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la proposta politica di <strong>Essere</strong> <strong>Comunisti</strong>*<br />
unità, sinistra e governo Prodi<br />
«Le crepe dell’impero americano erano evidenti ben<br />
prima del crollo dei mutui che ha provocato sulle<br />
Borse mondiali una tempesta paragonab<strong>il</strong>e all’11<br />
settembre e forse peggiore. Gli Stati Uniti producono <strong>il</strong> 10%<br />
delle merci circolanti nel pianeta, meno <strong>della</strong> Germania, e ne<br />
consumano <strong>il</strong> 30%, più dell’Europa intera. Questo significa<br />
che i cittadini dell’impero, dall’ultimo impiegato <strong>della</strong> middle<br />
class fino al primo manager di Manhattan, vivono molto<br />
al di sopra dei loro mezzi. […] La grande bolla Usa sta per<br />
esplodere. Con quali conseguenze nessuno può dirlo. Prima<br />
o poi qualcuno dovrà incaricarsi di spiegare agli americani la<br />
scomoda verità. A meno di non ipotizzare un’apocalittica<br />
guerra alla Cina» 1 .<br />
Non si tratta delle riflessioni di un pericoloso comunista,<br />
ma di un giornalista onesto: Curzio Maltese. In queste<br />
parole sono contenute le motivazioni di quanto accaduto<br />
nel mondo in questi anni.<br />
Il quadro internazionale: dalla crisi statunitense al<br />
Venezuela di Chavez<br />
Il sistema economico statunitense è in grado di reggere<br />
soltanto attraverso le guerre, la produzione di armamenti,<br />
<strong>il</strong> dominio m<strong>il</strong>itare globale, la manipolazione internazionale<br />
dell’informazione. Solo governi subalterni hanno<br />
potuto sostenere e giustificare le tesi ufficiali con cui <strong>il</strong><br />
governo Usa ha motivato le guerre intraprese negli ultimi<br />
anni. La lotta al terrorismo, la ricerca delle armi di distruzione<br />
di massa, l’esportazione <strong>della</strong> democrazia non<br />
c’entravano assolutamente nulla. Tutti sanno che i motivi<br />
veri degli interventi m<strong>il</strong>itari sono stati altri. L’Iraq è<br />
stato invaso per la grande quantità di petrolio di cui dispone<br />
e per la decisione di Saddam di venderlo in euro.<br />
L’Afghanistan è stato occupato per la sua collocazione<br />
strategica a ridosso di Cina e Russia.<br />
CLAUDIO GRASSI**<br />
La politica di guerra e di dominio perseguita da Bush, classicamente<br />
imperialista, si trova oggi in una profonda crisi.<br />
Crisi m<strong>il</strong>itare: le guerre in Iraq e in Afghanistan non si<br />
concludono e le perdite sono sempre più significative.<br />
Crisi di egemonia: la credib<strong>il</strong>ità <strong>della</strong> politica estera statunitense<br />
è in netto calo rispetto all’11 settembre 2001,<br />
quando venne lanciata la dottrina <strong>della</strong> guerra preventiva e<br />
permanente. Inoltre negli Usa esistono contraddizioni<br />
economiche immense che, come ha dimostrato la recente<br />
vicenda dei mutui subprime, possono scatenarsi da un momento<br />
all’altro con conseguenze imprevedib<strong>il</strong>i.<br />
Purtroppo a questa situazione di oggettiva debolezza di<br />
prospettiva dell’imperialismo americano non corrisponde,<br />
già pronta, un’alternativa. Un tempo si sarebbe detto<br />
che vi sono le condizioni oggettive ma mancano quelle<br />
soggettive.<br />
Infatti, alla crisi del sistema economico dell’occidente<br />
capitalistico, fanno da contraltare la crisi e la sconfitta<br />
del tentativo di costruire un sistema socialista avviato nel<br />
secolo scorso con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917.<br />
Se <strong>il</strong> capitalismo, quindi, mostra come non mai le sue<br />
contraddizioni in tutto <strong>il</strong> pianeta, rendendo necessario<br />
un suo superamento per evitare che si producano guerre,<br />
migrazioni e devastazioni ambientali, oggi chi come noi<br />
lo propone è indebolito dal fatto che quel tentativo di trasformazione,<br />
nei paesi più significativi in cui è stato tentato,<br />
non è riuscito ad affermarsi.<br />
È in questi grandi processi storici che noi dobbiamo inserire<br />
<strong>il</strong> nostro ragionamento. Altrimenti, oltre a non riusci-<br />
** COORDINATORE NAZIONALE ESSERE COMUNISTI, PRC-SE<br />
1
2<br />
re a comprendere quanto sta avvenendo, non riusciamo ad<br />
apprezzare e a valorizzare quanto stiamo facendo.<br />
Le difficoltà di Rifondazione comunista, lo scarso consenso<br />
elettorale, sono certamente dovuti a scelte sbagliate<br />
e a errori soggettivi, ma in larga parte trovano le loro<br />
cause in questa pesante sconfitta storica nella quale ci<br />
troviamo a operare. Infatti anche in Spagna, in Francia e<br />
in Germania, seppure con differenze, i partiti comunisti<br />
e di sinistra alternativa sono attraversati da profonde divisioni<br />
al proprio interno e <strong>il</strong> loro consenso elettorale è<br />
più o meno analogo al nostro.<br />
Tuttavia la partita è aperta e noi dobbiamo lavorare con<br />
la consapevolezza che le contraddizioni di questo sistema<br />
capitalista possono anche precipitare in crisi accelerate<br />
e produrre scenari di vasti sommovimenti e trasformazioni.<br />
Inoltre la situazione internazionale non è priva di contraddizioni<br />
e di scenari che vanno valutati con grande attenzione.<br />
Nella competizione globale <strong>il</strong> tratto dominante – che va di<br />
pari passo con la crisi e l’indebolimento degli Stati Uniti –<br />
è l’emergere di nuove potenze economiche: la Cina, la<br />
Russia e l’India. L’impetuoso sv<strong>il</strong>uppo economico di questi<br />
paesi, in cui risiede quasi la metà <strong>della</strong> popolazione<br />
terrestre, produrrà, nel giro di qualche decennio e forse<br />
meno, cambiamenti enormi negli assetti mondiali.<br />
Gli Stati Uniti stanno operando per contrastare tale sbocco<br />
cercando alleati tra questi paesi. Quando ci riescono,<br />
come nel caso dell’India, non esitano ad armarli e a sostenerli;<br />
e quando non ci riescono, come sta avvenendo nel<br />
caso <strong>della</strong> Russia di Putin, non esitano a riaprire nei loro<br />
confronti una stagione di guerra fredda attraverso lo<br />
scudo stellare, l’appoggio ai governi e alle forze più reazionarie<br />
dei paesi confinanti e attraverso progetti di destab<strong>il</strong>izzazione<br />
(vedi le rivoluzioni «arancioni»). Oppure,<br />
come sta avvenendo nei confronti <strong>della</strong> Cina, attraverso<br />
un sotterraneo e pesante attacco economico.<br />
È evidente che oggi vi è un contrasto e uno scontro tra gli<br />
Usa da un lato e la Cina e la Russia dall’altro, mentre l’Europa,<br />
che attraverso la costituzione dell’euro ha introdotto<br />
un elemento oggettivamente antagonistico al dollaro, è<br />
divisa al suo interno e allo stato attuale è incapace di rendersi<br />
autonoma dall’egemonia statunitense.<br />
In questo contesto l’obiettivo prioritario è indebolire la<br />
politica di guerra degli Stati Uniti. Non è una scelta di<br />
«campo», come quella che si poteva realizzare negli anni<br />
Sessanta-Settanta del secolo scorso quando, pur con tutti<br />
i limiti, al campo capitalista si contrapponeva un campo<br />
socialista. Oggi non c’è un campo socialista. Tuttavia ci<br />
sono paesi che non condividono e in alcuni casi contra-<br />
stano ciò che di più pericoloso si muove contro la pace<br />
nel mondo e cioè la politica estera degli Stati Uniti.<br />
Inoltre nella competizione globale, oltre a Usa, Europa,<br />
Cina e Russia, vi sono altre realtà degne di attenzione. Ne<br />
segnalo una in particolare, quella che mi sembra più significativa:<br />
l’America Latina. Qui sta prendendo forma un<br />
processo che ha due elementi peculiari. Da un lato un numero<br />
crescente di paesi non accetta più la sottomissione<br />
ai diktat nordamericani: Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina,<br />
Uruguay, Nicaragua solo per citare i principali.<br />
Nel Bras<strong>il</strong>e la situazione è più incerta, tuttavia sarebbe un<br />
errore non vederne <strong>il</strong> processo contraddittorio e le potenzialità<br />
positive. Dall’altro lato Chavez sta costruendo un<br />
progetto di trasformazione del Venezuela in senso antimperialista<br />
e di democrazia sostanziale. Ciò ha una straordinaria<br />
importanza per <strong>il</strong> messaggio che lancia a tutto <strong>il</strong><br />
mondo. Non a caso si è stab<strong>il</strong>ito un asse forte con Cuba e<br />
l’esperimento venezuelano è oggi <strong>il</strong> punto più avanzato<br />
per la sinistra, poiché ha come obiettivo <strong>il</strong> cambiamento<br />
rivoluzionario e la trasformazione socialista <strong>della</strong> società.<br />
Il fatto è importante poiché si lotta non solo per una alternanza,<br />
come avviene in tutti i paesi europei, ma per una<br />
alternativa di società.<br />
Ciò che manca oggi in questo panorama internazionale<br />
così complesso è la ripresa del conflitto di classe nei<br />
paesi a capitalismo avanzato.<br />
Sarebbe interessante capire se, viste le trasformazioni
che sono intervenute dagli anni Settanta a oggi, i punti<br />
alti dello sv<strong>il</strong>uppo capitalistico, dove si può ipotizzare riparta<br />
<strong>il</strong> conflitto di classe, siano ancora da considerarsi<br />
le metropoli europee, e non invece le grandi città di<br />
Cina, India, Bras<strong>il</strong>e e Sudafrica dove sono stati trasferiti<br />
i più importanti insediamenti industriali e dove più alta<br />
è diventata e diventerà la concentrazione operaia. Sono<br />
approfondimenti da fare, importanti.<br />
Rifondazione comunista e governo Prodi: unità e<br />
conflitto, per l’unità programmatica <strong>della</strong> sinistra<br />
d’alternativa<br />
Abbiamo <strong>il</strong> compito, qui e ora nel nostro paese, di costruire<br />
l’iniziativa politica più efficace possib<strong>il</strong>e per dare<br />
una risposta ai bisogni dei lavoratori, dei ceti sociali più<br />
deboli e per tenere aperta una prospettiva di trasformazione,<br />
di alternativa di società. La prima cosa da fare è<br />
analizzare bene la realtà e compiere una corretta analisi<br />
<strong>della</strong> fase altrimenti, come purtroppo ha fatto <strong>il</strong> nostro<br />
partito (a Venezia e prima di Venezia), si commettono<br />
errori e ci si trova in difficoltà.<br />
La nostra analisi <strong>della</strong> fase, e <strong>il</strong> nostro giudizio su come bisognasse<br />
costruire l’unità <strong>della</strong> sinistra di alternativa e<br />
un’eventuale intesa di governo, oggi si rivela valida e confermata<br />
dai fatti, mentre quella <strong>della</strong> maggioranza non ha<br />
retto 2 . Vorrei ricordare, infatti, che si era teorizzato che:<br />
1) la nostra presenza al governo avrebbe impresso alla<br />
sua azione una svolta riformatrice, mentre ha prodotto,<br />
al contrario, una grave difficoltà per Rifondazione, come<br />
hanno dimostrato i dati negativi delle elezioni amministrative<br />
e <strong>il</strong> fallimento del sit in del 9 giugno;<br />
2) a differenza degli anni Novanta, si sarebbe potuta trovare<br />
una intesa di governo con questo centro-sinistra<br />
poiché esso si era spostato a sinistra; ci troviamo, al contrario,<br />
a fare i conti con la costruzione del Partito democratico<br />
che si colloca al centro e si distanzia sempre più<br />
dai bisogni dei lavoratori e dai valori <strong>della</strong> sinistra;<br />
3) la forza dei movimenti, in ogni caso, ci avrebbe aiutato<br />
e supportato nei passaggi più diffic<strong>il</strong>i, e invece ci<br />
siamo trovati a operare nel governo in una fase di riflusso<br />
dei movimenti.<br />
Inoltre, venne duramente attaccata la nostra proposta di<br />
unità d’azione e programmatica con le altre forze <strong>della</strong><br />
sinistra di alternativa poiché – si diceva – era necessario<br />
trattare direttamente con Prodi. Oggi, con grave ritardo,<br />
e quando ormai molti passaggi sono compromessi, si<br />
propone l’unità <strong>della</strong> sinistra di alternativa esattamente<br />
come la proponevamo noi. Infine, venne ridicolizzata la<br />
nostra proposta di concordare un programma breve e<br />
vincolante di pochi punti (i paletti). Oggi viene avanzata<br />
EDITORIALE<br />
con articoli e interviste (penso, per esempio, ai recenti<br />
interventi di Giuliano Pisapia e Cesare Salvi su «<strong>il</strong> manifesto»)<br />
come unica possib<strong>il</strong>ità per uscire dalle difficoltà<br />
in cui ci troviamo.<br />
Insomma: oggi paghiamo per intero non solo le difficoltà<br />
oggettive, che ci sono, ma anche <strong>il</strong> modo sbagliato con<br />
cui Rifondazione comunista è entrata prima nell’Unione<br />
(anzi nella Gad) e poi nella maggioranza e nel governo.<br />
A questo c’è da aggiungere un fatto: <strong>il</strong> partito non ha gestito<br />
adeguatamente <strong>il</strong> primo anno di presenza nella coalizione<br />
di governo. Solo nell’ultima fase si è cominciato a<br />
riconoscere che <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio di questi primi 15 mesi non è<br />
positivo. Per tutto <strong>il</strong> primo anno non solo si è teso a rimuovere<br />
le difficoltà, ma si sono sbandierati risultati<br />
positivi anche quando non c’erano. Tutti ricordano, a<br />
proposito di una Finanziaria assolutamente negativa, <strong>il</strong><br />
manifesto «anche i ricchi piangano»; oppure <strong>il</strong> giudizio<br />
positivo sui 12 punti di Prodi dopo la crisi di governo<br />
quando positivi non erano; oppure ancora la tesi, rivelatasi<br />
poi fasulla, che <strong>il</strong> voto favorevole al rifinanziamento<br />
<strong>della</strong> missione in Afghanistan si sarebbe potuto dare<br />
perché si era ottenuto una prima volta <strong>il</strong> comitato di monitoraggio,<br />
una seconda volta la conferenza di pace: risultati<br />
che, come è noto, non si sono mai concretizzati.<br />
Ritengo che fin da subito <strong>il</strong> partito avrebbe dovuto avere<br />
un atteggiamento più onesto dicendo apertamente ciò<br />
che andava e ciò che non andava. Ciò non è stato fatto e<br />
questi errori li abbiamo pagati duramente, come si è<br />
visto con <strong>il</strong> risultato elettorale delle amministrative.<br />
Da alcuni mesi, in particolare dalla conferenza di Carrara<br />
in poi, l’atteggiamento è cambiato, seppure in modo<br />
ancora insufficiente.<br />
Detto questo, cosa proponiamo di fare noi nei confronti<br />
del governo Prodi?<br />
La situazione è molto complessa e l’errore più grave è la<br />
semplificazione. Essa porta a due errori opposti che dobbiamo<br />
evitare. Il primo, che è quello che ha contraddistinto<br />
la maggioranza del partito nel primo anno di governo<br />
e che è ancora presente in una parte <strong>della</strong> maggioranza,<br />
è un atteggiamento di subalternità che porta a<br />
giustificare e ad accettare tutto quanto <strong>il</strong> governo propone.<br />
Il secondo, che è quello che contraddistingue Sinistra<br />
Critica e alcuni dei compagni che sono usciti dall’area, è<br />
incentrato sull’idea che si debba uscire dal governo. Sono<br />
due atteggiamenti che rifuggono dalla realtà: <strong>il</strong> primo<br />
perché la nasconde, <strong>il</strong> secondo perché con la sua azione<br />
non affronta la difficoltà, ma di fronte a essa scappa, producendo<br />
nei fatti uno scenario ancora più arretrato. Nel<br />
contesto nel quale ci troviamo a operare giocano molti<br />
fattori e noi dobbiamo considerarli tutti.<br />
3
4<br />
Questo governo, che noi giustamente critichiamo e al<br />
quale proponiamo un forte cambiamento, soprattutto<br />
sulle questioni economiche e sociali, è anche sotto attacco<br />
e sotto pressione da parte dei poteri forti. Dai tecnocrati<br />
europei alla Confindustria, dal «Corriere <strong>della</strong> Sera»<br />
alla Chiesa e agli Usa. L’ambasciatore statunitense in Italia<br />
è intervenuto pubblicamente tre volte per criticare le<br />
scelte del governo italiano. Si tratta di una ingerenza<br />
inaudita, come non si vedeva dall’immediato dopoguerra.<br />
Abbiamo visto inoltre, mentre si avvia a conclusione l’iter<br />
di costituzione del Partito democratico, le proposte di<br />
riassetto istituzionale di Veltroni e Rutelli che con una<br />
legge elettorale alla francese puntano a rendere ininfluente<br />
la sinistra dell’Unione, in primo luogo Rifondazione<br />
comunista. Tutto ciò avviene, come dice strumentalmente<br />
la componente moderata dell’Unione, perché<br />
Rifondazione comunista e la sinistra hanno condizionato<br />
<strong>il</strong> quadro politico? Purtroppo no. Le cose ottenute, che<br />
pure ci sono state (come per esempio <strong>il</strong> ritiro dei m<strong>il</strong>itari<br />
italiani dall’Iraq, una lotta all’evasione fiscale che comincia<br />
a dare frutti, le misure ottenute a proposito di sicurezza<br />
nei luoghi di lavoro, <strong>il</strong> contenimento delle privatizzazioni<br />
nel primo disegno di legge Lanz<strong>il</strong>lotta), non modificano<br />
sostanzialmente <strong>il</strong> senso di marcia del governo.<br />
Il fatto è che nemmeno <strong>il</strong> timido programma dell’Unione<br />
viene rispettato e quelle poche cose che potevano dare<br />
ai nostri referenti sociali <strong>il</strong> senso di una inversione di<br />
tendenza – dall’abolizione dello scalone alla restituzione<br />
del fiscal drag, dai Dico al superamento <strong>della</strong> legge 30 e<br />
<strong>della</strong> Bossi-Fini – non vengono attuati.<br />
Tutto ciò avviene poiché – dobbiamo riconoscerlo – non<br />
siamo ancora usciti dalla sconfitta iniziata alla fine degli<br />
anni Settanta. Stiamo vivendo una pesantissima offensiva<br />
dei padroni che non ha precedenti e a cui non si contrappone<br />
quasi nessuno. Il fatto che dopo un editoriale<br />
come quello di Giavazzi sul «Corriere» 3 , nel quale si<br />
propone di rendere precari tutti i lavoratori, vi sia stato <strong>il</strong><br />
s<strong>il</strong>enzio generale degli intellettuali e del mondo <strong>della</strong><br />
cultura conferma questa valutazione.<br />
Anche la reazione dei sindacati, <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> in particolare,<br />
è da tempo insufficiente e ciò ha pesato e pesa nei rapporti<br />
di forza tra le classi e anche tra le forze politiche e<br />
nel governo.<br />
Noi dobbiamo operare in questo groviglio di contraddizioni<br />
sapendo che ciò che ci chiede la nostra gente, soprattutto<br />
i lavoratori, non è far cadere <strong>il</strong> governo ma lottare<br />
per cambiare le sue scelte politiche. Questo è <strong>il</strong> punto<br />
e questo deve essere <strong>il</strong> nostro impegno per i prossimi<br />
mesi sui temi già all’ordine del giorno come pensioni e<br />
mercato del lavoro. Il percorso che abbiamo di fronte non<br />
è fac<strong>il</strong>e, ma ci sono anche le opportunità per fare questa<br />
battaglia fino in fondo, come dimostra l’importantissima<br />
presa di posizione del comitato centrale <strong>della</strong> Fiom. I<br />
protocolli sottoscritti da governo e sindacati devono essere<br />
modificati e per cercare di ottenerlo occorre la lotta<br />
e la mob<strong>il</strong>itazione, in Parlamento e nel paese.<br />
Questo deve essere <strong>il</strong> modo con cui noi ci rapportiamo al<br />
governo. Un approccio unitario ma anche, quando occorre,<br />
di conflitto teso alla realizzazione del programma<br />
con l’unità delle altre forze <strong>della</strong> sinistra disponib<strong>il</strong>i.<br />
Anche sulla base Dal Molin di Vicenza e sul rifinanziamento<br />
<strong>della</strong> missione in Afghanistan che ci sarà in gennaio,<br />
noi dobbiamo lavorare perché tutta la sinistra dell’Unione<br />
si mob<strong>il</strong>iti. Tra l’altro a favore di una ipotesi di<br />
exit strategy concorre <strong>il</strong> fatto che né <strong>il</strong> comitato di monitoraggio<br />
né la conferenza di pace sono state fatte e in Afghanistan,<br />
come ci ha confermato <strong>il</strong> rapporto Onu dei<br />
giorni scorsi, la produzione di droga ha toccato livelli<br />
mai raggiunti in passato.<br />
Lo stato del partito e <strong>il</strong> ruolo dell’area<br />
<strong>Essere</strong> comunisti<br />
Il partito vive da tempo una situazione di grave crisi tanto<br />
politica quanto organizzativa. Le cause risalgono indietro<br />
nel tempo e sono <strong>il</strong> prodotto di vari fattori di cui più volte<br />
abbiamo discusso e che hanno subìto una accelerazione<br />
alla fine degli anni Novanta.<br />
È stata attuata un’opera di rimozione <strong>della</strong> nostra storia.<br />
Non una riflessione sul nostro passato, quanto mai necessaria,<br />
la messa a tema di quella Rifondazione comunista<br />
mai fatta dal nostro partito e di cui abbiamo grande<br />
bisogno, ma – al contrario – una opera di azzeramento,<br />
che ha mortificato molti nostri compagni e ne ha allontanati<br />
altri. D’altra parte <strong>il</strong> ragionamento è molto semplice:<br />
se tutto quello che ha a che fare con <strong>il</strong> comunismo<br />
è una sequela di errori e orrori, perché iscriversi a un<br />
partito comunista e m<strong>il</strong>itare per esso?<br />
Noi abbiamo cercato di contrastare questa deriva, prima<br />
con un emendamento al V congresso, poi con una mozione<br />
alternativa al VI a cui abbiamo dato un nome – <strong>Essere</strong><br />
<strong>Comunisti</strong> – che ha voluto replicare anche simbolicamente<br />
a quell’attacco. Possiamo dirlo con orgoglio: se<br />
tanti compagni e compagne non se ne sono andati dal<br />
partito è perché hanno incontrato noi e hanno visto in<br />
noi una reazione efficace a quella offensiva.<br />
Questo lavoro dobbiamo continuarlo perché non siamo<br />
affatto disposti a rinunciare al nome e al simbolo di Rifondazione<br />
comunista, ma soprattutto riteniamo inaccettab<strong>il</strong>e<br />
che la storia comunista – che in questo paese è<br />
storia gloriosa – venga sommersa da falsità e revisioni-
smi. Il nostro impegno deve essere quello di una riflessione<br />
vera per capire dove si è sbagliato, per andare avanti<br />
senza rinunciare alla prospettiva di costruire una società<br />
socialista.<br />
Dall’altro lato, accanto a questo sistematico attacco alla<br />
nostra storia, si è spinto <strong>il</strong> partito non a stare nei movimenti,<br />
cosa ovviamente giusta, ma a identificarsi con una<br />
parte di esso, quella considerata più innovativa e interessante<br />
e cioè quella dei Disobbedienti di Luca Casarini. In<br />
quel periodo <strong>il</strong> gruppo dirigente di Rifondazione parlò di<br />
«nuova situazione rivoluzionaria», dell’esaurimento dei<br />
margini di riformismo, iniziò a considerare la Cg<strong>il</strong> un sindacato<br />
ormai privo di qualsiasi importanza e a lanciare la<br />
parola d’ordine <strong>della</strong> rottura <strong>della</strong> gabbia dell’Ulivo. Ed<br />
entrò non casualmente in sintonia con le tesi negriane<br />
dell’Impero e con quelle revelliane delle due destre.<br />
Contro chi, come noi, propose l’unità <strong>della</strong> sinistra di alternativa<br />
fioccarono le accuse di frontismo e moderatismo.<br />
E quando sostenemmo che <strong>il</strong> movimento era importante<br />
ma bisognava prestare attenzione anche al partito<br />
perché – come è naturale – i movimenti rifluiscono,<br />
ci accusarono né più né meno di essere contro i movimenti.<br />
Come sia finita lo sappiamo tutti. Nel volgere di<br />
una estate la politica di Rifondazione cambiò di 180<br />
gradi. Si abbandonarono i Disobbedienti e si decise di<br />
entrare nell’Unione e nel governo ancor prima di aver<br />
discusso <strong>il</strong> programma. Si passò, in sostanza, da un estremo<br />
all’altro.<br />
Queste sono le ragioni delle difficoltà di Rifondazione<br />
comunista. Qualsiasi partito politico che contemporaneamente<br />
subisce una costante rimozione del proprio<br />
prof<strong>il</strong>o identitario e un cambiamento di linea e di collocazione<br />
politica di 180 gradi non può che creare disorientamento,<br />
soprattutto nella propria base.<br />
Il dato nuovo, e dal nostro punto di vista positivo e interessante,<br />
è che si sta facendo largo anche nell’attuale<br />
gruppo dirigente nazionale la consapevolezza <strong>della</strong> necessità<br />
di modificare questa situazione cercando di instaurare<br />
un clima diverso nel partito. Ciò avviene prevalentemente<br />
per due motivi. Perché <strong>il</strong> fallimento di quella<br />
modalità di gestione è sotto gli occhi di tutti e perché noi<br />
siamo stati tenaci nel non abbandonare mai <strong>il</strong> campo nonostante<br />
nei nostri confronti – al centro e in periferia –<br />
siano state attuate pesantissime azioni di emarginazione<br />
e discriminazione.<br />
Questa nuova situazione – che va ancora verificata e consolidata<br />
– è frutto anche del nostro lavoro e <strong>della</strong> tenuta<br />
delle nostre posizioni politiche: dobbiamo considerarla<br />
frutto <strong>della</strong> nostra iniziativa politica.<br />
Essa sta alla base <strong>della</strong> scelta di fare una conferenza di or-<br />
EDITORIALE<br />
ganizzazione come è stata fatta a Carrara, quando, lungi dal<br />
ripercorrere lo schema di Venezia, quello dei documenti<br />
contrapposti, si è lavorato per un serio confronto, a partire<br />
dalla possib<strong>il</strong>ità di presentare emendamenti.<br />
È in questo passaggio che si è prodotto <strong>il</strong> contrasto al nostro<br />
interno con alcuni compagni che poi hanno lasciato<br />
l’area <strong>Essere</strong> comunisti. Abbiamo cercato di evitare in tutti i<br />
modi questo esito, ma, d’altra parte, non potevamo nemmeno<br />
non contrastare tesi che ci avrebbero portati in un<br />
vicolo cieco, senza sbocchi politici per la nostra iniziativa.<br />
Secondo questi compagni a Carrara avremmo dovuto presentare<br />
un documento alternativo. Ritengo che sarebbe<br />
stato un grave errore politico. In contrasto con la storia<br />
<strong>della</strong> nostra area, che non è mai stata quella di stare all’opposizione<br />
a prescindere e di costruire un partito nel partito,<br />
ma che, al contrario, ha sempre operato per cercare di<br />
intervenire sulle posizioni sbagliate per cambiarle.<br />
Questo obiettivo con la conferenza d’organizzazione, grazie<br />
anche al nostro contributo, è stato conseguito. Basta<br />
leggere <strong>il</strong> documento conclusivo per rendersene conto 4 .<br />
In esso si apre finalmente un discorso critico sul Governo,<br />
si propone di aprire una offensiva tesa a ottenere <strong>il</strong><br />
risarcimento sociale e, sul partito, si afferma con chiarezza<br />
che non è in discussione la sua identità politica,<br />
culturale e organizzativa.<br />
Se noi a Carrara avessimo presentato un documento alternativo<br />
ci saremmo isolati collocandoci al fianco di chi<br />
(come Sinistra Critica) alla Conferenza non ha nemmeno<br />
partecipato e quindi condannandoci a una logica di impotenza<br />
e marginalità.<br />
La nostra è una linea che opera per intervenire nelle contraddizioni<br />
presenti nella maggioranza cercando l’unità<br />
con la parte a noi più vicina. L’obiettivo è quello di trovare<br />
significativi punti di convergenza, come già è avvenuto in<br />
altri periodi <strong>della</strong> storia di Rifondazione comunista, sulla<br />
gestione del partito e sulla sua proposta politica.<br />
Il punto è se si ritiene Rifondazione comunista <strong>il</strong> partito<br />
nel quale si opera per cercare di migliorarlo o se si è con-<br />
5
6<br />
vinti che ormai non ci sia più nulla da fare e si pensa ad<br />
altro. Noi riteniamo che la battaglia sia aperta, l’esito non<br />
scontato e quindi l’iniziativa si deve sv<strong>il</strong>uppare dentro<br />
Rifondazione comunista. Il Prc è <strong>il</strong> luogo nel quale lavorare<br />
per cercare di costruire una forza politica con basi di<br />
massa e che si batte per una alternativa al capitalismo. Un<br />
corpo – quello del Prc – in trasformazione e trasformab<strong>il</strong>e<br />
su cui abbiamo influito in passato e possiamo influire<br />
oggi. Rifondazione comunista mantiene delle ambiguità<br />
feconde. In primo luogo perché tra i suoi obiettivi resta<br />
quello del superamento del capitalismo e in secondo<br />
luogo perché non ha rinunciato all’autonomia dai governi,<br />
anche se l’attuale esperienza con Prodi sta mettendo<br />
questa sua peculiarità a dura prova.<br />
Cosa manca al Prc? Tante cose, ma se dovessi fare una<br />
scala di priorità ne metterei una davanti a tutte. La presenza<br />
nella classe, <strong>il</strong> radicamento nel mondo del lavoro,<br />
l’assunzione dei problemi dei lavoratori come la bussola<br />
principale su cui orientare l’azione del partito. Dobbiamo<br />
ricostruire una presenza nel sindacato e nelle fabbriche.<br />
Perché <strong>il</strong> sindacato e le fabbriche ci sono ancora:<br />
siamo noi che non ce ne occupiamo più. Non sappiamo<br />
più nemmeno dove siano, salvo poi andarci prima delle<br />
elezioni e stupirci del disinteresse e <strong>della</strong> freddezza con<br />
cui veniamo accolti, come è avvenuto alla Fiat. Sapendo<br />
che una fabbrica è la Fiat, ma lo è anche un call center o<br />
un grande supermercato. Così come dobbiamo tenere<br />
presente che i migranti e i precari sono soggetti fondamentali<br />
su cui investire la nostra attività poiché su di loro<br />
è più intenso lo sfruttamento capitalistico.<br />
In questo contesto è strategica la tenuta <strong>della</strong> Fiom, perché<br />
è <strong>il</strong> sindacato che non ha rinunciato al conflitto e sappiamo<br />
che senza conflitto nessun progetto di trasformazione<br />
è ipotizzab<strong>il</strong>e. Ed è chiaro che, se sono importanti e<br />
vanno mantenuti i rapporti con i sindacati di base, noi<br />
dobbiamo lavorare prioritariamente sulla Cg<strong>il</strong>. Essa resta<br />
<strong>il</strong> sindacato nel quale si riconosce la stragrande maggioranza<br />
dei lavoratori e al suo interno è attiva una importante<br />
componente di sinistra. Il nostro partito deve avere<br />
l’ambizione di diventare <strong>il</strong> principale riferimento del<br />
mondo del lavoro e anche <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>. Su questo noi dobbiamo<br />
lavorare. Fare politica nella classe, costruirvi punti<br />
di riferimento, farli avanzare nell’area e nel partito.<br />
Anche altri sono i temi su cui lavorare per cambiare Rifondazione,<br />
ma ciò possiamo farlo con credib<strong>il</strong>ità se viviamo<br />
<strong>il</strong> rapporto con <strong>il</strong> partito come una cosa che ci appartiene,<br />
alle cui sorti siamo interessati e al quale diamo<br />
<strong>il</strong> nostro contributo.<br />
Io penso che la nostra area debba essere attaccata come<br />
un’edera al partito, entrare in tutte le sue pieghe, saper<br />
cambiare quando la situazione cambia. C’è <strong>il</strong> momento del<br />
contrasto. Abbiamo dimostrato di non sottrarci quando<br />
sono in gioco forti convincimenti e per questo, non per<br />
altro, siamo stati cacciati dalla Segreteria nazionale. Ma<br />
c’è anche <strong>il</strong> momento in cui se si apre uno spiraglio devi<br />
saperlo cogliere e modificare <strong>il</strong> tuo atteggiamento.<br />
Sì alla confederazione. No al superamento di Rifondazione<br />
comunista<br />
Ma se è sbagliata la posizione di chi dice che bisogna prepararsi<br />
per fare qualcosa a sinistra del Prc, altrettanto<br />
sbagliata è la tesi di chi propone di sciogliere Rifondazione<br />
comunista in un soggetto unico <strong>della</strong> sinistra.<br />
Sgombriamo subito <strong>il</strong> campo da una questione: noi siamo<br />
per l’unità, l’unità dei lavoratori, l’unità <strong>della</strong> sinistra,<br />
l’unità delle forze democratiche.<br />
Noi siamo sempre stati per l’unità, ma ciò che ci propongono<br />
– esplicitamente o meno esplicitamente – alcuni<br />
compagni di Rifondazione o di Sinistra democratica non è<br />
una proposta unitaria, ma lo scioglimento del partito in<br />
un soggetto genericamente di sinistra. Noi siamo contrari<br />
a questo progetto. Siamo per l’unità <strong>della</strong> sinistra, ma ci<br />
opponiamo al superamento di Rifondazione comunista.<br />
Tra l’altro, come si vede in questi giorni, tra noi e questi<br />
compagni con cui dovremmo fare un unico partito, emergono<br />
giudizi assai diversi su questioni r<strong>il</strong>evanti come l’accordo<br />
sulle pensioni o <strong>il</strong> protocollo sul welfare.
