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la proposta politica di <strong>Essere</strong> <strong>Comunisti</strong>*<br />

unità, sinistra e governo Prodi<br />

«Le crepe dell’impero americano erano evidenti ben<br />

prima del crollo dei mutui che ha provocato sulle<br />

Borse mondiali una tempesta paragonab<strong>il</strong>e all’11<br />

settembre e forse peggiore. Gli Stati Uniti producono <strong>il</strong> 10%<br />

delle merci circolanti nel pianeta, meno <strong>della</strong> Germania, e ne<br />

consumano <strong>il</strong> 30%, più dell’Europa intera. Questo significa<br />

che i cittadini dell’impero, dall’ultimo impiegato <strong>della</strong> middle<br />

class fino al primo manager di Manhattan, vivono molto<br />

al di sopra dei loro mezzi. […] La grande bolla Usa sta per<br />

esplodere. Con quali conseguenze nessuno può dirlo. Prima<br />

o poi qualcuno dovrà incaricarsi di spiegare agli americani la<br />

scomoda verità. A meno di non ipotizzare un’apocalittica<br />

guerra alla Cina» 1 .<br />

Non si tratta delle riflessioni di un pericoloso comunista,<br />

ma di un giornalista onesto: Curzio Maltese. In queste<br />

parole sono contenute le motivazioni di quanto accaduto<br />

nel mondo in questi anni.<br />

Il quadro internazionale: dalla crisi statunitense al<br />

Venezuela di Chavez<br />

Il sistema economico statunitense è in grado di reggere<br />

soltanto attraverso le guerre, la produzione di armamenti,<br />

<strong>il</strong> dominio m<strong>il</strong>itare globale, la manipolazione internazionale<br />

dell’informazione. Solo governi subalterni hanno<br />

potuto sostenere e giustificare le tesi ufficiali con cui <strong>il</strong><br />

governo Usa ha motivato le guerre intraprese negli ultimi<br />

anni. La lotta al terrorismo, la ricerca delle armi di distruzione<br />

di massa, l’esportazione <strong>della</strong> democrazia non<br />

c’entravano assolutamente nulla. Tutti sanno che i motivi<br />

veri degli interventi m<strong>il</strong>itari sono stati altri. L’Iraq è<br />

stato invaso per la grande quantità di petrolio di cui dispone<br />

e per la decisione di Saddam di venderlo in euro.<br />

L’Afghanistan è stato occupato per la sua collocazione<br />

strategica a ridosso di Cina e Russia.<br />

CLAUDIO GRASSI**<br />

La politica di guerra e di dominio perseguita da Bush, classicamente<br />

imperialista, si trova oggi in una profonda crisi.<br />

Crisi m<strong>il</strong>itare: le guerre in Iraq e in Afghanistan non si<br />

concludono e le perdite sono sempre più significative.<br />

Crisi di egemonia: la credib<strong>il</strong>ità <strong>della</strong> politica estera statunitense<br />

è in netto calo rispetto all’11 settembre 2001,<br />

quando venne lanciata la dottrina <strong>della</strong> guerra preventiva e<br />

permanente. Inoltre negli Usa esistono contraddizioni<br />

economiche immense che, come ha dimostrato la recente<br />

vicenda dei mutui subprime, possono scatenarsi da un momento<br />

all’altro con conseguenze imprevedib<strong>il</strong>i.<br />

Purtroppo a questa situazione di oggettiva debolezza di<br />

prospettiva dell’imperialismo americano non corrisponde,<br />

già pronta, un’alternativa. Un tempo si sarebbe detto<br />

che vi sono le condizioni oggettive ma mancano quelle<br />

soggettive.<br />

Infatti, alla crisi del sistema economico dell’occidente<br />

capitalistico, fanno da contraltare la crisi e la sconfitta<br />

del tentativo di costruire un sistema socialista avviato nel<br />

secolo scorso con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917.<br />

Se <strong>il</strong> capitalismo, quindi, mostra come non mai le sue<br />

contraddizioni in tutto <strong>il</strong> pianeta, rendendo necessario<br />

un suo superamento per evitare che si producano guerre,<br />

migrazioni e devastazioni ambientali, oggi chi come noi<br />

lo propone è indebolito dal fatto che quel tentativo di trasformazione,<br />

nei paesi più significativi in cui è stato tentato,<br />

non è riuscito ad affermarsi.<br />

È in questi grandi processi storici che noi dobbiamo inserire<br />

<strong>il</strong> nostro ragionamento. Altrimenti, oltre a non riusci-<br />

** COORDINATORE NAZIONALE ESSERE COMUNISTI, PRC-SE<br />

1


2<br />

re a comprendere quanto sta avvenendo, non riusciamo ad<br />

apprezzare e a valorizzare quanto stiamo facendo.<br />

Le difficoltà di Rifondazione comunista, lo scarso consenso<br />

elettorale, sono certamente dovuti a scelte sbagliate<br />

e a errori soggettivi, ma in larga parte trovano le loro<br />

cause in questa pesante sconfitta storica nella quale ci<br />

troviamo a operare. Infatti anche in Spagna, in Francia e<br />

in Germania, seppure con differenze, i partiti comunisti<br />

e di sinistra alternativa sono attraversati da profonde divisioni<br />

al proprio interno e <strong>il</strong> loro consenso elettorale è<br />

più o meno analogo al nostro.<br />

Tuttavia la partita è aperta e noi dobbiamo lavorare con<br />

la consapevolezza che le contraddizioni di questo sistema<br />

capitalista possono anche precipitare in crisi accelerate<br />

e produrre scenari di vasti sommovimenti e trasformazioni.<br />

Inoltre la situazione internazionale non è priva di contraddizioni<br />

e di scenari che vanno valutati con grande attenzione.<br />

Nella competizione globale <strong>il</strong> tratto dominante – che va di<br />

pari passo con la crisi e l’indebolimento degli Stati Uniti –<br />

è l’emergere di nuove potenze economiche: la Cina, la<br />

Russia e l’India. L’impetuoso sv<strong>il</strong>uppo economico di questi<br />

paesi, in cui risiede quasi la metà <strong>della</strong> popolazione<br />

terrestre, produrrà, nel giro di qualche decennio e forse<br />

meno, cambiamenti enormi negli assetti mondiali.<br />

Gli Stati Uniti stanno operando per contrastare tale sbocco<br />

cercando alleati tra questi paesi. Quando ci riescono,<br />

come nel caso dell’India, non esitano ad armarli e a sostenerli;<br />

e quando non ci riescono, come sta avvenendo nel<br />

caso <strong>della</strong> Russia di Putin, non esitano a riaprire nei loro<br />

confronti una stagione di guerra fredda attraverso lo<br />

scudo stellare, l’appoggio ai governi e alle forze più reazionarie<br />

dei paesi confinanti e attraverso progetti di destab<strong>il</strong>izzazione<br />

(vedi le rivoluzioni «arancioni»). Oppure,<br />

come sta avvenendo nei confronti <strong>della</strong> Cina, attraverso<br />

un sotterraneo e pesante attacco economico.<br />

È evidente che oggi vi è un contrasto e uno scontro tra gli<br />

Usa da un lato e la Cina e la Russia dall’altro, mentre l’Europa,<br />

che attraverso la costituzione dell’euro ha introdotto<br />

un elemento oggettivamente antagonistico al dollaro, è<br />

divisa al suo interno e allo stato attuale è incapace di rendersi<br />

autonoma dall’egemonia statunitense.<br />

In questo contesto l’obiettivo prioritario è indebolire la<br />

politica di guerra degli Stati Uniti. Non è una scelta di<br />

«campo», come quella che si poteva realizzare negli anni<br />

Sessanta-Settanta del secolo scorso quando, pur con tutti<br />

i limiti, al campo capitalista si contrapponeva un campo<br />

socialista. Oggi non c’è un campo socialista. Tuttavia ci<br />

sono paesi che non condividono e in alcuni casi contra-<br />

stano ciò che di più pericoloso si muove contro la pace<br />

nel mondo e cioè la politica estera degli Stati Uniti.<br />

Inoltre nella competizione globale, oltre a Usa, Europa,<br />

Cina e Russia, vi sono altre realtà degne di attenzione. Ne<br />

segnalo una in particolare, quella che mi sembra più significativa:<br />

l’America Latina. Qui sta prendendo forma un<br />

processo che ha due elementi peculiari. Da un lato un numero<br />

crescente di paesi non accetta più la sottomissione<br />

ai diktat nordamericani: Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina,<br />

Uruguay, Nicaragua solo per citare i principali.<br />

Nel Bras<strong>il</strong>e la situazione è più incerta, tuttavia sarebbe un<br />

errore non vederne <strong>il</strong> processo contraddittorio e le potenzialità<br />

positive. Dall’altro lato Chavez sta costruendo un<br />

progetto di trasformazione del Venezuela in senso antimperialista<br />

e di democrazia sostanziale. Ciò ha una straordinaria<br />

importanza per <strong>il</strong> messaggio che lancia a tutto <strong>il</strong><br />

mondo. Non a caso si è stab<strong>il</strong>ito un asse forte con Cuba e<br />

l’esperimento venezuelano è oggi <strong>il</strong> punto più avanzato<br />

per la sinistra, poiché ha come obiettivo <strong>il</strong> cambiamento<br />

rivoluzionario e la trasformazione socialista <strong>della</strong> società.<br />

Il fatto è importante poiché si lotta non solo per una alternanza,<br />

come avviene in tutti i paesi europei, ma per una<br />

alternativa di società.<br />

Ciò che manca oggi in questo panorama internazionale<br />

così complesso è la ripresa del conflitto di classe nei<br />

paesi a capitalismo avanzato.<br />

Sarebbe interessante capire se, viste le trasformazioni


che sono intervenute dagli anni Settanta a oggi, i punti<br />

alti dello sv<strong>il</strong>uppo capitalistico, dove si può ipotizzare riparta<br />

<strong>il</strong> conflitto di classe, siano ancora da considerarsi<br />

le metropoli europee, e non invece le grandi città di<br />

Cina, India, Bras<strong>il</strong>e e Sudafrica dove sono stati trasferiti<br />

i più importanti insediamenti industriali e dove più alta<br />

è diventata e diventerà la concentrazione operaia. Sono<br />

approfondimenti da fare, importanti.<br />

Rifondazione comunista e governo Prodi: unità e<br />

conflitto, per l’unità programmatica <strong>della</strong> sinistra<br />

d’alternativa<br />

Abbiamo <strong>il</strong> compito, qui e ora nel nostro paese, di costruire<br />

l’iniziativa politica più efficace possib<strong>il</strong>e per dare<br />

una risposta ai bisogni dei lavoratori, dei ceti sociali più<br />

deboli e per tenere aperta una prospettiva di trasformazione,<br />

di alternativa di società. La prima cosa da fare è<br />

analizzare bene la realtà e compiere una corretta analisi<br />

<strong>della</strong> fase altrimenti, come purtroppo ha fatto <strong>il</strong> nostro<br />

partito (a Venezia e prima di Venezia), si commettono<br />

errori e ci si trova in difficoltà.<br />

La nostra analisi <strong>della</strong> fase, e <strong>il</strong> nostro giudizio su come bisognasse<br />

costruire l’unità <strong>della</strong> sinistra di alternativa e<br />

un’eventuale intesa di governo, oggi si rivela valida e confermata<br />

dai fatti, mentre quella <strong>della</strong> maggioranza non ha<br />

retto 2 . Vorrei ricordare, infatti, che si era teorizzato che:<br />

1) la nostra presenza al governo avrebbe impresso alla<br />

sua azione una svolta riformatrice, mentre ha prodotto,<br />

al contrario, una grave difficoltà per Rifondazione, come<br />

hanno dimostrato i dati negativi delle elezioni amministrative<br />

e <strong>il</strong> fallimento del sit in del 9 giugno;<br />

2) a differenza degli anni Novanta, si sarebbe potuta trovare<br />

una intesa di governo con questo centro-sinistra<br />

poiché esso si era spostato a sinistra; ci troviamo, al contrario,<br />

a fare i conti con la costruzione del Partito democratico<br />

che si colloca al centro e si distanzia sempre più<br />

dai bisogni dei lavoratori e dai valori <strong>della</strong> sinistra;<br />

3) la forza dei movimenti, in ogni caso, ci avrebbe aiutato<br />

e supportato nei passaggi più diffic<strong>il</strong>i, e invece ci<br />

siamo trovati a operare nel governo in una fase di riflusso<br />

dei movimenti.<br />

Inoltre, venne duramente attaccata la nostra proposta di<br />

unità d’azione e programmatica con le altre forze <strong>della</strong><br />

sinistra di alternativa poiché – si diceva – era necessario<br />

trattare direttamente con Prodi. Oggi, con grave ritardo,<br />

e quando ormai molti passaggi sono compromessi, si<br />

propone l’unità <strong>della</strong> sinistra di alternativa esattamente<br />

come la proponevamo noi. Infine, venne ridicolizzata la<br />

nostra proposta di concordare un programma breve e<br />

vincolante di pochi punti (i paletti). Oggi viene avanzata<br />

EDITORIALE<br />

con articoli e interviste (penso, per esempio, ai recenti<br />

interventi di Giuliano Pisapia e Cesare Salvi su «<strong>il</strong> manifesto»)<br />

come unica possib<strong>il</strong>ità per uscire dalle difficoltà<br />

in cui ci troviamo.<br />

Insomma: oggi paghiamo per intero non solo le difficoltà<br />

oggettive, che ci sono, ma anche <strong>il</strong> modo sbagliato con<br />

cui Rifondazione comunista è entrata prima nell’Unione<br />

(anzi nella Gad) e poi nella maggioranza e nel governo.<br />

A questo c’è da aggiungere un fatto: <strong>il</strong> partito non ha gestito<br />

adeguatamente <strong>il</strong> primo anno di presenza nella coalizione<br />

di governo. Solo nell’ultima fase si è cominciato a<br />

riconoscere che <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio di questi primi 15 mesi non è<br />

positivo. Per tutto <strong>il</strong> primo anno non solo si è teso a rimuovere<br />

le difficoltà, ma si sono sbandierati risultati<br />

positivi anche quando non c’erano. Tutti ricordano, a<br />

proposito di una Finanziaria assolutamente negativa, <strong>il</strong><br />

manifesto «anche i ricchi piangano»; oppure <strong>il</strong> giudizio<br />

positivo sui 12 punti di Prodi dopo la crisi di governo<br />

quando positivi non erano; oppure ancora la tesi, rivelatasi<br />

poi fasulla, che <strong>il</strong> voto favorevole al rifinanziamento<br />

<strong>della</strong> missione in Afghanistan si sarebbe potuto dare<br />

perché si era ottenuto una prima volta <strong>il</strong> comitato di monitoraggio,<br />

una seconda volta la conferenza di pace: risultati<br />

che, come è noto, non si sono mai concretizzati.<br />

Ritengo che fin da subito <strong>il</strong> partito avrebbe dovuto avere<br />

un atteggiamento più onesto dicendo apertamente ciò<br />

che andava e ciò che non andava. Ciò non è stato fatto e<br />

questi errori li abbiamo pagati duramente, come si è<br />

visto con <strong>il</strong> risultato elettorale delle amministrative.<br />

Da alcuni mesi, in particolare dalla conferenza di Carrara<br />

in poi, l’atteggiamento è cambiato, seppure in modo<br />

ancora insufficiente.<br />

Detto questo, cosa proponiamo di fare noi nei confronti<br />

del governo Prodi?<br />

La situazione è molto complessa e l’errore più grave è la<br />

semplificazione. Essa porta a due errori opposti che dobbiamo<br />

evitare. Il primo, che è quello che ha contraddistinto<br />

la maggioranza del partito nel primo anno di governo<br />

e che è ancora presente in una parte <strong>della</strong> maggioranza,<br />

è un atteggiamento di subalternità che porta a<br />

giustificare e ad accettare tutto quanto <strong>il</strong> governo propone.<br />

Il secondo, che è quello che contraddistingue Sinistra<br />

Critica e alcuni dei compagni che sono usciti dall’area, è<br />

incentrato sull’idea che si debba uscire dal governo. Sono<br />

due atteggiamenti che rifuggono dalla realtà: <strong>il</strong> primo<br />

perché la nasconde, <strong>il</strong> secondo perché con la sua azione<br />

non affronta la difficoltà, ma di fronte a essa scappa, producendo<br />

nei fatti uno scenario ancora più arretrato. Nel<br />

contesto nel quale ci troviamo a operare giocano molti<br />

fattori e noi dobbiamo considerarli tutti.<br />

3


4<br />

Questo governo, che noi giustamente critichiamo e al<br />

quale proponiamo un forte cambiamento, soprattutto<br />

sulle questioni economiche e sociali, è anche sotto attacco<br />

e sotto pressione da parte dei poteri forti. Dai tecnocrati<br />

europei alla Confindustria, dal «Corriere <strong>della</strong> Sera»<br />

alla Chiesa e agli Usa. L’ambasciatore statunitense in Italia<br />

è intervenuto pubblicamente tre volte per criticare le<br />

scelte del governo italiano. Si tratta di una ingerenza<br />

inaudita, come non si vedeva dall’immediato dopoguerra.<br />

Abbiamo visto inoltre, mentre si avvia a conclusione l’iter<br />

di costituzione del Partito democratico, le proposte di<br />

riassetto istituzionale di Veltroni e Rutelli che con una<br />

legge elettorale alla francese puntano a rendere ininfluente<br />

la sinistra dell’Unione, in primo luogo Rifondazione<br />

comunista. Tutto ciò avviene, come dice strumentalmente<br />

la componente moderata dell’Unione, perché<br />

Rifondazione comunista e la sinistra hanno condizionato<br />

<strong>il</strong> quadro politico? Purtroppo no. Le cose ottenute, che<br />

pure ci sono state (come per esempio <strong>il</strong> ritiro dei m<strong>il</strong>itari<br />

italiani dall’Iraq, una lotta all’evasione fiscale che comincia<br />

a dare frutti, le misure ottenute a proposito di sicurezza<br />

nei luoghi di lavoro, <strong>il</strong> contenimento delle privatizzazioni<br />

nel primo disegno di legge Lanz<strong>il</strong>lotta), non modificano<br />

sostanzialmente <strong>il</strong> senso di marcia del governo.<br />

Il fatto è che nemmeno <strong>il</strong> timido programma dell’Unione<br />

viene rispettato e quelle poche cose che potevano dare<br />

ai nostri referenti sociali <strong>il</strong> senso di una inversione di<br />

tendenza – dall’abolizione dello scalone alla restituzione<br />

del fiscal drag, dai Dico al superamento <strong>della</strong> legge 30 e<br />

<strong>della</strong> Bossi-Fini – non vengono attuati.<br />

Tutto ciò avviene poiché – dobbiamo riconoscerlo – non<br />

siamo ancora usciti dalla sconfitta iniziata alla fine degli<br />

anni Settanta. Stiamo vivendo una pesantissima offensiva<br />

dei padroni che non ha precedenti e a cui non si contrappone<br />

quasi nessuno. Il fatto che dopo un editoriale<br />

come quello di Giavazzi sul «Corriere» 3 , nel quale si<br />

propone di rendere precari tutti i lavoratori, vi sia stato <strong>il</strong><br />

s<strong>il</strong>enzio generale degli intellettuali e del mondo <strong>della</strong><br />

cultura conferma questa valutazione.<br />

Anche la reazione dei sindacati, <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> in particolare,<br />

è da tempo insufficiente e ciò ha pesato e pesa nei rapporti<br />

di forza tra le classi e anche tra le forze politiche e<br />

nel governo.<br />

Noi dobbiamo operare in questo groviglio di contraddizioni<br />

sapendo che ciò che ci chiede la nostra gente, soprattutto<br />

i lavoratori, non è far cadere <strong>il</strong> governo ma lottare<br />

per cambiare le sue scelte politiche. Questo è <strong>il</strong> punto<br />

e questo deve essere <strong>il</strong> nostro impegno per i prossimi<br />

mesi sui temi già all’ordine del giorno come pensioni e<br />

mercato del lavoro. Il percorso che abbiamo di fronte non<br />

è fac<strong>il</strong>e, ma ci sono anche le opportunità per fare questa<br />

battaglia fino in fondo, come dimostra l’importantissima<br />

presa di posizione del comitato centrale <strong>della</strong> Fiom. I<br />

protocolli sottoscritti da governo e sindacati devono essere<br />

modificati e per cercare di ottenerlo occorre la lotta<br />

e la mob<strong>il</strong>itazione, in Parlamento e nel paese.<br />

Questo deve essere <strong>il</strong> modo con cui noi ci rapportiamo al<br />

governo. Un approccio unitario ma anche, quando occorre,<br />

di conflitto teso alla realizzazione del programma<br />

con l’unità delle altre forze <strong>della</strong> sinistra disponib<strong>il</strong>i.<br />

Anche sulla base Dal Molin di Vicenza e sul rifinanziamento<br />

<strong>della</strong> missione in Afghanistan che ci sarà in gennaio,<br />

noi dobbiamo lavorare perché tutta la sinistra dell’Unione<br />

si mob<strong>il</strong>iti. Tra l’altro a favore di una ipotesi di<br />

exit strategy concorre <strong>il</strong> fatto che né <strong>il</strong> comitato di monitoraggio<br />

né la conferenza di pace sono state fatte e in Afghanistan,<br />

come ci ha confermato <strong>il</strong> rapporto Onu dei<br />

giorni scorsi, la produzione di droga ha toccato livelli<br />

mai raggiunti in passato.<br />

Lo stato del partito e <strong>il</strong> ruolo dell’area<br />

<strong>Essere</strong> comunisti<br />

Il partito vive da tempo una situazione di grave crisi tanto<br />

politica quanto organizzativa. Le cause risalgono indietro<br />

nel tempo e sono <strong>il</strong> prodotto di vari fattori di cui più volte<br />

abbiamo discusso e che hanno subìto una accelerazione<br />

alla fine degli anni Novanta.<br />

È stata attuata un’opera di rimozione <strong>della</strong> nostra storia.<br />

Non una riflessione sul nostro passato, quanto mai necessaria,<br />

la messa a tema di quella Rifondazione comunista<br />

mai fatta dal nostro partito e di cui abbiamo grande<br />

bisogno, ma – al contrario – una opera di azzeramento,<br />

che ha mortificato molti nostri compagni e ne ha allontanati<br />

altri. D’altra parte <strong>il</strong> ragionamento è molto semplice:<br />

se tutto quello che ha a che fare con <strong>il</strong> comunismo<br />

è una sequela di errori e orrori, perché iscriversi a un<br />

partito comunista e m<strong>il</strong>itare per esso?<br />

Noi abbiamo cercato di contrastare questa deriva, prima<br />

con un emendamento al V congresso, poi con una mozione<br />

alternativa al VI a cui abbiamo dato un nome – <strong>Essere</strong><br />

<strong>Comunisti</strong> – che ha voluto replicare anche simbolicamente<br />

a quell’attacco. Possiamo dirlo con orgoglio: se<br />

tanti compagni e compagne non se ne sono andati dal<br />

partito è perché hanno incontrato noi e hanno visto in<br />

noi una reazione efficace a quella offensiva.<br />

Questo lavoro dobbiamo continuarlo perché non siamo<br />

affatto disposti a rinunciare al nome e al simbolo di Rifondazione<br />

comunista, ma soprattutto riteniamo inaccettab<strong>il</strong>e<br />

che la storia comunista – che in questo paese è<br />

storia gloriosa – venga sommersa da falsità e revisioni-


smi. Il nostro impegno deve essere quello di una riflessione<br />

vera per capire dove si è sbagliato, per andare avanti<br />

senza rinunciare alla prospettiva di costruire una società<br />

socialista.<br />

Dall’altro lato, accanto a questo sistematico attacco alla<br />

nostra storia, si è spinto <strong>il</strong> partito non a stare nei movimenti,<br />

cosa ovviamente giusta, ma a identificarsi con una<br />

parte di esso, quella considerata più innovativa e interessante<br />

e cioè quella dei Disobbedienti di Luca Casarini. In<br />

quel periodo <strong>il</strong> gruppo dirigente di Rifondazione parlò di<br />

«nuova situazione rivoluzionaria», dell’esaurimento dei<br />

margini di riformismo, iniziò a considerare la Cg<strong>il</strong> un sindacato<br />

ormai privo di qualsiasi importanza e a lanciare la<br />

parola d’ordine <strong>della</strong> rottura <strong>della</strong> gabbia dell’Ulivo. Ed<br />

entrò non casualmente in sintonia con le tesi negriane<br />

dell’Impero e con quelle revelliane delle due destre.<br />

Contro chi, come noi, propose l’unità <strong>della</strong> sinistra di alternativa<br />

fioccarono le accuse di frontismo e moderatismo.<br />

E quando sostenemmo che <strong>il</strong> movimento era importante<br />

ma bisognava prestare attenzione anche al partito<br />

perché – come è naturale – i movimenti rifluiscono,<br />

ci accusarono né più né meno di essere contro i movimenti.<br />

Come sia finita lo sappiamo tutti. Nel volgere di<br />

una estate la politica di Rifondazione cambiò di 180<br />

gradi. Si abbandonarono i Disobbedienti e si decise di<br />

entrare nell’Unione e nel governo ancor prima di aver<br />

discusso <strong>il</strong> programma. Si passò, in sostanza, da un estremo<br />

all’altro.<br />

Queste sono le ragioni delle difficoltà di Rifondazione<br />

comunista. Qualsiasi partito politico che contemporaneamente<br />

subisce una costante rimozione del proprio<br />

prof<strong>il</strong>o identitario e un cambiamento di linea e di collocazione<br />

politica di 180 gradi non può che creare disorientamento,<br />

soprattutto nella propria base.<br />

Il dato nuovo, e dal nostro punto di vista positivo e interessante,<br />

è che si sta facendo largo anche nell’attuale<br />

gruppo dirigente nazionale la consapevolezza <strong>della</strong> necessità<br />

di modificare questa situazione cercando di instaurare<br />

un clima diverso nel partito. Ciò avviene prevalentemente<br />

per due motivi. Perché <strong>il</strong> fallimento di quella<br />

modalità di gestione è sotto gli occhi di tutti e perché noi<br />

siamo stati tenaci nel non abbandonare mai <strong>il</strong> campo nonostante<br />

nei nostri confronti – al centro e in periferia –<br />

siano state attuate pesantissime azioni di emarginazione<br />

e discriminazione.<br />

Questa nuova situazione – che va ancora verificata e consolidata<br />

– è frutto anche del nostro lavoro e <strong>della</strong> tenuta<br />

delle nostre posizioni politiche: dobbiamo considerarla<br />

frutto <strong>della</strong> nostra iniziativa politica.<br />

Essa sta alla base <strong>della</strong> scelta di fare una conferenza di or-<br />

EDITORIALE<br />

ganizzazione come è stata fatta a Carrara, quando, lungi dal<br />

ripercorrere lo schema di Venezia, quello dei documenti<br />

contrapposti, si è lavorato per un serio confronto, a partire<br />

dalla possib<strong>il</strong>ità di presentare emendamenti.<br />

È in questo passaggio che si è prodotto <strong>il</strong> contrasto al nostro<br />

interno con alcuni compagni che poi hanno lasciato<br />

l’area <strong>Essere</strong> comunisti. Abbiamo cercato di evitare in tutti i<br />

modi questo esito, ma, d’altra parte, non potevamo nemmeno<br />

non contrastare tesi che ci avrebbero portati in un<br />

vicolo cieco, senza sbocchi politici per la nostra iniziativa.<br />

Secondo questi compagni a Carrara avremmo dovuto presentare<br />

un documento alternativo. Ritengo che sarebbe<br />

stato un grave errore politico. In contrasto con la storia<br />

<strong>della</strong> nostra area, che non è mai stata quella di stare all’opposizione<br />

a prescindere e di costruire un partito nel partito,<br />

ma che, al contrario, ha sempre operato per cercare di<br />

intervenire sulle posizioni sbagliate per cambiarle.<br />

Questo obiettivo con la conferenza d’organizzazione, grazie<br />

anche al nostro contributo, è stato conseguito. Basta<br />

leggere <strong>il</strong> documento conclusivo per rendersene conto 4 .<br />

In esso si apre finalmente un discorso critico sul Governo,<br />

si propone di aprire una offensiva tesa a ottenere <strong>il</strong><br />

risarcimento sociale e, sul partito, si afferma con chiarezza<br />

che non è in discussione la sua identità politica,<br />

culturale e organizzativa.<br />

Se noi a Carrara avessimo presentato un documento alternativo<br />

ci saremmo isolati collocandoci al fianco di chi<br />

(come Sinistra Critica) alla Conferenza non ha nemmeno<br />

partecipato e quindi condannandoci a una logica di impotenza<br />

e marginalità.<br />

La nostra è una linea che opera per intervenire nelle contraddizioni<br />

presenti nella maggioranza cercando l’unità<br />

con la parte a noi più vicina. L’obiettivo è quello di trovare<br />

significativi punti di convergenza, come già è avvenuto in<br />

altri periodi <strong>della</strong> storia di Rifondazione comunista, sulla<br />

gestione del partito e sulla sua proposta politica.<br />

Il punto è se si ritiene Rifondazione comunista <strong>il</strong> partito<br />

nel quale si opera per cercare di migliorarlo o se si è con-<br />

5


6<br />

vinti che ormai non ci sia più nulla da fare e si pensa ad<br />

altro. Noi riteniamo che la battaglia sia aperta, l’esito non<br />

scontato e quindi l’iniziativa si deve sv<strong>il</strong>uppare dentro<br />

Rifondazione comunista. Il Prc è <strong>il</strong> luogo nel quale lavorare<br />

per cercare di costruire una forza politica con basi di<br />

massa e che si batte per una alternativa al capitalismo. Un<br />

corpo – quello del Prc – in trasformazione e trasformab<strong>il</strong>e<br />

su cui abbiamo influito in passato e possiamo influire<br />

oggi. Rifondazione comunista mantiene delle ambiguità<br />

feconde. In primo luogo perché tra i suoi obiettivi resta<br />

quello del superamento del capitalismo e in secondo<br />

luogo perché non ha rinunciato all’autonomia dai governi,<br />

anche se l’attuale esperienza con Prodi sta mettendo<br />

questa sua peculiarità a dura prova.<br />

Cosa manca al Prc? Tante cose, ma se dovessi fare una<br />

scala di priorità ne metterei una davanti a tutte. La presenza<br />

nella classe, <strong>il</strong> radicamento nel mondo del lavoro,<br />

l’assunzione dei problemi dei lavoratori come la bussola<br />

principale su cui orientare l’azione del partito. Dobbiamo<br />

ricostruire una presenza nel sindacato e nelle fabbriche.<br />

Perché <strong>il</strong> sindacato e le fabbriche ci sono ancora:<br />

siamo noi che non ce ne occupiamo più. Non sappiamo<br />

più nemmeno dove siano, salvo poi andarci prima delle<br />

elezioni e stupirci del disinteresse e <strong>della</strong> freddezza con<br />

cui veniamo accolti, come è avvenuto alla Fiat. Sapendo<br />

che una fabbrica è la Fiat, ma lo è anche un call center o<br />

un grande supermercato. Così come dobbiamo tenere<br />

presente che i migranti e i precari sono soggetti fondamentali<br />

su cui investire la nostra attività poiché su di loro<br />

è più intenso lo sfruttamento capitalistico.<br />

In questo contesto è strategica la tenuta <strong>della</strong> Fiom, perché<br />

è <strong>il</strong> sindacato che non ha rinunciato al conflitto e sappiamo<br />

che senza conflitto nessun progetto di trasformazione<br />

è ipotizzab<strong>il</strong>e. Ed è chiaro che, se sono importanti e<br />

vanno mantenuti i rapporti con i sindacati di base, noi<br />

dobbiamo lavorare prioritariamente sulla Cg<strong>il</strong>. Essa resta<br />

<strong>il</strong> sindacato nel quale si riconosce la stragrande maggioranza<br />

dei lavoratori e al suo interno è attiva una importante<br />

componente di sinistra. Il nostro partito deve avere<br />

l’ambizione di diventare <strong>il</strong> principale riferimento del<br />

mondo del lavoro e anche <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>. Su questo noi dobbiamo<br />

lavorare. Fare politica nella classe, costruirvi punti<br />

di riferimento, farli avanzare nell’area e nel partito.<br />

Anche altri sono i temi su cui lavorare per cambiare Rifondazione,<br />

ma ciò possiamo farlo con credib<strong>il</strong>ità se viviamo<br />

<strong>il</strong> rapporto con <strong>il</strong> partito come una cosa che ci appartiene,<br />

alle cui sorti siamo interessati e al quale diamo<br />

<strong>il</strong> nostro contributo.<br />

Io penso che la nostra area debba essere attaccata come<br />

un’edera al partito, entrare in tutte le sue pieghe, saper<br />

cambiare quando la situazione cambia. C’è <strong>il</strong> momento del<br />

contrasto. Abbiamo dimostrato di non sottrarci quando<br />

sono in gioco forti convincimenti e per questo, non per<br />

altro, siamo stati cacciati dalla Segreteria nazionale. Ma<br />

c’è anche <strong>il</strong> momento in cui se si apre uno spiraglio devi<br />

saperlo cogliere e modificare <strong>il</strong> tuo atteggiamento.<br />

Sì alla confederazione. No al superamento di Rifondazione<br />

comunista<br />

Ma se è sbagliata la posizione di chi dice che bisogna prepararsi<br />

per fare qualcosa a sinistra del Prc, altrettanto<br />

sbagliata è la tesi di chi propone di sciogliere Rifondazione<br />

comunista in un soggetto unico <strong>della</strong> sinistra.<br />

Sgombriamo subito <strong>il</strong> campo da una questione: noi siamo<br />

per l’unità, l’unità dei lavoratori, l’unità <strong>della</strong> sinistra,<br />

l’unità delle forze democratiche.<br />

Noi siamo sempre stati per l’unità, ma ciò che ci propongono<br />

– esplicitamente o meno esplicitamente – alcuni<br />

compagni di Rifondazione o di Sinistra democratica non è<br />

una proposta unitaria, ma lo scioglimento del partito in<br />

un soggetto genericamente di sinistra. Noi siamo contrari<br />

a questo progetto. Siamo per l’unità <strong>della</strong> sinistra, ma ci<br />

opponiamo al superamento di Rifondazione comunista.<br />

Tra l’altro, come si vede in questi giorni, tra noi e questi<br />

compagni con cui dovremmo fare un unico partito, emergono<br />

giudizi assai diversi su questioni r<strong>il</strong>evanti come l’accordo<br />

sulle pensioni o <strong>il</strong> protocollo sul welfare.


D’altra parte se in tutti questi anni con <strong>il</strong> compagno<br />

Mussi – dalla Bolognina alla concertazione, dalle leggi<br />

maggioritarie alla guerra in Kosovo – ci siamo trovati su<br />

posizioni diverse, ciò non è avvenuto per caso.<br />

Nonostante ciò lo sforzo unitario va perseguito. Stiamo<br />

parlando delle forze politiche a noi più vicine e dobbiamo<br />

pazientemente ricercare i contenuti su cui convergere, sapendo<br />

che abbiamo tanti punti in comune, ma anche differenze<br />

significative che non ci consentono di ipotizzare<br />

un unico partito. Le divergenze si addensano in particolare<br />

su due questioni, entrambe di carattere strategico.<br />

La prima: noi non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare<br />

alla Rifondazione comunista e non abbiamo nessuna<br />

intenzione di rinunciare ai nostri riferimenti internazionali.<br />

Non è un problema che riguarda <strong>il</strong> passato ma è<br />

un problema che guarda al futuro. Si tratta di capire se<br />

continuiamo a lavorare per costruire una forza politica <strong>il</strong><br />

cui orizzonte è <strong>il</strong> superamento del capitalismo e la costruzione<br />

<strong>della</strong> società socialista e che quindi opera per<br />

una trasformazione rivoluzionaria <strong>della</strong> società, oppure<br />

puntiamo a costruire una forza socialista di sinistra che<br />

lotta per correggere le ingiustizie più gravi del sistema in<br />

un meccanismo di alternanza. Sono due progetti molto<br />

diversi. Infatti – e qui è <strong>il</strong> secondo punto di divergenza<br />

strategica – <strong>il</strong> rapporto con <strong>il</strong> governo per questi compagni<br />

è un dato che non può essere messo in discussione,<br />

per noi non è così. Dipende dai contenuti e dalla misura<br />

in cui la nostra presenza è ut<strong>il</strong>e o meno a tenere aperta la<br />

costruzione dell’alternativa.<br />

La nostra proposta quindi è molto semplice: unità a sinistra<br />

e rafforzamento del Prc. Lavoriamo per costruire<br />

l’unità <strong>della</strong> sinistra nel Parlamento e nel paese sui contenuti,<br />

ma contemporaneamente lavoriamo per rafforzare<br />

<strong>il</strong> partito <strong>della</strong> Rifondazione comunista. Siamo disponib<strong>il</strong>i<br />

a tutte le formule organizzative che aiutino questo<br />

tipo di unità, come la confederazione, i coordinamenti<br />

dei gruppi istituzionali, le case <strong>della</strong> sinistra. Ma siamo<br />

contrari alla costruzione di gruppi unici, liste uniche alle<br />

elezioni politiche, partiti unici.<br />

In questi mesi su questo punto si è aperta una dialettica<br />

nella maggioranza del partito tra chi, come noi, pur in un<br />

processo unitario vuole mantenere l’autonomia di Rifondazione<br />

e chi concepisce <strong>il</strong> processo unitario come un<br />

percorso che alla fine prevede la costruzione di un nuovo<br />

partito politico che non sarebbe più un partito comunista.<br />

Quest’ultima posizione è stata contrastata da noi,<br />

dall’esito <strong>della</strong> Conferenza di Carrara, dal segretario nazionale<br />

e <strong>della</strong> maggioranza del gruppo dirigente. Successivamente,<br />

di fronte alla reazione del partito e ai fatti<br />

politici che andavano in un’altra direzione, chi nel parti-<br />

EDITORIALE<br />

to aveva proposto un suo superamento ha fatto un passo<br />

indietro. Ciò è avvenuto nella riunione <strong>della</strong> maggioranza<br />

a Segni e nel comitato politico nazionale di luglio 5 .<br />

Le questioni però potrebbero riproporsi e noi dobbiamo<br />

intervenire in questa dialettica che è una dialettica vera.<br />

In questo nuovo contesto dobbiamo continuare <strong>il</strong> nostro<br />

lavoro di area nel partito e impegnarci fin da subito perché<br />

si vada a un congresso che sia in continuità con lo<br />

spirito di Carrara e non con quello di Venezia. Un congresso<br />

che possa essere di confronto vero e non di contrapposizione<br />

a priori. <br />

* Stralci <strong>della</strong> relazione di Claudio Grassi all’assemblea nazionale di<br />

<strong>Essere</strong> <strong>Comunisti</strong>, Gubbio, 2 settembre 2007. La versione integrale è<br />

consultab<strong>il</strong>e all’indirizzo: www.esserecomunisti.it/index.aspx?m -<br />

=77&f=2&IDArticolo=18164.<br />

1. Curzio Maltese, «<strong>il</strong> Venerdì di Repubblica», 24 agosto 2007 (qui è<br />

possib<strong>il</strong>e leggere l’articolo integrale: www.esserecomunisti.it/index. -<br />

aspx?m=77&f=get_f<strong>il</strong>earticolo&IDArticolo=17798).<br />

2. È interessante r<strong>il</strong>eggere alcuni materiali del congresso scorso, come<br />

<strong>il</strong> documento <strong>della</strong> prima mozione<br />

(www.rifondazione.it/vi/documenti/mozione1.html), <strong>il</strong> nostro documento<br />

(www.esserecomunisti.it/in -<br />

dex.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=3387) e l’intervento di Claudio Grassi<br />

di presentazione <strong>della</strong> mozione al Centro Congressi Frentani di Roma <strong>il</strong><br />

27 novembre 2004 (www.esserecomunisti.it/ index. aspx?m=77&f= -<br />

2&IDArticolo=3401).<br />

3. La delusione dei più deboli, «Corriere <strong>della</strong> Sera», 26 agosto 2007.<br />

4. A quest’indirizzo è possib<strong>il</strong>e consultare <strong>il</strong> documento conclusivo<br />

<strong>della</strong> conferenza di Carrara: www.esserecomunisti.it/index.aspx?m -<br />

=77&f=2&IDArticolo=14869. Qui, invece, è possib<strong>il</strong>e leggere l’intervento<br />

di Claudio Grassi a Carrara: www.esserecomunisti.it/index.aspx?m -<br />

=77&f=2&IDArticolo=14871.<br />

5. Riportiamo per completezza anche <strong>il</strong> documento conclusivo del Cpn<br />

del 14 e 15 luglio (www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f= -<br />

get_f<strong>il</strong>earticolo&IDArticolo=17037) e la dichiarazione di voto di Claudio<br />

Grassi (www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArtico -<br />

7


8<br />

non cerchiamo scorciatoie<br />

AURELIO CRIPPA*<br />

In un clima di «crisi» <strong>della</strong> politica e di speculazione<br />

<strong>della</strong> (e sulla) medesima, dove una diffusa egemonia<br />

culturale che riduce la politica a pratica di governo,<br />

ad amministrazione, ad «affare interno» a oligarchie di<br />

partito e <strong>il</strong> rapporto con i cittadini a intrattenimento mediatico<br />

affidato ai talk show televisivi, la storia e le ragioni<br />

<strong>della</strong> sinistra rischiano di essere messi ai margini, <strong>il</strong><br />

conflitto sociale di esser considerato una patologia da<br />

estirpare, <strong>il</strong> mondo del lavoro di scomparire dalla scena<br />

politica. Nella regressione generalizzata dei diritti e delle<br />

garanzie di lavoro, <strong>il</strong> capitalismo torna ad assumere sembianze<br />

ottocentesche. Un nuovo proletariato abita l’Italia<br />

e l’Europa: le/i precarie/i.<br />

La precarietà introdotta per via legislativa include un numero<br />

di persone triplo rispetto a quello del resto d’Europa,<br />

a cui si aggiunge <strong>il</strong> lavoro nero (per l’Istat circa 4 m<strong>il</strong>ioni<br />

di disposizioni lavorative), quello dei collaboratori,<br />

dei circa 4 m<strong>il</strong>ioni di partite IVA, di cui una gran parte<br />

monocommittenti (quindi in una condizione di dipendenza<br />

economica). Non semplicemente uno spostamento<br />

a destra del quadro politico, ma un oscuramento delle<br />

idee-forza <strong>della</strong> sinistra, indotto dal progressivo smantellamento<br />

di un intero impianto concettuale e da un pesante<br />

sfondamento ideologico (tramonto delle ideologie,<br />

con l’affermazione dell’unica ideologia imperante, quella<br />

del cosiddetto «pensiero unico»), dal revisionismo<br />

storico, dalla demolizione scientifica e sistematica dei<br />

valori: al posto <strong>della</strong> solidarietà la competizione, al posto<br />

dell’uguaglianza la meritocrazia. E le responsab<strong>il</strong>ità non<br />

vanno individuate solo a destra.<br />

Dietro la formula «semplificare la democrazia» (per semplificare<br />

occorre ridurre, dice <strong>il</strong> vocabolario) una parte significativa<br />

di «ceto» politico, intellettuale, mediatico –<br />

che ritiene l’eccesso di democrazia e di complessità socia-<br />

le un ostacolo per la governab<strong>il</strong>ità – opera per meccanismi<br />

elettorali che riducano la rappresentanza a pochi e si basino<br />

sulla personalizzazione (si veda l’euforia per le primarie):<br />

come se i cittadini contassero di più, perché possono<br />

votare una persona anziché un programma.<br />

Così è oggi in atto un «lavorio» (a destra, al centro, a sinistra)<br />

sulla ricerca di nuove prospettive e alleanze. Preminente<br />

<strong>il</strong> suo carattere politicista e – ognuno a suo<br />

modo – evidente la volontà di seppellire <strong>il</strong> «partito di<br />

massa» e tutto quello che esso rappresenta: rapporto con<br />

la gente, partecipazione per far avanzare la politica. Lavorio<br />

politicista, manifesto nella ricerca di nuovi interpreti<br />

<strong>della</strong> politica, per esercitare leaderships pervicacemente<br />

personalizzate e di vertice. Ma anche, a suo modo,<br />

nell’«oltre Rifondazione»: per fare in fretta un nuovo<br />

soggetto unico di sinistra, a fronte <strong>della</strong> formazione del<br />

Partito democratico e in seguito a risultati elettorali negativi<br />

(una sommatoria per «stato di necessità»). Nella<br />

sua precipitazione organizzativistica (chissà perché la<br />

fine conclamata di un’esperienza dovrebbe accelerare un<br />

processo unitario) sta <strong>il</strong> suo politicismo, speculare a<br />

quello dei fondatori del Pd. Si vuole competere, in una<br />

visione che appare tutta governista. Vedo riecheggiare<br />

l’«oltre Pci» e ciò che prese avvio allora.<br />

Confermo la mia ost<strong>il</strong>ità di sempre all’idea che alle difficoltà<br />

si risponda con proposte politiciste. Ma a scanso di<br />

equivoci, chiarisco: andare «oltre» fa parte <strong>della</strong> ricerca<br />

di chi vuole migliorare, anche innovando; e quindi dell’essere<br />

e dell’agire delle/dei comuniste/i.<br />

* PRC-COMITATO POLITICO NAZIONALE


Il problema è non sbagliare meta: questo vedo nell’«oltre<br />

Rifondazione».<br />

Sarebbe bene che <strong>il</strong> Prc, la sinistra, prendessero coscienza<br />

che <strong>il</strong> vero problema che abbiamo di fronte è l’esaurimento<br />

di un lungo ciclo di cultura e impostazione politica,<br />

quello che ha trasformato la politica in pura tecnica di gestione<br />

del potere, separata dal sociale, priv<strong>il</strong>egiando decisionismo,<br />

verticalizzazione, concertazione, sacrificando<br />

ogni sede di rappresentanza e partecipazione.<br />

Non c’è bisogno di nessun «oltre» se con ciò si intende<br />

scioglimento, né di sommatorie per stato di necessità, né<br />

di perdite d’identità. C’è bisogno di un «fare» che recuperi<br />

<strong>il</strong> ruolo <strong>della</strong> politica rispetto all’economia, riconnetta<br />

a essa i temi sociali, riporti <strong>il</strong> baricentro <strong>della</strong> sua<br />

azione nella società, rioccupandosi dei suoi problemi, a<br />

partire dalle contraddizioni capitale-lavoro, all’interno<br />

delle quali ritroviamo questioni ambientali e di genere. I<br />

temi del lavoro salariato nelle vecchie e nuove forme.<br />

Un nuovo ciclo di cultura e impostazione politica che<br />

ponga fine alla mercificazione dei beni comuni, alla precarietà,<br />

alla privatizzazione delle risorse pubbliche che, nella<br />

gran parte dei casi, ha determinato un maggior costo per i<br />

cittadini, peggioramento di condizioni di lavoro, <strong>della</strong><br />

qualità dei servizi e dei prodotti. Un nuovo ciclo che riaffermi<br />

<strong>il</strong> valore delle lotte alle disuguaglianze, all’esclusione<br />

sociale, a vecchie e nuove povertà; avvii una redistribuzione<br />

del reddito verso <strong>il</strong> basso (negli ultimi 20 anni, la ricchezza<br />

si è spostata in modo massiccio – 10 punti – dal<br />

lavoro alla rendita), conduca con forza e sistematicità una<br />

lotta agli sprechi, all’evasione fiscale (ci sono tasse da abbassare,<br />

a partire da quelle sul lavoro, e tasse da aumentare:<br />

quella sulla rendita, con franchigia per tutelare i piccoli<br />

risparmiatori). Occorre riconquistare <strong>il</strong> ruolo programmatorio<br />

dello Stato, in un ridisegno <strong>della</strong> una struttura<br />

produttiva che tenga conto del fatto che, per quanto <strong>il</strong><br />

perno dell’industria si sia ridotto, essa continua a essere <strong>il</strong><br />

motore delle economie più avanzate (sv<strong>il</strong>uppo delle forze<br />

produttive per <strong>il</strong> soddisfacimento dei bisogni).<br />

Vanno riproposte l’idea e la pratica <strong>della</strong> pace, del disarmo,<br />

<strong>della</strong> cooperazione fra i popoli; <strong>della</strong> laicità, proteggendola<br />

da incursioni di fondamentalismi che usano la<br />

religione come clava per veicolare discriminazioni, conflitti,<br />

guerre, presunte superiorità culturali.<br />

Resistere è d’obbligo, ma non basta. Non è ipotizzab<strong>il</strong>e<br />

per noi comuniste/i annullare l’idea e la speranza di<br />

cambiamento e trasformazione <strong>della</strong> società. Dobbiamo<br />

avere capacità e forza per riproporre in maniera più vasta<br />

l’idea gramsciana di «egemonia», attraverso un’azione<br />

politica e sociale che si riproponga come momento di<br />

riorganizzazione <strong>della</strong> democrazia partecipata, coinvol-<br />

EDITORIALE<br />

gendo nella ricerca, con pari dignità, tutte/i coloro che<br />

sono disponib<strong>il</strong>i a ridefinire un pensiero critico.<br />

Sul «che fare» – ma anche su ciò che siamo, vogliamo e<br />

possiamo diventare – è opportuno promuovere una<br />

grande campagna di massa, evitando <strong>il</strong> pericolo (oggi<br />

presente), che anche <strong>il</strong> giusto progetto dell’unità a sinistra<br />

si riduca a un fatto verticistico.<br />

È indubitab<strong>il</strong>e (sarei meravigliato del contrario) che nel<br />

popolo di sinistra vi sia una richiesta di unità, che va<br />

ascoltata e accolta. Ma reputo forzata l’interpretazione, la<br />

tesi, che questa sia un avallo a un’operazione che cancelli<br />

l’identità dei singoli Partiti: e con essa tradizioni, culture<br />

politiche ancor oggi differenti. Nella società contemporanea<br />

siamo in presenza di una pluralità di soggettività<br />

politiche (costituitesi anche su parzialità), che<br />

sarebbe un azzardo pensare di voler ridurre «a uno». Un<br />

conto è la necessità di un’alleanza, di una coalizione elettorale,<br />

un altro voler appiattire l’identità di tutte/i. In<br />

questa seconda modalità la politica non appassiona, perché<br />

non è azione di trasformazione ma solo raccolta di<br />

«consenso»; e, certamente, così non si recupera la spoliticizzazione<br />

intervenuta in questi anni, <strong>il</strong> profondo disagio<br />

del popolo di sinistra e del paese.<br />

La presente richiesta di unità parte dai contenuti e ci chiede<br />

di unire le forze, a livello parlamentare e nel paese, per<br />

contrastare, cambiare una politica economica e sociale non<br />

corrispondente alle aspettative, dando così vita a un’azione<br />

che possa esser guardata come una «forza» in grado di incidere<br />

in direzione degli interessi popolari, attraverso concreti<br />

processi di cambiamento. Quindi unità d’azione e<br />

contestualmente <strong>il</strong> «fare» per <strong>il</strong> processo unitario a sinistra:<br />

per una soggettività che, per essere unitaria al plurale,<br />

deve avere necessariamente connotati confederali. Una<br />

soggettività nella quale, oggi, convivono, cooperano e si<br />

confrontano esperienze e paradigmi diversi.<br />

Il Prc sia motore autentico di questo processo, mettendo,<br />

al pari di altri e con pari dignità, a disposizione di esso i<br />

propri valori identitari.<br />

Avverto oggi come ieri (all’atto <strong>della</strong> nascita del Prc) la<br />

necessità, l’attualità dell’esigenza che permanga e anzi si<br />

sv<strong>il</strong>uppi una forza politica organizzata, autonoma, comunista,<br />

che leghi alle battaglie politiche dell’immediato un<br />

progetto di trasformazione <strong>della</strong> società capitalistica. Si<br />

tratta non soltanto di un’enunciazione ideologica ma di<br />

una constatazione politica degli eventi: tanto da riportare<br />

nella sinistra, al centro <strong>della</strong> scena politica, la questione<br />

del socialismo.<br />

Per questo, va rapidamente sconfitto <strong>il</strong> tentativo in atto di<br />

mettere in soffitta i deliberati <strong>della</strong> Conferenza d’organizzazione,<br />

<strong>il</strong> progetto del «partito che si fa società»,<br />

9


10<br />

l’alter ego del partito altro, di massa, degli anni Novanta.<br />

La coraggiosa e giusta autocritica sui fallimenti del V°<br />

Congresso – autoriforma – e del VI Congresso – investimento<br />

sul governo, come passaggio strategico per l’alternativa<br />

di società – ha aperto una fase nuova nella vita interna<br />

del partito, favorita anche dalla diffusa consapevolezza<br />

che una sommatoria di parti separate (correnti) non<br />

forma un’organizzazione.<br />

Per affermare questa nuova fase e nel contempo essere<br />

protagonisti delle vicende politiche e del processo di<br />

unità d’azione a sinistra, occorrono scelte urgenti: in primis,<br />

procedere al recupero dell’insediamento e del radicamento<br />

del partito, <strong>il</strong> quale deve essere ancorato saldamente<br />

alla società, ai luoghi del conflitto, organizzato nei<br />

luoghi di lavoro e di studio, nei territori, presente nelle<br />

organizzazioni/associazioni di massa, sindacali, culturali,<br />

di categoria, nei movimenti.<br />

I Circoli devono essere riconcepiti non come terminali di<br />

un apparato burocratico, ma come luoghi dove si esercita<br />

<strong>il</strong> «saper fare», la capacità di entrare in rapporto con<br />

tutti i soggetti <strong>della</strong> società, i movimenti, per realizzare<br />

una forma più alta <strong>della</strong> politica, non separata dai contenuti,<br />

dalla partecipazione democratica e non delegata.<br />

L’esigenza è più partito, non meno partito. Con un agire<br />

che non sia né la pura cancellazione del passato, né <strong>il</strong> suo<br />

culto nostalgico.<br />

Nessun rigurgito di atteggiamenti settari, ma l’idea del<br />

partito come strumento di identità e di autonomia politico-culturale,<br />

così come è nell’elaborazione di Gramsci. A<br />

fondamento, i valori <strong>della</strong> democrazia e del pluralismo, da<br />

esplicarsi entro un sistema di norme chiare, trasparenti,<br />

condivise: le differenti opinioni sono un arricchimento<br />

per tutte/i se non si sclerotizzano in correnti. Poiché, in<br />

tal caso, la democrazia pluralista finisce per priv<strong>il</strong>egiare la<br />

dialettica e <strong>il</strong> confronto «di vertice», anziché coinvolgere<br />

l’insieme del partito. La vita interna deve essere strutturata<br />

in modo da garantire a tutte le differenze piena cittadinanza,<br />

agib<strong>il</strong>ità, libertà di esprimersi, possib<strong>il</strong>ità di<br />

contare. Deve essere riconosciuta l’esistenza di due soggetti<br />

– uomini e donne – e le loro tematiche, <strong>il</strong> loro pensiero<br />

e protagonismo, devono contare realmente. Va ricostruita<br />

l’organizzazione dei Giovani comunisti, garantendo<br />

loro gli spazi politici che competono alla loro specifica<br />

condizione, alle tematiche <strong>della</strong> loro realtà. La caratteristica<br />

di massa sta nel modo di essere e di agire nella politica,<br />

oltre che nel numero di iscritte/i, nel saper dare<br />

ampio spazio alle relazioni con l’insieme <strong>della</strong> società.<br />

In un’ansia di «modernizzazione» ma anche di nuova legittimazione<br />

«occidentale», <strong>il</strong> marxismo è stato derubricato<br />

alla condizione di «dottrina obsoleta», anche da<br />

parte dell’intellettualità di sinistra. La realtà parla d’altro:<br />

<strong>il</strong> marxismo di Marx, la sua elaborazione teorico-politica<br />

costituisce <strong>il</strong> punto più alto <strong>della</strong> critica all’economia<br />

capitalistica. Le difficoltà con cui misurarsi sono<br />

tante e non dobbiamo nascondercele: con tutto ciò, vale<br />

la pena di provarci. Non ci sono scorciatoie, però: e<br />

l’esperienza storica (vedi i fallimenti delle varie «nuove<br />

sinistre») sta lì a dimostrarlo.


