani, le sue mani, un’opera d’arte. L’anima sa mostrarsi nelle parti più<br />

impensate.<br />

Sorride. I miei gioielli non sono che ammassi di cenere di fronte alla sua luce.<br />

Guarda come suona, la pelle del tamburo obbedisce alle sue mani, quasi fossero<br />

una cosa sola.<br />

Sorrido.<br />

“Sei bravo”. Quanta luce nel suo sorriso.<br />

È passato un mese e sono ancora ebano, ma l’ebano non è più invisibile: adesso<br />

è un legno pregiato. Si chiama Aurora, e non potrebbe esserci nome più<br />

adatto a lei, che splende come il sole al mattino. Ogni sera parliamo, a volte<br />

prova a suonare: ha un tocco delicato e fermo, mi piace guardarla imparare.<br />

È in gamba, davvero. E mi piace come sa ascoltare… i più ormai l’hanno dimenticato,<br />

non sanno cos’è un discorso: conoscono solo le chiacchiere vuote. Gli ho promesso<br />

che lo porterò a una festa popolare, è la cura migliore per chi è malato di<br />

pregiudizi, per chi ancora non è entrato in contatto con la vera anima di Napoli.<br />

La prendo in giro, dico che qui non c’è calore. La gente è fredda e disinteressata.<br />

“Vedremo”, mi sorride. “Vedremo”.<br />

È maggio, l’aria profuma. È maggio e a Maiori, in costiera amalfitana, c’è la<br />

festa più bella di tutte, la Madonna dell’Avvocata.<br />

“Mi piace, perché devi saperla conquistare”.<br />

“Conquistare?”.<br />

“Si parte al mattino e il sentiero che s’inerpica sul monte richiede tre ore di<br />

cammino”.<br />

Stiamo salendo, sono esterrefatto. Il panorama è indescrivibile.<br />

“Soffri di vertigini?”.<br />

61


“Vertigini?!? No, soffro di brividi”.<br />

“Di brividi?”.<br />

“Sì… perché questo è lo spettacolo più bello del mondo”.<br />

Sorrido della sua incredulità e penso che abbia ragione: il mare visto da un sentiero<br />

a picco sulla sua distesa azzurra è davvero lo spettacolo più bello del mondo.<br />

Dove mi ha portato? È fantastico. Arriviamo in cima e ad accoglierci è una gran<br />

festa: dovunque braci accese, tammorre che suonano, gente che balla. Ballano<br />

al ritmo lento e regolare della natura. Ci offrono da mangiare e da bere, e se<br />

rifiutiamo s’offendono… sono incredibili.<br />

“Ti piace? Questa è Napoli, te la presento”.<br />

Sorrido, lei è incredibile. I suoi occhi brillano come fili d’erba impreziositi da<br />

mille gocce di rugiada.<br />

Sorrido, lui sorride. Una pantera, un tronco d’ebano, un sorriso più luminoso del<br />

sole, ha ritrovato un pizzico di felicità.<br />

“Mi sento a casa”.<br />

Sorrido. La casa è l’ospitalità della gente, è ballare a piedi nudi sul terreno, è il<br />

ritmo vibrante di mille tamburi… è il ritmo lento e regolare della natura.<br />

62


Giovanni Merone<br />

JUD<br />

GENERE RACCONTO DRAMMATICO<br />

1 RACCONTO DA<br />

10 f e r m a t e


Giovanni Merone<br />

Scrivere è sempre stata una passione da quando ero piccolo, un amore che<br />

mi è stato infuso principalmente da mia madre. Ricordo ancora i pomeriggi<br />

passati con lei, quando frequentavo ancora le elementari e mi aiutava<br />

pazientemente a svolgere i compiti che mi venivano assegnati a scuola: ogni<br />

volta che c’era da scrivere qualcosa, mia madre era lì con me e mi aiutava<br />

a spingere sempre più in là l’orizzonte della mia fantasia. Una passione,<br />

quella per la scrittura, cresciuta insieme a me, che ha trovato in un’insegnante,<br />

conosciuta durante il mio percorso di formazione, ossigeno puro che<br />

ne ha alimentato la fiamma. Al giorno d’oggi, il progetto Subway rappresenta<br />

una sfida per me, un modo per mettermi alla prova, per ricordarmi che<br />

anche essendo iscritto al secondo anno del corso di laurea di Medicina e<br />

Chirurgia, ciò non vuol dire che le uniche cose che scriverò tra qualche anno<br />

saranno solo i referti medici.<br />

Il racconto che propongo si chiama JUD, ed è una storia in cui ho creduto<br />

e credo molto. Il tema principale che pervade la storia è essenzialmente<br />

l’amore: quello tra un uomo e una donna, tra un fratello e una sorella, l’amore<br />

per chi riteniamo diverso da noi, l’amore che dovrebbe stringere<br />

come un unico abbraccio tutta l’umanità. Il racconto è ambientato durante<br />

il periodo nazista, ma non prendetelo come qualcosa di estremamente<br />

veridico dal punto di vista storico: la storia è stata modellata per donare<br />

l’emozione massima a me che scrivevo e, spero, anche a coloro che lo<br />

leggeranno. Sebbene la voglia di essere selezionato sia tanta, sarebbe<br />

per me già un enorme traguardo se Hans e Anne (i due protagonisti della<br />

storia) vi accompagnassero lungo la lettura, come hanno accompagnato<br />

me mentre scrivevo.


65<br />

JUD<br />

“Dai, colpiscilo! Che c’è, ti manca il coraggio?”.<br />

“Scommettiamo?”.<br />

“Dieci che non riesci neanche a centrarlo!”.<br />

Hans era concentratissimo: prese la mira, tese il braccio e lanciò la pietra. E ci<br />

riuscì. Il ragazzo colpito si rifugiò velocemente nel vicolo.<br />

“Questo è culo, però!”, esclamò Franz.<br />

“Ma quale culo! Obiettivo centrato in pieno, alla testa! Su, sgancia i soldi!”,<br />

rispose Hans.<br />

Hans e Franz erano al settimo cielo: erano sul muro! Joseph, il padre di Hans,<br />

faceva la guardia proprio lì e li aveva portati a vedere finalmente il ghetto di cui<br />

parlava tutta la città.<br />

“Dai Anne, si può sapere cos’hai? Ci stai tenendo il broncio da quando siamo<br />

arrivati!”, esclamò Hans, rivolto a una ragazza dai folti capelli biondi e dalla carnagione<br />

estremamente chiara. La ragazza si voltò e lo fissò nei suoi penetranti<br />

occhi scuri.<br />

“Lo sai che non volevo venire qua!”, rispose.<br />

“Ma come? Ma ti rendi conto dove sei? Lo sai che tra qualche mese qui confluiranno<br />

ebrei da tutte le parti d’Europa?”.<br />

“Oh, sai che bello! Guarda, quasi non mi reggo in piedi dall’emozione!”, ribatté<br />

sarcastica.<br />

“Ah, vero! Com’è che dici tu? «Gli ebrei sono come noi»! A volte dimentico che<br />

hai avuto il barbaro coraggio di diventare amica di uno di loro! Chissà cosa ne<br />

penserebbe tuo fratello, che è partito per il fronte con i tedeschi… può darsi<br />

che lui sarebbe riuscito a farti ragionare!”.<br />

Gli occhi di Anne si infiammarono: con uno scatto si voltò verso Hans e lo<br />

afferrò per la collottola.<br />

“Non osare!”, disse a denti stretti.<br />

Rimasero così a fissarsi, viso a viso, per qualche secondo.


“Allora, chi scende con me?”, esclamò Hans, cercando di cambiare discorso.<br />

“Papà mi ha dato una pistola e ha detto che se vogliamo possiamo fare un giro<br />

nel ghetto!”.<br />

Anne, con sorpresa di Hans, decise di seguirlo, ma Franz non volle accodarsi:<br />

la scusa ufficiale era che si annoiava, ma Hans ed Anne sapevano bene che<br />

Franz aveva paura di addentrarsi tra i vicoli del ghetto.<br />

I due ragazzi scesero delle scalette ripide e incominciarono a gironzolare.<br />

Cucito sulla giubba avevano la scritta ARI, “Ariano”: era l’unico modo per passeggiare<br />

tranquillamente per le stradine di quel quartiere. Procedevano a<br />

passo spedito, fiancheggiando quelle case diroccate dalle quali ogni tanto scorgevano<br />

persone nascondersi al loro passaggio. Ma il silenzio tombale in cui si<br />

muovevano, fu ben presto rotto da delle urla. Hans ed Anne si voltarono: nel<br />

casale a fianco una giovane donna dalla folta chioma ramata, distesa su un<br />

mucchio di paglia, li guardò ed esalò il suo ultimo respiro. Quello sguardo li<br />

aveva fulminati e la scena che si presentava ai loro occhi era agghiacciante: tra<br />

le braccia della donna, una bimba con un panno lurido a mo’ di pannolino piangeva<br />

e si dimenava. Al polso, come la madre, recava un marchio segnato nella<br />

carne: JUD, per “Juden”, “Ebreo”.<br />

Anne si avvicinò per prendere la bambina, ma Hans intervenne.<br />

“Che cosa fai?”, esclamò.<br />

“Sei forse cieco? Non vedi che questa bambina ha appena perso sua mamma?<br />

La voglio portare da tuo padre, non possiamo lasciarla qui!”, gli rispose Anne.<br />

“Qua mi sa che la cieca sei tu! Non vedi cos’ha sul polso? Non vedi che è una<br />

sporca ebrea? Farà la fine che merita! E adesso andiamocene da qui, ne ho<br />

abbastanza di questo posto!”.<br />

Ma mentre Hans trascinava Anne con forza per tornare indietro scorse, per la<br />

prima volta da quando conosceva la ragazza, un’ombra di disprezzo sul suo<br />

volto.<br />

Quella notte Hans non riusciva a dormire. Era rimasto lì, disteso sul letto, a fissare<br />

il soffitto della sua stanza: sapeva bene che cosa lo tormentava, ma<br />

ammetterlo era difficile. Eppure, nel giro di un’ora, con la giubba ARI e la tessera<br />

di riconoscimento del padre, era sgattaiolato fuori dalla finestra. In pochi<br />

minuti fu davanti alle porte del ghetto. Con la tessera del padre e il suo aspetto<br />

più da ventenne che da diciassettenne, entrare fu un gioco da ragazzi. Arrivò<br />

di corsa al casale della mattina: la mamma era ancora lì, con la bocca rimasta<br />

contratta in uno spasimo di dolore, ma la bimba non c’era più. Con una punta<br />

di delusione, Hans incominciò a frugare per la stanza, quando, d’un tratto,<br />

sentì dei rumori e vide un’ombra muoversi furtiva da dietro le finestre.<br />

Spaventato, prese in mano la pistola e urlò: “Chi va là?”.<br />

“Scemo, abbassa quella pistola”, gli rispose una voce familiare.<br />

66


Hans sembrava non credere ai suoi occhi quando dal buio della stanza vide<br />

emergere la sagoma di Anne con la bimba in braccio.<br />

“Lo sapevo che saresti venuto!”, esclamò la ragazza. “Dì la verità: i sensi di<br />

colpa ti stavano distruggendo…”.<br />

“Come sei arrivata fin qui?”, domandò sbigottito.<br />

“Beh, tu hai tuo padre”, rispose, osservando la giubba di Hans. “Io il mio amico<br />

ebreo: i suoi consigli si sono rivelati più utili di quanto tu creda…”.<br />

“Ok, ok… colpito e affondato. Ma adesso abbiamo un bel problema: dove<br />

nascondiamo la bambina?”.<br />

“A questo ci ho già pensato io, la porterò a casa mia”.<br />

“Ma dove la nascondi a casa tua?”, domandò perplesso Hans.<br />

“Fidati, ho un piano”.<br />

“Ok… allora ci vediamo domani a casa tua per discutere meglio il da farsi”.<br />