D’altra parte se in tutti questi anni con <strong>il</strong> compagno<br />
Mussi – dalla Bolognina alla concertazione, dalle leggi<br />
maggioritarie alla guerra in Kosovo – ci siamo trovati su<br />
posizioni diverse, ciò non è avvenuto per caso.<br />
Nonostante ciò lo sforzo unitario va perseguito. Stiamo<br />
parlando delle forze politiche a noi più vicine e dobbiamo<br />
pazientemente ricercare i contenuti su cui convergere, sapendo<br />
che abbiamo tanti punti in comune, ma anche differenze<br />
significative che non ci consentono di ipotizzare<br />
un unico partito. Le divergenze si addensano in particolare<br />
su due questioni, entrambe di carattere strategico.<br />
La prima: noi non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare<br />
alla Rifondazione comunista e non abbiamo nessuna<br />
intenzione di rinunciare ai nostri riferimenti internazionali.<br />
Non è un problema che riguarda <strong>il</strong> passato ma è<br />
un problema che guarda al futuro. Si tratta di capire se<br />
continuiamo a lavorare per costruire una forza politica <strong>il</strong><br />
cui orizzonte è <strong>il</strong> superamento del capitalismo e la costruzione<br />
<strong>della</strong> società socialista e che quindi opera per<br />
una trasformazione rivoluzionaria <strong>della</strong> società, oppure<br />
puntiamo a costruire una forza socialista di sinistra che<br />
lotta per correggere le ingiustizie più gravi del sistema in<br />
un meccanismo di alternanza. Sono due progetti molto<br />
diversi. Infatti – e qui è <strong>il</strong> secondo punto di divergenza<br />
strategica – <strong>il</strong> rapporto con <strong>il</strong> governo per questi compagni<br />
è un dato che non può essere messo in discussione,<br />
per noi non è così. Dipende dai contenuti e dalla misura<br />
in cui la nostra presenza è ut<strong>il</strong>e o meno a tenere aperta la<br />
costruzione dell’alternativa.<br />
La nostra proposta quindi è molto semplice: unità a sinistra<br />
e rafforzamento del Prc. Lavoriamo per costruire<br />
l’unità <strong>della</strong> sinistra nel Parlamento e nel paese sui contenuti,<br />
ma contemporaneamente lavoriamo per rafforzare<br />
<strong>il</strong> partito <strong>della</strong> Rifondazione comunista. Siamo disponib<strong>il</strong>i<br />
a tutte le formule organizzative che aiutino questo<br />
tipo di unità, come la confederazione, i coordinamenti<br />
dei gruppi istituzionali, le case <strong>della</strong> sinistra. Ma siamo<br />
contrari alla costruzione di gruppi unici, liste uniche alle<br />
elezioni politiche, partiti unici.<br />
In questi mesi su questo punto si è aperta una dialettica<br />
nella maggioranza del partito tra chi, come noi, pur in un<br />
processo unitario vuole mantenere l’autonomia di Rifondazione<br />
e chi concepisce <strong>il</strong> processo unitario come un<br />
percorso che alla fine prevede la costruzione di un nuovo<br />
partito politico che non sarebbe più un partito comunista.<br />
Quest’ultima posizione è stata contrastata da noi,<br />
dall’esito <strong>della</strong> Conferenza di Carrara, dal segretario nazionale<br />
e <strong>della</strong> maggioranza del gruppo dirigente. Successivamente,<br />
di fronte alla reazione del partito e ai fatti<br />
politici che andavano in un’altra direzione, chi nel parti-<br />
EDITORIALE<br />
to aveva proposto un suo superamento ha fatto un passo<br />
indietro. Ciò è avvenuto nella riunione <strong>della</strong> maggioranza<br />
a Segni e nel comitato politico nazionale di luglio 5 .<br />
Le questioni però potrebbero riproporsi e noi dobbiamo<br />
intervenire in questa dialettica che è una dialettica vera.<br />
In questo nuovo contesto dobbiamo continuare <strong>il</strong> nostro<br />
lavoro di area nel partito e impegnarci fin da subito perché<br />
si vada a un congresso che sia in continuità con lo<br />
spirito di Carrara e non con quello di Venezia. Un congresso<br />
che possa essere di confronto vero e non di contrapposizione<br />
a priori. <br />
* Stralci <strong>della</strong> relazione di Claudio Grassi all’assemblea nazionale di<br />
<strong>Essere</strong> <strong>Comunisti</strong>, Gubbio, 2 settembre 2007. La versione integrale è<br />
consultab<strong>il</strong>e all’indirizzo: www.esserecomunisti.it/index.aspx?m -<br />
=77&f=2&IDArticolo=18164.<br />
1. Curzio Maltese, «<strong>il</strong> Venerdì di Repubblica», 24 agosto 2007 (qui è<br />
possib<strong>il</strong>e leggere l’articolo integrale: www.esserecomunisti.it/index. -<br />
aspx?m=77&f=get_f<strong>il</strong>earticolo&IDArticolo=17798).<br />
2. È interessante r<strong>il</strong>eggere alcuni materiali del congresso scorso, come<br />
<strong>il</strong> documento <strong>della</strong> prima mozione<br />
(www.rifondazione.it/vi/documenti/mozione1.html), <strong>il</strong> nostro documento<br />
(www.esserecomunisti.it/in -<br />
dex.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=3387) e l’intervento di Claudio Grassi<br />
di presentazione <strong>della</strong> mozione al Centro Congressi Frentani di Roma <strong>il</strong><br />
27 novembre 2004 (www.esserecomunisti.it/ index. aspx?m=77&f= -<br />
2&IDArticolo=3401).<br />
3. La delusione dei più deboli, «Corriere <strong>della</strong> Sera», 26 agosto 2007.<br />
4. A quest’indirizzo è possib<strong>il</strong>e consultare <strong>il</strong> documento conclusivo<br />
<strong>della</strong> conferenza di Carrara: www.esserecomunisti.it/index.aspx?m -<br />
=77&f=2&IDArticolo=14869. Qui, invece, è possib<strong>il</strong>e leggere l’intervento<br />
di Claudio Grassi a Carrara: www.esserecomunisti.it/index.aspx?m -<br />
=77&f=2&IDArticolo=14871.<br />
5. Riportiamo per completezza anche <strong>il</strong> documento conclusivo del Cpn<br />
del 14 e 15 luglio (www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f= -<br />
get_f<strong>il</strong>earticolo&IDArticolo=17037) e la dichiarazione di voto di Claudio<br />
Grassi (www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArtico -<br />
7
8<br />
non cerchiamo scorciatoie<br />
AURELIO CRIPPA*<br />
In un clima di «crisi» <strong>della</strong> politica e di speculazione<br />
<strong>della</strong> (e sulla) medesima, dove una diffusa egemonia<br />
culturale che riduce la politica a pratica di governo,<br />
ad amministrazione, ad «affare interno» a oligarchie di<br />
partito e <strong>il</strong> rapporto con i cittadini a intrattenimento mediatico<br />
affidato ai talk show televisivi, la storia e le ragioni<br />
<strong>della</strong> sinistra rischiano di essere messi ai margini, <strong>il</strong><br />
conflitto sociale di esser considerato una patologia da<br />
estirpare, <strong>il</strong> mondo del lavoro di scomparire dalla scena<br />
politica. Nella regressione generalizzata dei diritti e delle<br />
garanzie di lavoro, <strong>il</strong> capitalismo torna ad assumere sembianze<br />
ottocentesche. Un nuovo proletariato abita l’Italia<br />
e l’Europa: le/i precarie/i.<br />
La precarietà introdotta per via legislativa include un numero<br />
di persone triplo rispetto a quello del resto d’Europa,<br />
a cui si aggiunge <strong>il</strong> lavoro nero (per l’Istat circa 4 m<strong>il</strong>ioni<br />
di disposizioni lavorative), quello dei collaboratori,<br />
dei circa 4 m<strong>il</strong>ioni di partite IVA, di cui una gran parte<br />
monocommittenti (quindi in una condizione di dipendenza<br />
economica). Non semplicemente uno spostamento<br />
a destra del quadro politico, ma un oscuramento delle<br />
idee-forza <strong>della</strong> sinistra, indotto dal progressivo smantellamento<br />
di un intero impianto concettuale e da un pesante<br />
sfondamento ideologico (tramonto delle ideologie,<br />
con l’affermazione dell’unica ideologia imperante, quella<br />
del cosiddetto «pensiero unico»), dal revisionismo<br />
storico, dalla demolizione scientifica e sistematica dei<br />
valori: al posto <strong>della</strong> solidarietà la competizione, al posto<br />
dell’uguaglianza la meritocrazia. E le responsab<strong>il</strong>ità non<br />
vanno individuate solo a destra.<br />
Dietro la formula «semplificare la democrazia» (per semplificare<br />
occorre ridurre, dice <strong>il</strong> vocabolario) una parte significativa<br />
di «ceto» politico, intellettuale, mediatico –<br />
che ritiene l’eccesso di democrazia e di complessità socia-<br />
le un ostacolo per la governab<strong>il</strong>ità – opera per meccanismi<br />
elettorali che riducano la rappresentanza a pochi e si basino<br />
sulla personalizzazione (si veda l’euforia per le primarie):<br />
come se i cittadini contassero di più, perché possono<br />
votare una persona anziché un programma.<br />
Così è oggi in atto un «lavorio» (a destra, al centro, a sinistra)<br />
sulla ricerca di nuove prospettive e alleanze. Preminente<br />
<strong>il</strong> suo carattere politicista e – ognuno a suo<br />
modo – evidente la volontà di seppellire <strong>il</strong> «partito di<br />
massa» e tutto quello che esso rappresenta: rapporto con<br />
la gente, partecipazione per far avanzare la politica. Lavorio<br />
politicista, manifesto nella ricerca di nuovi interpreti<br />
<strong>della</strong> politica, per esercitare leaderships pervicacemente<br />
personalizzate e di vertice. Ma anche, a suo modo,<br />
nell’«oltre Rifondazione»: per fare in fretta un nuovo<br />
soggetto unico di sinistra, a fronte <strong>della</strong> formazione del<br />
Partito democratico e in seguito a risultati elettorali negativi<br />
(una sommatoria per «stato di necessità»). Nella<br />
sua precipitazione organizzativistica (chissà perché la<br />
fine conclamata di un’esperienza dovrebbe accelerare un<br />
processo unitario) sta <strong>il</strong> suo politicismo, speculare a<br />
quello dei fondatori del Pd. Si vuole competere, in una<br />
visione che appare tutta governista. Vedo riecheggiare<br />
l’«oltre Pci» e ciò che prese avvio allora.<br />
Confermo la mia ost<strong>il</strong>ità di sempre all’idea che alle difficoltà<br />
si risponda con proposte politiciste. Ma a scanso di<br />
equivoci, chiarisco: andare «oltre» fa parte <strong>della</strong> ricerca<br />
di chi vuole migliorare, anche innovando; e quindi dell’essere<br />
e dell’agire delle/dei comuniste/i.<br />
* PRC-COMITATO POLITICO NAZIONALE
Il problema è non sbagliare meta: questo vedo nell’«oltre<br />
Rifondazione».<br />
Sarebbe bene che <strong>il</strong> Prc, la sinistra, prendessero coscienza<br />
che <strong>il</strong> vero problema che abbiamo di fronte è l’esaurimento<br />
di un lungo ciclo di cultura e impostazione politica,<br />
quello che ha trasformato la politica in pura tecnica di gestione<br />
del potere, separata dal sociale, priv<strong>il</strong>egiando decisionismo,<br />
verticalizzazione, concertazione, sacrificando<br />
ogni sede di rappresentanza e partecipazione.<br />
Non c’è bisogno di nessun «oltre» se con ciò si intende<br />
scioglimento, né di sommatorie per stato di necessità, né<br />
di perdite d’identità. C’è bisogno di un «fare» che recuperi<br />
<strong>il</strong> ruolo <strong>della</strong> politica rispetto all’economia, riconnetta<br />
a essa i temi sociali, riporti <strong>il</strong> baricentro <strong>della</strong> sua<br />
azione nella società, rioccupandosi dei suoi problemi, a<br />
partire dalle contraddizioni capitale-lavoro, all’interno<br />
delle quali ritroviamo questioni ambientali e di genere. I<br />
temi del lavoro salariato nelle vecchie e nuove forme.<br />
Un nuovo ciclo di cultura e impostazione politica che<br />
ponga fine alla mercificazione dei beni comuni, alla precarietà,<br />
alla privatizzazione delle risorse pubbliche che, nella<br />
gran parte dei casi, ha determinato un maggior costo per i<br />
cittadini, peggioramento di condizioni di lavoro, <strong>della</strong><br />
qualità dei servizi e dei prodotti. Un nuovo ciclo che riaffermi<br />
<strong>il</strong> valore delle lotte alle disuguaglianze, all’esclusione<br />
sociale, a vecchie e nuove povertà; avvii una redistribuzione<br />
del reddito verso <strong>il</strong> basso (negli ultimi 20 anni, la ricchezza<br />
si è spostata in modo massiccio – 10 punti – dal<br />
lavoro alla rendita), conduca con forza e sistematicità una<br />
lotta agli sprechi, all’evasione fiscale (ci sono tasse da abbassare,<br />
a partire da quelle sul lavoro, e tasse da aumentare:<br />
quella sulla rendita, con franchigia per tutelare i piccoli<br />
risparmiatori). Occorre riconquistare <strong>il</strong> ruolo programmatorio<br />
dello Stato, in un ridisegno <strong>della</strong> una struttura<br />
produttiva che tenga conto del fatto che, per quanto <strong>il</strong><br />
perno dell’industria si sia ridotto, essa continua a essere <strong>il</strong><br />
motore delle economie più avanzate (sv<strong>il</strong>uppo delle forze<br />
produttive per <strong>il</strong> soddisfacimento dei bisogni).<br />
Vanno riproposte l’idea e la pratica <strong>della</strong> pace, del disarmo,<br />
<strong>della</strong> cooperazione fra i popoli; <strong>della</strong> laicità, proteggendola<br />
da incursioni di fondamentalismi che usano la<br />
religione come clava per veicolare discriminazioni, conflitti,<br />
guerre, presunte superiorità culturali.<br />
Resistere è d’obbligo, ma non basta. Non è ipotizzab<strong>il</strong>e<br />
per noi comuniste/i annullare l’idea e la speranza di<br />
cambiamento e trasformazione <strong>della</strong> società. Dobbiamo<br />
avere capacità e forza per riproporre in maniera più vasta<br />
l’idea gramsciana di «egemonia», attraverso un’azione<br />
politica e sociale che si riproponga come momento di<br />
riorganizzazione <strong>della</strong> democrazia partecipata, coinvol-<br />
EDITORIALE<br />
gendo nella ricerca, con pari dignità, tutte/i coloro che<br />
sono disponib<strong>il</strong>i a ridefinire un pensiero critico.<br />
Sul «che fare» – ma anche su ciò che siamo, vogliamo e<br />
possiamo diventare – è opportuno promuovere una<br />
grande campagna di massa, evitando <strong>il</strong> pericolo (oggi<br />
presente), che anche <strong>il</strong> giusto progetto dell’unità a sinistra<br />
si riduca a un fatto verticistico.<br />
È indubitab<strong>il</strong>e (sarei meravigliato del contrario) che nel<br />
popolo di sinistra vi sia una richiesta di unità, che va<br />
ascoltata e accolta. Ma reputo forzata l’interpretazione, la<br />
tesi, che questa sia un avallo a un’operazione che cancelli<br />
l’identità dei singoli Partiti: e con essa tradizioni, culture<br />
politiche ancor oggi differenti. Nella società contemporanea<br />
siamo in presenza di una pluralità di soggettività<br />
politiche (costituitesi anche su parzialità), che<br />
sarebbe un azzardo pensare di voler ridurre «a uno». Un<br />
conto è la necessità di un’alleanza, di una coalizione elettorale,<br />
un altro voler appiattire l’identità di tutte/i. In<br />
questa seconda modalità la politica non appassiona, perché<br />
non è azione di trasformazione ma solo raccolta di<br />
«consenso»; e, certamente, così non si recupera la spoliticizzazione<br />
intervenuta in questi anni, <strong>il</strong> profondo disagio<br />
del popolo di sinistra e del paese.<br />
La presente richiesta di unità parte dai contenuti e ci chiede<br />
di unire le forze, a livello parlamentare e nel paese, per<br />
contrastare, cambiare una politica economica e sociale non<br />
corrispondente alle aspettative, dando così vita a un’azione<br />
che possa esser guardata come una «forza» in grado di incidere<br />
in direzione degli interessi popolari, attraverso concreti<br />
processi di cambiamento. Quindi unità d’azione e<br />
contestualmente <strong>il</strong> «fare» per <strong>il</strong> processo unitario a sinistra:<br />
per una soggettività che, per essere unitaria al plurale,<br />
deve avere necessariamente connotati confederali. Una<br />
soggettività nella quale, oggi, convivono, cooperano e si<br />
confrontano esperienze e paradigmi diversi.<br />
Il Prc sia motore autentico di questo processo, mettendo,<br />
al pari di altri e con pari dignità, a disposizione di esso i<br />
propri valori identitari.<br />
Avverto oggi come ieri (all’atto <strong>della</strong> nascita del Prc) la<br />
necessità, l’attualità dell’esigenza che permanga e anzi si<br />
sv<strong>il</strong>uppi una forza politica organizzata, autonoma, comunista,<br />
che leghi alle battaglie politiche dell’immediato un<br />
progetto di trasformazione <strong>della</strong> società capitalistica. Si<br />
tratta non soltanto di un’enunciazione ideologica ma di<br />
una constatazione politica degli eventi: tanto da riportare<br />
nella sinistra, al centro <strong>della</strong> scena politica, la questione<br />
del socialismo.<br />
Per questo, va rapidamente sconfitto <strong>il</strong> tentativo in atto di<br />
mettere in soffitta i deliberati <strong>della</strong> Conferenza d’organizzazione,<br />
<strong>il</strong> progetto del «partito che si fa società»,<br />
9
10<br />
l’alter ego del partito altro, di massa, degli anni Novanta.<br />
La coraggiosa e giusta autocritica sui fallimenti del V°<br />
Congresso – autoriforma – e del VI Congresso – investimento<br />
sul governo, come passaggio strategico per l’alternativa<br />
di società – ha aperto una fase nuova nella vita interna<br />
del partito, favorita anche dalla diffusa consapevolezza<br />
che una sommatoria di parti separate (correnti) non<br />
forma un’organizzazione.<br />
Per affermare questa nuova fase e nel contempo essere<br />
protagonisti delle vicende politiche e del processo di<br />
unità d’azione a sinistra, occorrono scelte urgenti: in primis,<br />
procedere al recupero dell’insediamento e del radicamento<br />
del partito, <strong>il</strong> quale deve essere ancorato saldamente<br />
alla società, ai luoghi del conflitto, organizzato nei<br />
luoghi di lavoro e di studio, nei territori, presente nelle<br />
organizzazioni/associazioni di massa, sindacali, culturali,<br />
di categoria, nei movimenti.<br />
I Circoli devono essere riconcepiti non come terminali di<br />
un apparato burocratico, ma come luoghi dove si esercita<br />
<strong>il</strong> «saper fare», la capacità di entrare in rapporto con<br />
tutti i soggetti <strong>della</strong> società, i movimenti, per realizzare<br />
una forma più alta <strong>della</strong> politica, non separata dai contenuti,<br />
dalla partecipazione democratica e non delegata.<br />
L’esigenza è più partito, non meno partito. Con un agire<br />
che non sia né la pura cancellazione del passato, né <strong>il</strong> suo<br />
culto nostalgico.<br />
Nessun rigurgito di atteggiamenti settari, ma l’idea del<br />
partito come strumento di identità e di autonomia politico-culturale,<br />
così come è nell’elaborazione di Gramsci. A<br />
fondamento, i valori <strong>della</strong> democrazia e del pluralismo, da<br />
esplicarsi entro un sistema di norme chiare, trasparenti,<br />
condivise: le differenti opinioni sono un arricchimento<br />
per tutte/i se non si sclerotizzano in correnti. Poiché, in<br />
tal caso, la democrazia pluralista finisce per priv<strong>il</strong>egiare la<br />
dialettica e <strong>il</strong> confronto «di vertice», anziché coinvolgere<br />
l’insieme del partito. La vita interna deve essere strutturata<br />
in modo da garantire a tutte le differenze piena cittadinanza,<br />
agib<strong>il</strong>ità, libertà di esprimersi, possib<strong>il</strong>ità di<br />
contare. Deve essere riconosciuta l’esistenza di due soggetti<br />
– uomini e donne – e le loro tematiche, <strong>il</strong> loro pensiero<br />
e protagonismo, devono contare realmente. Va ricostruita<br />
l’organizzazione dei Giovani comunisti, garantendo<br />
loro gli spazi politici che competono alla loro specifica<br />
condizione, alle tematiche <strong>della</strong> loro realtà. La caratteristica<br />
di massa sta nel modo di essere e di agire nella politica,<br />
oltre che nel numero di iscritte/i, nel saper dare<br />
ampio spazio alle relazioni con l’insieme <strong>della</strong> società.<br />
In un’ansia di «modernizzazione» ma anche di nuova legittimazione<br />
«occidentale», <strong>il</strong> marxismo è stato derubricato<br />
alla condizione di «dottrina obsoleta», anche da<br />
parte dell’intellettualità di sinistra. La realtà parla d’altro:<br />
<strong>il</strong> marxismo di Marx, la sua elaborazione teorico-politica<br />
costituisce <strong>il</strong> punto più alto <strong>della</strong> critica all’economia<br />
capitalistica. Le difficoltà con cui misurarsi sono<br />
tante e non dobbiamo nascondercele: con tutto ciò, vale<br />
la pena di provarci. Non ci sono scorciatoie, però: e<br />
l’esperienza storica (vedi i fallimenti delle varie «nuove<br />
sinistre») sta lì a dimostrarlo.
MASSIMO DE SANTI*<br />
Tutte le basi<br />
disseminate sul territorio<br />
italiano sono state<br />
installate tramite accordi<br />
segreti stipulati tra Italia<br />
e Usa, con grave<br />
limitazione <strong>della</strong> nostra<br />
sovranità territoriale e<br />
politica. Su questi temi è<br />
cresciuta una sensib<strong>il</strong>ità<br />
politica di massa. La<br />
manifestazione vicentina<br />
del 17 febbraio non è stata<br />
solo la classica<br />
manifestazione contro la<br />
guerra; è stata una<br />
manifestazione per la Pace<br />
Preventiva Contro la<br />
Guerra Infinita di Bush e<br />
dei suoi alleati<br />
* MEMBRO DEL PATTO NAZIONALE DI<br />
SOLIDARIETÀ E MUTUO SOCCORSO<br />
Il quadro politico internazionale<br />
PACE E GUERRA<br />
guerra permanente e basi m<strong>il</strong>itari<br />
due facce di una stessa medaglia<br />
Con la fine <strong>della</strong> «guerra fredda» e l’instaurarsi di un nuovo mondo unipolare<br />
a dominio Usa, <strong>il</strong> quadro politico internazionale è diventato sempre<br />
più complesso, minaccioso e insicuro per la maggioranza dell’umanità. Si<br />
è imposta, infatti, la nuova f<strong>il</strong>osofia <strong>della</strong> guerra preventiva che ha moltiplicato i<br />
conflitti armati, con la conseguente ripresa di una vertiginosa corsa agli armamenti<br />
convenzionali, accompagnata dalla costruzione e sperimentazione di armi<br />
sempre più raffinate nella loro tecnologia di morte. Ancora una volta, di fronte<br />
alla crisi economica mondiale, l’Occidente risponde su due livelli: m<strong>il</strong>itare e mediatico.<br />
Prima inventa un presunto conflitto di civ<strong>il</strong>tà e poi attiva tutti i pretesti<br />
per promuovere la guerra a livello planetario, in primo luogo contro quei paesi<br />
che sono ricchi di materie prime, come <strong>il</strong> petrolio e <strong>il</strong> gas naturale, oppure di quel<br />
prezioso bene comune che si chiama acqua. Non è affatto azzardato affermare<br />
che è in corso la terza guerra mondiale, iniziata nel 1991 con la Prima guerra del<br />
Golfo: anche se i politologi di regime non lo hanno mai ammesso. Eppure si<br />
erano già levate prestigiose voci che cercavano di aprirci gli occhi sugli scenari<br />
mondiali che si stavano prof<strong>il</strong>ando. Noam Chomsky ha sin dall’inizio espresso<br />
una valutazione lapidaria: la guerra globale di Bush divorerà <strong>il</strong> pianeta. Lo<br />
stesso Ramsey Clark, giurista americano ed ex ministro <strong>della</strong> Giustizia all’epoca<br />
di Carter – oltre che promotore e Presidente del Tribunale Contro i<br />
Crimini di Guerra commessi dagli Stati Uniti in Iraq – ebbe a dire nel 1992<br />
che l’imperialismo americano, imponendo gli Usa come unica potenza economico-m<strong>il</strong>itare<br />
al governo del mondo, aveva inaugurato l’era dell’unipolarismo.<br />
Nel 1991, durante la prima fase del mondo unipolare, gli Usa aspiravano ancora<br />
a salvarsi la faccia di fronte all’opinione pubblica mondiale e, per legittimare<br />
la guerra, fecero entrare in gioco l’Onu, corrompendo vari paesi col<br />
ricatto del debito estero. Oggi, invece, in quella che possiamo chiamare la<br />
seconda fase dell’unipolarismo americano, l’Onu viene sistematicamente<br />
scavalcata e chiamata solo a legittimare a posteriori l’accaduto. Il diritto internazionale,<br />
prima violato attraverso l’artifizio di una interpretazione pro<br />
domo americana, ora è violato direttamente e a ripetizione col tipico modo<br />
sprezzante di chi non teme alcuna ritorsione. E la guerra viene «santificata»<br />
grazie al monopolio dei potenti apparati mediatici f<strong>il</strong>o-occidentali. La guerra<br />
planetaria in corso, è sfuggita alla gestione delle stesse potenti lobbies internazionali<br />
che l’hanno scatenata e che ora hanno difficoltà a contenerla o<br />
fermarla. La situazione è fuori controllo: si veda l’Iraq dove gli Usa sono impantanati<br />
in un conflitto armato, che di fatto hanno perso sia sul piano politico<br />
che su quello m<strong>il</strong>itare. La stessa cosa vale per l’Afghanistan: là dove<br />
c’era la convinzione euforica <strong>della</strong> vittoria, la guerra si ripresenta invece su<br />
vasta scala sotto la sorprendente direzione dei talebani che erano dati per<br />
scomparsi e sconfitti.<br />
11
12<br />
Ma d’altra parte solo gli arroganti<br />
Stati Uniti d’America, accecati dalla<br />
megalomania dell’invincib<strong>il</strong>ità, potevano<br />
pensare, ancora una volta, che<br />
i popoli rimanessero passivi di fronte<br />
alla tragedia di una folle guerra di<br />
sterminio. La ribellione all’ingiustizia<br />
è <strong>il</strong> risultato di una precisa dinamica<br />
di eventi che genera, in chi subisce<br />
continue sopraffazioni, un incontenib<strong>il</strong>e<br />
desiderio di riscatto <strong>della</strong> propria<br />
identità, in nome del diritto di ognuno<br />
a una vita dignitosa. Al livello dei<br />
popoli, tale istanza è giustamente<br />
sancita e ribadita nel Preambolo <strong>della</strong><br />
Dichiarazione Universale dei Diritti<br />
dell’Uomo (Onu 1948), al terzo<br />
comma, e passa sotto <strong>il</strong> nome di «diritto<br />
alla ribellione». Pertanto, in Afghanistan,<br />
in Iraq o in qualsiasi altro<br />
luogo del pianeta vittima di una oppressione,<br />
la presenza di una resistenza<br />
organizzata è inevitab<strong>il</strong>e.<br />
L’unipolarismo di oggi a guida Usa<br />
ha trasformato la guerra in una<br />
sorta di normalità giustificata da finalità<br />
etiche, essendo ut<strong>il</strong>izzata<br />
come <strong>il</strong> miglior mezzo di prevenzione<br />
di tutti i mali dell’umanità. Ne<br />
consegue che l’economia, la scienza,<br />
la tecnologia, l’informazione e le<br />
stesse relazioni internazionali vengono<br />
ut<strong>il</strong>izzate per massimizzare la<br />
capacità distruttiva di un apparato<br />
politico-m<strong>il</strong>itare sempre più potente,<br />
che vuole governare <strong>il</strong> pianeta in<br />
ogni sua dimensione e in ogni suo<br />
spazio territoriale. La Terza guerra<br />
mondiale, in corso per fasi, sta subendo<br />
ora un’accelerazione inaudita<br />
che non solo interessa le aree dei<br />
vecchi conflitti, come la regione me-<br />
Tra i primi firmatari del Patto Nazionale di<br />
Solidarietà e Mutuo Soccorso si ricordano oltre ai NO<br />
TAV, NO MOSE, NO PONTE, le Reti Contro i<br />
Rigassificatori e gli Inceneritori, i vari Comitati che<br />
lottano Contro le Basi M<strong>il</strong>itari e in particolare <strong>il</strong><br />
Comitato NO Dal Molin contro l’allargamento <strong>della</strong> base<br />
Usa di Vicenza<br />
diorientale d<strong>il</strong>aniata dalla drammatica<br />
questione palestinese, ma si<br />
estende anche a nuovi territori del<br />
pianeta, soprattutto in Africa. È in<br />
questo quadro che la Russia di Putin<br />
ha recentemente denunciato <strong>il</strong> sistema<br />
antimiss<strong>il</strong>e che gli Usa vogliono<br />
installare in Polonia e nella Repubblica<br />
Ceca, ammonendo che <strong>il</strong> cosiddetto<br />
scudo spaziale è una provocatoria<br />
operazione bellica contro la<br />
Russia e <strong>il</strong> mondo intero e rappresenta<br />
un pericolo per la pace e la distensione<br />
internazionale. La risposta<br />
russa allo scudo spaziale consiste<br />
nella minaccia di puntare i miss<strong>il</strong>i a<br />
testata nucleare verso l’Europa, se <strong>il</strong><br />
progetto Usa dovesse andare avanti.<br />
Prima che sia troppo tardi, prima di<br />
entrare nella fase del non ritorno, la<br />
politica deve intervenire urgentemente<br />
per cambiare rotta e bloccare<br />
questa logica autodistruttiva. Occorre<br />
riprendere <strong>il</strong> cammino concreto<br />
del disarmo nucleare e dell’eliminazione<br />
degli arsenali m<strong>il</strong>itari nucleari<br />
e di qualsiasi altro tipo di armi di distruzione<br />
di massa (chimiche, batteriologiche<br />
ecc.).<br />
Il movimento contro la guerra e <strong>il</strong><br />
ruolo delle basi m<strong>il</strong>itari straniere<br />
in Italia<br />
In questo quadro, dobbiamo affrontare<br />
la questione del ruolo delle basi<br />
m<strong>il</strong>itari straniere in territorio italiano,<br />
che <strong>il</strong> movimento contro la<br />
guerra indica come prioritaria e urgente<br />
ma che purtroppo ancora non<br />
è entrata come tema centrale nell’agenda<br />
politica. Riconvertire le<br />
basi m<strong>il</strong>itari straniere a usi civ<strong>il</strong>i non<br />
solo è un obbligo etico verso l’umanità,<br />
ma anche un obbligo sociale e<br />
economico in una situazione di crisi<br />
del nostro paese. Lo stesso discorso<br />
vale per la riduzione progressiva<br />
delle spese m<strong>il</strong>itari dei nostri soldati<br />
all’estero: non si può continuare a<br />
tagliare le spese sociali, per poi aumentare<br />
scandalosamente quelle<br />
m<strong>il</strong>itari del 13% – 15% come è avvenuto<br />
recentemente.<br />
L’Italia è <strong>il</strong> paese europeo che ha <strong>il</strong><br />
maggior numero di basi: se ne calcolano<br />
circa 180. Esse di fatto sono<br />
funzionali al ruolo degli Usa come<br />
gendarme planetario, soprattutto rispetto<br />
ai paesi del Medio Oriente.<br />
Ma, da questo punto di vista, dobbiamo<br />
includere nel conto i sottomarini<br />
nucleari che transitano nei<br />
nostri mari senza piani di sicurezza<br />
in caso di incidente e <strong>il</strong> cui computo<br />
è fuori da qualsiasi trattato internazionale.<br />
La vicenda collegata alla richiesta<br />
Usa dell’allargamento-raddoppio<br />
<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare Dal Molin<br />
a Vicenza è stata un ulteriore banco<br />
di prova <strong>della</strong> nostra politica. Prodi<br />
e <strong>il</strong> ministro degli Esteri, incapaci di<br />
ascoltare le ragioni <strong>della</strong> grande manifestazione<br />
del 17 febbraio 2007,<br />
non hanno saputo far tesoro <strong>della</strong><br />
splendida lezione di democrazia testimoniata<br />
dai manifestanti e non<br />
hanno voluto tradurre le istanze del<br />
popolo pacifista in azioni politiche<br />
concrete. A seguito di questa insufficienza<br />
politica, <strong>il</strong> conflitto nel<br />
paese è destinato ad allargarsi a<br />
tutta la questione delle basi m<strong>il</strong>itari<br />
straniere, Usa e Nato, presenti in<br />
Italia. Si pensi ad Aviano, con le sue
50 testate nucleari; o a Camp Darby (Livorno/Pisa), la<br />
base m<strong>il</strong>itare logistica Usa più grande d’Europa, con lo<br />
stoccaggio non solo di armi convenzionali ma anche di<br />
armi di distruzione di massa. Tutte le basi disseminate<br />
sul territorio italiano sono state installate tramite accordi<br />
segreti stipulati tra Italia e Usa, con grave limitazione<br />
<strong>della</strong> nostra sovranità territoriale e politica.<br />
Su questi temi è cresciuta una sensib<strong>il</strong>ità politica di<br />
massa. La manifestazione vicentina del 17 febbraio non<br />
è stata solo la classica manifestazione contro la guerra;<br />
più specificatamente, essa è stata una manifestazione per<br />
la «Pace preventiva contro la guerra infinita di Bush e<br />
dei suoi alleati». La stessa grande manifestazione del 9<br />
giugno a Roma, che ha visto la partecipazione di 150<br />
m<strong>il</strong>a persone contro la presenza di Bush in Italia, è da<br />
considerarsi uno spartiacque tra chi pensa che è ancora<br />
ut<strong>il</strong>e rimanere sudditi <strong>della</strong> politica estera Usa e chi, invece,<br />
vuole liberarsi delle basi m<strong>il</strong>itari straniere Usa e<br />
Nato. In queste mob<strong>il</strong>itazioni un ruolo importante è<br />
stato svolto dal Patto nazionale di solidarietà e mutuo<br />
soccorso costituitosi <strong>il</strong> 14 luglio 2006, nella sala <strong>della</strong><br />
protomoteca del Campidoglio a Roma, a conclusione<br />
<strong>della</strong> carovana NO TAV Venaus-Roma, a cui avevano<br />
aderito comitati, reti, movimenti, gruppi che si battono<br />
contro la logica delle «grandi opere». È la dimostrazione<br />
che la solidarietà paga e che la sovranità del nostro<br />
paese deve ritornare nelle mani del popolo. Come ci ricorda<br />
la partigiana Teresa Mattei, la più giovane parlamentare<br />
che partecipò ai lavori <strong>della</strong> Costituente, «l’essenza<br />
<strong>della</strong> sovranità è nella partecipazione». Tra i primi<br />
firmatari del Patto nazionale di solidarietà e mutuo soccorso<br />
si ricordano oltre ai NO TAV, NO MOSE, NO<br />
PONTE, le reti contro i rigassificatori e gli inceneritori, i<br />
vari comitati che lottano contro le basi m<strong>il</strong>itari e in particolare<br />
<strong>il</strong> comitato NO Dal Molin contro l’allargamento<br />
<strong>della</strong> base Usa di Vicenza.<br />
L’analisi del Patto di Mutuo Soccorso è chiara: l’Italia,<br />
disseminata di basi m<strong>il</strong>itari Usa e Nato, è di fatto una<br />
grande base logistica funzionale alla guerra preventiva e<br />
permanente, dettata dalla logica <strong>della</strong> globalizzazione<br />
economica che attiva <strong>il</strong> terrore su scala planetaria. Interpreti<br />
primi di questa f<strong>il</strong>osofia di morte sono gli Usa, ma<br />
PACE E GUERRA<br />
anche gli stati europei (e tra loro l’Italia), che affiancandosi<br />
a una sim<strong>il</strong>e politica di guerra rischiano di diventarne<br />
corresponsab<strong>il</strong>i. Nel nostro paese si verifica l’assurdo<br />
che, invece di riconvertire le attuali basi straniere a usi<br />
civ<strong>il</strong>i, come richiesto dal movimento pacifista, si accetta<br />
serv<strong>il</strong>mente <strong>il</strong> progetto Usa di ampliare le proprie basi in<br />
territorio italiano, come nel caso di Vicenza, magari per<br />
<strong>il</strong> prossimo annunciato attacco contro l’Iran, colpevole di<br />
voler sv<strong>il</strong>uppare l’uso pacifico dell’energia nucleare. Ciò<br />
è assurdo e contraddittorio. Si dice che l’Iran potrebbe<br />
costruire la bomba atomica. Ma gli Usa, che fanno questa<br />
accusa, hanno già arsenali pieni di armi di distruzione<br />
di massa, incluse bombe atomiche e al neutrone, capaci<br />
di distruggere più volte l’intero pianeta.<br />
Il variegato popolo pacifista che ha manifestato a Vicenza<br />
contro la base m<strong>il</strong>itare Usa e <strong>il</strong> 9 giugno a Roma contro<br />
la presenza di Bush – e che continuerà a manifestare<br />
in Italia contro le basi di Camp Darby, di Aviano e di<br />
tutte le altre località per la loro riconversione a usi civ<strong>il</strong>i<br />
– non è fatto di visionari, ma unicamente di uomini e<br />
donne coscienti <strong>della</strong> gravità <strong>della</strong> posta in gioco per <strong>il</strong><br />
presente e <strong>il</strong> futuro dei propri figli e dell’intera umanità.<br />
Nell’epoca del neoliberismo globalizzato le guerre sono<br />
diventate la norma per risolvere le controversie internazionali,<br />
l’industria bellica è <strong>il</strong> motore centrale dell’economia<br />
mondiale nonché la fonte primaria di inquinamento<br />
e di rapina delle risorse naturali. La stessa specie umana,<br />
così come denunciato a livello internazionale dagli scienziati<br />
del Bollettino scienziati atomici (Ong statunitense)<br />
è a rischio di estinzione: le lancette dell’orologio <strong>della</strong><br />
catastrofe si sono spostate in avanti di due minuti e <strong>il</strong><br />
quadrante simbolico <strong>della</strong> fine del mondo è passato da<br />
sette a cinque minuti prima <strong>della</strong> mezzanotte. Dal 17<br />
gennaio 2007 gli scienziati sostengono che l’ora zero<br />
<strong>della</strong> fine del mondo è più vicina. E <strong>il</strong> grande astrofisico<br />
Stephen Hawking ha affermato che i cambiamenti cli-<br />
13
14<br />
matici costituiscono una minaccia molto più grave del<br />
terrorismo, tanto enfatizzato dall’occidente.<br />
È dunque fondamentale dire un chiaro NO alle grandi<br />
opere inut<strong>il</strong>i, dannose e pericolose, a partire dalle basi<br />
m<strong>il</strong>itari, in quanto strumenti planetari di distruzione e di<br />
morte. Primario, per <strong>il</strong> Patto nazionale di mutuo soccorso,<br />
è <strong>il</strong> diritto alla preventiva informazione e partecipazione<br />
attiva dei cittadini alle scelte in merito a ogni intervento<br />
si voglia operare sui territori in cui essi vivono,<br />
condividendo <strong>il</strong> principio in base al quale i beni comuni<br />
(acqua, terra, aria, energia) devono essere tutelati, sempre<br />
e comunque, a partire dalle istituzioni locali. Il Governo<br />
in carica dovrebbe dar prova di maggiore saggezza,<br />
sospendendo l’autorizzazione agli Usa per l’ampliamento<br />
<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare Dal Molin, aprendo un Tavolo<br />
di confronto nazionale e coinvolgendo le associazioni e i<br />
movimenti, al fine di affrontare l’urgente questione <strong>della</strong><br />
presenza delle basi m<strong>il</strong>itari straniere nel nostro paese.<br />
Sarebbe, questa, una pratica di democrazia vera e auten-<br />
tica, che finalmente rinuncerebbe a trincerarsi formalmente<br />
dietro trattati internazionali, obsoleti e tenuti <strong>il</strong>legalmente<br />
segreti al nostro Parlamento.<br />
Un interrogativo di fondo è infatti sin qui rimasto senza<br />
risposta: perché la Nato deve sopravvivere, anche se sono<br />
venute a mancare le ragioni storiche e politiche <strong>della</strong> sua<br />
esistenza come alleanza m<strong>il</strong>itare difensiva decisa nel<br />
1949? Il muro di Berlino e <strong>il</strong> Patto di Varsavia non ci<br />
sono più. È sotto gli occhi di tutti la trasformazione <strong>della</strong><br />
Nato da patto difensivo ad alleanza m<strong>il</strong>itare «offensiva»<br />
secondo un’ottica di prevenzione, finalizzata a garantire<br />
all’Occidente la sicurezza delle fonti energetiche e a tutelare<br />
i suoi interessi economico-politici nonché <strong>il</strong> suo modello<br />
di democrazia. Tutto questo è stato decretato in un<br />
Summit del 1999 e si colloca totalmente al di fuori dell’art.<br />
5 dell’atto costitutivo del Patto Atlantico. Da sempre<br />
la Nato è stata p<strong>il</strong>otata dagli Usa, ma col nuovo ordine<br />
internazionale unipolare inaugurato dopo <strong>il</strong> 1989 ciò si è<br />
manifestato in modo eclatante. Non a caso, l’attuale Capo<br />
m<strong>il</strong>itare <strong>della</strong> Nato è un generale statunitense. Nei Balcani<br />
la Nato ha sostituito l’Onu, in Afghanistan ha scatenato<br />
la prima guerra preventiva, effettuando bombardamenti<br />
criminali e insediando basi m<strong>il</strong>itari che mirano direttamente<br />
a minacciare l’Iran. La Nato ha elaborato una<br />
nuova visione del concetto di «minaccia», che si è esteso<br />
a tal punto da includere i fondamentalismi e l’Aids; per<br />
questa via, si è arrivati ad autorizzare strutture di cooperazione<br />
umanitaria sotto <strong>il</strong> controllo m<strong>il</strong>itare Nato (PRT).<br />
Un tale ampliamento di nuove e arbitrarie sfere di intervento<br />
Nato dovrebbe imporre una seria riflessione sulla<br />
necessità di mantenere o meno <strong>il</strong> Patto Atlantico. Occorrerebbe<br />
anche interrogarsi sul perché l’Italia debba rimanere<br />
suddita <strong>della</strong> politica bellicista e neoimperiale Usa e<br />
sul perché l’Europa non riesca a elaborare in tempi rapidi<br />
una sua autonoma politica di difesa rispetto al modello<br />
americano.<br />
In definitiva, sulla questione delle basi m<strong>il</strong>itari straniere<br />
è in gioco la sovranità territoriale e politica dell’Italia<br />
dettata dalla Costituzione, la nostra stessa dignità nazionale<br />
e <strong>il</strong> nostro ruolo etico di paese di pace nel Mediterraneo<br />
e nel mondo. Secondo quanto recita l’articolo 11<br />
<strong>della</strong> nostra costituzione: «L’Italia ripudia la guerra».