MASSIMO DE SANTI*<br />

Tutte le basi<br />

disseminate sul territorio<br />

italiano sono state<br />

installate tramite accordi<br />

segreti stipulati tra Italia<br />

e Usa, con grave<br />

limitazione <strong>della</strong> nostra<br />

sovranità territoriale e<br />

politica. Su questi temi è<br />

cresciuta una sensib<strong>il</strong>ità<br />

politica di massa. La<br />

manifestazione vicentina<br />

del 17 febbraio non è stata<br />

solo la classica<br />

manifestazione contro la<br />

guerra; è stata una<br />

manifestazione per la Pace<br />

Preventiva Contro la<br />

Guerra Infinita di Bush e<br />

dei suoi alleati<br />

* MEMBRO DEL PATTO NAZIONALE DI<br />

SOLIDARIETÀ E MUTUO SOCCORSO<br />

Il quadro politico internazionale<br />

PACE E GUERRA<br />

guerra permanente e basi m<strong>il</strong>itari<br />

due facce di una stessa medaglia<br />

Con la fine <strong>della</strong> «guerra fredda» e l’instaurarsi di un nuovo mondo unipolare<br />

a dominio Usa, <strong>il</strong> quadro politico internazionale è diventato sempre<br />

più complesso, minaccioso e insicuro per la maggioranza dell’umanità. Si<br />

è imposta, infatti, la nuova f<strong>il</strong>osofia <strong>della</strong> guerra preventiva che ha moltiplicato i<br />

conflitti armati, con la conseguente ripresa di una vertiginosa corsa agli armamenti<br />

convenzionali, accompagnata dalla costruzione e sperimentazione di armi<br />

sempre più raffinate nella loro tecnologia di morte. Ancora una volta, di fronte<br />

alla crisi economica mondiale, l’Occidente risponde su due livelli: m<strong>il</strong>itare e mediatico.<br />

Prima inventa un presunto conflitto di civ<strong>il</strong>tà e poi attiva tutti i pretesti<br />

per promuovere la guerra a livello planetario, in primo luogo contro quei paesi<br />

che sono ricchi di materie prime, come <strong>il</strong> petrolio e <strong>il</strong> gas naturale, oppure di quel<br />

prezioso bene comune che si chiama acqua. Non è affatto azzardato affermare<br />

che è in corso la terza guerra mondiale, iniziata nel 1991 con la Prima guerra del<br />

Golfo: anche se i politologi di regime non lo hanno mai ammesso. Eppure si<br />

erano già levate prestigiose voci che cercavano di aprirci gli occhi sugli scenari<br />

mondiali che si stavano prof<strong>il</strong>ando. Noam Chomsky ha sin dall’inizio espresso<br />

una valutazione lapidaria: la guerra globale di Bush divorerà <strong>il</strong> pianeta. Lo<br />

stesso Ramsey Clark, giurista americano ed ex ministro <strong>della</strong> Giustizia all’epoca<br />

di Carter – oltre che promotore e Presidente del Tribunale Contro i<br />

Crimini di Guerra commessi dagli Stati Uniti in Iraq – ebbe a dire nel 1992<br />

che l’imperialismo americano, imponendo gli Usa come unica potenza economico-m<strong>il</strong>itare<br />

al governo del mondo, aveva inaugurato l’era dell’unipolarismo.<br />

Nel 1991, durante la prima fase del mondo unipolare, gli Usa aspiravano ancora<br />

a salvarsi la faccia di fronte all’opinione pubblica mondiale e, per legittimare<br />

la guerra, fecero entrare in gioco l’Onu, corrompendo vari paesi col<br />

ricatto del debito estero. Oggi, invece, in quella che possiamo chiamare la<br />

seconda fase dell’unipolarismo americano, l’Onu viene sistematicamente<br />

scavalcata e chiamata solo a legittimare a posteriori l’accaduto. Il diritto internazionale,<br />

prima violato attraverso l’artifizio di una interpretazione pro<br />

domo americana, ora è violato direttamente e a ripetizione col tipico modo<br />

sprezzante di chi non teme alcuna ritorsione. E la guerra viene «santificata»<br />

grazie al monopolio dei potenti apparati mediatici f<strong>il</strong>o-occidentali. La guerra<br />

planetaria in corso, è sfuggita alla gestione delle stesse potenti lobbies internazionali<br />

che l’hanno scatenata e che ora hanno difficoltà a contenerla o<br />

fermarla. La situazione è fuori controllo: si veda l’Iraq dove gli Usa sono impantanati<br />

in un conflitto armato, che di fatto hanno perso sia sul piano politico<br />

che su quello m<strong>il</strong>itare. La stessa cosa vale per l’Afghanistan: là dove<br />

c’era la convinzione euforica <strong>della</strong> vittoria, la guerra si ripresenta invece su<br />

vasta scala sotto la sorprendente direzione dei talebani che erano dati per<br />

scomparsi e sconfitti.<br />

11


12<br />

Ma d’altra parte solo gli arroganti<br />

Stati Uniti d’America, accecati dalla<br />

megalomania dell’invincib<strong>il</strong>ità, potevano<br />

pensare, ancora una volta, che<br />

i popoli rimanessero passivi di fronte<br />

alla tragedia di una folle guerra di<br />

sterminio. La ribellione all’ingiustizia<br />

è <strong>il</strong> risultato di una precisa dinamica<br />

di eventi che genera, in chi subisce<br />

continue sopraffazioni, un incontenib<strong>il</strong>e<br />

desiderio di riscatto <strong>della</strong> propria<br />

identità, in nome del diritto di ognuno<br />

a una vita dignitosa. Al livello dei<br />

popoli, tale istanza è giustamente<br />

sancita e ribadita nel Preambolo <strong>della</strong><br />

Dichiarazione Universale dei Diritti<br />

dell’Uomo (Onu 1948), al terzo<br />

comma, e passa sotto <strong>il</strong> nome di «diritto<br />

alla ribellione». Pertanto, in Afghanistan,<br />

in Iraq o in qualsiasi altro<br />

luogo del pianeta vittima di una oppressione,<br />

la presenza di una resistenza<br />

organizzata è inevitab<strong>il</strong>e.<br />

L’unipolarismo di oggi a guida Usa<br />

ha trasformato la guerra in una<br />

sorta di normalità giustificata da finalità<br />

etiche, essendo ut<strong>il</strong>izzata<br />

come <strong>il</strong> miglior mezzo di prevenzione<br />

di tutti i mali dell’umanità. Ne<br />

consegue che l’economia, la scienza,<br />

la tecnologia, l’informazione e le<br />

stesse relazioni internazionali vengono<br />

ut<strong>il</strong>izzate per massimizzare la<br />

capacità distruttiva di un apparato<br />

politico-m<strong>il</strong>itare sempre più potente,<br />

che vuole governare <strong>il</strong> pianeta in<br />

ogni sua dimensione e in ogni suo<br />

spazio territoriale. La Terza guerra<br />

mondiale, in corso per fasi, sta subendo<br />

ora un’accelerazione inaudita<br />

che non solo interessa le aree dei<br />

vecchi conflitti, come la regione me-<br />

Tra i primi firmatari del Patto Nazionale di<br />

Solidarietà e Mutuo Soccorso si ricordano oltre ai NO<br />

TAV, NO MOSE, NO PONTE, le Reti Contro i<br />

Rigassificatori e gli Inceneritori, i vari Comitati che<br />

lottano Contro le Basi M<strong>il</strong>itari e in particolare <strong>il</strong><br />

Comitato NO Dal Molin contro l’allargamento <strong>della</strong> base<br />

Usa di Vicenza<br />

diorientale d<strong>il</strong>aniata dalla drammatica<br />

questione palestinese, ma si<br />

estende anche a nuovi territori del<br />

pianeta, soprattutto in Africa. È in<br />

questo quadro che la Russia di Putin<br />

ha recentemente denunciato <strong>il</strong> sistema<br />

antimiss<strong>il</strong>e che gli Usa vogliono<br />

installare in Polonia e nella Repubblica<br />

Ceca, ammonendo che <strong>il</strong> cosiddetto<br />

scudo spaziale è una provocatoria<br />

operazione bellica contro la<br />

Russia e <strong>il</strong> mondo intero e rappresenta<br />

un pericolo per la pace e la distensione<br />

internazionale. La risposta<br />

russa allo scudo spaziale consiste<br />

nella minaccia di puntare i miss<strong>il</strong>i a<br />

testata nucleare verso l’Europa, se <strong>il</strong><br />

progetto Usa dovesse andare avanti.<br />

Prima che sia troppo tardi, prima di<br />

entrare nella fase del non ritorno, la<br />

politica deve intervenire urgentemente<br />

per cambiare rotta e bloccare<br />

questa logica autodistruttiva. Occorre<br />

riprendere <strong>il</strong> cammino concreto<br />

del disarmo nucleare e dell’eliminazione<br />

degli arsenali m<strong>il</strong>itari nucleari<br />

e di qualsiasi altro tipo di armi di distruzione<br />

di massa (chimiche, batteriologiche<br />

ecc.).<br />

Il movimento contro la guerra e <strong>il</strong><br />

ruolo delle basi m<strong>il</strong>itari straniere<br />

in Italia<br />

In questo quadro, dobbiamo affrontare<br />

la questione del ruolo delle basi<br />

m<strong>il</strong>itari straniere in territorio italiano,<br />

che <strong>il</strong> movimento contro la<br />

guerra indica come prioritaria e urgente<br />

ma che purtroppo ancora non<br />

è entrata come tema centrale nell’agenda<br />

politica. Riconvertire le<br />

basi m<strong>il</strong>itari straniere a usi civ<strong>il</strong>i non<br />

solo è un obbligo etico verso l’umanità,<br />

ma anche un obbligo sociale e<br />

economico in una situazione di crisi<br />

del nostro paese. Lo stesso discorso<br />

vale per la riduzione progressiva<br />

delle spese m<strong>il</strong>itari dei nostri soldati<br />

all’estero: non si può continuare a<br />

tagliare le spese sociali, per poi aumentare<br />

scandalosamente quelle<br />

m<strong>il</strong>itari del 13% – 15% come è avvenuto<br />

recentemente.<br />

L’Italia è <strong>il</strong> paese europeo che ha <strong>il</strong><br />

maggior numero di basi: se ne calcolano<br />

circa 180. Esse di fatto sono<br />

funzionali al ruolo degli Usa come<br />

gendarme planetario, soprattutto rispetto<br />

ai paesi del Medio Oriente.<br />

Ma, da questo punto di vista, dobbiamo<br />

includere nel conto i sottomarini<br />

nucleari che transitano nei<br />

nostri mari senza piani di sicurezza<br />

in caso di incidente e <strong>il</strong> cui computo<br />

è fuori da qualsiasi trattato internazionale.<br />

La vicenda collegata alla richiesta<br />

Usa dell’allargamento-raddoppio<br />

<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare Dal Molin<br />

a Vicenza è stata un ulteriore banco<br />

di prova <strong>della</strong> nostra politica. Prodi<br />

e <strong>il</strong> ministro degli Esteri, incapaci di<br />

ascoltare le ragioni <strong>della</strong> grande manifestazione<br />

del 17 febbraio 2007,<br />

non hanno saputo far tesoro <strong>della</strong><br />

splendida lezione di democrazia testimoniata<br />

dai manifestanti e non<br />

hanno voluto tradurre le istanze del<br />

popolo pacifista in azioni politiche<br />

concrete. A seguito di questa insufficienza<br />

politica, <strong>il</strong> conflitto nel<br />

paese è destinato ad allargarsi a<br />

tutta la questione delle basi m<strong>il</strong>itari<br />

straniere, Usa e Nato, presenti in<br />

Italia. Si pensi ad Aviano, con le sue


50 testate nucleari; o a Camp Darby (Livorno/Pisa), la<br />

base m<strong>il</strong>itare logistica Usa più grande d’Europa, con lo<br />

stoccaggio non solo di armi convenzionali ma anche di<br />

armi di distruzione di massa. Tutte le basi disseminate<br />

sul territorio italiano sono state installate tramite accordi<br />

segreti stipulati tra Italia e Usa, con grave limitazione<br />

<strong>della</strong> nostra sovranità territoriale e politica.<br />

Su questi temi è cresciuta una sensib<strong>il</strong>ità politica di<br />

massa. La manifestazione vicentina del 17 febbraio non<br />

è stata solo la classica manifestazione contro la guerra;<br />

più specificatamente, essa è stata una manifestazione per<br />

la «Pace preventiva contro la guerra infinita di Bush e<br />

dei suoi alleati». La stessa grande manifestazione del 9<br />

giugno a Roma, che ha visto la partecipazione di 150<br />

m<strong>il</strong>a persone contro la presenza di Bush in Italia, è da<br />

considerarsi uno spartiacque tra chi pensa che è ancora<br />

ut<strong>il</strong>e rimanere sudditi <strong>della</strong> politica estera Usa e chi, invece,<br />

vuole liberarsi delle basi m<strong>il</strong>itari straniere Usa e<br />

Nato. In queste mob<strong>il</strong>itazioni un ruolo importante è<br />

stato svolto dal Patto nazionale di solidarietà e mutuo<br />

soccorso costituitosi <strong>il</strong> 14 luglio 2006, nella sala <strong>della</strong><br />

protomoteca del Campidoglio a Roma, a conclusione<br />

<strong>della</strong> carovana NO TAV Venaus-Roma, a cui avevano<br />

aderito comitati, reti, movimenti, gruppi che si battono<br />

contro la logica delle «grandi opere». È la dimostrazione<br />

che la solidarietà paga e che la sovranità del nostro<br />

paese deve ritornare nelle mani del popolo. Come ci ricorda<br />

la partigiana Teresa Mattei, la più giovane parlamentare<br />

che partecipò ai lavori <strong>della</strong> Costituente, «l’essenza<br />

<strong>della</strong> sovranità è nella partecipazione». Tra i primi<br />

firmatari del Patto nazionale di solidarietà e mutuo soccorso<br />

si ricordano oltre ai NO TAV, NO MOSE, NO<br />

PONTE, le reti contro i rigassificatori e gli inceneritori, i<br />

vari comitati che lottano contro le basi m<strong>il</strong>itari e in particolare<br />

<strong>il</strong> comitato NO Dal Molin contro l’allargamento<br />

<strong>della</strong> base Usa di Vicenza.<br />

L’analisi del Patto di Mutuo Soccorso è chiara: l’Italia,<br />

disseminata di basi m<strong>il</strong>itari Usa e Nato, è di fatto una<br />

grande base logistica funzionale alla guerra preventiva e<br />

permanente, dettata dalla logica <strong>della</strong> globalizzazione<br />

economica che attiva <strong>il</strong> terrore su scala planetaria. Interpreti<br />

primi di questa f<strong>il</strong>osofia di morte sono gli Usa, ma<br />

PACE E GUERRA<br />

anche gli stati europei (e tra loro l’Italia), che affiancandosi<br />

a una sim<strong>il</strong>e politica di guerra rischiano di diventarne<br />

corresponsab<strong>il</strong>i. Nel nostro paese si verifica l’assurdo<br />

che, invece di riconvertire le attuali basi straniere a usi<br />

civ<strong>il</strong>i, come richiesto dal movimento pacifista, si accetta<br />

serv<strong>il</strong>mente <strong>il</strong> progetto Usa di ampliare le proprie basi in<br />

territorio italiano, come nel caso di Vicenza, magari per<br />

<strong>il</strong> prossimo annunciato attacco contro l’Iran, colpevole di<br />

voler sv<strong>il</strong>uppare l’uso pacifico dell’energia nucleare. Ciò<br />

è assurdo e contraddittorio. Si dice che l’Iran potrebbe<br />

costruire la bomba atomica. Ma gli Usa, che fanno questa<br />

accusa, hanno già arsenali pieni di armi di distruzione<br />

di massa, incluse bombe atomiche e al neutrone, capaci<br />

di distruggere più volte l’intero pianeta.<br />

Il variegato popolo pacifista che ha manifestato a Vicenza<br />

contro la base m<strong>il</strong>itare Usa e <strong>il</strong> 9 giugno a Roma contro<br />

la presenza di Bush – e che continuerà a manifestare<br />

in Italia contro le basi di Camp Darby, di Aviano e di<br />

tutte le altre località per la loro riconversione a usi civ<strong>il</strong>i<br />

– non è fatto di visionari, ma unicamente di uomini e<br />

donne coscienti <strong>della</strong> gravità <strong>della</strong> posta in gioco per <strong>il</strong><br />

presente e <strong>il</strong> futuro dei propri figli e dell’intera umanità.<br />

Nell’epoca del neoliberismo globalizzato le guerre sono<br />

diventate la norma per risolvere le controversie internazionali,<br />

l’industria bellica è <strong>il</strong> motore centrale dell’economia<br />

mondiale nonché la fonte primaria di inquinamento<br />

e di rapina delle risorse naturali. La stessa specie umana,<br />

così come denunciato a livello internazionale dagli scienziati<br />

del Bollettino scienziati atomici (Ong statunitense)<br />

è a rischio di estinzione: le lancette dell’orologio <strong>della</strong><br />

catastrofe si sono spostate in avanti di due minuti e <strong>il</strong><br />

quadrante simbolico <strong>della</strong> fine del mondo è passato da<br />

sette a cinque minuti prima <strong>della</strong> mezzanotte. Dal 17<br />

gennaio 2007 gli scienziati sostengono che l’ora zero<br />

<strong>della</strong> fine del mondo è più vicina. E <strong>il</strong> grande astrofisico<br />

Stephen Hawking ha affermato che i cambiamenti cli-<br />

13


14<br />

matici costituiscono una minaccia molto più grave del<br />

terrorismo, tanto enfatizzato dall’occidente.<br />

È dunque fondamentale dire un chiaro NO alle grandi<br />

opere inut<strong>il</strong>i, dannose e pericolose, a partire dalle basi<br />

m<strong>il</strong>itari, in quanto strumenti planetari di distruzione e di<br />

morte. Primario, per <strong>il</strong> Patto nazionale di mutuo soccorso,<br />

è <strong>il</strong> diritto alla preventiva informazione e partecipazione<br />

attiva dei cittadini alle scelte in merito a ogni intervento<br />

si voglia operare sui territori in cui essi vivono,<br />

condividendo <strong>il</strong> principio in base al quale i beni comuni<br />

(acqua, terra, aria, energia) devono essere tutelati, sempre<br />

e comunque, a partire dalle istituzioni locali. Il Governo<br />

in carica dovrebbe dar prova di maggiore saggezza,<br />

sospendendo l’autorizzazione agli Usa per l’ampliamento<br />

<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare Dal Molin, aprendo un Tavolo<br />

di confronto nazionale e coinvolgendo le associazioni e i<br />

movimenti, al fine di affrontare l’urgente questione <strong>della</strong><br />

presenza delle basi m<strong>il</strong>itari straniere nel nostro paese.<br />

Sarebbe, questa, una pratica di democrazia vera e auten-<br />

tica, che finalmente rinuncerebbe a trincerarsi formalmente<br />

dietro trattati internazionali, obsoleti e tenuti <strong>il</strong>legalmente<br />

segreti al nostro Parlamento.<br />

Un interrogativo di fondo è infatti sin qui rimasto senza<br />

risposta: perché la Nato deve sopravvivere, anche se sono<br />

venute a mancare le ragioni storiche e politiche <strong>della</strong> sua<br />

esistenza come alleanza m<strong>il</strong>itare difensiva decisa nel<br />

1949? Il muro di Berlino e <strong>il</strong> Patto di Varsavia non ci<br />

sono più. È sotto gli occhi di tutti la trasformazione <strong>della</strong><br />

Nato da patto difensivo ad alleanza m<strong>il</strong>itare «offensiva»<br />

secondo un’ottica di prevenzione, finalizzata a garantire<br />

all’Occidente la sicurezza delle fonti energetiche e a tutelare<br />

i suoi interessi economico-politici nonché <strong>il</strong> suo modello<br />

di democrazia. Tutto questo è stato decretato in un<br />

Summit del 1999 e si colloca totalmente al di fuori dell’art.<br />

5 dell’atto costitutivo del Patto Atlantico. Da sempre<br />

la Nato è stata p<strong>il</strong>otata dagli Usa, ma col nuovo ordine<br />

internazionale unipolare inaugurato dopo <strong>il</strong> 1989 ciò si è<br />

manifestato in modo eclatante. Non a caso, l’attuale Capo<br />

m<strong>il</strong>itare <strong>della</strong> Nato è un generale statunitense. Nei Balcani<br />

la Nato ha sostituito l’Onu, in Afghanistan ha scatenato<br />

la prima guerra preventiva, effettuando bombardamenti<br />

criminali e insediando basi m<strong>il</strong>itari che mirano direttamente<br />

a minacciare l’Iran. La Nato ha elaborato una<br />

nuova visione del concetto di «minaccia», che si è esteso<br />

a tal punto da includere i fondamentalismi e l’Aids; per<br />

questa via, si è arrivati ad autorizzare strutture di cooperazione<br />

umanitaria sotto <strong>il</strong> controllo m<strong>il</strong>itare Nato (PRT).<br />

Un tale ampliamento di nuove e arbitrarie sfere di intervento<br />

Nato dovrebbe imporre una seria riflessione sulla<br />

necessità di mantenere o meno <strong>il</strong> Patto Atlantico. Occorrerebbe<br />

anche interrogarsi sul perché l’Italia debba rimanere<br />

suddita <strong>della</strong> politica bellicista e neoimperiale Usa e<br />

sul perché l’Europa non riesca a elaborare in tempi rapidi<br />

una sua autonoma politica di difesa rispetto al modello<br />

americano.<br />

In definitiva, sulla questione delle basi m<strong>il</strong>itari straniere<br />

è in gioco la sovranità territoriale e politica dell’Italia<br />

dettata dalla Costituzione, la nostra stessa dignità nazionale<br />

e <strong>il</strong> nostro ruolo etico di paese di pace nel Mediterraneo<br />

e nel mondo. Secondo quanto recita l’articolo 11<br />

<strong>della</strong> nostra costituzione: «L’Italia ripudia la guerra».


VALDEMARO BALDI*<br />

Le basi m<strong>il</strong>itari<br />

americane oggi esistenti<br />

in Italia godono del<br />

diritto di<br />

extraterritorialità, <strong>il</strong> che<br />

significa che <strong>il</strong> territorio<br />

che occupano è sottratto<br />

alla giurisdizione<br />

italiana, in forza di un<br />

trattato di diritto<br />

internazionale col quale<br />

lo Stato italiano ha<br />

rinunciato alla propria<br />

sovranità sul territorio<br />

medesimo in favore degli<br />

Stati Uniti<br />

* PRC-COLLEGIO DI GARANZIA NAZIONALE<br />

PACE E GUERRA<br />

base m<strong>il</strong>itare a Vicenza<br />

la Costituzione è un optional<br />

La dottrina costituzionalistica più recente ha definito <strong>il</strong> territorio dello<br />

Stato come «<strong>il</strong> luogo <strong>della</strong> sovranità statale entro <strong>il</strong> quale lo Stato dispone<br />

dello jus excludendi alios» (cfr. Livio Paladin, Diritto Costituzionale,<br />

Padova 1998). Secondo questa dottrina l’esercizio del diritto di escludere gli<br />

altri viene assunto come criterio per l’individuazione del territorio di uno<br />

Stato per cui si può dire che <strong>il</strong> territorio statuale coincide con quello dove<br />

materialmente lo Stato esercita la propria sovranità. Deriva da ciò, per corollario,<br />

che <strong>il</strong> passaggio di sovranità da uno Stato all’altro sopra una porzione<br />

di territorio importa una variazione territoriale che può essere definitiva o<br />

temporanea a seconda dei casi.<br />

Le cause che determinano la variazione di sovranità, e quindi di territorio,<br />

sono di varia natura e vanno dall’occupazione violenta all’accordo pattizio.<br />

Entro questi estremi si trova una ampia casistica che non è qui <strong>il</strong> caso di<br />

esaminare. Vogliamo invece soffermarci sugli accordi pattizi, che si concretizzano<br />

in trattati internazionali, per i quali uno Stato cede a un altro Stato<br />

porzioni di territorio su cui lo stato cedente non esercita più la propria sovranità<br />

per sempre o per un periodo determinato.<br />

Il caso più noto, per le violazioni dei diritti umani che vi si compiono – ma<br />

anche perché rappresenta un caso limite per <strong>il</strong> tipo di accordo internazionale<br />

che lì è stato fatto – è la base m<strong>il</strong>itare americana di Guantanamo dove la sovranità<br />

è stata ceduta dallo Stato di Cuba agli Stati Uniti nel 1903 (trattato<br />

rinnovato nel 1934) per un periodo indeterminato <strong>il</strong> cui termine è lasciato<br />

alla decisione degli americani di andarsene. Recentemente la Corte Suprema<br />

degli Stati Uniti ha riconosciuto che la base di Guantanamo è territorio sul<br />

quale gli Stati Uniti esercitano «controllo e giurisdizione esclusiva». In definitiva<br />

la rinuncia pattizia all’esercizio di sovranità su di un territorio da<br />

parte di uno Stato a favore di un altro concreta una variazione territoriale<br />

dello stato cedente.<br />

È possib<strong>il</strong>e questo nel nostro ordinamento? È possib<strong>il</strong>e.<br />

Le basi m<strong>il</strong>itari americane oggi esistenti in Italia godono del diritto di extraterritorialità,<br />

<strong>il</strong> che significa che <strong>il</strong> territorio che occupano è sottratto alla<br />

giurisdizione italiana, in forza di un trattato di diritto internazionale col<br />

quale lo Stato italiano ha rinunciato alla propria sovranità sul territorio medesimo<br />

in favore degli Stati Uniti. Trattati di questa natura la nostra Costituzione<br />

li ammette all’art. 80 che recita: «Le Camere autorizzano con legge<br />

la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono<br />

arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od<br />

oneri alle finanze o modificazioni di leggi».<br />

La Costituzione consente quindi alle variazioni territoriali (id est <strong>della</strong> sovranità<br />

nazionale) dello Stato italiano: alla condizione che la ratifica del trattato<br />

internazionale che le prevede sia autorizzata dal Parlamento «con legge».<br />

Nel nostro ordinamento cioè la dismissione di sovranità su una porzione di<br />

15


16<br />

territorio nazionale non è lasciata alla decisione del Governo,<br />

ma deve essere autorizzata con un provvedimento<br />

legislativo primario – la legge – dopo un dibattito parlamentare<br />

e un voto di Camera e Senato.<br />

Ora, se rapportiamo tutto quanto detto sopra alle vicende<br />

<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare americana di Vicenza, vediamo<br />

due cose: la prima è che <strong>il</strong> raddoppio dell’estensione territoriale<br />

<strong>della</strong> base, determinando una dismissione di sovranità,<br />

costituisce una variazione di territorio; la seconda<br />

è che a questa variazione territoriale corrisponde un<br />

onere finanziario dello stato italiano non fosse altro perché<br />

sottrae terreni e costruzioni ed<strong>il</strong>izie all’imposizione<br />

fiscale. In ambedue i casi siamo di fronte alla fattispecie<br />

prevista dall’art.80 <strong>della</strong> Costituzione.<br />

Ma allora sorge una domanda: con quale legge <strong>il</strong> Parlamento<br />

ha autorizzato <strong>il</strong> Governo alla ratifica dell’accordo<br />

col quale si consente di ampliare territorialmente la base<br />

m<strong>il</strong>itare americana di Vicenza?<br />

La domanda non riguarda solo questo governo, ma<br />

anche quelli precedenti e la risposta ha valenze diverse a<br />

seconda di chi deve rispondere. Perché, se <strong>il</strong> governo attuale<br />

ha trattato con gli Stati Uniti per ampliare la base,<br />

deve presentarsi in Parlamento con una proposta di legge<br />

di ratifica dell’accordo; se invece a trattare è stato <strong>il</strong> governo<br />

Berlusconi e lo ha fatto senza presentare <strong>il</strong> testo<br />

dell’accordo alle Camere per ottenerne l’autorizzazione<br />

alla ratifica, ha violato la Costituzione e perciò gli accordi<br />

presi non hanno alcun valore giuridico e l’attuale governo<br />

Prodi non è tenuto a rispettarli. Continuare a insistere,<br />

come si è fatto ancora in questi giorni, che la questione<br />

<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare americana di Vicenza è solo un<br />

problema urbanistico, non ha senso; si tratta di un problema<br />

che prima di essere urbanistico (ed è anche quello)<br />

è tanto politico da investire persino la correttezza costituzionale<br />

dei governi.<br />

Sarebbe bene che si richiedesse una risposta convincente<br />

anche su questo versante <strong>della</strong> questione. <br />

LETTERA APERTA<br />

DALLA REPUBBLICA CECA<br />

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente lettera aperta<br />

di Jan Neoral, sindaco del comune di Trokavec, a Tomas<br />

Klvaňa, portavoce del governo <strong>della</strong> Repubblica Ceca e responsab<strong>il</strong>e<br />

per la promozione dell’installazione del radar Usa sul<br />

territorio ceco. Si tratta di un significativo documento che testimonia<br />

del duro confronto in atto nel suddetto paese su un tema<br />

che – come nello scorso numero <strong>della</strong> nostra <strong>rivista</strong> ha ricordato<br />

Giulietto Chiesa – al di là dell’impatto interno costituisce un<br />

delicatissimo snodo per l’Europa e, in generale, per le prospettive<br />

di pace.<br />

Mr. Klvaňa, lei sta mentendo!<br />

Egregio Signore, la stampa ha reso noto che lei intende<br />

far visita ai sindaci e ai rappresentanti delle municipalità<br />

dell’area di Brdy, mirando a superare le loro resistenze<br />

all’installazione di un radar Usa. Nello stesso tempo, la<br />

stampa ci informa del fatto che pubblico e giornalisti sarebbero<br />

esclusi dalle relative trattative; e che lei ha rifiutato<br />

di spiegarne la ragione. Si tratta di una manifestazione<br />

di arroganza senza precedenti, al pari del diniego <strong>della</strong> democrazia<br />

e del diritto all’informazione.<br />

Come sindaco di questa cittadina, ho <strong>il</strong> dovere di mantenere<br />

rapporti di comunicazione con gli organismi statuali<br />

<strong>della</strong> Repubblica Ceca: questi – anche se mentono al<br />

popolo, non rispettano le loro stesse promesse e non<br />

tengono in alcun conto l’opinione di quasi i tre quarti<br />

dei cittadini di questo paese – purtuttavia sono stati eletti<br />

in modo democratico. Ma io non sono affatto obbligato<br />

ad avere rapporti con lei in quanto direttore <strong>della</strong> British<br />

American Tobacco, con lei che da nessuna parte è<br />

stato eletto dai cittadini. Non sono obbligato a interloquire<br />

con chi, sulla base del suo contratto ed essendo retribuito<br />

con pubblico denaro (dunque con le tasse che<br />

noi paghiamo), vuol costringere la popolazione ad accettare<br />

un impianto su cui grava <strong>il</strong> serio sospetto di arrecare<br />

danno alla salute delle persone e all’ambiente circostante;<br />

nonché di mettere in pericolo, per <strong>il</strong> suo impatto internazionale,<br />

le loro case e la loro sicurezza.<br />

Signor portavoce, lei sta mentendo. Lei ripete le bugie<br />

dette dal nostro governo e da alcuni politici. E offende noi<br />

sindaci: come quando, sul quotidiano on line «Popular<br />

Newspaper» lo scorso 10 luglio 2007, ha commentato in<br />

termini ingiuriosi sia <strong>il</strong> passato che la cosiddetta retorica<br />

dei sindaci che si oppongono al radar.<br />

Per tutto questo, io respingo la sua visita, le chiedo di<br />

non far visita alla nostra municipalità. Noi non accettiamo<br />

di trattare con lei.<br />

Jan NEORAL, Sindaco del comune di Trokavec


CARLOTTA NAO*<br />

L’uranio impoverito è<br />

un metallo pesante,<br />

radioattivo, ad alta<br />

capacità piroforica: un<br />

materiale perfetto per<br />

costruire ordigni bellici.<br />

Ed ecco come smaltire i<br />

rifiuti tossici radioattivi a<br />

costo zero: fabbricando<br />

ordigni da <strong>scarica</strong>re<br />

lontano dal luogo dove<br />

sono prodotti<br />

* COLLABORATRICE PARLAMENTARE<br />

PACE E GUERRA<br />

economia<br />

all’uranio impoverito<br />

Riceviamo (da Franca Rame e Carlotta Nao) e volentieri pubblichiamo l’articolo<br />

seguente<br />

Èpossib<strong>il</strong>e immaginare una differenza tra un soldato ucciso durante<br />

una missione all’estero da un colpo d’arma da fuoco o da un attentato,<br />

e uno che si consuma lentamente tra le mura domestiche e sotto<br />

gli occhi dei suoi fam<strong>il</strong>iari a causa dell’uranio impoverito che l’ha contaminato<br />

in «Missione di pace»? Il primo torna in patria in un feretro tricolore,<br />

con funerali di stato e indennizzi alla famiglia; <strong>il</strong> secondo invece, spesso rimane<br />

senza neppure una lapide, senza risarcimenti, senza onori. Alle volte<br />

arriva l’aumento dei gradi, una promozione a titolo onorario, quando <strong>il</strong> soldato<br />

è già deceduto.<br />

Anche la morte ha un’economia: i fam<strong>il</strong>iari dei carabinieri deceduti a Nassirya<br />

ricevono risarcimenti cospicui, che le famiglie con perdite a causa dell’uranio<br />

non hanno: in alcuni casi hanno ricevuto indennizzi pari a 258,23<br />

euro al mese. La morte non guarda in faccia nessuno, ma la Difesa sì: si sceglie<br />

da sola gli «eroi <strong>della</strong> patria», è necessario morire con onore. Consumarsi<br />

con dolore non basta.<br />

Lasciando a margine <strong>il</strong> tema delle missioni all’estero, del loro carattere sempre<br />

più offensivo e belligerante, concentriamo l’attenzione sui m<strong>il</strong>itari, i quali<br />

poco più che ventenni, per convinzione, e molto più spesso per assenza di valide<br />

opportunità di lavoro, si arruolano, partono in missione. Sei mesi, uno,<br />

due anni, e al loro ritorno li attende una bella cifra, con la quale pianificare<br />

qualche passo di futuro: una casa, una macchina, un matrimonio. Un ventenne<br />

ha molte aspirazioni per la testa, ma di certo raramente ha sentito parlare<br />

di DU238 Depleted Uranium. È l’uranio impoverito, scarto <strong>della</strong> lavorazione<br />

dell’uranio «U-235», usato per la produzione di energia nucleare a scopi civ<strong>il</strong>i.<br />

Tutti i paesi che ut<strong>il</strong>izzano centrali atomiche hanno <strong>il</strong> problema di smaltire<br />

le scorie, ma <strong>il</strong> costo è altissimo e le procedure molto meticolose. L’uranio<br />

impoverito è un metallo pesante, radioattivo, ad alta capacità piroforica:<br />

un materiale perfetto per costruire ordigni bellici. Ed ecco come smaltire i rifiuti<br />

tossici radioattivi a costo zero: fabbricando ordigni da <strong>scarica</strong>re lontano<br />

dal luogo dove sono prodotti. Noi esportiamo democrazia: le vittime civ<strong>il</strong>i e i<br />

rifiuti nucleari sono un piccolo sovrapprezzo. Ma, si sa, nulla è gratis!<br />

Non importa se una risoluzione dell’Onu ne vieta l’ut<strong>il</strong>izzo in campo bellico,<br />

non importa se <strong>il</strong> Pentagono, nel 1978, dopo averli sperimentati nel poligono<br />

m<strong>il</strong>itare di Heglin dice: «<strong>il</strong> materiale prelevato ed esaminato post esplosione ha<br />

evidenziato la presenza di un particolato talmente sott<strong>il</strong>e che potrebbe provocare seri<br />

danni a chi lo respira senza alcuna protezione». Una diagnosi che non lascia<br />

scampo e diventa un boccone prelibato per chi con la vita ha un rapporto<br />

distaccato e superbo: la nuova frontiera è sperimentare gli effetti sugli uomi-<br />

17


18<br />

ni. La guerra del Golfo è l’occasione<br />

giusta.<br />

I risultati sono devastanti: cancro,<br />

leucemie, gravissime patologie, feti<br />

malformati non solo tra i civ<strong>il</strong>i che<br />

abitano i territori bombardati, ma<br />

anche tra gli stessi m<strong>il</strong>itari americani.<br />

Constatata la grande pericolosità<br />

delle munizioni all’uranio impoverito,<br />

lo stesso Pentagono produce e distribuisce<br />

a tutti gli alleati una videocassetta<br />

in cui si <strong>il</strong>lustra come individuare<br />

un obiettivo colpito da uranio<br />

impoverito, come proteggersi e come<br />

procedere alla bonifica del posto in<br />

cui si trova l’oggetto.<br />

Sono importanti questi indirizzi,<br />

soprattutto per gli alleati che si<br />

troveranno a operare con gli Stati<br />

Uniti che ut<strong>il</strong>izzano queste armi.<br />

Scoppia <strong>il</strong> conflitto in Bosnia Erzegovina,<br />

i Balcani diventano un teatro<br />

di guerra importante dal punto<br />

di vista di «sperimentazione attiva»:<br />

30.000 tonellate di uranio impoverito<br />

vengono <strong>scarica</strong>te sul suolo <strong>della</strong><br />

ex Repubblica di Jugoslavia.<br />

Siamo nel ‘99, in Italia la situazione<br />

politica interna è incerta, <strong>il</strong> governo<br />

D’Alema è combattuto tra americanisti<br />

e anti-americanisti, ci si arrovella<br />

sull’interpretazione dell’articolo<br />

11 <strong>della</strong> Costituzione: l’Italia ripudia<br />

la guerra? Oppure se si partecipa<br />

sotto l’egida <strong>della</strong> Nato è una guerra<br />

giusta?<br />

Nel frattempo nelle caserme non si<br />

sta a pensare: la partenza è alle<br />

porte. Avvengono vaccinazioni di<br />

massa, una sull’altra, senza rispettare<br />

protocolli e norme, si affastella<br />

l’organizzazione <strong>della</strong> missione e si lasciano a casa le protezioni per l’uranio<br />

impoverito (tute, guanti, maschere), non c’è tempo neppure per istruire i<br />

soldati a riconoscere i rischi legati all’uranio; nessuno dice loro di non avvicinarsi<br />

ai proiett<strong>il</strong>i esplosi e alle cariatidi colpite da proiett<strong>il</strong>i all’uranio, come<br />

<strong>il</strong>lustra l’opuscolo distribuito dagli americani agli Stati Maggiori degli alleati.<br />

I vertici <strong>della</strong> difesa erano quindi al corrente, ma l’informazione non è arrivata<br />

ai ragazzi in missione.<br />

Sono oggi 542 i soldati italiani ammalati, quarantasette quelli già deceduti di<br />

cui si ha notizia, è fuori dubbio che vi siano molti altri casi. Nel s<strong>il</strong>enzio assordante<br />

delle istituzioni, che non vogliono ammettere di aver inviato truppe<br />

allo sbaraglio senza alcuna informazione né protezione. Nessuno intende<br />

farsi carico <strong>della</strong> responsab<strong>il</strong>ità dei danni provocati, e quindi non vengono<br />

erogate le pensioni, né sono fornite le cure necessarie. Da una parte c’è l’apparato<br />

m<strong>il</strong>itare che si nasconde dietro un muro di omertà invocando <strong>il</strong> segreto<br />

m<strong>il</strong>itare, dall’altra la politica che lascia cadere l’istanza, chi perché riceve<br />

finanziamenti dai costruttori d’armamenti, chi perché era al Governo al<br />

tempo in cui si approvarono le missioni.<br />

Già, i m<strong>il</strong>itari. E i civ<strong>il</strong>i? Che dire dei civ<strong>il</strong>i residenti nei paesi coinvolti dai<br />

bombardamenti all’uranio? Iraq, Kosovo, Bosnia e Afghanistan rimarranno<br />

contaminati per m<strong>il</strong>ioni di anni. Chi è sopravvissuto ai bombardamenti,<br />

dovrà sfidare acque e terreni avvelenati, lotterà per non avere figli malformati,<br />

contro leucemie e tumori: accade che da quelle parti non esistano solamente<br />

perché spesso non c’è nessuno che possa diagnosticarli. E noi, che<br />

abbiamo donato la gioia <strong>della</strong> «democrazia occidentale», voltiamo le spalle.<br />

Da ultimo, vogliamo menzionare una buona notizia. C’è uno Stato che ha deciso<br />

di assumersi la responsab<strong>il</strong>ità delle sue azioni: <strong>il</strong> Belgio, nel marzo di<br />

quest’anno, ha messo al bando l’uso dell’uranio impoverito. Speriamo sia capof<strong>il</strong>a<br />

di una lunga serie di paesi, tra i primi <strong>il</strong> nostro.<br />

Infine una riflessione. Fare la guerra rimarrà un business fino a quando i<br />

conflitti alimenteranno le ricchezze delle lobby degli armamenti e gli Stati<br />

non saranno chiamati a farsi carico dei costi di bonifica e decontaminazione<br />

dei territori avvelenati con armi di questo tipo, oltre che dei danni inferti<br />

alle vittime civ<strong>il</strong>i. Se è vero che <strong>il</strong> mondo politico come lo conosciamo si<br />

muove in funzione di capitali, allora è necessario impegnarsi affinché chi inquina,<br />

devasta, uccide e bombarda, paghi.<br />

È stata aperta una sottoscrizione in aiuto degli ammalati da uranio impoverito<br />

e le loro famiglie. A oggi sono stati raccolti oltre 26.000 euro. Ogni contributo,<br />

di qualsiasi cifra, sarà prezioso. Grazie. Conto corrente per la sottoscrizione<br />

in favore delle vittime dell’Uranio Impoverito: ccp n. 78931730 intestato<br />

a Franca Rame e Carlotta Nao ABI 7601 – CAB 3200 Cin U.


DINO GRECO*<br />

L’impegno elettorale<br />

assunto nei confronti dei<br />

tanti giovani (e non solo)<br />

che sono costretti ad<br />

attraversare le forche<br />

caudine del lavoro senza<br />

senso umoristico definito<br />

«atipico», si è così<br />

convertito in una sorta di<br />

manutenzione ordinaria<br />

<strong>della</strong> legislazione<br />

esistente. Abbiamo presto<br />

capito che nulla di<br />

sostanziale sarebbe mutato<br />

e che avremmo ancora<br />

dovuto fare i conti, in<br />

Italia, con quel monstrum<br />

giuridico che è <strong>il</strong><br />

lavoratore<br />

«parasubordinato», una<br />

figura né carne né pesce,<br />

sconosciuta nel resto<br />

d’Europa<br />

* GGIL-DIRETTIVO NAZIONALE<br />

POLITICA ED ECONOMIA<br />

pensioni e welfare<br />

implosione sociale e sinistra «in cerca d’autore»<br />

1Quando, sino a poco meno di due anni fa, governava <strong>il</strong> centrodestra, la<br />

sinistra moderata spiegava che una cosa era <strong>il</strong> «pacchetto Treu» (la<br />

flessib<strong>il</strong>ità «buona») e un’altra la legge«30», foriera di precarietà nel lavoro<br />

e, specularmente, nella vita. Il programma dell’Unione tentò in seguito<br />

di andare oltre l’una e l’altra, cogliendo la necessità di una più profonda revisione<br />

<strong>della</strong> legislazione in materia di mercato del lavoro, tale da porre<br />

qualche argine a un rapporto fra lavoro e capitale platealmente sb<strong>il</strong>anciato a<br />

favore di quest’ultimo. Poi, una volta al governo, l’intento riformatore è andato<br />

progressivamente sfocandosi sotto i colpi di freno <strong>della</strong> Confindustria e<br />

di quella parte del sindacato che avendo condiviso <strong>il</strong> «patto per l’Italia» non<br />

se ne era mai pentita. L’impegno elettorale assunto nei confronti dei tanti<br />

giovani (e non solo) che sono costretti ad attraversare le forche caudine del<br />

lavoro senza senso umoristico definito «atipico», si è così convertito in una<br />

sorta di manutenzione ordinaria <strong>della</strong> legislazione esistente. Abbiamo presto<br />

capito che nulla di sostanziale sarebbe mutato e che avremmo ancora dovuto<br />

fare i conti, in Italia, con quel monstrum giuridico che è <strong>il</strong> lavoratore «parasubordinato»,<br />

una figura né carne né pesce, sconosciuta nel resto d’Europa,<br />

un «ircocervo», come ebbe a definirlo, ricorrendo a un’immagine mitologica,<br />

<strong>il</strong> compianto Giorgio Ghezzi. Di più. Si è cominciato a spiegare che<br />

non è <strong>della</strong> flessib<strong>il</strong>ità, in quanto organica e funzionale a un buon funzionamento<br />

dell’impresa moderna, che bisogna preoccuparsi, quanto piuttosto del<br />

sistema degli ammortizzatori sociali, da noi alquanto povero per qualità ed<br />

estensione. E pazienza se, al dunque, come abbiamo visto, anche su questo<br />

terreno si è investito ben poco, diciamo una somma pari a quella che <strong>il</strong> solo<br />

finanziere bresciano Chicco Gnutti ha frodato al fisco dimenticando di pagare<br />

le tasse sulla vendita di Telecom a Tronchetti Provera. Il cuore del ragionamento<br />

sta infatti in questo: lo Stato, la legislazione non debbono irrigidire<br />

i rapporti di lavoro, perché ciò che è razionale per l’impresa lo è anche per<br />

l’economia e per <strong>il</strong> paese. Al punto che persino istituti scarsamente o per<br />

nulla ut<strong>il</strong>izzati dai datori di lavoro, come <strong>il</strong> lavoro a chiamata (job on call), o<br />

<strong>il</strong> lavoro somministrato a tempo indeterminato (staff leasing), dei quali <strong>il</strong> governo<br />

aveva data per certa l’abolizione, continuano a sopravvivere, insieme<br />

alla vergognosa reiterab<strong>il</strong>ità ad libitum dei rapporti di lavoro a termine, condanna<br />

inestinguib<strong>il</strong>e dei forzati <strong>della</strong> precarietà. Insomma, la nuova linea<br />

<strong>della</strong> politica governativa in materia di mercato del lavoro è che quel che si<br />

può fare lo si fa – se lo si fa – a valle del processo produttivo, mai e poi mai<br />

con un intervento disturbante dei rapporti di produzione, di potere di cui<br />

l’impresa è e deve rimanere <strong>il</strong> solo soggetto regolatore. Non dovrà sorprendere<br />

se, su questa scia, prima o poi tornerà in auge l’attacco allo statuto dei<br />

lavoratori e a quell’articolo 18 che solo qualche anno fa la Cg<strong>il</strong> e i lavoratori<br />

hanno difeso con le unghie e con i denti. In conclusione, appare chiaro<br />

come la legge del 2003 si muova lungo una linea di sostanziale continuità<br />

19


20<br />

con quella del ’98. Quest’ultima ne ha rappresentato,<br />

per così dire, l’archetipo. Poi, la destra, su quelle fondamenta,<br />

con metodica ferocia, ha innalzato un edificio di<br />

venti piani. Ma le coordinate erano già tracciate. Ecco allora<br />

che la politica che sta prevalendo nel governo è<br />

quella di un blairismo in sedicesimo: poco welfare e persino<br />

poco workfare, molta flex e poca security.<br />

2Veniamo alla partita delle pensioni. Il confronto fra<br />

governo e sindacati ha avuto qualcosa di surreale,<br />

perché la realtà, i dati di fatto, i conti dell’Inps, le proiezioni<br />

di spesa, depurate da quanto di arbitrario e di palesemente<br />

contraffatto era presente nelle posizioni dell’esecutivo,<br />

non hanno avuto alcun peso nel negoziato. Da<br />

quel tavolo sono scomparsi <strong>il</strong> merito, l’argomentazione rigorosa.<br />

La discussione, destituita di ogni serietà contab<strong>il</strong>e,<br />

è stata sin dall’inizio condizionata, anzi, sovradeterminata<br />

dall’imperativo che un nuovo intervento strutturale sul<br />

sistema pensionistico doveva essere assolutamente realizzato.<br />

La perfidia ideologica con cui <strong>il</strong> Fmi, la Banca centrale,<br />

la Banca d’Italia, l’Unione europea e, ovviamente,<br />

la Confindustria hanno incessantemente battuto su quel<br />

chiodo, ha avuto <strong>il</strong> sopravvento. Ancora una volta, quel<br />

programma dell’Unione che dimostrava – si badi, in un<br />

quadro economico ancora stagnante se non addirittura<br />

recessivo – come non esistesse un problema di sostenib<strong>il</strong>ità<br />

finanziaria del sistema pensionistico italiano, quanto<br />

piuttosto un grave problema di sostenib<strong>il</strong>ità sociale, viene<br />

progressivamente rimosso. La riforma «Maroni», <strong>il</strong> cosiddetto<br />

«scalone», non sarà più da abolire, ma, semplice-<br />

mente, da «ammorbidire»: non è più in discussione la<br />

linea di marcia, ma soltanto <strong>il</strong> tempo entro <strong>il</strong> quale d<strong>il</strong>uirla.<br />

In realtà, abbiamo visto come sia l’intero impianto dell’accordo<br />

del 23 luglio che fa acqua: l’età pensionab<strong>il</strong>e, a<br />

regime, nel 2013, sarà comunque di 61 anni, ma comporterà<br />

un requisito contributivo di 36 anni, superiore di un<br />

anno a quello fissato dalla legge «Maroni»; requisito quest’ultimo<br />

che varrà anche per la platea dei cosiddetti lavoratori<br />

«usurati», poiché lo sconto di tre anni a essi concesso<br />

agisce sull’età anagrafica, ma non su quella contributiva!<br />

La stessa possib<strong>il</strong>ità di coniugare in modo variab<strong>il</strong>e<br />

età anagrafica ed età pensionab<strong>il</strong>e (le cosiddette «quote»),<br />

così da rispondere flessib<strong>il</strong>mente a diverse esigenze dei<br />

pensionandi è stata talmente edulcorata da risultare impalpab<strong>il</strong>e.<br />

Ancora: le finestre d’uscita per quanti andranno<br />

in pensione con i quarant’anni di contribuzione vengono<br />

riportate a quattro, ma l’identico meccanismo varrà<br />

anche, d’ora in poi, per le pensioni di vecchiaia, in quanto<br />

è scritto, nero su bianco, che l’operazione deve essere<br />

compiuta a costo zero e che, dunque, l’una misura deve<br />

compensare l’altra. E i giovani, a proposito dei quali sono<br />

state somministrate dosi massicce di retorica? Si ricorderà<br />

la polemica sui coefficienti di rivalutazione delle pensioni,<br />

secondo <strong>il</strong> governo da ritoccare verso <strong>il</strong> basso, mentre sarebbe<br />

necessario un percorso esattamente inverso, visti gli<br />

effetti devastanti sulle rendite pensionistiche future di<br />

quanti sconteranno <strong>il</strong> micidiale «mix» fra sistema di calcolo<br />

contributivo e precarizzazione/sottocontribuzione del<br />

lavoro. Bene: al riguardo l’accordo prevede l’apertura di<br />

un confronto che dovrebbe (<strong>il</strong> condizionale non è di chi<br />

scrive, ma del testo) determinare una protezione delle<br />

pensioni più basse, collocandole a una soglia prossima al<br />

60% <strong>della</strong> retribuzione ma, contemporaneamente, si fa<br />

riferimento a un tetto di spesa complessiva ridotto del 6-<br />

8%. Come sarà possib<strong>il</strong>e, allora, elevare la rendita pensionistica<br />

con meno risorse? Evidentemente, non si potrà!<br />

Insomma, l’invarianza <strong>della</strong> spesa sociale è a tal punto<br />

l’ass<strong>il</strong>lo del governo, che in caso di scostamento verso l’alto<br />

dei costi si prevede, sin d’ora, l’aumento di un decimale<br />

di punto <strong>della</strong> contribuzione a carico dei lavoratori. Poi,<br />

la «chicca» finale, la detassazione delle ore di lavoro straordinario<br />

(altro beneficio elargito «a pioggia» alle impre


La minaccia,<br />

«attenzione che se <strong>il</strong><br />

governo cade torna<br />

Berlusconi», ha<br />

funzionato come un<br />

potente freno inibitorio<br />

che ha nascosto in realtà<br />

propensioni politiche<br />

reali, ben presenti nel<br />

gruppo dirigente <strong>della</strong><br />

Cg<strong>il</strong> e potentemente<br />

r<strong>il</strong>anciate dalla<br />

gestazione del Pd che<br />

proprio nella Cg<strong>il</strong> ha<br />

svolto e sta tuttora<br />

svolgendo un’intensa<br />

campagna di reclutamento<br />

POLITICA ED ECONOMIA<br />

se), ispirata alla geniale trovata secondo la quale è solo lavorando di più che<br />

si può racimolare qualche denaro. Ora, a parte <strong>il</strong> fatto che una sim<strong>il</strong>e misura<br />

contrasta palesemente con l’esigenza di aumentare i posti di lavoro, <strong>il</strong> tasso di<br />

popolazione attiva e le entrate fiscali e contributive corrispondenti, ricorderà<br />

<strong>il</strong> ministro Damiano, ex sindacalista, che <strong>il</strong> prolungamento <strong>della</strong> giornata lavorativa<br />

figura come una delle più ricorrenti cause di infortunio?<br />

3Come è agevole constatare, è sull’intera latitudine del confronto (e non<br />

sulle sole misure che hanno implicazioni economiche) che viene in mostra<br />

<strong>il</strong> tratto <strong>della</strong> politica sociale del governo. In ogni caso, <strong>il</strong> rovesciamento<br />

dei proclami elettorali è di un’evidenza palmare. Basti pensare che le risorse<br />

messe a disposizione per l’insieme delle partite sociali aperte rappresenta<br />

una modesta quota del surplus fiscale, dell’extragettito. Ed è ragionevole<br />

chiedersi come avrebbe potuto concludersi <strong>il</strong> negoziato di luglio se neppure<br />

quelle impreviste risorse fossero state disponib<strong>il</strong>i. Mentre, nello stesso<br />

tempo, ben altra dimensione hanno avuto i trasferimenti alle imprese<br />

(cuneo fiscale, risarcimento per la quota di Tfr inoptato confluito presso<br />

l’Inps ecc.) e mentre nuove e non poco consistenti prebende vengono annunciate,<br />

sia pure sotto forma di un discutib<strong>il</strong>issimo scambio fra incentivi<br />