Entrambi si salutarono così, tornando alle loro rispettive abitazioni.<br />

Il mattino seguente, come promesso, Hans andò a casa di Anne.<br />

“Allora? Dov’è la bimba?”, le chiese appena la vide.<br />

“L’ho nascosta nella casetta che costruimmo insieme sull’albero”, rispose.<br />

Fu un vero tuffo nel passato per Hans: si era completamente dimenticato di<br />

quel rifugio che avevano costruito quand’erano piccoli. Ma d’altronde, oramai<br />

non ricordava neanche più da quanti anni lui e Anne erano amici. Anne era praticamente<br />

la sua amica da sempre: c’era sempre stata per lui come lui c’era<br />

sempre stato per lei. Nonostante le mille differenze e incomprensioni che a<br />

volte li dividevano, li univa un legame forte.<br />

“Guai se i miei genitori sapessero di Sara”, disse Anne.<br />

“Sara?”, domandò Hans.<br />

“Sì, Sara: ho deciso di chiamarla così. Ho letto su un libro che Sara in ebraico<br />

significa «principessa». Con tutti gli altri principi e le altre principesse come<br />

lei, Sara un giorno dovrà avere la forza di perdonare quello che la nostra gente<br />

sta facendo loro”.<br />

Hans non sapeva cosa dire. Tutti gli insegnamenti ricevuti gli avevano inculcato<br />

che lui era superiore, perfetto, puro; ma ora guardando gli occhi della<br />

bambina che aveva di fronte si sentì debole, fragile. Quegli occhi sembravano<br />

chiedere scusa per qualcosa di non commesso.<br />

“Uffa, ecco che ricomincia a piangere!”, esclamò Anne. “Dai tienila un po’ tu,<br />

può darsi che con te si calmi”.<br />

“Io? No, no… ho paura di farle male, non so neanche come tenerla in braccio!”,<br />

rispose Hans.<br />

“Ti faccio vedere io”.<br />

Anne gli adagiò quel fagottino tra le braccia: a quel contatto, Hans sentì come<br />

un’esplosione all’altezza dello stomaco, nei pressi del cuore. Incominciò ad<br />

67


accarezzare con un dito la mano piccola e paffuta della bimba: Sara smise di<br />

piangere e, mentre accennava un sorriso, prese a stringere il dito di Hans.<br />

“Oh, ma sei proprio forte!”, esclamò il ragazzo.<br />

Anne accarezzò la fronte di Sara e, sorridendo, alzò lo sguardo negli occhi<br />

commossi di Hans.<br />

“Sì, è proprio una bimba forte”, rispose.<br />

Qualche mese dopo<br />

“Ma come si è fatta grande la nostra Sara! Questa bimba cresce sempre di più<br />

ogni giorno che passa!”, esclamò Hans, spostando dalla fronte della piccina<br />

quella che oramai era diventata una bella chioma ramata.<br />

Era passato qualche mese, Hans e Anne erano riusciti a prendersi segretamente<br />

cura della piccola Sara. Ogni giorno cercavano di rubare un po’ di cibo<br />

dalla dispensa per poter sfamare la bambina, e ogni notte, dopo aver fatto credere<br />

ai propri genitori di essere andati a letto, fuggivano al rifugio per passare<br />

la notte con la piccina. Ma per quanto fossero abbastanza abili, erano consapevoli<br />

di essere equilibristi che si muovevano su di un filo sospeso nel vuoto.<br />

“Li senti questi rumori?”, domandò Anne.<br />

“Certo che li sento… ma perché ti preoccupi? Staranno fucilando qualcuno,<br />

come al solito”, rispose Hans.<br />

“Dobbiamo andarcene da qui”, ribatté secca la ragazza.<br />

“Ah sì? E come ce ne andiamo… volando? Ti devo forse ricordare che l’unico<br />

modo per uscire dalla città è passare dalla dogana? Lì controllano chi è ebreo<br />

e Sara ha il marchio JUD sul polso!”.<br />

“Potremmo uscire dal lato del bosco senza farci vedere dalle SS. Se non ci<br />

vedono non ci costringeranno a passare per la dogana!”.<br />

“E poi una volta fuori che facciamo?”, obiettò Hans. “Tutta la nazione è in mano<br />

ai tedeschi!”.<br />

“Ogni notte, fuori dalla città, c’è un italiano che aiuta gli ebrei, li nasconde nella<br />

sua ambasciata! Me l’ha detto il mio amico ebreo…”.<br />

“Basta! Basta!”, esclamò arrabbiato il ragazzo, interrompendo Anne. “Ma possibile<br />

che ogni volta ripetiamo sempre le stesse cose? E poi chi è questo dannato<br />

amico ebreo? È presente in tutti i nostri discorsi… non ne posso più!”.<br />

Anne si affacciò dal rifugio: ogni volta che Hans parlava del suo amico, lei si<br />

rabbuiava. Il ragazzo osservò il volto di Anne, illuminato dalla fioca luce di una<br />

candela mossa dal vento: il viso incorniciato da quei folti capelli biondi aveva<br />

lo stesso chiarore della luna che la ragazza ammirava alta nel cielo.<br />

“Non esiste nessun amico ebreo”, sentenziò laconica Anne.<br />

A quelle parole, Hans posò la bimba nella culla che le aveva costruito, e si<br />

68


avvicinò perplesso alla ragazza, sedendosi al suo fianco.<br />

“Fu qui che lo scoprii”, continuò Anne. “Avevo deciso di seguirlo perché ultimamente<br />

si comportava in modo sempre più strano e la notte lo sentivo fuggire<br />

dalla finestra della sua camera per farvi ritorno sempre più tardi. Non potevo<br />

credere ai miei occhi quando vidi mio fratello, disteso sul pavimento del<br />

rifugio, baciarsi appassionatamente con un altro uomo”.<br />

Hans la fissò sbigottito.<br />

“Ma mi sa che non sono stata l’unica a vederlo”, proseguì Anne, con gli occhi<br />

gonfi di lacrime. “Dopo qualche giorno mio padre lo cacciò di casa, dandogli<br />

del sodomita e denunciandolo alle autorità”.<br />

Hans abbracciò Anne, che singhiozzava sempre più forte, mentre con una<br />

mano le accarezza i suoi chiari capelli.<br />

“Ti prometto che andremo via da qui, Anne”, affermò deciso il ragazzo. “E porteremo<br />

con noi tuo fratello dal ghetto”.<br />

“Mio fratello non è più nel ghetto”, replicò secca Anne.<br />

Hans capì. Comprese finalmente che il “ragazzo ebreo” di cui tanto aveva parlato<br />

Anne, era oramai solo un fantasma.<br />

“Ha tentato la fuga qualche settimana prima che trovassimo Sara, ma è stato<br />

ammazzato”.<br />

Hans asciugò le lacrime dal viso angelico di Anne; solo ora che la vedeva così<br />

fragile, si rendeva conto di quanto fosse stupenda la sua amica.<br />

“Noi ce la faremo, te lo prometto”, rispose il ragazzo. “Scapperemo da questa<br />

città e saremo finalmente felici”.<br />

Hans la guardò a lungo negli occhi, in quegli occhi verdi colmi di lacrime che<br />

avevano tanto sofferto e si accorse di quanto le loro labbra fossero vicine.<br />

Il pianto della piccola Sara riportò bruscamente i due ragazzi alla realtà, e la<br />

realtà era peggio del previsto: solo allora si resero conto che il padre di Anne,<br />

Heinrich, era salito sulla casetta e li stava fissando.<br />

“Cosa ci fa lui qua? E perché quella schifosa ebrea è con voi?”, urlò ad Anne,<br />

mollandole un sonoro ceffone.<br />

“Perché non rispondi! Parla!”, ripeté gridando.<br />

Al secondo schiaffo Hans non ci vide più: con tutta la forza che aveva nelle<br />

mani, sferrò un pugno al padre di Anne. Heinrich dopo aver barcollato per<br />

qualche secondo, perse l’equilibrio e cadde tramortito giù dal rifugio, ai piedi<br />

dell’albero.<br />

“Ti sei fatta molto male?”, domandò Hans, accarezzandole la guancia.<br />

“No, non ti preoccupare”, rispose Anne, sorridendogli. “Ma ora dobbiamo pensare<br />

a scappare. Appena mio padre riprenderà conoscenza non esiterà a<br />

denunciare la presenza di Sara alle SS”.<br />

Hans annuì, avvolse Sara in una coperta e corse con Anne verso casa sua, dove<br />

69


in una borsa cercò di raccogliere tutto quello che poteva: cibo, acqua, farmaci,<br />

indumenti, una matita e un foglio che infilò nella tasca dei pantaloni.<br />

Anne e Hans, con Sara in braccio, si incamminarono così per le strade buie.<br />

Con l’aiuto delle tenebre la città aveva indossato la sua solita veste di dolore.<br />

La flebile luce di qualche lampione contornava di mostruoso le ombre delle SS<br />

che sorvegliavano le strade; il vento sembrava trapassare i corpi come un<br />

pugnale; il silenzio aveva il rumore della misericordia non ascoltata.<br />

Hans e Anne erano arrivati, davanti a loro c’era la dogana: una fila di persone<br />

aspettava di uscire dalla città. I due ragazzi cercarono di sgattaiolare dal lato<br />

del bosco senza farsi vedere, ma una SS fischiò. Erano stati visti. Il soldato si<br />

avvicinò.<br />

“Dove credevate di andare?”, chiese sospettoso, puntandogli il fucile contro.<br />

“Volevamo uscire dalla città”, rispose Hans, cercando di mantenere il sangue<br />

freddo.<br />

“Dovete fare la fila e passare alla dogana, non lo sapete?”, domandò sempre più<br />

diffidente.<br />

“Vorrà dire che vi accompagnerò personalmente”, concluse beffarda la SS.<br />

I ragazzi, scortati dal soldato, si misero in fila.<br />

“Cosa facciamo adesso?”, bisbigliò Anne.<br />

“Ho un’idea, ma mi devi promettere che qualsiasi cosa accada alla dogana, tu<br />

non farai nulla”, rispose Hans.<br />

“Questo non me lo puoi chiedere e non te lo posso promettere”, ribatté la<br />

ragazza.<br />

“Fidati di me, Anne”, sussurrò il ragazzo. “Andrà tutto bene”.<br />

Hans le strinse forte la mano e con un sorriso cercò di infonderle la speranza<br />

che animava il suo cuore. Ma mentre Anne non lo vedeva, prese una pietra affilata<br />

da terra e, dopo averci armeggiato e averla gettata, pescò la matita e il<br />

foglio dalla tasca dei suoi pantaloni: scrisse molto velocemente qualcosa che<br />

infilò repentinamente tra le coperte della piccola Sara, prima di stamparle un<br />

dolce bacio sulla fronte e darla in braccio ad Anne. Era il loro turno.<br />

“Qual è il vostro nome?”, domandò il doganiere.<br />

“Siamo Hans, Anne e Sara Konig”, rispose Anne.<br />

“Motivo del viaggio?”.<br />

“Dobbiamo far visita ad alcuni parenti”.<br />

Il doganiere li scrutò a lungo.<br />

“Mostratemi i polsi, compreso quello della bambina!”, esclamò.<br />

“Ma come… non vede che siamo ariani?”, rispose Anne, cercando di guadagnare<br />

tempo.<br />

Il doganiere puntò il fucile contro di loro.<br />

“Poche storie! Noi dobbiamo controllare chiunque esca dalla città, soprattutto<br />

70


ora, dato che poco tempo fa qualcuno ha denunciato un ebreo in fuga con due<br />

ariani. Vi ripeto, mostratemi i polsi!”.<br />

Hans sentì la sua anima risalire dal profondo: un giorno l’uomo avrebbe guardato<br />

a tutto ciò con orrore e si sarebbe vergognato di ogni sua azione; forse<br />

avrebbe capito che non esiste una razza ma un unico cuore, comune a tutta<br />

l’umanità.<br />

“Sono io l’ebreo che cercate!”, esclamò Hans.<br />

Tirò indietro la manica della maglia e mostrò i segni che si era impresso poco<br />

fa con la pietra sul suo polso: JUD.<br />

“Ho costretto questi due ariani a venire con me per facilitarmi la fuga”, continuò.<br />