VALDEMARO BALDI*<br />
Le basi m<strong>il</strong>itari<br />
americane oggi esistenti<br />
in Italia godono del<br />
diritto di<br />
extraterritorialità, <strong>il</strong> che<br />
significa che <strong>il</strong> territorio<br />
che occupano è sottratto<br />
alla giurisdizione<br />
italiana, in forza di un<br />
trattato di diritto<br />
internazionale col quale<br />
lo Stato italiano ha<br />
rinunciato alla propria<br />
sovranità sul territorio<br />
medesimo in favore degli<br />
Stati Uniti<br />
* PRC-COLLEGIO DI GARANZIA NAZIONALE<br />
PACE E GUERRA<br />
base m<strong>il</strong>itare a Vicenza<br />
la Costituzione è un optional<br />
La dottrina costituzionalistica più recente ha definito <strong>il</strong> territorio dello<br />
Stato come «<strong>il</strong> luogo <strong>della</strong> sovranità statale entro <strong>il</strong> quale lo Stato dispone<br />
dello jus excludendi alios» (cfr. Livio Paladin, Diritto Costituzionale,<br />
Padova 1998). Secondo questa dottrina l’esercizio del diritto di escludere gli<br />
altri viene assunto come criterio per l’individuazione del territorio di uno<br />
Stato per cui si può dire che <strong>il</strong> territorio statuale coincide con quello dove<br />
materialmente lo Stato esercita la propria sovranità. Deriva da ciò, per corollario,<br />
che <strong>il</strong> passaggio di sovranità da uno Stato all’altro sopra una porzione<br />
di territorio importa una variazione territoriale che può essere definitiva o<br />
temporanea a seconda dei casi.<br />
Le cause che determinano la variazione di sovranità, e quindi di territorio,<br />
sono di varia natura e vanno dall’occupazione violenta all’accordo pattizio.<br />
Entro questi estremi si trova una ampia casistica che non è qui <strong>il</strong> caso di<br />
esaminare. Vogliamo invece soffermarci sugli accordi pattizi, che si concretizzano<br />
in trattati internazionali, per i quali uno Stato cede a un altro Stato<br />
porzioni di territorio su cui lo stato cedente non esercita più la propria sovranità<br />
per sempre o per un periodo determinato.<br />
Il caso più noto, per le violazioni dei diritti umani che vi si compiono – ma<br />
anche perché rappresenta un caso limite per <strong>il</strong> tipo di accordo internazionale<br />
che lì è stato fatto – è la base m<strong>il</strong>itare americana di Guantanamo dove la sovranità<br />
è stata ceduta dallo Stato di Cuba agli Stati Uniti nel 1903 (trattato<br />
rinnovato nel 1934) per un periodo indeterminato <strong>il</strong> cui termine è lasciato<br />
alla decisione degli americani di andarsene. Recentemente la Corte Suprema<br />
degli Stati Uniti ha riconosciuto che la base di Guantanamo è territorio sul<br />
quale gli Stati Uniti esercitano «controllo e giurisdizione esclusiva». In definitiva<br />
la rinuncia pattizia all’esercizio di sovranità su di un territorio da<br />
parte di uno Stato a favore di un altro concreta una variazione territoriale<br />
dello stato cedente.<br />
È possib<strong>il</strong>e questo nel nostro ordinamento? È possib<strong>il</strong>e.<br />
Le basi m<strong>il</strong>itari americane oggi esistenti in Italia godono del diritto di extraterritorialità,<br />
<strong>il</strong> che significa che <strong>il</strong> territorio che occupano è sottratto alla<br />
giurisdizione italiana, in forza di un trattato di diritto internazionale col<br />
quale lo Stato italiano ha rinunciato alla propria sovranità sul territorio medesimo<br />
in favore degli Stati Uniti. Trattati di questa natura la nostra Costituzione<br />
li ammette all’art. 80 che recita: «Le Camere autorizzano con legge<br />
la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono<br />
arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od<br />
oneri alle finanze o modificazioni di leggi».<br />
La Costituzione consente quindi alle variazioni territoriali (id est <strong>della</strong> sovranità<br />
nazionale) dello Stato italiano: alla condizione che la ratifica del trattato<br />
internazionale che le prevede sia autorizzata dal Parlamento «con legge».<br />
Nel nostro ordinamento cioè la dismissione di sovranità su una porzione di<br />
15
16<br />
territorio nazionale non è lasciata alla decisione del Governo,<br />
ma deve essere autorizzata con un provvedimento<br />
legislativo primario – la legge – dopo un dibattito parlamentare<br />
e un voto di Camera e Senato.<br />
Ora, se rapportiamo tutto quanto detto sopra alle vicende<br />
<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare americana di Vicenza, vediamo<br />
due cose: la prima è che <strong>il</strong> raddoppio dell’estensione territoriale<br />
<strong>della</strong> base, determinando una dismissione di sovranità,<br />
costituisce una variazione di territorio; la seconda<br />
è che a questa variazione territoriale corrisponde un<br />
onere finanziario dello stato italiano non fosse altro perché<br />
sottrae terreni e costruzioni ed<strong>il</strong>izie all’imposizione<br />
fiscale. In ambedue i casi siamo di fronte alla fattispecie<br />
prevista dall’art.80 <strong>della</strong> Costituzione.<br />
Ma allora sorge una domanda: con quale legge <strong>il</strong> Parlamento<br />
ha autorizzato <strong>il</strong> Governo alla ratifica dell’accordo<br />
col quale si consente di ampliare territorialmente la base<br />
m<strong>il</strong>itare americana di Vicenza?<br />
La domanda non riguarda solo questo governo, ma<br />
anche quelli precedenti e la risposta ha valenze diverse a<br />
seconda di chi deve rispondere. Perché, se <strong>il</strong> governo attuale<br />
ha trattato con gli Stati Uniti per ampliare la base,<br />
deve presentarsi in Parlamento con una proposta di legge<br />
di ratifica dell’accordo; se invece a trattare è stato <strong>il</strong> governo<br />
Berlusconi e lo ha fatto senza presentare <strong>il</strong> testo<br />
dell’accordo alle Camere per ottenerne l’autorizzazione<br />
alla ratifica, ha violato la Costituzione e perciò gli accordi<br />
presi non hanno alcun valore giuridico e l’attuale governo<br />
Prodi non è tenuto a rispettarli. Continuare a insistere,<br />
come si è fatto ancora in questi giorni, che la questione<br />
<strong>della</strong> base m<strong>il</strong>itare americana di Vicenza è solo un<br />
problema urbanistico, non ha senso; si tratta di un problema<br />
che prima di essere urbanistico (ed è anche quello)<br />
è tanto politico da investire persino la correttezza costituzionale<br />
dei governi.<br />
Sarebbe bene che si richiedesse una risposta convincente<br />
anche su questo versante <strong>della</strong> questione. <br />
LETTERA APERTA<br />
DALLA REPUBBLICA CECA<br />
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente lettera aperta<br />
di Jan Neoral, sindaco del comune di Trokavec, a Tomas<br />
Klvaňa, portavoce del governo <strong>della</strong> Repubblica Ceca e responsab<strong>il</strong>e<br />
per la promozione dell’installazione del radar Usa sul<br />
territorio ceco. Si tratta di un significativo documento che testimonia<br />
del duro confronto in atto nel suddetto paese su un tema<br />
che – come nello scorso numero <strong>della</strong> nostra <strong>rivista</strong> ha ricordato<br />
Giulietto Chiesa – al di là dell’impatto interno costituisce un<br />
delicatissimo snodo per l’Europa e, in generale, per le prospettive<br />
di pace.<br />
Mr. Klvaňa, lei sta mentendo!<br />
Egregio Signore, la stampa ha reso noto che lei intende<br />
far visita ai sindaci e ai rappresentanti delle municipalità<br />
dell’area di Brdy, mirando a superare le loro resistenze<br />
all’installazione di un radar Usa. Nello stesso tempo, la<br />
stampa ci informa del fatto che pubblico e giornalisti sarebbero<br />
esclusi dalle relative trattative; e che lei ha rifiutato<br />
di spiegarne la ragione. Si tratta di una manifestazione<br />
di arroganza senza precedenti, al pari del diniego <strong>della</strong> democrazia<br />
e del diritto all’informazione.<br />
Come sindaco di questa cittadina, ho <strong>il</strong> dovere di mantenere<br />
rapporti di comunicazione con gli organismi statuali<br />
<strong>della</strong> Repubblica Ceca: questi – anche se mentono al<br />
popolo, non rispettano le loro stesse promesse e non<br />
tengono in alcun conto l’opinione di quasi i tre quarti<br />
dei cittadini di questo paese – purtuttavia sono stati eletti<br />
in modo democratico. Ma io non sono affatto obbligato<br />
ad avere rapporti con lei in quanto direttore <strong>della</strong> British<br />
American Tobacco, con lei che da nessuna parte è<br />
stato eletto dai cittadini. Non sono obbligato a interloquire<br />
con chi, sulla base del suo contratto ed essendo retribuito<br />
con pubblico denaro (dunque con le tasse che<br />
noi paghiamo), vuol costringere la popolazione ad accettare<br />
un impianto su cui grava <strong>il</strong> serio sospetto di arrecare<br />
danno alla salute delle persone e all’ambiente circostante;<br />
nonché di mettere in pericolo, per <strong>il</strong> suo impatto internazionale,<br />
le loro case e la loro sicurezza.<br />
Signor portavoce, lei sta mentendo. Lei ripete le bugie<br />
dette dal nostro governo e da alcuni politici. E offende noi<br />
sindaci: come quando, sul quotidiano on line «Popular<br />
Newspaper» lo scorso 10 luglio 2007, ha commentato in<br />
termini ingiuriosi sia <strong>il</strong> passato che la cosiddetta retorica<br />
dei sindaci che si oppongono al radar.<br />
Per tutto questo, io respingo la sua visita, le chiedo di<br />
non far visita alla nostra municipalità. Noi non accettiamo<br />
di trattare con lei.<br />
Jan NEORAL, Sindaco del comune di Trokavec
CARLOTTA NAO*<br />
L’uranio impoverito è<br />
un metallo pesante,<br />
radioattivo, ad alta<br />
capacità piroforica: un<br />
materiale perfetto per<br />
costruire ordigni bellici.<br />
Ed ecco come smaltire i<br />
rifiuti tossici radioattivi a<br />
costo zero: fabbricando<br />
ordigni da <strong>scarica</strong>re<br />
lontano dal luogo dove<br />
sono prodotti<br />
* COLLABORATRICE PARLAMENTARE<br />
PACE E GUERRA<br />
economia<br />
all’uranio impoverito<br />
Riceviamo (da Franca Rame e Carlotta Nao) e volentieri pubblichiamo l’articolo<br />
seguente<br />
Èpossib<strong>il</strong>e immaginare una differenza tra un soldato ucciso durante<br />
una missione all’estero da un colpo d’arma da fuoco o da un attentato,<br />
e uno che si consuma lentamente tra le mura domestiche e sotto<br />
gli occhi dei suoi fam<strong>il</strong>iari a causa dell’uranio impoverito che l’ha contaminato<br />
in «Missione di pace»? Il primo torna in patria in un feretro tricolore,<br />
con funerali di stato e indennizzi alla famiglia; <strong>il</strong> secondo invece, spesso rimane<br />
senza neppure una lapide, senza risarcimenti, senza onori. Alle volte<br />
arriva l’aumento dei gradi, una promozione a titolo onorario, quando <strong>il</strong> soldato<br />
è già deceduto.<br />
Anche la morte ha un’economia: i fam<strong>il</strong>iari dei carabinieri deceduti a Nassirya<br />
ricevono risarcimenti cospicui, che le famiglie con perdite a causa dell’uranio<br />
non hanno: in alcuni casi hanno ricevuto indennizzi pari a 258,23<br />
euro al mese. La morte non guarda in faccia nessuno, ma la Difesa sì: si sceglie<br />
da sola gli «eroi <strong>della</strong> patria», è necessario morire con onore. Consumarsi<br />
con dolore non basta.<br />
Lasciando a margine <strong>il</strong> tema delle missioni all’estero, del loro carattere sempre<br />
più offensivo e belligerante, concentriamo l’attenzione sui m<strong>il</strong>itari, i quali<br />
poco più che ventenni, per convinzione, e molto più spesso per assenza di valide<br />
opportunità di lavoro, si arruolano, partono in missione. Sei mesi, uno,<br />
due anni, e al loro ritorno li attende una bella cifra, con la quale pianificare<br />
qualche passo di futuro: una casa, una macchina, un matrimonio. Un ventenne<br />
ha molte aspirazioni per la testa, ma di certo raramente ha sentito parlare<br />
di DU238 Depleted Uranium. È l’uranio impoverito, scarto <strong>della</strong> lavorazione<br />
dell’uranio «U-235», usato per la produzione di energia nucleare a scopi civ<strong>il</strong>i.<br />
Tutti i paesi che ut<strong>il</strong>izzano centrali atomiche hanno <strong>il</strong> problema di smaltire<br />
le scorie, ma <strong>il</strong> costo è altissimo e le procedure molto meticolose. L’uranio<br />
impoverito è un metallo pesante, radioattivo, ad alta capacità piroforica:<br />
un materiale perfetto per costruire ordigni bellici. Ed ecco come smaltire i rifiuti<br />
tossici radioattivi a costo zero: fabbricando ordigni da <strong>scarica</strong>re lontano<br />
dal luogo dove sono prodotti. Noi esportiamo democrazia: le vittime civ<strong>il</strong>i e i<br />
rifiuti nucleari sono un piccolo sovrapprezzo. Ma, si sa, nulla è gratis!<br />
Non importa se una risoluzione dell’Onu ne vieta l’ut<strong>il</strong>izzo in campo bellico,<br />
non importa se <strong>il</strong> Pentagono, nel 1978, dopo averli sperimentati nel poligono<br />
m<strong>il</strong>itare di Heglin dice: «<strong>il</strong> materiale prelevato ed esaminato post esplosione ha<br />
evidenziato la presenza di un particolato talmente sott<strong>il</strong>e che potrebbe provocare seri<br />
danni a chi lo respira senza alcuna protezione». Una diagnosi che non lascia<br />
scampo e diventa un boccone prelibato per chi con la vita ha un rapporto<br />
distaccato e superbo: la nuova frontiera è sperimentare gli effetti sugli uomi-<br />
17
18<br />
ni. La guerra del Golfo è l’occasione<br />
giusta.<br />
I risultati sono devastanti: cancro,<br />
leucemie, gravissime patologie, feti<br />
malformati non solo tra i civ<strong>il</strong>i che<br />
abitano i territori bombardati, ma<br />
anche tra gli stessi m<strong>il</strong>itari americani.<br />
Constatata la grande pericolosità<br />
delle munizioni all’uranio impoverito,<br />
lo stesso Pentagono produce e distribuisce<br />
a tutti gli alleati una videocassetta<br />
in cui si <strong>il</strong>lustra come individuare<br />
un obiettivo colpito da uranio<br />
impoverito, come proteggersi e come<br />
procedere alla bonifica del posto in<br />
cui si trova l’oggetto.<br />
Sono importanti questi indirizzi,<br />
soprattutto per gli alleati che si<br />
troveranno a operare con gli Stati<br />
Uniti che ut<strong>il</strong>izzano queste armi.<br />
Scoppia <strong>il</strong> conflitto in Bosnia Erzegovina,<br />
i Balcani diventano un teatro<br />
di guerra importante dal punto<br />
di vista di «sperimentazione attiva»:<br />
30.000 tonellate di uranio impoverito<br />
vengono <strong>scarica</strong>te sul suolo <strong>della</strong><br />
ex Repubblica di Jugoslavia.<br />
Siamo nel ‘99, in Italia la situazione<br />
politica interna è incerta, <strong>il</strong> governo<br />
D’Alema è combattuto tra americanisti<br />
e anti-americanisti, ci si arrovella<br />
sull’interpretazione dell’articolo<br />
11 <strong>della</strong> Costituzione: l’Italia ripudia<br />
la guerra? Oppure se si partecipa<br />
sotto l’egida <strong>della</strong> Nato è una guerra<br />
giusta?<br />
Nel frattempo nelle caserme non si<br />
sta a pensare: la partenza è alle<br />
porte. Avvengono vaccinazioni di<br />
massa, una sull’altra, senza rispettare<br />
protocolli e norme, si affastella<br />
l’organizzazione <strong>della</strong> missione e si lasciano a casa le protezioni per l’uranio<br />
impoverito (tute, guanti, maschere), non c’è tempo neppure per istruire i<br />
soldati a riconoscere i rischi legati all’uranio; nessuno dice loro di non avvicinarsi<br />
ai proiett<strong>il</strong>i esplosi e alle cariatidi colpite da proiett<strong>il</strong>i all’uranio, come<br />
<strong>il</strong>lustra l’opuscolo distribuito dagli americani agli Stati Maggiori degli alleati.<br />
I vertici <strong>della</strong> difesa erano quindi al corrente, ma l’informazione non è arrivata<br />
ai ragazzi in missione.<br />
Sono oggi 542 i soldati italiani ammalati, quarantasette quelli già deceduti di<br />
cui si ha notizia, è fuori dubbio che vi siano molti altri casi. Nel s<strong>il</strong>enzio assordante<br />
delle istituzioni, che non vogliono ammettere di aver inviato truppe<br />
allo sbaraglio senza alcuna informazione né protezione. Nessuno intende<br />
farsi carico <strong>della</strong> responsab<strong>il</strong>ità dei danni provocati, e quindi non vengono<br />
erogate le pensioni, né sono fornite le cure necessarie. Da una parte c’è l’apparato<br />
m<strong>il</strong>itare che si nasconde dietro un muro di omertà invocando <strong>il</strong> segreto<br />
m<strong>il</strong>itare, dall’altra la politica che lascia cadere l’istanza, chi perché riceve<br />
finanziamenti dai costruttori d’armamenti, chi perché era al Governo al<br />
tempo in cui si approvarono le missioni.<br />
Già, i m<strong>il</strong>itari. E i civ<strong>il</strong>i? Che dire dei civ<strong>il</strong>i residenti nei paesi coinvolti dai<br />
bombardamenti all’uranio? Iraq, Kosovo, Bosnia e Afghanistan rimarranno<br />
contaminati per m<strong>il</strong>ioni di anni. Chi è sopravvissuto ai bombardamenti,<br />
dovrà sfidare acque e terreni avvelenati, lotterà per non avere figli malformati,<br />
contro leucemie e tumori: accade che da quelle parti non esistano solamente<br />
perché spesso non c’è nessuno che possa diagnosticarli. E noi, che<br />
abbiamo donato la gioia <strong>della</strong> «democrazia occidentale», voltiamo le spalle.<br />
Da ultimo, vogliamo menzionare una buona notizia. C’è uno Stato che ha deciso<br />
di assumersi la responsab<strong>il</strong>ità delle sue azioni: <strong>il</strong> Belgio, nel marzo di<br />
quest’anno, ha messo al bando l’uso dell’uranio impoverito. Speriamo sia capof<strong>il</strong>a<br />
di una lunga serie di paesi, tra i primi <strong>il</strong> nostro.<br />
Infine una riflessione. Fare la guerra rimarrà un business fino a quando i<br />
conflitti alimenteranno le ricchezze delle lobby degli armamenti e gli Stati<br />
non saranno chiamati a farsi carico dei costi di bonifica e decontaminazione<br />
dei territori avvelenati con armi di questo tipo, oltre che dei danni inferti<br />
alle vittime civ<strong>il</strong>i. Se è vero che <strong>il</strong> mondo politico come lo conosciamo si<br />
muove in funzione di capitali, allora è necessario impegnarsi affinché chi inquina,<br />
devasta, uccide e bombarda, paghi.<br />
È stata aperta una sottoscrizione in aiuto degli ammalati da uranio impoverito<br />
e le loro famiglie. A oggi sono stati raccolti oltre 26.000 euro. Ogni contributo,<br />
di qualsiasi cifra, sarà prezioso. Grazie. Conto corrente per la sottoscrizione<br />
in favore delle vittime dell’Uranio Impoverito: ccp n. 78931730 intestato<br />
a Franca Rame e Carlotta Nao ABI 7601 – CAB 3200 Cin U.
DINO GRECO*<br />
L’impegno elettorale<br />
assunto nei confronti dei<br />
tanti giovani (e non solo)<br />
che sono costretti ad<br />
attraversare le forche<br />
caudine del lavoro senza<br />
senso umoristico definito<br />
«atipico», si è così<br />
convertito in una sorta di<br />
manutenzione ordinaria<br />
<strong>della</strong> legislazione<br />
esistente. Abbiamo presto<br />
capito che nulla di<br />
sostanziale sarebbe mutato<br />
e che avremmo ancora<br />
dovuto fare i conti, in<br />
Italia, con quel monstrum<br />
giuridico che è <strong>il</strong><br />
lavoratore<br />
«parasubordinato», una<br />
figura né carne né pesce,<br />
sconosciuta nel resto<br />
d’Europa<br />
* GGIL-DIRETTIVO NAZIONALE<br />
POLITICA ED ECONOMIA<br />
pensioni e welfare<br />
implosione sociale e sinistra «in cerca d’autore»<br />
1Quando, sino a poco meno di due anni fa, governava <strong>il</strong> centrodestra, la<br />
sinistra moderata spiegava che una cosa era <strong>il</strong> «pacchetto Treu» (la<br />
flessib<strong>il</strong>ità «buona») e un’altra la legge«30», foriera di precarietà nel lavoro<br />
e, specularmente, nella vita. Il programma dell’Unione tentò in seguito<br />
di andare oltre l’una e l’altra, cogliendo la necessità di una più profonda revisione<br />
<strong>della</strong> legislazione in materia di mercato del lavoro, tale da porre<br />
qualche argine a un rapporto fra lavoro e capitale platealmente sb<strong>il</strong>anciato a<br />
favore di quest’ultimo. Poi, una volta al governo, l’intento riformatore è andato<br />
progressivamente sfocandosi sotto i colpi di freno <strong>della</strong> Confindustria e<br />
di quella parte del sindacato che avendo condiviso <strong>il</strong> «patto per l’Italia» non<br />
se ne era mai pentita. L’impegno elettorale assunto nei confronti dei tanti<br />
giovani (e non solo) che sono costretti ad attraversare le forche caudine del<br />
lavoro senza senso umoristico definito «atipico», si è così convertito in una<br />
sorta di manutenzione ordinaria <strong>della</strong> legislazione esistente. Abbiamo presto<br />
capito che nulla di sostanziale sarebbe mutato e che avremmo ancora dovuto<br />
fare i conti, in Italia, con quel monstrum giuridico che è <strong>il</strong> lavoratore «parasubordinato»,<br />
una figura né carne né pesce, sconosciuta nel resto d’Europa,<br />
un «ircocervo», come ebbe a definirlo, ricorrendo a un’immagine mitologica,<br />
<strong>il</strong> compianto Giorgio Ghezzi. Di più. Si è cominciato a spiegare che<br />
non è <strong>della</strong> flessib<strong>il</strong>ità, in quanto organica e funzionale a un buon funzionamento<br />
dell’impresa moderna, che bisogna preoccuparsi, quanto piuttosto del<br />
sistema degli ammortizzatori sociali, da noi alquanto povero per qualità ed<br />
estensione. E pazienza se, al dunque, come abbiamo visto, anche su questo<br />
terreno si è investito ben poco, diciamo una somma pari a quella che <strong>il</strong> solo<br />
finanziere bresciano Chicco Gnutti ha frodato al fisco dimenticando di pagare<br />
le tasse sulla vendita di Telecom a Tronchetti Provera. Il cuore del ragionamento<br />
sta infatti in questo: lo Stato, la legislazione non debbono irrigidire<br />
i rapporti di lavoro, perché ciò che è razionale per l’impresa lo è anche per<br />
l’economia e per <strong>il</strong> paese. Al punto che persino istituti scarsamente o per<br />
nulla ut<strong>il</strong>izzati dai datori di lavoro, come <strong>il</strong> lavoro a chiamata (job on call), o<br />
<strong>il</strong> lavoro somministrato a tempo indeterminato (staff leasing), dei quali <strong>il</strong> governo<br />
aveva data per certa l’abolizione, continuano a sopravvivere, insieme<br />
alla vergognosa reiterab<strong>il</strong>ità ad libitum dei rapporti di lavoro a termine, condanna<br />
inestinguib<strong>il</strong>e dei forzati <strong>della</strong> precarietà. Insomma, la nuova linea<br />
<strong>della</strong> politica governativa in materia di mercato del lavoro è che quel che si<br />
può fare lo si fa – se lo si fa – a valle del processo produttivo, mai e poi mai<br />
con un intervento disturbante dei rapporti di produzione, di potere di cui<br />
l’impresa è e deve rimanere <strong>il</strong> solo soggetto regolatore. Non dovrà sorprendere<br />
se, su questa scia, prima o poi tornerà in auge l’attacco allo statuto dei<br />
lavoratori e a quell’articolo 18 che solo qualche anno fa la Cg<strong>il</strong> e i lavoratori<br />
hanno difeso con le unghie e con i denti. In conclusione, appare chiaro<br />
come la legge del 2003 si muova lungo una linea di sostanziale continuità<br />
19
20<br />
con quella del ’98. Quest’ultima ne ha rappresentato,<br />
per così dire, l’archetipo. Poi, la destra, su quelle fondamenta,<br />
con metodica ferocia, ha innalzato un edificio di<br />
venti piani. Ma le coordinate erano già tracciate. Ecco allora<br />
che la politica che sta prevalendo nel governo è<br />
quella di un blairismo in sedicesimo: poco welfare e persino<br />
poco workfare, molta flex e poca security.<br />
2Veniamo alla partita delle pensioni. Il confronto fra<br />
governo e sindacati ha avuto qualcosa di surreale,<br />
perché la realtà, i dati di fatto, i conti dell’Inps, le proiezioni<br />
di spesa, depurate da quanto di arbitrario e di palesemente<br />
contraffatto era presente nelle posizioni dell’esecutivo,<br />
non hanno avuto alcun peso nel negoziato. Da<br />
quel tavolo sono scomparsi <strong>il</strong> merito, l’argomentazione rigorosa.<br />
La discussione, destituita di ogni serietà contab<strong>il</strong>e,<br />
è stata sin dall’inizio condizionata, anzi, sovradeterminata<br />
dall’imperativo che un nuovo intervento strutturale sul<br />
sistema pensionistico doveva essere assolutamente realizzato.<br />
La perfidia ideologica con cui <strong>il</strong> Fmi, la Banca centrale,<br />
la Banca d’Italia, l’Unione europea e, ovviamente,<br />
la Confindustria hanno incessantemente battuto su quel<br />
chiodo, ha avuto <strong>il</strong> sopravvento. Ancora una volta, quel<br />
programma dell’Unione che dimostrava – si badi, in un<br />
quadro economico ancora stagnante se non addirittura<br />
recessivo – come non esistesse un problema di sostenib<strong>il</strong>ità<br />
finanziaria del sistema pensionistico italiano, quanto<br />
piuttosto un grave problema di sostenib<strong>il</strong>ità sociale, viene<br />
progressivamente rimosso. La riforma «Maroni», <strong>il</strong> cosiddetto<br />
«scalone», non sarà più da abolire, ma, semplice-<br />
mente, da «ammorbidire»: non è più in discussione la<br />
linea di marcia, ma soltanto <strong>il</strong> tempo entro <strong>il</strong> quale d<strong>il</strong>uirla.<br />
In realtà, abbiamo visto come sia l’intero impianto dell’accordo<br />
del 23 luglio che fa acqua: l’età pensionab<strong>il</strong>e, a<br />
regime, nel 2013, sarà comunque di 61 anni, ma comporterà<br />
un requisito contributivo di 36 anni, superiore di un<br />
anno a quello fissato dalla legge «Maroni»; requisito quest’ultimo<br />
che varrà anche per la platea dei cosiddetti lavoratori<br />
«usurati», poiché lo sconto di tre anni a essi concesso<br />
agisce sull’età anagrafica, ma non su quella contributiva!<br />
La stessa possib<strong>il</strong>ità di coniugare in modo variab<strong>il</strong>e<br />
età anagrafica ed età pensionab<strong>il</strong>e (le cosiddette «quote»),<br />
così da rispondere flessib<strong>il</strong>mente a diverse esigenze dei<br />
pensionandi è stata talmente edulcorata da risultare impalpab<strong>il</strong>e.<br />
Ancora: le finestre d’uscita per quanti andranno<br />
in pensione con i quarant’anni di contribuzione vengono<br />
riportate a quattro, ma l’identico meccanismo varrà<br />
anche, d’ora in poi, per le pensioni di vecchiaia, in quanto<br />
è scritto, nero su bianco, che l’operazione deve essere<br />
compiuta a costo zero e che, dunque, l’una misura deve<br />
compensare l’altra. E i giovani, a proposito dei quali sono<br />
state somministrate dosi massicce di retorica? Si ricorderà<br />
la polemica sui coefficienti di rivalutazione delle pensioni,<br />
secondo <strong>il</strong> governo da ritoccare verso <strong>il</strong> basso, mentre sarebbe<br />
necessario un percorso esattamente inverso, visti gli<br />
effetti devastanti sulle rendite pensionistiche future di<br />
quanti sconteranno <strong>il</strong> micidiale «mix» fra sistema di calcolo<br />
contributivo e precarizzazione/sottocontribuzione del<br />
lavoro. Bene: al riguardo l’accordo prevede l’apertura di<br />
un confronto che dovrebbe (<strong>il</strong> condizionale non è di chi<br />
scrive, ma del testo) determinare una protezione delle<br />
pensioni più basse, collocandole a una soglia prossima al<br />
60% <strong>della</strong> retribuzione ma, contemporaneamente, si fa<br />
riferimento a un tetto di spesa complessiva ridotto del 6-<br />
8%. Come sarà possib<strong>il</strong>e, allora, elevare la rendita pensionistica<br />
con meno risorse? Evidentemente, non si potrà!<br />
Insomma, l’invarianza <strong>della</strong> spesa sociale è a tal punto<br />
l’ass<strong>il</strong>lo del governo, che in caso di scostamento verso l’alto<br />
dei costi si prevede, sin d’ora, l’aumento di un decimale<br />
di punto <strong>della</strong> contribuzione a carico dei lavoratori. Poi,<br />
la «chicca» finale, la detassazione delle ore di lavoro straordinario<br />
(altro beneficio elargito «a pioggia» alle impre
La minaccia,<br />
«attenzione che se <strong>il</strong><br />
governo cade torna<br />
Berlusconi», ha<br />
funzionato come un<br />
potente freno inibitorio<br />
che ha nascosto in realtà<br />
propensioni politiche<br />
reali, ben presenti nel<br />
gruppo dirigente <strong>della</strong><br />
Cg<strong>il</strong> e potentemente<br />
r<strong>il</strong>anciate dalla<br />
gestazione del Pd che<br />
proprio nella Cg<strong>il</strong> ha<br />
svolto e sta tuttora<br />
svolgendo un’intensa<br />
campagna di reclutamento<br />
POLITICA ED ECONOMIA<br />
se), ispirata alla geniale trovata secondo la quale è solo lavorando di più che<br />
si può racimolare qualche denaro. Ora, a parte <strong>il</strong> fatto che una sim<strong>il</strong>e misura<br />
contrasta palesemente con l’esigenza di aumentare i posti di lavoro, <strong>il</strong> tasso di<br />
popolazione attiva e le entrate fiscali e contributive corrispondenti, ricorderà<br />
<strong>il</strong> ministro Damiano, ex sindacalista, che <strong>il</strong> prolungamento <strong>della</strong> giornata lavorativa<br />
figura come una delle più ricorrenti cause di infortunio?<br />
3Come è agevole constatare, è sull’intera latitudine del confronto (e non<br />
sulle sole misure che hanno implicazioni economiche) che viene in mostra<br />
<strong>il</strong> tratto <strong>della</strong> politica sociale del governo. In ogni caso, <strong>il</strong> rovesciamento<br />
dei proclami elettorali è di un’evidenza palmare. Basti pensare che le risorse<br />
messe a disposizione per l’insieme delle partite sociali aperte rappresenta<br />
una modesta quota del surplus fiscale, dell’extragettito. Ed è ragionevole<br />
chiedersi come avrebbe potuto concludersi <strong>il</strong> negoziato di luglio se neppure<br />
quelle impreviste risorse fossero state disponib<strong>il</strong>i. Mentre, nello stesso<br />
tempo, ben altra dimensione hanno avuto i trasferimenti alle imprese<br />
(cuneo fiscale, risarcimento per la quota di Tfr inoptato confluito presso<br />
l’Inps ecc.) e mentre nuove e non poco consistenti prebende vengono annunciate,<br />
sia pure sotto forma di un discutib<strong>il</strong>issimo scambio fra incentivi<br />
(pur sempre, in qualche misura, mirati e dunque finalizzati a uno scopo) e<br />
riduzione delle imposte.<br />
Più in generale, è tutta la linea di politica economica del governo a essere<br />
sottoposta a un’intensa fibr<strong>il</strong>lazione. Si pensi alla lotta all’evasione fiscale<br />
che – sia pure nei suoi ancora iniziali approcci – costituisce l’elemento di più<br />
significativa discontinuità rispetto alla criminale istigazione a delinquere del<br />
governo di centrodestra: è bastato che quest’ultimo scatenasse un’indecente<br />
campagna di sapore eversivo, con un ventaglio di minacce che va dallo sciopero<br />
fiscale alla spacconesca entrata in azione delle doppiette padane, perché<br />
<strong>il</strong> governo rinculasse, promettendo un’incomprensib<strong>il</strong>e «tregua fiscale»<br />
nella prossima finanziaria e bacchettando severamente quanti, nel governo<br />
medesimo, hanno chiesto di procedere all’allineamento <strong>della</strong> tassazione<br />
delle rendite da capitale, in linea con la media europea e in coerenza con un<br />
orientamento già assunto e contenuto nel Dpef.<br />
Quanto al tema del debito, è noto come la forsennata accelerazione impressa<br />
al rientro <strong>della</strong> esposizione finanziaria dell’Italia abbia condizionato (e<br />
contratto) le disponib<strong>il</strong>ità di spesa. Nessuno trascura <strong>il</strong> fatto che gli interessi<br />
sul debito erodano l’avanzo primario e compromettano la capacità di investimento<br />
produttivo e sociale del paese e che una linea di risanamento si<br />
imponga. Quello che è invece gravemente sbagliato è l’autentica ossessione<br />
monetarista che ha impresso un ritmo di rientro a tappe forzate, destinato<br />
fatalmente a stressare <strong>il</strong> paese, a minare <strong>il</strong> consenso degli strati sociali più<br />
deboli che attendono legittimamente una risposta redistributiva ben altrimenti<br />
consistente e tale, in ogni caso, da indicare una netta inversione di<br />
marcia che invece, fatalmente, non c’è stata. Tutto ciò è francamente paradossale,<br />
a maggior ragione se si rammenta che la legge vigente sull’amministrazione<br />
straordinaria (che – ironia <strong>della</strong> sorte – porta proprio <strong>il</strong> nome dell’attuale<br />
Presidente del Consiglio), strumento estremo per trarre le imprese<br />
da situazioni di dissesto finanziario, prevede proprio <strong>il</strong> congelamento del debito,<br />
<strong>il</strong> pagamento dei salari correnti, dei fornitori, così da rimettere in moto<br />
un circolo virtuoso che, solo, può consentire a quell’impresa di sopravvivere<br />
prima e di soddisfare i propri creditori poi.<br />
La linea del governo è apparsa dunque lontana persino dalle buone, collaudate<br />
pratiche delle social-democrazie, per cui a una forte e progressiva imposizione<br />
fiscale corrisponde un altrettanto robusto sistema di protezione sociale,<br />
di servizi (previdenza, assistenza, ammortizzatori sociali, sanità, istruzione<br />
ecc.).<br />
21
22<br />
In definitiva, la tensione crescente<br />
che si è accumulata dentro la compagine<br />
governativa non è <strong>il</strong> prodotto<br />
di chissà quali accelerazioni impresse<br />
dalla sua parte mancina, ma da<br />
una sostanziale rimozione del patto<br />
di governo.<br />
4Sul fronte sociale, è importante<br />
comprendere l’evoluzione politica<br />
intervenuta nel più grande sindacato<br />
italiano, la Cg<strong>il</strong>, che grande<br />
parte ebbe nel mettere in crisi <strong>il</strong> governo<br />
di centrodestra (ricordate la<br />
lotta per la difesa dell’articolo 18,<br />
per i diritti nel lavoro, contro <strong>il</strong> declino<br />
industriale?) <strong>il</strong> quale aveva<br />
fatto <strong>della</strong> crociata contro <strong>il</strong> lavoro <strong>il</strong><br />
proprio connotato identitario.<br />
Ora, nella relazione d’apertura del<br />
XV congresso <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>, in piena<br />
campagna elettorale, Guglielmo Epifani<br />
offrì a Romano Prodi, qualora<br />
l’Unione avesse vinto le elezioni, un<br />
«patto di legislatura», formula ardita,<br />
anche per un sindacato «concertativo»,<br />
perché fatalmente incline ad<br />
attivare meccanismi di collateralismo<br />
consociativo, alquanto lesivi di quel<br />
bene prezioso che è l’indipendenza<br />
del sindacato da qualsiasi governo,<br />
anche da quello a sé non ost<strong>il</strong>e o<br />
che tale si dichiara. Quell’intemerata<br />
fu poi prudentemente corretta dal<br />
dibattito e non fu più ripresa da Epifani<br />
nelle conclusioni, né – tantomeno<br />
– nel documento finale del congresso.<br />
E tuttavia essa ha marciato,<br />
prima sotto traccia, poi apertamente,<br />
quando, a elezioni avvenute, al sindacato<br />
è stato chiesto di non tirare<br />
troppo la corda nei confronti di un<br />
governo che si reggeva su equ<strong>il</strong>ibri<br />
tanto precari. La minaccia, «attenzione<br />
che se <strong>il</strong> governo cade torna<br />
Berlusconi», ha funzionato come un<br />
potente freno inibitorio che ha nascosto<br />
in realtà propensioni politiche<br />
reali, ben presenti nel gruppo dirigente<br />
<strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> e potentemente r<strong>il</strong>anciate<br />
dalla gestazione del Pd che<br />
proprio nella Cg<strong>il</strong> ha svolto e sta tuttora<br />
svolgendo un’intensa campagna<br />
di reclutamento. Così, <strong>il</strong> perimetro<br />
dell’azione <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> è andato via<br />
via reiscrivendosi entro precise<br />
norme di comportamento che si<br />
possono così riassumere: a) l’unità<br />
preliminare, come prius, con la Cisl e<br />
con la U<strong>il</strong> che archivia come impraticab<strong>il</strong>e<br />
qualsiasi iniziativa un<strong>il</strong>aterale<br />
<strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>; b) l’interdizione <strong>della</strong><br />
mob<strong>il</strong>itazione e <strong>il</strong> mantenimento<br />
<strong>della</strong> polemica con <strong>il</strong> governo entro i<br />
canali <strong>della</strong> pura diplomazia; c) la<br />
moderazione delle richieste, inscritte<br />
nel quadro di compatib<strong>il</strong>ità fissato<br />
dal governo.<br />
Va da sé che una trattativa dalle implicazioni<br />
sociali e politiche che conosciamo<br />
(pensioni, welfare, mercato<br />
del lavoro, fisco ecc.) si è svolta<br />
in un rapporto a dir poco lasco con i<br />
lavoratori, ai quali è stata sostanzialmente<br />
recapitata una piattaforma<br />
unitaria, a maglie larghe, onnicomprensiva,<br />
non soggetta ad approvazione<br />
alcuna: le assemblee nei luoghi<br />
di lavoro sono state puramente<br />
informative e ricognitive di proposte<br />
e suggerimenti che, sebbene copiosamente<br />
pervenuti, non hanno modificato<br />
– come era scontato – neppure<br />
la punteggiatura di quel testo.<br />
Con queste premesse, con una mob<strong>il</strong>itazione<br />
assente o a bassissima intensità<br />
e di pura immagine, l’esito<br />
del confronto è stato esposto a sistematiche<br />
incursioni, a veti, a mediazioni<br />
quasi sempre esterne al contraente<br />
sindacale. I contrasti fra le<br />
forze politiche, persino le bizze fra<br />
ministri a gara nel contraddirsi l’un<br />
l’altro, hanno fatto sì che persino le<br />
minacce di una Emma Bonino o di<br />
un Lamberto Dini pesassero di più<br />
rispetto a organizzazioni che trattavano<br />
in rappresentanza di m<strong>il</strong>ioni di<br />
lavoratori e di pensionati. Sicché,<br />
alla fine, alla Cg<strong>il</strong> è toccato fare<br />
buon viso a cattivo gioco, ingoiando<br />
insieme al rospo anche qualche sonoro<br />
e um<strong>il</strong>iante ceffone quando<br />
Epifani ha chiesto – del tutto snobbato<br />
– di poter sottoscrivere soltanto<br />
i punti condivisi e non l’intero protocollo.<br />
Quanto è accaduto è dunque un<br />
episodio di pessimo sindacalismo e<br />
tale rimarrà quale che sia l’esito di<br />
una consultazione che ora si vuole<br />
rigidamente blindata da schiere di<br />
sindacalisti allineati come un sol<br />
uomo a difendere nelle assemblee la
qualità del rancio, immancab<strong>il</strong>mente «ottimo e abbondante».<br />
Credo che sarà dura. E che non lo sarà di meno<br />
la reazione di quanti sanno «far di conto», vale a dire la<br />
parte più sindacalizzata del movimento, quella senza la<br />
quale sarebbe tutto <strong>il</strong> sindacalismo italiano a smarrire la<br />
propria peculiare identità. Quel che più temo non è la<br />
sacrosanta incazzatura di chi deciderà di rendere esplicito<br />
<strong>il</strong> proprio dissenso e di ingaggiarsi in una forte lotta<br />
politica interna. Pavento invece lo scoramento, l’abbandono,<br />
la deriva verso <strong>il</strong> disimpegno e <strong>il</strong> conseguente, ulteriore<br />
indebolimento del sindacato, delle ragioni di una<br />
battaglia che merita fare per cambiare una rotta foriera<br />
di ulteriori delusioni, di ulteriori sconfitte. E ancor più<br />
preoccupa <strong>il</strong> riflesso d’ordine che matura nello stato<br />
maggiore <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>, la repulsione verso <strong>il</strong> dissenso, la<br />
tentazione di legittimarlo come espressione di pulsioni<br />
politiche esterne, prive di sostanza e di motivazioni sindacali;<br />
preoccupa <strong>il</strong> clima da caccia alle streghe che<br />
monta dal centro alla periferia e che sta già mettendo in<br />
circolo i peggiori istinti repressivi, sempre latenti nelle<br />
burocrazie.<br />
5Non credo proprio sia un caso se questo clima di implosione<br />
sociale condizioni anche <strong>il</strong> dibattito dentro<br />
una frammentata sinistra in perenne «cerca d’autore». È<br />