(pur sempre, in qualche misura, mirati e dunque finalizzati a uno scopo) e<br />

riduzione delle imposte.<br />

Più in generale, è tutta la linea di politica economica del governo a essere<br />

sottoposta a un’intensa fibr<strong>il</strong>lazione. Si pensi alla lotta all’evasione fiscale<br />

che – sia pure nei suoi ancora iniziali approcci – costituisce l’elemento di più<br />

significativa discontinuità rispetto alla criminale istigazione a delinquere del<br />

governo di centrodestra: è bastato che quest’ultimo scatenasse un’indecente<br />

campagna di sapore eversivo, con un ventaglio di minacce che va dallo sciopero<br />

fiscale alla spacconesca entrata in azione delle doppiette padane, perché<br />

<strong>il</strong> governo rinculasse, promettendo un’incomprensib<strong>il</strong>e «tregua fiscale»<br />

nella prossima finanziaria e bacchettando severamente quanti, nel governo<br />

medesimo, hanno chiesto di procedere all’allineamento <strong>della</strong> tassazione<br />

delle rendite da capitale, in linea con la media europea e in coerenza con un<br />

orientamento già assunto e contenuto nel Dpef.<br />

Quanto al tema del debito, è noto come la forsennata accelerazione impressa<br />

al rientro <strong>della</strong> esposizione finanziaria dell’Italia abbia condizionato (e<br />

contratto) le disponib<strong>il</strong>ità di spesa. Nessuno trascura <strong>il</strong> fatto che gli interessi<br />

sul debito erodano l’avanzo primario e compromettano la capacità di investimento<br />

produttivo e sociale del paese e che una linea di risanamento si<br />

imponga. Quello che è invece gravemente sbagliato è l’autentica ossessione<br />

monetarista che ha impresso un ritmo di rientro a tappe forzate, destinato<br />

fatalmente a stressare <strong>il</strong> paese, a minare <strong>il</strong> consenso degli strati sociali più<br />

deboli che attendono legittimamente una risposta redistributiva ben altrimenti<br />

consistente e tale, in ogni caso, da indicare una netta inversione di<br />

marcia che invece, fatalmente, non c’è stata. Tutto ciò è francamente paradossale,<br />

a maggior ragione se si rammenta che la legge vigente sull’amministrazione<br />

straordinaria (che – ironia <strong>della</strong> sorte – porta proprio <strong>il</strong> nome dell’attuale<br />

Presidente del Consiglio), strumento estremo per trarre le imprese<br />

da situazioni di dissesto finanziario, prevede proprio <strong>il</strong> congelamento del debito,<br />

<strong>il</strong> pagamento dei salari correnti, dei fornitori, così da rimettere in moto<br />

un circolo virtuoso che, solo, può consentire a quell’impresa di sopravvivere<br />

prima e di soddisfare i propri creditori poi.<br />

La linea del governo è apparsa dunque lontana persino dalle buone, collaudate<br />

pratiche delle social-democrazie, per cui a una forte e progressiva imposizione<br />

fiscale corrisponde un altrettanto robusto sistema di protezione sociale,<br />

di servizi (previdenza, assistenza, ammortizzatori sociali, sanità, istruzione<br />

ecc.).<br />

21


22<br />

In definitiva, la tensione crescente<br />

che si è accumulata dentro la compagine<br />

governativa non è <strong>il</strong> prodotto<br />

di chissà quali accelerazioni impresse<br />

dalla sua parte mancina, ma da<br />

una sostanziale rimozione del patto<br />

di governo.<br />

4Sul fronte sociale, è importante<br />

comprendere l’evoluzione politica<br />

intervenuta nel più grande sindacato<br />

italiano, la Cg<strong>il</strong>, che grande<br />

parte ebbe nel mettere in crisi <strong>il</strong> governo<br />

di centrodestra (ricordate la<br />

lotta per la difesa dell’articolo 18,<br />

per i diritti nel lavoro, contro <strong>il</strong> declino<br />

industriale?) <strong>il</strong> quale aveva<br />

fatto <strong>della</strong> crociata contro <strong>il</strong> lavoro <strong>il</strong><br />

proprio connotato identitario.<br />

Ora, nella relazione d’apertura del<br />

XV congresso <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>, in piena<br />

campagna elettorale, Guglielmo Epifani<br />

offrì a Romano Prodi, qualora<br />

l’Unione avesse vinto le elezioni, un<br />

«patto di legislatura», formula ardita,<br />

anche per un sindacato «concertativo»,<br />

perché fatalmente incline ad<br />

attivare meccanismi di collateralismo<br />

consociativo, alquanto lesivi di quel<br />

bene prezioso che è l’indipendenza<br />

del sindacato da qualsiasi governo,<br />

anche da quello a sé non ost<strong>il</strong>e o<br />

che tale si dichiara. Quell’intemerata<br />

fu poi prudentemente corretta dal<br />

dibattito e non fu più ripresa da Epifani<br />

nelle conclusioni, né – tantomeno<br />

– nel documento finale del congresso.<br />

E tuttavia essa ha marciato,<br />

prima sotto traccia, poi apertamente,<br />

quando, a elezioni avvenute, al sindacato<br />

è stato chiesto di non tirare<br />

troppo la corda nei confronti di un<br />

governo che si reggeva su equ<strong>il</strong>ibri<br />

tanto precari. La minaccia, «attenzione<br />

che se <strong>il</strong> governo cade torna<br />

Berlusconi», ha funzionato come un<br />

potente freno inibitorio che ha nascosto<br />

in realtà propensioni politiche<br />

reali, ben presenti nel gruppo dirigente<br />

<strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> e potentemente r<strong>il</strong>anciate<br />

dalla gestazione del Pd che<br />

proprio nella Cg<strong>il</strong> ha svolto e sta tuttora<br />

svolgendo un’intensa campagna<br />

di reclutamento. Così, <strong>il</strong> perimetro<br />

dell’azione <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> è andato via<br />

via reiscrivendosi entro precise<br />

norme di comportamento che si<br />

possono così riassumere: a) l’unità<br />

preliminare, come prius, con la Cisl e<br />

con la U<strong>il</strong> che archivia come impraticab<strong>il</strong>e<br />

qualsiasi iniziativa un<strong>il</strong>aterale<br />

<strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>; b) l’interdizione <strong>della</strong><br />

mob<strong>il</strong>itazione e <strong>il</strong> mantenimento<br />

<strong>della</strong> polemica con <strong>il</strong> governo entro i<br />

canali <strong>della</strong> pura diplomazia; c) la<br />

moderazione delle richieste, inscritte<br />

nel quadro di compatib<strong>il</strong>ità fissato<br />

dal governo.<br />

Va da sé che una trattativa dalle implicazioni<br />

sociali e politiche che conosciamo<br />

(pensioni, welfare, mercato<br />

del lavoro, fisco ecc.) si è svolta<br />

in un rapporto a dir poco lasco con i<br />

lavoratori, ai quali è stata sostanzialmente<br />

recapitata una piattaforma<br />

unitaria, a maglie larghe, onnicomprensiva,<br />

non soggetta ad approvazione<br />

alcuna: le assemblee nei luoghi<br />

di lavoro sono state puramente<br />

informative e ricognitive di proposte<br />

e suggerimenti che, sebbene copiosamente<br />

pervenuti, non hanno modificato<br />

– come era scontato – neppure<br />

la punteggiatura di quel testo.<br />

Con queste premesse, con una mob<strong>il</strong>itazione<br />

assente o a bassissima intensità<br />

e di pura immagine, l’esito<br />

del confronto è stato esposto a sistematiche<br />

incursioni, a veti, a mediazioni<br />

quasi sempre esterne al contraente<br />

sindacale. I contrasti fra le<br />

forze politiche, persino le bizze fra<br />

ministri a gara nel contraddirsi l’un<br />

l’altro, hanno fatto sì che persino le<br />

minacce di una Emma Bonino o di<br />

un Lamberto Dini pesassero di più<br />

rispetto a organizzazioni che trattavano<br />

in rappresentanza di m<strong>il</strong>ioni di<br />

lavoratori e di pensionati. Sicché,<br />

alla fine, alla Cg<strong>il</strong> è toccato fare<br />

buon viso a cattivo gioco, ingoiando<br />

insieme al rospo anche qualche sonoro<br />

e um<strong>il</strong>iante ceffone quando<br />

Epifani ha chiesto – del tutto snobbato<br />

– di poter sottoscrivere soltanto<br />

i punti condivisi e non l’intero protocollo.<br />

Quanto è accaduto è dunque un<br />

episodio di pessimo sindacalismo e<br />

tale rimarrà quale che sia l’esito di<br />

una consultazione che ora si vuole<br />

rigidamente blindata da schiere di<br />

sindacalisti allineati come un sol<br />

uomo a difendere nelle assemblee la


qualità del rancio, immancab<strong>il</strong>mente «ottimo e abbondante».<br />

Credo che sarà dura. E che non lo sarà di meno<br />

la reazione di quanti sanno «far di conto», vale a dire la<br />

parte più sindacalizzata del movimento, quella senza la<br />

quale sarebbe tutto <strong>il</strong> sindacalismo italiano a smarrire la<br />

propria peculiare identità. Quel che più temo non è la<br />

sacrosanta incazzatura di chi deciderà di rendere esplicito<br />

<strong>il</strong> proprio dissenso e di ingaggiarsi in una forte lotta<br />

politica interna. Pavento invece lo scoramento, l’abbandono,<br />

la deriva verso <strong>il</strong> disimpegno e <strong>il</strong> conseguente, ulteriore<br />

indebolimento del sindacato, delle ragioni di una<br />

battaglia che merita fare per cambiare una rotta foriera<br />

di ulteriori delusioni, di ulteriori sconfitte. E ancor più<br />

preoccupa <strong>il</strong> riflesso d’ordine che matura nello stato<br />

maggiore <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>, la repulsione verso <strong>il</strong> dissenso, la<br />

tentazione di legittimarlo come espressione di pulsioni<br />

politiche esterne, prive di sostanza e di motivazioni sindacali;<br />

preoccupa <strong>il</strong> clima da caccia alle streghe che<br />

monta dal centro alla periferia e che sta già mettendo in<br />

circolo i peggiori istinti repressivi, sempre latenti nelle<br />

burocrazie.<br />

5Non credo proprio sia un caso se questo clima di implosione<br />

sociale condizioni anche <strong>il</strong> dibattito dentro<br />

una frammentata sinistra in perenne «cerca d’autore». È<br />

davvero poco confortante questa discussione sull’opportunità<br />

o meno di fare, <strong>il</strong> prossimo 20 ottobre, una manifestazione<br />

a sostegno di una diversa politica economica e<br />

sociale e di una vera lotta alla precarietà. Per cui chi chiede<br />

al governo di fare qualcosa di somigliante al programma<br />

elettorale che ha unito la coalizione è paradossalmente<br />

accusato di fellonia (i ministri), oppure di estremismo<br />

(partiti, movimenti, singole personalità, semplici cittadini).<br />

Non sorprende che lo facciano gli azionisti del Pd, i<br />

quali sembrano ormai considerare la sinistra ut<strong>il</strong>e solo se<br />

si acconcia a starsene quieta al guinzaglio, addomesticata<br />

in un ruolo sostanzialmente ornamentale, ma altrimenti<br />

trattata come una zavorra di cui liberarsi quanto prima,<br />

ove essa pretenda di far valere i patti sottoscritti e con<br />

essi la propria ragion d’essere. È invece singolare che <strong>il</strong><br />

contagio si sparga oltre e intacchi forze impegnate a fondare<br />

una diversa progettualità politica e una idea di democrazia<br />

incardinata nella partecipazione popolare. Lo<br />

snodo è cruciale. Perché <strong>il</strong> peggio che può accadere non è<br />

di essere costretti a uscire dal governo, ma di uscirvi<br />

avendo contemporaneamente logorato <strong>il</strong> rapporto con la<br />

propria gente e compromesso una credib<strong>il</strong>ità che invece<br />

va difesa con assoluta coerenza.<br />

Anche la disfida apparentemente secondaria e per certi<br />

versi macchiettistica sui lavavetri, elevati a malattia degenerativa<br />

<strong>della</strong> civ<strong>il</strong>e convivenza, è invece rivelatrice di<br />

una grave involuzione culturale, è l’apoteosi di quel perbenismo<br />

ipocrita che spaccia per virtù legalitaria una<br />

spudorata crociata contro la marginalità sociale. E fa riflettere<br />

che a brandire la clava sia un uomo, pardon, un<br />

ministro come Amato (ancora lui!) che non riesce a va-<br />

POLITICA ED ECONOMIA<br />

rare un provvedimento che stab<strong>il</strong>isca che se un immigrato<br />

costretto alla clandestinità da una legislazione persecutoria<br />

denuncia <strong>il</strong> suo sfruttatore possa essere regolarizzato:<br />

in un paese dove un terzo del territorio è controllato<br />

dalla mafia, dove prospera un’evasione fiscale<br />

mastodontica, dove è consueto lo sfruttamento <strong>della</strong> manodopera<br />

clandestina, dove nei santuari <strong>della</strong> finanza si<br />

pratica <strong>il</strong> riciclaggio di denaro sporco o, ancora, dove<br />

una parte cospicua dell’economia legale galleggia su una<br />

bolla di economia <strong>il</strong>legale.<br />

È un’autentica falsità, concettuale ed empirica, che colpendo<br />

la microcriminalità (e in essa l’anello più debole e<br />

miserab<strong>il</strong>e <strong>della</strong> catena) si risale a quella grande che si<br />

annida in essa. Poiché è vero l’esatto opposto: è afferrando<br />

per le corna la grande criminalità che inquina e corrompe<br />

la politica e l’economia, che asfissia con i propri<br />

tentacoli la vita democratica, che travolge ogni senso di<br />

giustizia; è facendo questo che si bonifica <strong>il</strong> terreno e che<br />

si affrancano, non che si incarcerano, anche i lavavetri.<br />

Queste cose, un secolo e mezzo fa, erano già ampiamente<br />

note. A nessuno, neppure nella sinistra più moderata,<br />

sarebbe mai venuto in mente di metterle in discussione.<br />

Oggi, la «modernità» di un pensiero anch<strong>il</strong>osato, davvero<br />

«unico», sembra averle cancellate. Non per caso, Walter<br />

Veltroni ha intitolato <strong>il</strong> suo manifesto politico con<br />

una formula, «contro tutti i conservatorismi», tipica di<br />

ogni gattopardismo.<br />

Per questo oggi occorre «riscoprire» tutto. Non per camminare<br />

con la testa volta all’indietro, ma per scansare <strong>il</strong><br />

rischio di sapere come andare, senza sapere più dove. <br />

23


le ragioni <strong>della</strong> nostra<br />

opposizione al federalismo<br />

«Foedus» presuppone un patto fra diversi: così dalle correnti di pensiero<br />

risorgimentali sino al dibattito che si sv<strong>il</strong>uppò all’interno dell’Assemblea<br />

Costituente, la quale bocciò l’ipotesi federalista in favore<br />

di quella regionalista. Al di là delle disquisizioni semantiche, storiche e teoriche<br />

sulla natura del federalismo, non vi è dubbio che <strong>il</strong> federalismo fiscale,<br />

proprio perché fondato sull’«autosufficienza delle risorse» degli enti locali<br />

(così l’art.119 <strong>della</strong> Costituzione), interpreti nel miglior modo possib<strong>il</strong>e le<br />

istanze egoistiche delle regioni più ricche del paese.<br />

Anche per questa ragione – come noto – <strong>il</strong> Partito <strong>della</strong> rifondazione comunista<br />

espresse, in occasione del referendum costituzionale sulla legge n.<br />

3/2001 (approvata al termine <strong>della</strong> legislatura 1996-2001 con cinque voti di<br />

maggioranza), una posizione contraria alla riforma del Titolo quinto <strong>della</strong><br />

Costituzione.<br />

Va ricordato, inoltre, che nel programma elettorale dell’Unione <strong>il</strong> tema dell’attuazione<br />

del federalismo fiscale previsto dall’art. 119 <strong>della</strong> Costituzione è<br />

un punto centrale di mediazione condiviso dalle forze politiche che hanno<br />

sottoscritto <strong>il</strong> programma medesimo.<br />

A partire dall’inizio degli anni Novanta, infatti, l’Italia ha sperimentato,sia<br />

pure nell’alternarsi di accelerazioni e di periodo di stasi, un’intensa stagione<br />

di riforme nella direzione di un sempre maggiore decentramento <strong>della</strong> responsab<strong>il</strong>ità<br />

di spesa e di finanziamento.<br />

Nuove competenze di spesa, più poteri autonomi di tassazione, trasferimenti<br />

meno vincolanti hanno profondamente modificato <strong>il</strong> quadro <strong>della</strong> finanza<br />

regionale e locale: tanto da far dire a Wallace Oates, uno dei massimi studiosi<br />

del federalismo fiscale, che in Italia «<strong>il</strong> movimento verso la decentralizzazione<br />

si è spinto talmente in là da prevedere una vera e propria proposta di<br />

separazione <strong>della</strong> nazione in due stati indipendenti» 1 24<br />

.<br />

L’introduzione dell’Ici nel 1992 ha riconosciuto ai Comuni un potente strumento<br />

di autonomia tributaria mentre, prima ancora, la L.142/90 e adesso <strong>il</strong><br />

T.U. 267/2000 hanno innovato i fondamenti <strong>della</strong> finanza comunale.<br />

È stata poi la volta delle regioni a statuto ordinario. In una prospettiva di<br />

progressivo superamento del modello <strong>della</strong> finanza derivata, nuove entrate<br />

tributarie hanno sostituito i trasferimenti erariali: la tassa automob<strong>il</strong>istica e i<br />

contributi sanitari nel 1992, la compartecipazione sull’accisa sulla benzina<br />

nel 1995, e soprattutto l’Irap e l’addizionale sull’imponib<strong>il</strong>e Irpef nel 1998.<br />

Parallelamente le leggi Bassanini (59 e 127/97) e i collegati derivati attuativi<br />

hanno avviato un significativo processo di decentramento delle competenze<br />

pubbliche dallo Stato alle regioni e, a cascata, agli enti locali nell’ambito di ri-<br />

MARCO DAL TOSO*<br />

levanti settori di intervento (industria, energia, opere pubbliche, assetto del<br />

territorio, beni culturali, formazione professionale, sicurezza sul lavoro, istru- * RESPONSABILE COMMISSIONE GIUSTIZIA E<br />

zione), con corrispondente trasferimento di personale e risorse finanziarie. PROBLEMI DELLO STATO FEDERAZIONE<br />

La riforma del Titolo V approvata nel 2001 ha infine dato una cornice costi- PRC MILANO<br />

Individuo<br />

nell’accelerata attuazione<br />

dell’art.116 terzo comma,<br />

contenuto nel disegno di<br />

legge sul federalismo<br />

fiscale proposto dal<br />

Governo, un potenziale<br />

pericoloso cedimento<br />

politico alle istanze del<br />

costituendo Partito<br />

democratico del Nord e<br />

alle sirene «leghiste»:<br />

temo, in particolare,<br />

l’effetto di trascinamento<br />

che ne deriverebbe,<br />

soprattutto in assenza di<br />

una politica che fornisca<br />

risposte al fabbisogno<br />

sociale del paese


tuzionale a un’ulteriore fase di trasformazione del nostro<br />

paese in senso federale.<br />

La riforma (per alcuni aspetti, la controriforma) costituzionale<br />

del 2001 ha innovato <strong>il</strong> quadro delle relazioni finanziarie<br />

fra stato ed enti territoriali in tema sia di allocazione<br />

delle funzioni pubbliche tra le competenze legislative<br />

di Stato e regioni (ampliando significativamente i<br />

poteri legislativi di queste ultime), sia di disegno generale<br />

del sistema di finanziamento dei livelli di governo<br />

subnazionali (riconoscendo la maggior autonomia fiscale,<br />

escludendo i trasferimenti erariali quale modalità ordinaria<br />

di finanziamento, ponendo l’istituzione di un<br />

fondo perequativo).<br />

Successivamente, la controriforma costituzionale approvata<br />

a fine 2005 dal centro-destra e fortunatamente<br />

sconfitta a larghissima maggioranza dal popolo italiano<br />

(furono 15 m<strong>il</strong>ioni i no in opposizione alla «devolution»)<br />

con <strong>il</strong> referendum del 25/26 giugno 2006 è intervenuta<br />

tentando di trasformare in competenze esclusive<br />

regionali due materie cariche di significati perequativi e<br />

di identità nazionale come la sanità e la scuola.<br />

Una richiesta di maggiore autonomia competitiva e/o<br />

differenziata è stata recentemente avanzata ai sensi dell’art.<br />

116 terzo comma <strong>della</strong> Costituzione da alcune Regioni<br />

settentrionali come la Lombardia, <strong>il</strong> Veneto ma<br />

anche <strong>il</strong> Piemonte (peraltro con intese «bipartisan»), su<br />

alcune materie rientranti fra quelle di competenza concorrente:<br />

ambiente, beni culturali, giudici di pace, sanità,<br />

comunicazione, sicurezza, previdenza integrativa, strade,<br />

ricerca, università, cooperazione, risparmio. Tale richiesta<br />

ha trovato riscontro nel recente disegno di legge approvato<br />

dal Consiglio dei ministri (pur fra le critiche del<br />

ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio e <strong>della</strong> Solidarietà<br />

Sociale Paolo Ferrero) nel mese di agosto, facendo<br />

leva sulle istanze di giusta responsab<strong>il</strong>izzazione degli enti<br />

locali e di autonomia finanziaria degli stessi.<br />

Un primo problema che <strong>il</strong> prossimo confronto politico<br />

dovrà affrontare è quello relativo all’evidente rischio di<br />

«sovraimposizione» (segnalato dallo stesso quotidiano di<br />

Confindustria dal prof. Enrico De Mita) e cioè a dire di<br />

un prevedib<strong>il</strong>e aumento <strong>della</strong> pressione fiscale locale determinato<br />

dalla necessità di finanziare le funzioni devolute<br />

alle regioni.<br />

Il tanto evocato «modello catalano» dagli apologeti «modernizzatori»<br />

del federalismo fiscale, approvato dal Governo<br />

Zapatero in Spagna, pur non aumentando <strong>il</strong> livello<br />

generale di pressione fiscale, tiene in giusta considerazione<br />

la necessità di garantire «nazionalmente» i livelli<br />

essenziali definiti dalle prestazioni dei servizi sociali.<br />

Il disegno di legge-delega presentato al Parlamento dal<br />

Governo Prodi (con le dichiarazioni di astensione di Ferrero<br />

e Pecoraro Scanio) sul federalismo fiscale, invece,<br />

non contiene alcuna definizione dei livelli essenziali di<br />

assistenza: usando <strong>il</strong> principio <strong>della</strong> delega in una materia<br />

così complessa, rischia di acuire lo scontro fra i diversi<br />

livelli istituzionali e, in particolare, limita fortemente<br />

SOCIETÀ<br />

25


26<br />

la partecipazione di tutti gli organi<br />

istituzionali, esautorando le assemblee<br />

legislative e lo stesso Parlamento.<br />

In secondo luogo, <strong>il</strong> disegno di legge<br />

sul federalismo è subordinato interamente<br />

al criterio vincolante del patto<br />

di stab<strong>il</strong>ità interna e crescita definito<br />

in sede comunitaria dal Trattato di<br />

Mastricht (così l’art. 2 del disegno di<br />

legge); criterio che, come noto, comprime<br />

<strong>il</strong> livello <strong>della</strong> spesa sociale che<br />

gli enti locali territoriali potrebbero,<br />

diversamente, sostenere.<br />

In terzo luogo, <strong>il</strong> disegno di legge sul<br />

federalismo fiscale presenta un rischio<br />

di incostituzionalità nel meccanismo<br />

che affida alle regioni <strong>il</strong> coordinamento<br />

per la distribuzione delle<br />

risorse necessarie agli enti locali per<br />

finanziare le funzioni amministrative<br />

loro attribuite.<br />

Il punto 5.9 <strong>della</strong> relazione introduttiva<br />

<strong>della</strong> legge delega, infatti, stab<strong>il</strong>isce<br />

che alla competenza legislativa<br />

concorrente delle regioni in materia<br />

di coordinamento <strong>della</strong> finanza comunale<br />

corrisponda un assetto duale<br />

<strong>della</strong> finanza comunale basata sulla<br />

distinzione dei Comuni secondo<br />

l’ampiezza demografica.<br />

Saranno inoltre i governatori a istituire<br />

(nelle materie non soggette a<br />

imposizione statale) tributi locali o<br />

regionali e decidere le materie entro<br />

cui si potrà esercitare l’autonomia<br />

tributaria degli enti locali.<br />

Sempre alle regioni, le cui fonti di finanziamento<br />

saranno una compartecipazione<br />

Iva e Irpef (oltre a tributi<br />

propri), sarà garantito <strong>il</strong> finanziamento<br />

integrale delle funzioni fondamentali<br />

dei comuni più piccoli.<br />

E in ultimo, ma non meno importante,<br />

le regioni avranno <strong>il</strong> compito<br />

di definire gli schemi di perequazione<br />

«solidale» delle risorse per i comuni<br />

di dimensioni minori.<br />

Un nuovo centralismo regionale,<br />

dunque, ove <strong>il</strong> godimento dei diritti<br />

civ<strong>il</strong>i e sociali dipenderà dalle risorse<br />

e dalla capacità di spesa delle regioni,<br />

peraltro fortemente differenziata<br />

su base territoriale.<br />

Sotto <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o più strettamente legato<br />

all’iniziativa politica, devono<br />

essere r<strong>il</strong>anciate alcune posizioni intorno<br />

alle quali penso sia possib<strong>il</strong>e<br />

ottenere <strong>il</strong> sostegno ampio non solo<br />

del Prc e di tutta la sinistra di alternativa,<br />

ma anche di quei movimenti<br />

di ispirazione solidale che sanno legare<br />

la questione delle riforme istituzionali<br />

a quella <strong>della</strong> difesa e dell’ampliamento<br />

dei diritti sociali:<br />

1. Occorre abrogare, con legge costituzionale,<br />

<strong>il</strong> terzo comma dell’art.116<br />

<strong>della</strong> Costituzione che consente<br />

l’attuazione di quel federalismo<br />

differenziato che, se attuato,<br />

minerebbe l’unità e la coesione sociale<br />

del paese.<br />

2. Alcune materie di r<strong>il</strong>evanza sociale<br />

come la sicurezza sul lavoro, la previdenza<br />

integrativa, le reti energetiche<br />

e i trasporti devono ritornare alla<br />

competenza esclusiva dello Stato.<br />

3. Va superata la sussidiarietà orizzontale<br />

perché torni la centralità<br />

<strong>della</strong> questione sociale come obbligo<br />

nell’erogazione dei servizi da parte<br />

del pubblico.<br />

4. Come richiesto già dalla Corte Costituzionale,<br />

vanno definiti con legge<br />

ordinaria i livelli essenziali delle prestazioni<br />

dei diritti sociali.<br />

5. Con l’approvazione del nuovo codice<br />

delle autonomie locali, occorre<br />

una più netta e precisa definizione<br />

delle funzioni amministrative e delle<br />

competenze ripartite fra comuni, province,<br />

regioni e città metropolitane.<br />

6. Occorre un equo b<strong>il</strong>anciamento fra<br />

autonomia, responsab<strong>il</strong>ità (dove ‘responsab<strong>il</strong>ità’<br />

non può significare unicamente<br />

capacità autonoma di spesa<br />

virtuosa e rispetto dei vincoli del<br />

patto interno di stab<strong>il</strong>ità per i saldi<br />

complessivi di b<strong>il</strong>ancio, ma anche e<br />

soprattutto sanzioni rigorose per<br />

quelle regioni che assumono competenze<br />

rafforzate, senza però garantire<br />

livelli essenziali delle prestazioni, si<br />

pensi ad esempio al sistema scolastico)<br />

e solidarietà intesa come valore<br />

costituzionale vincolante.<br />

In conclusione, individuo nell’accelerata<br />

attuazione dell’art.116 terzo<br />

comma, contenuto nel disegno di<br />

legge sul federalismo fiscale proposto<br />

dal Governo un potenziale pericoloso<br />

cedimento politico alle istanze del<br />

costituendo Partito democratico del<br />

Nord e alle sirene «leghiste»: temo,<br />

in particolare, l’effetto trascinamento<br />

che ne deriverebbe, soprattutto in<br />

assenza di una politica che fornisca<br />

risposte al fabbisogno sociale del<br />

paese.<br />

L’esito inappellab<strong>il</strong>e del voto referendario<br />

del 25 e 26 giuno 2006 contro<br />

la modifica <strong>della</strong> seconda parte <strong>della</strong><br />

costituzione, contro la «devolution» e<br />

in difesa <strong>della</strong> costituzione repubblicana<br />

(soprattutto nel Mezzogiorno e<br />

nelle regioni più povere del paese),<br />

segnala una preoccupazione civ<strong>il</strong>e e<br />

sociale a cui <strong>il</strong> Partito <strong>della</strong> rifondazione<br />

comunista non può restare certamente<br />

indifferente. <br />

1. Alberto Zanardi (a cura di), Per lo sv<strong>il</strong>uppo.<br />

Un federalismo fiscale responsab<strong>il</strong>e e<br />

solidale, <strong>il</strong> Mulino, Bologna 2006, p. 11.


PIERO DI SIENA*<br />

Marx scriveva nella<br />

Prefazione alla Critica<br />

dell'economia politica che<br />

quello che egli cercava<br />

nell'economia politica<br />

erano i fondamenti di<br />

un’anatomia <strong>della</strong> società<br />

civ<strong>il</strong>e, intesa come <strong>il</strong><br />

complesso delle<br />

condizioni materiali di<br />

vita del genere umano in<br />

una determinata epoca.<br />

Ebbene, penso che a noi<br />

tocchi un compito <strong>della</strong><br />

stessa portata<br />

* SENATORE SINISTRA DEMOCRATICA<br />

EVICEPRESIDENTEARS<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

essere<br />

comunisti, perché?<br />

Cari compagni, la domanda che vi pongo – perché essere comunisti<br />

oggi? – fatta da uno che m<strong>il</strong>ita in un’altra formazione politica (oggi<br />

Sinistra democratica), può apparire brutalmente invasiva, sembrare<br />

un’ingerenza priva di ogni legittimo fondamento. Non mi sfugge affatto che,<br />

quando come in questo caso si affronta <strong>il</strong> tema dell’identità altrui, prima che<br />

le culture e l’agire politico si tocca <strong>il</strong> simbolico, le emozioni, la costituzione<br />

di senso che si genera nel complesso rapporto tra politica e vita. Per questo<br />

affrontare una discussione sul tema dell’identità è questione di grande delicatezza<br />

su cui in genere si sorvola quando si intende stringere rapporti unitari<br />

a sinistra.<br />

Eppure in questa non ingerenza io vedo anche <strong>il</strong> segno di una sorta di neodoroteismo,<br />

una diplomatizzazione delle relazioni, un’implicita ammissione<br />

che su di esse i problemi identitari non hanno alcun peso (a meno che non<br />

si voglia agitarli strumentalmente come pregiudizi ideologici). Che, insomma,<br />

l’identità politica ha un valore puramente autoreferenziale, una funzione<br />

di mera rassicurazione per chi la condivide, senza un’influenza effettiva<br />

nell’azione politica concreta.<br />

Penso che, se si vuole tornare alla grande politica a sinistra, è necessario superare<br />

questo sostanziale «riduttivismo» sul tema dell’identità, capire che<br />

esso più che di ascolto reciproco e di apertura intellettuale è figlio dell’indifferenza,<br />

che l’evoluzione <strong>della</strong> globalizzazione neoliberista (quella che Bauman<br />

ha battezzato «società liquida») ha prodotto per le culture politiche sostituendole<br />

con i grandi «feticci» del tempo presente (l’idolatria dei beni di<br />

consumo, i fondamentalismi religiosi ecc.). Perciò sarebbe ora che a sinistra<br />

<strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio critico delle culture politiche e delle identità ereditate dal Novecento<br />

(affidato alla rinascita di un forte senso <strong>della</strong> storia in contrasto con<br />

l’appiattimento su un presente che cancella passato e futuro, frutto di sociologia<br />

e politologia imperanti) venga fatto seriamente, fino in fondo e con<br />

spirito aperto da parte di tutti. Insomma, senza realizzare quel necessario<br />

passaggio dalla rimozione o dalla riproposizione acritica dell’eredità che le<br />

deriva dal proprio passato al b<strong>il</strong>ancio critico <strong>della</strong> propria storia, la sinistra<br />

diffic<strong>il</strong>mente uscirà dalla minorità da cui è afflitta nel tempo presente.<br />

Ma voglio porre a voi questa domanda anche per una seconda ragione. Nel<br />

corso degli ultimi dieci anni, tra la tendenza che avete rappresentato in Rifondazione<br />

comunista e quanti come me si battono per l’unità e <strong>il</strong> rinnovamento<br />

<strong>della</strong> sinistra, vi sono stati più di un punto di contatto. Abbiamo da<br />

entrambe le parti vissuto con sofferenza la rottura <strong>della</strong> coalizione di centrosinistra<br />

nel 1998; abbiamo spinto parallelamente sia pure senza successo affinché<br />

nel 2001 si superasse la divisione tra l’Ulivo d’allora e Rifondazione;<br />

abbiamo guardato entrambi criticamente all’esaltazione dei movimenti come<br />

esclusivo punto di riferimento <strong>della</strong> sinistra. E anche oggi voglio interpretare<br />

la precoce critica da voi avanzata all’esperienza dell’Unione non come un ir-<br />

27


28<br />

rigidimento settario ma come una<br />

forma di cautela per l’osc<strong>il</strong>lazione<br />

che si sarebbe potuta produrre a sinistra<br />

tra movimentismo e politicismo.<br />

Ci accomuna poi un rapporto<br />

con la storia del Pci che non prevede<br />

abiure, anche per gli aspetti relativi<br />

ai rapporti internazionali tenuti<br />

da quel partito nella sua complessa<br />

e articolata esperienza. Anche se<br />

probab<strong>il</strong>mente diversa è la prospettiva<br />

con cui guardiamo al peso <strong>della</strong><br />

sua eredità nella situazione attuale.<br />

Dunque: perché essere comunisti<br />

oggi? Siamo sicuri, cioè, che nel bagaglio<br />

culturale, nell’esperienza politica<br />

e nella storia che abbiamo ereditato<br />

dal comunismo del Novecento<br />

vi sia un patrimonio che possa<br />

servire alla riformulazione di una<br />

teoria <strong>della</strong> trasformazione dell’ordine<br />

sociale esistente all’altezza delle<br />

contraddizioni dell’oggi, in cui <strong>il</strong> superamento<br />

del capitalismo venga<br />

concepito come una possib<strong>il</strong>ità piuttosto<br />

che come una necessità? Questa<br />

è la domanda cruciale a cui rispondere<br />

(che a sinistra da tempo non<br />

viene nemmeno più posta), e dal<br />

cui esito dipende la risposta al primo<br />

e fondamentale quesito che vi<br />

pongo. Oggi è possib<strong>il</strong>e che ci si dichiari<br />

comunisti senza tuttavia<br />

avanzare alcuna ipotesi di trasformazione<br />

<strong>della</strong> società, non perché la<br />

si neghi in via di principio, come<br />

pure avviene per altre correnti <strong>della</strong><br />

sinistra contemporanea, ma perché<br />

implicitamente la si ritiene fuori dall’orizzonte<br />

delle eventualità storicamente<br />

possib<strong>il</strong>i. Né la critica no-global<br />

al capitalismo contemporaneo<br />

può costituire <strong>il</strong> punto di partenza di<br />

una nuova pratica <strong>della</strong> trasformazione,<br />

non avendo sostanzialmente<br />

rimosso quella scissione tra produzione<br />

e consumo che costituisce sul<br />

piano generale la principale forma<br />

di alienazione attraverso cui passa<br />

oggi nella coscienza dei più <strong>il</strong> dominio<br />

del capitale.<br />

Per incominciare a interrogarsi su<br />

quale possa essere la risposta alle<br />

contraddizioni <strong>della</strong> nostra epoca segnata<br />

dalla globalizzazione, ricomincerei<br />

da Marx, dal suo metodo più<br />

che dai risultati <strong>della</strong> sua lunga e complessa ricerca, per forza di cose condizionata<br />

dai problemi del suo tempo e dal grado di sv<strong>il</strong>uppo storico del secolo<br />

in cui è vissuto. Marx scriveva nella Prefazione alla Critica dell’economia politica,<br />

testo che costituisce una sorta di dichiarazione programmatica sulle intenzioni<br />

che lo avrebbero ispirato nel lavoro di ricerca del Capitale, che quello che<br />

egli cercava nell’economia politica erano i fondamenti di un’anatomia <strong>della</strong><br />

società civ<strong>il</strong>e, intesa come <strong>il</strong> complesso delle condizioni materiali di vita del<br />

genere umano in una determinata epoca.<br />

Ebbene, penso che a noi – rispetto al capitalismo contemporaneo – tocchi un<br />

compito <strong>della</strong> stessa portata, che anche la critica al neoliberismo che si è sv<strong>il</strong>uppata<br />

nel corso di questi decenni se resta fine a se stessa non produrrà mai<br />

una nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione sociale che affronti le contraddizioni<br />

<strong>della</strong> nostra epoca, se essa non affida a se stessa <strong>il</strong> compito di aprire la strada a<br />

un’anatomia <strong>della</strong> società civ<strong>il</strong>e del nostro tempo. Ebbene, se solo si muovono i<br />

primi passi in questa direzione non è diffic<strong>il</strong>e scoprire che l’ormai lunga rivoluzione<br />

neoconservatrice apertasi negli anni Settanta ha provocato cambiamenti<br />

nell’assetto del capitalismo di una portata ben più profonda e radicale di<br />

quelli prodottisi tra l’Ottocento e <strong>il</strong> Novecento con l’avvento dell’imperialismo,<br />

la cui presa d’atto non a caso costituì <strong>il</strong> principale fondamento <strong>della</strong> svolta impressa<br />

da Lenin all’indirizzo del movimento operaio internazionale nel corso<br />

<strong>della</strong> Prima guerra mondiale. Non si tratta di fare concessioni a quelle teorie,<br />

elaborate in particolare in Impero da Michael Hardt e Antonio Negri, che individuano<br />

nella contrapposizione tra «impero» e «moltitudini» <strong>il</strong> tratto costitutivo<br />

del nuovo capitalismo dell’età <strong>della</strong> globalizzazione. Con questa impostazione,<br />

smentita dallo sv<strong>il</strong>uppo delle contraddizioni di tipo geopolitico che segnano<br />

le odierne vicende internazionali dominate da un rinnovato primato<br />

<strong>della</strong> guerra e del conflitto tra capitalismi, voi avete giustamente polemizzato<br />

quando sembrava potesse influenzare gli orientamenti <strong>della</strong> maggioranza del<br />

vostro partito nel congresso di Rifondazione del 2001. E tuttavia se si procede,<br />

sia pure per timidi accenni, a trasformare la critica del liberismo in una nuova<br />

anatomia dei movimenti profondi delle società contemporanee è fac<strong>il</strong>e vedere<br />

come ci si trovi di fronte a problemi costitutivi dello stesso modo di produzione<br />

capitalistico che risultano del tutto inediti.<br />

Il primo fra tutti questi problemi è che, se esaminiamo a fondo le trasformazioni<br />

che sono avvenute nel rapporto tra lavoro e produzione capitalistica, ci<br />

tocca constatare che lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale avviene<br />

sempre più nell’ambito del rapporto (nel cuore stesso del processo produtti


vo) tra lavoratore-individuo e capitale<br />

impersonale. È questione che<br />

appare del tutto evidente se ci soffermiamo<br />

a esaminare i modelli organizzativi<br />

<strong>della</strong> produzione nella<br />

fabbrica contemporanea, le radici<br />

strutturali dei processi di precarizzazione<br />

del lavoro, <strong>il</strong> rapporto tra lavoro<br />

e non-lavoro sia nelle società<br />

sv<strong>il</strong>uppate (vecchie e nuove) che<br />

nelle immense aree diseredate del<br />

resto del mondo. Ora, non deve<br />

sfuggire l’enorme rovesciamento<br />

teorico e pratico che una sim<strong>il</strong>e condizione<br />

impone a un’idea <strong>della</strong> trasformazione<br />

sociale che miri ad<br />

aprire un processo storico di superamento<br />

del capitalismo. Se nell’Ottocento<br />

e nel Novecento <strong>il</strong> problema<br />

<strong>della</strong> liberazione del lavoro dalla sua<br />

condizione di sfruttamento era un<br />

processo di emancipazione collettiva<br />

da una condizione altrettanto collettiva<br />

di subordinazione, e aveva nella<br />

realizzazione del principio di uguaglianza<br />

<strong>il</strong> suo compimento, ora tale<br />

processo non può che prendere le<br />

mosse dall’individuo che lavora, e<br />

trova <strong>il</strong> suo riscatto nella realizzazione<br />

<strong>della</strong> sua libertà. E non è un caso<br />

che l’organizzazione capitalistica<br />

<strong>della</strong> società, per, in un certo senso,<br />

«esorcizzare» la carica eversiva che<br />

potrebbe derivare dalla percezione<br />

di sé come individuo da parte del lavoratore,<br />

tende a «collettivizzare» la<br />

condizione umana nel mercato, rispetto<br />

a cui gli uomini e le donne<br />

del mondo contemporaneo sono indotti<br />

a percepirsi o come consumatori<br />

o, appunto, come moltitudini escluse<br />

dai consumi delle società opulente e<br />

dai loro valori. La scelta di questa<br />

prospettiva, lungi dal mettere in discussione<br />

quel legame sociale rappresentato<br />

dalle classi, restituisce<br />

loro una nuova funzione in quanto<br />

condizione di una solidarietà interindividuale<br />

che nasce dalla comune<br />

posizione nei rapporti di produzione<br />

e di scambio. Anzi, si potrebbe dire<br />

che nell’età <strong>della</strong> globalizzazione –<br />

almeno a certe condizioni di sv<strong>il</strong>uppo<br />

delle forze produttive – vi sia<br />

una sorta di «ritorno» dalle masse,<br />

che hanno costituito <strong>il</strong> tratto distin-<br />

tivo dell’organizzazione <strong>della</strong> società<br />

e dei sistemi politici del Novecento,<br />

alle classi. E quindi come per Hannah<br />

Arendt l’avvento <strong>della</strong> società<br />

di massa aveva portato al declino<br />

delle classi, l’età <strong>della</strong> globalizzazione<br />

ne potrebbe riproporre in termini<br />

nuovi la fondamentale funzione.<br />

Si può obiettare che tale nozione<br />

dell’individuo e <strong>della</strong> libertà tende a<br />

confondersi in modo equivoco con<br />

le principali categorie proprie del liberismo.<br />

Si potrebbe allora orientare<br />

la ricerca teorica a scavare sulla fecondità<br />

analitica di approcci culturali<br />

al tema dell’individuo estranei alla<br />

tradizione liberale, dalla categoria<br />

<strong>della</strong> «singolarità impersonale»<br />

avanzata negli anni Trenta del secolo<br />

scorso da Simone We<strong>il</strong>, nella sua<br />

breve eppure intensa esperienza intellettuale,<br />

a quella condizione<br />

umana evocata dall’esistenzialismo<br />

che è propria del singolo e del suo<br />

essere-al-mondo.<br />

Un tale ripensamento <strong>della</strong> nozione<br />

di individuo, al di fuori <strong>della</strong> tradizione<br />

liberale e dei suoi aggiornamenti<br />

operati dal neoliberismo, consentirebbe<br />

anche di approfondire <strong>il</strong><br />

nesso organico che può essere rintracciato<br />

tra <strong>il</strong> peculiare rapporto tra<br />

capitale e lavoro impostosi nell’età<br />

<strong>della</strong> globalizzazione e l’altra cruciale<br />

questione che riguarda la fondazione<br />

di una nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione.<br />

Mi riferisco al tema<br />

<strong>della</strong> differenza di genere, che si riferisce<br />

a quel fondamentale aspetto<br />

<strong>della</strong> condizione umana che evidentemente<br />

prescinde dalla dimensione<br />

storica <strong>della</strong> formazione sociale capitalistica,<br />

che insomma la precede e<br />

la segue, e che tuttavia diviene storicamente<br />

influente al fine <strong>della</strong> costruzione<br />

dell’agire politico proprio<br />

in relazione al nuovo processo di individualizzazione<br />

che si realizza nell’odierno<br />

rapporto tra capitale e lavoro.<br />

Assumere questa prospettiva,<br />

inoltre, consente di capire come vi<br />

sia un rapporto organico, e non una<br />

sovrapposizione come è apparso ad<br />

alcune correnti del socialismo europeo,<br />

tra questione sociale e tematica<br />

dei nuovi diritti, quelli derivanti da<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

Se nell'Ottocento e<br />

nel Novecento <strong>il</strong> problema<br />

<strong>della</strong> liberazione del<br />

lavoro dalla sua condizione<br />

di sfruttamento era un<br />

processo di emancipazione<br />

collettiva da una<br />

condizione altrettanto<br />

collettiva di<br />

subordinazione, e aveva<br />

nella realizzazione del<br />

principio di uguaglianza <strong>il</strong><br />

suo compimento, ora tale<br />

processo non può che<br />

prendere le mosse<br />

dall'individuo che lavora,<br />

e trova <strong>il</strong> suo riscatto<br />

nella realizzazione <strong>della</strong><br />

sua libertà<br />

29


30<br />

una nuova concezione <strong>della</strong> sessualità e del rapporto tra<br />

la vita e la morte, cioè da una condizione umana storicamente<br />

in trasformazione nel suo stesso fondamento antropologico.<br />

Lo stesso vale per la questione cruciale del<br />

rapporto tra uomo e natura e le nozioni di compatib<strong>il</strong>ità<br />

e crescita che ne derivano, <strong>della</strong> necessità di un nuovo<br />

modello di sv<strong>il</strong>uppo pena la sopravvivenza stessa del genere<br />

umano.<br />

Questa relazione tra status sociale e condizione umana,<br />

tra economia e politica, tra materialità e simbolico – insomma<br />

per dirla con Marx tra struttura e sovrastruttura –<br />

rimanda al nesso strettissimo, che più che in Marx è presente<br />

nell’analisi del capitalismo di Weber (benché questa<br />

sia orientata attraverso <strong>il</strong> concetto di «razionalizzazione»<br />

alla sua conservazione e riproduzione piuttosto che al<br />

suo superamento) tra processi di civ<strong>il</strong>izzazione ed evoluzione<br />

dei rapporti di produzione. Ciò potrebbe consentire di<br />

cominciare a sondare le ragioni che stanno alla base del<br />

paradosso che caratterizza l’epoca <strong>della</strong> globalizzazione,<br />

non sufficientemente analizzato a sinistra, in cui al massimo<br />

di integrazione e mondializzazione del mercato corrisponde<br />

<strong>il</strong> massimo di incomunicab<strong>il</strong>ità e di contrapposizione<br />

tra le culture ridotte a fondamentalismi l’uno contro<br />

l’altro armati (ciò che Huntington ha chiamato<br />

«scontro di civ<strong>il</strong>tà»). È a ben vedere questa situazione,<br />

prodotto diretto del capitalismo dell’età <strong>della</strong> globalizzazione,<br />

che impedisce alla sinistra di riassumere dopo <strong>il</strong><br />

crollo del «socialismo realizzato» una rinnovata dimensione<br />

mondiale, circoscrivendone nella sostanza ruolo e<br />

funzione alla sola Europa. È come se, dopo un ciclo storico<br />

durato più di un secolo, la sinistra fosse tornata alle<br />

origini, al suo luogo di nascita. Si tratta di una questione<br />

cruciale. Infatti, se la realistica presa d’atto di questa situazione<br />

dovrebbe condurre a considerare <strong>il</strong> socialismo<br />

europeo in tutte le sue componenti l’ambito nel quale<br />

iniziare a misurare l’efficacia del rinnovamento di cui ci<br />

sarebbe bisogno, d’altra parte la sinistra ben diffic<strong>il</strong>mente<br />

potrebbe uscire dalla sua crisi se fosse costretta dal declino<br />

dell’universalismo <strong>della</strong> civ<strong>il</strong>izzazione europea di cui è<br />

figlia in una dimensione sostanzialmente eurocentrica.<br />

Questo complesso di riflessioni – che ritorna attuale nel<br />

momento in cui da più parti si invoca la nascita di un<br />

nuovo soggetto <strong>della</strong> sinistra italiana – ha cercato nel<br />

nostro paese, spesso senza successo, di aprirsi un varco<br />

nel dibattito a sinistra nel decennio trascorso. Ed è d’obbligo<br />

in questo momento riconoscere <strong>il</strong> debito politico e<br />

intellettuale contratto da tale indirizzo di pensiero con<br />

due persone che non ci sono più. Una è Bruno Trentin<br />

che caratterizzò negli anni Novanta la sua collaborazione<br />

alla <strong>rivista</strong> «Finesecolo» (diretta da me e Adriana Buffardi)<br />

proprio lavorando all’approfondimento di una nuova<br />

concezione <strong>della</strong> libertà, che poi sv<strong>il</strong>uppò nel suo libro<br />

La libertà viene prima. L’altro è Claudio Sabattini che attraverso<br />

<strong>il</strong> tentativo di dar vita al movimento «Lavoro e<br />

Libertà», in stretta collaborazione con Aldo Tortorella,<br />

gettò le basi di quella «rivoluzione copernicana» <strong>della</strong><br />

concezione del rapporto tra individuo e modo di produzione<br />

di cui abbiamo parlato. Che questa innovazione sia<br />

venuta da due personalità segnate nella loro esperienza<br />

politica e intellettuale dal lungo e profondo rapporto con<br />

<strong>il</strong> principale comparto <strong>della</strong> classe operaia italiana, quello<br />

dei metalmeccanici, a me pare segno di non poco significato.<br />

Insomma, se questo ragionamento ha un qualche fondamento<br />

e si conviene che sia vero l’assunto che una<br />

nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione sociale deve misurarsi<br />

con questa dimensione dei problemi del tutto nuova<br />

prodotta dal capitalismo <strong>della</strong> globalizzazione, che cosa<br />

c’entra con tutto questo la proprietà collettiva dei mezzi<br />

di produzione, una certa concezione del rapporto tra<br />

partito e masse, una certa idea <strong>della</strong> funzione e del ruolo<br />

dello Stato nella società e nell’economia, in una parola <strong>il</strong><br />

comunismo, cioè quel movimento che per forza di cose è<br />

figlio <strong>della</strong> società di massa del Novecento e che ha vissuto<br />

la sua esperienza politica ambiguamente a cavallo<br />

tra totalitarismo e democrazia, che di quella società rappresentano<br />

i modelli politici prevalenti non a caso ambedue<br />

in crisi? Mi sembra emblematico che dopo <strong>il</strong> crollo<br />

dell’89 chi ha voluto conservare <strong>il</strong> nome «comunista»<br />

sia ricorso a rappresentare <strong>il</strong> comunismo o come un orizzonte<br />

o come una idea regolativa, una sorta di guida per<br />

l’azione, in ambedue i casi un kantiano «dover essere».<br />

Ma <strong>il</strong> problema che oggi la sinistra ha di fronte è di tutt’altra<br />

natura. Si tratta cioè di ricostruire dalle fondamenta<br />

quello che per Marx avrebbe dovuto essere <strong>il</strong> comunismo,<br />

cioè non un orizzonte né un’idea regolativa<br />

ma quel «movimento reale che cambia lo stato di cose<br />

presente». Qualora si volesse riproporre questo obiettivo,<br />

si dovrebbe prendere atto che le esperienze del movimento<br />

operaio del secolo scorso sono del tutto inut<strong>il</strong>izzab<strong>il</strong>i<br />

a tal fine. Ricorrere surrettiziamente a esse significa<br />

involontariamente non rendere giustizia alla loro<br />

grandezza, sebbene storicamente esaurita, e affrontare<br />

non adeguatamente i compiti del presente.<br />

Vorrei dirvi, insomma, «cerchiamo ancora» come nel<br />

cuore degli anni Ottanta ci suggerì Claudio Napoleoni. A<br />

me sembra <strong>il</strong> modo migliore di restare fedeli alle passioni<br />

e alle scelte di tutta una vita.