Anne era inebetita, scossa dal folle gesto del suo amico. Ma Hans le sorrise,<br />

come non le aveva mai sorriso prima: le vennero in mente le parole che il suo<br />

amico aveva pronunciato poco prima. Amare lacrime caddero dai suoi occhi e<br />

bagnarono la fredda strada.<br />

Hans fu subito portato via dal soldato. Neanche un saluto, un abbraccio, un<br />

bacio: l’avrebbero portato via e non sarebbe mai più tornato indietro.<br />

Nella confusione generale che si era creata, Anne riuscì ad abbandonare la<br />

città senza che il doganiere controllasse né il suo polso né, soprattutto, il polso<br />

della piccola Sara. Ed era mentre si allontanava che sentì rimbombare gli spari:<br />

come suo fratello, anche Hans ora non c’era più.<br />

Nella boscaglia che limitava la città scorse Giorgio, l’italiano che le avrebbe<br />

aiutate: Anne si voltò per l’ultima volta a guardare la sua città, stringendo forte<br />

a sé Sara. Si stava incamminando verso il bosco, quando dovette fermarsi:<br />

qualcosa era caduto dalla coperta della bambina. Lo raccolse: scritte a matita<br />

su un foglio c’erano queste parole: “Abbi cura di Sara. Ti amo”.<br />

71


Claudia Migliaccio<br />

Incendiaria sciabolata<br />

di Fender Stratocaster<br />

GENERE STORIA DI UNA LENTA FUGA SENZA DIREZIONE<br />

1 RACCONTO DA<br />

4 f e r m a t e


Claudia Migliaccio<br />

Mi chiamo Claudia Migliaccio e da ottobre abito a Pavia perché frequento la<br />

facoltà di Infermieristica. In realtà vivo due vite parallele, credo come ogni<br />

universitario nella mia stessa situazione: a Como torno ogni weekend fra gli<br />

amici di sempre, fra il lavoro in un bar del centro e i vari impegni, mentre a<br />

Pavia sopravvivo alle lezioni e mi convinco sempre di più di aver fatto la<br />

scelta giusta. Avrei preferito una facoltà come Lettere, mi vedevo bene come<br />

giornalista, ma ho scelto la possibilità di avere a breve un lavoro per cui mi<br />

sento portata e vivere fuori casa.<br />

Come ogni persona che scrive, amo leggere di tutto, anche se la predilezione<br />

per i gialli è retaggio di un’infanzia passata sui Piccoli Brividi. Adoro<br />

allo stesso modo i vinili, in particolare quelli di De Andrè: mi emoziona<br />

appoggiare la puntina sul disco e aspettare che le note invadano la casa<br />

(rigorosamente vuota, eccezion fatta per il padrone degli LP che sarebbe<br />

mio padre). Purtroppo la canzone di Janis Joplin e Jimi Hendrix –<br />

Summertime – che ho trascritto nel racconto, ho potuto ascoltarla solo in formato<br />

mp3 (che insulto, lo so!): me ne sono innamorata molto tempo fa,<br />

quando, a dire il vero, volevo fare la “ribelle”, chiaramente con scarsissimi<br />

risultati, perché in fin dei conti rimanevo una secchiona, vestita però da<br />

“scappata di casa”. Ancora oggi, come la poesia dei testi di De Andrè, mi<br />

paralizza ascoltare quell’assolo: certe fughe immaginarie credo siano possibili<br />

attraverso le pagine di un Libro o attraverso la Musica. E questi quattromilacentonovantanove<br />

caratteri sono stati partoriti, per sfortuna di coloro<br />

che leggeranno, mentre quella chitarra suonava nella mia testa, la sera del<br />

giorno in cui ho scoperto che un mio carissimo amico era morto.


Incendiaria sciabolata di Fender<br />

Stratocaster<br />

Era troppo stanca quella sera per uscire di nuovo, anche solo per una birra<br />

veloce. Si era accontentata della soddisfazione del turno in Croce Rossa a scarrozzare<br />

settantenni lamentosi vittime del passare dei giorni, di tornare a casa<br />

nell’orgoglio di quella divisa e di andare a dormire, sperava, sonni tranquilli.<br />

Verso le due il cellulare sotto al cuscino vibrava, ma pensava fosse la sua immaginazione.<br />

Mai avrebbe creduto che, da quel momento in poi, anche solo un<br />

accenno di movimento del telefonino l’avrebbe svegliata di soprassalto per poi<br />

controllare che non ci fosse davvero una chiamata.<br />

Mattino seguente, cambio dell’ora in una normalissima ansiogena quinta liceo<br />

pre-esame di maturità.<br />

“Babi… il Cece… Non c’è più”. Silenzio. “Ieri il Fari mi chiamava ma pensavo<br />

fosse ubriaco e non gli ho risposto. Era sulla tangenziale dove Cece ha fatto<br />

l’incidente. Era lì da solo, c’era l’ambulanza, i vigili. È rimasto tutta notte in<br />

ospedale. Mi ha detto che ha provato a chiamare anche te…”.<br />

Perché su venti persone era lei la prima a essere avvisata? Neanche una lacrima<br />

nell’isteria di diciottenni catapultati nella merda della presa di coscienza<br />

dell’inesorabilità del destino.<br />

Su quelle corsie tanto larghe il suo scooter elaborato correva sicuro verso casa,<br />

ma l’asfalto si era portato via quel sorriso da dolce e romantico delinquente.<br />

Anche lei era salita su quella moto, rigorosamente senza casco, per farsi portare<br />

da lui fino alla macchina parcheggiata fuori da scuola. Quante volte aveva<br />

fatto la tangenziale e per quanto tempo ancora si sarebbe ricordata di lui nel sottopasso,<br />

con il peso della moto che gli soffocava l’ultimo respiro.<br />

Aveva trattenuto il dolore fino alla sera, quando si accorgeva che lo spietato<br />

distacco improvviso era credersi forti e ritrovarsi irrimediabilmente deboli. Si<br />

sentiva smarrita alla ricerca di quel qualcosa che le era stato strappato con violenza<br />

provocandole una ferita che si riempiva di sangue che sgorgava senza<br />

freno, che lasciava una traccia sul corpo, che il tempo mai avrebbe spazzato<br />

75


via. Una lama le lacerava la pelle, in un connubio di sensazioni, di piacere e stupore,<br />

di odore acre e di un intenso colore rosso vermiglio.<br />

Summertime, time, time,<br />

Child, the living’s easy.<br />

Fish are jumping out<br />

And the cotton, Lord,<br />

Cotton’s high, Lord so high.<br />

Una domanda si disegnava sulle sue labbra e le sue orecchie percepivano l’ossessione<br />

che scandiva ogni secondo: Perché? Perché? Perché? Perché? E allora<br />

rivangava nel passato, nella memoria repressa, alla ricerca di un motivo che<br />

potesse spiegare un così grande dolore e, convinta che esistesse, si aggrappava<br />

a una piccola e insignificante certezza e la domanda trovava risposta. La<br />

consapevolezza di un errore c’era, come un’ombra meschina la guardava e le<br />

buttava addosso dubbi e nuove domande, lasciando che le lacrime lavassero<br />

quel sangue in un muto incontro-scontro di dolore e piacere. Nessun rumore,<br />

nessun singhiozzo strozzato, come in un film muto degli anni Venti, di due<br />

canini che affondano nel collo di una donna che senza forze si lascia andare,<br />

piacevolmente stupita, in dolce punto di morte.<br />

Your daddy’s rich<br />

And your ma is so good-looking, baby.<br />

She’s a-looking good now,<br />

Hush, baby, baby, baby, baby now,<br />

No, no, no, no, no, no, no,<br />

Don’t you cry, don’t you cry.<br />

Si risvegliava da quell’ascesa mistica e, catapultata nel buio silenzioso, immobile<br />

si guardava lo squarcio nella pelle e sbirciando cercava una risposta più<br />

soddisfacente, più veritiera… ma non c’era. Mentre ne prendeva coscienza,<br />

avvertiva un lento disgregarsi dell’anima, il suo impercettibile dissolversi che<br />

si dilatava nel tempo. Seguiva l’accordo struggente di un mancino Jimi<br />

Hendrix le cui dita si fondevano eternamente con le corde metalliche, mentre<br />

una voce femminile, resa roca da un’infinità di droghe, urlava il suo dolore.<br />

Allora tutto iniziava a prendere un senso: il momento di paralisi, il susseguirsi<br />

di brividi che arrivavano fino alle dita che stringevano quella Fender<br />

Stratocaster avvolta dalle fiamme, svanivano. Quell’assolo era una sciabola che<br />

squarciava le note.<br />

76


One of these mornings<br />

You’re gonna rise, rise up singing,<br />

You’re gonna spread your wings, child,<br />

And take, take to the sky,<br />

Lord, the sky.<br />

Uniche due possibilità: un salto nel vuoto, o una fuga improvvisata.<br />

But until that morning,<br />

Honey, n-n-nothing’s going to harm ya,<br />

No, no, no no, no no, no…<br />

Don’t you cry cry.<br />

Piangeva mentre partiva. Non aveva meta. Le veniva in mente una vecchia<br />

amica che le aveva spedito un racconto: parlava di un principe che lasciava la<br />

sua città per scoprire gli immensi territori di cui era padrone e che ogni sera<br />

che si accampava, mandava uno dei suoi sette cavalieri in modo che portassero<br />

notizie alla sua terra natia. Ma i calcoli erano rigorosi, iniziava a trattarsi di<br />

anni, e le lettere che ogni volta uno dei suoi messaggeri portava, erano ingiallite<br />

dal tempo e raccontavano di persone di cui aveva un vago ricordo, di gioie<br />

e di dolori che il tempo gli aveva reso estranei.<br />

77


Elisa Valdina<br />

Immagini dal nulla<br />

GENERE RACCONTO DI UN’EMOZIONE<br />

1 RACCONTO DA<br />

5 f e r m a t e


Elisa Valdina<br />

Io non so autopresentarmi, non riesco a scrivere di me, o almeno non so<br />

farlo con consapevolezza. In ogni cosa che scrivo traspare qualcosa di me.<br />

Ma lo faccio “di nascosto”, lo faccio con la speranza che il lettore non si<br />

accorga che di sottofondo c’è la melodia dei miei pensieri. Ora sono davanti<br />

a questo schermo da ormai due ore. E su di me non riesco a scrivere niente,<br />

è quella maschera, quella maschera che tutti indossiamo, qualcuno<br />

riesce a toglierla facilmente, qualcuno fa più fatica, per qualcuno è impossibile.<br />

Io penso di far parte della terza categoria, ci provo a toglierla, a lasciarla<br />

scivolare delicatamente o a strapparla con forza, ma niente. Ricordo di<br />

una poesia studiata quando ero alle medie, di Cecco Angiolieri: “S’i fossi<br />

foco, arderei ‘l mondo” .<br />

Ho deciso di accendermi una sigaretta e provare a fare come lui.<br />

Raccontare me stessa immaginando se fossi qualcos’altro.<br />

E se fossi un oggetto cosa sarei? Una macchina da scrivere, amo il suo profumo<br />

di vecchio, amo il rumore dei tasti.<br />

E se fossi un colore che colore sarei? Sarei l’arancione, perché il mio abito<br />

da sposa sarà arancione.<br />

E se fossi una città? Se fossi una città sarei Firenze, perché l’aria di Firenze<br />

è la vera aria italiana, perché Firenze non è Nord e non è Sud. Firenze è<br />

arte, ogni forma d’arte.<br />

E se fossi una canzone? Sarei ogni giorno una canzone diversa, oggi sono<br />

Stupido Hotel, Vasco Rossi.<br />

E se fossi una moto? Sarei una Harley Davidson, perché ho un carattere<br />

che fa rumore, che ama la strada e la velocità, ma non l’eccesso.<br />

E se fossi un fiore? Se fossi un fiore sarei un girasole, perché ho bisogno<br />

dei miei punti di riferimento.<br />

E se fossi un libro? Quanto vorrei essere un libro! Se fossi un libro tra le<br />

parole non ci sarebbero spazi bianchi, alcune parole non avrebbero senso,<br />

per dare al lettore la possibilità di usare tutta la fantasia che vuole.<br />

Se fossi Elisa… e sono Elisa, scriverei tutta la vita.