davvero poco confortante questa discussione sull’opportunità<br />
o meno di fare, <strong>il</strong> prossimo 20 ottobre, una manifestazione<br />
a sostegno di una diversa politica economica e<br />
sociale e di una vera lotta alla precarietà. Per cui chi chiede<br />
al governo di fare qualcosa di somigliante al programma<br />
elettorale che ha unito la coalizione è paradossalmente<br />
accusato di fellonia (i ministri), oppure di estremismo<br />
(partiti, movimenti, singole personalità, semplici cittadini).<br />
Non sorprende che lo facciano gli azionisti del Pd, i<br />
quali sembrano ormai considerare la sinistra ut<strong>il</strong>e solo se<br />
si acconcia a starsene quieta al guinzaglio, addomesticata<br />
in un ruolo sostanzialmente ornamentale, ma altrimenti<br />
trattata come una zavorra di cui liberarsi quanto prima,<br />
ove essa pretenda di far valere i patti sottoscritti e con<br />
essi la propria ragion d’essere. È invece singolare che <strong>il</strong><br />
contagio si sparga oltre e intacchi forze impegnate a fondare<br />
una diversa progettualità politica e una idea di democrazia<br />
incardinata nella partecipazione popolare. Lo<br />
snodo è cruciale. Perché <strong>il</strong> peggio che può accadere non è<br />
di essere costretti a uscire dal governo, ma di uscirvi<br />
avendo contemporaneamente logorato <strong>il</strong> rapporto con la<br />
propria gente e compromesso una credib<strong>il</strong>ità che invece<br />
va difesa con assoluta coerenza.<br />
Anche la disfida apparentemente secondaria e per certi<br />
versi macchiettistica sui lavavetri, elevati a malattia degenerativa<br />
<strong>della</strong> civ<strong>il</strong>e convivenza, è invece rivelatrice di<br />
una grave involuzione culturale, è l’apoteosi di quel perbenismo<br />
ipocrita che spaccia per virtù legalitaria una<br />
spudorata crociata contro la marginalità sociale. E fa riflettere<br />
che a brandire la clava sia un uomo, pardon, un<br />
ministro come Amato (ancora lui!) che non riesce a va-<br />
POLITICA ED ECONOMIA<br />
rare un provvedimento che stab<strong>il</strong>isca che se un immigrato<br />
costretto alla clandestinità da una legislazione persecutoria<br />
denuncia <strong>il</strong> suo sfruttatore possa essere regolarizzato:<br />
in un paese dove un terzo del territorio è controllato<br />
dalla mafia, dove prospera un’evasione fiscale<br />
mastodontica, dove è consueto lo sfruttamento <strong>della</strong> manodopera<br />
clandestina, dove nei santuari <strong>della</strong> finanza si<br />
pratica <strong>il</strong> riciclaggio di denaro sporco o, ancora, dove<br />
una parte cospicua dell’economia legale galleggia su una<br />
bolla di economia <strong>il</strong>legale.<br />
È un’autentica falsità, concettuale ed empirica, che colpendo<br />
la microcriminalità (e in essa l’anello più debole e<br />
miserab<strong>il</strong>e <strong>della</strong> catena) si risale a quella grande che si<br />
annida in essa. Poiché è vero l’esatto opposto: è afferrando<br />
per le corna la grande criminalità che inquina e corrompe<br />
la politica e l’economia, che asfissia con i propri<br />
tentacoli la vita democratica, che travolge ogni senso di<br />
giustizia; è facendo questo che si bonifica <strong>il</strong> terreno e che<br />
si affrancano, non che si incarcerano, anche i lavavetri.<br />
Queste cose, un secolo e mezzo fa, erano già ampiamente<br />
note. A nessuno, neppure nella sinistra più moderata,<br />
sarebbe mai venuto in mente di metterle in discussione.<br />
Oggi, la «modernità» di un pensiero anch<strong>il</strong>osato, davvero<br />
«unico», sembra averle cancellate. Non per caso, Walter<br />
Veltroni ha intitolato <strong>il</strong> suo manifesto politico con<br />
una formula, «contro tutti i conservatorismi», tipica di<br />
ogni gattopardismo.<br />
Per questo oggi occorre «riscoprire» tutto. Non per camminare<br />
con la testa volta all’indietro, ma per scansare <strong>il</strong><br />
rischio di sapere come andare, senza sapere più dove. <br />
23
le ragioni <strong>della</strong> nostra<br />
opposizione al federalismo<br />
«Foedus» presuppone un patto fra diversi: così dalle correnti di pensiero<br />
risorgimentali sino al dibattito che si sv<strong>il</strong>uppò all’interno dell’Assemblea<br />
Costituente, la quale bocciò l’ipotesi federalista in favore<br />
di quella regionalista. Al di là delle disquisizioni semantiche, storiche e teoriche<br />
sulla natura del federalismo, non vi è dubbio che <strong>il</strong> federalismo fiscale,<br />
proprio perché fondato sull’«autosufficienza delle risorse» degli enti locali<br />
(così l’art.119 <strong>della</strong> Costituzione), interpreti nel miglior modo possib<strong>il</strong>e le<br />
istanze egoistiche delle regioni più ricche del paese.<br />
Anche per questa ragione – come noto – <strong>il</strong> Partito <strong>della</strong> rifondazione comunista<br />
espresse, in occasione del referendum costituzionale sulla legge n.<br />
3/2001 (approvata al termine <strong>della</strong> legislatura 1996-2001 con cinque voti di<br />
maggioranza), una posizione contraria alla riforma del Titolo quinto <strong>della</strong><br />
Costituzione.<br />
Va ricordato, inoltre, che nel programma elettorale dell’Unione <strong>il</strong> tema dell’attuazione<br />
del federalismo fiscale previsto dall’art. 119 <strong>della</strong> Costituzione è<br />
un punto centrale di mediazione condiviso dalle forze politiche che hanno<br />
sottoscritto <strong>il</strong> programma medesimo.<br />
A partire dall’inizio degli anni Novanta, infatti, l’Italia ha sperimentato,sia<br />
pure nell’alternarsi di accelerazioni e di periodo di stasi, un’intensa stagione<br />
di riforme nella direzione di un sempre maggiore decentramento <strong>della</strong> responsab<strong>il</strong>ità<br />
di spesa e di finanziamento.<br />
Nuove competenze di spesa, più poteri autonomi di tassazione, trasferimenti<br />
meno vincolanti hanno profondamente modificato <strong>il</strong> quadro <strong>della</strong> finanza<br />
regionale e locale: tanto da far dire a Wallace Oates, uno dei massimi studiosi<br />
del federalismo fiscale, che in Italia «<strong>il</strong> movimento verso la decentralizzazione<br />
si è spinto talmente in là da prevedere una vera e propria proposta di<br />
separazione <strong>della</strong> nazione in due stati indipendenti» 1 24<br />
.<br />
L’introduzione dell’Ici nel 1992 ha riconosciuto ai Comuni un potente strumento<br />
di autonomia tributaria mentre, prima ancora, la L.142/90 e adesso <strong>il</strong><br />
T.U. 267/2000 hanno innovato i fondamenti <strong>della</strong> finanza comunale.<br />
È stata poi la volta delle regioni a statuto ordinario. In una prospettiva di<br />
progressivo superamento del modello <strong>della</strong> finanza derivata, nuove entrate<br />
tributarie hanno sostituito i trasferimenti erariali: la tassa automob<strong>il</strong>istica e i<br />
contributi sanitari nel 1992, la compartecipazione sull’accisa sulla benzina<br />
nel 1995, e soprattutto l’Irap e l’addizionale sull’imponib<strong>il</strong>e Irpef nel 1998.<br />
Parallelamente le leggi Bassanini (59 e 127/97) e i collegati derivati attuativi<br />
hanno avviato un significativo processo di decentramento delle competenze<br />
pubbliche dallo Stato alle regioni e, a cascata, agli enti locali nell’ambito di ri-<br />
MARCO DAL TOSO*<br />
levanti settori di intervento (industria, energia, opere pubbliche, assetto del<br />
territorio, beni culturali, formazione professionale, sicurezza sul lavoro, istru- * RESPONSABILE COMMISSIONE GIUSTIZIA E<br />
zione), con corrispondente trasferimento di personale e risorse finanziarie. PROBLEMI DELLO STATO FEDERAZIONE<br />
La riforma del Titolo V approvata nel 2001 ha infine dato una cornice costi- PRC MILANO<br />
Individuo<br />
nell’accelerata attuazione<br />
dell’art.116 terzo comma,<br />
contenuto nel disegno di<br />
legge sul federalismo<br />
fiscale proposto dal<br />
Governo, un potenziale<br />
pericoloso cedimento<br />
politico alle istanze del<br />
costituendo Partito<br />
democratico del Nord e<br />
alle sirene «leghiste»:<br />
temo, in particolare,<br />
l’effetto di trascinamento<br />
che ne deriverebbe,<br />
soprattutto in assenza di<br />
una politica che fornisca<br />
risposte al fabbisogno<br />
sociale del paese
tuzionale a un’ulteriore fase di trasformazione del nostro<br />
paese in senso federale.<br />
La riforma (per alcuni aspetti, la controriforma) costituzionale<br />
del 2001 ha innovato <strong>il</strong> quadro delle relazioni finanziarie<br />
fra stato ed enti territoriali in tema sia di allocazione<br />
delle funzioni pubbliche tra le competenze legislative<br />
di Stato e regioni (ampliando significativamente i<br />
poteri legislativi di queste ultime), sia di disegno generale<br />
del sistema di finanziamento dei livelli di governo<br />
subnazionali (riconoscendo la maggior autonomia fiscale,<br />
escludendo i trasferimenti erariali quale modalità ordinaria<br />
di finanziamento, ponendo l’istituzione di un<br />
fondo perequativo).<br />
Successivamente, la controriforma costituzionale approvata<br />
a fine 2005 dal centro-destra e fortunatamente<br />
sconfitta a larghissima maggioranza dal popolo italiano<br />
(furono 15 m<strong>il</strong>ioni i no in opposizione alla «devolution»)<br />
con <strong>il</strong> referendum del 25/26 giugno 2006 è intervenuta<br />
tentando di trasformare in competenze esclusive<br />
regionali due materie cariche di significati perequativi e<br />
di identità nazionale come la sanità e la scuola.<br />
Una richiesta di maggiore autonomia competitiva e/o<br />
differenziata è stata recentemente avanzata ai sensi dell’art.<br />
116 terzo comma <strong>della</strong> Costituzione da alcune Regioni<br />
settentrionali come la Lombardia, <strong>il</strong> Veneto ma<br />
anche <strong>il</strong> Piemonte (peraltro con intese «bipartisan»), su<br />
alcune materie rientranti fra quelle di competenza concorrente:<br />
ambiente, beni culturali, giudici di pace, sanità,<br />
comunicazione, sicurezza, previdenza integrativa, strade,<br />
ricerca, università, cooperazione, risparmio. Tale richiesta<br />
ha trovato riscontro nel recente disegno di legge approvato<br />
dal Consiglio dei ministri (pur fra le critiche del<br />
ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio e <strong>della</strong> Solidarietà<br />
Sociale Paolo Ferrero) nel mese di agosto, facendo<br />
leva sulle istanze di giusta responsab<strong>il</strong>izzazione degli enti<br />
locali e di autonomia finanziaria degli stessi.<br />
Un primo problema che <strong>il</strong> prossimo confronto politico<br />
dovrà affrontare è quello relativo all’evidente rischio di<br />
«sovraimposizione» (segnalato dallo stesso quotidiano di<br />
Confindustria dal prof. Enrico De Mita) e cioè a dire di<br />
un prevedib<strong>il</strong>e aumento <strong>della</strong> pressione fiscale locale determinato<br />
dalla necessità di finanziare le funzioni devolute<br />
alle regioni.<br />
Il tanto evocato «modello catalano» dagli apologeti «modernizzatori»<br />
del federalismo fiscale, approvato dal Governo<br />
Zapatero in Spagna, pur non aumentando <strong>il</strong> livello<br />
generale di pressione fiscale, tiene in giusta considerazione<br />
la necessità di garantire «nazionalmente» i livelli<br />
essenziali definiti dalle prestazioni dei servizi sociali.<br />
Il disegno di legge-delega presentato al Parlamento dal<br />
Governo Prodi (con le dichiarazioni di astensione di Ferrero<br />
e Pecoraro Scanio) sul federalismo fiscale, invece,<br />
non contiene alcuna definizione dei livelli essenziali di<br />
assistenza: usando <strong>il</strong> principio <strong>della</strong> delega in una materia<br />
così complessa, rischia di acuire lo scontro fra i diversi<br />
livelli istituzionali e, in particolare, limita fortemente<br />
SOCIETÀ<br />
25
26<br />
la partecipazione di tutti gli organi<br />
istituzionali, esautorando le assemblee<br />
legislative e lo stesso Parlamento.<br />
In secondo luogo, <strong>il</strong> disegno di legge<br />
sul federalismo è subordinato interamente<br />
al criterio vincolante del patto<br />
di stab<strong>il</strong>ità interna e crescita definito<br />
in sede comunitaria dal Trattato di<br />
Mastricht (così l’art. 2 del disegno di<br />
legge); criterio che, come noto, comprime<br />
<strong>il</strong> livello <strong>della</strong> spesa sociale che<br />
gli enti locali territoriali potrebbero,<br />
diversamente, sostenere.<br />
In terzo luogo, <strong>il</strong> disegno di legge sul<br />
federalismo fiscale presenta un rischio<br />
di incostituzionalità nel meccanismo<br />
che affida alle regioni <strong>il</strong> coordinamento<br />
per la distribuzione delle<br />
risorse necessarie agli enti locali per<br />
finanziare le funzioni amministrative<br />
loro attribuite.<br />
Il punto 5.9 <strong>della</strong> relazione introduttiva<br />
<strong>della</strong> legge delega, infatti, stab<strong>il</strong>isce<br />
che alla competenza legislativa<br />
concorrente delle regioni in materia<br />
di coordinamento <strong>della</strong> finanza comunale<br />
corrisponda un assetto duale<br />
<strong>della</strong> finanza comunale basata sulla<br />
distinzione dei Comuni secondo<br />
l’ampiezza demografica.<br />
Saranno inoltre i governatori a istituire<br />
(nelle materie non soggette a<br />
imposizione statale) tributi locali o<br />
regionali e decidere le materie entro<br />
cui si potrà esercitare l’autonomia<br />
tributaria degli enti locali.<br />
Sempre alle regioni, le cui fonti di finanziamento<br />
saranno una compartecipazione<br />
Iva e Irpef (oltre a tributi<br />
propri), sarà garantito <strong>il</strong> finanziamento<br />
integrale delle funzioni fondamentali<br />
dei comuni più piccoli.<br />
E in ultimo, ma non meno importante,<br />
le regioni avranno <strong>il</strong> compito<br />
di definire gli schemi di perequazione<br />
«solidale» delle risorse per i comuni<br />
di dimensioni minori.<br />
Un nuovo centralismo regionale,<br />
dunque, ove <strong>il</strong> godimento dei diritti<br />
civ<strong>il</strong>i e sociali dipenderà dalle risorse<br />
e dalla capacità di spesa delle regioni,<br />
peraltro fortemente differenziata<br />
su base territoriale.<br />
Sotto <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o più strettamente legato<br />
all’iniziativa politica, devono<br />
essere r<strong>il</strong>anciate alcune posizioni intorno<br />
alle quali penso sia possib<strong>il</strong>e<br />
ottenere <strong>il</strong> sostegno ampio non solo<br />
del Prc e di tutta la sinistra di alternativa,<br />
ma anche di quei movimenti<br />
di ispirazione solidale che sanno legare<br />
la questione delle riforme istituzionali<br />
a quella <strong>della</strong> difesa e dell’ampliamento<br />
dei diritti sociali:<br />
1. Occorre abrogare, con legge costituzionale,<br />
<strong>il</strong> terzo comma dell’art.116<br />
<strong>della</strong> Costituzione che consente<br />
l’attuazione di quel federalismo<br />
differenziato che, se attuato,<br />
minerebbe l’unità e la coesione sociale<br />
del paese.<br />
2. Alcune materie di r<strong>il</strong>evanza sociale<br />
come la sicurezza sul lavoro, la previdenza<br />
integrativa, le reti energetiche<br />
e i trasporti devono ritornare alla<br />
competenza esclusiva dello Stato.<br />
3. Va superata la sussidiarietà orizzontale<br />
perché torni la centralità<br />
<strong>della</strong> questione sociale come obbligo<br />
nell’erogazione dei servizi da parte<br />
del pubblico.<br />
4. Come richiesto già dalla Corte Costituzionale,<br />
vanno definiti con legge<br />
ordinaria i livelli essenziali delle prestazioni<br />
dei diritti sociali.<br />
5. Con l’approvazione del nuovo codice<br />
delle autonomie locali, occorre<br />
una più netta e precisa definizione<br />
delle funzioni amministrative e delle<br />
competenze ripartite fra comuni, province,<br />
regioni e città metropolitane.<br />
6. Occorre un equo b<strong>il</strong>anciamento fra<br />
autonomia, responsab<strong>il</strong>ità (dove ‘responsab<strong>il</strong>ità’<br />
non può significare unicamente<br />
capacità autonoma di spesa<br />
virtuosa e rispetto dei vincoli del<br />
patto interno di stab<strong>il</strong>ità per i saldi<br />
complessivi di b<strong>il</strong>ancio, ma anche e<br />
soprattutto sanzioni rigorose per<br />
quelle regioni che assumono competenze<br />
rafforzate, senza però garantire<br />
livelli essenziali delle prestazioni, si<br />
pensi ad esempio al sistema scolastico)<br />
e solidarietà intesa come valore<br />
costituzionale vincolante.<br />
In conclusione, individuo nell’accelerata<br />
attuazione dell’art.116 terzo<br />
comma, contenuto nel disegno di<br />
legge sul federalismo fiscale proposto<br />
dal Governo un potenziale pericoloso<br />
cedimento politico alle istanze del<br />
costituendo Partito democratico del<br />
Nord e alle sirene «leghiste»: temo,<br />
in particolare, l’effetto trascinamento<br />
che ne deriverebbe, soprattutto in<br />
assenza di una politica che fornisca<br />
risposte al fabbisogno sociale del<br />
paese.<br />
L’esito inappellab<strong>il</strong>e del voto referendario<br />
del 25 e 26 giuno 2006 contro<br />
la modifica <strong>della</strong> seconda parte <strong>della</strong><br />
costituzione, contro la «devolution» e<br />
in difesa <strong>della</strong> costituzione repubblicana<br />
(soprattutto nel Mezzogiorno e<br />
nelle regioni più povere del paese),<br />
segnala una preoccupazione civ<strong>il</strong>e e<br />
sociale a cui <strong>il</strong> Partito <strong>della</strong> rifondazione<br />
comunista non può restare certamente<br />
indifferente. <br />
1. Alberto Zanardi (a cura di), Per lo sv<strong>il</strong>uppo.<br />
Un federalismo fiscale responsab<strong>il</strong>e e<br />
solidale, <strong>il</strong> Mulino, Bologna 2006, p. 11.
PIERO DI SIENA*<br />
Marx scriveva nella<br />
Prefazione alla Critica<br />
dell'economia politica che<br />
quello che egli cercava<br />
nell'economia politica<br />
erano i fondamenti di<br />
un’anatomia <strong>della</strong> società<br />
civ<strong>il</strong>e, intesa come <strong>il</strong><br />
complesso delle<br />
condizioni materiali di<br />
vita del genere umano in<br />
una determinata epoca.<br />
Ebbene, penso che a noi<br />
tocchi un compito <strong>della</strong><br />
stessa portata<br />
* SENATORE SINISTRA DEMOCRATICA<br />
EVICEPRESIDENTEARS<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
essere<br />
comunisti, perché?<br />
Cari compagni, la domanda che vi pongo – perché essere comunisti<br />
oggi? – fatta da uno che m<strong>il</strong>ita in un’altra formazione politica (oggi<br />
Sinistra democratica), può apparire brutalmente invasiva, sembrare<br />
un’ingerenza priva di ogni legittimo fondamento. Non mi sfugge affatto che,<br />
quando come in questo caso si affronta <strong>il</strong> tema dell’identità altrui, prima che<br />
le culture e l’agire politico si tocca <strong>il</strong> simbolico, le emozioni, la costituzione<br />
di senso che si genera nel complesso rapporto tra politica e vita. Per questo<br />
affrontare una discussione sul tema dell’identità è questione di grande delicatezza<br />
su cui in genere si sorvola quando si intende stringere rapporti unitari<br />
a sinistra.<br />
Eppure in questa non ingerenza io vedo anche <strong>il</strong> segno di una sorta di neodoroteismo,<br />
una diplomatizzazione delle relazioni, un’implicita ammissione<br />
che su di esse i problemi identitari non hanno alcun peso (a meno che non<br />
si voglia agitarli strumentalmente come pregiudizi ideologici). Che, insomma,<br />
l’identità politica ha un valore puramente autoreferenziale, una funzione<br />
di mera rassicurazione per chi la condivide, senza un’influenza effettiva<br />
nell’azione politica concreta.<br />
Penso che, se si vuole tornare alla grande politica a sinistra, è necessario superare<br />
questo sostanziale «riduttivismo» sul tema dell’identità, capire che<br />
esso più che di ascolto reciproco e di apertura intellettuale è figlio dell’indifferenza,<br />
che l’evoluzione <strong>della</strong> globalizzazione neoliberista (quella che Bauman<br />
ha battezzato «società liquida») ha prodotto per le culture politiche sostituendole<br />
con i grandi «feticci» del tempo presente (l’idolatria dei beni di<br />
consumo, i fondamentalismi religiosi ecc.). Perciò sarebbe ora che a sinistra<br />
<strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio critico delle culture politiche e delle identità ereditate dal Novecento<br />
(affidato alla rinascita di un forte senso <strong>della</strong> storia in contrasto con<br />
l’appiattimento su un presente che cancella passato e futuro, frutto di sociologia<br />
e politologia imperanti) venga fatto seriamente, fino in fondo e con<br />
spirito aperto da parte di tutti. Insomma, senza realizzare quel necessario<br />
passaggio dalla rimozione o dalla riproposizione acritica dell’eredità che le<br />
deriva dal proprio passato al b<strong>il</strong>ancio critico <strong>della</strong> propria storia, la sinistra<br />
diffic<strong>il</strong>mente uscirà dalla minorità da cui è afflitta nel tempo presente.<br />
Ma voglio porre a voi questa domanda anche per una seconda ragione. Nel<br />
corso degli ultimi dieci anni, tra la tendenza che avete rappresentato in Rifondazione<br />
comunista e quanti come me si battono per l’unità e <strong>il</strong> rinnovamento<br />
<strong>della</strong> sinistra, vi sono stati più di un punto di contatto. Abbiamo da<br />
entrambe le parti vissuto con sofferenza la rottura <strong>della</strong> coalizione di centrosinistra<br />
nel 1998; abbiamo spinto parallelamente sia pure senza successo affinché<br />
nel 2001 si superasse la divisione tra l’Ulivo d’allora e Rifondazione;<br />
abbiamo guardato entrambi criticamente all’esaltazione dei movimenti come<br />
esclusivo punto di riferimento <strong>della</strong> sinistra. E anche oggi voglio interpretare<br />
la precoce critica da voi avanzata all’esperienza dell’Unione non come un ir-<br />
27
28<br />
rigidimento settario ma come una<br />
forma di cautela per l’osc<strong>il</strong>lazione<br />
che si sarebbe potuta produrre a sinistra<br />
tra movimentismo e politicismo.<br />
Ci accomuna poi un rapporto<br />
con la storia del Pci che non prevede<br />
abiure, anche per gli aspetti relativi<br />
ai rapporti internazionali tenuti<br />
da quel partito nella sua complessa<br />
e articolata esperienza. Anche se<br />
probab<strong>il</strong>mente diversa è la prospettiva<br />
con cui guardiamo al peso <strong>della</strong><br />
sua eredità nella situazione attuale.<br />
Dunque: perché essere comunisti<br />
oggi? Siamo sicuri, cioè, che nel bagaglio<br />
culturale, nell’esperienza politica<br />
e nella storia che abbiamo ereditato<br />
dal comunismo del Novecento<br />
vi sia un patrimonio che possa<br />
servire alla riformulazione di una<br />
teoria <strong>della</strong> trasformazione dell’ordine<br />
sociale esistente all’altezza delle<br />
contraddizioni dell’oggi, in cui <strong>il</strong> superamento<br />
del capitalismo venga<br />
concepito come una possib<strong>il</strong>ità piuttosto<br />
che come una necessità? Questa<br />
è la domanda cruciale a cui rispondere<br />
(che a sinistra da tempo non<br />
viene nemmeno più posta), e dal<br />
cui esito dipende la risposta al primo<br />
e fondamentale quesito che vi<br />
pongo. Oggi è possib<strong>il</strong>e che ci si dichiari<br />
comunisti senza tuttavia<br />
avanzare alcuna ipotesi di trasformazione<br />
<strong>della</strong> società, non perché la<br />
si neghi in via di principio, come<br />
pure avviene per altre correnti <strong>della</strong><br />
sinistra contemporanea, ma perché<br />
implicitamente la si ritiene fuori dall’orizzonte<br />
delle eventualità storicamente<br />
possib<strong>il</strong>i. Né la critica no-global<br />
al capitalismo contemporaneo<br />
può costituire <strong>il</strong> punto di partenza di<br />
una nuova pratica <strong>della</strong> trasformazione,<br />
non avendo sostanzialmente<br />
rimosso quella scissione tra produzione<br />
e consumo che costituisce sul<br />
piano generale la principale forma<br />
di alienazione attraverso cui passa<br />
oggi nella coscienza dei più <strong>il</strong> dominio<br />
del capitale.<br />
Per incominciare a interrogarsi su<br />
quale possa essere la risposta alle<br />
contraddizioni <strong>della</strong> nostra epoca segnata<br />
dalla globalizzazione, ricomincerei<br />
da Marx, dal suo metodo più<br />
che dai risultati <strong>della</strong> sua lunga e complessa ricerca, per forza di cose condizionata<br />
dai problemi del suo tempo e dal grado di sv<strong>il</strong>uppo storico del secolo<br />
in cui è vissuto. Marx scriveva nella Prefazione alla Critica dell’economia politica,<br />
testo che costituisce una sorta di dichiarazione programmatica sulle intenzioni<br />
che lo avrebbero ispirato nel lavoro di ricerca del Capitale, che quello che<br />
egli cercava nell’economia politica erano i fondamenti di un’anatomia <strong>della</strong><br />
società civ<strong>il</strong>e, intesa come <strong>il</strong> complesso delle condizioni materiali di vita del<br />
genere umano in una determinata epoca.<br />
Ebbene, penso che a noi – rispetto al capitalismo contemporaneo – tocchi un<br />
compito <strong>della</strong> stessa portata, che anche la critica al neoliberismo che si è sv<strong>il</strong>uppata<br />
nel corso di questi decenni se resta fine a se stessa non produrrà mai<br />
una nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione sociale che affronti le contraddizioni<br />
<strong>della</strong> nostra epoca, se essa non affida a se stessa <strong>il</strong> compito di aprire la strada a<br />
un’anatomia <strong>della</strong> società civ<strong>il</strong>e del nostro tempo. Ebbene, se solo si muovono i<br />
primi passi in questa direzione non è diffic<strong>il</strong>e scoprire che l’ormai lunga rivoluzione<br />
neoconservatrice apertasi negli anni Settanta ha provocato cambiamenti<br />
nell’assetto del capitalismo di una portata ben più profonda e radicale di<br />
quelli prodottisi tra l’Ottocento e <strong>il</strong> Novecento con l’avvento dell’imperialismo,<br />
la cui presa d’atto non a caso costituì <strong>il</strong> principale fondamento <strong>della</strong> svolta impressa<br />
da Lenin all’indirizzo del movimento operaio internazionale nel corso<br />
<strong>della</strong> Prima guerra mondiale. Non si tratta di fare concessioni a quelle teorie,<br />
elaborate in particolare in Impero da Michael Hardt e Antonio Negri, che individuano<br />
nella contrapposizione tra «impero» e «moltitudini» <strong>il</strong> tratto costitutivo<br />
del nuovo capitalismo dell’età <strong>della</strong> globalizzazione. Con questa impostazione,<br />
smentita dallo sv<strong>il</strong>uppo delle contraddizioni di tipo geopolitico che segnano<br />
le odierne vicende internazionali dominate da un rinnovato primato<br />
<strong>della</strong> guerra e del conflitto tra capitalismi, voi avete giustamente polemizzato<br />
quando sembrava potesse influenzare gli orientamenti <strong>della</strong> maggioranza del<br />
vostro partito nel congresso di Rifondazione del 2001. E tuttavia se si procede,<br />
sia pure per timidi accenni, a trasformare la critica del liberismo in una nuova<br />
anatomia dei movimenti profondi delle società contemporanee è fac<strong>il</strong>e vedere<br />
come ci si trovi di fronte a problemi costitutivi dello stesso modo di produzione<br />
capitalistico che risultano del tutto inediti.<br />
Il primo fra tutti questi problemi è che, se esaminiamo a fondo le trasformazioni<br />
che sono avvenute nel rapporto tra lavoro e produzione capitalistica, ci<br />
tocca constatare che lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale avviene<br />
sempre più nell’ambito del rapporto (nel cuore stesso del processo produtti
vo) tra lavoratore-individuo e capitale<br />
impersonale. È questione che<br />
appare del tutto evidente se ci soffermiamo<br />
a esaminare i modelli organizzativi<br />
<strong>della</strong> produzione nella<br />
fabbrica contemporanea, le radici<br />
strutturali dei processi di precarizzazione<br />
del lavoro, <strong>il</strong> rapporto tra lavoro<br />
e non-lavoro sia nelle società<br />
sv<strong>il</strong>uppate (vecchie e nuove) che<br />
nelle immense aree diseredate del<br />
resto del mondo. Ora, non deve<br />
sfuggire l’enorme rovesciamento<br />
teorico e pratico che una sim<strong>il</strong>e condizione<br />
impone a un’idea <strong>della</strong> trasformazione<br />
sociale che miri ad<br />
aprire un processo storico di superamento<br />
del capitalismo. Se nell’Ottocento<br />
e nel Novecento <strong>il</strong> problema<br />
<strong>della</strong> liberazione del lavoro dalla sua<br />
condizione di sfruttamento era un<br />
processo di emancipazione collettiva<br />
da una condizione altrettanto collettiva<br />
di subordinazione, e aveva nella<br />
realizzazione del principio di uguaglianza<br />
<strong>il</strong> suo compimento, ora tale<br />
processo non può che prendere le<br />
mosse dall’individuo che lavora, e<br />
trova <strong>il</strong> suo riscatto nella realizzazione<br />
<strong>della</strong> sua libertà. E non è un caso<br />
che l’organizzazione capitalistica<br />
<strong>della</strong> società, per, in un certo senso,<br />
«esorcizzare» la carica eversiva che<br />
potrebbe derivare dalla percezione<br />
di sé come individuo da parte del lavoratore,<br />
tende a «collettivizzare» la<br />
condizione umana nel mercato, rispetto<br />
a cui gli uomini e le donne<br />
del mondo contemporaneo sono indotti<br />
a percepirsi o come consumatori<br />
o, appunto, come moltitudini escluse<br />
dai consumi delle società opulente e<br />
dai loro valori. La scelta di questa<br />
prospettiva, lungi dal mettere in discussione<br />
quel legame sociale rappresentato<br />
dalle classi, restituisce<br />
loro una nuova funzione in quanto<br />
condizione di una solidarietà interindividuale<br />
che nasce dalla comune<br />
posizione nei rapporti di produzione<br />
e di scambio. Anzi, si potrebbe dire<br />
che nell’età <strong>della</strong> globalizzazione –<br />
almeno a certe condizioni di sv<strong>il</strong>uppo<br />
delle forze produttive – vi sia<br />
una sorta di «ritorno» dalle masse,<br />
che hanno costituito <strong>il</strong> tratto distin-<br />
tivo dell’organizzazione <strong>della</strong> società<br />
e dei sistemi politici del Novecento,<br />
alle classi. E quindi come per Hannah<br />
Arendt l’avvento <strong>della</strong> società<br />
di massa aveva portato al declino<br />
delle classi, l’età <strong>della</strong> globalizzazione<br />
ne potrebbe riproporre in termini<br />
nuovi la fondamentale funzione.<br />
Si può obiettare che tale nozione<br />
dell’individuo e <strong>della</strong> libertà tende a<br />
confondersi in modo equivoco con<br />
le principali categorie proprie del liberismo.<br />
Si potrebbe allora orientare<br />
la ricerca teorica a scavare sulla fecondità<br />
analitica di approcci culturali<br />
al tema dell’individuo estranei alla<br />
tradizione liberale, dalla categoria<br />
<strong>della</strong> «singolarità impersonale»<br />
avanzata negli anni Trenta del secolo<br />
scorso da Simone We<strong>il</strong>, nella sua<br />
breve eppure intensa esperienza intellettuale,<br />
a quella condizione<br />
umana evocata dall’esistenzialismo<br />
che è propria del singolo e del suo<br />
essere-al-mondo.<br />
Un tale ripensamento <strong>della</strong> nozione<br />
di individuo, al di fuori <strong>della</strong> tradizione<br />
liberale e dei suoi aggiornamenti<br />
operati dal neoliberismo, consentirebbe<br />
anche di approfondire <strong>il</strong><br />
nesso organico che può essere rintracciato<br />
tra <strong>il</strong> peculiare rapporto tra<br />
capitale e lavoro impostosi nell’età<br />
<strong>della</strong> globalizzazione e l’altra cruciale<br />
questione che riguarda la fondazione<br />
di una nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione.<br />
Mi riferisco al tema<br />
<strong>della</strong> differenza di genere, che si riferisce<br />
a quel fondamentale aspetto<br />
<strong>della</strong> condizione umana che evidentemente<br />
prescinde dalla dimensione<br />
storica <strong>della</strong> formazione sociale capitalistica,<br />
che insomma la precede e<br />
la segue, e che tuttavia diviene storicamente<br />
influente al fine <strong>della</strong> costruzione<br />
dell’agire politico proprio<br />
in relazione al nuovo processo di individualizzazione<br />
che si realizza nell’odierno<br />
rapporto tra capitale e lavoro.<br />
Assumere questa prospettiva,<br />
inoltre, consente di capire come vi<br />
sia un rapporto organico, e non una<br />
sovrapposizione come è apparso ad<br />
alcune correnti del socialismo europeo,<br />
tra questione sociale e tematica<br />
dei nuovi diritti, quelli derivanti da<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
Se nell'Ottocento e<br />
nel Novecento <strong>il</strong> problema<br />
<strong>della</strong> liberazione del<br />
lavoro dalla sua condizione<br />
di sfruttamento era un<br />
processo di emancipazione<br />
collettiva da una<br />
condizione altrettanto<br />
collettiva di<br />
subordinazione, e aveva<br />
nella realizzazione del<br />
principio di uguaglianza <strong>il</strong><br />
suo compimento, ora tale<br />
processo non può che<br />
prendere le mosse<br />
dall'individuo che lavora,<br />
e trova <strong>il</strong> suo riscatto<br />
nella realizzazione <strong>della</strong><br />
sua libertà<br />
29
30<br />
una nuova concezione <strong>della</strong> sessualità e del rapporto tra<br />
la vita e la morte, cioè da una condizione umana storicamente<br />
in trasformazione nel suo stesso fondamento antropologico.<br />
Lo stesso vale per la questione cruciale del<br />
rapporto tra uomo e natura e le nozioni di compatib<strong>il</strong>ità<br />
e crescita che ne derivano, <strong>della</strong> necessità di un nuovo<br />
modello di sv<strong>il</strong>uppo pena la sopravvivenza stessa del genere<br />
umano.<br />
Questa relazione tra status sociale e condizione umana,<br />
tra economia e politica, tra materialità e simbolico – insomma<br />
per dirla con Marx tra struttura e sovrastruttura –<br />
rimanda al nesso strettissimo, che più che in Marx è presente<br />
nell’analisi del capitalismo di Weber (benché questa<br />
sia orientata attraverso <strong>il</strong> concetto di «razionalizzazione»<br />
alla sua conservazione e riproduzione piuttosto che al<br />
suo superamento) tra processi di civ<strong>il</strong>izzazione ed evoluzione<br />
dei rapporti di produzione. Ciò potrebbe consentire di<br />
cominciare a sondare le ragioni che stanno alla base del<br />
paradosso che caratterizza l’epoca <strong>della</strong> globalizzazione,<br />
non sufficientemente analizzato a sinistra, in cui al massimo<br />
di integrazione e mondializzazione del mercato corrisponde<br />
<strong>il</strong> massimo di incomunicab<strong>il</strong>ità e di contrapposizione<br />
tra le culture ridotte a fondamentalismi l’uno contro<br />
l’altro armati (ciò che Huntington ha chiamato<br />
«scontro di civ<strong>il</strong>tà»). È a ben vedere questa situazione,<br />
prodotto diretto del capitalismo dell’età <strong>della</strong> globalizzazione,<br />
che impedisce alla sinistra di riassumere dopo <strong>il</strong><br />
crollo del «socialismo realizzato» una rinnovata dimensione<br />
mondiale, circoscrivendone nella sostanza ruolo e<br />
funzione alla sola Europa. È come se, dopo un ciclo storico<br />
durato più di un secolo, la sinistra fosse tornata alle<br />
origini, al suo luogo di nascita. Si tratta di una questione<br />
cruciale. Infatti, se la realistica presa d’atto di questa situazione<br />
dovrebbe condurre a considerare <strong>il</strong> socialismo<br />
europeo in tutte le sue componenti l’ambito nel quale<br />
iniziare a misurare l’efficacia del rinnovamento di cui ci<br />
sarebbe bisogno, d’altra parte la sinistra ben diffic<strong>il</strong>mente<br />
potrebbe uscire dalla sua crisi se fosse costretta dal declino<br />
dell’universalismo <strong>della</strong> civ<strong>il</strong>izzazione europea di cui è<br />
figlia in una dimensione sostanzialmente eurocentrica.<br />
Questo complesso di riflessioni – che ritorna attuale nel<br />
momento in cui da più parti si invoca la nascita di un<br />
nuovo soggetto <strong>della</strong> sinistra italiana – ha cercato nel<br />
nostro paese, spesso senza successo, di aprirsi un varco<br />
nel dibattito a sinistra nel decennio trascorso. Ed è d’obbligo<br />
in questo momento riconoscere <strong>il</strong> debito politico e<br />
intellettuale contratto da tale indirizzo di pensiero con<br />
due persone che non ci sono più. Una è Bruno Trentin<br />
che caratterizzò negli anni Novanta la sua collaborazione<br />
alla <strong>rivista</strong> «Finesecolo» (diretta da me e Adriana Buffardi)<br />
proprio lavorando all’approfondimento di una nuova<br />
concezione <strong>della</strong> libertà, che poi sv<strong>il</strong>uppò nel suo libro<br />
La libertà viene prima. L’altro è Claudio Sabattini che attraverso<br />
<strong>il</strong> tentativo di dar vita al movimento «Lavoro e<br />
Libertà», in stretta collaborazione con Aldo Tortorella,<br />
gettò le basi di quella «rivoluzione copernicana» <strong>della</strong><br />
concezione del rapporto tra individuo e modo di produzione<br />
di cui abbiamo parlato. Che questa innovazione sia<br />
venuta da due personalità segnate nella loro esperienza<br />
politica e intellettuale dal lungo e profondo rapporto con<br />
<strong>il</strong> principale comparto <strong>della</strong> classe operaia italiana, quello<br />
dei metalmeccanici, a me pare segno di non poco significato.<br />
Insomma, se questo ragionamento ha un qualche fondamento<br />
e si conviene che sia vero l’assunto che una<br />
nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione sociale deve misurarsi<br />
con questa dimensione dei problemi del tutto nuova<br />
prodotta dal capitalismo <strong>della</strong> globalizzazione, che cosa<br />
c’entra con tutto questo la proprietà collettiva dei mezzi<br />
di produzione, una certa concezione del rapporto tra<br />
partito e masse, una certa idea <strong>della</strong> funzione e del ruolo<br />
dello Stato nella società e nell’economia, in una parola <strong>il</strong><br />
comunismo, cioè quel movimento che per forza di cose è<br />
figlio <strong>della</strong> società di massa del Novecento e che ha vissuto<br />
la sua esperienza politica ambiguamente a cavallo<br />
tra totalitarismo e democrazia, che di quella società rappresentano<br />
i modelli politici prevalenti non a caso ambedue<br />
in crisi? Mi sembra emblematico che dopo <strong>il</strong> crollo<br />
dell’89 chi ha voluto conservare <strong>il</strong> nome «comunista»<br />
sia ricorso a rappresentare <strong>il</strong> comunismo o come un orizzonte<br />
o come una idea regolativa, una sorta di guida per<br />
l’azione, in ambedue i casi un kantiano «dover essere».<br />
Ma <strong>il</strong> problema che oggi la sinistra ha di fronte è di tutt’altra<br />
natura. Si tratta cioè di ricostruire dalle fondamenta<br />
quello che per Marx avrebbe dovuto essere <strong>il</strong> comunismo,<br />
cioè non un orizzonte né un’idea regolativa<br />
ma quel «movimento reale che cambia lo stato di cose<br />
presente». Qualora si volesse riproporre questo obiettivo,<br />
si dovrebbe prendere atto che le esperienze del movimento<br />
operaio del secolo scorso sono del tutto inut<strong>il</strong>izzab<strong>il</strong>i<br />
a tal fine. Ricorrere surrettiziamente a esse significa<br />
involontariamente non rendere giustizia alla loro<br />
grandezza, sebbene storicamente esaurita, e affrontare<br />
non adeguatamente i compiti del presente.<br />
Vorrei dirvi, insomma, «cerchiamo ancora» come nel<br />
cuore degli anni Ottanta ci suggerì Claudio Napoleoni. A<br />
me sembra <strong>il</strong> modo migliore di restare fedeli alle passioni<br />
e alle scelte di tutta una vita.