BRUNO STERI*<br />

Intendo riferirmi a<br />

quel poderoso dispositivo<br />

di rimozione che ha<br />

investito quella che<br />

chiamavamo<br />

«sinistra»(comunista o<br />

non) verso la fine del<br />

secolo scorso,<br />

all’indomani del fatidico<br />

’89: vero e proprio<br />

passaggio epocale, che ha<br />

condotto –<br />

consapevolmente o meno –<br />

a una sorta di<br />

«introiezione <strong>della</strong><br />

sconfitta» e, con questa, a<br />

un progressivo<br />

adattamento a contenuti e<br />

valori <strong>della</strong> controparte<br />

già trionfante<br />

* DIRETTORE DI «ESSERE COMUNISTI»<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

perché essere comunisti<br />

Piero Di Siena ci sollecita a rispondere a una domanda che è evidentemente<br />

per noi cruciale: perché essere comunisti oggi? Si può, beninteso,<br />

restare affezionati a un nome, persistere per inerzia nel «chiamarsi»<br />

comunisti: ma l’interrogativo sull’«essere» comunisti chiama in<br />

causa direttamente e senza diplomazie l’adeguatezza del nome alla cosa. Si<br />

va insomma diritti alla sostanza; e lo si fa col tono giusto, riconoscendo cioè<br />

nel contempo la problematicità, <strong>il</strong> peso concettuale ma anche la delicatezza<br />

simbolico-emozionale <strong>della</strong> questione. Di questo ringraziamo <strong>il</strong> nostro interlocutore:<br />

c’è bisogno di riaprire un confronto di lunga lena su temi di fondo,<br />

che non dovrebbero esser costretti nei tempi dell’urgenza politica, magari<br />

nei termini di svolte sommarie o a colpi di decreti congressuali.<br />

Uguaglianza e libertà<br />

Un contributo non reticente, che per così dire espone <strong>il</strong> suo autore, reclama<br />

nell’accordo e nel disaccordo un’interlocuzione altrettanto generosa e netta.<br />

Dico subito che mi convincono <strong>il</strong> programma di lavoro e le modalità di ricerca<br />

proposte da Di Siena: tornare a porci nella visuale marxiana di un’indagine<br />

sui «fondamenti di un’anatomia <strong>della</strong> società civ<strong>il</strong>e», per provare a<br />

delineare i punti di forza di una «teoria <strong>della</strong> trasformazione sociale che affronti<br />

le contraddizioni <strong>della</strong> nostra epoca». L’epoca – appunto – di una «rivoluzione<br />

conservatrice» proiettata su dimensioni planetarie dalla globalizzazione<br />

capitalistica. Molto meno mi convince <strong>il</strong> punto di caduta <strong>della</strong> sua<br />

argomentazione, tesa a premiare più «<strong>il</strong> metodo» che non «i risultati <strong>della</strong><br />

(…) lunga e complessa ricerca» di Marx. Non mi convince la contrapposizione<br />

che vede, da una parte, un obsoleto approccio otto-novecentesco, tutto<br />

imperniato sulla connessione stretta tra liberazione del lavoro e «processo di<br />

emancipazione collettiva» in vista <strong>della</strong> realizzazione del principio di uguaglianza<br />

e, dall’altra parte, una concezione di tale processo adeguata all’oggi,<br />

che in forme del tutto nuove prenda le mosse dall’individuo in vista <strong>della</strong><br />

realizzazione <strong>della</strong> sua libertà. Non penso che i connotati dell’odierna condizione<br />

umana, indotti dalla possente spinta globalizzatrice del capitale, autorizzino<br />

l’inaugurazione di una antropologia postcomunista e un progetto di<br />

trasformazione del tutto nuovo, in discontinuità con i caratteri fondamentali<br />

dell’analisi marxiana <strong>della</strong> formazione sociale capitalistica.<br />

Beninteso, c’è una parte dell’esigenza che ci viene proposta che va attentamente<br />

considerata: che, tra l’altro, non nasce come un fungo e può anzi<br />

vantare autorevoli precedenti. Di Siena converrà che la sua esigenza può essere<br />

situata dentro una tradizione, un f<strong>il</strong>one del marxismo: quello che è alquanto<br />

genericamente individuato come marxismo etico. Un f<strong>il</strong>one particolarmente<br />

influente proprio nel nostro paese, se è vero che autorevole è stata la<br />

lezione di Antonio Banfi e che, per altro verso, intere generazioni nei decenni<br />

passati si sono formate alla scuola di Galvano Della Volpe e, su questa<br />

31


32<br />

scia, hanno seguito l’insegnamento<br />

e l’elaborazione del citato Claudio<br />

Napoleoni: nomi – questo ultimi –<br />

cui, ad esempio, Fausto Bertinotti e<br />

Alfonso Gianni si sono richiamati<br />

(in Le idee che non muoiono, uno dei<br />

loro primi lavori). In riferimento<br />

alla lettura di Marx, tali orientamenti<br />

hanno anche supportato un<br />

intento condivisib<strong>il</strong>e: recuperare<br />

una certa unitarietà nella riflessione<br />

del grande rivoluzionario di Treviri,<br />

ritematizzare l’ispirazione etica del<br />

«giovane» Marx evitando di decretarne<br />

troppo frettolosamente la caducità<br />

in contrapposizione al Marx<br />

«maturo» del Capitale (che appunto<br />

avrebbe liquidato i giovan<strong>il</strong>i furori<br />

umanistici in nome <strong>della</strong> scienza <strong>della</strong><br />

società). Per parte mia, non è in<br />

questione la portata peculiarmente<br />

scientifica («i risultati») <strong>della</strong> riflessione<br />

marxiana: quella che, affinandosi<br />

con lo studio approfondito dell’economia<br />

classica inglese, ne recupera<br />

la forza analitica e – insieme –<br />

ne denuncia <strong>il</strong> limite storico e apologetico,<br />

pervenendo a una compiuta<br />

teoria del plusvalore capitalistico.<br />

Solo, parrebbe anche a me poco<br />

convincente spaccare nettamente<br />

spaccare in due un percorso di ricerca,<br />

quasi a voler separare <strong>il</strong> grano<br />

dalla crusca: soprattutto se la crusca<br />

è intesa essere la prospettiva etica di<br />

Marx (e dei comunisti).<br />

Tutto ciò ha evidentemente a che<br />

vedere con la questione <strong>della</strong> libertà<br />

e dell’uguaglianza. In una fase storica<br />

in cui i princìpi, i valori, la storia<br />

e le prospettive dei comunisti sono<br />

state messe all’indice da un capitali-<br />

smo trionfante, è fondamentale tornare<br />

a porre all’ordine del giorno<br />

del dibattito ideale non solo la concreta<br />

possib<strong>il</strong>ità ma – oggi, nel vivo<br />

di una «catastrofe dell’uguaglianza»<br />

– perfino la necessità di un ordine<br />

superiore di libertà, di un progetto di<br />

liberazione dell’essere umano da catene<br />

sociali che, lungi dall’essere<br />

«naturali», mostrano <strong>il</strong> loro carattere<br />

storicamente determinato. Una<br />

civ<strong>il</strong>tà – quale quella liberale – in<br />

cui l’altro è sentito come limite al dispiegamento<br />

<strong>della</strong> propria libertà è<br />

una civ<strong>il</strong>tà che, nonostante (e in<br />

contraddizione con) le sue potenzialità<br />

progressive, non può andare<br />

lontano. Una società che, a partire<br />

dal luogo <strong>della</strong> produzione di merci<br />

e in concomitanza con l’incremento<br />

<strong>della</strong> ricchezza, potenzia a livello<br />

planetario la negazione dei bisogni<br />

primari <strong>della</strong> maggioranza dell’umanità,<br />

oltre a impedire ai più l’accesso<br />

alla soddisfazione dei bisogni «ricchi»<br />

(l’insieme di condizioni spirituali<br />

e immateriali che permettono<br />

l’esercizio di una «libera attività<br />

umana») – questa è una società tarata<br />

alla radice. Il contributo analitico<br />

offerto da Marx alla rousseauiana<br />

ricerca dell’origine <strong>della</strong> disuguaglianza<br />

ha consentito a questa stessa ricerca<br />

di uscire dal regno dell’utopia,<br />

di connettere indissolub<strong>il</strong>mente impegno<br />

etico e analisi scientifica delle<br />

condizioni di superamento di una<br />

formazione sociale data, fornendo<br />

un concreto senso storico all’abolizione<br />

<strong>della</strong> proprietà privata dei<br />

mezzi di produzione e al superamento<br />

dell’assetto capitalistico <strong>della</strong><br />

produzione medesima.<br />

Se si prende sul serio la lezione hegeliana<br />

che Marx fa propria liberandola<br />

dal suo involucro idealistico – se<br />

quindi non si concede nulla alla vulgata<br />

semplificatrice che la riduce a<br />

visione escatologica – si può ritrovare<br />

quel senso profondo del dramma storico,<br />

che da Hegel passa in Marx ridefinendosi<br />

come storia <strong>della</strong> lotta di<br />

classe: un duro confronto nel seno<br />

stesso del mondo umano, a ridosso<br />

delle contraddizioni e delle imperfezioni<br />

del reale. La vicenda storica prende<br />

corpo allora in una dimensione che<br />

non è annich<strong>il</strong>imento dell’individuo,<br />

ma che è sua dislocazione in un quadro<br />

epocale, all’altezza di un contrasto<br />

tra formazioni sociali; e dentro un<br />

divenire che non è lineare, ma appunto<br />

contraddittorio, che può mettere<br />

capo a configurazioni spurie<br />

(che poco hanno a che vedere con la<br />

levigatezza di un’idea o di un modello).<br />

È con tale complessa eredità che<br />

un progetto di liberazione umana ha<br />

dovuto e deve ancora fare i conti.<br />

Classi e persone<br />

Ora Piero Di Siena ci richiama alla<br />

necessità di ripensare la nozione di<br />

individuo, di meditare sull’esigenza<br />

di una sua nuova e inedita valorizzazione,<br />

alla luce dell’«enorme rovesciamento<br />

teorico e pratico» indotto<br />

dalla globalizzazione capitalistica: ripensamento<br />

che dovrebbe auspicab<strong>il</strong>mente<br />

mettere capo alla «fondazione<br />

di una nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione».<br />

Non v’è dubbio che<br />

sotto i nostri occhi si sia prodotta in<br />

questi anni un’accentuazione che ha


toccato la qualità del vivere associato<br />

così come la disposizione delle singole<br />

esistenze. L’attuale «rivoluzione<br />

conservatrice» ha imposto la precarietà<br />

quale cifra dominante del<br />

mondo umano: ciò ha effetti sulla<br />

concezione del sé, sulla sua costituzione,<br />

sul rapporto con i suoi fini.<br />

Non a caso f<strong>il</strong>osofi e sociologi non<br />

mancano di evidenziare i tratti distintivi<br />

dell’individuo contemporaneo,<br />

caratterizzato da un «sé atomizzato»,<br />

spossessato di punti di riferimento<br />

e di criteri sostanziali per la<br />

conduzione <strong>della</strong> propria vita (e<br />

dunque fac<strong>il</strong>e preda di mitologie mediatiche),<br />

esposto a una «cultura<br />

<strong>della</strong> sopravvivenza» che lo fa vivere<br />

in un presente privo di passato e<br />

dall’incerto futuro. A maggior ragione<br />

tali caratteri acquistano concretezza<br />

e spessore sociale non appena<br />

si pensi all’odierna condizione del lavoro<br />

e del non lavoro. Certamente,<br />

<strong>il</strong> suddetto individuo è meno «libero»<br />

e, come tale, soggetto potenzialmente<br />

sensib<strong>il</strong>e alla rivendicazione<br />

di una riappropriazione del sé, <strong>della</strong><br />

propria libertà. In proposito, non<br />

parlerei tuttavia di radicale «rovesciamento»,<br />

quanto piuttosto di potenziamento<br />

su scala planetaria di<br />

un’attitudine che è intrinseca al<br />

modo di produzione capitalistico – la<br />

persistente tendenza a piegare esseri<br />

umani e cose alle leggi del mercato,<br />

a rivoluzionare i rapporti sociali e di<br />

comunità, a rompere i nessi che legano<br />

gli individui alle proprie radici<br />

storico-sociali – e che Marx ha così<br />

ben descritto nel suo Manifesto.<br />

Non mancherò di accennare a quan-<br />

to c’è di effettivamente inedito nell’attuale<br />

congiuntura. Ma prima intendo<br />

colmare quello che, a mio giudizio,<br />

si presenta come un vuoto<br />

nell’argomentazione di Di Siena. Intendo<br />

riferirmi al poderoso dispositivo<br />

di rimozione che ha investito<br />

quella che chiamavamo «sinistra»<br />

(comunista o non) verso la fine del<br />

secolo scorso, all’indomani del fatidico<br />

’89: vero e proprio passaggio epocale,<br />

che ha condotto – consapevolmente<br />

o meno – a una sorta di «introiezione<br />

<strong>della</strong> sconfitta» e, con<br />

questa, a un progressivo adattamento<br />

a contenuti e valori <strong>della</strong> controparte<br />

già trionfante. Un recente articolo<br />

tratto da «<strong>il</strong> manifesto» (L. Pregnolato,<br />

Le tute blu all’assalto del cielo,<br />

del 23 settembre 2007) offre una<br />

mirab<strong>il</strong>e descrizione di cosa fosse la<br />

«coscienza di classe» in Fiat alla<br />

metà degli anni Settanta: «Il Consiglione<br />

di Mirafiori in quel periodo<br />

era di 800 delegati, e non c’è alcun<br />

paragone con le attuali Rsu. Ogni<br />

linea aveva <strong>il</strong> suo delegato, ogni<br />

squadra aveva <strong>il</strong> suo delegato: dove<br />

c’era un caposquadra, c’era anche<br />

un delegato. Ogni delegato veniva<br />

eletto su scheda bianca, e c’era<br />

un’appartenenza, una socialità e un<br />

legame fra <strong>il</strong> delegato e la sua squadra,<br />

e fra la squadra e <strong>il</strong> proprio delegato.<br />

Il Consiglio di fabbrica era<br />

strutturato con delegati di settore,<br />

delegati di officina e poi tutti insieme<br />

a volte si facevano le riunioni del<br />

Consiglione. Nel ’75 lanciammo alla<br />

Fiat m<strong>il</strong>le vertenze sulla salute, la<br />

professionalità, l’ambiente di lavoro.<br />

Facemmo vertenze di officina e di<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

Mi chiedo: quei<br />

lavoratori del Consiglione<br />

di Mirafiori non erano<br />

forse a pieno titolo, essi<br />

sì, «persone», individui<br />

associati capaci di<br />

contendere col conflitto<br />

quote di potere reale, di<br />

appropriarsi del controllo<br />

sul proprio lavoro e, con<br />

esso, <strong>della</strong> propria<br />

dignità?<br />

33


34<br />

reparto, si aprì un grande conflitto<br />

articolato, una grande vertenzialità<br />

articolata che portò a conflitti ma<br />

anche ad accordi sulle condizioni di<br />

lavoro e sulla gestione <strong>della</strong> produzione.<br />

(…) I delegati avevano la capacità,<br />

oltre che di conoscere la loro<br />

squadra – perché la squadra era un<br />

ambiente sociale, lavorare in fabbrica<br />

era una comunità – di conoscere<br />

tutto quello che succedeva. (…) I<br />

delegati avevano <strong>il</strong> controllo assoluto<br />

di come era organizzato <strong>il</strong> lavoro:<br />

quanti siamo, che problemi abbiamo,<br />

quali problemi ambientali,<br />

quante categorie chiedere, cosa chiedere<br />

alla Direzione, manca organico<br />

qui, spostano tre persone in un’altra<br />

linea: perché le hanno spostate? (…)<br />

La Fiat cominciò a maturare che <strong>il</strong><br />

potere del Consiglio di fabbrica e del<br />

sindacato era a un livello che non<br />

poteva né condividere né subire».<br />

E la Fiat agì di conseguenza, fece <strong>il</strong><br />

suo mestiere. Così come, negli anni<br />

Ottanta e dopo – per tutti gli anni<br />

Novanta – fecero <strong>il</strong> loro, i poteri forti<br />

del capitalismo reale. E noi? Cosa<br />

abbiamo fatto noi, o meglio cosa fece<br />

una parte di noi? Piero Di Siena ha<br />

ricordato la figura di uno dei grandi<br />

dirigenti <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>: Bruno Trentin,<br />

un compagno, un dirigente autorevole<br />

e stimato. Il mio ricordo va alla<br />

Conferenza di programma che la<br />

Cg<strong>il</strong> tenne a Chianciano nell’apr<strong>il</strong>e<br />

del 1989: un «quasi-congresso» fu<br />

definita, una svolta che disegnava<br />

«la nuova Cg<strong>il</strong>». In effetti, Trentin<br />

aprì allo sguardo, in quella sede, dimensioni<br />

generali e tematiche fino<br />

ad allora non indagate. Fu posta, per<br />

la prima volta in una sede sindacale,<br />

la grande questione dei vincoli ambientali<br />

e di uno sv<strong>il</strong>uppo fino ad allora<br />

inteso senza limiti quantitativi<br />

di lungo periodo (è precisamente<br />

questa una delle questioni davvero<br />

inedite cui prima accennavo). In<br />

proposito, Trentin fu lapidario: «Nessuno<br />

può fare la lezione ai disoccupati<br />

o ai braccianti del Bras<strong>il</strong>e sulla<br />

necessità di salvaguardare l’Amazzonia<br />

se non dà al tempo stesso le<br />

prove di voler lottare, qui in Italia e<br />

in Europa, per cambiare <strong>il</strong> governo<br />

dello sv<strong>il</strong>uppo» (Relazione di B. Trentin alla Conferenza di programma Cg<strong>il</strong>,<br />

Chianciano 12-14 apr<strong>il</strong>e 1989). Eppure quella Conferenza passò alla storia<br />

del sindacalismo italiano e <strong>della</strong> sinistra nel suo complesso per tutt’altri motivi:<br />

perché, come scrissero benevolmente i giornali dell’epoca, lo «strappo di<br />

Trentin» finalmente inaugurava <strong>il</strong> passaggio dal «sindacato di classe» al sindacato<br />

dei diritti e delle persone», un sindacato che – commentò Alfredo Reichlin<br />

– sapesse «parlare non solo alle masse ma agli individui, non solo all’operaio<br />

ma all’insieme dell’Italia moderna che intraprende, che pensa e che<br />

produce» («l’Unità», 16 apr<strong>il</strong>e 1989).<br />

Mi chiedo: quei lavoratori del Consiglione di Mirafiori non erano forse a<br />

pieno titolo, essi sì, «persone», individui associati capaci di contendere col<br />

conflitto quote di potere reale, di appropriarsi del controllo sul proprio lavoro<br />

e, con esso, <strong>della</strong> propria dignità? Viceversa, sarà un caso, ma la fine del<br />

«sindacato di classe» – e nonostante l’investimento ufficiale del sindacato<br />

sulle «persone» – ha dato l’avvio a uno dei periodi più neri nella storia del<br />

movimento operaio italiano. Nella prima metà degli anni Novanta (con<br />

Trentin per un certo periodo alla testa <strong>della</strong> più grande forza sindacale) un<br />

micidiale tsunami si è abbattuto sul mondo del lavoro. Nel giro di pochi<br />

anni è stata abrogata la scala mob<strong>il</strong>e, perché «toglie spazio alla contrattazione»:<br />

col risultato che assieme all’abolizione <strong>della</strong> parte automatica di salario<br />

è andata indietro anche quella contrattata. Sono stati siglati i famigerati accordi<br />

del luglio ’92 e ’93, che hanno contrassegnato la mutazione «concertativa»<br />

del sindacato. È stata data la prima devastante spallata alla previdenza<br />

pubblica: con la «riforma» Dini, viene tagliata del 30% la copertura pensionistica.<br />

Nell’insieme, un vero e proprio «colpo di stato» sociale.<br />

Come è potuto accadere? Ha certo ragione Felice Roberto Pizzuti a rispondere<br />

– per la parte relativa alla previdenza – che la ricaduta degli effetti <strong>della</strong><br />

controriforma, da lì a un paio di decenni dopo, non fu allora distintamente<br />

percepita: così che la resistenza del mondo del lavoro fu fiacca. Ma non<br />

basta. Più in generale e più in profondità, era già in atto quella che sopra ho<br />

chiamato «l’introiezione <strong>della</strong> sconfitta», un processo la cui data di nascita<br />

nel nostro paese può essere plasticamente compendiata dallo scioglimento<br />

del più grande partito comunista d’Europa.<br />

L’introiezione <strong>della</strong> sconfitta<br />

Ma da tempo non era più chiaro cosa si dovesse intendere con «sinistra».<br />

Non si tratta qui dell’ovvia considerazione che quel termine aveva da sempre<br />

avuto un riferimento non univoco a tradizioni, ispirazioni, forze politiche<br />

diverse e divise da non lievi contenziosi ideologici. Nonostante questa<br />

multiforme estensione, un senso di massima permaneva a tutti chiaro – almeno<br />

nell’ambito <strong>della</strong> storia europea del Novecento: quello di una determinata<br />

scelta di campo sociale, di un’appartenenza ideale e politica alla storia,<br />

ai valori, alle lotte del movimento operaio. Gli avvenimenti del 1989, oltre a<br />

segnare la profonda crisi del cosiddetto socialismo reale, avevano di fatto impresso<br />

un’accelerazione senza precedenti a un già avviato processo di sfaldamento<br />

delle idee e <strong>della</strong> progettualità politica <strong>della</strong> sinistra in generale. Vi<br />

sono, a mio parere, due punti sensib<strong>il</strong>i la cui erosione ha originato crepe in<br />

un intero edificio teorico e pratico: a) la tesi secondo cui tra i conflitti vecchi<br />

e nuovi che attraversano la totalità sociale ce ne sia uno che resta comunque<br />

fondamentale, segnando specificamente <strong>il</strong> modo di produzione dominante<br />

in occidente – <strong>il</strong> conflitto appunto tra Capitale e Lavoro – dal cui esito<br />

continua a dipendere la possib<strong>il</strong>ità di instaurare una società diversa e più<br />

giusta, oltre che di uno sv<strong>il</strong>uppo delle forze produttive equ<strong>il</strong>ibrato e in sintonia<br />

con i limiti naturali del pianeta; b) la convinzione che una soluzione di<br />

tale conflitto – che è conquista di poteri, decisionali e di controllo, nella società<br />

e nei luoghi di lavoro – passi per una modifica dei rapporti di produ


zione e proprietari e implichi <strong>il</strong> primato<br />

<strong>della</strong> sfera pubblica, ovvero la<br />

preminenza di un’organizzazione<br />

collettiva e consapevole <strong>della</strong> vita<br />

sociale e dello sv<strong>il</strong>uppo produttivo.<br />

Se è vero che questi punti hanno direttamente<br />

ispirato la tradizione comunista<br />

in particolare – o, più in<br />

generale, la sinistra «a impianto<br />

marxista» – è altresì vero che essi<br />

abbiano operato come riferimenti di<br />

massima nelle stesse socialdemocrazie<br />

europee: non è un caso che, con<br />

<strong>il</strong> tracollo dei paesi del socialismo<br />

reale, sia contestualmente sopraggiunta<br />

in Occidente la liquidazione<br />

di qualsiasi idea di piano, sia pure<br />

nella forma addolcita di strumento<br />

regolatore a supporto e correzione<br />

<strong>della</strong> spontaneità delle forze economiche.<br />

In breve, si è ritenuto che<br />

entrambi i punti sopra detti fossero<br />

stati confutati dalla storia: ciò ha determinato,<br />

accanto alla messa all’indice<br />

di qualsiasi prospettiva comunista<br />

(comunque declinata), <strong>il</strong> definitivo<br />

logoramento dell’identità e <strong>della</strong><br />

comune nozione di «sinistra» e<br />

l’adozione contestuale di strumentazioni<br />

concettuali e ispirazioni politiche<br />

già patrimonio dell’ideologia dominante<br />

(poi comprensib<strong>il</strong>mente definita<br />

«pensiero unico»).<br />

È istruttivo, oggi, tornare a quell’euforica<br />

orgia di autodissolvimento che<br />

decretò la falsificazione dell’idea di socialismo<br />

in quanto tale. Si moltiplicarono<br />

gli epitaffi in memoria del caro<br />

estinto. Jürgen Habermas, autorevole<br />

rappresentante <strong>della</strong> scuola di Francoforte,<br />

trasse da quegli eventi la «lezione<br />

inequivoca» secondo cui «le<br />

società complesse non possono riprodursi<br />

se non lasciano intatta la logica<br />

di autoregolazione di un’economia di<br />

mercato» (La rivoluzione in corso, M<strong>il</strong>ano<br />

1990). Sulla medesima scia, Richard<br />

Rorty, f<strong>il</strong>osofo americano erede<br />

<strong>della</strong> tradizione pragmatista – anch’egli<br />

collocato «a sinistra» – non fu<br />

meno perentorio. In un saggio dal titolo<br />

significativo (Gli intellettuali alla<br />

fine del socialismo, in Il Mulino, n°6,<br />

1991), dopo aver notato che «le pubbliche<br />

virtù continueranno a essere<br />

parassiti dei vizi privati» e che quindi<br />

non c’è modo «di assicurare beni e<br />

servizi se non incoraggiando imprenditori<br />

privati ad arricchirsi», egli invitò<br />

a «lasciare i diritti di proprietà al<br />

loro posto» e ad abbandonare <strong>il</strong> vecchio<br />

armamentario terminologico.<br />

Esortò quindi (la «sinistra») a far<br />

fuori dal proprio vocabolario termini<br />

come «economia capitalista», «socialismo»,<br />

o come «borghese» («con <strong>il</strong><br />

suo tradizionale senso peggiorativo»),<br />

in quanto essi avrebbero esaurito<br />

la loro forza, tutta contenuta<br />

nella strana idea che «esistesse un’alternativa<br />

al capitalismo». Invero, le<br />

propensioni «pragmatiste» rischiano<br />

a volte di scadere nel banale. Ma è<br />

proprio questo <strong>il</strong> messaggio più impegnativo<br />

che <strong>il</strong> suddetto saggio voleva<br />

trasmettere: al marxismo veniva<br />

infatti imputato non un difetto quanto,<br />

per così dire, un eccesso di teoria.<br />

L’ossessione dei marxisti è quella di<br />

pretendere di avere o di ricercare<br />

«una profonda conoscenza del moto<br />

<strong>della</strong> storia», di costruire «larghe vie<br />

teoriche», nella convinzione (falsa)<br />

che vi sia bisogno di una «“base teo-<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

rica” per l’azione politica»: di qui «la<br />

sete di favoleggiamenti sulla storia<br />

mondiale e di profonde teorie su<br />

profonde cause del mutamento sociale».<br />

A tutto ciò, <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo contrapponeva<br />

i «piccoli passi» di quanti,<br />

anziché trastullarsi con forze e tendenze<br />

storiche, «si accontentano di<br />

essere concreti, banali e pragmatici»,<br />

nell’intento di «passare dall’istituzione<br />

presente a una un po’ migliore».<br />

Come si vede, proprio i concetti che<br />

danno profondità storica, spessore<br />

strategico alla spiegazione dei fenomeni<br />

economico-sociali (si pensi alla<br />

nozione di «modo di produzione» o<br />

a quella di «classe») venivano a essere<br />

destituiti di efficacia conoscitiva e<br />

r<strong>il</strong>ievo operativo da siffatte forme<br />

«indebolite» di riflessione.<br />

Da qui occorre ripartire per comprendere<br />

le cause profonde che –<br />

sul versante delle «concezioni del<br />

mondo», dei valori dominanti, degli<br />

impianti concettuali – hanno determinato<br />

la poderosa involuzione<br />

degli ultimi due decenni. In sintonia<br />

con la linea argomentativa sopra richiamata,<br />

nel nostro paese fu tra gli<br />

altri <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo Biagio De Giovanni a<br />

fornire un supporto ideale e strategico<br />

alla «svolta» di Ach<strong>il</strong>le Occhetto,<br />

salutando gli avvenimenti dell’89<br />

come «una delle più grandi speranze<br />

di liberazione umana che mai sia<br />

comparsa nella storia» e sanzionando<br />

che «<strong>il</strong> comunismo, come principio<br />

di una realtà politica antagonista,<br />

di una strategia mondiale destinata<br />

a unificare <strong>il</strong> mondo, ha chiuso<br />

la sua esperienza» (Intervista a «<strong>il</strong><br />

manifesto»,24 dicembre 1989).<br />

35


36<br />

Successivamente, in occasione del convegno su Le idee<br />

<strong>della</strong> sinistra organizzato nel febbraio del 1992 dal Partito<br />

democratico <strong>della</strong> Sinistra (cfr. gli atti pubblicati da Editori<br />

Riuniti, Roma 1992), De Giovanni precisava in termini<br />

significativi <strong>il</strong> suo pensiero. In particolare, egli notava<br />

che al progetto di una trasformazione è venuta<br />

meno «l’idea che la storia ha un senso, che c’è un senso<br />

<strong>della</strong> storia che va verso un compimento». In tale affermazione<br />

egli non esprimeva semplicemente una condivisib<strong>il</strong>e<br />

concezione antideterministica dello sv<strong>il</strong>uppo storico,<br />

bensì l’accettazione di una tesi ben più radicale e<br />

restauratrice: la tesi di R. Dahrendorf secondo cui la stessa<br />

«idea di un’altra società, di una società alternativa a<br />

quella esistente, ha in sé una connotazione che conduce<br />

verso <strong>il</strong> “terrore” e <strong>il</strong> totale rinnegamento <strong>della</strong> semplice<br />

ed essenziale umanità dei diritti umani». Come si vede,<br />

a farsi strada è l’idea che vi sia un’irrimediab<strong>il</strong>e frattura<br />

tra la possib<strong>il</strong>ità storica di «rivoluzionare», trasformare<br />

in profondità i rapporti sociali e «<strong>il</strong> carattere universale<br />

del principio di libertà». Ognuno può vedere quanto<br />

grande sia <strong>il</strong> prezzo da pagare non appena si pensi la<br />

sfera dei diritti dell’individuo così irreparab<strong>il</strong>mente contrapposta<br />

all’ambito storico-sociale: in questione finisce<br />

per esser posta niente meno che la possib<strong>il</strong>ità di modificare<br />

un assetto sociale dato. È muovendo da un siffatto<br />

fatale passo che, nel medesimo convegno, si potè poi affermare<br />

una nozione di «democrazia» intesa come «fine<br />

in sé», come valore autonomo e preminente, non necessariamente<br />

inclusivo dell’azione emancipatrice del conflitto<br />

sociale. Nel momento in cui si considera «deperito<br />

<strong>il</strong> fondamento classista <strong>della</strong> solidarietà» (Ach<strong>il</strong>le Oc-<br />

chetto), è possib<strong>il</strong>e parimenti sentenziare che «la democrazia<br />

è formale o non è nulla» (Claudia Mancina), con<br />

buona pace <strong>della</strong> distinzione tra carattere formale e sostanziale<br />

<strong>della</strong> medesima.<br />

Sin da allora, si poteva cogliere <strong>il</strong> divario abissale tra le<br />

proposte di modelli regolativi ideali, privi di aggettivazioni<br />

specificanti («democrazia», «mercato» ecc.), predisposti<br />

per soggetti altrettanto generici (<strong>il</strong> «cittadino» con i suoi<br />

«diritti»), e la dura realtà del «nuovo ordine» capitalistico.<br />

Così, ad esempio, una mente lucida come quella di Luciano<br />

Barca poteva polemizzare con una tale «sconvolgente<br />

foga di cancellazione <strong>della</strong> memoria», stigmatizzando con<br />

ironia quanti si sono affrettati a liquidare «non solo Ricardo,<br />

Marx, Sraffa ma perfino <strong>il</strong> “mercato oligopolistico”<br />

studiato da Sylos Labini» (cfr. L’eresia di Berlinguer, ed. Sisifo).<br />

Oggi, dovremmo essere in grado di affrontare con<br />

una minore ansia e con maggiore cognizione di causa <strong>il</strong><br />

tema di che cosa non ha funzionato in quel grandioso (e<br />

drammaticamente contraddittorio) disegno di superamento<br />

del vigente modo di produzione che è stato <strong>il</strong> «comunismo<br />

reale». Lo possiamo fare, perché abbiamo bene davanti<br />

agli occhi cos’è (e a quali violenze, a quali disastri<br />

sociali e ambientali sta conducendo) su scala planetaria <strong>il</strong><br />

dispiegato «capitalismo reale». Accogliamo dunque di<br />

buon grado l’invito a «cercare ancora». Pensiamo altresì<br />

che di questo «cercare» faccia parte a pieno titolo <strong>il</strong> lavoro<br />

<strong>della</strong> «Rifondazione comunista».


RAUL MORDENTI*<br />

Domandiamoci, ad<br />

esempio: che fine hanno<br />

fatto alcuni m<strong>il</strong>ioni di ex<br />

iscritti al Pci che non<br />

sono andati né nei Ds né in<br />

Rifondazione né nei<br />

<strong>Comunisti</strong> italiani?<br />

* DOCENTE DI STUDI FILOSOFICI, LINGUISTICI E<br />

LETTERARI PRESSO L’UNIVERSITÀ<br />

DI ROMA-TOR VERGATA<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

Rifondazione<br />

comunista<br />

e l’unità a sinistra<br />

Intervento alla Festa di Liberazione di Bologna, 1 agosto 2007<br />

1Ringraziando molto sinceramente dell’invito, debbo precisare che io (al<br />

contrario degli altri interlocutori) non rappresento qui nessun altro che<br />

me stesso e <strong>il</strong> ragionamento, come vedrete molto banale e di buon<br />

senso, che cercherò di dipanare in 6 punti.<br />

Preliminarmente, tento dunque di dare un’interpretazione al mio invito e<br />

alla mia presenza, e l’interpretazione potrebbe essere questa: che nel dibattito<br />

necessario sulla nuova «unità a sinistra» ci sia, e debba esserci, una sorta<br />

di «convitato di pietra», cioè un interlocutore non precisamente identificab<strong>il</strong>e<br />

e strutturato e tuttavia indispensab<strong>il</strong>e, un interlocutore magari sgradito e<br />

tuttavia inevitab<strong>il</strong>e. Penso che questo interlocutore ineludib<strong>il</strong>e possa essere<br />

individuato per ora fra noi nel cosiddetto «popolo <strong>della</strong> sinistra» o, se preferite,<br />

nelle migliaia e decine di migliaia di compagne e compagni che m<strong>il</strong>itano<br />

nella sinistra di alternativa, nei movimenti, nei micro-conflitti quotidiani,<br />

nell’associazionismo, nel volontariato e soprattutto nel sindacato ecc. ma<br />

che non si riconoscono nei nostri partiti (o non ci si riconoscono più: <strong>il</strong> che,<br />

naturalmente, è molto peggio).<br />

Domandiamoci, ad esempio: che fine hanno fatto alcuni m<strong>il</strong>ioni di ex iscritti<br />

al Pci che non sono andati né nei Ds né in Rifondazione né nei <strong>Comunisti</strong><br />

italiani? Oppure pensiamo che, solo per quello che riguarda Rifondazione, <strong>il</strong><br />

turn over degli iscritti si aggira intorno al 20%, a totali stab<strong>il</strong>i o leggermente<br />

in calo, ciò significa che ogni anno circa <strong>il</strong> 20% degli iscritti non ha rinnovato<br />

la tessera; personalmente non so con precisione quanti siano attualmente<br />

gli iscritti al Prc (mi sembra che negli ultimi anni questi dati non siano neppure<br />

più forniti) ma in ogni modo possiamo calcolare fac<strong>il</strong>mente che dal<br />

1991 a oggi ci siano molte decine di migliaia di compagne e compagni che si<br />

sono affacciati nel partito, hanno visto da vicino e direttamente di cosa si<br />

trattava e, per motivi che nessuno si è dato la pena di indagare, sono scappati<br />

via. Per non dire di altre centinaia di migliaia che hanno riempito le<br />

piazze contro la guerra o per difendere l’art. 18 e così via.<br />

Si può pensare seriamente un processo di unità a sinistra «a prescindere»<br />

(come direbbe Totò) dal problema politico costituito da questi compagni e da<br />

queste compagne, i quali (come si diceva una volta) hanno votato la sfiducia<br />

ai nostri partiti con i loro piedi, cioè allontandosene e scappandone via? Io<br />

penso proprio di no; e questo è <strong>il</strong> primo snodo del mio ragionamento, e <strong>il</strong><br />

primo tema che vorrei sottoporre al dibattito.<br />

Si potrebbe affermare che, quanti che siano i soggetti che contribuiranno al<br />

processo unitario di cui parliamo, cioè sia se essi saranno 4 (Prc-Pdci, Verdi,<br />

Sinistra democratica) oppure tre oppure due, oppure, chissà?, cinque o sei,<br />

ebbene occorrerà sempre aggiungere a questo numero n un uno in più, e<br />

questo uno in più deve essere <strong>il</strong>«convitato di pietra» del popolo <strong>della</strong> sinistra<br />

alternativa, le compagne e i compagni senza partito di cui parlavo.<br />

37


Se questo primo tema è condivi-<br />

38 2 so, allora ne consegue direttamente<br />

un secondo, che enuncerei<br />

così: l’unità nuova a sinistra non<br />

può essere in rapporto di continuità<br />

lineare con l’esistente; in altre parole:<br />

credo che nessun soggetto politico<br />

o partito possa considerare <strong>il</strong> processo<br />

di unità a sinistra che si avvia<br />

come <strong>il</strong> prolungamento e l’ampliamento<br />

<strong>della</strong> propria esperienza, insomma<br />

come la conseguenza del<br />

proprio successo politico. Il contrario<br />

è vero: questo processo unitario<br />

deriva da insufficienze, ritardi, errori<br />

di ogni tipo (alcune volte: gravissimi<br />

errori) commessi da ciascuno dei soggetti<br />

che si accingono al processo<br />

unitario, esso è insomma <strong>il</strong> frutto di<br />

una complessiva debolezza (e se volessimo<br />

essere spietati dovremmo<br />

dire: di una generale sconfitta) e<br />

non certo del successo di questo o di<br />

quello. Fausto Bertinotti, nel suo articolo<br />

Massa critica e nuovo soggetto politico<br />

su «Alternative per <strong>il</strong> socialismo»<br />

(a proposito: chissà se l’uso di<br />

questa parola «socialismo», e <strong>il</strong> contemporaneo<br />

abbandono <strong>della</strong> parola<br />

«comunismo» significa qualcosa?)<br />

scrive: «Tocca correre e, insieme,<br />

cercare la strada»; io mi permetterei<br />

di dire: «Tocca correre e, insieme,<br />

cambiare la strada»; anzi (facendo<br />

slittare un po’ <strong>il</strong> significato <strong>della</strong> parola<br />

«insieme», dal significato di<br />

«allo stesso tempo» che ha nel testo<br />

bertinottiano, al senso più letterale e<br />

proprio) io direi: «Tocca correre insieme<br />

e, cambiare strada insieme».<br />

Deriva da questo fatto politico (che<br />

a me sembra incontestab<strong>il</strong>e: baste-<br />

Come può una compagna o un compagno «normale»,<br />

per ipotesi una giovane compagna o un giovane compagno,<br />

sentire come suo, come degno di impegnare e riempire la<br />

sua stessa vita, un partito in cui è necessario iscriversi a<br />

una corrente se si vuole godere di diritti civ<strong>il</strong>i<br />

elementari (come l’elettorato passivo) e in cui,<br />

soprattutto, si decide sempre tutto altrove e «in alto»,<br />

dalle scelte strategiche e teoriche più impegnative fino<br />

alla designazione di un assessore di Municipio?<br />

rebbe ricordare che la somma dei voti e degli iscritti di Prc e Pdci non raggiunge<br />

nemmeno <strong>il</strong> livello del 1998, vale a dire prima <strong>della</strong> scissione cossuttiana;<br />

delle cifre dei voti e degli iscritti del Pci meglio non parlare nemmeno,<br />

per carità di patria, eppure sono passati quasi vent’anni dalla Bolognina, in<br />

pratica un tempo storico, non solo politico!), da questo fatto politico – dicevo<br />

– e non da un generico spirito unitario-buonista, deriva dunque la necessità<br />

di abbandonare atteggiamenti arroganti e «imperialisti», cioè la tentazione<br />

di invitare l’altro, qualsiasi altro, a iscriversi, sia pure sotto mentite spoglie,<br />

al proprio partito, o (come si dice nel gioco dei bambini) a «mettere <strong>il</strong> dito<br />

qui sotto». Il processo di unità a sinistra non può consistere nel fatto che<br />

uno dei soggetti si ingrandisce accogliendo benevolmente qualcun altro.<br />

Questo è dunque <strong>il</strong> secondo snodo del mio ragionamento. Debbo dire che<br />

esso è talmente ovvio che sembra quasi superfluo ribadirlo; eppure voglio<br />

farlo perché questo tratto, ad esempio, configura <strong>il</strong> processo di cui parliamo<br />

come <strong>il</strong> contrario (vorrei sottolinearlo: non solo qualcosa di diverso e meno<br />

che mai in rapporto di continuità, ma <strong>il</strong> contrario) rispetto alla costruzione<br />

<strong>della</strong> «Sinistra europea»; tornerò più avanti, brevemente, su altri aspetti<br />

<strong>della</strong> «Sinistra europea» che mi sembrano da valutare come maestri negativi,<br />

come esempi di ciò che occorre non fare.<br />

Assumiamo per ora, come secondo punto, che unità a sinistra significa<br />

anche discontinuità, necessaria correzione, anzi innovazione (ma sul tema<br />

dell’innovazione, che può prestarsi e si presta a pericolosi equivoci, vorrei<br />

tornare in conclusione di questo intervento).<br />

3Il terzo snodo del ragionamento, o tema, è altrettanto ovvio, ma forse<br />

non è banale: l’unità si fa su un programma, su un progetto, su delle discriminanti;<br />

questo se non si vuole cadere nel tragicomico vissuto in questi<br />

giorni dal Partito democratico che, per aver voluto avviare un processo generico<br />

e onnicomprensivo (<strong>il</strong> quale in realtà aveva ed ha come precise discriminanti<br />

politiche <strong>il</strong> liberismo più o meno temperato e l’americanismo), si ritrova<br />

poi come candidato alla segreteria…Marco Pannella, <strong>il</strong> quale, non senza<br />

ragioni, rivendica di essere da sempre <strong>il</strong> più liberista e più atlantico di tutti.<br />

Ora, questo terzo punto del programma rappresenta un vero paradosso che<br />

si può così enunciare: sul programma non esistono oggi, e non esistono più<br />

da tempo, delle r<strong>il</strong>evanti contraddizioni fra le forze che dovrebbero avviare<br />

l’unità <strong>della</strong> sinistra. A chi avesse dei dubbi basterebbe avere un po’ di<br />

buona memoria (la buona memoria: ecco un ingrediente politico preziosissimo<br />

che nella sinistra, ahimé!, scarseggia): mi riferisco al convegno «Verso sinistra»,<br />

promosso da «<strong>il</strong> manifesto» <strong>il</strong> 15 gennaio 2005 all’Eur a Roma (e ricordato<br />

proprio oggi da Rossanda su «<strong>il</strong> manifesto»), con la partecipazione<br />

di circa 3.000 persone, la relazione di Alberto Asor Rosa e interventi di tutti<br />

i leader <strong>della</strong> sinistra, dai segretari dei due partiti comunisti, ai verdi, agli


esponenti dell’allora sinistra Ds, a molti cristiani di sinistra,<br />

dai massimi responsab<strong>il</strong>i sindacali ad alcuni dei leader<br />

più significativi del movimento, fino a singoli, prestigiosi<br />

intellettuali e personalità. Tutti, senza eccezione, si<br />

dichiararono lì d’accordo con l’impianto di quella relazione<br />

e (soprattutto) con quella proposta unitaria di programma,<br />

tutti parteciparono poi alla «Camera di consultazione<br />

<strong>della</strong> sinistra» che ne derivò. Avvicinandosi le<br />

elezioni del 2006 quel processo, invece di accelerare, fu<br />

interrotto, anzi affossato; e bisogna riconoscere che Rifondazione<br />

fu <strong>il</strong> primo partito che si sf<strong>il</strong>ò da quel processo,<br />

in verità senza addurre nessun’altra motivazione che<br />

non fosse quella malintesa e miope politica di grande<br />

potenza di cui parlavo poc’anzi, insomma la motivazione<br />

che suonava così: «Sono <strong>il</strong> partito (relativamente) più<br />

grosso e visib<strong>il</strong>e, presentandomi in solitudine potrò<br />

avere un po’ più di seggi e di potere». Lo stesso ragionamento,<br />

ammesso che si tratti di un ragionamento, ha<br />

portato Rifondazione a negare la possib<strong>il</strong>ità di sperimentare<br />

una lista unitaria e dal basso nelle successive elezioni<br />

per <strong>il</strong> Comune di Roma. Aggiungo, perché la cosa non<br />

è forse priva di significato, che quando la situazione politica<br />

(e anzitutto <strong>il</strong> processo di fondazione del Partito<br />

democratico) ha costretto tutti a riaprire quel discorso<br />

così insipientemente affossato, a nessuno è venuto in<br />

mente di fare una telefonata (come dire? per buona<br />

educazione) ai compagni che avevano promosso quell’esperienza<br />

del Convegno del 2005.<br />

Il riferimento a quel progetto (che, ripeto, era anche un<br />

programma politico largamente condiviso da tutti) mi risparmia<br />

comunque di rifare qui l’elenco di elementi di<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

programma <strong>della</strong> sinistra alternativa al capitalismo che è<br />

ben presente nella mente di tutti noi, un elenco che<br />

parte dalla pace e dunque dal rifiuto di finanziare le<br />

guerre imperialiste o di parteciparvi, che fa cardine sulle<br />

politiche per <strong>il</strong> lavoro, per <strong>il</strong> risarcimento sociale dei lavoratori<br />

e dei pensionati, contro <strong>il</strong> precariato, per la difesa<br />

e <strong>il</strong> r<strong>il</strong>ancio del welfare, <strong>della</strong> scuola pubblica, <strong>della</strong> ricerca<br />

e dell’Università, dei diritti di cittadinanza (a cominciare<br />

da quelli dei lavoratori e delle lavoratrici<br />

migranti); è un programma che trova <strong>il</strong> suo fondamento<br />

e <strong>il</strong> suo coronamento nella Costituzione repubblicana e<br />

antifascista. Mi sia consentita a questo proposito una<br />

sola sottolineatura del nostro possib<strong>il</strong>e programma: la<br />

lotta per la democrazia e la partecipazione, contro <strong>il</strong> presidenzialismo,<br />

<strong>il</strong> plebiscitarismo populistico, <strong>il</strong> sistema<br />

elettorale maggioritario e, insomma, contro l’americanizzazione<br />

<strong>della</strong> politica; è questo un tema da sempre presentissimo<br />

ai nostri avversari (che sono, da sempre, nemici<br />

<strong>della</strong> Costituzione antifascista), dalle leggi truffa al<br />

«Piano di rinascita democratica» di Licio Gelli, da Berlusconi<br />

alla bicamerale dalemiana fino a Mariotto Segni e<br />

ai poteri forti che lo sostengono, ed è un tema che oggi<br />

appare centrale nel programma veltroniano, ma è anche<br />

un tema su cui <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio <strong>della</strong> sinistra di classe e di alternativa<br />

è a dir poco assordante. Ed è un s<strong>il</strong>enzio, a me<br />

sembra, che deve preoccuparci tutti, e parecchio.<br />

Comunque, se volessi fare un riassunto e contrario dei<br />

tratti di quel programma unitario e possib<strong>il</strong>e <strong>della</strong> sinistra,<br />

mi basterebbe oggi ricordare, punto per punto, ciò<br />

che siamo stati costretti a ingoiare in questo anno e<br />

mezzo di governo del centro-sinistra: dalla nuova base<br />

Usa di Vicenza al rifinanziamento <strong>della</strong> guerra, dal<br />

nuovo invio in guerra di soldati italiani alla finanziaria<br />

«lacrime e sangue» (per <strong>il</strong> lavoratori, beninteso), dall’attacco<br />

alle pensioni fino alla conferma <strong>della</strong> legge 30 e al<br />

pacchetto welfare, dal r<strong>il</strong>ancio delle «grandi opere» devastanti<br />

l’ambiente fino all’affossamento, per ossequio al<br />

Vaticano, dei pur minimalissimi Dico ecc.; non scorderei<br />

le piccole ma importantissime provocazioni, veri e propri<br />

sputi in faccia alla classe operaia e alla sinistra, come<br />

l’intenzionale um<strong>il</strong>iazione <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> da parte di Prodi e<br />

Padoa Schioppa, la detassazione degli straordinari (cioè <strong>il</strong><br />

39


40<br />

finanziamento statale, attraverso <strong>il</strong> fisco, dei padroni che<br />

li usano) o <strong>il</strong> recente ricorso del Governo di Roma contro<br />

la tassa <strong>della</strong> Regione Sardegna sulle v<strong>il</strong>le dei ricchi.<br />

In continuità e coerenza con quanto detto poc’anzi a<br />

proposito <strong>della</strong> democrazia e delle leggi elettorali, aggiungerei<br />

all’elenco degli sputi in faccia la partecipazione<br />

di ben quattro ministri in carica (Melandri, Parisi Di Pietro<br />

e Bindi) alla raccolta di firme per <strong>il</strong> referendum<br />

ultra-maggioritario, che mira esplicitamente a costringere<br />

l’elettore, con una legge elettorale assurda, a scegliere<br />

fra due soli partiti di centro distruggendo tutti gli altri,<br />

una raccolta portata avanti dai ministri di Prodi, e dallo<br />

stesso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Letta,<br />

assieme a Segni, Fini, La Russa, Alemanno, al radicale<br />

berlusconico Della Vedova, e (soprattutto) a Confindustria<br />

e banche, cioè i poteri forti e fortissimi (come <strong>il</strong><br />

coro mediatico pro-referendum dimostra ampiamente).<br />

Credo che sia un caso politico unico nella storia in cui<br />

dei ministri (e, tramite Letta, evidentemente lo stesso<br />

Prodi) lavorano apertamente ed esplicitamente per conseguire<br />

la distruzione di tre o quattro partiti che sostengono<br />

<strong>il</strong> loro Governo, e possono fare ciò senza che tali partiti<br />

morituri reagiscano in alcun modo.<br />

Io, da vecchio proporzionalista fedele alla Costituzione,<br />

avrei voluto sentire dalla voce di uno dei nostri autorevoli<br />

compagni ciò che ha detto <strong>il</strong> ministro Mastella, cioè<br />

che <strong>il</strong> Governo cadrà <strong>il</strong> giorno stesso in cui quel vergognoso<br />

quesito referendario fosse portato al voto.<br />

4Ma torniamo al f<strong>il</strong>o del nostro ragionamento: se<br />

l’unità a sinistra è necessaria (cosa di cui nessuno du-<br />

bita) e se essa oggi si può addirittura fondare su una larga<br />

condivisione di programma, allora perché mai essa non<br />

ha avuto luogo e, a tutt’oggi, non si vede un processo politico<br />

credib<strong>il</strong>e e concreto che vi pone mano? Credo che<br />

rispondere a questa domanda ci porterebbe a rispondere<br />

a una domanda diversa, già comparsa come sottintesa nel<br />

nostro ragionamento, cioè quali siano stati i limiti, i ritardi,<br />

e i veri e propri errori che hanno segnato, di fatto, la<br />

crisi o lo stallo dei tentativi di ricostruire, o costruire, una<br />

sinistra di classe nel nostro paese dopo l’89 e lo scioglimento<br />

del Pci. Per quanto mi riguarda personalmente,<br />

data la tessera che ho in tasca dal 1990, si tratterebbe di<br />

cercare di capire come, dove e perché sia sostanzialmente<br />

fallito <strong>il</strong> processo <strong>della</strong> Rifondazione comunista. Dunque<br />

questo discorso ci porterebbe troppo lontano, e certamente<br />

fuori dai limiti di questo intervento.<br />

Mi limiterò allora a due soli elementi, che mi sembrano<br />

essere tutti rivolti al domani (anche se derivano dall’esperienza<br />

negativa di questi anni), cioè due elementi<br />

che mi paiono tratti di innovazione assolutamente necessari<br />

per rendere in qualche modo appetib<strong>il</strong>e e interessante<br />

per <strong>il</strong> grande «popolo <strong>della</strong> sinistra» <strong>il</strong> processo di<br />

unità, ed evitare che esso si riduca alla semplice sommatoria<br />

burocratica di ceti politici più o meno in crisi: questi<br />

due elementi si chiamano a) democrazia interna, e b)<br />

lotta contro la degenerazione istituzionalista dei nostri<br />

partiti. Penso che si <strong>il</strong>lude chi pensa che senza sciogliere<br />

questi due nodi sia possib<strong>il</strong>e coinvolgere, o addirittura<br />

far partecipare, qualcuno che non faccia parte dei partiti<br />

esistenti e delle loro ramificate burocrazie.<br />

Per democrazia, intendo riferirmi al fatto che noi (mi riferisco<br />

alla sola esperienza che conosco personalmente,<br />

quella del partito in cui m<strong>il</strong>ito, degli altri non saprei dire)<br />

siamo usciti da destra, e non certo da sinistra, dal centralismo<br />

democratico <strong>della</strong> tradizione comunista; cioè abbiamo<br />

dato vita a una mostruosa democrazia verticale e correntizia,<br />

non priva di elementi personalistici e, ormai,<br />

anche di aspetti di vera e propria corruzione <strong>della</strong> politica.<br />

Come può una compagna o un compagno «normale»,<br />

per ipotesi una giovane compagna o un giovane compagno,<br />

sentire come suo, come degno di impegnare e riempire<br />

la sua stessa vita, un partito in cui è necessario iscri-


versi a una corrente se si vuole godere<br />

di diritti civ<strong>il</strong>i elementari (come<br />

l’elettorato passivo) e in cui, soprattutto,<br />

si decide sempre tutto altrove e<br />

«in alto», dalle scelte strategiche e<br />

teoriche più impegnative fino alla designazione<br />

di un assessore di municipio?<br />

Credetemi compagni, non è possib<strong>il</strong>e<br />

che un sim<strong>il</strong>e partito attragga<br />

nessuno, se non degli ostinati pazzi e<br />

vecchi come me e come molti di noi,<br />

oppure, ormai sempre più frequentemente,<br />

chi vive del partito stesso che,<br />

direttamente o indirettamente, gli<br />

fornisce lo stipendio. In particolare<br />

nessun giovane normale può essere<br />

attratto da queste cose, che lo respingeranno<br />

cento volte di più se è di<br />

orientamento ideale comunista, e<br />

m<strong>il</strong>le volte di più se è una lavoratrice<br />

o un lavoratore. Si opera in tal modo<br />

una selezione, per così dire, inversa,<br />

cioè si respingono proprio coloro che<br />

dovrebbero interessarci di più (i giovani<br />

e i lavoratori) e si attraggono<br />

proprio coloro che dovrebbero interessarci<br />

di meno (i carrieristi).<br />

Mi rendo conto che questi processi<br />

degenerativi sono più gravi a Roma,<br />

la mia città, che è sede anche <strong>della</strong><br />

Direzione nazionale, del giornale<br />

«Liberazione» (che meriterebbe un<br />

discorso a parte), di gruppi di partito<br />

al Senato, alla Camera, alla regione,<br />

alla provincia, al comune, nei municipi,<br />

e ogni volta con i relativi assessori<br />

e uffici, senza contare, da un<br />

anno e mezzo i ministeri e i sottosegretariati.<br />

Tutto ciò significa diverse<br />

centinaia di posti di lavoro retribuiti,<br />

che si trasformano immediatamente<br />

in «pacchetti tessere» congressuali<br />

del tutto decisive nel partito romano,<br />

ma temo che anche nel resto<br />

d’Italia si verifichino processi degenerativi<br />

analoghi, anche se in forma<br />

meno conclamata. In questo senso<br />

l’istituzionalismo è una faccia diversa<br />

dello stesso problema <strong>della</strong> democrazia;<br />

intendo per istituzionalismo <strong>il</strong><br />

fatto che sia la coda (i compagni<br />

nelle istituzioni, a tutti i livelli) a<br />

muovere <strong>il</strong> cane (<strong>il</strong> partito) e non viceversa<br />

<strong>il</strong> cane a muovere la coda.<br />

Non aggiungo altro, per spirito di<br />

partito, appunto.<br />

Dico solo, per mantenere la promessa<br />

fatta poc’anzi, che l’esperienza di<br />

costituzione <strong>della</strong> «Sinistra Europea»<br />

può bene essere ut<strong>il</strong>izzata come<br />

exemplum negativum: io (che, ripeto,<br />

sono iscritto al Prc dalla fondazione)<br />

non so neppure chi abbia eletto i delegati<br />

a quel congresso di fondazione<br />

e come essi siano stati eletti (nel mio<br />

circolo, di certo, non è stato eletto<br />

alcun delegato né si è approvato<br />

alcun documento di tesi); non so chi<br />

e come e dove abbia deciso le<br />

«quote» di ripartizione di posti fra <strong>il</strong><br />

Prc, «Socialismo del XXI secolo»,<br />

«Unità a sinistra» e altri, né so a<br />

quali forze reali di base queste sigle<br />

corrispondano, o se invece, per ipotesi,<br />

si tratta solo di ceto politico che<br />

ha patteggiato coi vertici del Prc a<br />

partire dal conseguimento, o dalla<br />

conferma, del proprio ruolo istituzionale;<br />

soprattutto non so come e dove<br />

e chi abbia deciso i nomi che andavano<br />

a ricoprire quelle quote prefissate.<br />

So solo che mi ritrovo dentro <strong>il</strong><br />

mio partito (anzi alla sua testa, nel<br />

suo gruppo dirigente) l’on. Folena,<br />

un parlamentare non comunista, ma<br />

eletto da noi comunisti, <strong>il</strong> quale rivendica<br />

apertamente di essersi battuto,<br />

e con successo, per rafforzare<br />

l’embargo <strong>della</strong> Comunità Europea<br />

contro Cuba e contro la sua rivoluzione.<br />

Non aggiungo altro.<br />

5Ma <strong>il</strong> vero problema politico è<br />

che questi processi sono dentro <strong>il</strong><br />

più generale problema <strong>della</strong> crisi<br />

<strong>della</strong> politica italiana e <strong>della</strong> sua corruzione,<br />

non ne rappresentano una<br />

soluzione, e neppure un tentativo di<br />

soluzione, ma, appunto, solo un episodio<br />

e un aspetto. Ecco allora in<br />

che senso l’innovazione appare necessaria<br />

anche al processo unitario:<br />

un partito, o una federazione di partiti,<br />

o un aggregato di partiti e altre<br />

forze di sinistra, che si ponesse esplicitamente,<br />

seriamente e credib<strong>il</strong>mente<br />

(ripeto questi tre avverbi:<br />

esplicitamente, seriamente e credib<strong>il</strong>mente)<br />

come tentativo di soluzione<br />

di questi problemi <strong>della</strong> lotta per<br />

la democrazia e contro l’istituzionalismo,<br />

credo che incontrerebbe un<br />

OPINIONI A CONFRONTO<br />

grande successo; mi sembra che<br />

pochi sentimenti siano diffusi nel<br />

nostro popolo quanto <strong>il</strong> risentimento<br />

e <strong>il</strong> vero e proprio disprezzo verso la<br />

politica e i politici, che noi possiamo<br />

demonizzare quanto vogliamo reiterando<br />

l’accusa di qualunquismo<br />

mentre ormai tali sentimenti hanno<br />

non solo motivazioni sacrosante ma<br />

anche un’evidente connotazione di<br />

classe.<br />

Ora, io credo che ci sia una sola<br />

frase che i comunisti non possono<br />

sentirsi dire dal loro popolo, mai, in<br />

nessuna circostanza, e questa frase<br />

è: «Anche voi siete come tutti gli<br />

altri». E questa frase, che segna la<br />

fine di ogni ipotesi di sinistra politica<br />

alternativa, fa oggi parte del diffuso<br />

senso comune delle masse. Non so<br />

neppure se i nostri dirigenti se ne<br />

rendano conto, ma vi assicuro che è<br />

così. Per spiegare con un solo esempio<br />

cosa intendo dire: oggi penso che<br />

sarebbe credib<strong>il</strong>e solo un partito o<br />

una federazione di partiti, o un aggregato<br />

di partiti e altre forze di sinistra,<br />

che esplicitamente, seriamente<br />

e credib<strong>il</strong>mente praticasse cose come<br />

la rotazione degli eletti; la loro non<br />

rieleggib<strong>il</strong>ità; la collegialità <strong>della</strong> leadership;<br />

anzitutto e specialmente<br />

nella rappresentazione mediatica;<br />

l’incompatib<strong>il</strong>ità più rigorosa fra cariche<br />

istituzionali e cariche di partito;<br />

la designazione dal basso dei candidati<br />

e delle candidate e la verifica<br />

costante in strutture permanenti di<br />

democrazia diretta del comportamento<br />

degli eletti e delle elette; la riduzione<br />

sostanziale degli emolumenti<br />

(non solo <strong>il</strong> ridicolo, e quasi<br />

41


42<br />

provocatorio, taglio dei 3000 euro delle spese per i viaggi<br />

all’estero!) ricordando che nella tradizione comunista<br />

(fino agli anni Ottanta!, non secoli fa!) l’ammontare<br />

degli stipendi degli istituzionali come dei dirigenti corrispondeva<br />

al salario degli operai metalmeccanici meglio<br />

pagati; la pratica di forme di diritto ineguale, per priv<strong>il</strong>egiare<br />

la presenza nelle istituzioni di coloro che la spontaneità<br />

capitalistico-borghese esclude ferreamente, a cominciare<br />

dalle donne, naturalmente, ma anche dai lavoratori<br />

dipendenti, e così via.<br />

E, contro ogni alibi, faccio presente che la maggior parte<br />

di queste cose si potrebbero fare oggi, o domani stesso,<br />

senza aspettare nessuno, con semplici, ma dirompenti!,<br />

gesti un<strong>il</strong>aterali. Analogamente <strong>il</strong> problema <strong>della</strong> democrazia<br />

nel/nei partiti o nella nuova aggregazione si potrebbe<br />

e si dovrebbe riaffrontare dalle fondamenta: idee,<br />

esperienze (molte straniere ma molte provenienti dal<br />

movimento italiano) e anche proposte assai articolate<br />

non mancano, benché io non abbia <strong>il</strong> tempo di affrontare<br />

ora e qui questo problema; ma ci vorrebbe poco perché<br />

un’apposita commissione unitaria di «saggi» predisponesse<br />

una «pacchetto democrazia» da sottoporre al<br />

dibattito unitario.<br />

Questo intendo per innovazione (ma altri analoghi<br />

esempi si potrebbero fare).<br />

6Ciò significa che non necessariamente l’innovazione<br />

è sinonimo di «svolta a destra», ci può, e ci deve essere<br />

un’innovazione che, al contrario, porta a sinistra.<br />

Questa identificazione, fra innovazione e svolta a destra<br />

è anzi una delle jatture <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> sinistra da cui<br />

occorrerebbe liberarsi una volta per tutte. Se ci pensiamo<br />

fu questo uno dei tratti dell’occhettismo, che presentò<br />

la liquidazione del Pci e la proposta del Pds appunto<br />

come un’«innovazione» a cui si opponevano solo i<br />

«conservatori» e i settari. L’esperienza ci ha insegnato, o<br />

dovrebbe averci insegnato, dove porta in realtà l’innovazione<br />

postmoderna, quando i princìpi, cioè i riferimenti<br />

classisti e internazionalisti che ci fanno comunisti, sono<br />

sostituiti da fascinose frasi, ultrasinistre per suono e colore<br />

ma in sostanza liquidatorie. E ora, quasi vent’anni<br />

dopo, e soprattutto dopo che l’esperienza ha dimostrato<br />

dove porta quella linea di falso movimento, ci rifacciamo?<br />

Se «ci rifacciamo» allora bisognerebbe almeno<br />

avere l’onestà di rivalutare Ach<strong>il</strong>le Occhetto e di chiedergli<br />

scusa. Ma se non si vuol fare questo, allora occorre<br />

percorrere tutt’altra strada.<br />

Non si tratta, secondo me, di questione di nome: se nel<br />

processo <strong>della</strong> nuova unità a sinistra non tutti saranno<br />

comunisti <strong>il</strong> nome non potrà essere comunista; ma deve<br />

essere chiaro che a) l’intero asse <strong>della</strong> nuova unità sarà e<br />

non potrà non essere l’anticapitalismo, e b) che i comunisti<br />

rivendicano la possib<strong>il</strong>ità di organizzarsi, o restare<br />

organizzati, dentro tale nuovo soggetto, con la loro autonomia<br />

e una piena dignità rispetto agli altri soggetti.<br />

Guai se <strong>il</strong> nostro dibattito sull’unità a sinistra fosse fra,<br />

da una parte, gli «innovatori», che spingono a destra<br />

verso l’abbandono del comunismo e un pastrocchio postmoderno<br />

neosocialista, pieno di frasi scarlatte ma sostanzialmente<br />

liquidatorio, e dall’altra parte i difensori<br />

<strong>della</strong> natura comunista, di classe e internazionalista <strong>della</strong><br />

nostra politica, che però si lasciassero intrappolare nella<br />

difesa di ciò che è davvero indifendib<strong>il</strong>e, cioè lo status<br />

quo dei nostri partiti, la misera cosa (una cosa niente affatto<br />

rossa!) che essi sono attualmente.<br />

Al contrario, l’unità a sinistra, fra i partiti, i movimenti,<br />

le compagne e i compagni del «popolo <strong>della</strong> sinistra»,<br />

può essere intesa come un’occasione, forse l’ultima, per<br />

rifondare la politica, la nostra politica rivoluzionaria, che<br />

non è altro se non un rapporto più intenso e vitale fra<br />

formazioni politiche e classe, un nesso fondante fra presenza<br />

nella politica e conflitto sociale.