Immagini dal nulla<br />

Un anziano, molto anziano. È seduto immobile su una panchina all’ombra di<br />

più alberi, erano ulivi, o la mia fantasia li ha disegnati come se lo fossero. La<br />

panchina è di pietra. Fa caldo, è il dieci agosto. Da qui il mare non si vede, ma<br />

spero di arrivarci presto. È una stradina di campagna, è una di quelle stradine<br />

fatte come piacciono a me. Una di quelle strade piene di buche, sembra il<br />

deserto, perché in queste strade non incroci mai altre macchine. È una di quelle<br />

stradine che lascia il segno. Sono in macchina con la mia famiglia, una sorella<br />

di quattordici anni, che è ancora troppo piccola per notare quanto può emozionare<br />

una strada di campagna, lei ha il suo iPod e tutto va bene, due genitori<br />

fin troppo adulti per notare che la loro figlia diciassettenne lascia scivolare<br />

una lacrima lungo il viso per la semplicità di un paesaggio, ma per loro tutto va<br />

bene. Il segno che questa stradina lascerà a mio padre sarà il nervoso per la<br />

macchina sporca di terra, il segno che lascerà a me è quello di una tranquillità<br />

dell’anima. L’anziano ha un bastone in una mano, l’altra mano è appoggiata<br />

alla gamba. Ha una camicia verde scuro, quasi sul colore militare, è sbiadita,<br />

anch’essa vecchia. Non ho fatto in tempo a notare il colore dei pantaloni, ma li<br />

immagino marroni, di lino. Guarda fisso un punto, ma è come se non lo vedesse.<br />

È la differenza tra vedere e guardare. Se fossi stata brava a disegnare, avrei<br />

immortalato quella scena in un dipinto. Un dipinto dai tratti fini, ma ben definiti.<br />

Se fossi stata in macchina da sola, mi sarei fermata, sarei scesa e mi sarei<br />

seduta di fianco a lui. Non avrei detto una parola, perché la compagnia non<br />

sempre è fatta da un discorso, avrei iniziato a fissare quel suo stesso punto,<br />

imbattendomi in un viaggio di fantasia o realtà tra i miei pensieri. In quella<br />

situazione forse avrei trovato il coraggio di prendere la via per quel labirinto<br />

che è la mia mente. Quel labirinto fatto di pensieri. È la mia mente ma, paradossalmente,<br />

per quanto mia è sconosciuta. Ho provato a entrare in quel labirinto,<br />

ma la paura di perdermi al suo interno è sempre stata talmente forte da<br />

farmi tornare indietro. E così so poco e niente di esso, so poco e niente di me<br />

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stessa. Chissà in quali pensieri era perso lui, chissà se lui lo conosce il suo labirinto.<br />

Potrebbe essere perso in milioni di ricordi, in milioni di sogni, perché<br />

anche gli anziani e gli adulti possono sognare, solo che troppo spesso se lo<br />

dimenticano. Forse sta ricordando la sua giovinezza. Forse pensa a qualche<br />

caro lontano o a qualche viaggio fatto in passato, forse pensa a qualcuno che<br />

se ne è già andato.<br />

Lo vedo solo. Penso a un uomo di ottantacinque anni solo. Mi fa paura la vecchiaia.<br />

Mi fa paura la solitudine. Ecco, ho una fottutissima paura di rimanere<br />

sola. Per quanto quella solitudine, quell’essere anziana sia solo un immagine<br />

lontana, lontanissima, a me fa paura già adesso.<br />

“Papà, papà fammi scendere, fammi scendere vado a vivere con lui!!”.<br />

Ma anche lui un giorno se ne andrà e quel giorno rimarrei io sola. Non voglio<br />

più scendere.<br />

Egoista, egoista, egoista.<br />

Finalmente vedo il mare. Siamo arrivati.<br />

L’anziano è ormai lontano.<br />

Amo la sabbia sotto i piedi, scotta, ma è delicata. La Puglia è bella, il mare è<br />

fantastico. Sì è vero, il mare è sempre fantastico quando non lo vedi da un anno<br />

intero, ma quello della Puglia lo è di più.<br />

Sistemo l’asciugamano dove mio padre decide di mettere l’ombrellone, sto ben<br />

attenta che neanche un po’ d’ombra sfiori il mio asciugamano. Mi spoglio, fiera<br />

del mio nuovo costume, fiera di come sta bene sul mio corpo. Corro verso la<br />

riva. È una cosa che faccio dalla prima volta che ho visto il mare. Da bambina<br />

la corsa finiva diretta in acqua, ora preferisco stendermi sulla riva, preferisco<br />

sentire l’acqua che arriva ai miei piedi, a volte è dolce e mi solletica delicatamente<br />

le dita, a volte è violenta, come se il mare fosse arrabbiato e l’acqua arriva<br />

fino alle caviglie. Sdraiata sul bagnasciuga guardo il cielo e cerco di vedere<br />

cosa le nuvole disegnano per me quel giorno. Anche questo è un gioco che<br />

facevo spesso da bambina, lo facevo con mia sorella, e chissà perché non vedevamo<br />

mai le stesse cose. A riva c’è sempre un po’ di quel venticello, sdraiata<br />

mi accarezza totalmente il corpo. La carezza del vento è paragonabile a quella<br />

di uno sconosciuto che vedendoti una sola volta nella vita decide di avvicinarsi<br />

e accarezzarti, senza dire una parola, lo fa in modo delicato, per nulla invadente,<br />

quasi non la tocca la guancia, non è il contatto con la pelle, è lo spostamento<br />

d’aria che si crea tra la mano e la guancia.<br />

La giornata la trascorro così, sdraiata a riva. Ogni tanto mi alzo e mi tuffo. Una<br />

nuotata veloce e poi torno a occuparmi della mia abbronzatura.<br />

L’anziano non va via dai miei pensieri però. Ho visto così tante persone anziane<br />

nella mia vita, perché lui mi ha colpito così tanto?<br />

Avrei tanto desiderato perdermi in quei suoi occhi, gli occhi degli anziani sono<br />

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quelli che hanno visto più cose, e mille di più ne hanno da raccontare.<br />

Avrei voluto sapere tutto della sua vita, volevo mi raccontasse della sua giovinezza,<br />

avrei voluto sapere dei suoi amori, perdermi nel sentirlo parlare dei suoi<br />

figli, avrei passato ore, giorni ad ascoltarlo. E se nella sua vita avesse viaggiato<br />

tanto? Volevo che mi raccontasse ogni minimo particolare dei luoghi da lui<br />

visitati.<br />

Rimane fisso nei miei pensieri per tutta la giornata. Si sa che i giovani hanno<br />

molta fantasia, ma io ho scoperto quel giorno di averne un mare, anzi un oceano<br />

di fantasia. Quel pover’uomo ha cambiato nome diciotto volte nel giro di<br />

una giornata, ha avuto venti figli, ha visitato tutto il mondo, combattuto guerre<br />

ed è guarito dalle malattie peggiori conosciute al giorno d’oggi.<br />

Ho inventato tante e più storie su di lui, era il protagonista sempre, ma alla fine<br />

finiva sempre per essere solo. Finiva sempre a vivere in una vecchia casa di<br />

campagna, solo.<br />

Non amo le vacanze con i miei genitori. Le trovo sempre noiose, e poi finisco<br />

per rovinarle anche a loro. Mi rendo conto di essere un peso da portare in<br />

vacanza, divento capricciosa, non apprezzo niente, e se apprezzo qualcosa non<br />

lo dico, come se non volessi dare loro la soddisfazione di stare bene. Come se<br />

volessi farli sentire in colpa di avermi trascinata con loro.<br />

La cosa che amo di più del mare è la sera. Quando torni a casa dopo un’intera<br />

giornata in spiaggia, la pelle è bollente, ma l’aria è fredda. È come la sensazione<br />

della febbre. Sensazione di stanchezza. Il profumo del mare rimane sulla<br />

pelle, anche il sapore. Spesso prima di fare la doccia appoggio delicatamente il<br />

naso e la bocca sulle braccia, e amo quel misto di sapori e odori di mare, l’odore<br />

del sole misto al sapore del sale. Dopo la notte di San Lorenzo e i falò sulla<br />

spiaggia è l’emozione estiva più bella. Si sta avvicinando quel momento. Ormai<br />

sono le sette di sera e dalla spiaggia dove siamo al residence ci vuole un’ora di<br />

strada in macchina, quindi decidiamo di tornare.<br />

Peccato. È l’orario più bello per vivere il mare. Ricordo la prima vacanza con le<br />

mie amiche al mare. Gli orari della spiaggia erano totalmente diversi da quelli<br />

vissuti nelle vacanze con i miei genitori. Si andava in spiaggia verso le sei di<br />

pomeriggio, si risaliva in casa verso le nove e mezza per la cena. Poi si usciva<br />

per la notte e, dopo essere andate a ballare, si tornava in spiaggia per dormire.<br />

Rientravamo a casa quando i galli iniziavano a cantare. La spiaggia del tramonto<br />

e quella dell’alba sono un paradiso.<br />

Sono in macchina. Mi guardo nello specchietto retrovisore, mi vedo tutta rossa<br />

e spero che prima o poi diventi abbronzatura, di quelle dorate, quelle da copertina.<br />

Incrocio lo sguardo di mio padre, torno al mio posto, di fianco al finestrino,<br />

guardo fuori e intanto assaporo la mia pelle.<br />

A metà del viaggio, quando finalmente ho convinto mio padre a mettere il mio<br />

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cd di Vasco Rossi, immersa nel cantare Stupendo, sento la macchina rallentare,<br />

siamo sulla stradina che sporcherà entrambe le fiancate, e sporche rimarranno<br />

fino al ritorno a Milano. C’è una macchina che va verso la spiaggia.<br />

Come ho già detto la strada è stretta, ci passa a malapena l’Alfa di mio padre,<br />

la macchina che abbiamo di fronte è più piccola, una Bravo blu elettrico, bisogna<br />

fare una serie di manovre per riuscire a passare entrambe. Mi volto.<br />

E non so perché lo faccio, dall’incidente fatto con mio padre qualche anno<br />

prima, non riesco a fare neanche un chilometro in macchina senza avere gli<br />

occhi fissi sulla strada.<br />

C’è una tavola enorme, e tanta gente. Si sentono le voci e le risate, forse per<br />

quello mi sono girata a guardare fuori dal finestrino. È una tavolata enorme,<br />

saranno venti persone, senza contare tutti i bambini che corrono intorno al<br />

tavolo. Sorrido. È il Sud. Il Sud e le sue famiglie.<br />

Guardo bene la tavola, e proprio mentre mio padre riparte, vedo lui, l’anziano.<br />

È a capotavola. Ancora una volta non riesco a notare i particolari, mi è sembrato<br />

di vederlo sorridere.<br />

Anzi sono sicura che stesse sorridendo. Era con la sua famiglia, e c’era allegria<br />

su quella tavola.<br />

Non è solo. I miei erano stati solo viaggi inutili.<br />

Sono felice. Felice di essermi sbagliata.<br />

Per la prima volta sento che non era importante che io avessi ragione, per la<br />

prima volta sono felice per lo star bene di uno sconosciuto, per la prima volta<br />

sento uno sconosciuto la persona a me più vicina di tutto il mondo.<br />

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Andrea Varsori<br />

Le foto degli altri<br />

GENERE RIFLESSIONE NOIR<br />

1 RACCONTO DA<br />

9 f e r m a t e<br />

Racconto fuori concorso


Andrea Varsori<br />

Andrea Varsori nasce a Treviso nel 1989, e comincia a scrivere brevi racconti<br />

a partire dalle elementari. Pratica studi classici nel liceo della propria<br />

città, ma i suoi interessi lo spingono a esplorare l’ambiente metropolitano<br />

contemporaneo, nelle sue sfumature più nere e più ruvide e nel suo carattere<br />

più nuovo o più alienante. È semifinalista al Premio Campiello Giovani<br />

2008. Attualmente frequenta la facoltà di Scienze Politiche dell’Università<br />

degli Studi di Bologna.