BRUNO STERI*<br />
Intendo riferirmi a<br />
quel poderoso dispositivo<br />
di rimozione che ha<br />
investito quella che<br />
chiamavamo<br />
«sinistra»(comunista o<br />
non) verso la fine del<br />
secolo scorso,<br />
all’indomani del fatidico<br />
’89: vero e proprio<br />
passaggio epocale, che ha<br />
condotto –<br />
consapevolmente o meno –<br />
a una sorta di<br />
«introiezione <strong>della</strong><br />
sconfitta» e, con questa, a<br />
un progressivo<br />
adattamento a contenuti e<br />
valori <strong>della</strong> controparte<br />
già trionfante<br />
* DIRETTORE DI «ESSERE COMUNISTI»<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
perché essere comunisti<br />
Piero Di Siena ci sollecita a rispondere a una domanda che è evidentemente<br />
per noi cruciale: perché essere comunisti oggi? Si può, beninteso,<br />
restare affezionati a un nome, persistere per inerzia nel «chiamarsi»<br />
comunisti: ma l’interrogativo sull’«essere» comunisti chiama in<br />
causa direttamente e senza diplomazie l’adeguatezza del nome alla cosa. Si<br />
va insomma diritti alla sostanza; e lo si fa col tono giusto, riconoscendo cioè<br />
nel contempo la problematicità, <strong>il</strong> peso concettuale ma anche la delicatezza<br />
simbolico-emozionale <strong>della</strong> questione. Di questo ringraziamo <strong>il</strong> nostro interlocutore:<br />
c’è bisogno di riaprire un confronto di lunga lena su temi di fondo,<br />
che non dovrebbero esser costretti nei tempi dell’urgenza politica, magari<br />
nei termini di svolte sommarie o a colpi di decreti congressuali.<br />
Uguaglianza e libertà<br />
Un contributo non reticente, che per così dire espone <strong>il</strong> suo autore, reclama<br />
nell’accordo e nel disaccordo un’interlocuzione altrettanto generosa e netta.<br />
Dico subito che mi convincono <strong>il</strong> programma di lavoro e le modalità di ricerca<br />
proposte da Di Siena: tornare a porci nella visuale marxiana di un’indagine<br />
sui «fondamenti di un’anatomia <strong>della</strong> società civ<strong>il</strong>e», per provare a<br />
delineare i punti di forza di una «teoria <strong>della</strong> trasformazione sociale che affronti<br />
le contraddizioni <strong>della</strong> nostra epoca». L’epoca – appunto – di una «rivoluzione<br />
conservatrice» proiettata su dimensioni planetarie dalla globalizzazione<br />
capitalistica. Molto meno mi convince <strong>il</strong> punto di caduta <strong>della</strong> sua<br />
argomentazione, tesa a premiare più «<strong>il</strong> metodo» che non «i risultati <strong>della</strong><br />
(…) lunga e complessa ricerca» di Marx. Non mi convince la contrapposizione<br />
che vede, da una parte, un obsoleto approccio otto-novecentesco, tutto<br />
imperniato sulla connessione stretta tra liberazione del lavoro e «processo di<br />
emancipazione collettiva» in vista <strong>della</strong> realizzazione del principio di uguaglianza<br />
e, dall’altra parte, una concezione di tale processo adeguata all’oggi,<br />
che in forme del tutto nuove prenda le mosse dall’individuo in vista <strong>della</strong><br />
realizzazione <strong>della</strong> sua libertà. Non penso che i connotati dell’odierna condizione<br />
umana, indotti dalla possente spinta globalizzatrice del capitale, autorizzino<br />
l’inaugurazione di una antropologia postcomunista e un progetto di<br />
trasformazione del tutto nuovo, in discontinuità con i caratteri fondamentali<br />
dell’analisi marxiana <strong>della</strong> formazione sociale capitalistica.<br />
Beninteso, c’è una parte dell’esigenza che ci viene proposta che va attentamente<br />
considerata: che, tra l’altro, non nasce come un fungo e può anzi<br />
vantare autorevoli precedenti. Di Siena converrà che la sua esigenza può essere<br />
situata dentro una tradizione, un f<strong>il</strong>one del marxismo: quello che è alquanto<br />
genericamente individuato come marxismo etico. Un f<strong>il</strong>one particolarmente<br />
influente proprio nel nostro paese, se è vero che autorevole è stata la<br />
lezione di Antonio Banfi e che, per altro verso, intere generazioni nei decenni<br />
passati si sono formate alla scuola di Galvano Della Volpe e, su questa<br />
31
32<br />
scia, hanno seguito l’insegnamento<br />
e l’elaborazione del citato Claudio<br />
Napoleoni: nomi – questo ultimi –<br />
cui, ad esempio, Fausto Bertinotti e<br />
Alfonso Gianni si sono richiamati<br />
(in Le idee che non muoiono, uno dei<br />
loro primi lavori). In riferimento<br />
alla lettura di Marx, tali orientamenti<br />
hanno anche supportato un<br />
intento condivisib<strong>il</strong>e: recuperare<br />
una certa unitarietà nella riflessione<br />
del grande rivoluzionario di Treviri,<br />
ritematizzare l’ispirazione etica del<br />
«giovane» Marx evitando di decretarne<br />
troppo frettolosamente la caducità<br />
in contrapposizione al Marx<br />
«maturo» del Capitale (che appunto<br />
avrebbe liquidato i giovan<strong>il</strong>i furori<br />
umanistici in nome <strong>della</strong> scienza <strong>della</strong><br />
società). Per parte mia, non è in<br />
questione la portata peculiarmente<br />
scientifica («i risultati») <strong>della</strong> riflessione<br />
marxiana: quella che, affinandosi<br />
con lo studio approfondito dell’economia<br />
classica inglese, ne recupera<br />
la forza analitica e – insieme –<br />
ne denuncia <strong>il</strong> limite storico e apologetico,<br />
pervenendo a una compiuta<br />
teoria del plusvalore capitalistico.<br />
Solo, parrebbe anche a me poco<br />
convincente spaccare nettamente<br />
spaccare in due un percorso di ricerca,<br />
quasi a voler separare <strong>il</strong> grano<br />
dalla crusca: soprattutto se la crusca<br />
è intesa essere la prospettiva etica di<br />
Marx (e dei comunisti).<br />
Tutto ciò ha evidentemente a che<br />
vedere con la questione <strong>della</strong> libertà<br />
e dell’uguaglianza. In una fase storica<br />
in cui i princìpi, i valori, la storia<br />
e le prospettive dei comunisti sono<br />
state messe all’indice da un capitali-<br />
smo trionfante, è fondamentale tornare<br />
a porre all’ordine del giorno<br />
del dibattito ideale non solo la concreta<br />
possib<strong>il</strong>ità ma – oggi, nel vivo<br />
di una «catastrofe dell’uguaglianza»<br />
– perfino la necessità di un ordine<br />
superiore di libertà, di un progetto di<br />
liberazione dell’essere umano da catene<br />
sociali che, lungi dall’essere<br />
«naturali», mostrano <strong>il</strong> loro carattere<br />
storicamente determinato. Una<br />
civ<strong>il</strong>tà – quale quella liberale – in<br />
cui l’altro è sentito come limite al dispiegamento<br />
<strong>della</strong> propria libertà è<br />
una civ<strong>il</strong>tà che, nonostante (e in<br />
contraddizione con) le sue potenzialità<br />
progressive, non può andare<br />
lontano. Una società che, a partire<br />
dal luogo <strong>della</strong> produzione di merci<br />
e in concomitanza con l’incremento<br />
<strong>della</strong> ricchezza, potenzia a livello<br />
planetario la negazione dei bisogni<br />
primari <strong>della</strong> maggioranza dell’umanità,<br />
oltre a impedire ai più l’accesso<br />
alla soddisfazione dei bisogni «ricchi»<br />
(l’insieme di condizioni spirituali<br />
e immateriali che permettono<br />
l’esercizio di una «libera attività<br />
umana») – questa è una società tarata<br />
alla radice. Il contributo analitico<br />
offerto da Marx alla rousseauiana<br />
ricerca dell’origine <strong>della</strong> disuguaglianza<br />
ha consentito a questa stessa ricerca<br />
di uscire dal regno dell’utopia,<br />
di connettere indissolub<strong>il</strong>mente impegno<br />
etico e analisi scientifica delle<br />
condizioni di superamento di una<br />
formazione sociale data, fornendo<br />
un concreto senso storico all’abolizione<br />
<strong>della</strong> proprietà privata dei<br />
mezzi di produzione e al superamento<br />
dell’assetto capitalistico <strong>della</strong><br />
produzione medesima.<br />
Se si prende sul serio la lezione hegeliana<br />
che Marx fa propria liberandola<br />
dal suo involucro idealistico – se<br />
quindi non si concede nulla alla vulgata<br />
semplificatrice che la riduce a<br />
visione escatologica – si può ritrovare<br />
quel senso profondo del dramma storico,<br />
che da Hegel passa in Marx ridefinendosi<br />
come storia <strong>della</strong> lotta di<br />
classe: un duro confronto nel seno<br />
stesso del mondo umano, a ridosso<br />
delle contraddizioni e delle imperfezioni<br />
del reale. La vicenda storica prende<br />
corpo allora in una dimensione che<br />
non è annich<strong>il</strong>imento dell’individuo,<br />
ma che è sua dislocazione in un quadro<br />
epocale, all’altezza di un contrasto<br />
tra formazioni sociali; e dentro un<br />
divenire che non è lineare, ma appunto<br />
contraddittorio, che può mettere<br />
capo a configurazioni spurie<br />
(che poco hanno a che vedere con la<br />
levigatezza di un’idea o di un modello).<br />
È con tale complessa eredità che<br />
un progetto di liberazione umana ha<br />
dovuto e deve ancora fare i conti.<br />
Classi e persone<br />
Ora Piero Di Siena ci richiama alla<br />
necessità di ripensare la nozione di<br />
individuo, di meditare sull’esigenza<br />
di una sua nuova e inedita valorizzazione,<br />
alla luce dell’«enorme rovesciamento<br />
teorico e pratico» indotto<br />
dalla globalizzazione capitalistica: ripensamento<br />
che dovrebbe auspicab<strong>il</strong>mente<br />
mettere capo alla «fondazione<br />
di una nuova teoria <strong>della</strong> trasformazione».<br />
Non v’è dubbio che<br />
sotto i nostri occhi si sia prodotta in<br />
questi anni un’accentuazione che ha
toccato la qualità del vivere associato<br />
così come la disposizione delle singole<br />
esistenze. L’attuale «rivoluzione<br />
conservatrice» ha imposto la precarietà<br />
quale cifra dominante del<br />
mondo umano: ciò ha effetti sulla<br />
concezione del sé, sulla sua costituzione,<br />
sul rapporto con i suoi fini.<br />
Non a caso f<strong>il</strong>osofi e sociologi non<br />
mancano di evidenziare i tratti distintivi<br />
dell’individuo contemporaneo,<br />
caratterizzato da un «sé atomizzato»,<br />
spossessato di punti di riferimento<br />
e di criteri sostanziali per la<br />
conduzione <strong>della</strong> propria vita (e<br />
dunque fac<strong>il</strong>e preda di mitologie mediatiche),<br />
esposto a una «cultura<br />
<strong>della</strong> sopravvivenza» che lo fa vivere<br />
in un presente privo di passato e<br />
dall’incerto futuro. A maggior ragione<br />
tali caratteri acquistano concretezza<br />
e spessore sociale non appena<br />
si pensi all’odierna condizione del lavoro<br />
e del non lavoro. Certamente,<br />
<strong>il</strong> suddetto individuo è meno «libero»<br />
e, come tale, soggetto potenzialmente<br />
sensib<strong>il</strong>e alla rivendicazione<br />
di una riappropriazione del sé, <strong>della</strong><br />
propria libertà. In proposito, non<br />
parlerei tuttavia di radicale «rovesciamento»,<br />
quanto piuttosto di potenziamento<br />
su scala planetaria di<br />
un’attitudine che è intrinseca al<br />
modo di produzione capitalistico – la<br />
persistente tendenza a piegare esseri<br />
umani e cose alle leggi del mercato,<br />
a rivoluzionare i rapporti sociali e di<br />
comunità, a rompere i nessi che legano<br />
gli individui alle proprie radici<br />
storico-sociali – e che Marx ha così<br />
ben descritto nel suo Manifesto.<br />
Non mancherò di accennare a quan-<br />
to c’è di effettivamente inedito nell’attuale<br />
congiuntura. Ma prima intendo<br />
colmare quello che, a mio giudizio,<br />
si presenta come un vuoto<br />
nell’argomentazione di Di Siena. Intendo<br />
riferirmi al poderoso dispositivo<br />
di rimozione che ha investito<br />
quella che chiamavamo «sinistra»<br />
(comunista o non) verso la fine del<br />
secolo scorso, all’indomani del fatidico<br />
’89: vero e proprio passaggio epocale,<br />
che ha condotto – consapevolmente<br />
o meno – a una sorta di «introiezione<br />
<strong>della</strong> sconfitta» e, con<br />
questa, a un progressivo adattamento<br />
a contenuti e valori <strong>della</strong> controparte<br />
già trionfante. Un recente articolo<br />
tratto da «<strong>il</strong> manifesto» (L. Pregnolato,<br />
Le tute blu all’assalto del cielo,<br />
del 23 settembre 2007) offre una<br />
mirab<strong>il</strong>e descrizione di cosa fosse la<br />
«coscienza di classe» in Fiat alla<br />
metà degli anni Settanta: «Il Consiglione<br />
di Mirafiori in quel periodo<br />
era di 800 delegati, e non c’è alcun<br />
paragone con le attuali Rsu. Ogni<br />
linea aveva <strong>il</strong> suo delegato, ogni<br />
squadra aveva <strong>il</strong> suo delegato: dove<br />
c’era un caposquadra, c’era anche<br />
un delegato. Ogni delegato veniva<br />
eletto su scheda bianca, e c’era<br />
un’appartenenza, una socialità e un<br />
legame fra <strong>il</strong> delegato e la sua squadra,<br />
e fra la squadra e <strong>il</strong> proprio delegato.<br />
Il Consiglio di fabbrica era<br />
strutturato con delegati di settore,<br />
delegati di officina e poi tutti insieme<br />
a volte si facevano le riunioni del<br />
Consiglione. Nel ’75 lanciammo alla<br />
Fiat m<strong>il</strong>le vertenze sulla salute, la<br />
professionalità, l’ambiente di lavoro.<br />
Facemmo vertenze di officina e di<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
Mi chiedo: quei<br />
lavoratori del Consiglione<br />
di Mirafiori non erano<br />
forse a pieno titolo, essi<br />
sì, «persone», individui<br />
associati capaci di<br />
contendere col conflitto<br />
quote di potere reale, di<br />
appropriarsi del controllo<br />
sul proprio lavoro e, con<br />
esso, <strong>della</strong> propria<br />
dignità?<br />
33
34<br />
reparto, si aprì un grande conflitto<br />
articolato, una grande vertenzialità<br />
articolata che portò a conflitti ma<br />
anche ad accordi sulle condizioni di<br />
lavoro e sulla gestione <strong>della</strong> produzione.<br />
(…) I delegati avevano la capacità,<br />
oltre che di conoscere la loro<br />
squadra – perché la squadra era un<br />
ambiente sociale, lavorare in fabbrica<br />
era una comunità – di conoscere<br />
tutto quello che succedeva. (…) I<br />
delegati avevano <strong>il</strong> controllo assoluto<br />
di come era organizzato <strong>il</strong> lavoro:<br />
quanti siamo, che problemi abbiamo,<br />
quali problemi ambientali,<br />
quante categorie chiedere, cosa chiedere<br />
alla Direzione, manca organico<br />
qui, spostano tre persone in un’altra<br />
linea: perché le hanno spostate? (…)<br />
La Fiat cominciò a maturare che <strong>il</strong><br />
potere del Consiglio di fabbrica e del<br />
sindacato era a un livello che non<br />
poteva né condividere né subire».<br />
E la Fiat agì di conseguenza, fece <strong>il</strong><br />
suo mestiere. Così come, negli anni<br />
Ottanta e dopo – per tutti gli anni<br />
Novanta – fecero <strong>il</strong> loro, i poteri forti<br />
del capitalismo reale. E noi? Cosa<br />
abbiamo fatto noi, o meglio cosa fece<br />
una parte di noi? Piero Di Siena ha<br />
ricordato la figura di uno dei grandi<br />
dirigenti <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong>: Bruno Trentin,<br />
un compagno, un dirigente autorevole<br />
e stimato. Il mio ricordo va alla<br />
Conferenza di programma che la<br />
Cg<strong>il</strong> tenne a Chianciano nell’apr<strong>il</strong>e<br />
del 1989: un «quasi-congresso» fu<br />
definita, una svolta che disegnava<br />
«la nuova Cg<strong>il</strong>». In effetti, Trentin<br />
aprì allo sguardo, in quella sede, dimensioni<br />
generali e tematiche fino<br />
ad allora non indagate. Fu posta, per<br />
la prima volta in una sede sindacale,<br />
la grande questione dei vincoli ambientali<br />
e di uno sv<strong>il</strong>uppo fino ad allora<br />
inteso senza limiti quantitativi<br />
di lungo periodo (è precisamente<br />
questa una delle questioni davvero<br />
inedite cui prima accennavo). In<br />
proposito, Trentin fu lapidario: «Nessuno<br />
può fare la lezione ai disoccupati<br />
o ai braccianti del Bras<strong>il</strong>e sulla<br />
necessità di salvaguardare l’Amazzonia<br />
se non dà al tempo stesso le<br />
prove di voler lottare, qui in Italia e<br />
in Europa, per cambiare <strong>il</strong> governo<br />
dello sv<strong>il</strong>uppo» (Relazione di B. Trentin alla Conferenza di programma Cg<strong>il</strong>,<br />
Chianciano 12-14 apr<strong>il</strong>e 1989). Eppure quella Conferenza passò alla storia<br />
del sindacalismo italiano e <strong>della</strong> sinistra nel suo complesso per tutt’altri motivi:<br />
perché, come scrissero benevolmente i giornali dell’epoca, lo «strappo di<br />
Trentin» finalmente inaugurava <strong>il</strong> passaggio dal «sindacato di classe» al sindacato<br />
dei diritti e delle persone», un sindacato che – commentò Alfredo Reichlin<br />
– sapesse «parlare non solo alle masse ma agli individui, non solo all’operaio<br />
ma all’insieme dell’Italia moderna che intraprende, che pensa e che<br />
produce» («l’Unità», 16 apr<strong>il</strong>e 1989).<br />
Mi chiedo: quei lavoratori del Consiglione di Mirafiori non erano forse a<br />
pieno titolo, essi sì, «persone», individui associati capaci di contendere col<br />
conflitto quote di potere reale, di appropriarsi del controllo sul proprio lavoro<br />
e, con esso, <strong>della</strong> propria dignità? Viceversa, sarà un caso, ma la fine del<br />
«sindacato di classe» – e nonostante l’investimento ufficiale del sindacato<br />
sulle «persone» – ha dato l’avvio a uno dei periodi più neri nella storia del<br />
movimento operaio italiano. Nella prima metà degli anni Novanta (con<br />
Trentin per un certo periodo alla testa <strong>della</strong> più grande forza sindacale) un<br />
micidiale tsunami si è abbattuto sul mondo del lavoro. Nel giro di pochi<br />
anni è stata abrogata la scala mob<strong>il</strong>e, perché «toglie spazio alla contrattazione»:<br />
col risultato che assieme all’abolizione <strong>della</strong> parte automatica di salario<br />
è andata indietro anche quella contrattata. Sono stati siglati i famigerati accordi<br />
del luglio ’92 e ’93, che hanno contrassegnato la mutazione «concertativa»<br />
del sindacato. È stata data la prima devastante spallata alla previdenza<br />
pubblica: con la «riforma» Dini, viene tagliata del 30% la copertura pensionistica.<br />
Nell’insieme, un vero e proprio «colpo di stato» sociale.<br />
Come è potuto accadere? Ha certo ragione Felice Roberto Pizzuti a rispondere<br />
– per la parte relativa alla previdenza – che la ricaduta degli effetti <strong>della</strong><br />
controriforma, da lì a un paio di decenni dopo, non fu allora distintamente<br />
percepita: così che la resistenza del mondo del lavoro fu fiacca. Ma non<br />
basta. Più in generale e più in profondità, era già in atto quella che sopra ho<br />
chiamato «l’introiezione <strong>della</strong> sconfitta», un processo la cui data di nascita<br />
nel nostro paese può essere plasticamente compendiata dallo scioglimento<br />
del più grande partito comunista d’Europa.<br />
L’introiezione <strong>della</strong> sconfitta<br />
Ma da tempo non era più chiaro cosa si dovesse intendere con «sinistra».<br />
Non si tratta qui dell’ovvia considerazione che quel termine aveva da sempre<br />
avuto un riferimento non univoco a tradizioni, ispirazioni, forze politiche<br />
diverse e divise da non lievi contenziosi ideologici. Nonostante questa<br />
multiforme estensione, un senso di massima permaneva a tutti chiaro – almeno<br />
nell’ambito <strong>della</strong> storia europea del Novecento: quello di una determinata<br />
scelta di campo sociale, di un’appartenenza ideale e politica alla storia,<br />
ai valori, alle lotte del movimento operaio. Gli avvenimenti del 1989, oltre a<br />
segnare la profonda crisi del cosiddetto socialismo reale, avevano di fatto impresso<br />
un’accelerazione senza precedenti a un già avviato processo di sfaldamento<br />
delle idee e <strong>della</strong> progettualità politica <strong>della</strong> sinistra in generale. Vi<br />
sono, a mio parere, due punti sensib<strong>il</strong>i la cui erosione ha originato crepe in<br />
un intero edificio teorico e pratico: a) la tesi secondo cui tra i conflitti vecchi<br />
e nuovi che attraversano la totalità sociale ce ne sia uno che resta comunque<br />
fondamentale, segnando specificamente <strong>il</strong> modo di produzione dominante<br />
in occidente – <strong>il</strong> conflitto appunto tra Capitale e Lavoro – dal cui esito<br />
continua a dipendere la possib<strong>il</strong>ità di instaurare una società diversa e più<br />
giusta, oltre che di uno sv<strong>il</strong>uppo delle forze produttive equ<strong>il</strong>ibrato e in sintonia<br />
con i limiti naturali del pianeta; b) la convinzione che una soluzione di<br />
tale conflitto – che è conquista di poteri, decisionali e di controllo, nella società<br />
e nei luoghi di lavoro – passi per una modifica dei rapporti di produ
zione e proprietari e implichi <strong>il</strong> primato<br />
<strong>della</strong> sfera pubblica, ovvero la<br />
preminenza di un’organizzazione<br />
collettiva e consapevole <strong>della</strong> vita<br />
sociale e dello sv<strong>il</strong>uppo produttivo.<br />
Se è vero che questi punti hanno direttamente<br />
ispirato la tradizione comunista<br />
in particolare – o, più in<br />
generale, la sinistra «a impianto<br />
marxista» – è altresì vero che essi<br />
abbiano operato come riferimenti di<br />
massima nelle stesse socialdemocrazie<br />
europee: non è un caso che, con<br />
<strong>il</strong> tracollo dei paesi del socialismo<br />
reale, sia contestualmente sopraggiunta<br />
in Occidente la liquidazione<br />
di qualsiasi idea di piano, sia pure<br />
nella forma addolcita di strumento<br />
regolatore a supporto e correzione<br />
<strong>della</strong> spontaneità delle forze economiche.<br />
In breve, si è ritenuto che<br />
entrambi i punti sopra detti fossero<br />
stati confutati dalla storia: ciò ha determinato,<br />
accanto alla messa all’indice<br />
di qualsiasi prospettiva comunista<br />
(comunque declinata), <strong>il</strong> definitivo<br />
logoramento dell’identità e <strong>della</strong><br />
comune nozione di «sinistra» e<br />
l’adozione contestuale di strumentazioni<br />
concettuali e ispirazioni politiche<br />
già patrimonio dell’ideologia dominante<br />
(poi comprensib<strong>il</strong>mente definita<br />
«pensiero unico»).<br />
È istruttivo, oggi, tornare a quell’euforica<br />
orgia di autodissolvimento che<br />
decretò la falsificazione dell’idea di socialismo<br />
in quanto tale. Si moltiplicarono<br />
gli epitaffi in memoria del caro<br />
estinto. Jürgen Habermas, autorevole<br />
rappresentante <strong>della</strong> scuola di Francoforte,<br />
trasse da quegli eventi la «lezione<br />
inequivoca» secondo cui «le<br />
società complesse non possono riprodursi<br />
se non lasciano intatta la logica<br />
di autoregolazione di un’economia di<br />
mercato» (La rivoluzione in corso, M<strong>il</strong>ano<br />
1990). Sulla medesima scia, Richard<br />
Rorty, f<strong>il</strong>osofo americano erede<br />
<strong>della</strong> tradizione pragmatista – anch’egli<br />
collocato «a sinistra» – non fu<br />
meno perentorio. In un saggio dal titolo<br />
significativo (Gli intellettuali alla<br />
fine del socialismo, in Il Mulino, n°6,<br />
1991), dopo aver notato che «le pubbliche<br />
virtù continueranno a essere<br />
parassiti dei vizi privati» e che quindi<br />
non c’è modo «di assicurare beni e<br />
servizi se non incoraggiando imprenditori<br />
privati ad arricchirsi», egli invitò<br />
a «lasciare i diritti di proprietà al<br />
loro posto» e ad abbandonare <strong>il</strong> vecchio<br />
armamentario terminologico.<br />
Esortò quindi (la «sinistra») a far<br />
fuori dal proprio vocabolario termini<br />
come «economia capitalista», «socialismo»,<br />
o come «borghese» («con <strong>il</strong><br />
suo tradizionale senso peggiorativo»),<br />
in quanto essi avrebbero esaurito<br />
la loro forza, tutta contenuta<br />
nella strana idea che «esistesse un’alternativa<br />
al capitalismo». Invero, le<br />
propensioni «pragmatiste» rischiano<br />
a volte di scadere nel banale. Ma è<br />
proprio questo <strong>il</strong> messaggio più impegnativo<br />
che <strong>il</strong> suddetto saggio voleva<br />
trasmettere: al marxismo veniva<br />
infatti imputato non un difetto quanto,<br />
per così dire, un eccesso di teoria.<br />
L’ossessione dei marxisti è quella di<br />
pretendere di avere o di ricercare<br />
«una profonda conoscenza del moto<br />
<strong>della</strong> storia», di costruire «larghe vie<br />
teoriche», nella convinzione (falsa)<br />
che vi sia bisogno di una «“base teo-<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
rica” per l’azione politica»: di qui «la<br />
sete di favoleggiamenti sulla storia<br />
mondiale e di profonde teorie su<br />
profonde cause del mutamento sociale».<br />
A tutto ciò, <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo contrapponeva<br />
i «piccoli passi» di quanti,<br />
anziché trastullarsi con forze e tendenze<br />
storiche, «si accontentano di<br />
essere concreti, banali e pragmatici»,<br />
nell’intento di «passare dall’istituzione<br />
presente a una un po’ migliore».<br />
Come si vede, proprio i concetti che<br />
danno profondità storica, spessore<br />
strategico alla spiegazione dei fenomeni<br />
economico-sociali (si pensi alla<br />
nozione di «modo di produzione» o<br />
a quella di «classe») venivano a essere<br />
destituiti di efficacia conoscitiva e<br />
r<strong>il</strong>ievo operativo da siffatte forme<br />
«indebolite» di riflessione.<br />
Da qui occorre ripartire per comprendere<br />
le cause profonde che –<br />
sul versante delle «concezioni del<br />
mondo», dei valori dominanti, degli<br />
impianti concettuali – hanno determinato<br />
la poderosa involuzione<br />
degli ultimi due decenni. In sintonia<br />
con la linea argomentativa sopra richiamata,<br />
nel nostro paese fu tra gli<br />
altri <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo Biagio De Giovanni a<br />
fornire un supporto ideale e strategico<br />
alla «svolta» di Ach<strong>il</strong>le Occhetto,<br />
salutando gli avvenimenti dell’89<br />
come «una delle più grandi speranze<br />
di liberazione umana che mai sia<br />
comparsa nella storia» e sanzionando<br />
che «<strong>il</strong> comunismo, come principio<br />
di una realtà politica antagonista,<br />
di una strategia mondiale destinata<br />
a unificare <strong>il</strong> mondo, ha chiuso<br />
la sua esperienza» (Intervista a «<strong>il</strong><br />
manifesto»,24 dicembre 1989).<br />
35
36<br />
Successivamente, in occasione del convegno su Le idee<br />
<strong>della</strong> sinistra organizzato nel febbraio del 1992 dal Partito<br />
democratico <strong>della</strong> Sinistra (cfr. gli atti pubblicati da Editori<br />
Riuniti, Roma 1992), De Giovanni precisava in termini<br />
significativi <strong>il</strong> suo pensiero. In particolare, egli notava<br />
che al progetto di una trasformazione è venuta<br />
meno «l’idea che la storia ha un senso, che c’è un senso<br />
<strong>della</strong> storia che va verso un compimento». In tale affermazione<br />
egli non esprimeva semplicemente una condivisib<strong>il</strong>e<br />
concezione antideterministica dello sv<strong>il</strong>uppo storico,<br />
bensì l’accettazione di una tesi ben più radicale e<br />
restauratrice: la tesi di R. Dahrendorf secondo cui la stessa<br />
«idea di un’altra società, di una società alternativa a<br />
quella esistente, ha in sé una connotazione che conduce<br />
verso <strong>il</strong> “terrore” e <strong>il</strong> totale rinnegamento <strong>della</strong> semplice<br />
ed essenziale umanità dei diritti umani». Come si vede,<br />
a farsi strada è l’idea che vi sia un’irrimediab<strong>il</strong>e frattura<br />
tra la possib<strong>il</strong>ità storica di «rivoluzionare», trasformare<br />
in profondità i rapporti sociali e «<strong>il</strong> carattere universale<br />
del principio di libertà». Ognuno può vedere quanto<br />
grande sia <strong>il</strong> prezzo da pagare non appena si pensi la<br />
sfera dei diritti dell’individuo così irreparab<strong>il</strong>mente contrapposta<br />
all’ambito storico-sociale: in questione finisce<br />
per esser posta niente meno che la possib<strong>il</strong>ità di modificare<br />
un assetto sociale dato. È muovendo da un siffatto<br />
fatale passo che, nel medesimo convegno, si potè poi affermare<br />
una nozione di «democrazia» intesa come «fine<br />
in sé», come valore autonomo e preminente, non necessariamente<br />
inclusivo dell’azione emancipatrice del conflitto<br />
sociale. Nel momento in cui si considera «deperito<br />
<strong>il</strong> fondamento classista <strong>della</strong> solidarietà» (Ach<strong>il</strong>le Oc-<br />
chetto), è possib<strong>il</strong>e parimenti sentenziare che «la democrazia<br />
è formale o non è nulla» (Claudia Mancina), con<br />
buona pace <strong>della</strong> distinzione tra carattere formale e sostanziale<br />
<strong>della</strong> medesima.<br />
Sin da allora, si poteva cogliere <strong>il</strong> divario abissale tra le<br />
proposte di modelli regolativi ideali, privi di aggettivazioni<br />
specificanti («democrazia», «mercato» ecc.), predisposti<br />
per soggetti altrettanto generici (<strong>il</strong> «cittadino» con i suoi<br />
«diritti»), e la dura realtà del «nuovo ordine» capitalistico.<br />
Così, ad esempio, una mente lucida come quella di Luciano<br />
Barca poteva polemizzare con una tale «sconvolgente<br />
foga di cancellazione <strong>della</strong> memoria», stigmatizzando con<br />
ironia quanti si sono affrettati a liquidare «non solo Ricardo,<br />
Marx, Sraffa ma perfino <strong>il</strong> “mercato oligopolistico”<br />
studiato da Sylos Labini» (cfr. L’eresia di Berlinguer, ed. Sisifo).<br />
Oggi, dovremmo essere in grado di affrontare con<br />
una minore ansia e con maggiore cognizione di causa <strong>il</strong><br />
tema di che cosa non ha funzionato in quel grandioso (e<br />
drammaticamente contraddittorio) disegno di superamento<br />
del vigente modo di produzione che è stato <strong>il</strong> «comunismo<br />
reale». Lo possiamo fare, perché abbiamo bene davanti<br />
agli occhi cos’è (e a quali violenze, a quali disastri<br />
sociali e ambientali sta conducendo) su scala planetaria <strong>il</strong><br />
dispiegato «capitalismo reale». Accogliamo dunque di<br />
buon grado l’invito a «cercare ancora». Pensiamo altresì<br />
che di questo «cercare» faccia parte a pieno titolo <strong>il</strong> lavoro<br />
<strong>della</strong> «Rifondazione comunista».