ENZO MODUGNO*<br />

VLADIMIRO GIACCHÉ**<br />

a cura di Gianmarco Pisa<br />

Centro di Documentazione<br />

«Patrizia Gatto», Napoli<br />

Negli stessi anni in<br />

cui la figura di Lenin è<br />

ridotta a una sorta di<br />

«tirannello orientale»,<br />

non si può fare a meno di<br />

constatare che i cinque<br />

contrassegni<br />

dell’«Imperialismo, fase<br />

suprema del capitalismo»<br />

costituiscono la<br />

rappresentazione più<br />

corretta di ciò che sta<br />

succedendo<br />

* SAGGISTA E COLLABORATORE DE «IL MANIFESTO»<br />

** ECONOMISTA<br />

IDEE<br />

Marx oggi<br />

i compiti dei movimenti di liberazione<br />

e i loro presupposti teorici<br />

Quella che segue è una tavola rotonda con Enzo Modugno e Vladimiro<br />

Giacché, svoltasi alla vig<strong>il</strong>ia delle elezioni politiche (apr<strong>il</strong>e 2006), poi <strong>rivista</strong><br />

a poco più di un anno dall’insediamento del Governo Prodi (giugno<br />

2007). In questa riflessione, situata a cavallo di eventi r<strong>il</strong>evanti per <strong>il</strong> futuro<br />

<strong>della</strong> sinistra, dalla sinistra di alternativa al Partito democratico, i temi chiave<br />

per l’attualizzazione <strong>della</strong> lezione di Marx sono venuti subito alla luce: la<br />

centralità del conflitto capitale-lavoro, l’esigenza di ri-appropriarsi dei contenuti<br />

autonomi del pensiero di classe e le nuove frontiere <strong>della</strong> trasformazione.<br />

Con un occhio anche alle proposte di riforma che è necessario introdurre nel<br />

nostro paese, dopo <strong>il</strong> «deserto sociale» prodotto da cinque anni di governo delle<br />

destre e gli effetti devastanti del neoliberismo su scala mondiale, con tutto <strong>il</strong><br />

portato delle sue contraddizioni, anarchia <strong>della</strong> produzione e pulsione alla<br />

guerra. Le contraddizioni del reale ci consegnano <strong>il</strong> compito di ripartire da<br />

Marx e attualizzarne <strong>il</strong> messaggio. Da lì parte l’esigenza di questo confronto con<br />

due figure rappresentative del panorama intellettuale <strong>della</strong> sinistra comunista.<br />

Per dirla con le parole di Vladimiro Giacché: «In Marx vedo tre “nodi” decisivi:<br />

una teoria scientifica dello sfruttamento; <strong>il</strong> conflitto capitale-lavoro e la<br />

centralità del lavoro salariato (tanto più importante oggi, essendo i lavoratori<br />

salariati nel mondo ben più che nel passato); e, quindi, una teoria delle contraddizioni<br />

<strong>della</strong> società capitalistica, ineliminab<strong>il</strong>i sul terreno del capitalismo<br />

stesso, le quali danno luogo alle crisi e alla caduta tendenziale del saggio di<br />

profitto. Marx parlava di “tendenze antagonistiche” a tale caduta, tra cui le<br />

più importanti sono la costruzione di nuovi mercati, la tendenza verso <strong>il</strong> mercato<br />

mondiale (mondializzazione) e, infine, la colonizzazione di tutti gli spazi<br />

di esistenza sino a oggi sottratti al mercato».<br />

Marx, dunque. Da lì si parte.<br />

MA QUALE MARX? QUALI IPOTESI PER UNA SUA ATTUALIZZAZIONE? L’INDICAZIO-<br />

NE PER ORIENTARCI POTREBBE OFFRIRCELA GIUSEPPE PRESTIPINO, QUANDO AFFER-<br />

MA CHE UNA TEORIA «NON PUÒ PROPORSI, SEMPLICEMENTE, DI «TORNARE A<br />

MARX»; DEVE FARCI SAPERE SU QUALE MARX CADE LA SCELTA»…<br />

MODUGNO<br />

La questione dell’innovazione del marxismo è importante. A essere in ritardo<br />

è oggi l’individuazione delle categorie più elementari che Marx ha usato per<br />

analizzare <strong>il</strong> capitalismo. Se di capitalismo si tratta, le categorie marxiane sono<br />

ancor oggi all’opera: <strong>il</strong> lavoro e <strong>il</strong> mezzo di lavoro, come questi si sono trasformati.<br />

Basta dare queste risposte per riempire lo schema teorico marxiano,<br />

tanto più che le interpretazioni correnti sono spesso fuorvianti. La più fre-<br />

43


44<br />

quentata vuole che la classe operaia ci sia ancora ma non<br />

nei paesi avanzati: ne segue che i paesi emergenti producono<br />

tutta la ricchezza e noi gliela sottraiamo. Ciò è vero<br />

solo in parte e perciò è necessario riflettere su cosa significhi<br />

produrre e lavorare oggi. Non dimentichiamo che<br />

non c’è più la macchina termica ma quella informatica,<br />

che richiede un lavoro molto diverso.<br />

Marx era stato molto netto a questo proposito. Non questo<br />

o quel lavoro, ma lavoro tout court: è lavoro produttivo<br />

<strong>il</strong> lavoro che produce profitti, punto. L’impianto teorico<br />

alla base è sempre lo stesso: si tratta di mezzi di produzione<br />

gestiti da proprietari capitalistici che assorbono<br />

lavoro. Nella società industriale, <strong>il</strong> capitalista produce ricchezza<br />

appropriandosi del lavoro dei nuovi proletari, nucleo<br />

storico di classe operaia. Il nuovo lavoratore industriale<br />

perde così la sua virtuosità ed è ridotto ad appendice<br />

di una macchina che è di proprietà del capitalista.<br />

Lo stesso vale per <strong>il</strong> sapere. Anche qui dopo un lungo processo<br />

storico, <strong>il</strong> capitale conquista un’altra sfera dell’attività<br />

umana, l’arte di vendere cognizioni: oggi <strong>il</strong> capitale<br />

«produce e vende cognizioni come qualsiasi mercante che<br />

venda cibi e bevande». Queste cognizioni sono oggi la<br />

merce più venduta, come mezzo di produzione o di godimento,<br />

«valanga di informazioni minute e divertimenti<br />

addomesticati». Questo processo va di pari passo con<br />

l’alienazione, la separazione del nuovo lavoratore mentale<br />

da questa universalità delle conoscenze, divenuta la<br />

nuova ricchezza sociale «che cerca di far sua e dalla quale<br />

viene ingoiato». Prodotta, scambiata, consumata dalle<br />

nuove macchine, la conoscenza ormai gli si contrappone<br />

come condizione oggettiva <strong>della</strong> produzione che appartiene<br />

ad altri, dalla quale è stato separato e <strong>della</strong> quale è ridotto<br />

ad appendice quale lavoratore precario.<br />

Insomma, sta succedendo alla produzione di conoscenze<br />

ciò che successe alla produzione artigianale. Il vecchio proprietario<br />

fondiario aveva bisogno dell’aratro ma, per arricchirsi,<br />

doveva portarlo sulla terra; allo stesso modo <strong>il</strong> capitalista<br />

industriale aveva bisogno di conoscenze, ma, per arricchirsi,<br />

doveva portarle in fabbrica e far lavorare gli<br />

operai. Oggi, <strong>il</strong> capitale, con le nuove macchine informatiche,<br />

può realizzare profitti producendo, gestendo e distribuendo<br />

conoscenze. Dunque <strong>il</strong> nuovo lavoratore mentale<br />

E’ necessario riflettere su cosa<br />

significhi produrre e lavorare oggi.<br />

Non dimentichiamo che non c’è più la<br />

macchina termica ma quella<br />

informatica, che richiede un lavoro<br />

molto diverso<br />

tende a sostituire da un lato l’operaio e dall’altro <strong>il</strong> vecchio<br />

intellettuale, ridotto a servitore di un complesso di macchine<br />

che ne incorporano la virtuosità. Ecco perché non è<br />

vero che nella società <strong>della</strong> conoscenza <strong>il</strong> cervello umano<br />

diventi <strong>il</strong> nuovo mezzo di produzione, come hanno sostenuto<br />

certi ex operaisti. Anzi, <strong>il</strong> cervello umano ne è escluso:<br />

nessuno usa più i calcoli del cervello di un ingegnere<br />

per costruire un ponte! Così impostata, la questione <strong>della</strong><br />

produzione lascia del tutto in piedi le categorie marxiane,<br />

indispensab<strong>il</strong>i per capire chi sono i nuovi lavoratori addetti<br />

alle macchine informatiche. Non c’è lavoratore oggi che<br />

non sia diventato in qualche modo un lavoratore mentale<br />

perché in qualunque ramo d’industria ha sempre a che<br />

fare con una macchina che manipola segni.<br />

GIACCHÉ<br />

Il «mio» Marx è vicino a questa interpretazione. In primo<br />

luogo, <strong>il</strong> processo appena descritto è un processo storico. Il<br />

momento dell’ideazione c’è sempre stato ed è stato valorizzato<br />

già nella teoria economica classica. La novità odierna<br />

consiste semmai nella reductio ad unum (dove quest’unità<br />

è <strong>il</strong> mercato capitalistico) di tutto ciò che è riconducib<strong>il</strong>e<br />

alla vita e quindi la distruzione sistematica dell’ambiente<br />

naturale e <strong>della</strong> vita sociale. La pericolosità <strong>della</strong> situazione<br />

può essere intesa se si comprende che <strong>il</strong> capitale, per<br />

definizione, ha un orizzonte di breve periodo e non è capace<br />

di pensare strategicamente: <strong>il</strong> suo unico obiettivo è la<br />

massimizzazione dei profitti a beneficio dell’accumulazione.<br />

Mi riesce diffic<strong>il</strong>e prescindere, nel cercare cosa ci serve<br />

delle teorie marxiane oggi, dagli sv<strong>il</strong>uppi successivi dati<br />

alle sue teorie dai teorici dell’imperialismo. Anche rispetto<br />

a questo la realtà attuale è abbastanza stupefacente.<br />

Negli stessi anni in cui la figura di Lenin è ridotta a una<br />

sorta di «tirannello orientale», non si può fare a meno di<br />

constatare che i cinque contrassegni dell’«Imperialismo,<br />

fase suprema del capitalismo» costituiscono la rappresentazione<br />

più corretta di ciò che sta succedendo. Il primo è la<br />

concentrazione tra imprese (monopolio), arrivata a un livello<br />

mai conosciuto nella storia del capitalismo: basti ricordare<br />

che i profitti <strong>della</strong> Exxon, 36 m<strong>il</strong>iardi di dollari,<br />

sono pari al PIL di 125 paesi. Il secondo è la finanziarizzazione<br />

dell’economia: la crescente importanza del capitale


finanziario (cioè la fusione tra capitale industriale e capitale<br />

bancario) e la conseguente integrazione tra banca e industria.<br />

Il terzo è la crescente importanza dei flussi di capitale<br />

rispetto all’esportazione di merci. Vige un autentico<br />

«paradosso», in quanto <strong>il</strong> deficit dei paesi industrializzati è<br />

pagato con l’afflusso di capitali dai paesi emergenti con <strong>il</strong><br />

risultato che, di fatto, i poveri finanziano i ricchi; se <strong>il</strong> meccanismo<br />

saltasse, l’economia Usa crollerebbe. Il quarto è la<br />

formazione di cartelli tra imprese che si spartiscono i mercati<br />

mondiali. Basta entrare in un’auto per rendersene<br />

conto: si è di fronte a tre cartelli, le grandi compagnie petrolifere,<br />

assicurative e automob<strong>il</strong>istiche. Il quinto è la lotta<br />

per <strong>il</strong> controllo delle aree di influenza tra potenze capitalistiche,<br />

che contempla la guerra e rappresenta una competizione<br />

per l’egemonia delle rispettive aree valutarie. È<br />

chiaro che l’unificazione monetaria europea va interpretata<br />

come una sfida lanciata al potere di signoraggio monetario<br />

del dollaro. Infatti, conquistare potere di signoraggio<br />

significa attirare capitali, spostare risorse e partecipare da<br />

posizioni di forza alla spartizione internazionale del lavoro.<br />

Dopo <strong>il</strong> crollo del muro di Berlino nel 1989, dopo la<br />

prima guerra in Iraq del 1991, e, pochi mesi dopo, la fine<br />

dell’Urss, mentre Fukuyama favoleggia di «fine <strong>della</strong> storia»,<br />

a Maastricht nel 1992 si decide di dar vita alla moneta<br />

unica europea. Si attiva una sorta di «esempio di<br />

scuola» di conflittualità inter-imperialistica, con una attivazione<br />

di eventi impressionante. Dopo l’89, <strong>il</strong> mondo<br />

entra in un piano inclinato tutto costellato di guerre: Iraq<br />

(1991), Somalia (1992), Bosnia (1993), Kosovo (1999),<br />

Afghanistan (2001), oggi ancora Iraq e, forse domani,<br />

Iran. Ecco perché per capire queste dinamiche è essenziale<br />

rifarsi a Marx e al marxismo.<br />

POSSIAMO AFFERMARE DI ESSERE IN CERCA DI UNA PROPOSTA<br />

PER L’ATTUALITÀ DEL MARXISMO, TEORIA/PRASSI DELLA LIBE-<br />

RAZIONE E STRUMENTO DI TRASFORMAZIONE DELLA REALTÀ.<br />

COME HA SCRITTO MARCELLO MUSTO: «SE SI RITIENE CHE IL<br />

PENSIERO DI MARX PARLI ANCORA AL PRESENTE, OCCORRE RI-<br />

LEGGERNE GLI SCRITTI ALLA FONTE. ESSI VANNO DISGIUNTI<br />

DAGLI IDEOLOGISMI CHE LI HANNO SPESSO ACCOMPAGNATI».<br />

GIACCHÉ<br />

L’operazione di lettura f<strong>il</strong>ologica è legittima, ma anche<br />

velleitaria, perché la lettura del testo è sempre mediata<br />

dalla realtà storica e dall’esperienza sociale di chi lo legge.<br />

In questo caso, poi, la vitalità di Marx consiste nel fatto<br />

che i dati di fondo del modo di produzione che descrive<br />

sono gli stessi del modo di produzione in cui viviamo<br />

oggi. Il problema non è <strong>il</strong> «giovane Marx» o <strong>il</strong> «vecchio<br />

Marx», <strong>il</strong> punto fondamentale per cui Marx serve o non<br />

serve è se interpreta in maniera valida la società in cui viviamo.<br />

Se ce la fa, bene, altrimenti bisogna trovare una<br />

teoria sostitutiva.<br />

MODUGNO<br />

La lettura f<strong>il</strong>ologica è pienamente legittima perché <strong>il</strong> ciar-<br />

IDEE<br />

pame che avvolge Marx è veramente cospicuo. Quindi,<br />

andare a vedere cos’era veramente Marx è operazione<br />

necessaria, se non altro per scrostarlo da certi orpelli del<br />

Novecento…<br />

GIACCHÉ<br />

…purché i recuperi non corrispondano a una esorcizzazione!<br />

In questo senso la riscoperta dei Grundrisse è stata<br />

straordinaria così come <strong>il</strong> lavoro di ri-edizione <strong>della</strong> Mega<br />

[Marx-Engels Gesamtausgabe], l’opera completa, sta mettendo<br />

nuovi materiali a disposizione. In definitiva, possiamo<br />

convenire che Marx è <strong>il</strong> Marx del Capitale: è un<br />

pensatore unitario perché consequenziale, dotato di un<br />

proprio processo di sv<strong>il</strong>uppo e di una ricca articolazione<br />

del ragionamento, <strong>il</strong> cui approdo è l’opera che ci ha consegnato.<br />

MODUGNO<br />

Marx è ancora insuperab<strong>il</strong>e proprio perché è andato più<br />

avanti nella teoria del capitale. La sua è l’ultima sintesi<br />

complessiva: la sua critica dell’economia politica è più<br />

che mai attuale e avanzata.<br />

TORNIAMO AL TEMA CENTRALE DELLA NOSTRA DISCUSSIONE.<br />

NUOVE FRONTIERE DELLA LIBERAZIONE, PERCORSI DI SUPE-<br />

RAMENTO DEL CAPITALISMO E LORO DIALETTICA CON IL PA-<br />

TRIMONIO STORICO DEL SOCIALISMO. QUALI IPOTESI PER UNA<br />

COERENTE ATTUALIZZAZIONE, ANCHE ALLA LUCE DELLE PIÙ<br />

RECENTI ESPERIENZE DI TRASFORMAZIONE E DELLA PROPOSTA<br />

ODIERNA, DA PIÙ PARTI EVOCATA, DEL «SOCIALISMO DEL XXI<br />

SECOLO«?<br />

GIACCHÉ<br />

Faccio riferimento all’esperienza dei movimenti, in generale,<br />

degli ultimi anni. Credo che quando si usa lo slogan «un<br />

altro mondo è possib<strong>il</strong>e» (senza dire quale mondo) automaticamente<br />

si afferma che un altro mondo è impossib<strong>il</strong>e. In<br />

effetti, uno dei presupposti anche dei movimenti, e non<br />

solo dell’ideologia liberale, è quello dell’intangib<strong>il</strong>ità dell’attuale<br />

modo di produzione. Questo presupposto condanna <strong>il</strong><br />

movimento e lo spinge all’indeterminatezza, perché presuppone,<br />

nella migliore delle ipotesi, una sfiducia nel fatto<br />

che movimenti di liberazione basati sulla abolizione <strong>della</strong><br />

proprietà privata dei mezzi di produzione possano risultare<br />

efficaci. Questo chiude l’orizzonte <strong>della</strong> trasformazione nei<br />

nostri paesi. Viceversa, i paesi dell’America Latina in cui <strong>il</strong><br />

processo di trasformazione è più consolidato (pensiamo a<br />

Cuba, al Venezuela di Chavez e oggi alla Bolivia di Morales),<br />

hanno fatto una chiara esperienza di espropriazione<br />

che li colloca in una dimensione più avanzata. Il fermento<br />

che contraddistingue oggi <strong>il</strong> subcontinente lo dimostra.<br />

MODUGNO<br />

Anche in questo caso vale la lezione <strong>della</strong> storia. Se tanto<br />

mi dà tanto, può servire ricordare cosa è stata la guerra<br />

del Vietnam: la nazione più potente del mondo – contro<br />

45


46<br />

una nazione di contadini, sia pure eroici – costretta dodici<br />

anni nel pantano, per poi finire sconfitta e ritirare le<br />

bare avvolte dalla bandiera a stelle e strisce. Quando<br />

Sweezy e Magdoff facevano conferenze nelle Università<br />

americane in quegli anni, gli studenti erano convinti che<br />

lì ci fossero chissà quali riserve di uranio che giustificassero<br />

quella carneficina. L’aggressione Usa era stata in realtà<br />

m<strong>il</strong>itarmente priva di senso, come rivelarono poi<br />

i«Vietnam Papers». Lo stesso, mutatis mutandis, avviene<br />

oggi in Iraq. Anche quella in Iraq è una guerra «misteriosa»,<br />

come dice lo storico m<strong>il</strong>itare inglese John Keegan,<br />

cioè, ancora una volta, m<strong>il</strong>itarmente priva di senso: doveva<br />

durare cinque anni, erano stab<strong>il</strong>ite «a priori» modalità<br />

e durata e, soprattutto, non bisognava far scoprire i retroscena<br />

<strong>della</strong> guerra stessa, le ragioni non propriamente m<strong>il</strong>itari<br />

<strong>della</strong> crescita abnorme dell’apparato bellico degli<br />

Stati Uniti. Ma questo castello rivela tutta la sua frag<strong>il</strong>ità,<br />

come dimostra anche la sconfitta di Bush alle elezioni di<br />

medio termine per <strong>il</strong> Congresso.<br />

ALTRO NESSO CHIAVE È QUELLO TRA ECONOMIA E GUERRA.<br />

ANCOR OGGI LE CLASSI DOMINANTI SCELGONO L’OPZIONE MI-<br />

LITARE COME VETTORE ANTICICLICO PER L’ACCUMULAZIONE,<br />

COMPRIMENDO LE ISTANZE DI EMANCIPAZIONE; LA MEDESIMA<br />

AMBIZIONE USA A «MODELLARE IL FUTURO» RISPONDE A UNA<br />

LOGICA DI «POTENZA» CHE SEMBRA QUASI ATTINGERE A<br />

UN’ISPIRAZIONE «HEGELIANA», NEL SENSO CHE «LO STATO<br />

DEVE AVERE DEI NEMICI, PERCHÉ PUÒ NASCERE E DURARE<br />

SOLO NEL GIOCO DI UN CONFRONTO MILITARE».<br />

MODUGNO<br />

Il fatto più r<strong>il</strong>evante è che gli Stati Uniti, ininterrottamente<br />

dalla Seconda guerra mondiale, hanno gestito m<strong>il</strong>itarmente<br />

<strong>il</strong> ciclo economico. È interessante notare che le diverse<br />

fasi del ciclo economico segnano le diverse ondate<br />

delle campagne m<strong>il</strong>itari Usa, che sostengono <strong>il</strong> r<strong>il</strong>ancio<br />

economico con l’intervento m<strong>il</strong>itare, le spese per commesse<br />

di guerra, l’investimento pubblico nel complesso<br />

m<strong>il</strong>itar-industriale. In definitiva, appare sempre più evidente<br />

come la spesa m<strong>il</strong>itare e la guerra siano uno strumento<br />

fondamentale per la politica economica degli Stati<br />

Uniti. Basti considerare che, quando l’economia Usa è in<br />

crisi, dopo due o tre trimestri consecutivi di contrazione,<br />

ecco che, in genere sei mesi dopo, scoppia una guerra.<br />

Questa traccia dei sei mesi è ricorrente: la guerra di Corea<br />

comincia sei mesi dopo la crisi del dicembre 1949; le Torri<br />

Gemelle crollano sei mesi dopo la crisi del marzo 2001.<br />

Anche l’11 settembre sembra rispondere alla medesima<br />

logica anti-ciclica. Il problema è come mai tutto ciò non<br />

passa nel dibattito pubblico.<br />

GIACCHÉ<br />

La grande sconfitta del movimento per la pace è venuta<br />

quando ha resistito in maniera fleb<strong>il</strong>e all’idea<br />

dell’«esportazione <strong>della</strong> democrazia» o ad altre tesi (che<br />

continuano a essere riproposte, come testimonia la relazione<br />

di Fausto Bertinotti al congresso <strong>della</strong> Sinistra Europea<br />

dello scorso 16 giugno) come la «spirale guerra-terrorismo».<br />

Quando si dice che «non si combatte così la<br />

guerra al terrore», non ci si accorge che così si accetta <strong>il</strong><br />

presupposto stesso <strong>della</strong> «guerra al terrore». Si fanno propri,<br />

cioè, alcuni corollari insostenib<strong>il</strong>i: <strong>il</strong> terrorismo esclude<br />

l’attività degli eserciti regolari, come se questi non si<br />

rendessero responsab<strong>il</strong>i di episodi di terrorismo (basta vedere<br />

la Palestina); si accetta la metafora <strong>della</strong> «guerra» per<br />

combattere <strong>il</strong> terrorismo e che <strong>il</strong> terrorismo sia «autonomo»,<br />

dimenticando che è semplicemente una tattica che<br />

può essere al servizio dei fini più disparati. Insomma, accettare<br />

la guerra al terrore e la «spirale guerra-terrorismo»<br />

significa consegnare la vittoria al Pentagono, nel<br />

senso che oggi la grande vittoria degli apparati statunitensi<br />

è quella di aver imposto un lessico e una agenda, alle<br />

quali non ci si riesce a sottrarre.<br />

I MECCANISMI DOMINANTI, DI SOPRAFFAZIONE E AGGRESSIO-<br />

NE, CHE CONTENGONO IL NERBO DELLA VIOLENZA, COSTRUI-<br />

SCONO LE LORO ARCHITETTURE IDEOLOGICHE, LE LORO CUL-<br />

TURE ATTE A GIUSTIFICARNE CONDOTTE ED ESITI. IL LIBERALI-<br />

SMO, DUNQUE, COME PRODOTTO IDEO-POLITICO DELLA<br />

CLASSE DOMINANTE, CONSUSTANZIALE ALLA GUERRA.<br />

MODUGNO<br />

Il liberalismo è l’ideologia del denaro: i capitalisti sono<br />

condannati a far passare tutte le cose prodotte attraverso <strong>il</strong><br />

denaro. Anche per appropriarsi del lavoro altrui devono<br />

farlo diventare denaro. Questa è la loro condanna: sono


diverse fasi del ciclo economico segnano diverse<br />

ondate delle campagne m<strong>il</strong>itari Usa, che sostengono <strong>il</strong><br />

r<strong>il</strong>ancio economico con l’intervento m<strong>il</strong>itare, le spese di<br />

guerra, l’investimento pubblico nel complesso m<strong>il</strong>itarindustriale.<br />

E’ sempre più evidente come spesa m<strong>il</strong>itare e<br />

guerra siano uno strumento fondamentale per la politica<br />

economica Usa<br />

condannati all’astrazione che è strumento di dominio e al contempo di disfatta.<br />

Non a caso, per ovviare alle crisi, uno dei mezzi cui fanno ricorso è <strong>il</strong> m<strong>il</strong>itarismo.<br />

È in questa chiave che si inscrive <strong>il</strong> nesso tra liberalismo e m<strong>il</strong>itarismo:<br />

<strong>il</strong> m<strong>il</strong>itarismo è prodotto dalla logica di accumulazione legittimata dal liberalismo<br />

in quanto ideologia <strong>della</strong> classe dominante. Oggi, l’unità produttiva è fatta<br />

di una macchina diversa da quella del passato, ha bisogno di un lavoro diverso,<br />

incorpora i saperi che prima le macchine non possedevano e ciò rende inut<strong>il</strong>e<br />

<strong>il</strong> keynesismo di sinistra (welfare), perché non si ha più necessità di mantenere<br />

operai specializzati. Se tutto è fungib<strong>il</strong>e e <strong>il</strong> lavoro stesso diventa precario,<br />

allora si può realizzare l’obiettivo storico del capitale, cioè prendere <strong>il</strong> lavoro<br />

quando serve e mandarlo via quando non serve più. Il welfare dunque era<br />

un’esigenza <strong>della</strong> fabbrica fordista. Rimane, per la gestione del ciclo, la disponib<strong>il</strong>ità<br />

dei vettori di accumulazione anti-recessiva, come ad esempio la spesa<br />

pubblica per investimenti m<strong>il</strong>itari, ovvero <strong>il</strong> keynesismo di destra (warfare); <strong>il</strong><br />

capitale non può fare a meno di questo versante e lo giustifica in maniera ideologica,<br />

con la «guerra al terrore». Ecco perché neoliberismo e guerra sono, dal<br />

punto di vista del capitale, più avanzati dell’alternarsi di keynesismo m<strong>il</strong>itare e<br />

keynesismo civ<strong>il</strong>e. Neoliberismo e guerra sono complementari, perciò <strong>il</strong> keynesismo<br />

ha vinto nella sua forma m<strong>il</strong>itare, <strong>il</strong> warfare.<br />

GIACCHÉ<br />

L’ideologia per cui democrazia e pace si diffondono grazie al libero mercato è<br />

molto vecchia. La ritroviamo già nel Settecento e ancora alla vig<strong>il</strong>ia <strong>della</strong><br />

Prima guerra mondiale. Recentemente Fukuyama ha ripreso questo tema, addirittura<br />

dicendo che non esistono più guerre per le risorse energetiche e che<br />

anzi esse appartengono inesorab<strong>il</strong>mente al passato, perché <strong>il</strong> binomio democrazia<br />

e libero mercato si diffonderà in tutto <strong>il</strong> mondo. È la celebre tesi <strong>della</strong><br />

fine <strong>della</strong> storia, alla quale rispose con qualche sarcasmo perfino la Thatcher:<br />

End of history, beginning of nonsense («Fine <strong>della</strong> storia, inizio del non senso»).<br />

Il punto è che <strong>il</strong> libero mercato è una costruzione ideologica perché, in realtà,<br />

non esiste: Alan Freeman ha detto chiaramente che <strong>il</strong> mercato è, né più né<br />

meno, un sistema concretamente esistente da trecento anni, fondato sulla repressione<br />

interna e sulla guerra esterna. È un concetto chiave per comprendere<br />

la connessione tra capitalismo, liberalismo e guerra. Lo stesso Marx, interrogandosi<br />

nel Capitale sull’«accumulazione originaria», spiega che la storia<br />

del capitalismo è storia di violenza, dalle enclosures alle leggi contro <strong>il</strong> vagabondaggio,<br />

che promossero la creazione del proletariato industriale in Ingh<strong>il</strong>terra;<br />

dalle guerre commerciali alle guerre per le risorse. Insomma, la storia del<br />

capitalismo è storia di continue aggressioni. Non è mai esistita una fase irenica,<br />

pacifica del capitalismo.<br />

ALL’ACQUISIZIONE DI QUESTA CONSAPEVOLEZZA DEVE PERÒ CORRISPONDERE LA<br />

PREDISPOSIZIONE DELLE STRADE DEL «SUPERAMENTO». SOTTO QUESTO PROFILO, IL<br />

IDEE<br />

KEYNESISMO È ANCORA UNA SOLUZIONE<br />

TRANSITORIA PRATICABILE PER IL MOVI-<br />

MENTO OPERAIO? IN PARTICOLARE,<br />

ANCHE ALLA LUCE DELLE ESPERIENZE DI<br />

GOVERNO DELLE «SINISTRE» IN ITALIA<br />

ED EUROPA, IL KEYNESISMO DI SINI-<br />

STRA, BASATO SUL COMPROMESSO DEL<br />

WELFARE, È ANCORA ATTUALE?<br />

MODUGNO<br />

Non bisogna dimenticare che i capitalisti,<br />

sull’onda <strong>della</strong> crisi, hanno bisogno<br />

<strong>della</strong> guerra per recuperare <strong>il</strong> ritardo<br />

accumulato, sostenendo <strong>il</strong> settore<br />

privato attraverso l’indebitamento<br />

dello Stato. Tuttavia, oggi le risposte<br />

anticicliche sono più spaventose. In<br />

passato, le crisi erano crisi di sovrapproduzione<br />

e determinavano l’alternanza<br />

del ciclo: crisi, ripresa, crisi;<br />

dopo la distruzione <strong>della</strong> parte maggioritaria<br />

di capitale, quello che restava<br />

ritrovava <strong>il</strong> mercato. Già con la<br />

Prima guerra mondiale si decise che<br />

non conveniva aspettare che la crisi<br />

distruggesse i propri capitali, era meglio<br />

andare a prendere i mercati altrui,<br />

distruggendone i capitali e depredandone<br />

le risorse. Fu <strong>il</strong> primo tentativo<br />

compiuto in questa direzione.<br />

GIACCHÉ<br />

La tendenza alla guerra è la dimostrazione<br />

pratica delle conseguenze disastrose<br />

delle crisi capitalistiche e non è<br />

un caso che tutti i tratti peggiori <strong>della</strong><br />

storia del Novecento (la mob<strong>il</strong>itazione<br />

delle masse e la coazione del consenso,<br />

le dittature reazionarie e i campi di<br />

sterminio) siano frutto delle crisi e<br />

connesse a questa dinamica e alle sue<br />

tragiche conseguenze.<br />

MODUGNO<br />

È anche vero, però, che non si può<br />

fare una guerra mondiale ogni volta<br />

che arriva una crisi. Nel ’29, per<br />

esempio, non fu possib<strong>il</strong>e e gli Usa<br />

dovettero subire una crisi terrificante<br />

che durò fino alla Seconda guerra<br />

mondiale. In quella circostanza si verificò<br />

anche che gli Stati Uniti subirono<br />

una depressione contro la quale<br />

non poté valere <strong>il</strong> welfare (quello è <strong>il</strong><br />

periodo in cui nasce <strong>il</strong> welfare svedese,<br />

e ciò fa capire cosa sia <strong>il</strong> welfare,<br />

47


48<br />

Lo stesso Marx spiega che la storia del capitalismo è<br />

storia di violenza, dalle enclosures alle leggi contro <strong>il</strong><br />

vagabondaggio; dalle guerre commerciali alle guerre per<br />

le risorse. Insomma, la storia del capitalismo è storia di<br />

continue aggressioni. Non è mai esistita una fase pacifica<br />

del capitalismo<br />

quando e perché nasca). In quel<br />

frangente maturò la tesi keynesiana:<br />

non aspettiamo che la crisi arrivi;<br />

facciamo intervenire lo Stato per<br />

mob<strong>il</strong>itare le risorse necessarie a<br />

scongiurare le crisi. Il keynesismo<br />

punta esattamente a questo: lo Stato<br />

fa debiti nella fase di contrazione per<br />

poi recuperarli nelle fasi di crescita.<br />

La Seconda Guerra Mondiale rappresentò<br />

l’occasione per gli Stati Uniti<br />

per uscire dalla crisi. Nella logica del<br />

warfare,è la spesa m<strong>il</strong>itare che r<strong>il</strong>ancia<br />

l’economia statale…<br />

GIACCHÉ<br />

…ovviamente, a determinate condizioni:<br />

che la guerra non arrivi in<br />

casa, che la mob<strong>il</strong>itazione popolare<br />

sia irreggimentata e, logicamente,<br />

che la guerra alla fine si vinca. Il problema<br />

è <strong>il</strong> costo di questa strategia; e<br />

questo costo si chiama «debito pubblico<br />

Usa» che rappresenta una mina<br />

vagante nel sistema finanziario internazionale.<br />

Ad esempio, <strong>il</strong> valore del<br />

dollaro rispetto all’oro sta continuando<br />

a scendere; ciò significa che <strong>il</strong> valore<br />

reale del dollaro continua a ridursi,<br />

perché gli Usa inondano <strong>il</strong><br />

mondo di dollari e questo genera dinamiche<br />

inflattive. Anche nel confronto<br />

con le altre valute dominanti,<br />

<strong>il</strong> dollaro tende a deprezzarsi. Questo<br />

è un punto assai delicato. Inoltre, da<br />

quando (1971) sono saltati gli accordi<br />

di Bretton Woods, venuta meno la<br />

convertib<strong>il</strong>ità del dollaro in oro, <strong>il</strong><br />

dollaro è una sorta di «moneta fiduciaria»,<br />

nel senso che vale nella misura<br />

in cui è «accettata» come strumento<br />

di transazione per lo scambio<br />

delle materie energetiche. Ecco perché<br />

gli Usa devono assolutamente<br />

evitare una alternativa al dominio<br />

del dollaro; ed ecco spiegate la minaccia<br />

di una guerra contro l’Iran e<br />

la contrapposizione per «interposta<br />

persona» (Polonia, Repubblica Ceca)<br />

al rafforzamento dell’unità europea.<br />

Rispetto al passato, la differenza sostanziale<br />

è che esiste una valuta che<br />

può affermarsi in alternativa al dollaro<br />

come valuta internazionale di riserva.<br />

Non è velleitario oggi contendere<br />

al dollaro la capacità di acquisire<br />

potere di signoraggio e perciò gli<br />

Stati Uniti rafforzano la propria proiezione<br />

strategica in Europa. Ad<br />

esempio, nel 1999, con la guerra del<br />

Kosovo, gli Usa determinano un<br />

crollo dell’euro, che, partito da 1.16<br />

sul dollaro, comincia poi a declinare<br />

da marzo-apr<strong>il</strong>e, in coincidenza con i<br />

bombardamenti <strong>della</strong> Nato. Il dollaro<br />

ha continuato a crescere per qualche<br />

anno e poi ha preso a declinare e, in<br />

corrispondenza con le spese di guerra<br />

in Iraq, è andato sempre più giù<br />

salvo riprendersi in parte nel 2005,<br />

grazie ai proventi del commercio del<br />

petrolio, al rimpatrio dei profitti delle<br />

grandi imprese e alla politica dei tassi<br />

di interesse, che sono più elevati rispetto<br />

a quelli applicati dalla Banca<br />

centrale europea.<br />

ARRIVIAMO AI COMPITI DI FASE. GO-<br />

VERNO DEL PAESE E PROPOSTE PER UNA<br />

SINISTRA DI TRASFORMAZIONE «CON-<br />

TEMPORANEA». L’OPZIONE DEL SOCIA-<br />

LISMO DEL XXI SECOLO, A DIFFERENZA<br />

DI QUANTO AVVIENE IN AMERICA LATI-<br />

NA, IN EUROPA SEMBRA PARTIRE DAL-


L’OBLITERAZIONE DEL NESSO CAPITALE-LAVORO. È UN PRE-<br />

SUPPOSTO INCONCILIABILE CON UNA OPZIONE POLITICA CHE<br />

INTENDA ISPIRARSI AL SOCIALISMO, PER QUANTO INNOVATO…<br />

GIACCHÉ<br />

Sono convinto che bisogna ricominciare a parlare di classe,<br />

fare un ragionamento serio di re-distribuzione e invertire<br />

la tendenza di fondo di questi anni, facendo leva<br />

anche sullo strumento fiscale. La fiscalità rappresenta uno<br />

degli strumenti più classici di «lotta di classe dall’alto». La<br />

fiscalità in Italia, oggi, è, di fatto, regressiva ma la tendenza<br />

può (e deve) essere invertita.<br />

Oggi, registriamo una struttura parassitaria di gran parte<br />

del capitale italiano. I super-profitti fatti negli anni Novanta<br />

sono serviti a rimpinguare le tasche dei padroni<br />

senza fare investimenti nelle imprese. Si è spinto <strong>il</strong> paese<br />

su una frontiera di competitività insostenib<strong>il</strong>e, la competitività<br />

di prezzo e non di prodotto, con tutto che non abbiamo<br />

più le svalutazioni competitive, l’evasione fiscale<br />

non può giungere oltre i livelli attuali e la compressione<br />

salariale non può essere spinta ancora oltre. Purtroppo, a<br />

fronte di tutto questo, non si riescono a scorgere politiche<br />

seriamente riformatrici, perché oramai c’è una «cappa<br />

ideologica». L’idea che i costi non debbano essere re-distribuiti<br />

su quella classe che ha accumulato in questi ultimi<br />

anni profitti enormi, rivela un tabù di fondo. La tesi<br />

dominante è che tutto ciò che fa bene al capitale fa bene<br />

anche al paese, mentre è provato che semmai è vero <strong>il</strong><br />

contrario.<br />

Anche <strong>il</strong> «catalogo dei diritti» (i diritti fondamentali, i<br />

beni comuni ecc.) è un nonsense, perché non esistono diritti<br />

garantiti ab aeterno, esistono bisogni che, se vengono<br />

esigiti con la lotta, possono dare luogo a diritti, come <strong>il</strong><br />

contratto di lavoro. Basta ricordare lo slogan delle mob<strong>il</strong>itazioni<br />

francesi per i diritti sociali e contro <strong>il</strong> Cpe (<strong>il</strong> contratto<br />

precario di primo impiego): «Cento anni per farlo,<br />

un Cpe per toglierlo» (con ovvia allusione al contratto di<br />

lavoro). Proprio questa lotta vittoriosa ci indica la strada<br />

giusta. Da noi però <strong>il</strong>lustri studiosi di area Partito democratico,<br />

come Michele Salvati, non trovano di meglio che<br />

dire che «<strong>il</strong> peso <strong>della</strong> precarietà non deve gravare sui giovani,<br />

ma essere distribuito sull’intera forza-lavoro». Ebbene,<br />

è proprio questo l’approccio che va rovesciato.<br />

MODUGNO<br />

Inoltre <strong>il</strong> nuovo modo di produzione pone problemi a cui<br />

le sinistre non hanno risposto: in particolare quello dell’attualità<br />

di una proposta di governo «progressiva». Le sinistre<br />

vogliono tornare indietro al keynesismo di sinistra,<br />

sono le «vedove del welfare», ma <strong>il</strong> welfare è legato, come<br />

detto, al ciclo fordista, all’operaio specializzato, alla catena<br />

di montaggio. Oggi, con le nuove macchine, si producono<br />

nuova ricchezza e nuovi lavoratori che prima non<br />

c’erano. I lavoratori sono sempre la prima e più importante<br />

produzione del capitale che ha dovuto distruggere la<br />

vecchia classe operaia con i suoi rappresentanti, in un ci-<br />

IDEE<br />

mento storico durato decenni, per produrre un nuovo lavoratore,<br />

che avesse caratteristiche diverse dall’operaio<br />

tradizionale: più acculturato e flessib<strong>il</strong>e, legato a una<br />

nuova fase del capitalismo, in cui la produttività sarebbe<br />

aumentata.<br />

Tornare indietro al keynesismo di sinistra è come tornare<br />

indietro nella storia. Il modo più avanzato dell’organizzazione<br />

del capitalismo è questo «liberismo con l’elmetto».<br />

Proprio in questo nuovo contesto, si giocano le possib<strong>il</strong>ità<br />

dei nuovi lavoratori, i quali hanno delle chances diverse da<br />

quelle che avevano gli operai tradizionali: sono tutti acculturati<br />

e, quindi, pur essendo diversi dai vecchi intellettuali,<br />

in qualche modo vivono come intellettuali e hanno<br />

una capacità produttiva superiore a quella degli operai<br />

tradizionali.<br />

Proprio per questo, conoscono intimamente <strong>il</strong> rapporto<br />

capitale-lavoro, hanno già dato segno di sé negli ultimi<br />

decenni e sono teoricamente pronti ad assumere un protagonismo<br />

nelle mob<strong>il</strong>itazioni di massa. Bisogna, a tal<br />

proposito, interpretare le lotte di classe degli ultimi decenni,<br />

perché queste nuove forme di lavoro sono tornate<br />

molte volte sulla scena, pur se con aspetti diversi. Ma è<br />

necessario interpretare le forme che le lotte hanno assunto,<br />

perché possono tutte essere ricondotte al nuovo scontro<br />

tra capitale e lavoro che si presenta in forme diverse<br />

da quelle del passato ma potenzialmente molto più ricche<br />

di consapevolezza anticapitalistica. <br />

49


50<br />

questione meridionale<br />

e questione sarda<br />

i temi dell’autonomia<br />

e l’elaborazione dei comunisti<br />

Democrazia progressiva e autonomia<br />

prima parte<br />

Nella storia del movimento operaio italiano <strong>il</strong> Partito comunista ha saputo<br />

divenire un grandissimo strumento di partecipazione popolare<br />

grazie anche alla sua capacità di leggere le peculiarità storiche, economiche,<br />

sociali e culturali del nostro paese, costruendo su esse una prospettiva<br />

socialista che non fosse una riproduzione «pappagallesca» <strong>della</strong> teoria generale<br />

marxista. In questo senso la lezione leniniana sulla necessità di concentrarsi<br />

nello studio delle specificità di ogni singola «formazione economico-sociale»,<br />

piuttosto che dedurre deterministicamente dalle leggi generali dell’economia<br />

le ragioni del socialismo e l’inevitab<strong>il</strong>ità <strong>della</strong> rivoluzione, ha<br />

lasciato un solco profondo su cui si è innestata una elaborazione assai originale<br />

nella sua ricchezza e articolazione. Di questa ricchezza fa parte sicuramente<br />

lo sforzo per leggere nelle diversità dei rapporti di sfruttamento delle<br />

varie realtà italiane una trama unitaria, in ragione <strong>della</strong> quale, ad esempio, la<br />

questione meridionale andava intesa come grande questione nazionale, come<br />

crocevia attorno al quale ruotavano alcuni dei principali snodi degli assetti di<br />

dominio <strong>della</strong> società italiana.<br />

All’interno di questa storia si inserisce anche la questione sarda e <strong>il</strong> tema dell’autonomismo<br />

nell’elaborazione dei comunisti. Esso nasce e si sv<strong>il</strong>uppa con<br />

una prospettiva storicistica che ha quale dato di partenza due elementi nodali:<br />

1) la condizione di oppressione secolare del popolo sardo nel corso delle diverse<br />

dominazioni, oppressione che ha trovato nei molteplici frangenti storici<br />

<strong>il</strong> fattivo sostegno delle stesse classi dirigenti sarde; 2) la marginalizzazione<br />

dei movimenti culturali e politici <strong>della</strong> Sardegna – da parte <strong>della</strong> letteratura<br />

storica e scientifica italiana – la sottovalutazione sistematica, sul piano politico,<br />

del diritto all’autodeterminazione culturale e politica, pur nel quadro unitario<br />

dello Stato italiano.<br />

Il punto di approdo dell’autonomismo comunista si situa in una nuova concezione<br />

di sardismo inteso come terreno d’incontro tra gruppi intellettuali e<br />

masse sarde nella prospettiva del socialismo.<br />

Per affrontare con sufficiente chiarezza questo tema è opportuna una precisazione<br />

preliminare sul contesto che gli fa da sfondo, più precisamente sulla situazione<br />

che caratterizza <strong>il</strong> Pci all’indomani <strong>della</strong> caduta del fascismo.<br />

Con la «Svolta di Salerno» <strong>il</strong> Pci intraprendeva la strada dell’unità di tutte le<br />

forze antifasciste, comprese quelle stesse forze che avevano reso possib<strong>il</strong>e e<br />

agevolato l’ascesa del fascismo (monarchia, esercito, liberali), rinviando la<br />

questione istituzionale su forma di Stato e forma di governo a liberazione avvenuta.<br />

Questa svolta, decisiva nel processo di liberazione dal nazifascismo,<br />

GIANNI FRESU*<br />

Se nel confronto tra<br />

le esperienze dei<br />

comunisti del Nord e<br />

quelli del Sud era<br />

possib<strong>il</strong>e parlare di<br />

dualismo, rispetto alla<br />

Sardegna la differenza era<br />

ancora maggiore, perché<br />

l’isolamento geografico e<br />

l’assenza di contatti con<br />

la ricostituita direzione<br />

nazionale aveva lasciato<br />

fuori <strong>il</strong> Pci sardo dalla<br />

dialettica innescata dalla<br />

«Svolta di Salerno», che<br />

era stata recepita<br />

nell’isola come un «ab<strong>il</strong>e<br />

espediente tattico»<br />

* PRC-COMITATO POLITICO NAZIONALE


impegnava i comunisti nella ricostruzione del quadro democratico<br />

senza alcuna ambiguità tattica o «doppiezza»,<br />

si trattava di una scelta strategica destinata a mutare <strong>il</strong><br />

ruolo dei comunisti nella storia d’Italia.<br />

Ma come è stato ampiamente r<strong>il</strong>evato in sede storiografica,<br />

la «Svolta di Salerno», nel Sud e nelle Isole, non si traduce<br />

immediatamente in una radicale riorganizzazione del<br />

modo di operare dei comunisti. Nel Mezzogiorno permangono<br />

limiti enormi sia tra le f<strong>il</strong>e dell’antifascismo, sia tra<br />

quelle del Partito comunista. Su questi limiti si è soffermato<br />

con attenzione Antonello Mattone: «Lo stesso dibattito<br />

interno sulle tematiche <strong>della</strong> svolta registra un dualismo di<br />

esperienze opposte tra le organizzazioni comuniste del<br />

Nord e quelle meridionali. Mentre nel Nord l’atteggiamento<br />

dei quadri è volto ad approfondire i contenuti <strong>della</strong> formula<br />

di democrazia progressiva e l’articolazione <strong>della</strong> nuova<br />

società antifascista attraverso i Cln, nel Mezzogiorno prevale<br />

la preoccupazione, frutto di un massimalismo generico<br />

e sovente anche messianico, di riaffermare i principi del<br />

comunismo e la purezza classista <strong>della</strong> linea politica. In definitiva<br />