Le foto degli altri<br />

Rovisto ferocemente nell’ennesimo cassetto, senza curarmi molto della confusione<br />

che creo in quel perfetto ordine che, senza dubbio, doveva aver richiesto<br />

anni per essere messo a punto. Agendine, fogli, block–notes, penne, diari, qua e<br />

là qualche pezzo di carta strappato; tiro fuori tutto e lo butto per terra con una<br />

violenza quasi casuale, come se non mi accorgessi neppure di estrarre quelle<br />

cose come frattaglie da un animale macellato, e di gettarle sul pavimento con<br />

forza e accanimento. Cerco, cerco, cerco ancora; quel cassetto mi pare, per un<br />

momento, un pozzo infinito, esattamente come tutti quelli che ho setacciato<br />

prima, una scatola senza fine, piena di bugie e di allucinazioni multicolori.<br />

Ma continuo. È una la cosa che cerco, e che voglio. Di certo il rispetto per l’ordine<br />

in cui lui aveva sistemato i suoi oggetti non mi ferma, a questo punto credo<br />

di averlo messo da parte dopo l’inizio della mia piccola, furiosa indagine.<br />

Sorridendo tra me e me, mi ritrovo a pensare a lui. Lui.<br />

Non è in casa, ora.<br />

Chissà dov’è, in questo momento.<br />

Un lampo di colore, dei lembi di figure spuntano, quasi sul fondo del cassetto.<br />

Il sorriso diventa immediatamente un ghigno.<br />

Foto.<br />

Foto.<br />

Sono volti che spuntano nella nebbia dell’ignoto, paesaggi dai colori brillanti<br />

nel grigio di un’esistenza tetragona, volti, espressioni, sorrisi, segnali lampeggianti<br />

di qualche significato che è svanito nell’aria come il fumo di un foglio di<br />

carta che brucia, un foglio su cui erano segnate cose di certo molto importanti<br />

una volta. Ora non più.<br />

Foto.<br />

Personalmente, le amo. Sono straordinarie. Si riesce a capire moltissimo della<br />

persona che ne è soggetto, e anche di chi le ha fatte, e di chi stava intorno in<br />

quel momento, anche se era stato preso per sbaglio, anche se era solo un<br />

87


osservatore casuale. Anzi, soprattutto se lo era.<br />

Non pensiate che io sia un patito, o che anzi soltanto creda alla fotografia dei<br />

professionisti. Per lo più, invece, non mi piace. Si tratta quasi sempre di foto<br />

manipolate; bene o male, è l’idea, il carattere, l’umore di chi le scatta ad influenzarle,<br />

e loro ne escono compromesse, anche perché chi le scatta è fuori dalla<br />

scena che vuole rappresentare. Non che sia necessariamente un male: anzi,<br />

dimostra quanto ricchi e vari possano essere i prodotti della fotografia! Ma,<br />

francamente, a interessare il sottoscritto non è quello che pensa il professionista.<br />

È l’uomo, è la donna, e cosa ci sta dentro, quando, dove, come, perché.<br />

Per questo, tra tutte le foto, amo soprattutto quelle domestiche.<br />

Sì, loro. Gli scatti di casa. Le diapositive delle vacanze. Gli album di famiglia.<br />

Le pellicole per ricordare una giornata.<br />

Sono le più sincere. Vengono fatte sul momento, senza tanto pensarci. A volte<br />

in posa, a volte no; tutte, però, rivelatrici. Anche se sembrano apparentemente<br />

uguali, contengono un tracciato nascosto: come se la carta fotografica sulla<br />

quale sono state stampate in realtà fosse fatta di due strati, e nello strato più<br />

interno ci fosse un messaggio, scritto magari con la stilografica, una confessione.<br />

Come una scrittura inconscia in immagini. Un continuo susseguirsi di<br />

splendenti ritratti, tutti maturati nel buio di camere oscure.<br />

Questo non è il lavoro di un fotografo che, anche se in buona fede, anche dopo<br />

essersi reso invisibile, osserva e immortala una normalità. Questi sono lavori<br />

del tutto accidentali. Questa è la normalità.<br />

Chi trova queste foto noiose, senza pensarci avrà capito qualcosa di fondamentale<br />

su questo mondo.<br />

Parlo come un esperto. E, modestamente, lo sono abbastanza in questo genere<br />

di foto. Anni di esperienza.<br />

Ma, in quel momento, parlavo come un pazzo… Perché stavo recitando questo<br />

stesso discorso, da solo, in quell’appartamento vuoto. Come se cercassi di<br />

convincere qualcuno. E invece io non ero pazzo; e non stavo cercando di convincere<br />

nessuno, un cazzo di nessuno; anche perché nessuno c’era, in quel fottuto<br />

appartamento.<br />

Di sicuro lui non c’era.<br />

Forse, non c’era più nessuno in tutto il fottuto palazzo.<br />

O almeno, per me era come se non ci fosse.<br />

Ma dovevo sbrigarmi…<br />

Raccolsi con entrambe le mani tutto quell’insieme di carte, fotografiche o no,<br />

e lo rovesciai senza molta cura sul tavolo al centro della sala, sgomberandolo<br />

con un colpo di avambraccio dalle cose inutili che c’erano sopra. Il tonfo fu<br />

notevole, e risuonò per tutta la casa: qualche foto uscì dagli album o scivolò<br />

dalle copertine, tra le quali s’era nascosta anni prima; vidi, con un fugace<br />

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sguardo, alcune immagini svolazzare per aria, indugiare e scendere piano<br />

oppure precipitare sul pavimento, rovesciandosi nell’atterraggio. Non vi feci<br />

caso; anzi, le ignorai deliberatamente. Quella era, ogni volta, la mia “selezione<br />

naturale” delle foto da guardare. Quelle che cadevano, evidentemente, non<br />

meritavano la mia considerazione.<br />

E poi ne avevo già molte da visionare.<br />

Osservai con attenzione lo spettacolo che avevo davanti, cercando di trovare<br />

da qualche parte un angolino a cui aggrapparmi, l’inizio di un sentiero da percorrere<br />

attraverso la vita di lui. C’erano album grandi, con copertine floreali di<br />

cartoncino rigido, classici per le foto di famiglia e per le vacanze da adulto.<br />

Album più sottili, scuri, di plastica liscia, con immagini brillanti di cuccioli e di<br />

fiori: questi parevano più infantili, ingenui, primitivi; forse li aveva ereditati dai<br />

genitori. Album piccoli e minuscoli, quelli regalati dai negozi di fotografia<br />

quando si vanno a ritirare i propri scatti. E poi, carte sparse: composizioni fatte<br />

al computer, calendari e manifesti da appendere in camera; foto vere e proprie,<br />

nel classico formato 15x22; infine fogli normali, immagini digitali stampate dal<br />

computer, forse all’ultimo minuto, forse giusto per averne una copia cartacea,<br />

forse solo perché tanto avere foto lucide o opache è la stessa cosa. Sopra tutto<br />

ciò, polvere, molta polvere. Si era infilata nel cassetto, tra gli album, tra le pagine.<br />

Forse era un po’ anche quella che avevo movimentato nella mia ricerca di<br />

prima; comunque, non mi dava fastidio.<br />

Cercai ancora un po’ con lo sguardo quella superficie di colori e di rumori attutiti<br />

dal tempo, e infine trovai, sotto a un marasma di fogli probabilmente recenti,<br />

che avevo appena sollevato con minima curiosità, la foto giusta per iniziare.<br />

Era lui, al centro, con gli sci in mano. Tutto intorno, neve a non finire, sul pendio<br />

di una montagna. Sullo sfondo, in lontananza, le cime rocciose e per lo più<br />

bianche, un po’ sfocate, per colpa del tempo o di chi ha scattato in quel momento,<br />

un amico che forse non ne sapeva molto di fotografia. Il cielo non si vedeva<br />

quasi; però, nei piccoli angoli in cui si riusciva a scorgere, era bello, azzurro. Lui<br />

sorrideva, bardato in completa attrezzatura da sci, forse con un po’ di fiatone.<br />

Io non ero mai stato sulla neve. L’unica neve che avevo conosciuto era quella<br />

cittadina, infida, umida più della pioggia, grigia di smog assorbito. Cadeva<br />

lenta, pallida, tra i palazzoni, in tristi e solitarie giornate d’inverno; per lo più si<br />

scioglieva prima di toccare terra, e riusciva ad attaccarsi al terreno solo dopo<br />

ore; ne veniva giù abbastanza per far innervosire tutti gli adulti, ma non per far<br />

felice qualche bambino. Era ghiaccio, più che neve; e il giorno dopo spariva,<br />

annichilita dal freddo (ma non troppo freddo), lasciando dietro di sé solo alcuni<br />

relitti, grandi mucchi biancastri agli angoli dei parcheggi, montagnole che<br />

si abbassavano e si scurivano sempre di più col passare dei giorni e con l’aumentare<br />

dell’inquinamento.<br />

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Quella neve, invece, era candida e pareva fresca, caduta da poco. Potevo quasi<br />

immaginare di prenderla in mano, e sentirla sbriciolarsi teneramente tra le mie<br />

dita mentre sfregavo indice e pollice; e intanto solo un lieve tepore sulle guance<br />

arrossate, mentre osservavo lui e la sua compagnia di amici (tra cui, forse,<br />

anche la sua ragazza) ridere, scherzare, e poi ripartire, sciando verso valle.<br />

Scossi la testa, risvegliandomi da quella visione, e misi la foto in un angolo<br />

sgombro del tavolo, riservandola per dopo. Frugai un po’ nel punto in cui l’avevo<br />

trovata, e in effetti scoprii una serie di immagini sparse, tutte riconducibili<br />

alla stessa uscita sulla neve. Non doveva aver avuto luogo più di qualche<br />

anno prima; non c’erano infatti differenze tra il volto che aveva allora e il volto<br />

che aveva in quel momento. Dovevano essere colleghi di lavoro, o amici di vecchia<br />

data, forse dell’università, forse delle superiori. Comunque, sorridevano<br />

tutti, e parevano divertirsi un mondo.<br />

C’era una foto che li ritraeva in gruppo, forse scattata da un estraneo, o forse<br />

da un amico che aveva accettato l’onere, restando fuori. Mi chiesi se anche<br />

quell’amico si stava divertendo, quel giorno. Gli altri comunque sì, in ogni<br />

caso; e lo si capiva subito, dalle loro pose, dalle posizioni che avevano assunto<br />

uno rispetto agli altri, dagli occasionali abbracci tra ragazzi e ragazze, dalla<br />

spontanea felicità che promanava dai loro volti.<br />

Quella era una cosa particolare. Non era raro trovare, nelle foto domestiche,<br />

gente che sorrideva; anzi, tutto il contrario, il sorriso faceva chiaramente parte<br />

della posa. Doveva far capire che andava bene, che, nonostante tutto, la situazione<br />

era ok: divertente, normale o tollerabile. Era integrato nella lieve ipocrisia<br />

generale che circonda i soggetti di quel tipo di scatti: sia che fosse spontaneo,<br />

sia che fosse forzato. In fondo, tutti ci teniamo a ricordare i momenti belli,<br />

negli anni a venire; e tutti vogliamo ricordare noi stessi nel nostro stato d’animo<br />

migliore, non in quelli peggiori.<br />

Comunque, sul momento quella fotografia mi colpì per quella caratteristica.<br />

Poi, persi interesse; e la rimisi nel mucchio.<br />

Scavai ancora in quel punto, come un archeologo che vada a fondo negli strati<br />

del terreno per arrivare al reperto che gli interessa, alla scoperta della sua<br />

vita. Trovai un altro di quegli album sottili, dalle pagine nere, con in copertina<br />

due delfini che saltavano fuori dall’acqua, allegramente, con quella specie di<br />

immobile sorriso sulla bocca. Lo aprii, e le mie previsioni si rivelarono esatte:<br />

erano immagini di almeno venti, trenta anni prima, con etichette negli angoli<br />

delle pagine, sulle quali erano scritti, con una calligrafia femminile, luoghi e<br />

date da collegare a ciò che vi era contenuto.<br />

“Primo compleanno. Casa di nonna Camilla”. Una foto in particolare, tra le tre<br />

di quella facciata, spiccava: quella in mezzo. Un bimbetto, coi radi capelli scuri,<br />

una faccia paffuta, un gradevole colorito rosa e un vestitino piuttosto ricercato,<br />