RAUL MORDENTI*<br />
Domandiamoci, ad<br />
esempio: che fine hanno<br />
fatto alcuni m<strong>il</strong>ioni di ex<br />
iscritti al Pci che non<br />
sono andati né nei Ds né in<br />
Rifondazione né nei<br />
<strong>Comunisti</strong> italiani?<br />
* DOCENTE DI STUDI FILOSOFICI, LINGUISTICI E<br />
LETTERARI PRESSO L’UNIVERSITÀ<br />
DI ROMA-TOR VERGATA<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
Rifondazione<br />
comunista<br />
e l’unità a sinistra<br />
Intervento alla Festa di Liberazione di Bologna, 1 agosto 2007<br />
1Ringraziando molto sinceramente dell’invito, debbo precisare che io (al<br />
contrario degli altri interlocutori) non rappresento qui nessun altro che<br />
me stesso e <strong>il</strong> ragionamento, come vedrete molto banale e di buon<br />
senso, che cercherò di dipanare in 6 punti.<br />
Preliminarmente, tento dunque di dare un’interpretazione al mio invito e<br />
alla mia presenza, e l’interpretazione potrebbe essere questa: che nel dibattito<br />
necessario sulla nuova «unità a sinistra» ci sia, e debba esserci, una sorta<br />
di «convitato di pietra», cioè un interlocutore non precisamente identificab<strong>il</strong>e<br />
e strutturato e tuttavia indispensab<strong>il</strong>e, un interlocutore magari sgradito e<br />
tuttavia inevitab<strong>il</strong>e. Penso che questo interlocutore ineludib<strong>il</strong>e possa essere<br />
individuato per ora fra noi nel cosiddetto «popolo <strong>della</strong> sinistra» o, se preferite,<br />
nelle migliaia e decine di migliaia di compagne e compagni che m<strong>il</strong>itano<br />
nella sinistra di alternativa, nei movimenti, nei micro-conflitti quotidiani,<br />
nell’associazionismo, nel volontariato e soprattutto nel sindacato ecc. ma<br />
che non si riconoscono nei nostri partiti (o non ci si riconoscono più: <strong>il</strong> che,<br />
naturalmente, è molto peggio).<br />
Domandiamoci, ad esempio: che fine hanno fatto alcuni m<strong>il</strong>ioni di ex iscritti<br />
al Pci che non sono andati né nei Ds né in Rifondazione né nei <strong>Comunisti</strong><br />
italiani? Oppure pensiamo che, solo per quello che riguarda Rifondazione, <strong>il</strong><br />
turn over degli iscritti si aggira intorno al 20%, a totali stab<strong>il</strong>i o leggermente<br />
in calo, ciò significa che ogni anno circa <strong>il</strong> 20% degli iscritti non ha rinnovato<br />
la tessera; personalmente non so con precisione quanti siano attualmente<br />
gli iscritti al Prc (mi sembra che negli ultimi anni questi dati non siano neppure<br />
più forniti) ma in ogni modo possiamo calcolare fac<strong>il</strong>mente che dal<br />
1991 a oggi ci siano molte decine di migliaia di compagne e compagni che si<br />
sono affacciati nel partito, hanno visto da vicino e direttamente di cosa si<br />
trattava e, per motivi che nessuno si è dato la pena di indagare, sono scappati<br />
via. Per non dire di altre centinaia di migliaia che hanno riempito le<br />
piazze contro la guerra o per difendere l’art. 18 e così via.<br />
Si può pensare seriamente un processo di unità a sinistra «a prescindere»<br />
(come direbbe Totò) dal problema politico costituito da questi compagni e da<br />
queste compagne, i quali (come si diceva una volta) hanno votato la sfiducia<br />
ai nostri partiti con i loro piedi, cioè allontandosene e scappandone via? Io<br />
penso proprio di no; e questo è <strong>il</strong> primo snodo del mio ragionamento, e <strong>il</strong><br />
primo tema che vorrei sottoporre al dibattito.<br />
Si potrebbe affermare che, quanti che siano i soggetti che contribuiranno al<br />
processo unitario di cui parliamo, cioè sia se essi saranno 4 (Prc-Pdci, Verdi,<br />
Sinistra democratica) oppure tre oppure due, oppure, chissà?, cinque o sei,<br />
ebbene occorrerà sempre aggiungere a questo numero n un uno in più, e<br />
questo uno in più deve essere <strong>il</strong>«convitato di pietra» del popolo <strong>della</strong> sinistra<br />
alternativa, le compagne e i compagni senza partito di cui parlavo.<br />
37
Se questo primo tema è condivi-<br />
38 2 so, allora ne consegue direttamente<br />
un secondo, che enuncerei<br />
così: l’unità nuova a sinistra non<br />
può essere in rapporto di continuità<br />
lineare con l’esistente; in altre parole:<br />
credo che nessun soggetto politico<br />
o partito possa considerare <strong>il</strong> processo<br />
di unità a sinistra che si avvia<br />
come <strong>il</strong> prolungamento e l’ampliamento<br />
<strong>della</strong> propria esperienza, insomma<br />
come la conseguenza del<br />
proprio successo politico. Il contrario<br />
è vero: questo processo unitario<br />
deriva da insufficienze, ritardi, errori<br />
di ogni tipo (alcune volte: gravissimi<br />
errori) commessi da ciascuno dei soggetti<br />
che si accingono al processo<br />
unitario, esso è insomma <strong>il</strong> frutto di<br />
una complessiva debolezza (e se volessimo<br />
essere spietati dovremmo<br />
dire: di una generale sconfitta) e<br />
non certo del successo di questo o di<br />
quello. Fausto Bertinotti, nel suo articolo<br />
Massa critica e nuovo soggetto politico<br />
su «Alternative per <strong>il</strong> socialismo»<br />
(a proposito: chissà se l’uso di<br />
questa parola «socialismo», e <strong>il</strong> contemporaneo<br />
abbandono <strong>della</strong> parola<br />
«comunismo» significa qualcosa?)<br />
scrive: «Tocca correre e, insieme,<br />
cercare la strada»; io mi permetterei<br />
di dire: «Tocca correre e, insieme,<br />
cambiare la strada»; anzi (facendo<br />
slittare un po’ <strong>il</strong> significato <strong>della</strong> parola<br />
«insieme», dal significato di<br />
«allo stesso tempo» che ha nel testo<br />
bertinottiano, al senso più letterale e<br />
proprio) io direi: «Tocca correre insieme<br />
e, cambiare strada insieme».<br />
Deriva da questo fatto politico (che<br />
a me sembra incontestab<strong>il</strong>e: baste-<br />
Come può una compagna o un compagno «normale»,<br />
per ipotesi una giovane compagna o un giovane compagno,<br />
sentire come suo, come degno di impegnare e riempire la<br />
sua stessa vita, un partito in cui è necessario iscriversi a<br />
una corrente se si vuole godere di diritti civ<strong>il</strong>i<br />
elementari (come l’elettorato passivo) e in cui,<br />
soprattutto, si decide sempre tutto altrove e «in alto»,<br />
dalle scelte strategiche e teoriche più impegnative fino<br />
alla designazione di un assessore di Municipio?<br />
rebbe ricordare che la somma dei voti e degli iscritti di Prc e Pdci non raggiunge<br />
nemmeno <strong>il</strong> livello del 1998, vale a dire prima <strong>della</strong> scissione cossuttiana;<br />
delle cifre dei voti e degli iscritti del Pci meglio non parlare nemmeno,<br />
per carità di patria, eppure sono passati quasi vent’anni dalla Bolognina, in<br />
pratica un tempo storico, non solo politico!), da questo fatto politico – dicevo<br />
– e non da un generico spirito unitario-buonista, deriva dunque la necessità<br />
di abbandonare atteggiamenti arroganti e «imperialisti», cioè la tentazione<br />
di invitare l’altro, qualsiasi altro, a iscriversi, sia pure sotto mentite spoglie,<br />
al proprio partito, o (come si dice nel gioco dei bambini) a «mettere <strong>il</strong> dito<br />
qui sotto». Il processo di unità a sinistra non può consistere nel fatto che<br />
uno dei soggetti si ingrandisce accogliendo benevolmente qualcun altro.<br />
Questo è dunque <strong>il</strong> secondo snodo del mio ragionamento. Debbo dire che<br />
esso è talmente ovvio che sembra quasi superfluo ribadirlo; eppure voglio<br />
farlo perché questo tratto, ad esempio, configura <strong>il</strong> processo di cui parliamo<br />
come <strong>il</strong> contrario (vorrei sottolinearlo: non solo qualcosa di diverso e meno<br />
che mai in rapporto di continuità, ma <strong>il</strong> contrario) rispetto alla costruzione<br />
<strong>della</strong> «Sinistra europea»; tornerò più avanti, brevemente, su altri aspetti<br />
<strong>della</strong> «Sinistra europea» che mi sembrano da valutare come maestri negativi,<br />
come esempi di ciò che occorre non fare.<br />
Assumiamo per ora, come secondo punto, che unità a sinistra significa<br />
anche discontinuità, necessaria correzione, anzi innovazione (ma sul tema<br />
dell’innovazione, che può prestarsi e si presta a pericolosi equivoci, vorrei<br />
tornare in conclusione di questo intervento).<br />
3Il terzo snodo del ragionamento, o tema, è altrettanto ovvio, ma forse<br />
non è banale: l’unità si fa su un programma, su un progetto, su delle discriminanti;<br />
questo se non si vuole cadere nel tragicomico vissuto in questi<br />
giorni dal Partito democratico che, per aver voluto avviare un processo generico<br />
e onnicomprensivo (<strong>il</strong> quale in realtà aveva ed ha come precise discriminanti<br />
politiche <strong>il</strong> liberismo più o meno temperato e l’americanismo), si ritrova<br />
poi come candidato alla segreteria…Marco Pannella, <strong>il</strong> quale, non senza<br />
ragioni, rivendica di essere da sempre <strong>il</strong> più liberista e più atlantico di tutti.<br />
Ora, questo terzo punto del programma rappresenta un vero paradosso che<br />
si può così enunciare: sul programma non esistono oggi, e non esistono più<br />
da tempo, delle r<strong>il</strong>evanti contraddizioni fra le forze che dovrebbero avviare<br />
l’unità <strong>della</strong> sinistra. A chi avesse dei dubbi basterebbe avere un po’ di<br />
buona memoria (la buona memoria: ecco un ingrediente politico preziosissimo<br />
che nella sinistra, ahimé!, scarseggia): mi riferisco al convegno «Verso sinistra»,<br />
promosso da «<strong>il</strong> manifesto» <strong>il</strong> 15 gennaio 2005 all’Eur a Roma (e ricordato<br />
proprio oggi da Rossanda su «<strong>il</strong> manifesto»), con la partecipazione<br />
di circa 3.000 persone, la relazione di Alberto Asor Rosa e interventi di tutti<br />
i leader <strong>della</strong> sinistra, dai segretari dei due partiti comunisti, ai verdi, agli
esponenti dell’allora sinistra Ds, a molti cristiani di sinistra,<br />
dai massimi responsab<strong>il</strong>i sindacali ad alcuni dei leader<br />
più significativi del movimento, fino a singoli, prestigiosi<br />
intellettuali e personalità. Tutti, senza eccezione, si<br />
dichiararono lì d’accordo con l’impianto di quella relazione<br />
e (soprattutto) con quella proposta unitaria di programma,<br />
tutti parteciparono poi alla «Camera di consultazione<br />
<strong>della</strong> sinistra» che ne derivò. Avvicinandosi le<br />
elezioni del 2006 quel processo, invece di accelerare, fu<br />
interrotto, anzi affossato; e bisogna riconoscere che Rifondazione<br />
fu <strong>il</strong> primo partito che si sf<strong>il</strong>ò da quel processo,<br />
in verità senza addurre nessun’altra motivazione che<br />
non fosse quella malintesa e miope politica di grande<br />
potenza di cui parlavo poc’anzi, insomma la motivazione<br />
che suonava così: «Sono <strong>il</strong> partito (relativamente) più<br />
grosso e visib<strong>il</strong>e, presentandomi in solitudine potrò<br />
avere un po’ più di seggi e di potere». Lo stesso ragionamento,<br />
ammesso che si tratti di un ragionamento, ha<br />
portato Rifondazione a negare la possib<strong>il</strong>ità di sperimentare<br />
una lista unitaria e dal basso nelle successive elezioni<br />
per <strong>il</strong> Comune di Roma. Aggiungo, perché la cosa non<br />
è forse priva di significato, che quando la situazione politica<br />
(e anzitutto <strong>il</strong> processo di fondazione del Partito<br />
democratico) ha costretto tutti a riaprire quel discorso<br />
così insipientemente affossato, a nessuno è venuto in<br />
mente di fare una telefonata (come dire? per buona<br />
educazione) ai compagni che avevano promosso quell’esperienza<br />
del Convegno del 2005.<br />
Il riferimento a quel progetto (che, ripeto, era anche un<br />
programma politico largamente condiviso da tutti) mi risparmia<br />
comunque di rifare qui l’elenco di elementi di<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
programma <strong>della</strong> sinistra alternativa al capitalismo che è<br />
ben presente nella mente di tutti noi, un elenco che<br />
parte dalla pace e dunque dal rifiuto di finanziare le<br />
guerre imperialiste o di parteciparvi, che fa cardine sulle<br />
politiche per <strong>il</strong> lavoro, per <strong>il</strong> risarcimento sociale dei lavoratori<br />
e dei pensionati, contro <strong>il</strong> precariato, per la difesa<br />
e <strong>il</strong> r<strong>il</strong>ancio del welfare, <strong>della</strong> scuola pubblica, <strong>della</strong> ricerca<br />
e dell’Università, dei diritti di cittadinanza (a cominciare<br />
da quelli dei lavoratori e delle lavoratrici<br />
migranti); è un programma che trova <strong>il</strong> suo fondamento<br />
e <strong>il</strong> suo coronamento nella Costituzione repubblicana e<br />
antifascista. Mi sia consentita a questo proposito una<br />
sola sottolineatura del nostro possib<strong>il</strong>e programma: la<br />
lotta per la democrazia e la partecipazione, contro <strong>il</strong> presidenzialismo,<br />
<strong>il</strong> plebiscitarismo populistico, <strong>il</strong> sistema<br />
elettorale maggioritario e, insomma, contro l’americanizzazione<br />
<strong>della</strong> politica; è questo un tema da sempre presentissimo<br />
ai nostri avversari (che sono, da sempre, nemici<br />
<strong>della</strong> Costituzione antifascista), dalle leggi truffa al<br />
«Piano di rinascita democratica» di Licio Gelli, da Berlusconi<br />
alla bicamerale dalemiana fino a Mariotto Segni e<br />
ai poteri forti che lo sostengono, ed è un tema che oggi<br />
appare centrale nel programma veltroniano, ma è anche<br />
un tema su cui <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio <strong>della</strong> sinistra di classe e di alternativa<br />
è a dir poco assordante. Ed è un s<strong>il</strong>enzio, a me<br />
sembra, che deve preoccuparci tutti, e parecchio.<br />
Comunque, se volessi fare un riassunto e contrario dei<br />
tratti di quel programma unitario e possib<strong>il</strong>e <strong>della</strong> sinistra,<br />
mi basterebbe oggi ricordare, punto per punto, ciò<br />
che siamo stati costretti a ingoiare in questo anno e<br />
mezzo di governo del centro-sinistra: dalla nuova base<br />
Usa di Vicenza al rifinanziamento <strong>della</strong> guerra, dal<br />
nuovo invio in guerra di soldati italiani alla finanziaria<br />
«lacrime e sangue» (per <strong>il</strong> lavoratori, beninteso), dall’attacco<br />
alle pensioni fino alla conferma <strong>della</strong> legge 30 e al<br />
pacchetto welfare, dal r<strong>il</strong>ancio delle «grandi opere» devastanti<br />
l’ambiente fino all’affossamento, per ossequio al<br />
Vaticano, dei pur minimalissimi Dico ecc.; non scorderei<br />
le piccole ma importantissime provocazioni, veri e propri<br />
sputi in faccia alla classe operaia e alla sinistra, come<br />
l’intenzionale um<strong>il</strong>iazione <strong>della</strong> Cg<strong>il</strong> da parte di Prodi e<br />
Padoa Schioppa, la detassazione degli straordinari (cioè <strong>il</strong><br />
39
40<br />
finanziamento statale, attraverso <strong>il</strong> fisco, dei padroni che<br />
li usano) o <strong>il</strong> recente ricorso del Governo di Roma contro<br />
la tassa <strong>della</strong> Regione Sardegna sulle v<strong>il</strong>le dei ricchi.<br />
In continuità e coerenza con quanto detto poc’anzi a<br />
proposito <strong>della</strong> democrazia e delle leggi elettorali, aggiungerei<br />
all’elenco degli sputi in faccia la partecipazione<br />
di ben quattro ministri in carica (Melandri, Parisi Di Pietro<br />
e Bindi) alla raccolta di firme per <strong>il</strong> referendum<br />
ultra-maggioritario, che mira esplicitamente a costringere<br />
l’elettore, con una legge elettorale assurda, a scegliere<br />
fra due soli partiti di centro distruggendo tutti gli altri,<br />
una raccolta portata avanti dai ministri di Prodi, e dallo<br />
stesso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Letta,<br />
assieme a Segni, Fini, La Russa, Alemanno, al radicale<br />
berlusconico Della Vedova, e (soprattutto) a Confindustria<br />
e banche, cioè i poteri forti e fortissimi (come <strong>il</strong><br />
coro mediatico pro-referendum dimostra ampiamente).<br />
Credo che sia un caso politico unico nella storia in cui<br />
dei ministri (e, tramite Letta, evidentemente lo stesso<br />
Prodi) lavorano apertamente ed esplicitamente per conseguire<br />
la distruzione di tre o quattro partiti che sostengono<br />
<strong>il</strong> loro Governo, e possono fare ciò senza che tali partiti<br />
morituri reagiscano in alcun modo.<br />
Io, da vecchio proporzionalista fedele alla Costituzione,<br />
avrei voluto sentire dalla voce di uno dei nostri autorevoli<br />
compagni ciò che ha detto <strong>il</strong> ministro Mastella, cioè<br />
che <strong>il</strong> Governo cadrà <strong>il</strong> giorno stesso in cui quel vergognoso<br />
quesito referendario fosse portato al voto.<br />
4Ma torniamo al f<strong>il</strong>o del nostro ragionamento: se<br />
l’unità a sinistra è necessaria (cosa di cui nessuno du-<br />
bita) e se essa oggi si può addirittura fondare su una larga<br />
condivisione di programma, allora perché mai essa non<br />
ha avuto luogo e, a tutt’oggi, non si vede un processo politico<br />
credib<strong>il</strong>e e concreto che vi pone mano? Credo che<br />
rispondere a questa domanda ci porterebbe a rispondere<br />
a una domanda diversa, già comparsa come sottintesa nel<br />
nostro ragionamento, cioè quali siano stati i limiti, i ritardi,<br />
e i veri e propri errori che hanno segnato, di fatto, la<br />
crisi o lo stallo dei tentativi di ricostruire, o costruire, una<br />
sinistra di classe nel nostro paese dopo l’89 e lo scioglimento<br />
del Pci. Per quanto mi riguarda personalmente,<br />
data la tessera che ho in tasca dal 1990, si tratterebbe di<br />
cercare di capire come, dove e perché sia sostanzialmente<br />
fallito <strong>il</strong> processo <strong>della</strong> Rifondazione comunista. Dunque<br />
questo discorso ci porterebbe troppo lontano, e certamente<br />
fuori dai limiti di questo intervento.<br />
Mi limiterò allora a due soli elementi, che mi sembrano<br />
essere tutti rivolti al domani (anche se derivano dall’esperienza<br />
negativa di questi anni), cioè due elementi<br />
che mi paiono tratti di innovazione assolutamente necessari<br />
per rendere in qualche modo appetib<strong>il</strong>e e interessante<br />
per <strong>il</strong> grande «popolo <strong>della</strong> sinistra» <strong>il</strong> processo di<br />
unità, ed evitare che esso si riduca alla semplice sommatoria<br />
burocratica di ceti politici più o meno in crisi: questi<br />
due elementi si chiamano a) democrazia interna, e b)<br />
lotta contro la degenerazione istituzionalista dei nostri<br />
partiti. Penso che si <strong>il</strong>lude chi pensa che senza sciogliere<br />
questi due nodi sia possib<strong>il</strong>e coinvolgere, o addirittura<br />
far partecipare, qualcuno che non faccia parte dei partiti<br />
esistenti e delle loro ramificate burocrazie.<br />
Per democrazia, intendo riferirmi al fatto che noi (mi riferisco<br />
alla sola esperienza che conosco personalmente,<br />
quella del partito in cui m<strong>il</strong>ito, degli altri non saprei dire)<br />
siamo usciti da destra, e non certo da sinistra, dal centralismo<br />
democratico <strong>della</strong> tradizione comunista; cioè abbiamo<br />
dato vita a una mostruosa democrazia verticale e correntizia,<br />
non priva di elementi personalistici e, ormai,<br />
anche di aspetti di vera e propria corruzione <strong>della</strong> politica.<br />
Come può una compagna o un compagno «normale»,<br />
per ipotesi una giovane compagna o un giovane compagno,<br />
sentire come suo, come degno di impegnare e riempire<br />
la sua stessa vita, un partito in cui è necessario iscri-
versi a una corrente se si vuole godere<br />
di diritti civ<strong>il</strong>i elementari (come<br />
l’elettorato passivo) e in cui, soprattutto,<br />
si decide sempre tutto altrove e<br />
«in alto», dalle scelte strategiche e<br />
teoriche più impegnative fino alla designazione<br />
di un assessore di municipio?<br />
Credetemi compagni, non è possib<strong>il</strong>e<br />
che un sim<strong>il</strong>e partito attragga<br />
nessuno, se non degli ostinati pazzi e<br />
vecchi come me e come molti di noi,<br />
oppure, ormai sempre più frequentemente,<br />
chi vive del partito stesso che,<br />
direttamente o indirettamente, gli<br />
fornisce lo stipendio. In particolare<br />
nessun giovane normale può essere<br />
attratto da queste cose, che lo respingeranno<br />
cento volte di più se è di<br />
orientamento ideale comunista, e<br />
m<strong>il</strong>le volte di più se è una lavoratrice<br />
o un lavoratore. Si opera in tal modo<br />
una selezione, per così dire, inversa,<br />
cioè si respingono proprio coloro che<br />
dovrebbero interessarci di più (i giovani<br />
e i lavoratori) e si attraggono<br />
proprio coloro che dovrebbero interessarci<br />
di meno (i carrieristi).<br />
Mi rendo conto che questi processi<br />
degenerativi sono più gravi a Roma,<br />
la mia città, che è sede anche <strong>della</strong><br />
Direzione nazionale, del giornale<br />
«Liberazione» (che meriterebbe un<br />
discorso a parte), di gruppi di partito<br />
al Senato, alla Camera, alla regione,<br />
alla provincia, al comune, nei municipi,<br />
e ogni volta con i relativi assessori<br />
e uffici, senza contare, da un<br />
anno e mezzo i ministeri e i sottosegretariati.<br />
Tutto ciò significa diverse<br />
centinaia di posti di lavoro retribuiti,<br />
che si trasformano immediatamente<br />
in «pacchetti tessere» congressuali<br />
del tutto decisive nel partito romano,<br />
ma temo che anche nel resto<br />
d’Italia si verifichino processi degenerativi<br />
analoghi, anche se in forma<br />
meno conclamata. In questo senso<br />
l’istituzionalismo è una faccia diversa<br />
dello stesso problema <strong>della</strong> democrazia;<br />
intendo per istituzionalismo <strong>il</strong><br />
fatto che sia la coda (i compagni<br />
nelle istituzioni, a tutti i livelli) a<br />
muovere <strong>il</strong> cane (<strong>il</strong> partito) e non viceversa<br />
<strong>il</strong> cane a muovere la coda.<br />
Non aggiungo altro, per spirito di<br />
partito, appunto.<br />
Dico solo, per mantenere la promessa<br />
fatta poc’anzi, che l’esperienza di<br />
costituzione <strong>della</strong> «Sinistra Europea»<br />
può bene essere ut<strong>il</strong>izzata come<br />
exemplum negativum: io (che, ripeto,<br />
sono iscritto al Prc dalla fondazione)<br />
non so neppure chi abbia eletto i delegati<br />
a quel congresso di fondazione<br />
e come essi siano stati eletti (nel mio<br />
circolo, di certo, non è stato eletto<br />
alcun delegato né si è approvato<br />
alcun documento di tesi); non so chi<br />
e come e dove abbia deciso le<br />
«quote» di ripartizione di posti fra <strong>il</strong><br />
Prc, «Socialismo del XXI secolo»,<br />
«Unità a sinistra» e altri, né so a<br />
quali forze reali di base queste sigle<br />
corrispondano, o se invece, per ipotesi,<br />
si tratta solo di ceto politico che<br />
ha patteggiato coi vertici del Prc a<br />
partire dal conseguimento, o dalla<br />
conferma, del proprio ruolo istituzionale;<br />
soprattutto non so come e dove<br />
e chi abbia deciso i nomi che andavano<br />
a ricoprire quelle quote prefissate.<br />
So solo che mi ritrovo dentro <strong>il</strong><br />
mio partito (anzi alla sua testa, nel<br />
suo gruppo dirigente) l’on. Folena,<br />
un parlamentare non comunista, ma<br />
eletto da noi comunisti, <strong>il</strong> quale rivendica<br />
apertamente di essersi battuto,<br />
e con successo, per rafforzare<br />
l’embargo <strong>della</strong> Comunità Europea<br />
contro Cuba e contro la sua rivoluzione.<br />
Non aggiungo altro.<br />
5Ma <strong>il</strong> vero problema politico è<br />
che questi processi sono dentro <strong>il</strong><br />
più generale problema <strong>della</strong> crisi<br />
<strong>della</strong> politica italiana e <strong>della</strong> sua corruzione,<br />
non ne rappresentano una<br />
soluzione, e neppure un tentativo di<br />
soluzione, ma, appunto, solo un episodio<br />
e un aspetto. Ecco allora in<br />
che senso l’innovazione appare necessaria<br />
anche al processo unitario:<br />
un partito, o una federazione di partiti,<br />
o un aggregato di partiti e altre<br />
forze di sinistra, che si ponesse esplicitamente,<br />
seriamente e credib<strong>il</strong>mente<br />
(ripeto questi tre avverbi:<br />
esplicitamente, seriamente e credib<strong>il</strong>mente)<br />
come tentativo di soluzione<br />
di questi problemi <strong>della</strong> lotta per<br />
la democrazia e contro l’istituzionalismo,<br />
credo che incontrerebbe un<br />
OPINIONI A CONFRONTO<br />
grande successo; mi sembra che<br />
pochi sentimenti siano diffusi nel<br />
nostro popolo quanto <strong>il</strong> risentimento<br />
e <strong>il</strong> vero e proprio disprezzo verso la<br />
politica e i politici, che noi possiamo<br />
demonizzare quanto vogliamo reiterando<br />
l’accusa di qualunquismo<br />
mentre ormai tali sentimenti hanno<br />
non solo motivazioni sacrosante ma<br />
anche un’evidente connotazione di<br />
classe.<br />
Ora, io credo che ci sia una sola<br />
frase che i comunisti non possono<br />
sentirsi dire dal loro popolo, mai, in<br />
nessuna circostanza, e questa frase<br />
è: «Anche voi siete come tutti gli<br />
altri». E questa frase, che segna la<br />
fine di ogni ipotesi di sinistra politica<br />
alternativa, fa oggi parte del diffuso<br />
senso comune delle masse. Non so<br />
neppure se i nostri dirigenti se ne<br />
rendano conto, ma vi assicuro che è<br />
così. Per spiegare con un solo esempio<br />
cosa intendo dire: oggi penso che<br />
sarebbe credib<strong>il</strong>e solo un partito o<br />
una federazione di partiti, o un aggregato<br />
di partiti e altre forze di sinistra,<br />
che esplicitamente, seriamente<br />
e credib<strong>il</strong>mente praticasse cose come<br />
la rotazione degli eletti; la loro non<br />
rieleggib<strong>il</strong>ità; la collegialità <strong>della</strong> leadership;<br />
anzitutto e specialmente<br />
nella rappresentazione mediatica;<br />
l’incompatib<strong>il</strong>ità più rigorosa fra cariche<br />
istituzionali e cariche di partito;<br />
la designazione dal basso dei candidati<br />
e delle candidate e la verifica<br />
costante in strutture permanenti di<br />
democrazia diretta del comportamento<br />
degli eletti e delle elette; la riduzione<br />
sostanziale degli emolumenti<br />
(non solo <strong>il</strong> ridicolo, e quasi<br />
41
42<br />
provocatorio, taglio dei 3000 euro delle spese per i viaggi<br />
all’estero!) ricordando che nella tradizione comunista<br />
(fino agli anni Ottanta!, non secoli fa!) l’ammontare<br />
degli stipendi degli istituzionali come dei dirigenti corrispondeva<br />
al salario degli operai metalmeccanici meglio<br />
pagati; la pratica di forme di diritto ineguale, per priv<strong>il</strong>egiare<br />
la presenza nelle istituzioni di coloro che la spontaneità<br />
capitalistico-borghese esclude ferreamente, a cominciare<br />
dalle donne, naturalmente, ma anche dai lavoratori<br />
dipendenti, e così via.<br />
E, contro ogni alibi, faccio presente che la maggior parte<br />
di queste cose si potrebbero fare oggi, o domani stesso,<br />
senza aspettare nessuno, con semplici, ma dirompenti!,<br />
gesti un<strong>il</strong>aterali. Analogamente <strong>il</strong> problema <strong>della</strong> democrazia<br />
nel/nei partiti o nella nuova aggregazione si potrebbe<br />
e si dovrebbe riaffrontare dalle fondamenta: idee,<br />
esperienze (molte straniere ma molte provenienti dal<br />
movimento italiano) e anche proposte assai articolate<br />
non mancano, benché io non abbia <strong>il</strong> tempo di affrontare<br />
ora e qui questo problema; ma ci vorrebbe poco perché<br />
un’apposita commissione unitaria di «saggi» predisponesse<br />
una «pacchetto democrazia» da sottoporre al<br />
dibattito unitario.<br />
Questo intendo per innovazione (ma altri analoghi<br />
esempi si potrebbero fare).<br />
6Ciò significa che non necessariamente l’innovazione<br />
è sinonimo di «svolta a destra», ci può, e ci deve essere<br />
un’innovazione che, al contrario, porta a sinistra.<br />
Questa identificazione, fra innovazione e svolta a destra<br />
è anzi una delle jatture <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> sinistra da cui<br />
occorrerebbe liberarsi una volta per tutte. Se ci pensiamo<br />
fu questo uno dei tratti dell’occhettismo, che presentò<br />
la liquidazione del Pci e la proposta del Pds appunto<br />
come un’«innovazione» a cui si opponevano solo i<br />
«conservatori» e i settari. L’esperienza ci ha insegnato, o<br />
dovrebbe averci insegnato, dove porta in realtà l’innovazione<br />
postmoderna, quando i princìpi, cioè i riferimenti<br />
classisti e internazionalisti che ci fanno comunisti, sono<br />
sostituiti da fascinose frasi, ultrasinistre per suono e colore<br />
ma in sostanza liquidatorie. E ora, quasi vent’anni<br />
dopo, e soprattutto dopo che l’esperienza ha dimostrato<br />
dove porta quella linea di falso movimento, ci rifacciamo?<br />
Se «ci rifacciamo» allora bisognerebbe almeno<br />
avere l’onestà di rivalutare Ach<strong>il</strong>le Occhetto e di chiedergli<br />
scusa. Ma se non si vuol fare questo, allora occorre<br />
percorrere tutt’altra strada.<br />
Non si tratta, secondo me, di questione di nome: se nel<br />
processo <strong>della</strong> nuova unità a sinistra non tutti saranno<br />
comunisti <strong>il</strong> nome non potrà essere comunista; ma deve<br />
essere chiaro che a) l’intero asse <strong>della</strong> nuova unità sarà e<br />
non potrà non essere l’anticapitalismo, e b) che i comunisti<br />
rivendicano la possib<strong>il</strong>ità di organizzarsi, o restare<br />
organizzati, dentro tale nuovo soggetto, con la loro autonomia<br />
e una piena dignità rispetto agli altri soggetti.<br />
Guai se <strong>il</strong> nostro dibattito sull’unità a sinistra fosse fra,<br />
da una parte, gli «innovatori», che spingono a destra<br />
verso l’abbandono del comunismo e un pastrocchio postmoderno<br />
neosocialista, pieno di frasi scarlatte ma sostanzialmente<br />
liquidatorio, e dall’altra parte i difensori<br />
<strong>della</strong> natura comunista, di classe e internazionalista <strong>della</strong><br />
nostra politica, che però si lasciassero intrappolare nella<br />
difesa di ciò che è davvero indifendib<strong>il</strong>e, cioè lo status<br />
quo dei nostri partiti, la misera cosa (una cosa niente affatto<br />
rossa!) che essi sono attualmente.<br />
Al contrario, l’unità a sinistra, fra i partiti, i movimenti,<br />
le compagne e i compagni del «popolo <strong>della</strong> sinistra»,<br />
può essere intesa come un’occasione, forse l’ultima, per<br />
rifondare la politica, la nostra politica rivoluzionaria, che<br />
non è altro se non un rapporto più intenso e vitale fra<br />
formazioni politiche e classe, un nesso fondante fra presenza<br />
nella politica e conflitto sociale.
ENZO MODUGNO*<br />
VLADIMIRO GIACCHÉ**<br />
a cura di Gianmarco Pisa<br />
Centro di Documentazione<br />
«Patrizia Gatto», Napoli<br />
Negli stessi anni in<br />
cui la figura di Lenin è<br />
ridotta a una sorta di<br />
«tirannello orientale»,<br />
non si può fare a meno di<br />
constatare che i cinque<br />
contrassegni<br />
dell’«Imperialismo, fase<br />
suprema del capitalismo»<br />
costituiscono la<br />
rappresentazione più<br />
corretta di ciò che sta<br />
succedendo<br />
* SAGGISTA E COLLABORATORE DE «IL MANIFESTO»<br />
** ECONOMISTA<br />
IDEE<br />
Marx oggi<br />
i compiti dei movimenti di liberazione<br />
e i loro presupposti teorici<br />
Quella che segue è una tavola rotonda con Enzo Modugno e Vladimiro<br />
Giacché, svoltasi alla vig<strong>il</strong>ia delle elezioni politiche (apr<strong>il</strong>e 2006), poi <strong>rivista</strong><br />
a poco più di un anno dall’insediamento del Governo Prodi (giugno<br />
2007). In questa riflessione, situata a cavallo di eventi r<strong>il</strong>evanti per <strong>il</strong> futuro<br />
<strong>della</strong> sinistra, dalla sinistra di alternativa al Partito democratico, i temi chiave<br />
per l’attualizzazione <strong>della</strong> lezione di Marx sono venuti subito alla luce: la<br />
centralità del conflitto capitale-lavoro, l’esigenza di ri-appropriarsi dei contenuti<br />
autonomi del pensiero di classe e le nuove frontiere <strong>della</strong> trasformazione.<br />
Con un occhio anche alle proposte di riforma che è necessario introdurre nel<br />
nostro paese, dopo <strong>il</strong> «deserto sociale» prodotto da cinque anni di governo delle<br />
destre e gli effetti devastanti del neoliberismo su scala mondiale, con tutto <strong>il</strong><br />
portato delle sue contraddizioni, anarchia <strong>della</strong> produzione e pulsione alla<br />
guerra. Le contraddizioni del reale ci consegnano <strong>il</strong> compito di ripartire da<br />
Marx e attualizzarne <strong>il</strong> messaggio. Da lì parte l’esigenza di questo confronto con<br />
due figure rappresentative del panorama intellettuale <strong>della</strong> sinistra comunista.<br />
Per dirla con le parole di Vladimiro Giacché: «In Marx vedo tre “nodi” decisivi:<br />
una teoria scientifica dello sfruttamento; <strong>il</strong> conflitto capitale-lavoro e la<br />
centralità del lavoro salariato (tanto più importante oggi, essendo i lavoratori<br />
salariati nel mondo ben più che nel passato); e, quindi, una teoria delle contraddizioni<br />
<strong>della</strong> società capitalistica, ineliminab<strong>il</strong>i sul terreno del capitalismo<br />
stesso, le quali danno luogo alle crisi e alla caduta tendenziale del saggio di<br />
profitto. Marx parlava di “tendenze antagonistiche” a tale caduta, tra cui le<br />
più importanti sono la costruzione di nuovi mercati, la tendenza verso <strong>il</strong> mercato<br />
mondiale (mondializzazione) e, infine, la colonizzazione di tutti gli spazi<br />
di esistenza sino a oggi sottratti al mercato».<br />
Marx, dunque. Da lì si parte.<br />
MA QUALE MARX? QUALI IPOTESI PER UNA SUA ATTUALIZZAZIONE? L’INDICAZIO-<br />
NE PER ORIENTARCI POTREBBE OFFRIRCELA GIUSEPPE PRESTIPINO, QUANDO AFFER-<br />
MA CHE UNA TEORIA «NON PUÒ PROPORSI, SEMPLICEMENTE, DI «TORNARE A<br />
MARX»; DEVE FARCI SAPERE SU QUALE MARX CADE LA SCELTA»…<br />
MODUGNO<br />
La questione dell’innovazione del marxismo è importante. A essere in ritardo<br />
è oggi l’individuazione delle categorie più elementari che Marx ha usato per<br />
analizzare <strong>il</strong> capitalismo. Se di capitalismo si tratta, le categorie marxiane sono<br />
ancor oggi all’opera: <strong>il</strong> lavoro e <strong>il</strong> mezzo di lavoro, come questi si sono trasformati.<br />
Basta dare queste risposte per riempire lo schema teorico marxiano,<br />
tanto più che le interpretazioni correnti sono spesso fuorvianti. La più fre-<br />
43
44<br />
quentata vuole che la classe operaia ci sia ancora ma non<br />
nei paesi avanzati: ne segue che i paesi emergenti producono<br />
tutta la ricchezza e noi gliela sottraiamo. Ciò è vero<br />
solo in parte e perciò è necessario riflettere su cosa significhi<br />
produrre e lavorare oggi. Non dimentichiamo che<br />
non c’è più la macchina termica ma quella informatica,<br />
che richiede un lavoro molto diverso.<br />
Marx era stato molto netto a questo proposito. Non questo<br />
o quel lavoro, ma lavoro tout court: è lavoro produttivo<br />
<strong>il</strong> lavoro che produce profitti, punto. L’impianto teorico<br />
alla base è sempre lo stesso: si tratta di mezzi di produzione<br />
gestiti da proprietari capitalistici che assorbono<br />
lavoro. Nella società industriale, <strong>il</strong> capitalista produce ricchezza<br />
appropriandosi del lavoro dei nuovi proletari, nucleo<br />
storico di classe operaia. Il nuovo lavoratore industriale<br />
perde così la sua virtuosità ed è ridotto ad appendice<br />
di una macchina che è di proprietà del capitalista.<br />
Lo stesso vale per <strong>il</strong> sapere. Anche qui dopo un lungo processo<br />
storico, <strong>il</strong> capitale conquista un’altra sfera dell’attività<br />
umana, l’arte di vendere cognizioni: oggi <strong>il</strong> capitale<br />
«produce e vende cognizioni come qualsiasi mercante che<br />
venda cibi e bevande». Queste cognizioni sono oggi la<br />
merce più venduta, come mezzo di produzione o di godimento,<br />
«valanga di informazioni minute e divertimenti<br />
addomesticati». Questo processo va di pari passo con<br />
l’alienazione, la separazione del nuovo lavoratore mentale<br />
da questa universalità delle conoscenze, divenuta la<br />
nuova ricchezza sociale «che cerca di far sua e dalla quale<br />
viene ingoiato». Prodotta, scambiata, consumata dalle<br />
nuove macchine, la conoscenza ormai gli si contrappone<br />
come condizione oggettiva <strong>della</strong> produzione che appartiene<br />
ad altri, dalla quale è stato separato e <strong>della</strong> quale è ridotto<br />
ad appendice quale lavoratore precario.<br />
Insomma, sta succedendo alla produzione di conoscenze<br />
ciò che successe alla produzione artigianale. Il vecchio proprietario<br />
fondiario aveva bisogno dell’aratro ma, per arricchirsi,<br />
doveva portarlo sulla terra; allo stesso modo <strong>il</strong> capitalista<br />
industriale aveva bisogno di conoscenze, ma, per arricchirsi,<br />
doveva portarle in fabbrica e far lavorare gli<br />
operai. Oggi, <strong>il</strong> capitale, con le nuove macchine informatiche,<br />
può realizzare profitti producendo, gestendo e distribuendo<br />
conoscenze. Dunque <strong>il</strong> nuovo lavoratore mentale<br />
E’ necessario riflettere su cosa<br />
significhi produrre e lavorare oggi.<br />
Non dimentichiamo che non c’è più la<br />
macchina termica ma quella<br />
informatica, che richiede un lavoro<br />
molto diverso<br />
tende a sostituire da un lato l’operaio e dall’altro <strong>il</strong> vecchio<br />
intellettuale, ridotto a servitore di un complesso di macchine<br />
che ne incorporano la virtuosità. Ecco perché non è<br />
vero che nella società <strong>della</strong> conoscenza <strong>il</strong> cervello umano<br />
diventi <strong>il</strong> nuovo mezzo di produzione, come hanno sostenuto<br />
certi ex operaisti. Anzi, <strong>il</strong> cervello umano ne è escluso:<br />
nessuno usa più i calcoli del cervello di un ingegnere<br />
per costruire un ponte! Così impostata, la questione <strong>della</strong><br />
produzione lascia del tutto in piedi le categorie marxiane,<br />
indispensab<strong>il</strong>i per capire chi sono i nuovi lavoratori addetti<br />
alle macchine informatiche. Non c’è lavoratore oggi che<br />
non sia diventato in qualche modo un lavoratore mentale<br />
perché in qualunque ramo d’industria ha sempre a che<br />
fare con una macchina che manipola segni.<br />
GIACCHÉ<br />
Il «mio» Marx è vicino a questa interpretazione. In primo<br />
luogo, <strong>il</strong> processo appena descritto è un processo storico. Il<br />
momento dell’ideazione c’è sempre stato ed è stato valorizzato<br />
già nella teoria economica classica. La novità odierna<br />
consiste semmai nella reductio ad unum (dove quest’unità<br />
è <strong>il</strong> mercato capitalistico) di tutto ciò che è riconducib<strong>il</strong>e<br />
alla vita e quindi la distruzione sistematica dell’ambiente<br />
naturale e <strong>della</strong> vita sociale. La pericolosità <strong>della</strong> situazione<br />
può essere intesa se si comprende che <strong>il</strong> capitale, per<br />
definizione, ha un orizzonte di breve periodo e non è capace<br />
di pensare strategicamente: <strong>il</strong> suo unico obiettivo è la<br />
massimizzazione dei profitti a beneficio dell’accumulazione.<br />
Mi riesce diffic<strong>il</strong>e prescindere, nel cercare cosa ci serve<br />
delle teorie marxiane oggi, dagli sv<strong>il</strong>uppi successivi dati<br />