<strong>il</strong> partito nel Meridione si pone al di fuori <strong>della</strong><br />

linea indicata nella svolta; nel migliore dei casi essa viene<br />

interpretata come un espediente tattico necessario per la<br />

conquista del potere. Atteggiamenti e orientamenti settari<br />

sono assai diffusi nel partito, ne costituiscono quasi una<br />

doppia anima» 1 .<br />

Dall’8 settembre in poi si fa largo una realtà frammentata<br />

che a stento può essere identificata con una entità nazionale<br />

unitaria; non a caso Spriano, in proposito, ha parlato<br />

di tante Italie all’interno delle quali si diramano ulteriori<br />

sottoframmentazioni addirittura municipali. Tra esse proprio<br />

la Sardegna si distingue per <strong>il</strong> suo totale isolamento.<br />

Se nel confronto tra le esperienze dei comunisti del Nord<br />

e quelli del Sud era possib<strong>il</strong>e parlare di dualismo, rispetto<br />

alla Sardegna la differenza era ancora maggiore, perché<br />

l’isolamento geografico e l’assenza di contatti con la ricostituita<br />

direzione nazionale aveva lasciato fuori <strong>il</strong> Pci<br />

sardo dalla dialettica innescata dalla «Svolta di Salerno»,<br />

che era stata recepita nell’isola come un «ab<strong>il</strong>e espediente<br />

tattico» ancora più che nel resto del Mezzogiorno.<br />

In Sardegna <strong>il</strong> partito, che muove i suoi primi passi, si<br />

trova di fronte a un compito immane di ricostruzione delle<br />

IDEE<br />

sue basi. Per andare oltre la condizione di s<strong>il</strong>enzio e isolamento<br />

che i lavoratori sardi avevano dovuto subire per un<br />

intero ventennio, compito primario era di non ricadere<br />

nelle divisioni corporative che avevano limitato la sua<br />

forza egemonica nel passato, quando <strong>il</strong> movimento socialista<br />

rimase recintato nei bacini minerari limitandosi alle<br />

sole rivendicazioni degli interessi operai. Bisognava cioè<br />

unificare, sul piano politico generale, le rivendicazioni parziali<br />

<strong>della</strong> classe operaia, delle masse contadine e agro pastorali,<br />

in unico movimento popolare sardo capace di dettare<br />

l’agenda delle priorità <strong>della</strong> ricostruzione e l’orientamento<br />

del nuovo modello di sv<strong>il</strong>uppo. I lavoratori<br />

dovevano liberarsi per sempre dallo sfruttamento secolare<br />

a cui erano stati sottoposti, <strong>il</strong> che significava liberarsi non<br />

solo dal dominio padronale straniero, ma contrastare da<br />

posizioni di forza anche quello sardo, per porsi essi stessi<br />

come nuova classe dirigente dell’Isola. Ma tra i comunisti<br />

sardi si afferma anche una tendenza storicamente radicata,<br />

seppur minoritaria, con ispirazione indipendentista.<br />

Al primo Congresso regionale del partito, svoltosi a Iglesias<br />

<strong>il</strong> 13 e 14 marzo del 1944, una delegazione di comunisti<br />

galluresi si presentò chiedendo di essere accreditati all’assise<br />

in qualità di membri e delegati del Partito comunista<br />

sardo, del quale esisteva uno statuto e un programma. La<br />

richiesta venne respinta all’unanimità e si offrì al gruppo<br />

del Pcs di partecipare ai lavori senza diritto di voto. Il gruppo<br />

del Pcs si era sv<strong>il</strong>uppato, fondamentalmente nella provincia<br />

di Sassari, nel caos organizzativo e politico proprio<br />

del periodo che va dal dicembre del 1943 al giugno 44 2 .<br />

Il Pcs nel suo manifesto si richiamava all’ideale <strong>della</strong> Re-<br />

51


52<br />

pubblica federativa sovietica <strong>della</strong> metà degli anni Venti e indicava come<br />

obiettivo programmatico la costituzione di un’autonoma Repubblica sarda<br />

degli operai e dei contadini. Nel solco tracciato dal Krestintern del 1925 <strong>il</strong> Pcs<br />

riproponeva l’alleanza strategica con <strong>il</strong> PSd’A e intendeva federarsi al Comintern<br />

(in realtà già sciolto per l’alleanza contro <strong>il</strong> nazifascismo) autonomamente<br />

dal Pci. Il Pcs, pur ricollegandosi alla linea del Pci, «riteneva che la Sardegna<br />

fosse una realtà a sé stante e che male sopportasse l’imposizione di forme<br />

istituzionali e di organismi politici propri del continente; individuava nella politica<br />

fiscale dello Stato la causa dell’arretratezza dell’isola e criticava l’incapacità<br />

del liberalismo, del fascismo, ma anche del socialismo, di dare alla Sardegna<br />

un assetto politico e istituzionale consono alle sue peculiarità. Solo al sardismo<br />

si riconosceva di aver compiuto uno sforzo in tale direzione, peraltro<br />

inadeguato per carenze organizzative e programmatiche» 3 .<br />

L’emergere, ed eventualmente <strong>il</strong> prevalere, di posizioni isolazioniste, come<br />

quelle del Pcs, tra i comunisti sardi avrebbe potuto significare l’autoestromissione<br />

<strong>della</strong> Sardegna dal profondo processo di rinnovamento democratico di<br />

cui la Resistenza antifascista era protagonista. Ciò indusse tutto <strong>il</strong> gruppo dirigente<br />

sardo del Pci a combattere con durezza le posizioni separatiste, così<br />

come i residui di settarismo che ancora galleggiavano tra i suoi quadri e m<strong>il</strong>itanti:<br />

<strong>il</strong> partito doveva operare a stretto contatto con le condizioni materiali di<br />

esistenza delle classi subalterne, la sua composizione sociale e la sua direzione<br />

politica dovevano sorgere naturalmente da esse. Il «partito nuovo» non<br />

poteva più essere l’organizzazione degli avvocati e dei professori, doveva realmente<br />

divenire <strong>il</strong> partito dei lavoratori.<br />

Da Lione alla Questione meridionale, l’alleanza operai-contadini<br />

Costruire in Sardegna un partito di lavoratori di massa significava affrontare<br />

di petto la questione contadina e investire tutte le proprie energie nella costruzione<br />

di un movimento avanzato tra le masse dei contadini senza terra e<br />

i braccianti per sottrarli all’influenza e alla direzione <strong>della</strong> Chiesa e dei movimenti<br />

più conservatori.<br />

In Sardegna favorire la nascita del movimento cooperativo tra contadini e pastori<br />

era l’unico modo per superare la dispersione sociale e territoriale di quelle<br />

realtà e anche <strong>il</strong> modo per dare un radicamento di massa al partito. Bisognava<br />

lavorare nel movimento contadino fino a sv<strong>il</strong>upparlo e a farne una<br />

forza sociale capace di incidere sugli equ<strong>il</strong>ibri politico-sociali dell’isola.<br />

L’emergere di una questione meridionale, e al suo interno di una specifica<br />

questione sarda, era scaturito dal tentativo di tradurre in italiano la teoria politica<br />

di Lenin, a partire dal tema dei temi, per quel tempo: l’alleanza operaicontadini,<br />

che si era rivelata determinante per la vittoria <strong>della</strong> Rivoluzione<br />

d’Ottobre. Le riflessioni delle Tesi di Lione e la Questione meridionale rispondevano<br />

esattamente a questa esigenza nel tentativo di disarticolare <strong>il</strong> blocco sociale<br />

reazionario che dominava l’Italia dall’Unità all’avvento del fascismo.<br />

Secondo le Tesi di Lione, l’elemento predominante <strong>della</strong> società italiana era<br />

dato da una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo<br />

ancora debole e incapace di assorbire la maggioranza <strong>della</strong> popolazione<br />

e un’agricoltura che costituiva la base economica del paese, segnata<br />

dalla netta prevalenza in essa di ceti poveri (bracciantato agricolo) molto prossimi<br />

alle condizioni del proletariato e perciò sensib<strong>il</strong>i alla sua influenza.<br />

Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di<br />

raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza<br />

del modo di produzione in Italia – che non poteva disporre di materie prime<br />

– spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi<br />

latifondisti agrari che si basavano su «una solidarietà di interessi» tra ceti di<br />

priv<strong>il</strong>egiati a detrimento degli interessi generali <strong>della</strong> produzione e <strong>della</strong> maggioranza<br />

<strong>della</strong> popolazione. Anche <strong>il</strong> processo risorgimentale era espressione di<br />

questa debolezza, perché la costruzione<br />

dello Stato nazionale era stata possib<strong>il</strong>e<br />

grazie allo sfruttamento di particolari<br />

fattori di politica internazionale<br />

e <strong>il</strong> suo consolidamento aveva<br />

necessitato quel compromesso sociale<br />

che ha reso inoperante in Italia la<br />

lotta economica tra industriali e agrari,<br />

la rotazione di gruppi dirigenti, tipici<br />

di altri paesi capitalistici. Secondo<br />

Gramsci, questo compromesso a tutela<br />

di uno «sfruttamento parassitario»<br />

delle «classi dominanti» aveva determinato<br />

una polarizzazione tra l’accumulo<br />

di immense ricchezze in ristretti<br />

gruppi sociali e la povertà estrema<br />

del resto <strong>della</strong> popolazione; aveva<br />

comportato <strong>il</strong> deficit del b<strong>il</strong>ancio, l’arresto<br />

dello sv<strong>il</strong>uppo economico in intere<br />

aree del paese (come <strong>il</strong> Mezzogiorno),<br />

ostacolando una modernizzazione<br />

del sistema economico<br />

nazionale armonica e calibrata con le<br />

caratteristiche del paese.<br />

Il compromesso tra industriali e agrari<br />

attribuiva alle masse lavoratrici del<br />

Mezzogiorno la stessa posizione delle<br />

popolazioni coloniali; per esse <strong>il</strong> Nord<br />

industrializzato diveniva come la metropoli<br />

capitalistica per la colonia; le<br />

classi dirigenti del sud (grandi proprietari<br />

e media borghesia) svolgevano<br />

la stessa funzione delle categorie<br />

sociali delle colonie che si alleano con<br />

i coloni per mantenere la massa del<br />

popolo soggetta al proprio sfruttamento.<br />

Tuttavia nella prospettiva storica<br />

questo sistema di compromesso<br />

si è rivelato inefficace perché si è trasformato<br />

in un ostacolo allo sv<strong>il</strong>uppo<br />

tanto dell’economia industriale,<br />

quanto di quella agraria; ciò ha deter-


minato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione<br />

sempre più forte e autoritaria dello Stato sulle masse. In Italia <strong>il</strong> processo<br />

d’unificazione nazionale non si è realizzato sulla base di un rapporto d’uguaglianza,<br />

ma attraverso una relazione squ<strong>il</strong>ibrata all’interno <strong>della</strong> quale l’arricchimento<br />

e l’incremento industriale del Nord dipendono strettamente dal crescente<br />

impoverimento del Mezzogiorno. Nella Questione meridionale, premessa<br />

fondamentale alle riflessioni sul Risorgimento nei Quaderni, Gramsci definisce<br />

<strong>il</strong> Mezzogiorno come una grande disgregazione sociale, all’interno <strong>della</strong> quale<br />

i contadini non hanno alcuna coesione tra di loro. Le masse contadine, che costituiscono<br />

la maggioranza <strong>della</strong> popolazione meridionale, non riuscendo a<br />

dare «espressione centralizzata» alle proprie aspirazioni, materializzano <strong>il</strong> loro<br />

perenne fermento attraverso uno stato di ribellismo endemico privo di prospettive.<br />

Al di sopra di queste masse si struttura l’assetto di dominio del blocco<br />

agrario che, attraverso le sue «proporzioni definite», riesce a mantenere le<br />

masse contadine permanentemente nella loro condizione «amorfa e disgregata»<br />

e a evitare qualsiasi forma di centralizzazione a quello stato di perenne fermento.<br />

L’esito del Risorgimento entro un equ<strong>il</strong>ibrio moderato non ha fatto<br />

altro che innestare su questa secolare struttura di potere <strong>il</strong> dominio del capitalismo<br />

settentrionale saldatosi, dopo l’unità, a quello <strong>della</strong> borghesia agraria del<br />

Sud in un nuovo blocco storico la cui chiave di volta risiedeva nella funzione<br />

degli intellettuali. Gramsci dunque nel porre la questione contadina come questione<br />

meridionale rappresenta quest’ultima come questione nazionale, all’interno<br />

<strong>della</strong> quale si situa con le sue specificità geografiche storiche e culturali,<br />

una questione sarda.<br />

La dialettica con la Dc alla Costituente e l’emergere<br />

<strong>della</strong> questione autonomistica<br />

Tuttavia nel Pci del dopoguerra per giungere nuovamente a questa consapevolezza,<br />

e ricomporre <strong>il</strong> f<strong>il</strong>o interrotto con l’elaborazione <strong>della</strong> metà degli anni<br />

Venti, occorreranno anni e un lungo processo di lotte e riflessioni. Bisogna infatti<br />

ricordare che nel dibattito dell’Assemblea costituente la posizione del Pci<br />

era più orientata verso <strong>il</strong> municipalismo, che rivendicava la continuità storica<br />

con la tradizione dei comuni e intendeva mettere a valore <strong>il</strong> patrimonio delle<br />

«cento città»; era una posizione che si basava sulla necessità di un forte decentramento<br />

amministrativo a comuni e province ma sul rispetto assoluto<br />

dell’unità politico territoriale del paese e quindi <strong>della</strong> potestà legislativa centrale.<br />

Il Pci interpretava al tempo la funzione delle regioni ordinarie come enti<br />

autarchici e organi di largo decentramento amministrativo. Secondo quella<br />

posizione, la creazione di una struttura federale o a forte regionalismo avrebbe<br />

invece portato al consolidarsi dei blocchi di potere che dominavano <strong>il</strong> Mezzogiorno<br />

acuendo la frattura tra Nord e Sud, ma soprattutto avrebbe impedito<br />

l’attuazione organica e omogenea delle riforme a carattere generale, le cosiddette<br />

«riforme di struttura». Dunque solo per Sardegna e Sic<strong>il</strong>ia si<br />

prevedeva un ipotesi di specialità nell’attribuzione di competenze, facendo<br />

però salva la capacità impositiva e d’intervento dello Stato, che era ritenuto <strong>il</strong><br />

solo organo capace di reperire le risorse e approntare gli strumenti per le profonde<br />

trasformazioni economiche e sociali che le due Isole necessitavano.<br />

Sul terreno dell’articolazione dei poteri e <strong>della</strong> struttura regionale, <strong>il</strong> Pci alla<br />

Costituente esprimeva ancora una posizione molto arretrata seppur imposta<br />

da un contesto assai complesso: si riconosceva che l’istituzione delle regioni<br />

avrebbe avvicinato <strong>il</strong> popolo alle amministrazioni attraverso <strong>il</strong> decentramento,<br />

ma si sottolineava altresì che, qualora alle regioni fossero stati attribuiti poteri<br />

esorbitanti da quelli <strong>della</strong> semplice amministrazione, fino a determinare<br />

una potestà legislativa esclusiva e anche concorrente, la posizione del Pci sarebbe<br />

stata contraria.<br />

Una tale accelerazione, più che la democratizzazione di ampi settori e rami<br />

IDEE<br />

<strong>della</strong> vita politica del paese, avrebbe<br />

favorito, secondo i comunisti, <strong>il</strong> frazionamento<br />

del potere legislativo e la<br />

disgregazione dell’unità organica del<br />

paese. La preoccupazione del Pci era<br />

che con la frammentazione politica<br />

del paese importanti riforme socioeconomiche,<br />

come ad esempio una<br />

profonda riforma agraria, o la nazionalizzazione<br />

di importanti settori dell’economia<br />

(si pensi alla produzione e<br />

distribuzione dell’energia elettrica),<br />

avrebbero trovato m<strong>il</strong>le ostacoli nell’applicazione.<br />

In questo modo si sarebbe<br />

stab<strong>il</strong>ito nel corpo <strong>della</strong> democrazia<br />

italiana un sistema per compartimenti-stagno.<br />

Sempre secondo<br />

questo ordine di ragionamenti <strong>il</strong> Pci si<br />

espresse contro <strong>il</strong> principio <strong>della</strong> autonomia<br />

<strong>della</strong> magistratura, palesando<br />

<strong>il</strong> rischio che la magistratura divenisse<br />

un corpo a sé stante regolato da<br />

modalità di autogoverno proprie.<br />

Su questa posizione sicuramente<br />

aveva influito <strong>il</strong> timore che la magistratura<br />

(come più in generale la burocrazia<br />

e le forze armate) ereditata<br />

dal Ventennio potesse divenire un<br />

corpo autonomo capace di condizionare<br />

negativamente <strong>il</strong> processo democratico.<br />

Le paure espresse in tal<br />

senso erano le prime avvisaglie di un<br />

clima nuovo che andava mutando<br />

nel paese proprio in quei mesi. Il 31<br />

maggio del 1947, con l’estromissione<br />

di comunisti e socialisti dal governo,<br />

«si archiviava definitivamente la realtà<br />

politica uscita dalla resistenza;<br />

cominciava una dura stagione <strong>della</strong><br />

Repubblica» 4 .<br />

Sull’articolazione dei poteri le posizioni<br />

dei comunisti mutano profon-<br />

53


54<br />

damente nel corso degli anni Cinquanta<br />

e Sessanta e nell’orientare<br />

questo mutamento l’azione e l’elaborazione<br />

di alcuni comunisti sardi è<br />

determinante. Inizialmente però, all’indomani<br />

<strong>della</strong> caduta del fascismo,<br />

sul tema dell’autonomia anche <strong>il</strong> Pci<br />

sardo ha scontato un ritardo notevole<br />

e ha commesso diversi errori. Le<br />

cause di tale ritardo e dell’iniziale<br />

propensione antiautonomista dei comunisti<br />

sardi erano molteplici e ramificate.<br />

Tra queste bisognava considerare<br />

anzitutto l’origine dei dirigenti<br />

che ripresero l’attività nel 1943:<br />

molti di essi provenivano dall’attività<br />

clandestina, erano quadri che avevano<br />

oramai metabolizzato una concezione<br />

settaria dell’agire politico; altri<br />

ancora provenivano dal Partito socialista<br />

che tradizionalmente era più attento<br />

alle questioni delle zone urbane<br />

e industriali piuttosto che alle<br />

questioni contadine. Oltre a ciò c’era<br />

la contrapposizione alle frange del<br />

movimento indipendentista che<br />

aveva contribuito a rendere sospettosi,<br />

se non proprio ost<strong>il</strong>i, i comunisti<br />

sardi verso ogni discorso autonomistico.<br />

Per lungo tempo la maggioranza<br />

dei comunisti sardi ha considerato<br />

fuorviante e interclassista la parola<br />

d’ordine dell’unità di tutti i sardi per<br />

l’autonomia.<br />

Da tutto ciò derivavano l’atteggiamento<br />

incerto e attendista e i ritardi<br />

nella piattaforma politica, che si palesarono<br />

al primo Consiglio Nazionale<br />

del Pci tenutosi a Roma nell’apr<strong>il</strong>e<br />

del 1945 dove la delegazione sarda<br />

era composta da Renzo Laconi, Antonio<br />

Dore e quindi Giovanni Lay<br />

che in proposito ha scritto: «In quell’occasione<br />

io fui aspramente criticato<br />

da Togliatti perché feci un intervento<br />

che suonava pressappoco così:<br />

«i contadini e i pastori sardi non<br />

sanno che farsene di un’autonomia<br />

regionale guidata dai proprietari terrieri<br />

e dai nemici <strong>della</strong> Sardegna che<br />

sono presenti anche nell’Isola. Noi<br />

dobbiamo batterci per un’autonomia<br />

che sia strumento di progresso sociale<br />

ed economico, che liberi <strong>il</strong> popolo<br />

sardo dalla miseria e dallo sfruttamento,<br />

che salvi le miniere, che va-<br />

lorizzi le risorse umane ed economiche<br />

<strong>della</strong> Sardegna».<br />

Nelle conclusioni dei lavori del Consiglio<br />

nazionale Togliatti disse: «Se <strong>il</strong><br />

compagno Gramsci fosse stato qui<br />

presente e avesse udito un comunista<br />

sardo, per giunta dirigente del<br />

partito in Sardegna, sostenere che i<br />

contadini sardi e i pastori non sanno<br />

che farsene dell’autonomia, certamente<br />

ne sarebbe rimasto molto sorpreso».<br />

Togliatti criticò i dirigenti del<br />

partito in Sardegna non tanto per<br />

quello che era stato detto in quella<br />

sede, ma per <strong>il</strong> fatto di non essere<br />

stati ancora capaci di impegnare le<br />

masse popolari sarde nella battaglia<br />

per «togliere la bandiera dell’autonomia»<br />

dalle mani di quelli che pensavano<br />

di fare dell’autonomia regionale<br />

la loro citta<strong>della</strong> per la difesa dei<br />

loro interessi di classe, e farla passare<br />

nelle mani <strong>della</strong> classe operaia 5 .<br />

Anche se non solo in ragione di questo<br />

fatto, la rivendicazione autonomista<br />

viene a essere assim<strong>il</strong>ata solo dopo<br />

<strong>il</strong> superamento del «pericolo» rappresentato<br />

dalla prospettiva del Pcs.<br />

Sul versante istituzionale poi, la Consulta<br />

tardò enormemente a elaborare<br />

un proprio progetto, mentre già dal<br />

maggio del 1946 <strong>il</strong> Governo aveva<br />

promulgato lo Statuto speciale sic<strong>il</strong>iano.<br />

Come è noto Lussu, storico leader<br />

del sardismo, preoccupato per i ritardi<br />

e per l’irrigidimento <strong>della</strong> Dc sulle<br />

questioni autonomistiche, si adoperò<br />

presso i rappresentanti <strong>della</strong> Consulta<br />

per ottenere l’estensione dello Statuto<br />

sic<strong>il</strong>iano alla Sardegna ottenendone<br />

un rifiuto. Anche la delegazione<br />

del Pci si unì nel rivendicare alla Consulta<br />

<strong>il</strong> compito di scrivere <strong>il</strong> proprio<br />

Statuto, con <strong>il</strong> risultato di ritardare<br />

fino alla fine del gennaio 1948 la promulgazione<br />

di uno Statuto dai contenuti<br />

autonomistici decisamente più<br />

blandi di quello sic<strong>il</strong>iano. <br />

1. A. Mattone, Velio Spano. Vita di un rivoluzionario<br />

di professione, Edizioni <strong>della</strong><br />

Torre, Cagliari 1978, p. 107.<br />

2. Il Pcs era animato da alcune figure di<br />

un certo r<strong>il</strong>ievo nella storia del movimento<br />

socialista e comunista sardo, come<br />

l’Avvocato Antonio Cassitta che era stato<br />

direttore del giornale «Avanguardia», organo<br />

dell’organizzazione giovan<strong>il</strong>e comunista.<br />

Nella FGCI Cassitta era stato membro<br />

<strong>della</strong> segreteria nazionale e delegato<br />

al III Congresso del Comintern. Oltre a<br />

lui altre figure importanti erano un altro<br />

avvocato, conosciuto per le sue doti di<br />

vecchio tribuno socialista, Antioco Mura<br />

di Bonorva, e Francesco Anfossi che in<br />

Argentina era stato tra i promotori <strong>della</strong><br />

Lega sarda di Avellaneda.<br />

3. G. Lai (a cura di), La biblioteca di Renzo<br />

Laconi, Cuec, Cagliari 2000, p. 59.<br />

4. P. Cucchiarelli, A. Giannulli, Lo Stato<br />

parallelo. L’Italia oscura nei documenti e nelle<br />

relazioni <strong>della</strong> Commissione stragi. Gamberetti,<br />

Roma 1997.<br />

5. G. Lay, Io comunista, Tema, Cagliari<br />

2006, p. 114.


RIVE GAUCHE<br />

DUE ANNI<br />

DOPO<br />

Il 30 settembre del 2005 si tenne a Roma un convegno<br />

(Rive Gauche), promosso da «<strong>il</strong> manifesto» in collaborazione<br />

con gli economisti Sergio Cesaratto e Riccardo<br />

Realfonzo, <strong>il</strong> cui obiettivo era quello di riunire<br />

a discutere economisti, politici e – in generale –<br />

donne e uomini «di sinistra» attorno al tema: “La critica<br />

<strong>della</strong> politica economica e le linee programmatiche<br />

delle coalizioni progressiste” (gli atti furono<br />

pubblicati nel marzo 2006 per la Manifestolibri a cura<br />

degli stessi Cesaratto e Realfonzo). Eravamo alla vig<strong>il</strong>ia<br />

delle elezioni politiche del 2006 e viva era l’esigenza<br />

di ragionare sui programmi di politica economica<br />

che avrebbe dovuto realizzare una coalizione, auspicab<strong>il</strong>mente<br />

vincente, di alternativa alle destre.<br />

Sulla scia di quell’esperienza va anche considerata la<br />

successiva promozione di un Appello degli economisti<br />

(cui abbiamo aderito anche noi di <strong>Essere</strong> comunisti)<br />

rivolto al governo in carica e teso a modificare la<br />

linea rigorista di rientro dal debito pubblico ed un’<br />

applicazione stretta dei dettami di Maastricht.<br />

A due anni di distanza – e in vista di una seconda tornata<br />

di Rive Gauche dedicata a «L’economia <strong>della</strong> precarietà»<br />

che si terrà a Roma martedì 9 ottobre (promotore<br />

«<strong>il</strong> manifesto», con la collaborazione di<br />

Paolo Leon e Riccardo Realfonzo) – abbiamo inteso<br />

chiedere ad alcuni dei partecipanti (Riccardo Bellofiore,<br />

Em<strong>il</strong>iano Brancaccio, Giorgio Gattei, Giorgio<br />

Lunghini, Riccardo Realfonzo) le loro attuali valutazioni<br />

sia sulla strada da allora percorsa che sulla generale<br />

prospettiva economica. Qui di seguito presentiamo<br />

le domande con le relative risposte. Ovviamente,<br />

consideriamo questo inserto come <strong>il</strong> capitolo di<br />

una discussione destinata a proseguire. Per questo<br />

abbiamo deciso di pubblicare i contributi così come ci<br />

sono pervenuti, anche scontando qualche difformità<br />

nei toni e nella lunghezza: nella convinzione che non<br />

mancherà l’occasione per ulteriori repliche. Che naturalmente<br />

consideriamo sin d’ora benvenute.<br />

B.S.<br />

55


56<br />

RICCARDO BELLOFIORE – Università di Bergamo<br />

EMILIANO BRANCACCIO – Università del Sannio<br />

GIORGIO GATTEI – Università di Bologna<br />

GIORGIO LUNGHINI – Università di Pavia<br />

RICCARDO REALFONZO – Università del Sannio<br />

In relazione al nostro paese, si è parlato spesso di<br />

«declino» economico e sociale: ci si riferisce in particolare<br />

alla frag<strong>il</strong>ità del sistema industriale, alla<br />

crisi dei distretti e allo smantellamento dell’impresa<br />

pubblica, al basso livello degli investimenti in ricerca<br />

e sv<strong>il</strong>uppo, alla caduta dei salari reali (e dunque<br />

allo stato asfittico <strong>della</strong> domanda interna). Poi «The<br />

Economist», nel suo rapporto annuale Il mondo in<br />

cifre, colloca l’Italia tra le economie più forti,<br />

ponendola ai primi posti <strong>della</strong> classifica per <strong>il</strong> P<strong>il</strong> pro<br />

capite, <strong>il</strong> commercio di beni e servizi, <strong>il</strong> consumo di<br />

beni privati. Per non parlare dei dati degli ultimi anni<br />

sui profitti d’impresa, i quali non registrano alcun<br />

declino e anzi mostrano che <strong>il</strong> bicchiere è pieno fino a<br />

strabordare. Come stanno dunque le cose? Ci si chiede,<br />

in primo luogo: declino per chi?<br />

RICCARDO BELLOFIORE<br />

Una risposta vera a questa domanda richiederebbe uno<br />

spazio ben maggiore di quello concesso. Si tratta di una<br />

questione alla quale gli economisti più attivi <strong>della</strong> Rive<br />

Gauche – di cui in realtà non faccio parte, se con questa<br />

sigla ci si riferisce ai firmatari dell’appello per la stab<strong>il</strong>izzazione<br />

del debito pubblico lanciato nell’estate del 2006:<br />

e trovo francamente la sigla già un problema, costruita<br />

con tutta evidenza con una troppo fac<strong>il</strong>e logica di tipo<br />

giornalistico – hanno prestato poca attenzione e con<br />

grande ritardo, ossessionati come erano da una battaglia<br />

male impostata e peggio condotta sulle questioni appunto<br />

del debito pubblico. Non mi convince neppure la considerazione,<br />

diffusa a sinistra anch’essa, che <strong>il</strong> «declino»<br />

avrebbe a che vedere con l’assenza di una vera classe<br />

imprenditoriale. È un po’ la tesi di ambienti Banca<br />

d’Italia. Rispettab<strong>il</strong>e, coglie un grano di verità, ma a ben<br />

vedere non dice poi granché. Lungo quella linea si finisce<br />

poi nella ingenuità – che tenta, mi pare, anche<br />

Rifondazione – di una battaglia per separare la rendita e<br />

la finanza dall’economia reale sulla base di un intervento<br />

sulle banche centrali o di una introduzione isolata <strong>della</strong><br />

Tobin tax. O all’<strong>il</strong>lusione che una rinascita del «keynesismo»<br />

e del «conflittualismo incompatib<strong>il</strong>ista» possa<br />

essere la risposta ai problemi che ci troviamo di fronte<br />

oggi, dopo i fallimenti delle politiche dell’offerta (<strong>il</strong>lusione<br />

spesso nutrita sulle colonne del vecchio<br />

«Ernesto», e ora di «<strong>Essere</strong> <strong>Comunisti</strong>»). Si dovrebbe<br />

mettere in piedi una analisi ben più approfondita e una<br />

dimensione programmatica ben più seria di quella che è<br />

stata costruita dal 2001 a oggi. In questi anni, infatti,<br />

Rifondazione comunista – <strong>il</strong> più forte partito nella<br />

dispersa galassia <strong>della</strong> sinistra, ma dunque anche <strong>il</strong> più<br />

responsab<strong>il</strong>e dei suoi limiti – ha semplicemente cancellato<br />

la riflessione sul programma che pure aveva messo in<br />

piedi alla fine degli anni Novanta, anche se innegab<strong>il</strong>mente<br />

con molte carenze. A un certo punto aveva iniziato<br />

a corteggiare, in economia almeno, una politica fatta di<br />

appelli e presenza mediatici, i cui risultati sono stati nulli<br />

se non deleteri. Credendo così di poter parzialmente<br />

recuperare rispetto a una scommessa sbagliata: che la<br />

spinta del «movimento dei movimenti» avrebbe senz’altro<br />

spostato in avanti gli equ<strong>il</strong>ibri <strong>della</strong> coalizione.<br />

Oggi si è costretti a pregare che qualcosa succeda sulle<br />

piazze, e <strong>il</strong> movimentismo si trasforma in politicismo. Il<br />

declino economico e sociale italiano lo si capisce molto<br />

bene con le analisi di De Cecco, o Graziani, o Halevi, o<br />

ancora Gallino. Questo autore, in particolare, ha ut<strong>il</strong>izzato<br />

una formula più corretta, la «scomparsa dell’Italia


industriale», che è <strong>il</strong> titolo di un suo bel libro recente. È<br />

un fenomeno che va avanti, in realtà, dalla metà degli<br />

anni Sessanta. Quando <strong>il</strong> capitalismo italiano ha risposto<br />

in modo regressivo alle lotte nella distribuzione, prima,<br />

e nella valorizzazione immediata poi: lotte che avevano<br />

messo in evidenza tutti i limiti dello sv<strong>il</strong>uppo dualistico<br />

del nostro paese. È di qui che progressivamente inizia la<br />

decadenza o l’eliminazione delle grandi imprese private,<br />

la mitologia dei distretti, <strong>il</strong> nanismo, l’insufficienza <strong>della</strong><br />

ricerca e sv<strong>il</strong>uppo, e così via. Non è stata intrapresa nessuna<br />

seria politica di programmazione o di piano del<br />

lavoro, dentro una riqualificazione <strong>della</strong> nostra posizione<br />

nella divisione internazionale del lavoro, ormai sempre<br />

più a rischio. Salvo rare eccezioni, la sinistra stessa<br />

l’ha progressivamente accantonata. Sono spariti <strong>il</strong><br />

nucleare, l’elettronica, la chimica, l’aeronautica civ<strong>il</strong>e,<br />

l’acciaio, sono state o sono molto in difficoltà l’automob<strong>il</strong>e<br />

e la telefonia. Ovviamente, i settori nascono e muoiono<br />

dovunque: <strong>il</strong> problema è che da noi sono solo morti,<br />

non ne sono nati altri sostitutivi e trainanti. I grandi<br />

monopoli pubblici sono stati quasi tutti privatizzati,<br />

diventando spesso nient’altro che strumenti per la percezione<br />

di rendite.<br />

La politica industriale praticamente non c’è stata, se non<br />

adattiva alla pressione internazionale o alla politica<br />

monetaria restrittiva. La politica bancaria ha avuto andamenti<br />

alterni ma senza poter mai divenire orientativa<br />

dello sv<strong>il</strong>uppo economico. Dentro un quadro di politiche<br />

macroeconomiche e microeconomiche quali quelle<br />

europee – politiche che un po’ furbescamente non si è<br />

voluto neanche nominare in un programma di più di 280<br />

pagine: tanto i movimenti avrebbero «spinto» a sinistra,<br />

<strong>il</strong> che però fa un po’ specie se simultaneamente si<br />

impugna la battaglia del rispetto del programma dove fa<br />

comodo – l’unico margine di riaggiustamento a una<br />

competitività declinante e ai problemi di una produttività<br />

sempre più bassa non poteva che essere la pressione<br />

sul valore d’uso e sul valore di scambio <strong>della</strong> forza-lavoro.<br />

Forse bisognerebbe tornare all’Abc del marxismo.<br />

La sinistra sa solo reagire con <strong>il</strong> lamento, non vedo nessuna<br />

seria riflessione o proposta. Prima si attesta sulla<br />

tesi di una globalizzazione che metterebbe fuori gioco lo<br />

Stato nazionale (come anche sull’<strong>il</strong>lusione di un rapporto<br />

di lavoro salariato in crisi), poi recupera quest’ultimo<br />

come risposta solo verbale e subalterna alle politiche<br />

social-liberiste che danno <strong>il</strong> cambio a quelle neoliberiste.<br />

È ovvio, peraltro, che in un paese come l’Italia <strong>il</strong><br />

«declino» non significa una caduta immediata e verticale.<br />

Ci sono fattori distributivi, ci sono fattori settoriali,<br />

ci sono fattori regionali, che spiegano come alcuni<br />

RIVE GAUCHE<br />

stanno meglio, molto meglio, mentre altri stanno peggio.<br />

Di più, si possono mantenere alti tenori di vita pur in una<br />

situazione generale che lentamente degrada. Vedi le aree<br />

dove <strong>il</strong> salario unitario può anche essere basso, ma con lo<br />

straordinario, o con <strong>il</strong> fatto che si vive più a lungo e di più<br />

insieme dentro la famiglia, o con <strong>il</strong> capitale fam<strong>il</strong>iare<br />

accumulato, <strong>il</strong> tenore di vita può essere da zona ricca,<br />

molto ricca. Insegnava poi Marx che non esistono crisi<br />

permanenti. Dobbiamo stare molto attenti ai mutamenti<br />

portati dalla ristrutturazione, se no si rischia di fare<br />

come <strong>il</strong> vecchio Pci togliattiano ancora contaminato dallo<br />

stalinismo, e ancora negli anni Cinquanta e Sessanta si<br />

favoleggiava di una stagnazione generale e di una crisi<br />

dietro l’angolo. Ci sono voluti i «Quaderni rossi», <strong>il</strong><br />

gruppo del manifesto, lo stesso Trentin, e pochi altri a<br />

ragionare, all’inizio degli anni Sessanta sull’Italia come<br />

paese capitalistico non «arretrato».<br />

EMILIANO BRANCACCIO<br />

Forse su questo tema bisogna uscire da un equivoco: <strong>il</strong><br />

cosiddetto declino è relativo, non assoluto. Mi spiego. Da<br />

decenni in tutti i paesi Ocse registriamo uno schiacciamento<br />

<strong>della</strong> quota dei redditi da lavoro subordinato<br />

rispetto al reddito complessivamente prodotto. È una<br />

tendenza che registriamo sia in termini lordi che al netto<br />

dell’intervento statale. Essa si spiega principalmente col<br />

fatto che da tempo in fase di contrattazione i lavoratori<br />

subordinati non riescono a conquistare gli incrementi di<br />

produttività generati dal cambiamento tecnico, dall’aumento<br />

delle ore per unità di lavoro e dall’intensificarsi<br />

dei loro stessi sforzi produttivi. Per giunta, in molti casi la<br />

compressione salariale non è solo relativa ma anche assoluta:<br />

la diffusione dei contratti precari ha determinato<br />

vere e proprie cadute del monte salari, sia nel settore privato<br />

che in quello pubblico, e soprattutto nelle classi<br />

generazionali più giovani. I dati dunque segnalano che <strong>il</strong><br />

lavoro è sotto attacco in tutti i paesi, anche in quelli più<br />

avanzati. Detto questo, però, bisogna pure aggiungere<br />

delle specificità che caratterizzano le cosiddette «periferie»<br />

dello sv<strong>il</strong>uppo capitalistico, e in particolare l’Italia.<br />

Nel nostro paese sussistono problemi anche sul versante<br />

dei profitti. I capitali nazionali sono frammentati, polverizzati,<br />

<strong>il</strong> che determina una crescita più bassa <strong>della</strong> produttività,<br />

e quindi alti costi per unità di prodotto e bassa<br />

competitività rispetto ai concorrenti esteri. La conseguenza<br />

è che, rispetto ai «centri» dello sv<strong>il</strong>uppo capitalistico,<br />

in Italia i profitti crescono comunque, ma crescono<br />

di meno e oltretutto si perdono in una infinità di transazioni,<br />

di rivoli commerciali, e quindi non si concentrano.<br />

57


58<br />

Possiamo dunque tranqu<strong>il</strong>lamente parlare di declino<br />

«relativo» del capitalismo italiano, senza per questo<br />

pensare che i padroni nostrani si siano ridotti in braghe<br />

di tela. È bene tuttavia comprendere che pure un declino<br />

«relativo» alla lunga può risultare deleterio. Ai tempi del<br />

«piccolo è bello» andava di moda farsi vanto <strong>della</strong> scarsa<br />

concentrazione dei capitali nazionali, quasi che questa<br />

fosse indice di un capitalismo più diffuso, più democratico,<br />

magari persino «dal volto più umano». Oggi sappiamo<br />

invece che assecondare una tale frammentazione è<br />

stato forse <strong>il</strong> più grande errore strategico dei decenni<br />

passati. Infatti ora <strong>il</strong> capitale nazionale non regge la concorrenza<br />

estera, e rischia ogni giorno che passa di essere<br />

eliminato dal mercato o assorbito tramite acquisizioni<br />

straniere. Questo è un fenomeno che in Europa caratterizza<br />

non solo l’Italia ma anche, per esempio, la Grecia, <strong>il</strong><br />

Portogallo e la sopravvalutata Spagna. Questi paesi sono<br />

caratterizzati da una eccessiva frammentazione dei capitali,<br />

da una bassa produttività, da costi eccessivi di produzione,<br />

da una competitività sempre più compromessa e da<br />

crescenti disavanzi nei conti con l’estero.<br />

GIORGIO GATTEI<br />

Premesso che l’opinione dell’«Economist» è di parte<br />

(non è una <strong>rivista</strong> ultra-borghese, oppure la collocazione<br />

di classe non ha più ragione di essere?), chi ha mai detto<br />

che una economa che fa profitti è poi efficiente?<br />

Partiamo dall’inizio: in una economia si producono<br />

merci per rivenderle. Quindi per fare profitti ci vuole sia<br />

la produzione che <strong>il</strong> realizzo. Ora come si può fare produzione?<br />

Migliorando la produttività o aumentando la fatica.<br />

E dove si può fare realizzo? Sui mercati esteri o su<br />

quello interno. Di fronte a questo crocevia di alternative<br />

l’Italia cosa ha scelto?<br />

Siamo tutti contenti che dal 2006 sia arrivata una ripresa,<br />

ma trascinata dalle esportazioni che sono cresciute<br />

del 5,3% in termini reali (le cifre sono tratte dall’ultima<br />

relazione del Governatore <strong>della</strong> Banca d’Italia; qui a p.<br />

78). Così la domanda estera netta (esportazioni – importazioni),<br />

che era calata dello 0,3% nel 2005, è risalita<br />

dello 0,3% nel 2006 (p. 42). Tuttavia per puntare sulle<br />

esportazioni si deve pagare <strong>il</strong> prezzo <strong>della</strong> «competitività»<br />

e la maniera più semplice per ottenerla è quella di<br />

tagliare <strong>il</strong> costo del lavoro. Ciò che si è fatto: le retribuzioni<br />

per unità standard di lavoro dipendente hanno<br />

ridotto <strong>il</strong> loro aumento dal +3,3% del 2005 al +2,8% del<br />

2006 (p. 98) con la conseguenza di continuare a trasferire<br />

valore aggiunto dai salari ai profitti (la quota del lavoro,<br />

che era pari al 72,5% negli anni 1996-2000, è calata<br />

al 71,8% tra 2001 e 2005)(p. 98). Quindi la scelta di puntare<br />

sulla domanda estera ha consentito la contrazione<br />

dei salari, non essendo <strong>il</strong> mercato interno <strong>il</strong> luogo priv<strong>il</strong>egiato<br />

di realizzo.<br />

Poi c’è la maniera di produrre le merci. E qui si vede che<br />

l’occupazione è aumentata, sebbene per più <strong>della</strong> metà nei<br />

lavori «precari» che adesso toccano <strong>il</strong> 13,5% dell’occupazione<br />

dipendente (p. 88). Anche le ore di lavoro per<br />

dipendente sono salite: erano diminuite dell’1,1% nel<br />

2005, sono +1,0% nel 2006, mentre la «vita lavorativa» è<br />

stata allungata dall’ennesima «controriforma» delle pensioni.<br />

Ma l’aumento <strong>della</strong> produttività? Non c’è stato: <strong>il</strong><br />

prodotto per unità standard di lavoro, cresciuto dell’1,1%<br />

tra 1996 e 2000, è diminuito dello 0,2% tra 2001 e 2005<br />

(per l’industria in senso stretto i valori sono sim<strong>il</strong>i: +0,8%<br />

tra 1996 e 2000, +0,7% tra 2001 e 2005) (p. 98).<br />

Insomma, sembra che i nostri coraggiosi capitani d’industria,<br />

che hanno fatto certamente profitti, li hanno<br />

fatti più con l’aumento <strong>della</strong> fatica che con <strong>il</strong> miglioramento<br />

<strong>della</strong> produttività. Marx avrebbe detto: più con <strong>il</strong><br />

pluslavoro assoluto che con <strong>il</strong> pluslavoro relativo. E questa<br />

sarebbe una economia efficiente? Lo si vedrà alla<br />

lunga, perché alla lunga le scelte regressive si pagano.<br />

GIORGIO LUNGHINI<br />

Di «declino» si cominciò a parlare a seguito di un saggio<br />

del 2003 di Pierluigi Ciocca, L’economia italiana: un problema<br />

di crescita. In quel saggio Ciocca non usa mai la parola<br />

«declino», semplicemente mostra come nell’economia<br />

italiana, soprattutto dopo la crisi valutaria del 1992, sia<br />

prevalsa una tendenza al rallentamento di tutti gli indicatori:<br />

reddito (assoluto e pro capite, effettivo e potenziale),<br />

consumi, produttività, esportazioni. Nel periodo tra <strong>il</strong><br />

1992 e i primi anni di questo secolo, le determinanti principali<br />

del rallentamento sono la dinamica <strong>della</strong> produttività<br />

del lavoro e la dinamica delle esportazioni. Il rallentamento<br />

nella produttività del lavoro, produttività peraltro<br />

elevata, è a sua volta determinato dalla minor crescita <strong>della</strong><br />

produttività totale dei fattori, cioè dalla minor crescita<br />

<strong>della</strong> produttività del sistema economico-sociale nel suo<br />

complesso. Dal lato <strong>della</strong> domanda aggregata, <strong>il</strong> rallentamento<br />

dipende dal minor contributo dei consumi privati e<br />

pubblici, un minor contributo non compensato da sufficienti<br />

esportazioni nette. Dinamica <strong>della</strong> produttività e<br />

dinamica delle esportazioni, sono tutte e due conferme di<br />

«una economia strutturalmente meno capace di impiegare<br />

e organizzare <strong>il</strong> lavoro, innovare, applicare <strong>il</strong> progresso<br />

tecnico, competere».<br />

Negli anni recenti <strong>il</strong> prodotto interno lordo ha ripreso a


crescere, sia pure di poco, e molti ne hanno concluso che<br />

<strong>il</strong> «declino» si è arrestato. Se però <strong>il</strong> problema economico<br />

è un problema di crescita, <strong>il</strong> problema rimane irrisolto:<br />

l’economia italiana è ancora un’economia poco<br />

capace, sempre meno capace, di impiegare e organizzare<br />

<strong>il</strong> lavoro. Lo è tanto poco da guardare al lavoro non come<br />

al fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le<br />

cose necessarie e comode <strong>della</strong> vita, dunque come alla<br />

risorsa da valorizzare; bensì come a un fattore <strong>della</strong> produzione,<br />

<strong>il</strong> cui impiego dovrebbe essere massimamente<br />

flessib<strong>il</strong>e e minimamente costoso. Di qui la ricetta «precarietà<br />

e bassi salari» come due condizioni necessarie e<br />

sufficienti per una crescita duratura del prodotto interno<br />

lordo. Ma se mai la flessib<strong>il</strong>ità ne fosse condizione<br />

necessaria (e c’è ragione di dubitarne), certamente non<br />

lo sono i bassi salari.<br />

C’è infatti <strong>il</strong> problema di una distribuzione arbitraria e<br />

non equa <strong>della</strong> ricchezza e del reddito; e dunque c’è<br />

anche un problema di domanda effettiva: occorre che le<br />

merci che si potrebbero produrre, trovino compratori<br />

all’interno e all’estero. All’interno dovranno trovare<br />

consumatori con sufficiente potere d’acquisto e imprenditori<br />

determinati a effettuare nuovi investimenti reali;<br />

mentre all’estero dovranno poter contare su paesi<br />

importatori in crescita costante e attratti dalla qualità e<br />

dai prezzi dei nostri prodotti. Tutte e tre queste componenti<br />

<strong>della</strong> domanda effettiva, consumi investimenti<br />

esportazioni, sono importanti; ma una importanza particolare<br />

hanno i consumi, poiché qui la questione economica<br />

è immediatamente questione sociale. La quota più<br />

importante <strong>della</strong> domanda per consumi è costituita dai<br />

consumi dei lavoratori, <strong>il</strong> cui reddito è dato dai salari. Gli<br />

imprenditori vedono nel salario soltanto un costo di<br />

produzione, da minimizzare, e si dimenticano che <strong>il</strong><br />

salario è anche potere d’acquisto. Se i salari sono bassi, e<br />

lo sono, bassi saranno i consumi dei lavoratori; né basteranno<br />

a sostenere la domanda per consumi complessiva<br />

i consumi di lusso, finanziati con rendite e profitti, che<br />

invece sono a livelli elevati. Insufficiente è anche la crescita<br />

degli investimenti, poiché gli imprenditori spesso<br />

preferiscono impiegare gli alti profitti nella speculazione<br />

finanziaria anziché in nuovi investimenti reali; e d’altra<br />

parte l’andamento delle esportazioni è spiegato piuttosto<br />

dalla congiuntura favorevole degli altri paesi, che<br />

non dalla qualità dei prodotti nazionali.<br />

Se mai si è arrestato <strong>il</strong> declino economico, negli ultimi<br />

decenni si è aggravato <strong>il</strong> declino sociale, e qui «declino»<br />

è la parola giusta. Ce ne sono molti segnali, non soltanto<br />

economici ma anche politici e culturali. In campo economico<br />

un sintomo secondario, ma assai chiaro, è lessicale:<br />

RIVE GAUCHE<br />

non si parla più di «lavoratori», bensì di «consumatori».<br />

La ragione vera è la dissociazione tra prestazione<br />

lavorativa e consumo. Il lavoratore fordista acquistava egli<br />

stesso ciò che aveva prodotto, oggi non è più così. Questa<br />

separazione tra produzione e consumo si dà anche all’interno<br />

dei singoli paesi, ma è particolarmente evidente a<br />

livello internazione: la si potrebbe chiamare «effetto<br />

Nike»: le costose scarpe da ginnastica sono prodotte da<br />

ragazzini sottopagati in qualche paese asiatico, e acquistate<br />

dai ragazzini benestanti dei paesi più ricchi.<br />

RICCARDO REALFONZO<br />

Il declino italiano è talmente marcato da non potere<br />

sfuggire agli analisti internazionali; e d’altronde fu proprio<br />

«The Economist» che, un paio di anni or sono,<br />

descrisse l’Italia come «<strong>il</strong> vero ammalato d’Europa».<br />

Nessuno può stupirsi per questa definizione, i dati ufficiali<br />

parlano chiaro. Sono ormai oltre quindici anni che<br />

l’Italia cresce meno <strong>della</strong> media dei paesi europei, avvitata,<br />

come è, in una stagnazione che è <strong>il</strong> prodotto al<br />

tempo stesso di una bassa domanda aggregata interna e<br />

di una pesante arretratezza dell’apparato produttivo, con<br />

conseguente progressiva perdita di quote di mercato<br />

negli scambi internazionali. Al tempo stesso, l’Italia è <strong>il</strong><br />

paese d’Europa in cui si assiste alla più intensa crescita<br />

degli squ<strong>il</strong>ibri distributivi e territoriali. Queste semplici<br />

annotazioni sono sufficienti per rispondere alla tua<br />

domanda in merito a chi sostenga <strong>il</strong> peso del declino. È<br />

innegab<strong>il</strong>e che <strong>il</strong> declino stia <strong>scarica</strong>ndo gli effetti più<br />

nefasti sui lavoratori. I dati relativi alla caduta del potere<br />

di acquisto dei salari e alla riduzione <strong>della</strong> quota del prodotto<br />

interno lordo che va ai redditi da lavoro parlano<br />

chiaro. D’altronde come potrebbe essere diversamente?<br />

L’abolizione <strong>della</strong> scala mob<strong>il</strong>e, gli accordi di politica dei<br />

redditi del luglio ’93 con la relativa introduzione del<br />

meccanismo dell’inflazione programmata, <strong>il</strong> varo del<br />

Pacchetto Treu e la famigerata legge 30, hanno progressivamente<br />

indebolito <strong>il</strong> potere contrattuale dei lavoratori<br />

e delle organizzazioni sindacali. Lungi dal generare<br />

effetti positivi sulla occupazione, l’unico risultato tangib<strong>il</strong>e<br />

di queste politiche è stato <strong>il</strong> freno alla crescita dei<br />

salari reali, che nel migliore dei casi sono aumentati<br />

meno <strong>della</strong> crescita <strong>della</strong> produttività del lavoro. Sono<br />

questi gli elementi che spiegano, nonostante <strong>il</strong> declino,<br />

l’andamento dei profitti.<br />

59


60<br />

In secondo luogo: a quanto pare la barca dell’economia<br />

italiana continua ad andare e a distribuire dividendi,<br />

pur in presenza di consistenti squ<strong>il</strong>ibri (economici<br />

e sociali). Da un lato, <strong>il</strong> governo sostiene che «la<br />

notte è passata» e che non resta che godere i frutti<br />

del «risanamento»; sul lato opposto, non si è per<br />

nulla ottimisti (e c’è ad esempio chi evoca, dati alla<br />

mano, imminenti crisi commerciali). Quale futuro<br />

prossimo possiamo prevedere per <strong>il</strong> nostro paese?<br />

RICCARDO BELLOFIORE<br />

Qui bisogna intendersi. Innanzi tutto, scordiamoci che un<br />

governo, soprattutto se a predominanza «social-liberista»<br />

come questo, dica mai che la notte è passata e che finalmente<br />

si può godere <strong>il</strong> frutto del risanamento. Il risanamento,<br />

per loro, non finirà mai. La ragione c’è. Quelli<br />

che vengono impropriamente chiamati «moderati», liberisti<br />

sì ma un po’ meno, non credono in realtà neanche<br />

loro ai parametri di Maastricht o al Patto di stab<strong>il</strong>ità. Gli<br />

servono solo come copertura per far passare certe politiche,<br />

quasi come necessità naturale, imposte da uno stato<br />

di emergenza. I parametri sulla finanza pubblica, o <strong>il</strong> Patto<br />

che prevede a medio termine l’azzeramento dei disavanzi,<br />

sono semmai sostenuti per ragioni di reputazione, come<br />

norma sociale. Le conseguenze talora recessive sono in<br />

fondo benvenute, come frusta alla riorganizzazione produttiva<br />

e alla regolazione sociale, alla «modernizzazione».<br />

Di più, e qui si misura la cecità <strong>della</strong> sinistra, quei<br />

vincoli in larga misura autoimposti e quella deriva deflazionistica,<br />

servono perché si pensa che uno stato più «leggero»<br />

aiuti prima o poi a migliorare l’efficienza del settore<br />

pubblico. Che uno stato regolatore aiuti a elevare la produttività<br />

del sistema. Che la politica industriale si possa<br />

ridurre al gioco degli incentivi e disincentivi. Che <strong>il</strong> tenore<br />

di vita possa migliorare, così come le posizioni di rendita<br />

possano ridursi, grazie alle politiche di liberalizzazione<br />

dentro una riregolamentazione dei mercati. Magari<br />

mettendo in piedi una rete sociale di sicurezza che aiuti la<br />

precarietà spacciata per flessib<strong>il</strong>ità. Il «social-liberismo»<br />

appunto. Tutte cose in cui non credo, ma – vivaddio! – è<br />

qualcosa che non sta nel mondo dei sogni, dove si è rifugiata<br />

la sinistra. Una sinistra degna di questo nome avrebbe<br />

dovuto porre, lei, la questione <strong>della</strong> «qualità» del sistema<br />

produttivo, economico, sociale: con un piano di intervento<br />

strutturale a cui si poteva e doveva lavorare da<br />

anni. Se no, perché, per cosa, ti candidi a governare?<br />

Esiste un nuovo, chiarissimo ciclo economico-politico da<br />

molte parti. La destra, o centro-destra, chiamalo come<br />

vuoi, va al governo. Sinistra e centro-sinistra (qualcuno<br />

mi dice, centrosinistra senza trattino, ma non sono un<br />

esperto di queste cose) unite all’opposizione sono spesso<br />

in grado di non far passare <strong>il</strong> lato liberista selvaggio su<br />

mercato del lavoro e welfare del neoliberismo. Intanto<br />

spende e spande, e i disavanzi addirittura crescono. Se <strong>il</strong><br />

centro-sinistra va al governo con un pezzo <strong>della</strong> sinistra,<br />

non c’è più niente o poco da ridistribuire, e allora bisogna<br />

puntare tutto sulla flessib<strong>il</strong>ità (leggi, precariato) e qualche<br />

make-up, e ovviamente «risanare». La stessa sinistra di<br />

governo comincia a fare una operazione sulle parole: si


voleva l’abolizione <strong>della</strong> legge 30? No, «superamento». E<br />

gli esempi si potrebbero moltiplicare. E lì a fare barriera<br />

sul nuovo confine: gli stessi intellettuali vicini al partito<br />

adattano subito la terminologia, non si sa mai. Chi si oppone<br />

viene presto bollato come nemico del popolo. Da<br />

quelli che voi chiamate «moderati» l’accusa viene mossa<br />

alla sinistra al governo, da questa con qualche cautela a<br />

chi rompe le scatole. Si decidono espulsioni, che anche<br />

rappresentanti <strong>della</strong> vecchia area dell’Ernesto mi pare<br />

abbiano votato. Dall’altro versante, ovviamente, da quella<br />

che si vuole sinistra <strong>della</strong> sinistra si finisce con <strong>il</strong> vedere<br />

come salvifica una opposizione pura e semplice, tanto la<br />

sinistra non deve andare mai al governo con i «moderati».<br />

Il conflitto e l’incompatib<strong>il</strong>ismo divengono parole<br />

che sole garantiscono la salvezza. Non ci si parla più. Ci si<br />

spezza in m<strong>il</strong>le anime. È successo anche a voi, mi pare. Si<br />