90


stava al centro, quasi come in una ben congegnata composizione di un dipinto<br />

di corte del ‘700. Lo teneva in braccio quella che immaginavo essere nonna<br />

Camilla, la più bassa del gruppo, sorridente e orgogliosa; attorno a lei, stretti<br />

quasi a disputarsi il pargolo, c’erano gli altri tre nonni e, lievemente contrariati<br />

ma non abbastanza per rovinare la foto ricordo, i genitori. La madre aveva il<br />

pancione: stava aspettando un altro bambino.<br />

Sfogliai le pagine, e la festa di compleanno finì, quasi subito. Davanti ai miei<br />

occhi, gli anni passarono, all’inizio lentamente, poi sempre più veloci: si partiva<br />

da varie foto di lui da piccolo, quasi una pagina ogni mese di vita, e man<br />

mano che lui diventava grande, sempre meno paffuto e sempre più normale,<br />

le occasioni di ritrarlo diminuivano, forse a vantaggio del fratello. Quest’ultimo<br />

spuntava, qua e là, sempre più frequente e, in quel momento, avrei voluto<br />

avere sottomano le sue foto per controllare come cambiavano col tempo. Il<br />

maggiore, comunque, era per lo più felice; qualche volta faceva una faccina<br />

perplessa, come fanno i bambini quando si trovano di fronte qualcosa di strano<br />

e nuovo, cioè quasi sempre; una o due volte si vedeva che era reduce da un<br />

gran pianto e forse solo il seno della madre era riuscito a calmarlo.<br />

Quell’album finì e presi quello sotto. Fortunatamente era la diretta continuazione:<br />

ebbi modo di partecipare a tutte le feste di compleanno, dall’epoca dell’asilo,<br />

quando aveva ancora attorno i genitori festanti, due nonni e solo una<br />

nonna (certo non nonna Camilla, e non ci voleva molto a capire il motivo della<br />

sua assenza), fino all’ultimo anno delle elementari, quando soffiava a fatica<br />

sulle candeline della torta, attorniato da almeno una ventina di bambini festanti.<br />

Erano tutti vestiti in maschera, chi con mantelli neri svolazzanti, chi con cappelli<br />

a punta, alcuni con costumi sgargianti e altri con semplici lenzuoli con dei<br />

buchi per gli occhi. Forse compiva gli anni a febbraio? Comunque, mi resi<br />

conto che doveva essere stata una festa riuscita: anche se non sono certo un<br />

grande esperto in questo genere di cose.<br />

Non avevo mai avuto un grande talento a organizzare feste.<br />

Ma non era stata colpa mia. Io l’avrei avuto. Se non fosse stato per…<br />

Un secondo, solo un brivido di rabbia, di vecchio rancore. Lo sentii scorrere<br />

in me, direttamente dallo stomaco, si propagava per il petto, le braccia, la testa,<br />

e si nascondeva nella mia mente. Lo conoscevo bene. Sarebbe rimasto lì, fino<br />

alla fine, nel suo covo, a impedirmi di ragionare con chiarezza, a distrarmi e ad<br />

assistere ai miei tentativi di non pensare a lui. Tutto inutile.<br />

Cazzo.<br />

Scossi di nuovo la testa, e cercai freneticamente l’album delle medie, che doveva<br />

di sicuro essere là in giro… Ma era come scomparso. Ne aprii un po’, giusto<br />

per controllare. Mi ritrovai con tra le mani una laurea. Qualche foto prima<br />

della discussione della tesi: smorfie caricaturali di paura, pacche sulle spalle,<br />

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finte risse con gli amici; uno di questi, in particolare, aveva un volto che avevo<br />

già visto da qualche parte.<br />

Forse un compagno delle elementari, dieci anni dopo?<br />

Mi soffermai un po’ sul volto. Il colore dei capelli, il naso, gli zigomi. Sì, poteva<br />

essere proprio lui.<br />

E andai avanti. Una foto, una sola, di lui durante l’esame finale: in giacca e cravatta,<br />

seduto davanti ai professori, preso di tre quarti dalla macchina fotografica;<br />

pareva comodo e calmo, mentre allargava le braccia e forse gesticolava,<br />

come se stesse spiegando come si mette in moto una lavatrice. Invece, due<br />

scatti dopo, aveva in mano una laurea in Ingegneria Edile. Pareva piuttosto<br />

soddisfatto. Abbracciava, sorridendo, una ragazza, con ogni probabilità la sua<br />

ragazza a quel tempo. Ogni dubbio scomparve quando li vidi baciarsi nell’immagine<br />

successiva.<br />

Quello era uno dei pochi album grandi e rigidi e io lo avevo aperto solamente<br />

a metà. Evidentemente, lo aveva organizzato negli anni successivi alla fine<br />

dello studio, nel periodo in cui si era appena trovato un lavoro; e aveva voluto<br />

organizzare queste sue memorie che, in effetti, erano molto ricche.<br />

C’erano, infatti, centinaia di foto, di tutti i tipi possibili, scattate in qualsiasi<br />

luogo: bar, pizzerie, discoteche, locali, musei, movimentati appartamenti universitari<br />

e lindi corridoi di aziende; insieme ad amici e amiche, compagni e<br />

compagne di corso, gente conosciuta in una notte e per una notte, e individui<br />

che lo avevano accompagnato per cinque anni di lezioni ed esami. Qua e là,<br />

ancora i genitori, visibilmente invecchiati; poco più spesso, il fratello, che evidentemente<br />

andava a trovarlo qualche volta per divertirsi e conoscere la vita<br />

da fuorisede; meno spesso, i nonni, ormai uno o due e, raramente, dei professori<br />

accigliati.<br />

Mi resi conto in quel momento che esaminare tutte quelle foto avrebbe richiesto<br />

ore e ore. Tutti gli album rigidi, infatti, erano praticamente pieni e dedicati<br />

ognuno a uno specifico periodo: università, biennio e triennio delle superiori;<br />

addirittura, la sola gita a Berlino dell’ultimo anno ne aveva uno a sé! Erano<br />

pagine stracolme di ricordi, esuberanti di fotogrammi catturati al passato; a<br />

ogni facciata, era un nuovo volto che faceva capolino sorridendo, un altro professore<br />

che tentava di spiegare, un ulteriore monumento che saltava fuori, e<br />

innumerevoli foto di gruppo. Camere d’albergo, aule di scuola, amici intimi,<br />

ex-ragazze, corridoi, feste di compleanno, ritrovi al solito pub, anomale serate<br />

in discoteca, scherzi, cazzate, momenti di stanchezza, gente addormentata in<br />

corriera, il cortile della scuola, il cambio dell’ora, le foto rubate durante le<br />

lezioni, molte sigarette, qua e là qualche canna… Tutto, tutto era stato stampato;<br />

tutto era stato “pubblicato”, messo là dentro, quasi una foto per ogni giorno<br />

di scuola, quasi un’intera vita. Erano dieci anni dell’esistenza di lui che<br />

92


erano lì, fissati davanti ai miei occhi, dietro le copertine di plastica che li proteggevano,<br />

oppure nascosti nelle loro tane, pronti ad apparire, a essere evocati,<br />

a colpire la mia immaginazione, a trafiggere il mio spirito roso, dentro, dalla<br />

rabbia e dall’invidia.<br />

Per un attimo mi sembrò che quegli album avessero una vita propria. Mi pareva<br />

di sentirli pulsare, ed era come se potessi vederli, in quello stesso istante,<br />

aprirsi e sfogliarsi da soli, correndomi incontro per farsi vedere, per agganciarsi<br />

al mio sguardo che ormai voleva fuggirne, per catturarlo e tenerlo stretto<br />

in una morsa atroce, fatta di troppi sorrisi, di troppo divertimento, di troppo<br />

passato.<br />

Lanciai un urlo.<br />

La breve visione scomparve e loro, quelle centinaia di pagine rilegate che mi<br />

erano parse per pochi attimi come esseri viventi, fin troppo viventi, si adagiarono<br />

sul tavolo, immobili, lì dove li avevo lasciati. Ora ne erano aperti almeno<br />

quattro, o cinque.<br />

Sospirai. Andava sempre così quando facevo qualcosa del genere. E dire che,<br />

le ultime volte, la situazione era persino migliorata. C’erano tempi in cui continuavo<br />

a urlare per una decina di minuti, dopo che sempre la stessa allucinazione<br />

mi penetrava la mente, illudendo i miei sensi.<br />

Il che, qualche volta, mi aveva portato quasi nei guai. Per fortuna, ero riuscito<br />

a tirarmene fuori; per fortuna, visitavo sempre palazzi e condomini vuoti, senza<br />

alcuna anima dentro se non chi mi interessava conoscere… O, anche se c’era<br />

qualcuno, era come se non esistesse.<br />

Per fortuna ce l’avevo sempre fatta.<br />

Altrimenti i demoni mi avrebbero preso.<br />

Quel pensiero mi diede subito sollievo e potei trovare il coraggio di tornare al<br />

tavolo.<br />

Con la mano toccai, lentamente, quelle foto. Percepii con attenzione la superficie<br />

fresca e liscia della plastica e la calda ruvidezza della carta. Accarezzai,<br />

senza fretta, quegli album che qualche minuto prima mi avevano spaventato a<br />

morte; cercai di badare se ci fosse in loro la minima reazione e, avendo visto<br />

che in effetti rimanevano immobili sotto il tocco delle mie mani, continuai a<br />

sfiorarli coi polpastrelli, dominandoli.<br />

Erano solo pezzi di carta; sì, ricordi, ma vulnerabili.<br />

Infiammabili, ad esempio.<br />

Ero di nuovo sicuro di me. E avevo la sensazione di dominare quegli album.<br />

Tornai a sfogliarli io, con calma, quasi svogliatamente. Cercai di non farmi toccare<br />

più da quei frammenti di vite passate; li osservai, freddamente, passandoli<br />

al setaccio, analizzandoli. Mi resi conto che evidentemente quelle erano proprio<br />

tutte le foto che doveva aver fatto con la sua macchina, probabilmente<br />

93


digitale, dato che c’erano anche scatti di soli monumenti, immagini imbarazzanti,<br />

pose venute male, o semplicemente foto mosse e incomprensibili. Erano<br />

gli scarti, la feccia delle foto domestiche; ciò che veniva rimosso, cancellato<br />

per sempre perché inutile, perché non valeva la pena di tenere quelle cose.<br />

Non rispondevano ad alcun canone di bellezza spicciola, anzi, spesso lo contraddicevano.<br />

Erano le opere più incidentali, più involontarie, più spontanee di<br />

tutte; spesso causate solo da un errore: e, per questo motivo, erano le più pregnanti,<br />

le più sincere. Anche se non sempre, e non solo loro.<br />

Aveva voluto salvarle tutte, per averne comunque sempre una copia, perché<br />

non rimanessero vittima di qualche virus, di una formattazione, di una cancellazione<br />

maldestra.<br />

O forse, inconsciamente, aveva voluto archiviarle, e mettere così la parola fine<br />

a un segmento della sua vita.<br />

In realtà, succedevano spesso cose del genere: lui non era l’unico ad aver fatto<br />

una così grande quantità di fotografie; la mia parte più razionale, quella che<br />

non si faceva con leggerezza suggestionare dalla pura quantità dei ricordi, in<br />

realtà non era affatto stupita.<br />

Ci riflettei su.<br />

Foto domestiche.<br />

Sotto quest’etichetta raggruppiamo una grande varietà di immagini fotografiche.<br />

Foto di famiglia. Foto di classe. Foto di lavoro. Foto del tempo libero.<br />

Foto, foto, foto, foto.<br />

Quante foto.<br />

Era, ed è, come se bisognasse soddisfare una domanda in continua espansione<br />

e quindi produrre su scala industriale scatti su scatti.<br />

Se ne produce; è un’inflazione.<br />

Il che non era e non è un male, per uno come me, che ne ha, per modo di dire<br />

ovviamente, la mania.<br />

Però è un fenomeno unico. Causato forse, tra le altre cose, dall’imporsi della<br />

macchina fotografica digitale. I giapponesi, quando venivano in Italia a fotografare<br />

anche i piccioni di piazza San Marco o la più corrosa pietra dei Fori<br />

Romani, non stavano semplicemente facendo turismo: ci volevano avvertire.<br />

Poveri giapponesi… Non siamo riusciti a capirli.<br />

Ora è un’effervescenza di foto. Esuberanti di vita e di voglia di immortalarla,<br />

scattiamo, sapendo che comunque se si sbaglia c’è possibilità di cancellare e<br />

fare come se non fosse successo nulla; correndo per fermare quel presente<br />

che la disillusione e il realismo ci convincono a valorizzare, ma che non abbiamo<br />

i mezzi per poter fermare e vivere davvero. Nessun mezzo, se non le foto.<br />

A volte penso che lo si faccia per questo, per porre rimedio allo scorrere inesorabile<br />

del tempo che, da gran signore e da gran bastardo, passa più veloce-<br />

94


mente, si sa, nelle occasioni più felici.<br />

A volte penso che si tratti semplicemente di un comportamento ormai talmente<br />

diffuso tra tutti, che lo si mette in atto e basta, senza più alcun riferimento a<br />

eventuali motivazioni profonde. E quasi certamente è anche questo.<br />

A volte invece penso che sia solo un modo per fronteggiare un’insicurezza<br />

comune, dominante: un’insicurezza sul proprio status sociale. È qualcosa di<br />

chiaramente molto importante ed enfatizzato nella nostra società, ma spesso è<br />

messo in dubbio: non si può mai essere sicuri riguardo al proprio status, c’è<br />

sempre qualcuno che può vantare di essere più popolare o di avere più conoscenze,<br />

e il timore di rimanere soli e isolati è sempre dietro l’angolo; e quindi,<br />

per scacciarlo, per mostrare che comunque anche noi abbiamo un sacco di<br />

amici e abbiamo avuto un sacco di esperienze con molte altre persone, facciamo<br />

foto. E le esibiamo. A mo’ di amuleto.<br />

Certo, questo magari accade di più in rete. Netlog, Badoo, Flickr, Facebook…<br />