alle sue teorie dai teorici dell’imperialismo. Anche rispetto<br />
a questo la realtà attuale è abbastanza stupefacente.<br />
Negli stessi anni in cui la figura di Lenin è ridotta a una<br />
sorta di «tirannello orientale», non si può fare a meno di<br />
constatare che i cinque contrassegni dell’«Imperialismo,<br />
fase suprema del capitalismo» costituiscono la rappresentazione<br />
più corretta di ciò che sta succedendo. Il primo è la<br />
concentrazione tra imprese (monopolio), arrivata a un livello<br />
mai conosciuto nella storia del capitalismo: basti ricordare<br />
che i profitti <strong>della</strong> Exxon, 36 m<strong>il</strong>iardi di dollari,<br />
sono pari al PIL di 125 paesi. Il secondo è la finanziarizzazione<br />
dell’economia: la crescente importanza del capitale
finanziario (cioè la fusione tra capitale industriale e capitale<br />
bancario) e la conseguente integrazione tra banca e industria.<br />
Il terzo è la crescente importanza dei flussi di capitale<br />
rispetto all’esportazione di merci. Vige un autentico<br />
«paradosso», in quanto <strong>il</strong> deficit dei paesi industrializzati è<br />
pagato con l’afflusso di capitali dai paesi emergenti con <strong>il</strong><br />
risultato che, di fatto, i poveri finanziano i ricchi; se <strong>il</strong> meccanismo<br />
saltasse, l’economia Usa crollerebbe. Il quarto è la<br />
formazione di cartelli tra imprese che si spartiscono i mercati<br />
mondiali. Basta entrare in un’auto per rendersene<br />
conto: si è di fronte a tre cartelli, le grandi compagnie petrolifere,<br />
assicurative e automob<strong>il</strong>istiche. Il quinto è la lotta<br />
per <strong>il</strong> controllo delle aree di influenza tra potenze capitalistiche,<br />
che contempla la guerra e rappresenta una competizione<br />
per l’egemonia delle rispettive aree valutarie. È<br />
chiaro che l’unificazione monetaria europea va interpretata<br />
come una sfida lanciata al potere di signoraggio monetario<br />
del dollaro. Infatti, conquistare potere di signoraggio<br />
significa attirare capitali, spostare risorse e partecipare da<br />
posizioni di forza alla spartizione internazionale del lavoro.<br />
Dopo <strong>il</strong> crollo del muro di Berlino nel 1989, dopo la<br />
prima guerra in Iraq del 1991, e, pochi mesi dopo, la fine<br />
dell’Urss, mentre Fukuyama favoleggia di «fine <strong>della</strong> storia»,<br />
a Maastricht nel 1992 si decide di dar vita alla moneta<br />
unica europea. Si attiva una sorta di «esempio di<br />
scuola» di conflittualità inter-imperialistica, con una attivazione<br />
di eventi impressionante. Dopo l’89, <strong>il</strong> mondo<br />
entra in un piano inclinato tutto costellato di guerre: Iraq<br />
(1991), Somalia (1992), Bosnia (1993), Kosovo (1999),<br />
Afghanistan (2001), oggi ancora Iraq e, forse domani,<br />
Iran. Ecco perché per capire queste dinamiche è essenziale<br />
rifarsi a Marx e al marxismo.<br />
POSSIAMO AFFERMARE DI ESSERE IN CERCA DI UNA PROPOSTA<br />
PER L’ATTUALITÀ DEL MARXISMO, TEORIA/PRASSI DELLA LIBE-<br />
RAZIONE E STRUMENTO DI TRASFORMAZIONE DELLA REALTÀ.<br />
COME HA SCRITTO MARCELLO MUSTO: «SE SI RITIENE CHE IL<br />
PENSIERO DI MARX PARLI ANCORA AL PRESENTE, OCCORRE RI-<br />
LEGGERNE GLI SCRITTI ALLA FONTE. ESSI VANNO DISGIUNTI<br />
DAGLI IDEOLOGISMI CHE LI HANNO SPESSO ACCOMPAGNATI».<br />
GIACCHÉ<br />
L’operazione di lettura f<strong>il</strong>ologica è legittima, ma anche<br />
velleitaria, perché la lettura del testo è sempre mediata<br />
dalla realtà storica e dall’esperienza sociale di chi lo legge.<br />
In questo caso, poi, la vitalità di Marx consiste nel fatto<br />
che i dati di fondo del modo di produzione che descrive<br />
sono gli stessi del modo di produzione in cui viviamo<br />
oggi. Il problema non è <strong>il</strong> «giovane Marx» o <strong>il</strong> «vecchio<br />
Marx», <strong>il</strong> punto fondamentale per cui Marx serve o non<br />
serve è se interpreta in maniera valida la società in cui viviamo.<br />
Se ce la fa, bene, altrimenti bisogna trovare una<br />
teoria sostitutiva.<br />
MODUGNO<br />
La lettura f<strong>il</strong>ologica è pienamente legittima perché <strong>il</strong> ciar-<br />
IDEE<br />
pame che avvolge Marx è veramente cospicuo. Quindi,<br />
andare a vedere cos’era veramente Marx è operazione<br />
necessaria, se non altro per scrostarlo da certi orpelli del<br />
Novecento…<br />
GIACCHÉ<br />
…purché i recuperi non corrispondano a una esorcizzazione!<br />
In questo senso la riscoperta dei Grundrisse è stata<br />
straordinaria così come <strong>il</strong> lavoro di ri-edizione <strong>della</strong> Mega<br />
[Marx-Engels Gesamtausgabe], l’opera completa, sta mettendo<br />
nuovi materiali a disposizione. In definitiva, possiamo<br />
convenire che Marx è <strong>il</strong> Marx del Capitale: è un<br />
pensatore unitario perché consequenziale, dotato di un<br />
proprio processo di sv<strong>il</strong>uppo e di una ricca articolazione<br />
del ragionamento, <strong>il</strong> cui approdo è l’opera che ci ha consegnato.<br />
MODUGNO<br />
Marx è ancora insuperab<strong>il</strong>e proprio perché è andato più<br />
avanti nella teoria del capitale. La sua è l’ultima sintesi<br />
complessiva: la sua critica dell’economia politica è più<br />
che mai attuale e avanzata.<br />
TORNIAMO AL TEMA CENTRALE DELLA NOSTRA DISCUSSIONE.<br />
NUOVE FRONTIERE DELLA LIBERAZIONE, PERCORSI DI SUPE-<br />
RAMENTO DEL CAPITALISMO E LORO DIALETTICA CON IL PA-<br />
TRIMONIO STORICO DEL SOCIALISMO. QUALI IPOTESI PER UNA<br />
COERENTE ATTUALIZZAZIONE, ANCHE ALLA LUCE DELLE PIÙ<br />
RECENTI ESPERIENZE DI TRASFORMAZIONE E DELLA PROPOSTA<br />
ODIERNA, DA PIÙ PARTI EVOCATA, DEL «SOCIALISMO DEL XXI<br />
SECOLO«?<br />
GIACCHÉ<br />
Faccio riferimento all’esperienza dei movimenti, in generale,<br />
degli ultimi anni. Credo che quando si usa lo slogan «un<br />
altro mondo è possib<strong>il</strong>e» (senza dire quale mondo) automaticamente<br />
si afferma che un altro mondo è impossib<strong>il</strong>e. In<br />
effetti, uno dei presupposti anche dei movimenti, e non<br />
solo dell’ideologia liberale, è quello dell’intangib<strong>il</strong>ità dell’attuale<br />
modo di produzione. Questo presupposto condanna <strong>il</strong><br />
movimento e lo spinge all’indeterminatezza, perché presuppone,<br />
nella migliore delle ipotesi, una sfiducia nel fatto<br />
che movimenti di liberazione basati sulla abolizione <strong>della</strong><br />
proprietà privata dei mezzi di produzione possano risultare<br />
efficaci. Questo chiude l’orizzonte <strong>della</strong> trasformazione nei<br />
nostri paesi. Viceversa, i paesi dell’America Latina in cui <strong>il</strong><br />
processo di trasformazione è più consolidato (pensiamo a<br />
Cuba, al Venezuela di Chavez e oggi alla Bolivia di Morales),<br />
hanno fatto una chiara esperienza di espropriazione<br />
che li colloca in una dimensione più avanzata. Il fermento<br />
che contraddistingue oggi <strong>il</strong> subcontinente lo dimostra.<br />
MODUGNO<br />
Anche in questo caso vale la lezione <strong>della</strong> storia. Se tanto<br />
mi dà tanto, può servire ricordare cosa è stata la guerra<br />
del Vietnam: la nazione più potente del mondo – contro<br />
45
46<br />
una nazione di contadini, sia pure eroici – costretta dodici<br />
anni nel pantano, per poi finire sconfitta e ritirare le<br />
bare avvolte dalla bandiera a stelle e strisce. Quando<br />
Sweezy e Magdoff facevano conferenze nelle Università<br />
americane in quegli anni, gli studenti erano convinti che<br />
lì ci fossero chissà quali riserve di uranio che giustificassero<br />
quella carneficina. L’aggressione Usa era stata in realtà<br />
m<strong>il</strong>itarmente priva di senso, come rivelarono poi<br />
i«Vietnam Papers». Lo stesso, mutatis mutandis, avviene<br />
oggi in Iraq. Anche quella in Iraq è una guerra «misteriosa»,<br />
come dice lo storico m<strong>il</strong>itare inglese John Keegan,<br />
cioè, ancora una volta, m<strong>il</strong>itarmente priva di senso: doveva<br />
durare cinque anni, erano stab<strong>il</strong>ite «a priori» modalità<br />
e durata e, soprattutto, non bisognava far scoprire i retroscena<br />
<strong>della</strong> guerra stessa, le ragioni non propriamente m<strong>il</strong>itari<br />
<strong>della</strong> crescita abnorme dell’apparato bellico degli<br />
Stati Uniti. Ma questo castello rivela tutta la sua frag<strong>il</strong>ità,<br />
come dimostra anche la sconfitta di Bush alle elezioni di<br />
medio termine per <strong>il</strong> Congresso.<br />
ALTRO NESSO CHIAVE È QUELLO TRA ECONOMIA E GUERRA.<br />
ANCOR OGGI LE CLASSI DOMINANTI SCELGONO L’OPZIONE MI-<br />
LITARE COME VETTORE ANTICICLICO PER L’ACCUMULAZIONE,<br />
COMPRIMENDO LE ISTANZE DI EMANCIPAZIONE; LA MEDESIMA<br />
AMBIZIONE USA A «MODELLARE IL FUTURO» RISPONDE A UNA<br />
LOGICA DI «POTENZA» CHE SEMBRA QUASI ATTINGERE A<br />
UN’ISPIRAZIONE «HEGELIANA», NEL SENSO CHE «LO STATO<br />
DEVE AVERE DEI NEMICI, PERCHÉ PUÒ NASCERE E DURARE<br />
SOLO NEL GIOCO DI UN CONFRONTO MILITARE».<br />
MODUGNO<br />
Il fatto più r<strong>il</strong>evante è che gli Stati Uniti, ininterrottamente<br />
dalla Seconda guerra mondiale, hanno gestito m<strong>il</strong>itarmente<br />
<strong>il</strong> ciclo economico. È interessante notare che le diverse<br />
fasi del ciclo economico segnano le diverse ondate<br />
delle campagne m<strong>il</strong>itari Usa, che sostengono <strong>il</strong> r<strong>il</strong>ancio<br />
economico con l’intervento m<strong>il</strong>itare, le spese per commesse<br />
di guerra, l’investimento pubblico nel complesso<br />
m<strong>il</strong>itar-industriale. In definitiva, appare sempre più evidente<br />
come la spesa m<strong>il</strong>itare e la guerra siano uno strumento<br />
fondamentale per la politica economica degli Stati<br />
Uniti. Basti considerare che, quando l’economia Usa è in<br />
crisi, dopo due o tre trimestri consecutivi di contrazione,<br />
ecco che, in genere sei mesi dopo, scoppia una guerra.<br />
Questa traccia dei sei mesi è ricorrente: la guerra di Corea<br />
comincia sei mesi dopo la crisi del dicembre 1949; le Torri<br />
Gemelle crollano sei mesi dopo la crisi del marzo 2001.<br />
Anche l’11 settembre sembra rispondere alla medesima<br />
logica anti-ciclica. Il problema è come mai tutto ciò non<br />
passa nel dibattito pubblico.<br />
GIACCHÉ<br />
La grande sconfitta del movimento per la pace è venuta<br />
quando ha resistito in maniera fleb<strong>il</strong>e all’idea<br />
dell’«esportazione <strong>della</strong> democrazia» o ad altre tesi (che<br />
continuano a essere riproposte, come testimonia la relazione<br />
di Fausto Bertinotti al congresso <strong>della</strong> Sinistra Europea<br />
dello scorso 16 giugno) come la «spirale guerra-terrorismo».<br />
Quando si dice che «non si combatte così la<br />
guerra al terrore», non ci si accorge che così si accetta <strong>il</strong><br />
presupposto stesso <strong>della</strong> «guerra al terrore». Si fanno propri,<br />
cioè, alcuni corollari insostenib<strong>il</strong>i: <strong>il</strong> terrorismo esclude<br />
l’attività degli eserciti regolari, come se questi non si<br />
rendessero responsab<strong>il</strong>i di episodi di terrorismo (basta vedere<br />
la Palestina); si accetta la metafora <strong>della</strong> «guerra» per<br />
combattere <strong>il</strong> terrorismo e che <strong>il</strong> terrorismo sia «autonomo»,<br />
dimenticando che è semplicemente una tattica che<br />
può essere al servizio dei fini più disparati. Insomma, accettare<br />
la guerra al terrore e la «spirale guerra-terrorismo»<br />
significa consegnare la vittoria al Pentagono, nel<br />
senso che oggi la grande vittoria degli apparati statunitensi<br />
è quella di aver imposto un lessico e una agenda, alle<br />
quali non ci si riesce a sottrarre.<br />
I MECCANISMI DOMINANTI, DI SOPRAFFAZIONE E AGGRESSIO-<br />
NE, CHE CONTENGONO IL NERBO DELLA VIOLENZA, COSTRUI-<br />
SCONO LE LORO ARCHITETTURE IDEOLOGICHE, LE LORO CUL-<br />
TURE ATTE A GIUSTIFICARNE CONDOTTE ED ESITI. IL LIBERALI-<br />
SMO, DUNQUE, COME PRODOTTO IDEO-POLITICO DELLA<br />
CLASSE DOMINANTE, CONSUSTANZIALE ALLA GUERRA.<br />
MODUGNO<br />
Il liberalismo è l’ideologia del denaro: i capitalisti sono<br />
condannati a far passare tutte le cose prodotte attraverso <strong>il</strong><br />
denaro. Anche per appropriarsi del lavoro altrui devono<br />
farlo diventare denaro. Questa è la loro condanna: sono
diverse fasi del ciclo economico segnano diverse<br />
ondate delle campagne m<strong>il</strong>itari Usa, che sostengono <strong>il</strong><br />
r<strong>il</strong>ancio economico con l’intervento m<strong>il</strong>itare, le spese di<br />
guerra, l’investimento pubblico nel complesso m<strong>il</strong>itarindustriale.<br />
E’ sempre più evidente come spesa m<strong>il</strong>itare e<br />
guerra siano uno strumento fondamentale per la politica<br />
economica Usa<br />
condannati all’astrazione che è strumento di dominio e al contempo di disfatta.<br />
Non a caso, per ovviare alle crisi, uno dei mezzi cui fanno ricorso è <strong>il</strong> m<strong>il</strong>itarismo.<br />
È in questa chiave che si inscrive <strong>il</strong> nesso tra liberalismo e m<strong>il</strong>itarismo:<br />
<strong>il</strong> m<strong>il</strong>itarismo è prodotto dalla logica di accumulazione legittimata dal liberalismo<br />
in quanto ideologia <strong>della</strong> classe dominante. Oggi, l’unità produttiva è fatta<br />
di una macchina diversa da quella del passato, ha bisogno di un lavoro diverso,<br />
incorpora i saperi che prima le macchine non possedevano e ciò rende inut<strong>il</strong>e<br />
<strong>il</strong> keynesismo di sinistra (welfare), perché non si ha più necessità di mantenere<br />
operai specializzati. Se tutto è fungib<strong>il</strong>e e <strong>il</strong> lavoro stesso diventa precario,<br />
allora si può realizzare l’obiettivo storico del capitale, cioè prendere <strong>il</strong> lavoro<br />
quando serve e mandarlo via quando non serve più. Il welfare dunque era<br />
un’esigenza <strong>della</strong> fabbrica fordista. Rimane, per la gestione del ciclo, la disponib<strong>il</strong>ità<br />
dei vettori di accumulazione anti-recessiva, come ad esempio la spesa<br />
pubblica per investimenti m<strong>il</strong>itari, ovvero <strong>il</strong> keynesismo di destra (warfare); <strong>il</strong><br />
capitale non può fare a meno di questo versante e lo giustifica in maniera ideologica,<br />
con la «guerra al terrore». Ecco perché neoliberismo e guerra sono, dal<br />
punto di vista del capitale, più avanzati dell’alternarsi di keynesismo m<strong>il</strong>itare e<br />
keynesismo civ<strong>il</strong>e. Neoliberismo e guerra sono complementari, perciò <strong>il</strong> keynesismo<br />
ha vinto nella sua forma m<strong>il</strong>itare, <strong>il</strong> warfare.<br />
GIACCHÉ<br />
L’ideologia per cui democrazia e pace si diffondono grazie al libero mercato è<br />
molto vecchia. La ritroviamo già nel Settecento e ancora alla vig<strong>il</strong>ia <strong>della</strong><br />
Prima guerra mondiale. Recentemente Fukuyama ha ripreso questo tema, addirittura<br />
dicendo che non esistono più guerre per le risorse energetiche e che<br />
anzi esse appartengono inesorab<strong>il</strong>mente al passato, perché <strong>il</strong> binomio democrazia<br />
e libero mercato si diffonderà in tutto <strong>il</strong> mondo. È la celebre tesi <strong>della</strong><br />
fine <strong>della</strong> storia, alla quale rispose con qualche sarcasmo perfino la Thatcher:<br />
End of history, beginning of nonsense («Fine <strong>della</strong> storia, inizio del non senso»).<br />
Il punto è che <strong>il</strong> libero mercato è una costruzione ideologica perché, in realtà,<br />
non esiste: Alan Freeman ha detto chiaramente che <strong>il</strong> mercato è, né più né<br />
meno, un sistema concretamente esistente da trecento anni, fondato sulla repressione<br />
interna e sulla guerra esterna. È un concetto chiave per comprendere<br />
la connessione tra capitalismo, liberalismo e guerra. Lo stesso Marx, interrogandosi<br />
nel Capitale sull’«accumulazione originaria», spiega che la storia<br />
del capitalismo è storia di violenza, dalle enclosures alle leggi contro <strong>il</strong> vagabondaggio,<br />
che promossero la creazione del proletariato industriale in Ingh<strong>il</strong>terra;<br />
dalle guerre commerciali alle guerre per le risorse. Insomma, la storia del<br />
capitalismo è storia di continue aggressioni. Non è mai esistita una fase irenica,<br />
pacifica del capitalismo.<br />
ALL’ACQUISIZIONE DI QUESTA CONSAPEVOLEZZA DEVE PERÒ CORRISPONDERE LA<br />
PREDISPOSIZIONE DELLE STRADE DEL «SUPERAMENTO». SOTTO QUESTO PROFILO, IL<br />
IDEE<br />
KEYNESISMO È ANCORA UNA SOLUZIONE<br />
TRANSITORIA PRATICABILE PER IL MOVI-<br />
MENTO OPERAIO? IN PARTICOLARE,<br />
ANCHE ALLA LUCE DELLE ESPERIENZE DI<br />
GOVERNO DELLE «SINISTRE» IN ITALIA<br />
ED EUROPA, IL KEYNESISMO DI SINI-<br />
STRA, BASATO SUL COMPROMESSO DEL<br />
WELFARE, È ANCORA ATTUALE?<br />
MODUGNO<br />
Non bisogna dimenticare che i capitalisti,<br />
sull’onda <strong>della</strong> crisi, hanno bisogno<br />
<strong>della</strong> guerra per recuperare <strong>il</strong> ritardo<br />
accumulato, sostenendo <strong>il</strong> settore<br />
privato attraverso l’indebitamento<br />
dello Stato. Tuttavia, oggi le risposte<br />
anticicliche sono più spaventose. In<br />
passato, le crisi erano crisi di sovrapproduzione<br />
e determinavano l’alternanza<br />
del ciclo: crisi, ripresa, crisi;<br />
dopo la distruzione <strong>della</strong> parte maggioritaria<br />
di capitale, quello che restava<br />
ritrovava <strong>il</strong> mercato. Già con la<br />
Prima guerra mondiale si decise che<br />
non conveniva aspettare che la crisi<br />
distruggesse i propri capitali, era meglio<br />
andare a prendere i mercati altrui,<br />
distruggendone i capitali e depredandone<br />
le risorse. Fu <strong>il</strong> primo tentativo<br />
compiuto in questa direzione.<br />
GIACCHÉ<br />
La tendenza alla guerra è la dimostrazione<br />
pratica delle conseguenze disastrose<br />
delle crisi capitalistiche e non è<br />
un caso che tutti i tratti peggiori <strong>della</strong><br />
storia del Novecento (la mob<strong>il</strong>itazione<br />
delle masse e la coazione del consenso,<br />
le dittature reazionarie e i campi di<br />
sterminio) siano frutto delle crisi e<br />
connesse a questa dinamica e alle sue<br />
tragiche conseguenze.<br />
MODUGNO<br />
È anche vero, però, che non si può<br />
fare una guerra mondiale ogni volta<br />
che arriva una crisi. Nel ’29, per<br />
esempio, non fu possib<strong>il</strong>e e gli Usa<br />
dovettero subire una crisi terrificante<br />
che durò fino alla Seconda guerra<br />
mondiale. In quella circostanza si verificò<br />
anche che gli Stati Uniti subirono<br />
una depressione contro la quale<br />
non poté valere <strong>il</strong> welfare (quello è <strong>il</strong><br />
periodo in cui nasce <strong>il</strong> welfare svedese,<br />
e ciò fa capire cosa sia <strong>il</strong> welfare,<br />
47
48<br />
Lo stesso Marx spiega che la storia del capitalismo è<br />
storia di violenza, dalle enclosures alle leggi contro <strong>il</strong><br />
vagabondaggio; dalle guerre commerciali alle guerre per<br />
le risorse. Insomma, la storia del capitalismo è storia di<br />
continue aggressioni. Non è mai esistita una fase pacifica<br />
del capitalismo<br />
quando e perché nasca). In quel<br />
frangente maturò la tesi keynesiana:<br />
non aspettiamo che la crisi arrivi;<br />
facciamo intervenire lo Stato per<br />
mob<strong>il</strong>itare le risorse necessarie a<br />
scongiurare le crisi. Il keynesismo<br />
punta esattamente a questo: lo Stato<br />
fa debiti nella fase di contrazione per<br />
poi recuperarli nelle fasi di crescita.<br />
La Seconda Guerra Mondiale rappresentò<br />
l’occasione per gli Stati Uniti<br />
per uscire dalla crisi. Nella logica del<br />
warfare,è la spesa m<strong>il</strong>itare che r<strong>il</strong>ancia<br />
l’economia statale…<br />
GIACCHÉ<br />
…ovviamente, a determinate condizioni:<br />
che la guerra non arrivi in<br />
casa, che la mob<strong>il</strong>itazione popolare<br />
sia irreggimentata e, logicamente,<br />
che la guerra alla fine si vinca. Il problema<br />
è <strong>il</strong> costo di questa strategia; e<br />
questo costo si chiama «debito pubblico<br />
Usa» che rappresenta una mina<br />
vagante nel sistema finanziario internazionale.<br />
Ad esempio, <strong>il</strong> valore del<br />
dollaro rispetto all’oro sta continuando<br />
a scendere; ciò significa che <strong>il</strong> valore<br />
reale del dollaro continua a ridursi,<br />
perché gli Usa inondano <strong>il</strong><br />
mondo di dollari e questo genera dinamiche<br />
inflattive. Anche nel confronto<br />
con le altre valute dominanti,<br />
<strong>il</strong> dollaro tende a deprezzarsi. Questo<br />
è un punto assai delicato. Inoltre, da<br />
quando (1971) sono saltati gli accordi<br />
di Bretton Woods, venuta meno la<br />
convertib<strong>il</strong>ità del dollaro in oro, <strong>il</strong><br />
dollaro è una sorta di «moneta fiduciaria»,<br />
nel senso che vale nella misura<br />
in cui è «accettata» come strumento<br />
di transazione per lo scambio<br />
delle materie energetiche. Ecco perché<br />
gli Usa devono assolutamente<br />
evitare una alternativa al dominio<br />
del dollaro; ed ecco spiegate la minaccia<br />
di una guerra contro l’Iran e<br />
la contrapposizione per «interposta<br />
persona» (Polonia, Repubblica Ceca)<br />
al rafforzamento dell’unità europea.<br />
Rispetto al passato, la differenza sostanziale<br />
è che esiste una valuta che<br />
può affermarsi in alternativa al dollaro<br />
come valuta internazionale di riserva.<br />
Non è velleitario oggi contendere<br />
al dollaro la capacità di acquisire<br />
potere di signoraggio e perciò gli<br />
Stati Uniti rafforzano la propria proiezione<br />
strategica in Europa. Ad<br />
esempio, nel 1999, con la guerra del<br />
Kosovo, gli Usa determinano un<br />
crollo dell’euro, che, partito da 1.16<br />
sul dollaro, comincia poi a declinare<br />
da marzo-apr<strong>il</strong>e, in coincidenza con i<br />
bombardamenti <strong>della</strong> Nato. Il dollaro<br />
ha continuato a crescere per qualche<br />
anno e poi ha preso a declinare e, in<br />
corrispondenza con le spese di guerra<br />
in Iraq, è andato sempre più giù<br />
salvo riprendersi in parte nel 2005,<br />
grazie ai proventi del commercio del<br />
petrolio, al rimpatrio dei profitti delle<br />
grandi imprese e alla politica dei tassi<br />
di interesse, che sono più elevati rispetto<br />
a quelli applicati dalla Banca<br />
centrale europea.<br />
ARRIVIAMO AI COMPITI DI FASE. GO-<br />
VERNO DEL PAESE E PROPOSTE PER UNA<br />
SINISTRA DI TRASFORMAZIONE «CON-<br />
TEMPORANEA». L’OPZIONE DEL SOCIA-<br />
LISMO DEL XXI SECOLO, A DIFFERENZA<br />
DI QUANTO AVVIENE IN AMERICA LATI-<br />
NA, IN EUROPA SEMBRA PARTIRE DAL-
L’OBLITERAZIONE DEL NESSO CAPITALE-LAVORO. È UN PRE-<br />
SUPPOSTO INCONCILIABILE CON UNA OPZIONE POLITICA CHE<br />
INTENDA ISPIRARSI AL SOCIALISMO, PER QUANTO INNOVATO…<br />
GIACCHÉ<br />
Sono convinto che bisogna ricominciare a parlare di classe,<br />
fare un ragionamento serio di re-distribuzione e invertire<br />
la tendenza di fondo di questi anni, facendo leva<br />
anche sullo strumento fiscale. La fiscalità rappresenta uno<br />
degli strumenti più classici di «lotta di classe dall’alto». La<br />
fiscalità in Italia, oggi, è, di fatto, regressiva ma la tendenza<br />
può (e deve) essere invertita.<br />
Oggi, registriamo una struttura parassitaria di gran parte<br />
del capitale italiano. I super-profitti fatti negli anni Novanta<br />
sono serviti a rimpinguare le tasche dei padroni<br />
senza fare investimenti nelle imprese. Si è spinto <strong>il</strong> paese<br />
su una frontiera di competitività insostenib<strong>il</strong>e, la competitività<br />
di prezzo e non di prodotto, con tutto che non abbiamo<br />
più le svalutazioni competitive, l’evasione fiscale<br />
non può giungere oltre i livelli attuali e la compressione<br />
salariale non può essere spinta ancora oltre. Purtroppo, a<br />
fronte di tutto questo, non si riescono a scorgere politiche<br />
seriamente riformatrici, perché oramai c’è una «cappa<br />
ideologica». L’idea che i costi non debbano essere re-distribuiti<br />
su quella classe che ha accumulato in questi ultimi<br />
anni profitti enormi, rivela un tabù di fondo. La tesi<br />
dominante è che tutto ciò che fa bene al capitale fa bene<br />
anche al paese, mentre è provato che semmai è vero <strong>il</strong><br />
contrario.<br />
Anche <strong>il</strong> «catalogo dei diritti» (i diritti fondamentali, i<br />
beni comuni ecc.) è un nonsense, perché non esistono diritti<br />
garantiti ab aeterno, esistono bisogni che, se vengono<br />
esigiti con la lotta, possono dare luogo a diritti, come <strong>il</strong><br />
contratto di lavoro. Basta ricordare lo slogan delle mob<strong>il</strong>itazioni<br />
francesi per i diritti sociali e contro <strong>il</strong> Cpe (<strong>il</strong> contratto<br />
precario di primo impiego): «Cento anni per farlo,<br />
un Cpe per toglierlo» (con ovvia allusione al contratto di<br />
lavoro). Proprio questa lotta vittoriosa ci indica la strada<br />
giusta. Da noi però <strong>il</strong>lustri studiosi di area Partito democratico,<br />
come Michele Salvati, non trovano di meglio che<br />
dire che «<strong>il</strong> peso <strong>della</strong> precarietà non deve gravare sui giovani,<br />
ma essere distribuito sull’intera forza-lavoro». Ebbene,<br />
è proprio questo l’approccio che va rovesciato.<br />
MODUGNO<br />
Inoltre <strong>il</strong> nuovo modo di produzione pone problemi a cui<br />
le sinistre non hanno risposto: in particolare quello dell’attualità<br />
di una proposta di governo «progressiva». Le sinistre<br />
vogliono tornare indietro al keynesismo di sinistra,<br />
sono le «vedove del welfare», ma <strong>il</strong> welfare è legato, come<br />
detto, al ciclo fordista, all’operaio specializzato, alla catena<br />
di montaggio. Oggi, con le nuove macchine, si producono<br />
nuova ricchezza e nuovi lavoratori che prima non<br />
c’erano. I lavoratori sono sempre la prima e più importante<br />
produzione del capitale che ha dovuto distruggere la<br />
vecchia classe operaia con i suoi rappresentanti, in un ci-<br />
IDEE<br />
mento storico durato decenni, per produrre un nuovo lavoratore,<br />
che avesse caratteristiche diverse dall’operaio<br />
tradizionale: più acculturato e flessib<strong>il</strong>e, legato a una<br />
nuova fase del capitalismo, in cui la produttività sarebbe<br />
aumentata.<br />
Tornare indietro al keynesismo di sinistra è come tornare<br />
indietro nella storia. Il modo più avanzato dell’organizzazione<br />
del capitalismo è questo «liberismo con l’elmetto».<br />
Proprio in questo nuovo contesto, si giocano le possib<strong>il</strong>ità<br />
dei nuovi lavoratori, i quali hanno delle chances diverse da<br />
quelle che avevano gli operai tradizionali: sono tutti acculturati<br />
e, quindi, pur essendo diversi dai vecchi intellettuali,<br />
in qualche modo vivono come intellettuali e hanno<br />
una capacità produttiva superiore a quella degli operai<br />
tradizionali.<br />
Proprio per questo, conoscono intimamente <strong>il</strong> rapporto<br />
capitale-lavoro, hanno già dato segno di sé negli ultimi<br />
decenni e sono teoricamente pronti ad assumere un protagonismo<br />
nelle mob<strong>il</strong>itazioni di massa. Bisogna, a tal<br />
proposito, interpretare le lotte di classe degli ultimi decenni,<br />
perché queste nuove forme di lavoro sono tornate<br />
molte volte sulla scena, pur se con aspetti diversi. Ma è<br />
necessario interpretare le forme che le lotte hanno assunto,<br />
perché possono tutte essere ricondotte al nuovo scontro<br />
tra capitale e lavoro che si presenta in forme diverse<br />
da quelle del passato ma potenzialmente molto più ricche<br />
di consapevolezza anticapitalistica. <br />
49
50<br />
questione meridionale<br />
e questione sarda<br />
i temi dell’autonomia<br />
e l’elaborazione dei comunisti<br />
Democrazia progressiva e autonomia<br />
prima parte<br />
Nella storia del movimento operaio italiano <strong>il</strong> Partito comunista ha saputo<br />
divenire un grandissimo strumento di partecipazione popolare<br />
grazie anche alla sua capacità di leggere le peculiarità storiche, economiche,<br />
sociali e culturali del nostro paese, costruendo su esse una prospettiva<br />
socialista che non fosse una riproduzione «pappagallesca» <strong>della</strong> teoria generale<br />
marxista. In questo senso la lezione leniniana sulla necessità di concentrarsi<br />
nello studio delle specificità di ogni singola «formazione economico-sociale»,<br />
piuttosto che dedurre deterministicamente dalle leggi generali dell’economia<br />
le ragioni del socialismo e l’inevitab<strong>il</strong>ità <strong>della</strong> rivoluzione, ha<br />
lasciato un solco profondo su cui si è innestata una elaborazione assai originale<br />
nella sua ricchezza e articolazione. Di questa ricchezza fa parte sicuramente<br />
lo sforzo per leggere nelle diversità dei rapporti di sfruttamento delle<br />
varie realtà italiane una trama unitaria, in ragione <strong>della</strong> quale, ad esempio, la<br />
questione meridionale andava intesa come grande questione nazionale, come<br />
crocevia attorno al quale ruotavano alcuni dei principali snodi degli assetti di<br />
dominio <strong>della</strong> società italiana.<br />
All’interno di questa storia si inserisce anche la questione sarda e <strong>il</strong> tema dell’autonomismo<br />
nell’elaborazione dei comunisti. Esso nasce e si sv<strong>il</strong>uppa con<br />
una prospettiva storicistica che ha quale dato di partenza due elementi nodali:<br />
1) la condizione di oppressione secolare del popolo sardo nel corso delle diverse<br />
dominazioni, oppressione che ha trovato nei molteplici frangenti storici<br />
<strong>il</strong> fattivo sostegno delle stesse classi dirigenti sarde; 2) la marginalizzazione<br />
dei movimenti culturali e politici <strong>della</strong> Sardegna – da parte <strong>della</strong> letteratura<br />
storica e scientifica italiana – la sottovalutazione sistematica, sul piano politico,<br />
del diritto all’autodeterminazione culturale e politica, pur nel quadro unitario<br />
dello Stato italiano.<br />
Il punto di approdo dell’autonomismo comunista si situa in una nuova concezione<br />
di sardismo inteso come terreno d’incontro tra gruppi intellettuali e<br />
masse sarde nella prospettiva del socialismo.<br />
Per affrontare con sufficiente chiarezza questo tema è opportuna una precisazione<br />
preliminare sul contesto che gli fa da sfondo, più precisamente sulla situazione<br />
che caratterizza <strong>il</strong> Pci all’indomani <strong>della</strong> caduta del fascismo.<br />
Con la «Svolta di Salerno» <strong>il</strong> Pci intraprendeva la strada dell’unità di tutte le<br />
forze antifasciste, comprese quelle stesse forze che avevano reso possib<strong>il</strong>e e<br />
agevolato l’ascesa del fascismo (monarchia, esercito, liberali), rinviando la<br />
questione istituzionale su forma di Stato e forma di governo a liberazione avvenuta.<br />
Questa svolta, decisiva nel processo di liberazione dal nazifascismo,<br />
GIANNI FRESU*<br />
Se nel confronto tra<br />
le esperienze dei<br />
comunisti del Nord e<br />
quelli del Sud era<br />
possib<strong>il</strong>e parlare di<br />
dualismo, rispetto alla<br />
Sardegna la differenza era<br />
ancora maggiore, perché<br />
l’isolamento geografico e<br />
l’assenza di contatti con<br />
la ricostituita direzione<br />
nazionale aveva lasciato<br />
fuori <strong>il</strong> Pci sardo dalla<br />
dialettica innescata dalla<br />
«Svolta di Salerno», che<br />
era stata recepita<br />
nell’isola come un «ab<strong>il</strong>e<br />
espediente tattico»<br />
* PRC-COMITATO POLITICO NAZIONALE
impegnava i comunisti nella ricostruzione del quadro democratico<br />
senza alcuna ambiguità tattica o «doppiezza»,<br />
si trattava di una scelta strategica destinata a mutare <strong>il</strong><br />
ruolo dei comunisti nella storia d’Italia.<br />
Ma come è stato ampiamente r<strong>il</strong>evato in sede storiografica,<br />
la «Svolta di Salerno», nel Sud e nelle Isole, non si traduce<br />
immediatamente in una radicale riorganizzazione del<br />
modo di operare dei comunisti. Nel Mezzogiorno permangono<br />
limiti enormi sia tra le f<strong>il</strong>e dell’antifascismo, sia tra<br />
quelle del Partito comunista. Su questi limiti si è soffermato<br />
con attenzione Antonello Mattone: «Lo stesso dibattito<br />
interno sulle tematiche <strong>della</strong> svolta registra un dualismo di<br />
esperienze opposte tra le organizzazioni comuniste del<br />
Nord e quelle meridionali. Mentre nel Nord l’atteggiamento<br />
dei quadri è volto ad approfondire i contenuti <strong>della</strong> formula<br />
di democrazia progressiva e l’articolazione <strong>della</strong> nuova<br />
società antifascista attraverso i Cln, nel Mezzogiorno prevale<br />
la preoccupazione, frutto di un massimalismo generico<br />
e sovente anche messianico, di riaffermare i principi del<br />
comunismo e la purezza classista <strong>della</strong> linea politica. In definitiva<br />
<strong>il</strong> partito nel Meridione si pone al di fuori <strong>della</strong><br />
linea indicata nella svolta; nel migliore dei casi essa viene<br />
interpretata come un espediente tattico necessario per la<br />
conquista del potere. Atteggiamenti e orientamenti settari<br />
sono assai diffusi nel partito, ne costituiscono quasi una<br />
doppia anima» 1 .<br />
Dall’8 settembre in poi si fa largo una realtà frammentata<br />
che a stento può essere identificata con una entità nazionale<br />
unitaria; non a caso Spriano, in proposito, ha parlato<br />
di tante Italie all’interno delle quali si diramano ulteriori<br />
sottoframmentazioni addirittura municipali. Tra esse proprio<br />
la Sardegna si distingue per <strong>il</strong> suo totale isolamento.<br />
Se nel confronto tra le esperienze dei comunisti del Nord<br />
e quelli del Sud era possib<strong>il</strong>e parlare di dualismo, rispetto<br />
alla Sardegna la differenza era ancora maggiore, perché<br />
l’isolamento geografico e l’assenza di contatti con la ricostituita<br />
direzione nazionale aveva lasciato fuori <strong>il</strong> Pci<br />
sardo dalla dialettica innescata dalla «Svolta di Salerno»,<br />
che era stata recepita nell’isola come un «ab<strong>il</strong>e espediente<br />
tattico» ancora più che nel resto del Mezzogiorno.<br />
In Sardegna <strong>il</strong> partito, che muove i suoi primi passi, si<br />
trova di fronte a un compito immane di ricostruzione delle<br />
IDEE<br />
sue basi. Per andare oltre la condizione di s<strong>il</strong>enzio e isolamento<br />
che i lavoratori sardi avevano dovuto subire per un<br />
intero ventennio, compito primario era di non ricadere<br />
nelle divisioni corporative che avevano limitato la sua<br />
forza egemonica nel passato, quando <strong>il</strong> movimento socialista<br />
rimase recintato nei bacini minerari limitandosi alle<br />
sole rivendicazioni degli interessi operai. Bisognava cioè<br />
unificare, sul piano politico generale, le rivendicazioni parziali<br />
<strong>della</strong> classe operaia, delle masse contadine e agro pastorali,<br />
in unico movimento popolare sardo capace di dettare<br />
l’agenda delle priorità <strong>della</strong> ricostruzione e l’orientamento<br />
del nuovo modello di sv<strong>il</strong>uppo. I lavoratori<br />
dovevano liberarsi per sempre dallo sfruttamento secolare<br />
a cui erano stati sottoposti, <strong>il</strong> che significava liberarsi non<br />
solo dal dominio padronale straniero, ma contrastare da<br />
posizioni di forza anche quello sardo, per porsi essi stessi<br />
come nuova classe dirigente dell’Isola. Ma tra i comunisti<br />
sardi si afferma anche una tendenza storicamente radicata,<br />
seppur minoritaria, con ispirazione indipendentista.<br />
Al primo Congresso regionale del partito, svoltosi a Iglesias<br />
<strong>il</strong> 13 e 14 marzo del 1944, una delegazione di comunisti<br />
galluresi si presentò chiedendo di essere accreditati all’assise<br />
in qualità di membri e delegati del Partito comunista<br />
sardo, del quale esisteva uno statuto e un programma. La<br />
richiesta venne respinta all’unanimità e si offrì al gruppo<br />
del Pcs di partecipare ai lavori senza diritto di voto. Il gruppo<br />
del Pcs si era sv<strong>il</strong>uppato, fondamentalmente nella provincia<br />
di Sassari, nel caos organizzativo e politico proprio<br />
del periodo che va dal dicembre del 1943 al giugno 44 2 .<br />
Il Pcs nel suo manifesto si richiamava all’ideale <strong>della</strong> Re-<br />
51
52<br />
pubblica federativa sovietica <strong>della</strong> metà degli anni Venti e indicava come<br />
obiettivo programmatico la costituzione di un’autonoma Repubblica sarda<br />
degli operai e dei contadini. Nel solco tracciato dal Krestintern del 1925 <strong>il</strong> Pcs<br />
riproponeva l’alleanza strategica con <strong>il</strong> PSd’A e intendeva federarsi al Comintern<br />
(in realtà già sciolto per l’alleanza contro <strong>il</strong> nazifascismo) autonomamente<br />
dal Pci. Il Pcs, pur ricollegandosi alla linea del Pci, «riteneva che la Sardegna<br />
fosse una realtà a sé stante e che male sopportasse l’imposizione di forme<br />
istituzionali e di organismi politici propri del continente; individuava nella politica<br />
fiscale dello Stato la causa dell’arretratezza dell’isola e criticava l’incapacità<br />
del liberalismo, del fascismo, ma anche del socialismo, di dare alla Sardegna<br />
un assetto politico e istituzionale consono alle sue peculiarità. Solo al sardismo<br />
si riconosceva di aver compiuto uno sforzo in tale direzione, peraltro<br />
inadeguato per carenze organizzative e programmatiche» 3 .<br />
L’emergere, ed eventualmente <strong>il</strong> prevalere, di posizioni isolazioniste, come<br />
quelle del Pcs, tra i comunisti sardi avrebbe potuto significare l’autoestromissione<br />
<strong>della</strong> Sardegna dal profondo processo di rinnovamento democratico di<br />
cui la Resistenza antifascista era protagonista. Ciò indusse tutto <strong>il</strong> gruppo dirigente<br />
sardo del Pci a combattere con durezza le posizioni separatiste, così<br />
come i residui di settarismo che ancora galleggiavano tra i suoi quadri e m<strong>il</strong>itanti:<br />
<strong>il</strong> partito doveva operare a stretto contatto con le condizioni materiali di<br />
esistenza delle classi subalterne, la sua composizione sociale e la sua direzione<br />
politica dovevano sorgere naturalmente da esse. Il «partito nuovo» non<br />
poteva più essere l’organizzazione degli avvocati e dei professori, doveva realmente<br />
divenire <strong>il</strong> partito dei lavoratori.<br />
Da Lione alla Questione meridionale, l’alleanza operai-contadini<br />
Costruire in Sardegna un partito di lavoratori di massa significava affrontare<br />
di petto la questione contadina e investire tutte le proprie energie nella costruzione<br />
di un movimento avanzato tra le masse dei contadini senza terra e<br />
i braccianti per sottrarli all’influenza e alla direzione <strong>della</strong> Chiesa e dei movimenti<br />
più conservatori.<br />
In Sardegna favorire la nascita del movimento cooperativo tra contadini e pastori<br />
era l’unico modo per superare la dispersione sociale e territoriale di quelle<br />
realtà e anche <strong>il</strong> modo per dare un radicamento di massa al partito. Bisognava<br />
lavorare nel movimento contadino fino a sv<strong>il</strong>upparlo e a farne una<br />
forza sociale capace di incidere sugli equ<strong>il</strong>ibri politico-sociali dell’isola.<br />
L’emergere di una questione meridionale, e al suo interno di una specifica<br />
questione sarda, era scaturito dal tentativo di tradurre in italiano la teoria politica<br />
di Lenin, a partire dal tema dei temi, per quel tempo: l’alleanza operaicontadini,<br />