è già visto, lo si sapeva. Idealisticamente, <strong>il</strong> problema politico<br />

diventa l’egemonia «neoliberista» sulla componente<br />

«moderata», come ho sentito dire a Burgio in un<br />

dibattito a Torino.<br />

Uno dei drammi <strong>della</strong> sinistra radicale è che non capisce<br />

che l’asse Stati Uniti-Asia costituitosi negli ultimi anni ha<br />

marginalizzato l’Europa, un continente che dipende ancora<br />

troppo dal neomercant<strong>il</strong>ismo forte <strong>della</strong> Germania.<br />

Con <strong>il</strong> paradosso che la Germania ora cresce se cresce la<br />

Cina e l’Asia, ma se l’economia degli Stati Uniti va molto<br />

male le difficoltà rimbalzano lo stesso in Europa: o per gli<br />

effetti <strong>della</strong> globalizzazione finanziaria, o perché si hanno<br />

problemi nell’area asiatica. Tutti appesi, dunque e comunque,<br />

a un atterraggio morbido dell’economia americana.<br />

Nonostante alcune tesi, che a me paiono fantasiose<br />

e che sono circolate all’inizio dell’anno (i dati non basta<br />

citarli, bisogna saperli leggere), la ripresa europea è stata<br />

trainata dall’export netto e dagli investimenti tedeschi,<br />

non certo dai disavanzi del b<strong>il</strong>ancio pubblico o dai consumi<br />

salariali. Lo abbiamo sostenuto a più riprese Halevi e<br />

io: ma si può leggere De Cecco su «Repubblica», oppure<br />

Nardozzi su «Il Sole 24 Ore». È chiaro che dentro l’Europa<br />

dell’euro, sotto <strong>il</strong> cappello delle politiche che conosciamo,<br />

va avanti una riarticolazione geografica e settoriale,<br />

che penalizza la nostra industria e <strong>il</strong> nostro manifatturiero:<br />

dove conta la posizione debole dell’Italia tra i<br />

«grandi» fondatori del Mercato comune europeo. Dobbiamo<br />

restare dentro, ed essere posti sotto stress.<br />

Siamo doppiamente dipendenti da uno sv<strong>il</strong>uppo europeo<br />

che è esso stesso non autocentrato. Se la crisi finanziaria<br />

di questa estate – le cui cause e <strong>il</strong> cui contesto sono ignote<br />

alla sinistra, che non l’ha vista arrivare, e che continua<br />

a ragionare in una ottica nazionale, ancora all’oscuro<br />

delle novità del capitalismo da un quindicennio a questa<br />

RIVE GAUCHE<br />

parte – se quella crisi, dicevo, dovesse dar luogo a un atterraggio<br />

duro dell’economia americana, dentro la possib<strong>il</strong>e<br />

se non probab<strong>il</strong>e crisi europea ci sarà una rinnovata<br />

e certa, drammatica stagnazione del nostro paese. È<br />

già successo nei primi cinque anni di questo decennio.<br />

Noi non possediamo né <strong>il</strong> sistema finanziario anglosassone,<br />

peraltro oggi in difficoltà, né la manifattura di qualità<br />

tedesca. Quello che però è chiaro è che le difficoltà<br />

attuali non sono state create dalla moneta unica, che si è<br />

limitata a renderle più visib<strong>il</strong>i.<br />

Per quel che riguarda l’imminenza di una crisi commerciale<br />

tipo 1992, non ne sono affatto convinto. E i «dati<br />

alla mano» di cui parla la domanda non si vede dove<br />

siano. Si applicano all’Italia dentro la moneta unica argomenti<br />

che valgono, quando valgono, fuori dall’unificazione<br />

monetaria. In generale, un grave disavanzo commerciale<br />

può spingere a un riaggiustamento via modificazione<br />

del tasso di cambio nominale. Ma non è detto.<br />

Oggi <strong>il</strong> dollaro si svaluta rispetto a Ingh<strong>il</strong>terra, Australia,<br />

Nuova Zelanda in serio disavanzo commerciale. Il perché<br />

è chiaro: gli alti tassi di interesse di questi paesi più che<br />

compensano sul piano dei movimenti di capitale, e consentono<br />

di rifornire di liquidità la speculazione col c.d.<br />

carry trade, indebitarsi in yen e investire dove i rendimenti<br />

sono elevati, senza più di norma un rischio di<br />

cambio. Non vale neanche sempre nei casi di ipervalutazione<br />

«reale». Si pensi al caso del Giappone dal 1985 al<br />

1995, o negli ultimi anni, cioè nei periodi di grande svalutazione<br />

del dollaro. O si pensi alla Germania negli anni<br />

Settanta, prima del Sistema monetario europeo. Gli stessi<br />

cultori più seri dell’equ<strong>il</strong>ibrio economico generale<br />

hanno smontato la legge <strong>della</strong> domanda alla base dei<br />

meccanismi di riaggiustamento: le variazioni del prezzo<br />

agli eccessi di domanda netta non garantisco l’unicità o<br />

la stab<strong>il</strong>ità dell’equ<strong>il</strong>ibrio, e smontano anche tutti gli<br />

esercizi di statica comparata.<br />

Dentro l’area dell’euro, proprio i dati fanno dubitare<br />

dell’imminenza di una crisi tipo 1992. Secondo le stime<br />

Ocse la Spagna avrà nel 2007 un deficit <strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia<br />

corrente rispetto al P<strong>il</strong> del 10,1%, l’Italia si limiterebbe<br />

al 2,5%. Nel 1992 i valori erano rispettivamente del 3,5%<br />

e del 2,3%. Se deve saltare qualcuno, sarebbe la Spagna.<br />

E la causa sarebbe lo sgonfiamento <strong>della</strong> bolla immob<strong>il</strong>iare<br />

e le conseguenze <strong>della</strong> crisi dei subprime, non la b<strong>il</strong>ancia<br />

commerciale. Nell’unione monetaria non c’è proprio<br />

<strong>il</strong> vincolo valutario. C’è evidentemente un problema<br />

di finanziamento dei disavanzi commerciale e corrente,<br />

e questo ha a che vedere con i trasferimenti nell’area,<br />

con le politiche fiscali, con afflussi di capitale, e così via.<br />

Rimane <strong>il</strong> rischio relativo alla qualità del debitore (un<br />

61


62<br />

punto, ahimé, che resuscita in parte gli argomenti di<br />

quelli che sono preoccupati dello stato <strong>della</strong> nostra finanza<br />

pubblica). Ma non scommetterei su una crisi a<br />

breve. Né <strong>il</strong> disavanzo commerciale dell’Italia, in gran<br />

parte all’interno dell’area (escludendo la bolletta energetica),<br />

influenza l’euro più di tanto. L’Italia fa più paura<br />

fuori che dentro, e una crisi dell’Italia fac<strong>il</strong>mente significherebbe<br />

che salta l’eurozona. Lo ha ricordato sensatamente<br />

Alfonso Gianni criticando Em<strong>il</strong>iano Brancaccio su<br />

«Liberazione»: Gianni si appoggiava su alcune ema<strong>il</strong> di<br />

Joseph Halevi a «Liberazione» che davano ragione a me<br />

su un punto criticato affrettatamente e fuori contesto da<br />

Brancaccio. Mi fa piacere che, per interposta persona,<br />

Alfonso Gianni e io si sia d’accordo almeno su questo.<br />

Per quel che riguarda la nostra posizione con l’estero, si<br />

tratta di nuovo di un vincolo «pseudo-naturale» che<br />

spinge verso le politiche contro <strong>il</strong> lavoro che conosciamo.<br />

Il «riaggiustamento» può procedere per la via di<br />

una prolungata spinta alla deflazione dei salari, alla precarizzazione.<br />

Per un prolungamento del tempo di lavoro<br />

sociale nell’arco vitale. Per <strong>il</strong> dare alle imprese mano libera<br />

sugli orari. Per un attacco al contratto nazionale.<br />

Per un aumento dei salari solo su base territoriale e<br />

aziendale. Al limite, fallimenti e crisi degli investimenti:<br />

in un circolo perverso che aggrava i problemi. Ma scordiamoci<br />

che urlare alla crisi cambi la situazione.<br />

È chiaro da quel che si è detto che dire questo non significa<br />

affatto sottovalutare <strong>il</strong> nodo <strong>della</strong> qualità delle nostre<br />

esportazioni e importazioni, le carenze dell’industria e<br />

del manifatturiero, e così via. Significa anzi l’esatto contrario.<br />

D’altronde quel nodo è al centro da sempre <strong>della</strong><br />

mia riflessione, come di quella di Halevi.<br />

EMILIANO BRANCACCIO<br />

Il rischio di un allargamento degli squ<strong>il</strong>ibri commerciali<br />

tra i paesi dell’Unione monetaria, fino all’eventualità di<br />

una crisi interna all’assetto europeo, è oggetto di indagini<br />

approfondite da parte di studiosi delle più svariate correnti<br />

di pensiero (cito ad esempio Roubini tra i neoclassici, e<br />

Graziani tra gli economisti critici). I dati di cui disponiamo<br />

oggi sembrano avvalorare l’eventualità che nei prossimi<br />

anni possa scatenarsi una crisi commerciale con possib<strong>il</strong>i<br />

epicentri in Italia e negli altri paesi del Mediterraneo,<br />

vale a dire nei paesi in crescente disavanzo estero, soprattutto<br />

rispetto alla Germania. L’Unione monetaria soffre<br />

insomma di una struttura delle b<strong>il</strong>ance commerciali fortemente<br />

squ<strong>il</strong>ibrata, che potrebbe improvvisamente entrare<br />

in crisi anche a seguito di uno shock esterno, come ad<br />

esempio un boom del costo delle materie prime o una crisi<br />

bancaria internazionale. Ora, noi sappiamo che i governi<br />

dei paesi in deficit commerciale – in primis <strong>il</strong> nostro –<br />

stanno cercando di rimediare a questi squ<strong>il</strong>ibri con la solita<br />

ricetta dell’ortodossia neoclassica: da un lato comprimere<br />

la spesa pubblica, in modo da contenere la domanda<br />

e le importazioni; dall’altro comprimere i salari monetari,<br />

in modo da compensare <strong>il</strong> divario di produttività e contrastare<br />

quindi l’aumento del costo del lavoro per unità prodotta<br />

delle merci esportate. Questa strategia deflazionista<br />

però a quanto pare non funziona: basti notare che <strong>il</strong> deficit<br />

nei conti esteri dell’Italia continua ad aumentare. Ora,<br />

nel criticarmi, Halevi (18 agosto, «Liberazione») e altri<br />

hanno sostenuto in modo forse ardimentoso che la deflazione<br />

non funziona perché ormai <strong>il</strong> nesso tra prezzi relativi<br />

e b<strong>il</strong>ancia dei pagamenti non sussiste più. Ora, piacerebbe<br />

anche a me che avessero ragione, ma al momento<br />

questa idea non trova riscontri attendib<strong>il</strong>i. È più probab<strong>il</strong>e,<br />

invece, che <strong>il</strong> mancato aggiustamento delle b<strong>il</strong>ance sia<br />

dovuto al fatto che nell’Unione monetaria la dinamica dei<br />

salari monetari risulta abbastanza omogenea tra i paesi,<br />

mentre l’andamento delle produttività tende a divergere.<br />

In altri termini, la compressione salariale nei paesi cosiddetti<br />

«periferici» non riesce a favorire <strong>il</strong> riequ<strong>il</strong>ibrio poiché<br />

una compressione analoga si sta verificando anche nei<br />

paesi «centrali», nonostante che in questi la produttività<br />

cresca molto. Al pari dei lavoratori italiano e greco, anche<br />

quello tedesco dunque non riesce più ad accaparrarsi gli<br />

incrementi di produttività, sebbene nel suo paese questi<br />

siano estremamente cospicui. Ora, se questo fenomeno<br />

dovesse trovare conferme anche in futuro, faremmo bene<br />

a dedicargli molte attenzioni. Infatti esso rappresenta al<br />

contempo un potenziale fattore di crisi, ma anche un sintomo<br />

di crescente omogeneità nei rapporti di forza in cui<br />

versano i lavoratori europei, che potrebbe magari preludere<br />

a una loro maggiore coesione rivendicativa. Se ci<br />

pensiamo bene, da un punto di vista marxista è diffic<strong>il</strong>e<br />

immaginare una contraddizione più feconda di questa, sul<br />

piano sociale e politico. Ma per sfruttarla bisognerebbe lavorarci<br />

su, e soprattutto iniziare a coordinarsi a livello europeo,<br />

sia sul piano sindacale che partitico.<br />

GIORGIO GATTEI<br />

È troppo presto per dire se l’economia italiana abbia ritrovato<br />

<strong>il</strong> sentiero dello sv<strong>il</strong>uppo (intanto le stime sono<br />

state riviste al ribasso). Quello che sembrerebbe invece<br />

in ordine è <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio dello Stato, così che la prossima finanziaria<br />

potrebbe essere (<strong>il</strong> condizionale è d’obbligo)<br />

«a costo zero». I conti andrebbero così bene che l’obiettivo<br />

dichiarato può essere l’azzeramento del disavanzo


per <strong>il</strong> 2011, come imposto dal sempre più nefasto accordo<br />

di Maastricht (ma perché non costituire un movimento<br />

a dimensione europea per cambiarlo?). Ora azzerare <strong>il</strong><br />

disavanzo significa che a quella data le spese statali saranno<br />

coperte soltanto dalle entrate fiscali, perché <strong>il</strong> deficit<br />

dovrà essere 0,0%. È una regola monetarista, che<br />

ormai non trova oppositori, che sancisce <strong>il</strong> principio che<br />

lo Stato spende solo in base a quanto i cittadini si fanno<br />

tassare. E se non si vogliono le tasse? Niente spesa pubblica!<br />

È questo <strong>il</strong> veleno delle campagne di stampa contro<br />

l’eccessivo peso fiscale che finiscono per essere la copertura<br />

<strong>della</strong> parola d’ordine neoliberista dello «Stato al<br />

minimo» così che tutto sarà iniziativa privata e (se va<br />

bene) sussidarietà – Stati Uniti docet.<br />

Però, messa così, non la si racconta ancora tutta perché<br />

tra le spese dello Stato pesano, e non di poco, gli interessi<br />

sul debito pubblico che non si prevede affatto di azzerare<br />

mediante, che so?, un «annulla <strong>il</strong> debito» (evidentemente<br />

adatto solo ai cantanti e al Terzo mondo) che<br />

portasse a quella «eutanasia dei rentiers» preconizzata in<br />

altri tempi da Keynes. Ma oggi i rentiers sono «sacrosanti»<br />

(e poi ricattano anche), sicché <strong>il</strong> loro diritto a percepire<br />

interessi non si può discutere. Quindi, permanendo<br />

la spesa per interessi, <strong>il</strong> pareggio del b<strong>il</strong>ancio statale necessita<br />

di un ammontare di entrate superiore alle «spese<br />

pubbliche al netto degli interessi». Per questo servono<br />

più tasse e meno servizi per formare quell’avanzo primario<br />

che deve pagare gli interessi sul debito. Siamo così<br />

tutti molto felici che, dopo 9 anni di riduzione, l’avanzo<br />

primario possa riprendere a crescere grazie alla pressione<br />

fiscale in aumento (dal 40,6 % del P<strong>il</strong> nel 2005 al<br />

42,3% del 2006)(p. 135), mentre la spesa pubblica corrente<br />

ha segnato <strong>il</strong> passo: 44,5% del P<strong>il</strong> nel 2005 e 2006<br />

(p. 138). E la spesa per interessi? È aumentata dal 4,5%<br />

del P<strong>il</strong> nel 2005 al 4,6% nel 2006 (p. 138).<br />

Si potrebbe comunque pensare che nel pagare quegli interessi<br />

lo Stato trasferisca reddito nazionale dai cittadini<br />

che pagano le imposte (che dovrebbero essere tutti) ai<br />

RIVE GAUCHE<br />

cittadini che hanno sottoscritto <strong>il</strong> debito, che sono soltanto<br />

una parte ma comunque cittadini sono. Ciò però<br />

non è proprio vero perché buona parte del debito è nelle<br />

mani di investitori stranieri (anche fondi d’investimento<br />

e fondi pensione americani) che approfittano di quell’avanzo<br />

primario per portarsi a casa interessi senza<br />

tasse. Messa così non è più soltanto una partita di giro interna,<br />

ma una fuoriuscita di capitali che «saccheggia» la<br />

ricchezza del paese, un’evenienza ben nota di cui ha<br />

scritto Karl Marx nel Capitale: «con i debiti pubblici è<br />

sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde<br />

una delle fonti dell’accumulazione originaria di<br />

questo o di quel popolo», così che quando <strong>il</strong> credito pubblico<br />

(perché tale andrebbe meglio chiamato) «diventa <strong>il</strong><br />

credo del capitale, al peccato contro lo spirito santo, che<br />

è quello che non trova perdono, subentra <strong>il</strong> mancar di<br />

fede al debito pubblico». Guai dunque a deludere gli interessi<br />

del debito, specie se alle viste c’è una nuova stagione<br />

di «alti tassi del denaro» sim<strong>il</strong>e a quella di reaganiana<br />

memoria. A meno che l’imprevista (?) crisi dei<br />

mutui subprime non imponga invece di fargliela pagare<br />

proprio a «bancocrati, finanzieri, rentiers, mediatori,<br />

agenti di cambio e lupi di Borsa» (K. Marx).<br />

63


64<br />

GIORGIO LUNGHINI<br />

In questo momento – ma in verità sempre – è molto diffic<strong>il</strong>e<br />

fare previsioni: gli economisti possono fare buone diagnosi,<br />

ma di rado fanno buone previsioni. Si può però dire<br />

che proprio perché l’economia italiana dipende troppo dal<br />

contesto internazionale, essa è un’economia strutturalmente<br />

frag<strong>il</strong>e; e che le prospettive economiche mondiali,<br />

in particolare le prospettive di quella parte del mondo cui<br />

siamo più legati, non sono affatto tranqu<strong>il</strong>lizzanti.<br />

Il vero problema – ormai da quasi un secolo – sono gli Stati<br />

Uniti. In uno dei suoi tanti scritti profetici, Keynes scriveva,<br />

nel 1932, che: «<strong>il</strong> capitalista moderno è come un marinaio<br />

che naviga soltanto con <strong>il</strong> vento in poppa, e che non<br />

appena si leva la burrasca viene meno alle regole <strong>della</strong> navigazione<br />

o addirittura affonda le navi che potrebbero trarlo<br />

in salvo, per la fretta di spingere via <strong>il</strong> vicino e salvare se<br />

stesso. Se gli Stati Uniti risolvessero i loro problemi interni,<br />

ciò varrebbe come esempio e stimolo per tutti gli altri<br />

paesi e dunque andrebbe a vantaggio del mondo intero.<br />

Magari uno sguardo ravvicinato potrebbe attenuare <strong>il</strong> mio<br />

pessimismo, ma guardando da lontano non riesco a immaginare<br />

un corso degli eventi che possa risanare l’economia<br />

americana nel futuro immediato».<br />

RICCARDO REALFONZO<br />

Credo che se non assisteremo a una svolta nella politica<br />

economica del governo <strong>il</strong> futuro prossimo del paese sarà<br />

sempre più cupo, soprattutto per i lavoratori. In primo<br />

luogo, c’è da dire che la politica di «risanamento» non<br />

produce alcun frutto. A una Finanziaria di rigore segue<br />

un’altra Finanziaria di rigore, a un avanzo primario (l’eccesso<br />

delle entrate pubbliche sulle uscite, interessi sul<br />

debito a parte) segue un altro avanzo primario, con la conseguente<br />

progressiva fuoriuscita dello Stato dall’economia,<br />

lo svuotamento dello Stato sociale, la sempre più<br />

grave carenza di beni pubblici. Secondo i piani dei «rigoristi»<br />

questa politica dovrebbe proseguire, ai ritmi attuali,<br />

almeno per 20-25 anni. Solo allora, infatti, una volta<br />

che <strong>il</strong> debito fosse sceso alla tanto fatidica quanto del tutto<br />

ingiustificata soglia del 60% del P<strong>il</strong>, dichiarerebbero<br />

compiuto <strong>il</strong> «risanamento», metterebbero fine alla successione<br />

di avanzi primari e ci lascerebbero godere gli effetti<br />

di un b<strong>il</strong>ancio pubblico alleggerito del fardello del<br />

debito. Solo che nel frattempo <strong>il</strong> sistema economico-produttivo<br />

italiano risulterebbe tragicamente immiserito,<br />

definitivamente smantellato, per non parlare degli inaccettab<strong>il</strong>i<br />

costi sociali di una politica di questo genere. Una<br />

vera tragedia. In secondo luogo, la crisi commerciale c’è<br />

già. In un articolo a firma mia e di Augusto Graziani apparso<br />

su «Liberazione» <strong>il</strong> 10 settembre 2006, significativamente<br />

intitolato L’alternativa alla politica di lacrime e<br />

sangue, precisammo che <strong>il</strong> declino ha ormai portato al disavanzo<br />

cronico <strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia commerciale. E chiarimmo<br />

che la strategia «moderata» per rispettare <strong>il</strong> vincolo<br />

esterno (l’equ<strong>il</strong>ibrio dei conti con l’estero) punta sulle<br />

politiche di b<strong>il</strong>ancio restrittive e sul contenimento dei salari.<br />

Infatti, le politiche di b<strong>il</strong>ancio restrittive – la manovra<br />

di abbattimento del debito – determinano una contrazione<br />

<strong>della</strong> domanda interna e quindi dell’occupazione e<br />

delle importazioni, contribuendo per questa via a migliorare<br />

<strong>il</strong> saldo dei conti con l’estero; mentre <strong>il</strong> contenimento<br />

dei salari determina una contrazione dei costi di produzione,<br />

aumentando la competitività delle imprese e<br />

quindi r<strong>il</strong>anciando le esportazioni. Si tratta di una strategia<br />

che evidentemente <strong>scarica</strong> <strong>il</strong> prezzo del riequ<strong>il</strong>ibrio<br />

<strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia commerciale sui lavoratori. E questa sembra<br />

essere, purtroppo, la strategia sulla quale <strong>il</strong> governo in<br />

carica sta di fatto puntando. L’alternativa che noi proponiamo<br />

consiste nello stab<strong>il</strong>izzare <strong>il</strong> debito rispetto al P<strong>il</strong> (e<br />

qui non posso non rimandare al ben noto appello degli<br />

economisti che si trova sul sito<br />

www.appellodeglieconomisti.com), r<strong>il</strong>anciare gli investimenti<br />

nelle infrastrutture materiali e immateriali, rimettere<br />

in piedi una politica industriale degna di questo<br />

nome, valorizzare <strong>il</strong> lavoro. Insomma tentare una «via<br />

alta» al r<strong>il</strong>ancio <strong>della</strong> competitività, giocata su ricerca, innovazioni,<br />

lavoro di qualità.


Al di là del caso italiano, è ricorrente la domanda<br />

sulla tenuta in generale del sistema capitalistico,<br />

sulla sua capacità di sopravvivere alle sue crisi e di<br />

mostrarsi resistente ai progetti di trasformazione sociale.<br />

Al riguardo <strong>della</strong> recente crisi di solvib<strong>il</strong>ità,<br />

indotta dallo scoppio <strong>della</strong> bolla speculativa e propagatasi<br />

dal cuore dell’impero, qualcuno ha evocato la<br />

crisi del ’29. In effetti, la finanziarizzazione dell’economia<br />

ha accresciuto i punti di vulnerab<strong>il</strong>ità dell’economia<br />

capitalistica. Secondo Federico Rampini, con opportune<br />

e severe correzioni, <strong>il</strong> mercato può recuperare<br />

un suo fisiologico equ<strong>il</strong>ibrio; al contrario, Joseph<br />

Halevi ritiene che la dimensione finanziaria e speculativa<br />

è insita strutturalmente nel sistema capitalistico.<br />

Non sembra una divergenza di poco conto.<br />

RIVE GAUCHE<br />

RICCARDO BELLOFIORE<br />

Joseph Halevi ha assolutamente ragione. Non mi è diffic<strong>il</strong>e<br />

essere d’accordo con lui. Su questo punto, come su tanti<br />

altri, la sintonia con Halevi si è rafforzata negli anni, in un<br />

dialogo ormai ininterrotto, a partire almeno da un convegno<br />

che organizzai a Bergamo nel 1997 e a cui lo invitai. Lo<br />

si è visto nelle due interviste uscite quest’estate su «Liberazione»,<br />

che sono state entrambe attaccate da economisti<br />

di grido e politici di r<strong>il</strong>ievo come affette da «rassegnazione»,<br />

e da «pessimismo» naturalmente «cosmico».<br />

In privato, addirittura, non si sa perché, di «negrismo»<br />

(cosa che ha un che di divertente: l’anno scorso, con Giovanna<br />

Vertova, Halevi e io abbiamo condotto una polemica<br />

proprio con <strong>il</strong> versante economico di questa ideologia<br />

italiana, in cui sono intervenuti f<strong>il</strong>osofi come Tomba e sociologi<br />

come Sacchetto, o ancora Ferruccio Gambino e<br />

Fabio Raimondi; gli economisti <strong>della</strong> Rive Gauche, ma non<br />

solo, si sono fatti notare per <strong>il</strong> loro s<strong>il</strong>enzio; e dire che <strong>il</strong><br />

tema trattato era proprio la precarietà del lavoro). In realtà,<br />

però, forse una ragione c’è. Basta criticare i partiti <strong>della</strong><br />

sinistra così come sono, la loro politica, ricordare che <strong>il</strong><br />

cambiamento necessario non può che andare insieme a<br />

una rinascita dal basso, invitare a smetterla di far finta che<br />

lo scontento <strong>della</strong> «base» sia un mugugno di cui non si è<br />

responsab<strong>il</strong>i per le analisi e le scelte sbagliate degli ultimi<br />

anni. A questo punto la vecchia tradizione «comunista»,<br />

nel senso peggiore, si risveglia e vieni accomunato all’anti-politica,<br />

o sei neutralizzato con <strong>il</strong> richiamo vuoto alla<br />

psicologia.<br />

Sul carattere specifico del capitalismo contemporaneo, e<br />

sulla sua connaturata deriva finanziaria e speculativa, proprio<br />

con Halevi avevamo già incentrato la nostra critica agli<br />

economisti <strong>della</strong> Rive Gauche nel nostro contributo al convegno<br />

di due anni fa, poi raccolto nel volume curato da Cesaratto<br />

e Realfonzo. La crisi recente di questa estate la si<br />

comprende solo su quello sfondo. Sempre con Halevi, in<br />

continuità con quella nostra analisi, ho appena ultimato un<br />

articolo per «Alternative per <strong>il</strong> socialismo» che tratta <strong>della</strong><br />

crisi dei mutui ad alto rischio. In un paragrafo di quello<br />

scritto, la riconduciamo al quadro di insieme delle dinamiche<br />

macroeconomiche degli ultimi decenni.<br />

Il punto d’inizio non può che essere la svolta neoliberista<br />

di Reagan e Volcker. La liberalizzazione dei movimenti di<br />

capitale, la restrizione monetaria, lo smantellamento dello<br />

stato sociale, la concorrenza aggressiva dei global player,<br />

hanno messo in moto negli anni Ottanta una potente tendenza<br />

stagnazionistica. La quota dei salari si riduce e gli investimenti<br />

non crescono a sufficienza. Unica controtendenza,<br />

i disavanzi pubblici eccezionali di Reagan, a furia di<br />

65


66<br />

politiche a favore del complesso m<strong>il</strong>itare-industriale e di<br />

sgravi fiscali per i ricchi. La congiunzione di politica monetaria<br />

restrittiva e di politica fiscale espansiva negli Usa,<br />

in contrasto con le altre aree, ha fatto balzare verso l’alto i<br />

prezzi delle attività finanziarie, e ha determinato un differenziale<br />

positivo dei tassi di interesse che produceva afflussi<br />

di capitale e rivalutazione del dollaro in quel paese.<br />

Si ingrossava così <strong>il</strong> disavanzo nel commercio con l’estero<br />

americano: ma <strong>il</strong> «rosso» nei rapporti con l’estero non è<br />

evidentemente un vincolo per un paese la cui moneta nazionale<br />

è la valuta di riserva mondiale.<br />

Queste dinamiche, accompagnate da numerosi scossoni<br />

finanziari, non hanno instaurato subito un nuovo modello.<br />

È solo alla metà degli anni Novanta – dopo un decennio<br />

di politiche coordinate di svalutazione del dollaro,<br />

e mentre si sgonfiava l’onda dell’alto costo del denaro<br />

– che si assiste a un mutamento qualitativo di r<strong>il</strong>ievo.<br />

Quelle novità che con Halevi abbiamo sintetizzato nella<br />

terna lavoratore «spaventato» – consumatore «indebitato»<br />

– risparmiatore «terrorizzato», e quelle dinamiche<br />

che hanno finito con <strong>il</strong> produrre una «sussunzione<br />

reale» del lavoro alla finanza e al debito che retroagisce<br />

sulle modalità dello sfruttamento in senso stretto.<br />

Per capire queste novità conviene prendere le mosse dalla<br />

new economy: non intesa come nuova ondata tecnologica,<br />

ma come interazione «virtuosa», per gli Stati Uniti, tra<br />

rinnovata politica del dollaro forte e politica monetaria di<br />

fiancheggiamento alla nuova finanza da parte <strong>della</strong> Fed.<br />

Le innovazioni finanziarie, accoppiate allo spostamento<br />

dei risparmi globali dai mercati obbligazionari del debito<br />

statale ai mercati azionari, attivano allora una bolla speculativa<br />

nella speranza di profitti dell’economia virtuale<br />

del tutto irrealistici. La centralizzazione del capitale finanziario<br />

a Wall Street fu favorita dalla prolungata recessione<br />

del Giappone e dalla stagnazione dell’Europa, intrappolata<br />

tra riunificazione tedesca e unificazione monetaria<br />

europea, e venne accelerata dalle varie crisi <strong>della</strong><br />

globalizzazione finanziaria. Grazie anche alla diffusione<br />

dei fondi pensione in giro per <strong>il</strong> mondo, la moneta è affluita<br />

sempre più negli Stati Uniti. L’euforia irrazionale<br />

dei mercati diviene parossistica, sino a che <strong>il</strong> repentino<br />

aumento dei tassi di interesse da parte <strong>della</strong> Fed a fine<br />

1999 porta alla svolta nel marzo 2000.<br />

La nuova «economia <strong>della</strong> borsa» va compresa nel quadro<br />

macroeconomico globale e nel suo ruolo di dispositivo<br />

di un efficace «keynesismo» finanziario. Fuori dall’area<br />

anglosassone vige un eccesso del reddito sulla<br />

spesa, in forza di politiche neomercant<strong>il</strong>iste forti o deboli,<br />

all’insegna di deflazioni o svalutazioni competitive.<br />

Acuta la necessità di trovare sbocchi alla produzione. Gli<br />

Stati Uniti svolgono <strong>il</strong> ruolo di principale fornitore <strong>della</strong><br />

domanda globale. Questa domanda non può venire, per<br />

definizione, dal canale estero. Nel 1995-2000 neanche<br />

dal settore statale, in attivo sotto Clinton. Viene dunque<br />

dal settore privato, famiglie e imprese, la cui b<strong>il</strong>ancia finanziaria<br />

va in passivo. In parte investimenti privati, in<br />

parte più significativa consumi che superano <strong>il</strong> reddito<br />

disponib<strong>il</strong>e. Il meccanismo ebbe come perno la rivalutazione<br />

delle attività finanziarie, in particolare le azioni, e<br />

diede vita a rapporti prezzi/ut<strong>il</strong>i eccessivi. Banche e intermediari<br />

trasformarono la ricchezza cartacea in spesa<br />

senza fondo. Un effetto ricchezza che aumentò la componente<br />

«autonoma» (cioè indipendente dal reddito corrente)<br />

<strong>della</strong> domanda di consumi.<br />

Il processo, insostenib<strong>il</strong>e, si sgonfia nel 2000-01, mentre<br />

riprende la svalutazione di lungo periodo del dollaro.<br />

La crisi si è prolungata sino a metà 2003. Fu tamponata<br />

con più moneta, spesa m<strong>il</strong>itare e meno tasse per i ricchi<br />

(<strong>il</strong> vecchio «keynesismo» di cui molti hanno nostalgia).<br />

Nel triennio, i disavanzi statali bruciarono 7 punti percentuali<br />

di P<strong>il</strong>. Il disavanzo <strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia corrente intanto<br />

peggiorava, raggiungendo <strong>il</strong> 7% del P<strong>il</strong> nel 2005.<br />

Tende ora al 5%: grazie al rallentamento dell’economia<br />

americana, che migliora la b<strong>il</strong>ancia commerciale; e alla<br />

svalutazione di oltre <strong>il</strong> 20%, che favorisce l’indebitamento<br />

netto, dato che le passività sono denominate in<br />

dollari e le attività in valuta estera.<br />

Visto che le imprese hanno ripianato i propri b<strong>il</strong>anci e<br />

spendono meno del risparmio d’impresa, come è ripartita<br />

la crescita? Grazie a una dose più robusta <strong>della</strong> stessa<br />

droga, per far ripartire i consumi di famiglie ancor più<br />

indebitate. Il mercato immob<strong>il</strong>iare, favorito dal crollo<br />

dei tassi di interesse, è venuto in soccorso. Con prezzi<br />

che salgono, e rinegoziazione dei mutui ipotecari a tasso<br />

variab<strong>il</strong>e, le case sono diventate un bancomat. Il deficit<br />

finanziario delle famiglie (misurato come i loro risparmi<br />

al netto dell’investimento residenziale) ha raggiunto <strong>il</strong><br />

4% del P<strong>il</strong>, una novità assoluta nel dopoguerra. Come nel<br />

1995-2000, non sarebbe potuto avvenire senza la compiacenza<br />

<strong>della</strong> banca centrale. La Fed ha favorito la domanda,<br />

prima sostenendo i prezzi dell’immob<strong>il</strong>iare, poi<br />

per <strong>il</strong> tramite dei nuovi strumenti di credito finanziati<br />

dalle banche commerciali. Una piramide la cui sostenib<strong>il</strong>ità<br />

si regge sulla continua disponib<strong>il</strong>ità degli acquirenti<br />

esterni di attività in dollari, in primis la Cina, di finanziare<br />

<strong>il</strong> «buco» americano con l’estero.<br />

Dal 2004 i tassi di interesse riprendono a salire, l’immob<strong>il</strong>iare<br />

cede, e <strong>il</strong> meccanismo di trasmissione <strong>della</strong> nuova<br />

politica monetaria si fa più perverso. Compaiono i subprime,<br />

e si ingrossano sino a costituire, nel 2006, ben <strong>il</strong>


40% dei nuovi crediti ipotecari, e <strong>il</strong> 13% del totale. Bisogna<br />

far entrare nel gioco le famiglie povere e <strong>il</strong> lavoro<br />

precario, che non sarebbero in condizione di indebitarsi.<br />

La sussunzione reale del lavoro al debito promette<br />

l’accesso fac<strong>il</strong>e alla proprietà. Nessuno si curerà di chi<br />

resta sul terreno. Ma quando le cose vanno male per <strong>il</strong><br />

debitore, <strong>il</strong> creditore non riesce a disfarsi <strong>della</strong> casa se<br />

non a prezzi inferiori ai suoi impegni. E si avvia la crisi<br />

che abbiamo descritto.<br />

Non si capisce nulla del capitalismo contemporaneo se<br />

non si ragiona dentro questo quadro (in Italia Luciano Gallino<br />

è, di nuovo, chi sembra avere più coscienza di questa<br />

dinamica). Né si capisce nulla di quel che succede e succederà<br />

in Europa o in Italia se non legandolo a questo discorso.<br />

Le politiche sul lavoro e sulle pensioni, per esempio,<br />

nascono di qui. Il «keynesismo» reale è questo, osc<strong>il</strong>lante<br />

tra <strong>il</strong> bellico e <strong>il</strong> finanziario. Il capitalismo è questo virus, e<br />

lo si affronta solo con politiche che mettano davvero in<br />

questione questo meccanismo unico. L’appello al «conflittualismo»<br />

incompatib<strong>il</strong>ista, beh, fa sempre bene ma<br />

lascia <strong>il</strong> tempo che trova. Come la discussione governo sìgoverno<br />

no. Con Halevi non ci facciamo <strong>il</strong>lusioni su quello<br />

che porterà questo governo. La soluzione non sta però in<br />

un’opposizione pura e semplice. Una controversia che di<br />

nuovo oppone un politicismo a un altro. Sta, semmai, in<br />

un’opposizione che sia in grado di avere anche una cultura<br />

da classe dirigente, che ambisca a governare i processi.<br />

Oppure si dimostri coi fatti e con i risultati, non con le parole<br />

o le promesse, di poter ottenere che qualche punto essenziale<br />

del proprio programma venga realizzato. E la si<br />

smetta con una contrattazione continua e uno scontro<br />

ideale esasperato che non porta a niente.<br />

EMILIANO BRANCACCIO<br />

La semplice dicotomia concettuale tra stab<strong>il</strong>ità e instab<strong>il</strong>ità,<br />

tra equ<strong>il</strong>ibrio e crisi del capitalismo, non mi ha mai particolarmente<br />

convinto. Di solito <strong>il</strong> concetto di «crisi» viene<br />

dalle nostre parti declinato come un sintomo dell’instab<strong>il</strong>ità<br />

e quindi <strong>della</strong> debolezza sistemica del capitale. E invece,<br />

soprattutto ai giorni nostri, accade spesso che la crisi agisca<br />

paradossalmente da fattore di riequ<strong>il</strong>ibrio del sistema.<br />

Pensiamo ad esempio alla crisi valutaria italiana del 1992.<br />

La vendita in massa di titoli pubblici nazionali mise nell’angolo<br />

i sindacati, e li costrinse ad accettare una compressione<br />

<strong>della</strong> spesa e dei salari di tali proporzioni da rimediare<br />

al deficit nei conti esteri. La crisi, insomma, può agire sul<br />

grado di sfruttamento assoluto e relativo dei lavoratori, può<br />

ridurre questi ultimi a variab<strong>il</strong>e residuale del sistema e può<br />

consentire, per questa via, di ripristinare l’ordine nelle<br />

RIVE GAUCHE<br />

condizioni di riproduzione del capitale. Si badi bene che<br />

questa «crisi disciplinante» può riproporsi, anche in Italia.<br />

Se <strong>il</strong> deficit nei conti esteri continua a crescere, potrebbe<br />

diffondersi <strong>il</strong> timore di un’uscita del nostro paese dall’euro<br />

e di una conseguente svalutazione. Il solo diffondersi<br />

di un tale sospetto potrebbe attivare una massiccia<br />

vendita di titoli pubblici, e di conseguenza anche i sindacati<br />

più combattivi potrebbero esser messi alle strette, così da<br />

ridurre <strong>il</strong> deficit estero attraverso una compressione dei salari<br />

unitari ancor più violenta di quella del 1992. La prospettiva<br />

è funesta, ma se si volesse davvero evitarla bisognerebbe<br />

forse cimentarsi nel recupero e nell’aggiornamento<br />

di una vecchia lezione di Lenin, a mio avviso non del<br />

tutto obsoleta: imparare ad anticipare la crisi, per annunciarne<br />

i rischi e per saperla poi sfruttare politicamente.<br />

Personalmente ho cercato di approfondire la questione (11<br />

e 22 luglio, «Liberazione»), ma riflessioni di questo tipo<br />

mi sembrano ancora poco diffuse. C’è addirittura un certo<br />

imbarazzo nell’affrontarle. Eppure la loro attualità è evidente,<br />

così come è evidente che fino a quando non ci si attiverà<br />

per anticipare le crisi, queste piegheranno sempre in<br />

una direzione disciplinante e normalizzatrice.<br />

GIORGIO GATTEI<br />

La crisi di Borsa che si è aperta in agosto sarà per <strong>il</strong> capitale<br />

appena un «turbamento» oppure <strong>il</strong> suo «crollo»?<br />

Credo nessuna delle due. Certamente la crisi è gravissima<br />

e avrà ricadute sull’economia «reale», proprio come è<br />

stata la Grande crisi che nel 1929 ai commentatori appariva<br />

appena finanziaria e circoscritta (poi s’è visto cos’è suc-<br />

67


68<br />

cesso). Tuttavia essa potrà mettere alle corde <strong>il</strong> capitalismo<br />

americano, non di certo <strong>il</strong> capitale nel suo complesso che<br />

adesso vede diversi soggetti inediti in competizione come<br />

Cina+India. E che ne potrà succedere?<br />

Per gli Stati Uniti non mi pare che ne possano uscire senza<br />

un’inversione radicale di tendenza che porti all’aumento<br />

dell’imposizione fiscale per ripianare <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio federale e<br />

alla svalutazione del dollaro per raddrizzare la b<strong>il</strong>ancia dei<br />

pagamenti. Però le imposte ridimensionerebbero quel<br />

mercato interno americano che attualmente funziona da<br />

luogo priv<strong>il</strong>egiato <strong>della</strong> domanda globale, mentre la caduta<br />

del dollaro lo spodesterebbe dal ruolo priv<strong>il</strong>egiato di<br />

moneta mondiale. Sarebbe un disastro per tutti, che quindi<br />

proprio tutti si sforzeranno d’impedire.<br />

Ma sarà proprio così? Fino all’altro ieri avrei detto di sì,<br />

perché a fronte <strong>della</strong> crisi americana ci sarebbe stata la<br />

vittoria dell’Urss nella «guerra fredda» con l’intero<br />

«mondo libero» a farne le spese. Oggi però l’Urss non<br />

c’è più e per <strong>il</strong> «mondo libero» la fedeltà all’America<br />

non è più una virtù. Fino a ieri c’era poi anche <strong>il</strong> fatto che<br />

al mercato americano e al dollaro mondiale non si davano<br />

alternative. Ma ora potrebbe aprirsi <strong>il</strong> grande mercato<br />

euro-asiatico, se Europa, Russia e Cina+India passassero<br />

a uno sv<strong>il</strong>uppo continentale integrato, e poi c’è l’euro<br />

che, macinando guadagni sul dollaro, sconsiglia di<br />

comprarlo. Insomma, può darsi che stiamo vivendo, più<br />

che una crisi del capitale, un trapasso di supremazia capitalistica<br />

dagli Stati Uniti all’Eurasia all’incontrario di<br />

quello che dopo <strong>il</strong> 1945 portò alla detronizzazione (pacifica)<br />

dell’Ingh<strong>il</strong>terra e <strong>della</strong> sterlina estenuate dalla<br />

«guerra dei trent’anni» contro la Germania. Può così<br />

darsi che <strong>il</strong> XXI secolo non sia più americano e al proposito<br />

raccolgo una notizia giornalistica passata in sordina:<br />

«La Cina vende T-Bond Usa? È la sua “opzione nucleare”.<br />

Un pesante calo nelle ultime cinque settimane del<br />

possesso di titoli del tesoro americano (Treasury bonds)<br />

ha fatto crescere i timori che Pechino stia s<strong>il</strong>enziosamente<br />

ritirando i propri fondi in dollari dai mercati degli<br />

Stati Uniti» («Wall Street Italia», 7 settembre 2007).<br />

GIORGIO LUNGHINI<br />

È vero che <strong>il</strong> capitalismo è capace di metamorfosi, di trasformazioni<br />

che però non ne intaccano <strong>il</strong> nesso interno,<br />

cioè <strong>il</strong> rapporto tra capitale e lavoro salariato. Metamorfosi<br />

che anzi sono intese a salvaguardarlo. L’esempio più<br />

chiaro è stato proprio <strong>il</strong> fordismo, come risposta alla crisi<br />

del ’29; e lo è anche questa globalizzazione, come risposta<br />

alla crisi del fordismo. Quale sarà la prossima metamorfosi,<br />

non lo so; ma credo che non avrà un bell’aspetto.<br />

Circa i rischi <strong>della</strong> finanziarizzazione, cito di nuovo Keynes,<br />

<strong>il</strong> Keynes <strong>della</strong> Teoria generale: «gli speculatori possono<br />

essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso<br />

regolare di intraprese economiche; ma la situazione è<br />

seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un<br />

vortice di speculazioni. Quando l’accumulazione di capitale<br />

di un paese diventa <strong>il</strong> sottoprodotto delle attività di<br />

un casinò, è probab<strong>il</strong>e che le cose vadano male. Se alla<br />

borsa si guarda come a una istituzione la cui funzione sociale<br />

appropriata è orientare i nuovi investimenti verso i<br />

canali più profittevoli in termini di rendimenti futuri, <strong>il</strong><br />

successo conquistato da Wall Street non può proprio essere<br />

vantato tra gli straordinari trionfi di un capitalismo<br />

del laissez faire. Il che non dovrebbe meravigliare, se ho<br />

ragione quando sostengo che i migliori cervelli di Wall<br />

Street sono in verità orientati a tutt’altri obiettivi».<br />

RICCARDO REALFONZO<br />

Su questi temi preferisco continuare ad avere come punti<br />

di riferimento i contributi di Marx, Keynes e Schumpeter.<br />

Questi autori, insieme con la migliore e più recente<br />

letteratura postkeynesiana e sul circuito monetario, ci<br />

hanno insegnato che l’economia capitalistica possiede<br />

una natura intimamente monetaria, attraversata da incertezza<br />

sistemica, e quindi anche da una dimensione<br />

speculativa, e non a caso procede lungo sentieri di sv<strong>il</strong>uppo<br />

ciclici e non lineari. Ormai sappiamo bene che<br />

lungo la fase crescente del ciclo gli atteggiamenti speculativi<br />

degli agenti – imprese e famiglie – si moltiplicano,<br />

assecondati dagli intermediari finanziari e dalle banche,<br />

facendo aumentare la frag<strong>il</strong>ità finanziaria delle singole<br />

imprese, anche delle famiglie, e del sistema nel suo insieme.<br />

E sappiamo anche che in fondo <strong>il</strong> capitalismo non<br />

è riformab<strong>il</strong>e, ma che lo Stato può ridurre gli scossoni e<br />

le crisi cicliche attraverso l’intervento diretto nell’economia<br />

e la regolamentazione dei mercati. Le vicende di<br />

questi giorni, con la crisi dei mutui subprime, mostra ancora<br />

una volta quanto sia fallace <strong>il</strong> mito liberista <strong>della</strong><br />

piena libertà dei mercati, con i suoi assunti <strong>della</strong> perfetta<br />

informazione e <strong>della</strong> perfetta razionalità, con <strong>il</strong> suo<br />

mito dello sv<strong>il</strong>uppo in equ<strong>il</strong>ibrio. In realtà i mercati finanziari<br />

dovrebbero essere regolamentati più intensamente,<br />

anche impedendo l’emissione di strumenti derivati<br />

ad alto rischio. I movimenti interni e internazionali<br />

di capitale, non associati allo scambio di merci e servizi,<br />

dovrebbero essere maggiormente controllati e limitati.<br />

E, naturalmente, la politica fiscale e la politica monetaria<br />

dovrebbero essere libere dai lacci in cui i modelli neoliberisti<br />

tendono a imbrigliarle.


Con <strong>il</strong> mutamento epocale del 1989, la crisi dei modelli<br />

social-democratici ha accompagnato l’eclissi del<br />

cosiddetto «socialismo reale». Anche a sinistra <strong>il</strong><br />

«piano» è caduto in disgrazia, a tutto vantaggio dell’idea<br />

di «mercato», seppure regolato. Per chi oggi –<br />

nel mondo occidentale – fa riferimento a un impianto<br />

analitico marxiano, ciò è nella sostanza espressione<br />

di una sconfitta «di classe». Analogamente, quanti<br />

non ritengono Keynes una sorta di residuo archeologico<br />

sopravvissuto alla globalizzazione capitalistica<br />

vedono in tali sv<strong>il</strong>uppi <strong>il</strong> presupposto di una verticale<br />

regressione sociale. È qui in gioco un pezzo essenziale<br />

dell’identità di una critica del modo di produzione<br />

capitalistico.<br />

RIVE GAUCHE<br />

RICCARDO BELLOFIORE<br />

Credo, a questa domanda, di avere già risposto. Keynes è<br />

autore di grande ut<strong>il</strong>ità per capire gli aspetti monetari e<br />

finanziari, l’inadeguatezza <strong>della</strong> domanda effettiva, <strong>il</strong><br />

ruolo di aspettative e incertezza, l’insufficienza di domanda<br />

effettiva nel capitalismo «puro», la disoccupazione<br />

di massa come stato permanente, la povertà in<br />

mezzo all’abbondanza, <strong>il</strong> costitutivo disequ<strong>il</strong>ibrio che caratterizza<br />

<strong>il</strong> capitalismo. Ma lui, come le politiche economiche<br />

costruite e costruib<strong>il</strong>i dentro <strong>il</strong> suo quadro, resta<br />

in un ambito borghese. Solo una ridefinizione strutturale<br />

<strong>della</strong> domanda, ma anche dell’offerta, può superarne i<br />

limiti intrinseci. Lo sapevano molto bene Joan Robinson<br />

e Hyman Minsky negli anni Sessanta e Settanta, critici<br />

interni del keynesismo realizzato, che non scambiavano<br />

certo per l’anticamera del comunismo. Per quel che riguarda<br />

Marx, poi, in Italia davvero nessuno se ne preoccupa<br />

più, se non come f<strong>il</strong>osofo: e, veramente, a quel<br />

punto Marx è ridotto a un classico o a oggetto di studio f<strong>il</strong>ologico<br />

che non mi interessa. Riprendere la critica dell’economia<br />

politica significa peraltro stare dentro la teoria<br />

del valore, dentro l’essenzialità del denaro come capitale.<br />

Queste cose, per alcuni economisti <strong>della</strong> Rive<br />

Gauche, sono un «pantano» e nulla più.<br />

La domanda fa riferimento a un primato del «mercato»,<br />

pur regolato, nella cultura prevalente nella sinistra cosiddetta<br />

moderata (ma è poi ancora sinistra?). È un buon<br />

punto di partenza, se si sv<strong>il</strong>uppa sino a criticare <strong>il</strong> tic tipico<br />

di tutti, non ultimi <strong>il</strong> vecchio «Ernesto» e ora «<strong>Essere</strong><br />

comunisti» (vedi i contributi di Burgio), che parlano<br />

sempre di liberismo o di neoliberismo come se fosse<br />

la riedizione del laissez faire. Quel liberismo non è mai<br />

esistito davvero. Oggi la retorica liberista d<strong>il</strong>aga nel centro-sinistra,<br />

anche in conseguenza del risultato elettorale<br />

risicato, sicché economisti di quell’impronta hanno<br />

larga eco. Ma <strong>il</strong> liberismo non è però più da tempo un’opzione<br />

reale, se mai lo è stato davvero.<br />

69


70<br />

Il neoliberismo, vedi Bush e Berlusconi, protegge i monopoli,<br />

usa i disavanzi del b<strong>il</strong>ancio dello Stato e fa aumentare<br />

<strong>il</strong> debito pubblico senza problemi. È selvaggiamente liberista<br />

sul mercato del lavoro e contro lo stato assistenziale,<br />

questo sì. I social-liberisti, dal canto loro, si credono<br />

per più mercato e più stato perché vogliono liberalizzare<br />

per riregolamentare. In questo sono, per un verso, più liberisti,<br />

sul mercato dei beni e dei servizi. Ma sono anche,<br />

per l’altro verso, per un welfare universalista, per una<br />

qualche redistribuzione, per politiche industriali e del<br />

credito basate su incentivi e disincentivi. Cercano di<br />

riempire l’ampio spazio che si apre secondo loro tra liberismo<br />

e statalismo vecchio stampo. I primi si rifanno al<br />

monetarismo e alla nuova macroeconomia classica, ma<br />

più ancora agli austriaci Mises e Hayek. I secondi, partono<br />

da quell’«imperfezionismo» alla Stiglitz che nega<br />

l’ut<strong>il</strong>ità dell’equ<strong>il</strong>ibrio economico generale walrasiano<br />

come guida al come funzionano i mercati nella realtà.<br />

Siamo ben lontani dalla social-democrazia, ma anche da<br />

Keynes. Però, sia chiaro, tutti usano le politiche keynesiane<br />

quando ce n’è bisogno. Di nuovo, la sinistra ha su questo<br />

un’arretratezza culturale spaventosa, non sa cosa sia<br />

oggi <strong>il</strong> dibattito vero in economia o in politica economica.<br />

Lo dimostrano come meglio non si potrebbe la gran parte<br />

degli interventi degli economisti sulle pagine de «<strong>il</strong> manifesto»<br />

e di «Liberazione», un giorno sì e l’altro pure.<br />

EMILIANO BRANCACCIO<br />

Io non so se la critica del capitale ponga effettivamente un<br />

problema di «identità». È chiaro che la pianificazione socialista<br />

o anche la socializzazione degli investimenti possono<br />

rappresentare delle valide prospettive attorno alle<br />

quali riunirsi, soprattutto se si riuscirà nuovamente ad approfondire<br />

<strong>il</strong> nesso tra queste forme di organizzazione<br />

delle relazioni economiche e le forme di espressione <strong>della</strong><br />

democrazia. Contrariamente al mercato capitalistico, infatti,<br />

la pianificazione potrebbe costituire un vettore delle<br />

più grandi e disattese istanze di emancipazione sociale,<br />

dalla tutela dell’ambiente alla lotta al patriarcato. Ma al di<br />

là del discorso sugli obiettivi di riferimento, io credo che la<br />

critica del capitalismo, almeno da un punto di vista marxista,<br />

ponga in primo luogo un problema di metodo. Quel<br />

che oggi manca ai movimenti anticapitalisti è un metodo,<br />

vale a dire un criterio di analisi e di anticipazione degli avvenimenti<br />

concreti. La questione dell’efficacia del metodo<br />

di analisi è assolutamente cruciale dal punto di vista politico.<br />

Ad esempio, sempre riguardo alle vicende europee, io<br />

prima ho sostenuto che la duplice tendenza alla convergenza<br />

dei salari e alla divergenza delle produttività potrebbe<br />

rappresentare una contraddizione feconda sul piano<br />

politico. Tuttavia un buon metodo di analisi potrebbe farci<br />

scoprire che la divergenza delle produttività stia avanzando<br />

più speditamente <strong>della</strong> convergenza nelle retribuzioni e<br />

nelle condizioni di lavoro. Questo significherebbe che la<br />

crisi e la relativa normalizzazione dei sindacati possono<br />

sopraggiungere ben prima che si creino le condizioni per<br />

un ricompattamento del movimento dei lavoratori a livello<br />

europeo. La notizia non sarebbe delle migliori, ma mi<br />

pare sia meglio essere a conoscenza di sim<strong>il</strong>i evenienze<br />

piuttosto che continuare imperterriti a brancolare nel<br />

buio. Se non altro, saremmo ancor più consapevoli del<br />

fatto che l’ingranaggio dell’euro deve ancora dispiegare i<br />

suoi effetti più repressivi, e che forse, per sperare in un<br />

rafforzamento <strong>della</strong> sinistra europea, non ci si può limitare<br />

ad attendere che i movimenti dei lavoratori convergano<br />

spontaneamente, «dal basso», senza una guida politica<br />

capace di anticipare gli eventi.<br />

GIORGIO LUNGHINI<br />

Di questo esito è responsab<strong>il</strong>e la stessa sinistra, che ha<br />

rinunciato senza ragione ai suoi riferimenti teorici classici,<br />

Marx e Keynes, e ha aderito frettolosamente alla visione<br />

oggi imperante di un capitalismo del laissez faire<br />

capace di autoregolarsi: una visione priva di qualsiasi<br />

fondamento teorico robusto e foriera di gravi guasti economici,<br />

sociali e politici. È anche un segno di provincialismo,<br />

poiché in nessuna parte del mondo c’è oggi uno<br />

stato liberista.<br />

RICCARDO REALFONZO<br />

Continuo a pensare che Marx e Keynes siano vivi e quanto<br />

mai ut<strong>il</strong>i per capire e per agire. Ed è per questo che occorre<br />

tornare faticosamente a evidenziare i tanti fallimenti<br />

del mercato e la necessità dell’intervento pubblico,<br />

<strong>della</strong> programmazione economica, del piano.