Luoghi virtuali in cui si condividono anche o solo le proprie immagini. Siti per<br />

mantenere legami, e per crearne di nuovi; ma siti soprattutto in cui si appare,<br />

si deve apparire, e si deve costruire la propria apparenza: siti in cui si devono<br />

mostrare le proprie foto migliori, e nella maggior quantità possibile, perché in<br />

quel contesto diventano un puro fatto numerico, una gara con gli altri utenti,<br />

con i propri “amici”. Avere poche foto sul profilo fa vedere poco di te stesso:<br />

per analogia, è come se tu stesso fossi piatto, e la tua vita fosse stata cosa da<br />

poco, ridotta giusto a qualche momento speciale in mezzo a un mare di grigio<br />

che non vale neppure la pena di riportare su Internet. E quindi bisogna pubblicare,<br />

postare, inviare, caricare; mettere su foto e organizzare album, per<br />

mostrare di essere esistito, di essere stato da qualche parte e di essersi pure<br />

divertiti; per ottenere commenti e collegamenti in altre pagine. Bisogna dimostrare<br />

di aver vissuto, e di averlo fatto nella società, nel mondo.<br />

È come se il paradigma fosse: più foto = più vita.<br />

Nel virtuale, come nel reale.<br />

La vita diviene la sua rappresentazione.<br />

Chiaramente quello che avevo tra le mani in quel momento non era un caso da<br />

mondo virtuale, ma da mondo reale.<br />

Profondamente reale.<br />

Dannatamente reale.<br />

La puzza mi risvegliò dalla riflessione in cui ero caduto. Un odore strano, che<br />

sul momento non seppi identificare. Solo dopo un po’ lo riconobbi.<br />

Osservai ancora il tavolo sconvolto dalla massa delle foto, delle carte e dei raccoglitori.<br />

A fatica si riusciva a vedere, qua e là, il legno.<br />

Non potevo fermarmi per molto ancora in quell’appartamento vuoto, vuoto,<br />

vuoto. Mi sarebbe molto piaciuto perderci ancora un po’ di tempo; in certi<br />

95


punti facevano capolino immagini interessanti, donne in biancheria intima, una<br />

posa romantica sulla spiaggia, scherzi da feste del diciottesimo compleanno.<br />

Tutte cose che avrei visto volentieri, perché a me per lo più ignote. Ma non era<br />

il momento.<br />

L’urlo poteva aver attirato l’attenzione di qualcuno. Forse i demoni stavano per<br />

arrivare. Dovevo sgombrare tutto e sbrigarmi.<br />

Feci come al solito. Tirai su le foto, esattamente come le avevo prese dal cassetto<br />

dove le avevo trovate; a fatica, riuscivo a tenerle tutte tra le mie braccia:<br />

questa volta, ero ben attento che non me ne cadesse nessuna.<br />

Mi misi nel mezzo dell’ampio soggiorno, su un colorato tappeto persiano e le<br />

mollai lì, per terra; tra tutte quelle tonalità brillanti, mi pareva che fosse il luogo<br />

migliore dove farle giacere per l’ultima volta.<br />

Tirai fuori, da sotto il cappotto, la bottiglietta piena che porto sempre con me;<br />

svitai il tappo, e la capovolsi sulla pila scomposta di fotografie, lasciando che<br />

tutta la benzina contenuta dentro si rovesciasse sui ricordi di lui e che il contenitore<br />

si svuotasse completamente.<br />

Accesi un fiammifero.<br />

E diedi inizio al rogo.<br />

Le fiamme guizzarono alte sulle gite scolastiche, sulle settimane bianche, sui<br />

matrimoni, sulle notti d’amore, sulla sua tenera età, sulle foto banali di tutti i<br />

giorni, sulle diapositive come sulle immagini ad alta definizione. Si nutrirono<br />

della carta normale e del cartoncino rigido, prima; poi della carta fotografica;<br />

infine arsero la plastica che teneva imprigionati ancora molti scatti e anche i<br />

più nascosti dovettero rassegnarsi a divenire cenere, piegandosi, accartocciandosi,<br />

liquefacendosi. Divamparono sulla sua vita, rubarono anni di ricordi<br />

ormai inutili, ormai senza padrone e, piano, piano, si calmarono, si rifugiarono<br />

in braci sparse in mezzo alla montagna di polvere nera, si accanirono contro<br />

gli ultimi rimasugli di figure e paesaggi, mentre altre loro sorelle nascevano<br />

sul tappeto, pronte a devastare anche quella selva di colori.<br />

L’odore di fumo e di bruciato era ormai diventato insopportabile, quello era il<br />

solito segnale che mi faceva capire che era ora di andare. Andare, prima che<br />

la situazione diventasse troppo pericolosa; prima che qualche essere vivente<br />

tornasse in quel palazzo forse deserto, e si accorgesse di qualcosa; prima<br />

soprattutto che i demoni in divisa blu arrivassero, e mi scovassero, con le loro<br />

mani viscide.<br />

Uscii dal soggiorno ormai soffocato dall’oscuro e polveroso rogo e attraversai<br />

l’androne di quell’appartamento vuoto. Senza di lui.<br />

Lui non c’era più, se n’era andato da qualche ora ormai.<br />

Giaceva con la gola squarciata, immerso nel classico mare di sangue che circonda<br />

tutti i cadaveri dei gialli. Il suo volto non era più sorridente, i suoi denti<br />

96


ianchi non mostravano gioia; più che altro, sorpresa, l’ultimo grottesco sentimento<br />

che aveva provato prima di andarsene.<br />

No, neppure i suoi ricordi servivano più. Tranne quell’ultima foto.<br />

La foto di lui, sorridente, circondato dalla neve e dalle montagne.<br />

La posai sul petto ormai senza vita; quella era la mia firma.<br />

Avrebbero imparato a riconoscerla.<br />

La sua vita, i suoi ricordi, ora, servivano a me.<br />

Scomparvi nell’androne delle scale.<br />

97


LO SPECCHIO E LA VITA<br />

UN BILANCIO PROVVISORIO DEL PREMIO SPECIALE<br />

UNIVERSITÀ IULM UNDER19<br />

Postfazione di Andrea Chiurato<br />

Assegnista di Ricerca Università IULM<br />

Nel ripercorrere la storia di un concorso letterario le cifre – di partecipanti, di<br />

lettori, di copie stampate… – godono sempre di un certo fascino. Forse per<br />

un’abitudine caratteristica del mercato editoriale è sui numeri che i più disparati<br />

attori dietro la pubblicazione di un libro, dal marketing ai talent scout,<br />

si trovano d’accordo.<br />

Ed effettivamente il <strong>2009</strong> segna un traguardo importante nella breve storia<br />

del Premio Speciale Università IULM Under19. Si tratta infatti della quinta<br />

edizione di un’antologia nata all’interno della più ampia esperienza di<br />

Subway-Letteratura (che negli anni si è differenziata sia sul territorio – raggiungendo<br />

le maggiori città italiane – sia nelle forme artistiche, dalla poesia<br />

all’illustrazione editoriale), con l’intenzione di offrire uno spazio per promuovere<br />

la creatività e dare voce ai talenti più giovani. Un anniversario importante<br />

che ci invita a un primo, provvisorio bilancio.<br />

Il racconto vincitore di quest’anno è un dichiarato omaggio critico a uno dei<br />

più grandi autori della prima metà del Novecento, lo scrittore argentino J. L.<br />

Borges, impostosi sulla ribalta internazionale – ben al di là dei confini nazionali<br />

di un “realismo magico” ancora a venire – con le due raccolte di Finzioni<br />

(1944) e l’Aleph (1949).<br />

Il caso di Iovino costituisce un paradosso sotto diversi punti di vista.<br />

Da un lato è il coronamento di un filone storico e particolarmente fortunato<br />

tra gli Under 19, ovvero la metafiction. Racconti narcisistici, racconti allo<br />

specchio che recuperano l’etimologia del “testo” (textum) in quanto tessitura,<br />

paziente lavoro di composizione e intreccio colto nel suo continuo farsi e<br />

disfarsi. Una tematica antichissima, a cui già Omero strizzava l’occhio nell’opera<br />

mai compiuta della paziente Penelope, moglie di Ulisse.<br />

Dall’altro costituisce il frutto maturo di una tendenza di lungo periodo ma, nel<br />

panorama di quest’anno, si rivela essere un caso isolato, apparentemente<br />

99


marginale. Quasi a suggerire come la raggiunta maturità di questo filone, il<br />

suo imporsi sul primo gradino del podio, comporti nello stesso tempo un<br />

(inevitabile? fisiologico?) esaurimento.<br />

Le ragioni di tale paradosso sono difficilmente riconducibili a una causa evidente.<br />

Sicuramente la metafiction, nel variegato panorama degli Under 19<br />

ha rappresentato una sorta di genere feticcio. Un feticcio utile nell’esorcizzare<br />

le paure (prima tra tutte quella che H. Bloom definiva, in un’azzeccata<br />

metafora psicologica, “l’angoscia dell’influenza”) e le insicurezze di chi<br />

muove i primi passi sugli accidentati sentieri della narrativa.<br />

Inoltre tale formula si dimostra particolarmente in sintonia con lo “spirito del<br />

tempo” postmoderno ben lungi dall’esaurirsi nella produzione letteraria e<br />

non di questo inizio millennio. Basti pensare al vero e proprio boom di remake,<br />

prequel e sequel a cui ci ha abituato la produzione hollywoodiana degli<br />

ultimi anni…<br />

Eppure, nonostante gli innumerevoli vantaggi di una simile predilezione, la<br />

metafiction mostra la corda di fronte ad un’altra, sempre più pressante esigenza:<br />

ovvero il bisogno quasi “fisico” di raccontare una storia. Una storia<br />

personale.<br />

Il che sembrerebbe ovvio e scontato parlando di racconti brevi. Ma non<br />

serve andare oltre a due esempi più che noti, James Joyce e Raymond<br />

Carver, per ricordarci come una short story possa essere anche qualcos’altro:<br />

la resa di uno stato d’animo, uno scorcio su un’atmosfera o su un attimo<br />

sospeso nel tempo. Un attimo fatto anche, o soprattutto, di quel nobile niente<br />

caro a Flaubert, ovvero la noia. Un attimo senza azione, ovvero senza sviluppo<br />

narrativo.<br />

Ecco i nostri Under 19, e il caso di Iovino ne è forse la più lampante dimostrazione,<br />

si dimostrano quanto mai attaccati alla necessità e, diciamolo<br />

sinceramente, al “piacere” insito nello storytelling. Il maggior pregio che<br />

possiamo riconoscere al bizzarro “testamento” capitato tra le nostre mani<br />

è quello – tra mille allusioni, citazioni e scatole cinesi – di restituirci una<br />

fantasiosa ricostruzione degli ultimi giorni di un Borges meno “mostro<br />

sacro” e più uomo. Insinuandosi là dove già Manzoni indicava un terreno<br />

fertile, tra le pieghe della Storia con la “S” maiuscola, in cerca di tutti quei<br />

dettagli, di quelle piacevoli inezie, di tutto quello insomma che non è stato<br />

ancora raccontato.<br />

Un caso isolato dicevamo, ma isolato rispetto a cosa?<br />

Il raffronto è quanto mai utile e pone in evidenza un altro filone difficilmente<br />

classificabile, ma ben presente fin dagli inizi della nostra esperienza.<br />

100


Un filone che, in assenza di un’etichetta più tecnica, potremmo definire<br />

“esistenziale”.<br />

Si tratta infatti di storie che trovano la loro linfa vitale nella quotidianità.<br />

Storie spesso dal retrogusto amaro, che insistono nel raccontarci non tanto<br />

una presunta normalità quanto innumerevoli forme di “diversità”. Siamo qui<br />

ben lontani dall’immagine dell’adolescenza a cui ci ha abituato la recente<br />

cinematografia e narrativa italiana.<br />

Ci troviamo di fronte ad atmosfere che concedono poco o nulla allo spirito<br />

amarcord di Notte prima degli esami (2006) e tanto meno al catalogo di luoghi<br />

comuni sulle diatribe amorose tra bulli di borgata e ragazze di buona<br />

famiglia (Tre metri sopra il cielo, pubblicato nell’ormai lontano 1992, ma<br />

impostosi all’attenzione del grande pubblico solo nel 2004).<br />

La sensibilità dei nostri autori si dimostra più vicina agli stimoli dell’immediata<br />

attualità. Difficile separare Portami via dalle recenti polemiche sul fine vita<br />

suscitate dal caso Englaro, o negare come la figura dell’Altro in Il ritmo lento<br />

e regolare della natura ci richiami alla mente il lato più umano del “problema”<br />

dell’immigrazione.<br />

In generale gli Under 19 sembrano essere in piena sintonia con i loro cugini<br />

maggiori: in entrambi i casi assistiamo a un comune ripiegamento dalla<br />

sfera del sociale a quella del privato. Non stupisce dunque l’esaurirsi di<br />

tematiche legate al mondo del lavoro e della scuola, rispetto a un prepotente<br />

riaffermarsi della dimensione familiare.<br />

Attraverso il rapporto tra genitori e figli (Abbi cura di te, Immagini dal nulla),<br />

nelle amicizie difficili o spezzate (Migrazioni sulla piazza delle ferrovie,<br />

L’incendiaria sciabolata di Fender Stratocaster, JUD) si delinea in filigrana<br />

una lotta quotidiana alla ricerca di una qualsiasi forma di rapporto o di<br />

comunicazione. Una comune difficoltà a cui si cerca di dare voce con espedienti<br />

formali estremamente diversi ma, in qualche modo, complementari.<br />

Da un lato l’insistenza quasi ossessiva su una “voce” isolata, sul punto di<br />

vista di un unico personaggio; dall’altro la faticosa ricerca di un “dialogo”,<br />

con scambi di battute spesso ridotto all’osso in cui ogni parola trova il suo<br />

valore nell’essenzialità, nella sua lotta nascosta con il silenzio.<br />

La nostra rassegna non sarebbe però completa se ignorassimo quei racconti<br />

che, per ragioni diverse, non vogliono o non possono conformarsi alla<br />

tendenza dominante. Ci troviamo qui in territori limitrofi, finora scarsamente<br />

esplorati dagli Under 19, ovvero nei territori della cosiddetta letteratura “di<br />

consumo”.<br />

Qui dove possiamo trovare un thriller quanto mai riuscito come Le foto degli<br />

altri. Un thriller sia ben chiaro e non un noir, come vorrebbe la moda più<br />

101


ecente, perché qui il cuore del racconto, la sua ragione d’essere non si<br />

trova tanto nell’esplorare territori (come la periferia) o personalità marginali<br />

(poliziotti in crisi e serial killer sempre più improbabili) quanto piuttosto nella<br />

perfetta resa di quell’“ossessione psicologica” che secondo Edgar Allan Poe<br />

stava alla base di ogni short story.<br />

Chi invece preferisse atmosfere fantasy non potrà non apprezzare Il volto<br />

dello Straniero. Gli appassionati di Shannara e Dragonlance si troveranno a<br />

casa nelle Contee Brune di Emanuele Arciprete. Là dove si aggirano minacciosi<br />

spettri senza nome e si respira un’atmosfera dal sapore vagamente tolkeniano.<br />

Insomma, a prescindere da oziose considerazioni e tassonomie critiche, il<br />

menù di quest’anno è quanto mai vario, a voi la scelta…<br />

102


Giuria del Premio Speciale Under19<br />

Presidente: Lucia Rodler<br />

Caterina Angeretti<br />

Luca Barbarito<br />

Andrea Chiurato<br />

Stefano D'Andrea<br />

Diego Dotari<br />

Mauro Ferraresi<br />

Andrea Montisci<br />

Ariela Mortara<br />

Francesco Priano<br />

Silvia Ravazzoni<br />

Anna Re<br />

Marida Rizzuti<br />

103


Partecipanti al Premio<br />

Marco Aglietti<br />

Emanuele Arciprete<br />

Barbara Ardizzone<br />

Alessia Asaro<br />

Alessia Aulicino<br />

Mena Avitabile<br />

Marco Baldini<br />

Valentina Balducci<br />

Andrea Paola Baluta<br />

Laura Bernardi<br />

Leonardo Biagetti<br />

Mara Biasillo<br />

Elisa Bisignano<br />

Giulia Boezi<br />

Francesco Bonicelli<br />

Serena Boschi<br />

Francesco Boso<br />

Rosalba Botte<br />

Nunzia Bove<br />

Alessio Briguglio<br />

Fabio Brinchi Giusti<br />

Désirée Bruna<br />

Elvira Buonocore<br />

Nadia Burzotta<br />

Assunta Cammarota<br />

Alessia Cannì<br />

Anna Giulia Caragli<br />

Elettra Carnelli<br />

Bianca Cianfano<br />

Angela Maria Cimmino<br />

Valerio Cinque<br />

Federica Cirillo<br />

Giuseppina Colella<br />

Umberto Confalonieri<br />

104<br />

Danilo Conti<br />

Fabrizio Coppola<br />

Salvatore Cracolici<br />

Alessandro Ĉulev<br />

Carlo D'Acquisto<br />

Alice D'Ambrosio<br />

Pierpaolo D'Aprile<br />

Marta De Filippis<br />

Silvia De Leonibus<br />

Danilo De Luca<br />

Chiara Del Zanno<br />

Luca Di Bartolomeo<br />

Alma Di Lonardo<br />

Marianna Donato<br />

Cristina Drigani<br />

Eugenia Durante<br />

Maria D'Urzo<br />

Elettra Esposito<br />

Valentina Esposito<br />

Cristina Fabiani<br />

Annalisa Faragli<br />

Federico Farina<br />

Carmen Fasanelli<br />

Arianna Fraccaro<br />

Claudia Frisoni<br />

Miriam Galati<br />

Laura Gallo<br />

Gloria Gaspari<br />

Vincenzo Gatta<br />

Gabriele Gatto<br />

Erica Gazzoldi<br />

Ilaria Genesini<br />

Roberta Marie Gentile<br />

Giulia Giaimis


Chiara Giorgi<br />

Eleonora Gironi Carnevale<br />

Daniele Giusi<br />

Carlotta Godano<br />

Aurora Grammatico<br />

Alice Guglielmo<br />

Giuseppe Gullo<br />

Giulia Iannarilli<br />

Sara Ingrassia<br />

Marcellino Iovino<br />

Margaret Jaci Jungton<br />

Setarè Kameli<br />

Marco La Sala<br />

Eleonora Latini<br />

Sara Lauri<br />

Federico Maria Limbiase<br />

Adriana Liotta<br />

Fiorenzo Lo Presti<br />

Chiara Lonoce<br />

Silvia Loppa<br />

Beatrice Lora<br />

Mario Luca<br />

Carlotta Macario<br />

Daniela Maggiori<br />

Stella Sherifat Ebellina Makanju<br />

Sara Manfredi<br />

Valerio Mango<br />

Gaspare Maniscalco<br />

Vickiano Mansende<br />

Antonio Marchese<br />

Martina Maretto<br />

Filomena Marino<br />

Damiano Mario<br />

Elena Giulia Massaggia<br />

105<br />

Marina Massaro<br />

Claudio Mastrangelo<br />

Gianpiero Matone<br />

Giovanni Merone<br />

Davide Messana<br />

Claudia Migliaccio<br />

Marina Migliaccio<br />

Maria Fontana Milato<br />

Sean Orso Miyakawa<br />

Arianna Mochella<br />

Valeria Mollica<br />

Celeste Montalto<br />

Marilisa Montemurro<br />

Ilaria Morelli<br />

Matteo Morsetti<br />

Giada Muraro<br />

Luca Musumeci<br />

Gianluca Nativo<br />

Giada Nespoli<br />

Giulia Nicora<br />

Mara Nicosia<br />

Chiara Ortisi<br />

Ilaria Padovan<br />

Antonia Paladino<br />

Lorenzo Palmucci<br />

Francesca Pantano<br />

Arianna Pantuso<br />

Donato Paolino<br />

Michelangelo Paolino<br />

Carlotta Papale<br />

Veronica Passalacqua<br />

Massimiliano Passeri<br />

Ilaria Passiatore<br />

Melania Pastano


Andreana Pastena<br />

Francesco Patanè<br />

Angelo Salvator Pemberton<br />

Aurora Pera<br />

Natascha Perrotta<br />

Alessandra Persico<br />

Giuliano Pesce<br />

Adriano Pinci<br />

Jacopo Pradel<br />

Monica Pragliola<br />

Elena Prati<br />

Matteo Primavera<br />

Roberta Pugno<br />

Cosmin Puiu<br />

Santo Purello<br />

Giulia Quinci<br />

Valentina Radaelli<br />

Korina Michell Ramirez<br />

Gianluca Raneri<br />

Caterina Rapini<br />

Rebecca Reina<br />

Antonia Riccio<br />

Virginia Nadine Rivolo<br />

Edoardo Rosadini<br />

Christopher Sacchi<br />

Luisa Sacco<br />

Laura Salerno<br />

Chiara Saliceti<br />

Francesca Santucci<br />

Loris Sbrollini<br />

Anna Scampicchio<br />

Pietro Schirò<br />

Mariarosa Semprebuono<br />

Giovanni Sepe<br />

Immacolata Sepe<br />

Tobia Sgnaolin<br />

Beatrice Simeone<br />

Davide Somachini<br />

Daniela Spada<br />

Martina Spampinato<br />

106<br />

Irene Spinelli<br />

Martin Sportelli<br />

Melissa Spreafico<br />

Lucrezia Stella<br />

Mariagrazia Talarico<br />

Roberta Tammaro<br />

Veronica Tona<br />

Martina Tortora<br />

Annalisa Tovagliari<br />

Davide Trani<br />

Erica Trapani<br />

Davide Vaccaro<br />

Elisa Valdina<br />

Andrea Varsori<br />

Anita Vicenzi<br />

Silvia Vitali<br />

Mariafabiola Zugliani


Finito di stampare nel mese di ottobre <strong>2009</strong><br />

da Vela Web S.r.l. di Binasco (MI)


Tempo Libero<br />

Premio Speciale Under19. Questa antologia rappresenta uno spaccato<br />

sociale della magmatica realtà verso cui la recente cinematografia<br />

e narrativa italiana dimostra un rinnovato interesse. Lontano<br />

dai clichés e dagli stereotipi, Subway Under19 cerca di dare voce a<br />

una letteratura scritta dai giovani per i giovani.<br />

Un’intenzione premiata dal crescente successo dell’iniziativa promossa<br />

dall’Università IULM, che propone in questo volume il racconto<br />

vincitore del Premio, pubblicato e diffuso nei luoghi di transito<br />

delle maggiori città italiane, con una tiratura da vero bestseller (oltre<br />

300.000 copie), insieme alle altre dieci Opere che la giuria<br />

dell’Ateneo milanese ha selezionato tra le quasi duecento pervenute<br />

in concorso da tutta Italia.<br />

Un invisibile fil rouge del disagio sembra legare la maggior parte delle trame<br />

delle opere pervenuteci. Da tutta Italia un’intera nuova generazione di scrittori<br />

racconta di paure, di incertezze, di malattie e di sconfitte. E lo fa con toni crudi<br />

o, al limite, disincantati.<br />

Dall’Introduzione di Giovanni Puglisi, Rettore Università IULM<br />

“Scusa ma ti chiedo amore” potrebbe essere dunque la formula corale di questa<br />

antologia che racconta la difficoltà di avvicinare l’altro, soprattutto quando<br />

non si può volare nemmeno qualche metro in alto nel cielo.<br />

Dalla Prefazione di Lucia Rodler, Docente Università IULM

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