In questo quadro – a dispetto degli esiti referendari<br />

registrati a suo tempo in Francia e Olanda – <strong>il</strong> progetto<br />

europeo conferma nei fatti l’ispirazione e le politiche<br />

neoliberiste. E, al di là <strong>della</strong> «retorica europeista»,<br />

va consolidandosi una conduzione comunitaria<br />

a misura degli stati più forti (in primo luogo, Germania<br />

e Francia). Al punto che Valentino Parlato, già nel<br />

convegno di due anni fa, prospettava per una politica<br />

delle sinistre la necessità di una scelta netta: o si<br />

procede nella democratizzazione del suddetto progetto,<br />

in direzione di un’«Europa dei popoli», o è meglio<br />

tornare a dare forza e autonomia ai governi nazionali.<br />

Una tale alternativa non si pone oggi con<br />

maggior radicalità?<br />

RIVE GAUCHE<br />

RICCARDO BELLOFIORE<br />

No, quella proposta da Valentino Parlato è una falsa alternativa.<br />

La categoria di «popolo» è tra le più ambigue che<br />

conosca. Una sinistra autentica dovrebbe ripartire da una<br />

analisi di classe del capitalismo contemporaneo, e delle<br />

trasformazioni in Europa, quella cui ho accennato nelle<br />

risposte precedenti. Un’esigenza del genere è stata affermata<br />

all’inizio di questa estate tanto dallo stesso Parlato<br />

quanto da Rossana Rossanda. Bene, non si capisce perché<br />

<strong>il</strong> loro giornale, che non è un giornale qualsiasi, non<br />

se ne faccia promotore. Idem per «Liberazione», che<br />

sembra procedere sul terreno dell’economia con un approccio<br />

di tipo «pluralista» nel senso più deteriore: i<br />

tecnici dicano quello che vogliono, tanto la sintesi la tirano<br />

altri. Il punto è che una «analisi di classe», una volta<br />

fatta, imporrebbe scelte diverse, vincolerebbe le mani.<br />

Né si può pretendere che gli intellettuali che vi mettono<br />

mano non abbiano una loro politicità, non pongano una<br />

sfida cui occorre rispondere.<br />

Le politiche «nazionali» in Europa certo che ci sono. Ma<br />

dal lato <strong>della</strong> classe operaia, come dal lato del capitale,<br />

non si può non osservare come «centri» e «periferie»<br />

divengano trasversali, e così la catena <strong>della</strong> creazione di<br />

valore in senso marxiano. Qualcosa che non si può pensare<br />

scorra lungo i confini delle «nazioni». Bisognerebbe<br />

allora avere <strong>il</strong> coraggio di dire che una sinistra autentica<br />

esiste davvero solo se ha un progetto di trasformazione radicale,<br />

e se è a partire da questo che va a una dialettica con<br />

i «social-liberisti». E che dunque, come dice Lafontaine,<br />

va al governo se su qualche punto discriminante del suo<br />

programma quel governo si impegna. Insomma, non vedo<br />

in nessun partito o aggregazione un discorso veramente<br />

europeo e di classe, se non a parole. Occorre abituarsi all’idea<br />

di una lunga marcia attraverso le contraddizioni<br />

reali per tornare a poter incidere davvero, smetterla con i<br />

cortocircuiti. Questi errori sono stati condivisi da praticamente<br />

tutti a sinistra, inclusa l’area dell’Ernesto. Sulle<br />

questioni che stiamo discutendo, si è appiattita, senza distinguo,<br />

alle analisi più correnti sul terreno dell’economia,<br />

che non hanno con tutta evidenza portato da alcuna<br />

parte. Ricordo bene come, quando posi più o meno queste<br />

questioni nella discussione al Cpn sulle Tesi del Prc, a fine<br />

2001, la reazione fu una simmetrica sordità, tanto <strong>della</strong><br />

maggioranza di allora, quanto degli emendatari. Mi votò<br />

praticamente solo <strong>il</strong> compianto compagno Rigacci, uno<br />

che sulle questioni dell’economia – come Maitàn – darebbe<br />

molti punti agli economisti vicini al partito. Si vede che<br />

avevo torto.<br />

71


72<br />

EMILIANO BRANCACCIO<br />

La contrapposizione tra europeismo e neonazionalismo<br />

viene presentata troppo spesso in modo semplicistico.<br />

Stando all’esperienza passata, credo sia lecito ritenere che<br />

la strada verso un’Europa più unita e democratica possa<br />

essere imboccata solo attraverso un maggior protagonismo<br />

dei paesi periferici. Il problema <strong>della</strong> maggiore forza<br />

e autonomia dei governi di questi paesi dunque si pone, e<br />

indubbiamente potrebbe esser fonte di complicazioni e di<br />

contrasti. Ma sarebbe ingenuo o strumentale considerare<br />

i conflitti interstatuali necessariamente disgreganti.<br />

Nulla toglie che essi possano invece rivelarsi <strong>il</strong> giusto stimolo<br />

per la ripresa del processo di unificazione politica<br />

europea. A ogni modo, è chiaro che i governi dei paesi periferici<br />

potranno acquisire maggiore forza solo se si rendono<br />

più autonomi rispetto al vincolo di b<strong>il</strong>ancia dei pagamenti<br />

con l’estero (che non si vede più ma esiste eccome).<br />

Ciò può esser conseguito tramite una politica<br />

protezionistica, <strong>della</strong> quale mi farebbe senz’altro piacere<br />

discutere ma che non mi pare sia all’ordine del giorno.<br />

Oppure, si può cercare di allentare <strong>il</strong> vincolo dei conti<br />

esteri attraverso un allentamento del vincolo dei conti<br />

pubblici, e un ut<strong>il</strong>izzo delle risorse statali per un programma<br />

di politica industriale selettivo, fondato sull’intervento<br />

pubblico negli assetti proprietari e orientato all’esportazione<br />

(questo, in sostanza, era <strong>il</strong> progetto insito<br />

nell’appello degli economisti contro l’abbattimento del<br />

debito). Si noti che, in misura più o meno radicale, tutte le<br />

soluzioni menzionate richiedono la violazione di almeno<br />

alcune delle regole europee (dal patto di stab<strong>il</strong>ità alle<br />

norme sulla concorrenza e sugli aiuti di stato). Ma <strong>il</strong> problema<br />

chiave non è di ordine politico-istituzionale. Il<br />

problema di fondo è di capire se c’è <strong>il</strong> margine economico<br />

per agire in questa direzione. A tale riguardo, dall’esame<br />

<strong>della</strong> reattività dei tassi di interesse si scopre che questi<br />

sono scarsamente sensib<strong>il</strong>i alla dinamica dei conti pubblici<br />

mentre risultano abbastanza condizionati dalla dinamica<br />

dei conti esteri. Dunque, contrariamente a quel che<br />

si pensa, se vogliamo capire quanto margine abbiamo,<br />

dobbiamo spostare l’attenzione dal deficit pubblico al deficit<br />

commerciale. Se l’allentamento del vincolo sul deficit<br />

pubblico viene sfruttato nel modo giusto – che è quello<br />

di accrescere i parametri di competitività nazionale –<br />

allora è possib<strong>il</strong>e che <strong>il</strong> conseguente ampliamento del deficit<br />

commerciale venga assorbito prima di un attacco<br />

speculativo sui titoli pubblici nazionali, o comunque in<br />

tempo ut<strong>il</strong>e per evitare un’eccessiva instab<strong>il</strong>ità finanziaria.<br />

Sarebbe un sentiero stretto, non particolarmente agevole.<br />

Eppure la ferma volontà dei paesi «periferici» di<br />

imboccarlo potrebbe aprire in sé nuovi scenari, magari<br />

pure convincendo la Germania e gli altri paesi «centrali»<br />

<strong>della</strong> necessità di costituire un ampio b<strong>il</strong>ancio pubblico<br />

europeo per salvare <strong>il</strong> processo di unificazione. Ma, soprattutto,<br />

rinunciare a questa opzione politica alternativa<br />

significherebbe proseguire lungo la nefasta e già ampiamente<br />

sperimentata via crucis <strong>della</strong> deflazione, questo vediamo<br />

di non dimenticarlo mai.<br />

GIORGIO LUNGHINI<br />

Penso anch’io che la prospettiva auspicab<strong>il</strong>e sia quella di<br />

un’Europa degli Stati-nazione anziché di un mercato<br />

dell’Europa, ma non ne vedo le premesse politiche e culturali.<br />

RICCARDO REALFONZO<br />

Purtroppo temo che la grande speranza in quello straordinario<br />

progetto di pace e solidarietà che chiamiamo<br />

«Europa dei popoli» rischi di tramontare. Sappiamo sin<br />

troppo bene, infatti, che <strong>il</strong> Trattato istitutivo dell’Unione<br />

Europea ha prospettato un modello ben diverso, incentrato<br />

sulla moneta e sul mercato. Un modello che ha preteso<br />

la progressiva fuoriuscita dello Stato dall’economia,<br />

l’indebolimento dello stato sociale, nonché una politica<br />

monetaria che guarda con ost<strong>il</strong>ità alla piena occupazione,<br />

perché foriera di spinte salariali e conseguenti rischi inflazionistici.<br />

Tutto ciò ha determinato una significativa<br />

crescita degli squ<strong>il</strong>ibri e delle disuguaglianze. Le aree<br />

centrali e sv<strong>il</strong>uppate sono diventate più ricche e congestionate,<br />

le aree periferiche e sottosv<strong>il</strong>uppate più povere<br />

e desertificate; i profitti e le rendite sono aumentati, i salari<br />

si sono contratti; l’occupazione non è aumentata e<br />

invece si sono intensificati i flussi migratori. Eppure, per<br />

quanto tutto ciò abbia del paradossale, la moneta unica e<br />

l’abbattimento delle barriere alla circolazione delle<br />

merci avrebbero effettivamente potuto costituire <strong>il</strong> volano<br />

per un nuovo modello di sv<strong>il</strong>uppo, per l’«Europa dei<br />

popoli». Con l’adesione alla moneta unica l’Italia e gli<br />

altri stati d’Europa hanno perso la sovranità monetaria,<br />

hanno rinunciato a importanti strumenti di politica economica,<br />

hanno accettato una serie di vincoli alle politiche<br />

di b<strong>il</strong>ancio. Oggi non solo siamo lontani anni luce<br />

dall’«Europa dei popoli», ma abbiamo anche vincolato<br />

l’azione dei governi, e abdicato pezzi di democrazia economica<br />

a favore delle tecnocrazie <strong>della</strong> moneta unica.


Il convegno <strong>della</strong> Rive Gauche aveva provato a fornire<br />

indicazioni circa la politica economica che un governo<br />

progressista dovrebbe proporsi di attuare. Il<br />

fatto che, nella sostanza, nel nostro paese non si sia<br />

dato seguito a quelle sollecitazioni dipende da un difetto<br />

di ascolto da parte del versante moderato<br />

<strong>della</strong> coalizione di governo oppure esistono impedimenti<br />

«strutturali» al concretizzarsi delle suddette<br />

politiche? In altri termini, quale spazio c’è oggi – oggettivamente<br />

– per politiche progressiste?<br />

RIVE GAUCHE<br />

RICCARDO BELLOFIORE<br />

Di nuovo, la domanda mi sembra malposta. È ovvio che<br />

esistono impedimenti «strutturali»: si chiamano rapporto<br />

di classe e relazioni di potere, ma ci si dovrebbe<br />

muovere per cambiare lo stato di cose esistente, no? La<br />

domanda non considera neanche la possib<strong>il</strong>ità che le<br />

«sollecitazioni» sulla politica economica avanzate dagli<br />

economisti <strong>della</strong> Rive Gauche fossero superficiali e sbagliate.<br />

Ed è infatti questa la vera risposta. Non può non<br />

colpire che nelle vostre domande la questione su cui più si<br />

sono impegnati gli economisti <strong>della</strong> Rive Gauche più presenti<br />

su «<strong>il</strong> manifesto» e «Liberazione», ma anche sul<br />

vecchio «Ernesto» e ora «<strong>Essere</strong> comunisti», quella<br />

<strong>della</strong> battaglia sul debito pubblico, compaia marginalmente,<br />

sullo sfondo. D’altronde, è così nello stesso articolo<br />

che annuncia un secondo convegno di economisti<br />

promosso da «<strong>il</strong> manifesto» a Roma, di Leon e Realfonzo,<br />

dove non vi si fa praticamente cenno. Peraltro, si parla<br />

solo del neoliberismo, come se <strong>il</strong> social-liberismo non<br />

esistesse, e la crisi economica che dagli Usa rischia di tracimare,<br />

anzi lo ha già fatto, merita una riga come se non ci<br />

riguardasse, e non avesse a che vedere con le questioni<br />

<strong>della</strong> precarietà o delle pensioni.<br />

Quella che si è fatta sul debito pubblico è stata per due anni<br />

una battaglia «gridata», su un approccio in fondo contab<strong>il</strong>e<br />

al pari di quello <strong>della</strong> controparte: meglio la «stab<strong>il</strong>izzazione»<br />

del «risanamento finanziario». Questo lo sappiamo<br />

tutti. Ma è chiaro che la stab<strong>il</strong>izzazione di per sé non<br />

comporta alcun avvio di una diversa politica economica, è<br />

all’insegna di un’<strong>il</strong>lusoria riduzione del danno. Un ministro<br />

bravissimo di suo, come Paolo Ferrero, si è in qualche<br />

misura sganciato. E si è attestato sulla linea del Piave dell’attuazione<br />

del programma. Costretto a questo punto a sostenere<br />

una tesi altrettanto debole: quella di spalmare <strong>il</strong> rigorismo<br />

su due anni. Illusoria, la pretesa riduzione del<br />

danno, perché la parola d’ordine <strong>della</strong> stab<strong>il</strong>izzazione è debole,<br />

tanto sul terreno dell’analisi, quanto sullo stesso terreno<br />

immediatamente politico, di una proposta efficace.<br />

Sul terreno dell’analisi, dei contenuti, perché la sinistra<br />

dovrebbe, come ho detto, partire lei all’offensiva, non<br />

farsi mettere nell’angolo. Pretendere lei di partire dai<br />

73


74<br />

problemi del «declino» economico e sociale da cui è iniziata<br />

la nostra conversazione. Denunciare lei l’inaccettab<strong>il</strong>ità<br />

del come sono articolate spesa pubblica ed entrate<br />

statali, la qualità a rischio <strong>della</strong> nostra specializzazione<br />

produttiva, i limiti seri <strong>della</strong> nostra posizione verso<br />

l’estero, <strong>il</strong> pericolo del degrado strutturale che ne consegue.<br />

Dunque, presentarsi lei con una qualche proposta di<br />

dove e come intervenire, in un’ottica meno debole di<br />

quella <strong>della</strong> cosiddetta via alta alla produttività (ne ho<br />

scritto con Garibaldo su «<strong>il</strong> manifesto»). Se no i discorsi<br />

sulla programmazione, sulla lotta alla precarietà, la<br />

stessa battaglia contro la controriforma delle pensioni e<br />

lo scippo del Tfr, su un pieno impiego di qualità, sono<br />

tutti fiato sprecato.<br />

Muoversi in quest’altra direzione (che va preparata da un<br />

lavoro vero: e un lavoro vero prende tempo, sta lontano<br />

dai riflettori, non si esaurisce in articoli, convegni e presenza<br />

mediatici, che vengono dopo) comporta una politica<br />

di maggiore spesa per «investimenti» pubblici in<br />

senso lato. È chiaro che con questa struttura dell’imposizione<br />

fiscale, si determina un peggioramento, nell’immediato,<br />

del rapporto disavanzo/P<strong>il</strong>. A medio-lungo termine,<br />

però, se le politiche sono ben disegnate, <strong>il</strong> denominatore<br />

aumenta. Ovviamente ciò deve avvenire con<br />

una composizione <strong>della</strong> produzione che segnali l’impronta<br />

di sinistra, ed è qui che per esempio divengono<br />

essenziali l’ottica ambientalista e anche quella femminista:<br />

dovremmo smetterla di vedere queste questioni<br />

come separate, si tratta di far vivere la questione di genere<br />

e quella <strong>della</strong> natura dentro <strong>il</strong> proprio orizzonte di<br />

cambiamento dei modi dello sv<strong>il</strong>uppo economico. È <strong>il</strong><br />

cosiddetto «paradosso <strong>della</strong> produttività», che risale in<br />

fondo a Schumpeter. Per aumentare la produttività, per<br />

innovare, prima devi finanziare una politica di investimenti<br />

che avrà effetti, darà frutto, solo nel futuro.<br />

A questo punto, se ti contrappongono l’esigenza di evitare<br />

un aumento del disavanzo, beh, si può replicare che si<br />

vadano a cercare delle entrate altrove che nel mondo del<br />

lavoro, che una politica di spesa pubblica è produttiva eccome.<br />

Graziani ha spesso ricordato che gli stessi parametri<br />

di Maastricht non impediscono affatto una politica<br />

espansiva, visto che un aumento delle spese finanziato da<br />

entrate di pari ammontare accresce reddito e occupazione.<br />

Su questa linea si sarebbe evitata la situazione prevedib<strong>il</strong>e,<br />

e che si è poi effettivamente verificata, che la battaglia<br />

sul debito sarebbe stata etichettata come la solita da<br />

parte di una sinistra che difende l’esistente, insensib<strong>il</strong>e<br />

ai problemi strutturali. Ammettiamolo, non del tutto a<br />

torto. D’altronde quello che chiedono i partiti <strong>della</strong> sinistra<br />

e qualche sindacalista è un po’ di respiro: si può ca-<br />

pire, ma è cortoterminismo anche quello. Come ha detto<br />

con efficacia, qualche tempo fa, Giorgio Lunghini: nel<br />

breve periodo siamo tutti morti, anche e soprattutto a sinistra.<br />

La carica distruttiva del capitalismo odierno non è<br />

certo frenata dal piccolo cabotaggio.<br />

Non è un caso che a Salvati, che ha posto da destra questi<br />

problemi, gli economisti <strong>della</strong> Rive Gauche non hanno saputo<br />

replicare praticamente niente. Avevamo in realtà risposto<br />

in anticipo due anni fa Halevi e io, nel contributo<br />

al convegno e poi volume di Rive Gauche. E su «<strong>il</strong> manifesto»<br />

abbiamo controbattuto Garibaldo e io, in un articolo<br />

sui nodi strutturali che ho messo al centro delle risposte<br />

in questa intervista. <strong>Essere</strong> «rassegnati» significa<br />

prendere questi ragionamenti sottogamba, come un discorso<br />

di utopia. Mi è stato detto a ripetizione, nei vari<br />

dibattiti a cui ho partecipato dall’anno scorso: sei, come<br />

Halevi, un «esagerato». Gli investimenti pubblici, sì, va<br />

bene, ma in realtà non si sa cosa siano. E comunque non<br />

ci sono le condizioni politiche. Se la sinistra non sa come<br />

dare carne e sangue a un discorso sulle politiche strutturali,<br />

è chiaro che perde. Perde per molte ragioni, ma


anche perché non ha veri argomenti, non conosce i processi<br />

strutturali, non sa come ragionano gli altri.<br />

Claudio Napoleoni nel 1987, in un intervento a un convegno<br />

del Cespe, e pur all’interno di una impostazione<br />

piena di limiti, in parte subalterna alla sirena del «risanamento»,<br />

non ha però mai perso di vista un punto essenziale<br />

senza del quale non c’è politica economica di sinistra.<br />

Che si deve intervenire sulle questioni <strong>della</strong> spesa<br />

pubblica e del debito solo «all’interno di una operazione<br />

più complessiva che abbia come suo punto di partenza un<br />

punto immediatamente mob<strong>il</strong>itante: quello <strong>della</strong> redistribuzione<br />

del reddito». E aggiungeva subito che «le<br />

operazioni che si intendono fare mediante <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio<br />

pubblico sono quelle volte allo spostamento in avanti del<br />

vincolo interno»: in altre parole, che spazi per una diversa<br />

distribuzione del reddito si aprono soltanto se<br />

contemporaneamente si rimette in questione, a partire<br />

dalle politiche statali di spesa, la struttura economica e<br />

produttiva, se dunque con quelle politiche si allenta<br />

anche <strong>il</strong> vincolo «esterno». E questo, se deve avere contenuti<br />

di sinistra, richiede una vera e propria rivoluzione<br />

culturale. Richiede «di mutare in maniera radicale le<br />

prospettive, gli obiettivi e perciò anche gli strumenti, di<br />

contrapporre veramente al modello degli altri un altro<br />

modello». La sinistra, quest’altro modello, ce l’ha o no?<br />

O si tratta di parole da spendere come moneta ormai svalutata<br />

senza dar loro un contenuto, prima o poi?<br />

Uno come me, che è «pessimista» e «rassegnato», e per<br />

qualcuno poco meno o poco più che un traditore perché<br />

non convinto dall’economia <strong>della</strong> Rive Gauche, non capisce<br />

come sia possib<strong>il</strong>e che Sarkozy possa dire e fare quello<br />

che da noi la sinistra non ha <strong>il</strong> coraggio nemmeno di<br />

bisbigliare a Prodi e Padoa Schioppa. Si tratta in fondo<br />

dell’ex Presidente <strong>della</strong> Commissione Europea e di un ex<br />

banchiere centrale <strong>della</strong> Banca Centrale Europea. Dovrebbero<br />

spendere <strong>il</strong> loro prestigio in Europa per far accettare<br />

un serio programma di intervento strutturale,<br />

anche se all’inizio finanziato in ulteriore disavanzo.<br />

Questo avrebbe almeno potuto, e dovuto, chiedere la sinistra,<br />

se fosse giunta all’appuntamento preparata sul<br />

piano programmatico. Così, alla resa dei conti, risulta<br />

più coraggioso – oggi come nel 1998 – Prodi con <strong>il</strong> suo<br />

discorso sull’ut<strong>il</strong>izzo in Europa, a fini di investimento,<br />

dell’eccesso di riserve in oro delle banche centrali. Vola<br />

diecim<strong>il</strong>a volte più alto <strong>della</strong> sinistra.<br />

Né ci si può nascondere che la battaglia condotta da alcuni<br />

dei promotori dell’appello degli economisti, quelli più<br />

presenti sui giornali <strong>della</strong> sinistra, è stata pressoché integralmente<br />

autoriferita in modo imbarazzante, una<br />

sorta di grandiosa autopromozione di ceto. Non ci vuole<br />

RIVE GAUCHE<br />

molto a provarlo. Si vada sul sito<br />

www.appellodeglieconomisti.com, e si contino, tra i soli<br />

suoi firmatari, gli interventi raccolti (articoli, interviste,<br />

radio o televisione) dopo <strong>il</strong> lancio dell’appello sotto la<br />

rubrica «<strong>il</strong> dibattito». I dati sono questi: Em<strong>il</strong>iano<br />

Brancaccio, Università del Sannio, 19 ricorrenze: Riccardo<br />

Realfonzo Università del Sannio, 14 ricorrenze;<br />

Luigi Cavallaro, editorialista, 4 ricorrenze; Guglielmo<br />

Forges Davanzati e Rosario Patalano, 3 ricorrenze ciascuno;<br />

Paolo Leon, 2 ricorrenze; Artoni, Bosco, Cesaratto,<br />

Graziani (con Realfonzo), Palermo, Romano: 1. Se si<br />

tiene conto che Forges Davanzati e Patalano, di altre sedi<br />

universitarie, sono però legati da una lunga collaborazione<br />

a Realfonzo, gli interventi di quello che <strong>il</strong> «Corriere<br />

<strong>della</strong> Sera» ha denominato l’Mit del Sannio ammontano<br />

a 39 ricorrenze (senza Forges Davanzati e Patalano, sono<br />

comunque 33). Gli altri firmatari sono intervenuti, o per<br />

lo meno i loro interventi sono stati registrati, per 12 ricorrenze<br />

(con Forges Davanzati e Patalano si arriverebbe<br />

in ogni caso a 18). Si noti che uno dei quattro primi promotori,<br />

Ciccone, non compare tra gli interventi. Né è intervenuto<br />

in alcun modo, che non sia la firma dell’appello,<br />

Garegnani.<br />

Lasciamo perdere dunque <strong>il</strong> versante «moderato» <strong>della</strong><br />

coalizione, come lo chiamate, che non è comunque rinchiudib<strong>il</strong>e<br />

nella caricatura che se ne dà nella polemica<br />

giornalistica su <strong>il</strong> «<strong>il</strong> manifesto» e «Liberazione», e<br />

neanche nei contributi che ho letto sul vecchio «Ernesto»<br />

o su «<strong>Essere</strong> comunisti». E d’altra parte, se gli economisti<br />

<strong>della</strong> parte «moderata» <strong>della</strong> coalizione fossero<br />

tutti «bocconiani» e «neoliberisti», magari «un po’<br />

meno», davvero non capisco come si possa aver pensato<br />

di andarci al governo insieme. Qui <strong>il</strong> problema sta nella<br />

sinistra. Come anche nella debolezza intrinseca, su diversi<br />

piani, dell’appello. E sta nel fatto che un certo<br />

modo di fare l’economista di sinistra, «consigliere del<br />

principe», è ormai giunto al capolinea.<br />

EMILIANO BRANCACCIO<br />

Non definirei «moderato» <strong>il</strong> nascituro Partito democratico.<br />

Quel partito resta fedele alla deflazione da salari e da<br />

domanda per rimediare al deficit commerciale. In esso<br />

cova da tempo <strong>il</strong> desiderio di una resa dei conti con le<br />

frange più combattive del sindacato, magari proprio attraverso<br />

una «crisi disciplinante». Non mi pare che in<br />

questo anno e mezzo di governo le forze <strong>della</strong> sinistra abbiano<br />

avuto la possib<strong>il</strong>ità concreta di scalfire l’egemonia<br />

dei cosiddetti «democratici» nel campo prioritario <strong>della</strong><br />

politica economica. E non credo proprio che un convegno<br />

75


76<br />

e un appello come i nostri, pur lodevoli, pur tempestivi sul<br />

piano politico, potessero cambiare lo stato dei rapporti di<br />

forza. L’unità degli economisti <strong>della</strong> Rive gauche, le loro<br />

iniziative, nel loro piccolo stanno sicuramente aiutando a<br />

fare chiarezza, e stanno mettendo in seria difficoltà gli<br />

esponenti dell’ortodossia liberista, i quali vedono finalmente<br />

un po’ scalfito <strong>il</strong> priv<strong>il</strong>egio di poter diffondere <strong>il</strong><br />

loro verbo senza alcun contraddittorio (a titolo di esempio,<br />

mi permetto di segnalare <strong>il</strong> confronto che ho avuto<br />

con Giavazzi e Ichino in tema di precarietà, su «Liberazione»<br />

dell’1, 4, 6 e 8 settembre). Questa rinnovata dialettica<br />

ci ha permesso anche di dare la sveglia ai numerosi<br />

esponenti e opinionisti <strong>della</strong> sinistra che si erano lasciati<br />

condizionare dai falsi dogmi dell’ideologia<br />

dominante, e che per questo motivo avevano preso ormai<br />

una velleitaria deriva etico-sentimentale (del tipo: le leggi<br />

economiche proprio non le conosco, ma le considero<br />

brutte e cattive). Ma al di là di questi pur apprezzab<strong>il</strong>i risultati,<br />

l’<strong>il</strong>lusione che delle belle teste pensanti si siedano<br />

a un tavolo, scrivano un gran programma e grazie a questo<br />

arrivino a cambiare <strong>il</strong> mondo la lascio volentieri all’amico<br />

Bellofiore, che si professa «marxiano» ma che spesso<br />

cade, curiosamente, in un idealismo alquanto ingenuo.<br />

Come ho detto e ripetuto, un’analisi accurata e un programma<br />

efficace ci servirebbero senz’altro, ma uno spazio<br />

per la politica economica alternativa potrà emergere solo<br />

dalla capacità di impiegare le conoscenze acquisite al fine<br />

di sfruttare la prossima congiuntura, la prossima emergenza.<br />

Pertanto la questione prioritaria è la seguente: se<br />

domani all’improvviso ci trovassimo nel bel mezzo di un<br />

momento «emergenziale», saremmo noi in grado di<br />

sfruttarlo, di piegare la direzione degli eventi secondo i<br />

nostri scopi? Io credo proprio di no, credo che risulteremmo<br />

ancora una volta impreparati e sguarniti, come nel<br />

1992. È questo <strong>il</strong> grave problema politico sul quale bisognerebbe<br />

concentrarsi e lavorare. A partire forse da un<br />

interrogativo: fino a che punto si possono condividere le<br />

responsab<strong>il</strong>ità di governo con degli alleati che puntano<br />

alla deflazione e che magari passerebbero volentieri per<br />

una «crisi disciplinante»? Visto che a sinistra non è ancora<br />

maturato un effettivo potenziale egemonico, mi domando<br />

molto sommessamente se non sarebbe opportuno<br />

assumere una posizione più critica e def<strong>il</strong>ata rispetto a gestioni<br />

di cui non abbiamo ancora visto <strong>il</strong> lato più oscuro, e<br />

che al momento non abbiamo la forza di cambiare.<br />

GIORGIO GATTEI<br />

Scrive Marx che le parole d’ordine economico <strong>della</strong> Comune<br />

di Parigi (1871) furono l’abolizione <strong>della</strong> proprietà<br />

privata dei mezzi di produzione, da sostituirsi con la proprietà<br />

collettiva degli stessi, e l’abolizione dell’anarchia<br />

del mercato, da sostituirsi con una direzione di piano. La<br />

sinistra del Novecento ha portato avanti queste due<br />

«bandiere», sicura che l’impresa pubblica fosse più efficiente<br />

<strong>della</strong> privata (<strong>il</strong> caso italiano dell’Iri si è giustificato<br />

a lungo così) e che col piano si potessero meglio governare<br />

le grandezze economiche fondamentali (l’esperienza<br />

italiana <strong>della</strong> «programmazione» si è giustificata<br />

a lungo così). E va detto che verifiche storiche concrete<br />

non sono mancate negli anni del «miracolo economico»,<br />

poi però <strong>il</strong> giocattolo si è rotto. L’impresa pubblica è<br />

precipitata nell’inefficienza e corruzione, così che l’Iri è<br />

stata soppressa con <strong>il</strong> plauso di tutti e oggi quelle poche<br />

imprese pubbliche rimaste, che nel frattempo sono tornate<br />

efficienti, rischiano la privatizzazione (o lo «spezzatino»<br />

per renderle inefficienti e quindi privatizzab<strong>il</strong>i).<br />

La programmazione invece è franata sotto l’urto <strong>della</strong> supremazia<br />

dell’impresa diventata «globale»: come governare<br />

un’economia nazionale quando i capitali finanziari<br />

e industriali che la compongono possono fuggire da tutte<br />

le parti? Per di più con l’Unione Europea si sono trasferite<br />

quote consistenti di sovranità economica agli organi<br />

comunitari, così che adesso un singolo governo, che<br />

fosse deciso a prendere iniziative d’indirizzo, dovrebbe<br />

misurarsi con gli inevitab<strong>il</strong>i divieti europei.<br />

Per questo, se di politica di piano si vuole tornare a parlare,<br />

non può che essere a livello europeo. Ma qui ci si imbatte<br />

in un altro ordine di problemi. I centri di decisione<br />

economica comunitaria, che non sono di nomina elettiva,<br />

sono stranamente (?) imbevuti <strong>della</strong> peggiore ideologia<br />

neoliberista: priv<strong>il</strong>egiano <strong>il</strong> libero mercato (dei capitali),<br />

l’iniziativa privata (delle imprese), le rendite finanziarie<br />

(delle borse) a tutto danno di un «mondo del lavoro»,<br />

peraltro in via di frammentazione, che patisce le conseguenze<br />

di una sconfitta storica (nei fatti, prima ancora che<br />

nelle idee) di cui non ha ancora preso piena coscienza (altrimenti<br />

non voterebbe come vota, anche perché nell’insieme<br />

non è affatto minoranza). Con sim<strong>il</strong>i rapporti di<br />

forza europei diventa diffic<strong>il</strong>e immaginare politiche di<br />

piano a livello nazionale perché prima ci vorrebbe un<br />

cambiamento nell’indirizzo economico <strong>della</strong> Ue, che lo<br />

rendesse almeno «eclettico», se è troppo sperare «di sinistra».<br />

D’altra parte la Comune di Parigi aveva potuto alzare<br />

quelle sue bandiere sulla base del fatto politico che<br />

quella era «<strong>il</strong> governo <strong>della</strong> classe operaia», o piuttosto<br />

«<strong>il</strong> dominio politico dei produttori» (K. Marx). Oggi in<br />

Europa abbiamo a che fare con <strong>il</strong> dominio politico dei<br />

rentiers e con l’assenza (perfino) di una coscienza di classe<br />

lavoratrice, così che «a sinistra» non restano che di-


chiarazioni di principio e capitolazioni di fatto. A meno<br />

che la crisi finanziaria in corso non arrivi a produrre conseguenze<br />

economico-sociali tali da far paura a Lorpadroni,<br />

così che siano proprio loro a tornare a richiedere l’intervento<br />

«salvifico» dello Stato nell’economia. È già successo<br />

e può darsi che risuccederà.<br />

GIORGIO LUNGHINI<br />

Oggi i governi nazionali non dispongono più <strong>della</strong> leva<br />

monetaria e sono soggetti a vincoli di b<strong>il</strong>ancio per quanto<br />

riguarda la politica fiscale. Tuttavia dispongono ancora<br />

di un potentissimo strumento di politica economica e<br />

sociale, che è la produzione legislativa. Tutto dipende<br />

dunque dal potere politico. Forse per ragioni di età, io<br />

continuo a pensare che <strong>il</strong> miglior programma per un governo<br />

di sinistra sia già stato scritto nella Costituzione<br />

del 1947. Il problema è che non la legge più nessuno o che<br />

semmai la si vorrebbe mandare al macero. Dunque può<br />

essere ut<strong>il</strong>e, per i più giovani, ricordarne i passi di maggior<br />

r<strong>il</strong>ievo economico-politico.<br />

«L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.<br />

È compito <strong>della</strong> Repubblica rimuovere gli ostacoli di<br />

RIVE GAUCHE<br />

ordine economico e sociale, che impediscono <strong>il</strong> pieno sv<strong>il</strong>uppo<br />

<strong>della</strong> persona umana e l'effettiva partecipazione di<br />

tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e<br />

sociale del paese. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini<br />

<strong>il</strong> diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano<br />

effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha <strong>il</strong> dovere di<br />

svolgere, secondo le proprie possib<strong>il</strong>ità e la propria scelta,<br />

un'attività o una funzione che concorra al progresso<br />

materiale o spirituale <strong>della</strong> società. La Repubblica tutela la<br />

salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse<br />

<strong>della</strong> collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.<br />

L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.<br />

La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione<br />

e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e<br />

gradi. Enti e privati hanno <strong>il</strong> diritto di istituire scuole e<br />

istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La scuola è<br />

aperta a tutti. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,<br />

hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La<br />

Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di<br />

studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono<br />

essere attribuite per concorso.<br />

La Repubblica tutela <strong>il</strong> lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.<br />

Cura la formazione e l'elevazione professionale<br />

dei lavoratori. Il lavoratore ha diritto a una retribuzione<br />

proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro<br />

e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia<br />

un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima <strong>della</strong><br />

giornata lavorativa è stab<strong>il</strong>ita dalla legge. Il lavoratore ha<br />

diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e<br />

non può rinunziarvi. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti<br />

e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano<br />

al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire<br />

l'adempimento <strong>della</strong> sua essenziale funzione fam<strong>il</strong>iare<br />

e assicurare alla madre e al bambino una speciale<br />

adeguata protezione. La legge stab<strong>il</strong>isce <strong>il</strong> limite minimo<br />

di età per <strong>il</strong> lavoro salariato. La Repubblica tutela <strong>il</strong> lavoro<br />

dei minori con speciali norme e garantisce a essi, a parità<br />

di lavoro, <strong>il</strong> diritto alla parità di retribuzione. Ogni<br />

77


78<br />

cittadino inab<strong>il</strong>e al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari<br />

per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza<br />

sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e<br />

assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso<br />

di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione<br />

involontaria. Gli inab<strong>il</strong>i e i minorati hanno diritto<br />

all'educazione e all'avviamento professionale. L'iniziativa<br />

economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto<br />

con l'ut<strong>il</strong>ità sociale o in modo da recare danno alla<br />

sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina<br />

i programmi e i controlli opportuni perché l'attività<br />

economica pubblica e privata possa essere indirizzata e<br />

coordinata a fini sociali. La proprietà privata è riconosciuta<br />

e garantita dalla legge, che ne determina i modi di<br />

acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne<br />

la funzione sociale e di renderla accessib<strong>il</strong>e a tutti. La<br />

proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla<br />

legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse<br />

generale. La legge stab<strong>il</strong>isce le norme e i limiti <strong>della</strong><br />

successione legittima e testamentaria e i diritti dello<br />

Stato sulle eredità. A fini di ut<strong>il</strong>ità generale la legge può<br />

riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione<br />

e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o<br />

a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese<br />

o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici<br />

essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio<br />

e abbiano carattere di preminente interesse generale.<br />

La Repubblica riconosce la funzione sociale <strong>della</strong> cooperazione<br />

a carattere di mutualità e senza fini di speculazione<br />

privata. Ai fini <strong>della</strong> elevazione economica e sociale<br />

del lavoro in armonia con le esigenze <strong>della</strong> produzione, la<br />

Repubblica riconosce <strong>il</strong> diritto dei lavoratori a collaborare,<br />

nei modi e nei limiti stab<strong>il</strong>iti dalle leggi, alla gestione<br />

delle aziende. La Repubblica incoraggia e tutela <strong>il</strong> risparmio<br />

in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla<br />

l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio<br />

popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà<br />

diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento<br />

azionario nei grandi complessi produttivi del paese. Tutti<br />

sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione<br />

<strong>della</strong> loro capacità contributiva. Il sistema tributario è<br />

informato a criteri di progressività».<br />

Ecco, mi pare che la sinistra potrebbe trovare qui <strong>il</strong> proprio<br />

programma, un programma semplice e chiaro, dunque<br />

comprensib<strong>il</strong>e, convincente, e seducente. Mi viene<br />

però in mente l’ultimo editoriale di Luigi Pintor, del<br />

2003: «La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non<br />

lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica<br />

quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci<br />

con elezioni parziali o con una manifestazione rumo-<br />

rosa. Ma la sinistra rappresentativa è fuori scena».<br />

RICCARDO REALFONZO<br />

Dal convegno Rive Gauche era emerso con chiarezza <strong>il</strong><br />

quadro complessivo delle linee di una politica economica<br />

progressista da perseguire nelle condizioni date dell’economia<br />

e <strong>della</strong> società italiana. Al di là delle questioni<br />

relative alle politiche sociali, gli economisti convenivano<br />

sulla necessità di agire per favorire un vero e<br />

proprio «salto strutturale», che consentisse al nostro<br />

apparato produttivo di superare le strozzature presenti<br />

dal lato <strong>della</strong> domanda e dal lato dell’offerta e appariva<br />

chiaro che la condizione di base per la messa in pratica di<br />

una politica economica incisiva – in grado di r<strong>il</strong>anciare<br />

l’economia del paese e spingerla nella direzione di un<br />

nuovo modello di sv<strong>il</strong>uppo – era una politica delle finanze<br />

pubbliche che sapesse spogliarsi dei dogmi liberisti e<br />

«rigoristi» del pareggio del b<strong>il</strong>ancio. In altre parole, si<br />

rendeva necessario evitare di intraprendere la strada<br />

dell’abbattimento del debito pubblico e puntare viceversa<br />

sulla stab<strong>il</strong>izzazione del debito rispetto al P<strong>il</strong> nell’arco<br />

temporale <strong>della</strong> legislatura. Personalmente posi la questione<br />

nel dibattito che anticipò <strong>il</strong> convegno sulle pagine<br />

de «<strong>il</strong> manifesto» raccogliendo subito molte adesioni. E<br />

non a caso, quando alcuni mesi dopo proponemmo l’appello<br />

per la stab<strong>il</strong>izzazione del debito, gli economisti di<br />

sinistra risposero compatti. L’appello raccolse rapidamente<br />

un centinaio di adesioni, tra cui quelle dei più autorevoli<br />

rappresentanti dell’economia politica critica italiana.<br />

Al di là di rare posizioni minoritarie, di cui non si<br />

comprendono né i punti di partenza politici né gli sbocchi,<br />

resta ancora oggi evidente per gli economisti di sinistra<br />

che la stab<strong>il</strong>izzazione del debito rappresenti l’unica<br />

strada capace di liberare le risorse necessarie per una<br />

svolta incisiva nella politica economica; ed è su questo<br />

punto che – prima di ogni altra cosa – registriamo l’inadeguatezza<br />

del governo Prodi. Va da sé che la stab<strong>il</strong>izzazione<br />

del debito rappresenta una condizione necessaria<br />

ma non sufficiente per intraprendere la strada del «salto<br />

strutturale»; non si può certo ignorare <strong>il</strong> tema <strong>della</strong> qualità<br />

<strong>della</strong> spesa, come ci ricorda tutti i giorni la scarsa efficacia<br />

<strong>della</strong> pur ridotta spesa nel Mezzogiorno, improntata<br />

come è ai principi <strong>della</strong> programmazione negoziata.<br />

E va anche da sé – come diversi di noi hanno mostrato nel<br />

dibattito che ha fatto seguito all’appello – che non esistono<br />

ragioni tecnico-istituzionali che impediscano l’attuazione<br />

di un programma di politica economica di sinistra.<br />

Semplicemente non abbiamo avuto la forza per imporlo.


Che compagni saremmo se non stessimo assieme?<br />

La nostra festa a Gubbio l’abbiamo fatta apposta.<br />

Per discutere, riflettere, documentarci. Per conoscere<br />

altri punti di vista. Per unire la sinistra senza perdere<br />

le nostre identità e i nostri orizzonti di comunisti. Per<br />

non dimenticare mai la nostra storia di resistenze e di<br />

assalti al cielo. Per difendere la dignità del lavoro e<br />

reclamare i diritti che ci spettano. Per continuare a<br />

urlare «no alla guerra» e «no al fascismo», senza se e<br />

senza ma. Lo abbiamo fatto tra un bicchiere di vino e<br />

un ballo in pista. Spesso a bocca piena, solo <strong>il</strong> sorriso<br />

a trattenerla. Tutti m<strong>il</strong>itanti, perché non c’è altro modo<br />

di essere comunisti. A Gubbio abbiamo portato un<br />

pezzo di Cuba e un po’ di Venezuela. A Gubbio <strong>il</strong> Sud<br />

Alberto Burgio<br />

Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno<br />

pp. 176 euro 13,0<br />

Tra <strong>il</strong> 1945 e <strong>il</strong> 1975 le società occidentali cambiano volto. Aprendosi, integrandosi,<br />

evolvendosi non soltanto sul terreno delle libertà civ<strong>il</strong>i, ma anche sul piano <strong>della</strong><br />

partecipazione democratica e nel riconoscimento dei diritti del lavoro. Non stupisce che<br />

questa dinamica progressiva susciti una furiosa reazione. Che dura tuttora.<br />

A partire dai tardi anni Settanta, la restaurazione capitalistica promossa dalla «rivoluzione<br />

conservatrice» di Reagan e Thatcher determina in tutto l’Occidente <strong>il</strong> sopravvento di poteri<br />

oligarchici. È una vera e propria rivoluzione passiva. Che svolge una funzione analoga a<br />

quella assolta, a giudizio di Gramsci, da altre «rivoluzioni-restaurazioni» come <strong>il</strong> fascismo<br />

e <strong>il</strong> New Deal rooseveltiano.<br />

Ma la crisi è luogo di ambivalenze. Alleva nascostamente in seno una incoercib<strong>il</strong>e istanza di<br />

cambiamento. Di giustizia, di libertà e dignità per tutti: <strong>il</strong> «sogno di una cosa».<br />

È questa la lezione di Gramsci, grazie alla quale ancora oggi, a settant’anni dalla sua morte,<br />

leggiamo nei Quaderni la partitura teorica <strong>della</strong> nostra epoca e <strong>della</strong> sua crisi.<br />

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COMUNICAZIONI<br />

Siamo comunisti,<br />

vogliamo le<br />

stelle!<br />

del mondo e <strong>il</strong> Sud d’Italia hanno ribadito che vogliono<br />

tornare al centro. A Gubbio abbiamo fatto incontrare i<br />

Quaderni di Gramsci con gli Scritti corsari di Pasolini.<br />

A Gubbio Bella Ciao e Bandiera Rossa le fischiettavano<br />

pure gli uccellini. A Gubbio c’erano più falci e martello<br />

che coltelli e forchette. A Gubbio ci siamo divertiti,<br />

perché senza gioia non si fa la rivoluzione. A Gubbio<br />

eravamo tanti. A Gubbio, dove i comunisti governano<br />

davvero e da soli, ci siamo ripetuti che <strong>il</strong> governo non<br />

è un fine ma un mezzo. A Gubbio abbiamo riaffermato,<br />

se qualcuno se lo fosse dimenticato, che noi ci siamo.<br />

Nel partito e per <strong>il</strong> partito. Rifondazione comunista è<br />

qui e non vuol smettere di lottare. E noi di continuare<br />

a <strong>Essere</strong> comunisti.<br />

79


Comitato editoriale<br />

Maurizio Acerbo<br />

Gianni Alasia<br />

Marco Amagliani<br />

Pierfranco Arrigoni<br />

Jone Bagnoli<br />

Imma Barbarossa<br />

Giorgio Baratta<br />

Katia Bell<strong>il</strong>lo<br />

Riccardo Bellofiore<br />

Piergiorgio Bergonzi<br />

Maria Luisa Boccia<br />

Manuele Bonaccorsi<br />

Vittorio Bonanni<br />

Bianca Bracci Torsi<br />

Nori Bramb<strong>il</strong>la Pesce<br />

Em<strong>il</strong>iano Brancaccio<br />

Giordano Bruschi<br />

Tonino Bucci<br />

Alberto Burgio<br />

Maria Rosa Calderoni<br />

Maria Campese<br />

Luigi Cancrini<br />

Luciano Canfora<br />

Guido Cappelloni<br />

Gennaro Carotenuto<br />

Bruno Casati<br />

Luciana Castellina<br />

Giulietto Chiesa<br />

Francesco Cirigliano<br />

Fausto Co'<br />

Cristina Corradi<br />

Aurelio Crippa<br />

Roberto Croce<br />

Marco Dal Toso<br />

Walter De Cesaris<br />

Peppe De Cristofaro<br />

Jose' Luiz Del Roio<br />

Tommaso Di Francesco<br />

Giuseppe Di Lello Finuoli<br />

Piero Di Siena<br />

Rolando Dubini<br />

Gianni Ferrara<br />

Guglielmo Forges Davanzati<br />

Gianni Fresu<br />

Mercedes Frias<br />

Alberto Gabriele<br />

Haidi Gaggio Giuliani<br />

Francesco Germinario<br />

Orfeo Goracci<br />

Roberto Gramiccia<br />

Claudio Grassi<br />

Dino Greco<br />

Margherita Hack<br />

Alessandro Leoni<br />

Lucio Manisco<br />

Giovanni Mazzetti<br />

Enrico Melchionda<br />

Maria Grazia Meriggi<br />

Enzo Modugno<br />

Sabina Morandi<br />

Raul Mordenti<br />

Franco Nappo<br />

Giorgio Nebbia<br />

Saverio Nigretti<br />

Alfredo Novarini<br />

Simone Oggionni<br />

Angelo Orlando<br />

Franco Ottaviano<br />

Gianni Pagliarini<br />

Valentino Parlato<br />

Armando Petrini<br />

Michele Pist<strong>il</strong>lo<br />

Felice Roberto Pizzuti<br />

Giuseppe Prestipino<br />

Mar<strong>il</strong>de Provera<br />

Riccardo Realfonzo<br />

Alessandra Riccio<br />

Paolo Sabatini<br />

Giuseppe Sacchi<br />

Luigi Saragnese<br />

Marco Sferini<br />

Guglielmo Simoneschi<br />

Vincenzo Siniscalchi<br />

Massim<strong>il</strong>iano Smeriglio<br />

Bruno Steri<br />

Antonella Stirati<br />

Mario Tiberi<br />

Nicola Tranfaglia<br />

Fulvio Vassallo Paleologo<br />

Mario Vegetti<br />

Massimo V<strong>il</strong>lone<br />

Luigi Vinci<br />

Pasquale Voza<br />

Maurizio Zipponi<br />

Stefano Zolea<br />

Stefano Zuccherini<br />

direttore – Bruno Steri<br />

direttore editoriale – Mauro Cimaschi<br />

direttore responsab<strong>il</strong>e – Bianca Bracci Torsi<br />

redazione – Mauro Belisario,<br />

S<strong>il</strong>via Di Giacomo, Marcello Notarfonso<br />

ema<strong>il</strong>: redazione@esserecomunisti.it<br />

diffusione e abbonamenti<br />

ema<strong>il</strong>: abbonamenti@esserecomunisti.it<br />

editore<br />

associazione culturale essere comunisti<br />

via Buonarroti 25 – 00185 Roma<br />

stampa<br />

tipografia Jacobelli – Pavona (Roma)<br />

chiuso in Tipografia <strong>il</strong> 15 ottobre 2007<br />

grafica<br />

progetto grafico, impaginazione e service<br />

editoriale: DeriveApprodi<br />

credits immagini<br />

p. 2, p. 6, p. 10: Nanni Balestrini; p. 13: da<br />

«Docks»; p. 16: da «Troubles»; p. 18:<br />

Eugenio Cappuccio; p. 20: teatro romano<br />

di Benevento; p. 22: lapide funeraria,<br />

Benevento; p. 23: Arcangelo; p. 25, p. 26:<br />

Thomas Feuerstein; p. 32, p. 33, p. 36: da<br />

Muro scritto; p. 40, p. 42: Michael<br />

Grobman; p. 44, p. 46, p. 48, p. 49: da La<br />

créativité en noir et blanc; p. 55, p. 60, p.<br />

63, p. 64, p. 65, p. 67, p. 69, p. 71, p. 73,<br />

p. 74, p. 77: Henri Michaux; copertina:<br />

elaborazione grafica originale da un<br />

progetto di Tyler Poniatowski<br />

registrazione Tribunale di Roma<br />

n. 170/2007 del 08/05/2007<br />

anno I, numero 3, ottobre 2007<br />

bimestrale<br />

Poste Italiane s.p.a. – spedizione in A.P.<br />

70% Roma n. 96/2007<br />

www.esserecomunisti.it<br />

La notizia è che <strong>il</strong> nostro sito sta, giorno<br />

dopo giorno, crescendo. Cresce<br />

rinnovandosi: una nuova veste grafica,<br />

nuove sezioni (a partire da quella<br />

multimediale, arricchita ogni giorno con<br />

nuovi audiovisivi), un doppio<br />

aggiornamento quotidiano e già in<br />

mattinata articoli e commenti sui fatti del<br />

giorno. E ancora: più attenzione alla<br />

cultura, una rassegna stampa più<br />

completa e articolata, un maggior numero<br />

di interventi, commenti e interviste<br />

redazionali. E i risultati si vedono:<br />

l’attenzione dei nostri lettori è in costante<br />

crescita al punto che, dall’uscita del<br />

secondo numero <strong>della</strong> <strong>rivista</strong> a oggi,<br />

abbiamo guadagnato migliaia di contatti<br />

giornalieri.<br />

Insomma: ci stiamo ritagliando uno spazio.<br />

Come la <strong>rivista</strong> ha bisogno degli abbonati<br />

(e del loro sostegno, dei loro suggerimenti),<br />

<strong>il</strong> sito ha bisogno dei lettori, <strong>della</strong> loro<br />

fiducia e del loro sguardo critico. In questi<br />

anni ce l’abbiamo fatta anche e, forse, in<br />

primo luogo, grazie al fatto che la fiducia e<br />

la critica non sono mai venute meno. E<br />

grazie a voi, lettori e abbonati <strong>della</strong> <strong>rivista</strong>,<br />

a cui chiediamo di moltiplicare per due <strong>il</strong><br />

vostro già preziosissimo lavoro di<br />

suggeritori e critici: ciascuno di voi<br />

coinvolga una nuova compagna o un nuovo<br />

compagno, diffondendo la <strong>rivista</strong> e facendo<br />

conoscere <strong>il</strong> sito (consultab<strong>il</strong>e all’indirizzo:<br />

www.esserecomunisti.it). Scommettiamo<br />

che non rimarranno delusi?<br />

Per la realizzazione di questo numero non<br />

è stato richiesto alcun compenso.<br />

Si ringraziano tutti gli autori e collaboratori.

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