che si era rivelata determinante per la vittoria <strong>della</strong> Rivoluzione<br />
d’Ottobre. Le riflessioni delle Tesi di Lione e la Questione meridionale rispondevano<br />
esattamente a questa esigenza nel tentativo di disarticolare <strong>il</strong> blocco sociale<br />
reazionario che dominava l’Italia dall’Unità all’avvento del fascismo.<br />
Secondo le Tesi di Lione, l’elemento predominante <strong>della</strong> società italiana era<br />
dato da una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo<br />
ancora debole e incapace di assorbire la maggioranza <strong>della</strong> popolazione<br />
e un’agricoltura che costituiva la base economica del paese, segnata<br />
dalla netta prevalenza in essa di ceti poveri (bracciantato agricolo) molto prossimi<br />
alle condizioni del proletariato e perciò sensib<strong>il</strong>i alla sua influenza.<br />
Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di<br />
raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza<br />
del modo di produzione in Italia – che non poteva disporre di materie prime<br />
– spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi<br />
latifondisti agrari che si basavano su «una solidarietà di interessi» tra ceti di<br />
priv<strong>il</strong>egiati a detrimento degli interessi generali <strong>della</strong> produzione e <strong>della</strong> maggioranza<br />
<strong>della</strong> popolazione. Anche <strong>il</strong> processo risorgimentale era espressione di<br />
questa debolezza, perché la costruzione<br />
dello Stato nazionale era stata possib<strong>il</strong>e<br />
grazie allo sfruttamento di particolari<br />
fattori di politica internazionale<br />
e <strong>il</strong> suo consolidamento aveva<br />
necessitato quel compromesso sociale<br />
che ha reso inoperante in Italia la<br />
lotta economica tra industriali e agrari,<br />
la rotazione di gruppi dirigenti, tipici<br />
di altri paesi capitalistici. Secondo<br />
Gramsci, questo compromesso a tutela<br />
di uno «sfruttamento parassitario»<br />
delle «classi dominanti» aveva determinato<br />
una polarizzazione tra l’accumulo<br />
di immense ricchezze in ristretti<br />
gruppi sociali e la povertà estrema<br />
del resto <strong>della</strong> popolazione; aveva<br />
comportato <strong>il</strong> deficit del b<strong>il</strong>ancio, l’arresto<br />
dello sv<strong>il</strong>uppo economico in intere<br />
aree del paese (come <strong>il</strong> Mezzogiorno),<br />
ostacolando una modernizzazione<br />
del sistema economico<br />
nazionale armonica e calibrata con le<br />
caratteristiche del paese.<br />
Il compromesso tra industriali e agrari<br />
attribuiva alle masse lavoratrici del<br />
Mezzogiorno la stessa posizione delle<br />
popolazioni coloniali; per esse <strong>il</strong> Nord<br />
industrializzato diveniva come la metropoli<br />
capitalistica per la colonia; le<br />
classi dirigenti del sud (grandi proprietari<br />
e media borghesia) svolgevano<br />
la stessa funzione delle categorie<br />
sociali delle colonie che si alleano con<br />
i coloni per mantenere la massa del<br />
popolo soggetta al proprio sfruttamento.<br />
Tuttavia nella prospettiva storica<br />
questo sistema di compromesso<br />
si è rivelato inefficace perché si è trasformato<br />
in un ostacolo allo sv<strong>il</strong>uppo<br />
tanto dell’economia industriale,<br />
quanto di quella agraria; ciò ha deter-
minato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione<br />
sempre più forte e autoritaria dello Stato sulle masse. In Italia <strong>il</strong> processo<br />
d’unificazione nazionale non si è realizzato sulla base di un rapporto d’uguaglianza,<br />
ma attraverso una relazione squ<strong>il</strong>ibrata all’interno <strong>della</strong> quale l’arricchimento<br />
e l’incremento industriale del Nord dipendono strettamente dal crescente<br />
impoverimento del Mezzogiorno. Nella Questione meridionale, premessa<br />
fondamentale alle riflessioni sul Risorgimento nei Quaderni, Gramsci definisce<br />
<strong>il</strong> Mezzogiorno come una grande disgregazione sociale, all’interno <strong>della</strong> quale<br />
i contadini non hanno alcuna coesione tra di loro. Le masse contadine, che costituiscono<br />
la maggioranza <strong>della</strong> popolazione meridionale, non riuscendo a<br />
dare «espressione centralizzata» alle proprie aspirazioni, materializzano <strong>il</strong> loro<br />
perenne fermento attraverso uno stato di ribellismo endemico privo di prospettive.<br />
Al di sopra di queste masse si struttura l’assetto di dominio del blocco<br />
agrario che, attraverso le sue «proporzioni definite», riesce a mantenere le<br />
masse contadine permanentemente nella loro condizione «amorfa e disgregata»<br />
e a evitare qualsiasi forma di centralizzazione a quello stato di perenne fermento.<br />
L’esito del Risorgimento entro un equ<strong>il</strong>ibrio moderato non ha fatto<br />
altro che innestare su questa secolare struttura di potere <strong>il</strong> dominio del capitalismo<br />
settentrionale saldatosi, dopo l’unità, a quello <strong>della</strong> borghesia agraria del<br />
Sud in un nuovo blocco storico la cui chiave di volta risiedeva nella funzione<br />
degli intellettuali. Gramsci dunque nel porre la questione contadina come questione<br />
meridionale rappresenta quest’ultima come questione nazionale, all’interno<br />
<strong>della</strong> quale si situa con le sue specificità geografiche storiche e culturali,<br />
una questione sarda.<br />
La dialettica con la Dc alla Costituente e l’emergere<br />
<strong>della</strong> questione autonomistica<br />
Tuttavia nel Pci del dopoguerra per giungere nuovamente a questa consapevolezza,<br />
e ricomporre <strong>il</strong> f<strong>il</strong>o interrotto con l’elaborazione <strong>della</strong> metà degli anni<br />
Venti, occorreranno anni e un lungo processo di lotte e riflessioni. Bisogna infatti<br />
ricordare che nel dibattito dell’Assemblea costituente la posizione del Pci<br />
era più orientata verso <strong>il</strong> municipalismo, che rivendicava la continuità storica<br />
con la tradizione dei comuni e intendeva mettere a valore <strong>il</strong> patrimonio delle<br />
«cento città»; era una posizione che si basava sulla necessità di un forte decentramento<br />
amministrativo a comuni e province ma sul rispetto assoluto<br />
dell’unità politico territoriale del paese e quindi <strong>della</strong> potestà legislativa centrale.<br />
Il Pci interpretava al tempo la funzione delle regioni ordinarie come enti<br />
autarchici e organi di largo decentramento amministrativo. Secondo quella<br />
posizione, la creazione di una struttura federale o a forte regionalismo avrebbe<br />
invece portato al consolidarsi dei blocchi di potere che dominavano <strong>il</strong> Mezzogiorno<br />
acuendo la frattura tra Nord e Sud, ma soprattutto avrebbe impedito<br />
l’attuazione organica e omogenea delle riforme a carattere generale, le cosiddette<br />
«riforme di struttura». Dunque solo per Sardegna e Sic<strong>il</strong>ia si<br />
prevedeva un ipotesi di specialità nell’attribuzione di competenze, facendo<br />
però salva la capacità impositiva e d’intervento dello Stato, che era ritenuto <strong>il</strong><br />
solo organo capace di reperire le risorse e approntare gli strumenti per le profonde<br />
trasformazioni economiche e sociali che le due Isole necessitavano.<br />
Sul terreno dell’articolazione dei poteri e <strong>della</strong> struttura regionale, <strong>il</strong> Pci alla<br />
Costituente esprimeva ancora una posizione molto arretrata seppur imposta<br />
da un contesto assai complesso: si riconosceva che l’istituzione delle regioni<br />
avrebbe avvicinato <strong>il</strong> popolo alle amministrazioni attraverso <strong>il</strong> decentramento,<br />
ma si sottolineava altresì che, qualora alle regioni fossero stati attribuiti poteri<br />
esorbitanti da quelli <strong>della</strong> semplice amministrazione, fino a determinare<br />
una potestà legislativa esclusiva e anche concorrente, la posizione del Pci sarebbe<br />
stata contraria.<br />
Una tale accelerazione, più che la democratizzazione di ampi settori e rami<br />
IDEE<br />
<strong>della</strong> vita politica del paese, avrebbe<br />
favorito, secondo i comunisti, <strong>il</strong> frazionamento<br />
del potere legislativo e la<br />
disgregazione dell’unità organica del<br />
paese. La preoccupazione del Pci era<br />
che con la frammentazione politica<br />
del paese importanti riforme socioeconomiche,<br />
come ad esempio una<br />
profonda riforma agraria, o la nazionalizzazione<br />
di importanti settori dell’economia<br />
(si pensi alla produzione e<br />
distribuzione dell’energia elettrica),<br />
avrebbero trovato m<strong>il</strong>le ostacoli nell’applicazione.<br />
In questo modo si sarebbe<br />
stab<strong>il</strong>ito nel corpo <strong>della</strong> democrazia<br />
italiana un sistema per compartimenti-stagno.<br />
Sempre secondo<br />
questo ordine di ragionamenti <strong>il</strong> Pci si<br />
espresse contro <strong>il</strong> principio <strong>della</strong> autonomia<br />
<strong>della</strong> magistratura, palesando<br />
<strong>il</strong> rischio che la magistratura divenisse<br />
un corpo a sé stante regolato da<br />
modalità di autogoverno proprie.<br />
Su questa posizione sicuramente<br />
aveva influito <strong>il</strong> timore che la magistratura<br />
(come più in generale la burocrazia<br />
e le forze armate) ereditata<br />
dal Ventennio potesse divenire un<br />
corpo autonomo capace di condizionare<br />
negativamente <strong>il</strong> processo democratico.<br />
Le paure espresse in tal<br />
senso erano le prime avvisaglie di un<br />
clima nuovo che andava mutando<br />
nel paese proprio in quei mesi. Il 31<br />
maggio del 1947, con l’estromissione<br />
di comunisti e socialisti dal governo,<br />
«si archiviava definitivamente la realtà<br />
politica uscita dalla resistenza;<br />
cominciava una dura stagione <strong>della</strong><br />
Repubblica» 4 .<br />
Sull’articolazione dei poteri le posizioni<br />
dei comunisti mutano profon-<br />
53
54<br />
damente nel corso degli anni Cinquanta<br />
e Sessanta e nell’orientare<br />
questo mutamento l’azione e l’elaborazione<br />
di alcuni comunisti sardi è<br />
determinante. Inizialmente però, all’indomani<br />
<strong>della</strong> caduta del fascismo,<br />
sul tema dell’autonomia anche <strong>il</strong> Pci<br />
sardo ha scontato un ritardo notevole<br />
e ha commesso diversi errori. Le<br />
cause di tale ritardo e dell’iniziale<br />
propensione antiautonomista dei comunisti<br />
sardi erano molteplici e ramificate.<br />
Tra queste bisognava considerare<br />
anzitutto l’origine dei dirigenti<br />
che ripresero l’attività nel 1943:<br />
molti di essi provenivano dall’attività<br />
clandestina, erano quadri che avevano<br />
oramai metabolizzato una concezione<br />
settaria dell’agire politico; altri<br />
ancora provenivano dal Partito socialista<br />
che tradizionalmente era più attento<br />
alle questioni delle zone urbane<br />
e industriali piuttosto che alle<br />
questioni contadine. Oltre a ciò c’era<br />
la contrapposizione alle frange del<br />
movimento indipendentista che<br />
aveva contribuito a rendere sospettosi,<br />
se non proprio ost<strong>il</strong>i, i comunisti<br />
sardi verso ogni discorso autonomistico.<br />
Per lungo tempo la maggioranza<br />
dei comunisti sardi ha considerato<br />
fuorviante e interclassista la parola<br />
d’ordine dell’unità di tutti i sardi per<br />
l’autonomia.<br />
Da tutto ciò derivavano l’atteggiamento<br />
incerto e attendista e i ritardi<br />
nella piattaforma politica, che si palesarono<br />
al primo Consiglio Nazionale<br />
del Pci tenutosi a Roma nell’apr<strong>il</strong>e<br />
del 1945 dove la delegazione sarda<br />
era composta da Renzo Laconi, Antonio<br />
Dore e quindi Giovanni Lay<br />
che in proposito ha scritto: «In quell’occasione<br />
io fui aspramente criticato<br />
da Togliatti perché feci un intervento<br />
che suonava pressappoco così:<br />
«i contadini e i pastori sardi non<br />
sanno che farsene di un’autonomia<br />
regionale guidata dai proprietari terrieri<br />
e dai nemici <strong>della</strong> Sardegna che<br />
sono presenti anche nell’Isola. Noi<br />
dobbiamo batterci per un’autonomia<br />
che sia strumento di progresso sociale<br />
ed economico, che liberi <strong>il</strong> popolo<br />
sardo dalla miseria e dallo sfruttamento,<br />
che salvi le miniere, che va-<br />
lorizzi le risorse umane ed economiche<br />
<strong>della</strong> Sardegna».<br />
Nelle conclusioni dei lavori del Consiglio<br />
nazionale Togliatti disse: «Se <strong>il</strong><br />
compagno Gramsci fosse stato qui<br />
presente e avesse udito un comunista<br />
sardo, per giunta dirigente del<br />
partito in Sardegna, sostenere che i<br />
contadini sardi e i pastori non sanno<br />
che farsene dell’autonomia, certamente<br />
ne sarebbe rimasto molto sorpreso».<br />
Togliatti criticò i dirigenti del<br />
partito in Sardegna non tanto per<br />
quello che era stato detto in quella<br />
sede, ma per <strong>il</strong> fatto di non essere<br />
stati ancora capaci di impegnare le<br />
masse popolari sarde nella battaglia<br />
per «togliere la bandiera dell’autonomia»<br />
dalle mani di quelli che pensavano<br />
di fare dell’autonomia regionale<br />
la loro citta<strong>della</strong> per la difesa dei<br />
loro interessi di classe, e farla passare<br />
nelle mani <strong>della</strong> classe operaia 5 .<br />
Anche se non solo in ragione di questo<br />
fatto, la rivendicazione autonomista<br />
viene a essere assim<strong>il</strong>ata solo dopo<br />
<strong>il</strong> superamento del «pericolo» rappresentato<br />
dalla prospettiva del Pcs.<br />
Sul versante istituzionale poi, la Consulta<br />
tardò enormemente a elaborare<br />
un proprio progetto, mentre già dal<br />
maggio del 1946 <strong>il</strong> Governo aveva<br />
promulgato lo Statuto speciale sic<strong>il</strong>iano.<br />
Come è noto Lussu, storico leader<br />
del sardismo, preoccupato per i ritardi<br />
e per l’irrigidimento <strong>della</strong> Dc sulle<br />
questioni autonomistiche, si adoperò<br />
presso i rappresentanti <strong>della</strong> Consulta<br />
per ottenere l’estensione dello Statuto<br />
sic<strong>il</strong>iano alla Sardegna ottenendone<br />
un rifiuto. Anche la delegazione<br />
del Pci si unì nel rivendicare alla Consulta<br />
<strong>il</strong> compito di scrivere <strong>il</strong> proprio<br />
Statuto, con <strong>il</strong> risultato di ritardare<br />
fino alla fine del gennaio 1948 la promulgazione<br />
di uno Statuto dai contenuti<br />
autonomistici decisamente più<br />
blandi di quello sic<strong>il</strong>iano. <br />
1. A. Mattone, Velio Spano. Vita di un rivoluzionario<br />
di professione, Edizioni <strong>della</strong><br />
Torre, Cagliari 1978, p. 107.<br />
2. Il Pcs era animato da alcune figure di<br />
un certo r<strong>il</strong>ievo nella storia del movimento<br />
socialista e comunista sardo, come<br />
l’Avvocato Antonio Cassitta che era stato<br />
direttore del giornale «Avanguardia», organo<br />
dell’organizzazione giovan<strong>il</strong>e comunista.<br />
Nella FGCI Cassitta era stato membro<br />
<strong>della</strong> segreteria nazionale e delegato<br />
al III Congresso del Comintern. Oltre a<br />
lui altre figure importanti erano un altro<br />
avvocato, conosciuto per le sue doti di<br />
vecchio tribuno socialista, Antioco Mura<br />
di Bonorva, e Francesco Anfossi che in<br />
Argentina era stato tra i promotori <strong>della</strong><br />
Lega sarda di Avellaneda.<br />
3. G. Lai (a cura di), La biblioteca di Renzo<br />
Laconi, Cuec, Cagliari 2000, p. 59.<br />
4. P. Cucchiarelli, A. Giannulli, Lo Stato<br />
parallelo. L’Italia oscura nei documenti e nelle<br />
relazioni <strong>della</strong> Commissione stragi. Gamberetti,<br />
Roma 1997.<br />
5. G. Lay, Io comunista, Tema, Cagliari<br />
2006, p. 114.
RIVE GAUCHE<br />
DUE ANNI<br />
DOPO<br />
Il 30 settembre del 2005 si tenne a Roma un convegno<br />
(Rive Gauche), promosso da «<strong>il</strong> manifesto» in collaborazione<br />
con gli economisti Sergio Cesaratto e Riccardo<br />
Realfonzo, <strong>il</strong> cui obiettivo era quello di riunire<br />
a discutere economisti, politici e – in generale –<br />
donne e uomini «di sinistra» attorno al tema: “La critica<br />
<strong>della</strong> politica economica e le linee programmatiche<br />
delle coalizioni progressiste” (gli atti furono<br />
pubblicati nel marzo 2006 per la Manifestolibri a cura<br />
degli stessi Cesaratto e Realfonzo). Eravamo alla vig<strong>il</strong>ia<br />
delle elezioni politiche del 2006 e viva era l’esigenza<br />
di ragionare sui programmi di politica economica<br />
che avrebbe dovuto realizzare una coalizione, auspicab<strong>il</strong>mente<br />
vincente, di alternativa alle destre.<br />
Sulla scia di quell’esperienza va anche considerata la<br />
successiva promozione di un Appello degli economisti<br />
(cui abbiamo aderito anche noi di <strong>Essere</strong> comunisti)<br />
rivolto al governo in carica e teso a modificare la<br />
linea rigorista di rientro dal debito pubblico ed un’<br />
applicazione stretta dei dettami di Maastricht.<br />
A due anni di distanza – e in vista di una seconda tornata<br />
di Rive Gauche dedicata a «L’economia <strong>della</strong> precarietà»<br />
che si terrà a Roma martedì 9 ottobre (promotore<br />
«<strong>il</strong> manifesto», con la collaborazione di<br />
Paolo Leon e Riccardo Realfonzo) – abbiamo inteso<br />
chiedere ad alcuni dei partecipanti (Riccardo Bellofiore,<br />
Em<strong>il</strong>iano Brancaccio, Giorgio Gattei, Giorgio<br />
Lunghini, Riccardo Realfonzo) le loro attuali valutazioni<br />
sia sulla strada da allora percorsa che sulla generale<br />
prospettiva economica. Qui di seguito presentiamo<br />
le domande con le relative risposte. Ovviamente,<br />
consideriamo questo inserto come <strong>il</strong> capitolo di<br />
una discussione destinata a proseguire. Per questo<br />
abbiamo deciso di pubblicare i contributi così come ci<br />
sono pervenuti, anche scontando qualche difformità<br />
nei toni e nella lunghezza: nella convinzione che non<br />
mancherà l’occasione per ulteriori repliche. Che naturalmente<br />
consideriamo sin d’ora benvenute.<br />
B.S.<br />
55
56<br />
RICCARDO BELLOFIORE – Università di Bergamo<br />
EMILIANO BRANCACCIO – Università del Sannio<br />
GIORGIO GATTEI – Università di Bologna<br />
GIORGIO LUNGHINI – Università di Pavia<br />
RICCARDO REALFONZO – Università del Sannio<br />
In relazione al nostro paese, si è parlato spesso di<br />
«declino» economico e sociale: ci si riferisce in particolare<br />
alla frag<strong>il</strong>ità del sistema industriale, alla<br />
crisi dei distretti e allo smantellamento dell’impresa<br />
pubblica, al basso livello degli investimenti in ricerca<br />
e sv<strong>il</strong>uppo, alla caduta dei salari reali (e dunque<br />
allo stato asfittico <strong>della</strong> domanda interna). Poi «The<br />
Economist», nel suo rapporto annuale Il mondo in<br />
cifre, colloca l’Italia tra le economie più forti,<br />
ponendola ai primi posti <strong>della</strong> classifica per <strong>il</strong> P<strong>il</strong> pro<br />
capite, <strong>il</strong> commercio di beni e servizi, <strong>il</strong> consumo di<br />
beni privati. Per non parlare dei dati degli ultimi anni<br />
sui profitti d’impresa, i quali non registrano alcun<br />
declino e anzi mostrano che <strong>il</strong> bicchiere è pieno fino a<br />
strabordare. Come stanno dunque le cose? Ci si chiede,<br />
in primo luogo: declino per chi?<br />
RICCARDO BELLOFIORE<br />
Una risposta vera a questa domanda richiederebbe uno<br />
spazio ben maggiore di quello concesso. Si tratta di una<br />
questione alla quale gli economisti più attivi <strong>della</strong> Rive<br />
Gauche – di cui in realtà non faccio parte, se con questa<br />
sigla ci si riferisce ai firmatari dell’appello per la stab<strong>il</strong>izzazione<br />
del debito pubblico lanciato nell’estate del 2006:<br />
e trovo francamente la sigla già un problema, costruita<br />
con tutta evidenza con una troppo fac<strong>il</strong>e logica di tipo<br />
giornalistico – hanno prestato poca attenzione e con<br />
grande ritardo, ossessionati come erano da una battaglia<br />
male impostata e peggio condotta sulle questioni appunto<br />
del debito pubblico. Non mi convince neppure la considerazione,<br />
diffusa a sinistra anch’essa, che <strong>il</strong> «declino»<br />
avrebbe a che vedere con l’assenza di una vera classe<br />
imprenditoriale. È un po’ la tesi di ambienti Banca<br />
d’Italia. Rispettab<strong>il</strong>e, coglie un grano di verità, ma a ben<br />
vedere non dice poi granché. Lungo quella linea si finisce<br />
poi nella ingenuità – che tenta, mi pare, anche<br />
Rifondazione – di una battaglia per separare la rendita e<br />
la finanza dall’economia reale sulla base di un intervento<br />
sulle banche centrali o di una introduzione isolata <strong>della</strong><br />
Tobin tax. O all’<strong>il</strong>lusione che una rinascita del «keynesismo»<br />
e del «conflittualismo incompatib<strong>il</strong>ista» possa<br />
essere la risposta ai problemi che ci troviamo di fronte<br />
oggi, dopo i fallimenti delle politiche dell’offerta (<strong>il</strong>lusione<br />
spesso nutrita sulle colonne del vecchio<br />
«Ernesto», e ora di «<strong>Essere</strong> <strong>Comunisti</strong>»). Si dovrebbe<br />
mettere in piedi una analisi ben più approfondita e una<br />
dimensione programmatica ben più seria di quella che è<br />
stata costruita dal 2001 a oggi. In questi anni, infatti,<br />
Rifondazione comunista – <strong>il</strong> più forte partito nella<br />
dispersa galassia <strong>della</strong> sinistra, ma dunque anche <strong>il</strong> più<br />
responsab<strong>il</strong>e dei suoi limiti – ha semplicemente cancellato<br />
la riflessione sul programma che pure aveva messo in<br />
piedi alla fine degli anni Novanta, anche se innegab<strong>il</strong>mente<br />
con molte carenze. A un certo punto aveva iniziato<br />
a corteggiare, in economia almeno, una politica fatta di<br />
appelli e presenza mediatici, i cui risultati sono stati nulli<br />
se non deleteri. Credendo così di poter parzialmente<br />
recuperare rispetto a una scommessa sbagliata: che la<br />
spinta del «movimento dei movimenti» avrebbe senz’altro<br />
spostato in avanti gli equ<strong>il</strong>ibri <strong>della</strong> coalizione.<br />
Oggi si è costretti a pregare che qualcosa succeda sulle<br />
piazze, e <strong>il</strong> movimentismo si trasforma in politicismo. Il<br />
declino economico e sociale italiano lo si capisce molto<br />
bene con le analisi di De Cecco, o Graziani, o Halevi, o<br />
ancora Gallino. Questo autore, in particolare, ha ut<strong>il</strong>izzato<br />
una formula più corretta, la «scomparsa dell’Italia
industriale», che è <strong>il</strong> titolo di un suo bel libro recente. È<br />
un fenomeno che va avanti, in realtà, dalla metà degli<br />
anni Sessanta. Quando <strong>il</strong> capitalismo italiano ha risposto<br />
in modo regressivo alle lotte nella distribuzione, prima,<br />
e nella valorizzazione immediata poi: lotte che avevano<br />
messo in evidenza tutti i limiti dello sv<strong>il</strong>uppo dualistico<br />
del nostro paese. È di qui che progressivamente inizia la<br />
decadenza o l’eliminazione delle grandi imprese private,<br />
la mitologia dei distretti, <strong>il</strong> nanismo, l’insufficienza <strong>della</strong><br />
ricerca e sv<strong>il</strong>uppo, e così via. Non è stata intrapresa nessuna<br />
seria politica di programmazione o di piano del<br />
lavoro, dentro una riqualificazione <strong>della</strong> nostra posizione<br />
nella divisione internazionale del lavoro, ormai sempre<br />
più a rischio. Salvo rare eccezioni, la sinistra stessa<br />
l’ha progressivamente accantonata. Sono spariti <strong>il</strong><br />
nucleare, l’elettronica, la chimica, l’aeronautica civ<strong>il</strong>e,<br />
l’acciaio, sono state o sono molto in difficoltà l’automob<strong>il</strong>e<br />
e la telefonia. Ovviamente, i settori nascono e muoiono<br />
dovunque: <strong>il</strong> problema è che da noi sono solo morti,<br />
non ne sono nati altri sostitutivi e trainanti. I grandi<br />
monopoli pubblici sono stati quasi tutti privatizzati,<br />
diventando spesso nient’altro che strumenti per la percezione<br />
di rendite.<br />
La politica industriale praticamente non c’è stata, se non<br />
adattiva alla pressione internazionale o alla politica<br />
monetaria restrittiva. La politica bancaria ha avuto andamenti<br />
alterni ma senza poter mai divenire orientativa<br />
dello sv<strong>il</strong>uppo economico. Dentro un quadro di politiche<br />
macroeconomiche e microeconomiche quali quelle<br />
europee – politiche che un po’ furbescamente non si è<br />
voluto neanche nominare in un programma di più di 280<br />
pagine: tanto i movimenti avrebbero «spinto» a sinistra,<br />
<strong>il</strong> che però fa un po’ specie se simultaneamente si<br />
impugna la battaglia del rispetto del programma dove fa<br />
comodo – l’unico margine di riaggiustamento a una<br />
competitività declinante e ai problemi di una produttività<br />
sempre più bassa non poteva che essere la pressione<br />
sul valore d’uso e sul valore di scambio <strong>della</strong> forza-lavoro.<br />
Forse bisognerebbe tornare all’Abc del marxismo.<br />
La sinistra sa solo reagire con <strong>il</strong> lamento, non vedo nessuna<br />
seria riflessione o proposta. Prima si attesta sulla<br />
tesi di una globalizzazione che metterebbe fuori gioco lo<br />
Stato nazionale (come anche sull’<strong>il</strong>lusione di un rapporto<br />
di lavoro salariato in crisi), poi recupera quest’ultimo<br />
come risposta solo verbale e subalterna alle politiche<br />
social-liberiste che danno <strong>il</strong> cambio a quelle neoliberiste.<br />
È ovvio, peraltro, che in un paese come l’Italia <strong>il</strong><br />
«declino» non significa una caduta immediata e verticale.<br />
Ci sono fattori distributivi, ci sono fattori settoriali,<br />
ci sono fattori regionali, che spiegano come alcuni<br />
RIVE GAUCHE<br />
stanno meglio, molto meglio, mentre altri stanno peggio.<br />
Di più, si possono mantenere alti tenori di vita pur in una<br />
situazione generale che lentamente degrada. Vedi le aree<br />
dove <strong>il</strong> salario unitario può anche essere basso, ma con lo<br />
straordinario, o con <strong>il</strong> fatto che si vive più a lungo e di più<br />
insieme dentro la famiglia, o con <strong>il</strong> capitale fam<strong>il</strong>iare<br />
accumulato, <strong>il</strong> tenore di vita può essere da zona ricca,<br />
molto ricca. Insegnava poi Marx che non esistono crisi<br />
permanenti. Dobbiamo stare molto attenti ai mutamenti<br />
portati dalla ristrutturazione, se no si rischia di fare<br />
come <strong>il</strong> vecchio Pci togliattiano ancora contaminato dallo<br />
stalinismo, e ancora negli anni Cinquanta e Sessanta si<br />
favoleggiava di una stagnazione generale e di una crisi<br />
dietro l’angolo. Ci sono voluti i «Quaderni rossi», <strong>il</strong><br />
gruppo del manifesto, lo stesso Trentin, e pochi altri a<br />
ragionare, all’inizio degli anni Sessanta sull’Italia come<br />
paese capitalistico non «arretrato».<br />
EMILIANO BRANCACCIO<br />
Forse su questo tema bisogna uscire da un equivoco: <strong>il</strong><br />
cosiddetto declino è relativo, non assoluto. Mi spiego. Da<br />
decenni in tutti i paesi Ocse registriamo uno schiacciamento<br />
<strong>della</strong> quota dei redditi da lavoro subordinato<br />
rispetto al reddito complessivamente prodotto. È una<br />
tendenza che registriamo sia in termini lordi che al netto<br />
dell’intervento statale. Essa si spiega principalmente col<br />
fatto che da tempo in fase di contrattazione i lavoratori<br />
subordinati non riescono a conquistare gli incrementi di<br />
produttività generati dal cambiamento tecnico, dall’aumento<br />
delle ore per unità di lavoro e dall’intensificarsi<br />
dei loro stessi sforzi produttivi. Per giunta, in molti casi la<br />
compressione salariale non è solo relativa ma anche assoluta:<br />
la diffusione dei contratti precari ha determinato<br />
vere e proprie cadute del monte salari, sia nel settore privato<br />
che in quello pubblico, e soprattutto nelle classi<br />
generazionali più giovani. I dati dunque segnalano che <strong>il</strong><br />
lavoro è sotto attacco in tutti i paesi, anche in quelli più<br />
avanzati. Detto questo, però, bisogna pure aggiungere<br />
delle specificità che caratterizzano le cosiddette «periferie»<br />
dello sv<strong>il</strong>uppo capitalistico, e in particolare l’Italia.<br />
Nel nostro paese sussistono problemi anche sul versante<br />
dei profitti. I capitali nazionali sono frammentati, polverizzati,<br />
<strong>il</strong> che determina una crescita più bassa <strong>della</strong> produttività,<br />
e quindi alti costi per unità di prodotto e bassa<br />
competitività rispetto ai concorrenti esteri. La conseguenza<br />
è che, rispetto ai «centri» dello sv<strong>il</strong>uppo capitalistico,<br />
in Italia i profitti crescono comunque, ma crescono<br />
di meno e oltretutto si perdono in una infinità di transazioni,<br />
di rivoli commerciali, e quindi non si concentrano.<br />
57
58<br />
Possiamo dunque tranqu<strong>il</strong>lamente parlare di declino<br />
«relativo» del capitalismo italiano, senza per questo<br />
pensare che i padroni nostrani si siano ridotti in braghe<br />
di tela. È bene tuttavia comprendere che pure un declino<br />
«relativo» alla lunga può risultare deleterio. Ai tempi del<br />
«piccolo è bello» andava di moda farsi vanto <strong>della</strong> scarsa<br />
concentrazione dei capitali nazionali, quasi che questa<br />
fosse indice di un capitalismo più diffuso, più democratico,<br />
magari persino «dal volto più umano». Oggi sappiamo<br />
invece che assecondare una tale frammentazione è<br />
stato forse <strong>il</strong> più grande errore strategico dei decenni<br />
passati. Infatti ora <strong>il</strong> capitale nazionale non regge la concorrenza<br />
estera, e rischia ogni giorno che passa di essere<br />
eliminato dal mercato o assorbito tramite acquisizioni<br />
straniere. Questo è un fenomeno che in Europa caratterizza<br />
non solo l’Italia ma anche, per esempio, la Grecia, <strong>il</strong><br />
Portogallo e la sopravvalutata Spagna. Questi paesi sono<br />
caratterizzati da una eccessiva frammentazione dei capitali,<br />
da una bassa produttività, da costi eccessivi di produzione,<br />
da una competitività sempre più compromessa e da<br />
crescenti disavanzi nei conti con l’estero.<br />
GIORGIO GATTEI<br />
Premesso che l’opinione dell’«Economist» è di parte<br />
(non è una <strong>rivista</strong> ultra-borghese, oppure la collocazione<br />
di classe non ha più ragione di essere?), chi ha mai detto<br />
che una economa che fa profitti è poi efficiente?<br />
Partiamo dall’inizio: in una economia si producono<br />
merci per rivenderle. Quindi per fare profitti ci vuole sia<br />
la produzione che <strong>il</strong> realizzo. Ora come si può fare produzione?<br />
Migliorando la produttività o aumentando la fatica.<br />
E dove si può fare realizzo? Sui mercati esteri o su<br />
quello interno. Di fronte a questo crocevia di alternative<br />
l’Italia cosa ha scelto?<br />
Siamo tutti contenti che dal 2006 sia arrivata una ripresa,<br />
ma trascinata dalle esportazioni che sono cresciute<br />
del 5,3% in termini reali (le cifre sono tratte dall’ultima<br />
relazione del Governatore <strong>della</strong> Banca d’Italia; qui a p.<br />
78). Così la domanda estera netta (esportazioni – importazioni),<br />
che era calata dello 0,3% nel 2005, è risalita<br />
dello 0,3% nel 2006 (p. 42). Tuttavia per puntare sulle<br />
esportazioni si deve pagare <strong>il</strong> prezzo <strong>della</strong> «competitività»<br />
e la maniera più semplice per ottenerla è quella di<br />
tagliare <strong>il</strong> costo del lavoro. Ciò che si è fatto: le retribuzioni<br />
per unità standard di lavoro dipendente hanno<br />
ridotto <strong>il</strong> loro aumento dal +3,3% del 2005 al +2,8% del<br />
2006 (p. 98) con la conseguenza di continuare a trasferire<br />
valore aggiunto dai salari ai profitti (la quota del lavoro,<br />
che era pari al 72,5% negli anni 1996-2000, è calata<br />
al 71,8% tra 2001 e 2005)(p. 98). Quindi la scelta di puntare<br />
sulla domanda estera ha consentito la contrazione<br />
dei salari, non essendo <strong>il</strong> mercato interno <strong>il</strong> luogo priv<strong>il</strong>egiato<br />
di realizzo.<br />
Poi c’è la maniera di produrre le merci. E qui si vede che<br />
l’occupazione è aumentata, sebbene per più <strong>della</strong> metà nei<br />
lavori «precari» che adesso toccano <strong>il</strong> 13,5% dell’occupazione<br />
dipendente (p. 88). Anche le ore di lavoro per<br />
dipendente sono salite: erano diminuite dell’1,1% nel<br />
2005, sono +1,0% nel 2006, mentre la «vita lavorativa» è<br />
stata allungata dall’ennesima «controriforma» delle pensioni.<br />
Ma l’aumento <strong>della</strong> produttività? Non c’è stato: <strong>il</strong><br />
prodotto per unità standard di lavoro, cresciuto dell’1,1%<br />
tra 1996 e 2000, è diminuito dello 0,2% tra 2001 e 2005<br />
(per l’industria in senso stretto i valori sono sim<strong>il</strong>i: +0,8%<br />
tra 1996 e 2000, +0,7% tra 2001 e 2005) (p. 98).<br />
Insomma, sembra che i nostri coraggiosi capitani d’industria,<br />
che hanno fatto certamente profitti, li hanno<br />
fatti più con l’aumento <strong>della</strong> fatica che con <strong>il</strong> miglioramento<br />
<strong>della</strong> produttività. Marx avrebbe detto: più con <strong>il</strong><br />
pluslavoro assoluto che con <strong>il</strong> pluslavoro relativo. E questa<br />
sarebbe una economia efficiente? Lo si vedrà alla<br />
lunga, perché alla lunga le scelte regressive si pagano.<br />
GIORGIO LUNGHINI<br />
Di «declino» si cominciò a parlare a seguito di un saggio<br />
del 2003 di Pierluigi Ciocca, L’economia italiana: un problema<br />
di crescita. In quel saggio Ciocca non usa mai la parola<br />
«declino», semplicemente mostra come nell’economia<br />
italiana, soprattutto dopo la crisi valutaria del 1992, sia<br />
prevalsa una tendenza al rallentamento di tutti gli indicatori:<br />
reddito (assoluto e pro capite, effettivo e potenziale),<br />
consumi, produttività, esportazioni. Nel periodo tra <strong>il</strong><br />
1992 e i primi anni di questo secolo, le determinanti principali<br />
del rallentamento sono la dinamica <strong>della</strong> produttività<br />
del lavoro e la dinamica delle esportazioni. Il rallentamento<br />
nella produttività del lavoro, produttività peraltro<br />
elevata, è a sua volta determinato dalla minor crescita <strong>della</strong><br />
produttività totale dei fattori, cioè dalla minor crescita<br />
<strong>della</strong> produttività del sistema economico-sociale nel suo<br />
complesso. Dal lato <strong>della</strong> domanda aggregata, <strong>il</strong> rallentamento<br />
dipende dal minor contributo dei consumi privati e<br />
pubblici, un minor contributo non compensato da sufficienti<br />
esportazioni nette. Dinamica <strong>della</strong> produttività e<br />
dinamica delle esportazioni, sono tutte e due conferme di<br />
«una economia strutturalmente meno capace di impiegare<br />
e organizzare <strong>il</strong> lavoro, innovare, applicare <strong>il</strong> progresso<br />
tecnico, competere».<br />
Negli anni recenti <strong>il</strong> prodotto interno lordo ha ripreso a
crescere, sia pure di poco, e molti ne hanno concluso che<br />
<strong>il</strong> «declino» si è arrestato. Se però <strong>il</strong> problema economico<br />
è un problema di crescita, <strong>il</strong> problema rimane irrisolto:<br />
l’economia italiana è ancora un’economia poco<br />
capace, sempre meno capace, di impiegare e organizzare<br />
<strong>il</strong> lavoro. Lo è tanto poco da guardare al lavoro non come<br />
al fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le<br />
cose necessarie e comode <strong>della</strong> vita, dunque come alla<br />
risorsa da valorizzare; bensì come a un fattore <strong>della</strong> produzione,<br />
<strong>il</strong> cui impiego dovrebbe essere massimamente<br />
flessib<strong>il</strong>e e minimamente costoso. Di qui la ricetta «precarietà<br />
e bassi salari» come due condizioni necessarie e<br />
sufficienti per una crescita duratura del prodotto interno<br />
lordo. Ma se mai la flessib<strong>il</strong>ità ne fosse condizione<br />
necessaria (e c’è ragione di dubitarne), certamente non<br />
lo sono i bassi salari.<br />
C’è infatti <strong>il</strong> problema di una distribuzione arbitraria e<br />
non equa <strong>della</strong> ricchezza e del reddito; e dunque c’è<br />
anche un problema di domanda effettiva: occorre che le<br />
merci che si potrebbero produrre, trovino compratori<br />
all’interno e all’estero. All’interno dovranno trovare<br />
consumatori con sufficiente potere d’acquisto e imprenditori<br />
determinati a effettuare nuovi investimenti reali;<br />
mentre all’estero dovranno poter contare su paesi<br />
importatori in crescita costante e attratti dalla qualità e<br />
dai prezzi dei nostri prodotti. Tutte e tre queste componenti<br />
<strong>della</strong> domanda effettiva, consumi investimenti<br />
esportazioni, sono importanti; ma una importanza particolare<br />
hanno i consumi, poiché qui la questione economica<br />
è immediatamente questione sociale. La quota più<br />
importante <strong>della</strong> domanda per consumi è costituita dai<br />
consumi dei lavoratori, <strong>il</strong> cui reddito è dato dai salari. Gli<br />
imprenditori vedono nel salario soltanto un costo di<br />
produzione, da minimizzare, e si dimenticano che <strong>il</strong><br />
salario è anche potere d’acquisto. Se i salari sono bassi, e<br />
lo sono, bassi saranno i consumi dei lavoratori; né basteranno<br />
a sostenere la domanda per consumi complessiva<br />
i consumi di lusso, finanziati con rendite e profitti, che<br />
invece sono a livelli elevati. Insufficiente è anche la crescita<br />
degli investimenti, poiché gli imprenditori spesso<br />
preferiscono impiegare gli alti profitti nella speculazione<br />
finanziaria anziché in nuovi investimenti reali; e d’altra<br />
parte l’andamento delle esportazioni è spiegato piuttosto<br />
dalla congiuntura favorevole degli altri paesi, che<br />
non dalla qualità dei prodotti nazionali.<br />
Se mai si è arrestato <strong>il</strong> declino economico, negli ultimi<br />
decenni si è aggravato <strong>il</strong> declino sociale, e qui «declino»<br />
è la parola giusta. Ce ne sono molti segnali, non soltanto<br />
economici ma anche politici e culturali. In campo economico<br />
un sintomo secondario, ma assai chiaro, è lessicale:<br />
RIVE GAUCHE<br />
non si parla più di «lavoratori», bensì di «consumatori».<br />
La ragione vera è la dissociazione tra prestazione<br />
lavorativa e consumo. Il lavoratore fordista acquistava egli<br />
stesso ciò che aveva prodotto, oggi non è più così. Questa<br />
separazione tra produzione e consumo si dà anche all’interno<br />
dei singoli paesi, ma è particolarmente evidente a<br />
livello internazione: la si potrebbe chiamare «effetto<br />
Nike»: le costose scarpe da ginnastica sono prodotte da<br />
ragazzini sottopagati in qualche paese asiatico, e acquistate<br />
dai ragazzini benestanti dei paesi più ricchi.<br />
RICCARDO REALFONZO<br />
Il declino italiano è talmente marcato da non potere<br />
sfuggire agli analisti internazionali; e d’altronde fu proprio<br />
«The Economist» che, un paio di anni or sono,<br />
descrisse l’Italia come «<strong>il</strong> vero ammalato d’Europa».<br />
Nessuno può stupirsi per questa definizione, i dati ufficiali<br />
parlano chiaro. Sono ormai oltre quindici anni che<br />
l’Italia cresce meno <strong>della</strong> media dei paesi europei, avvitata,<br />
come è, in una stagnazione che è <strong>il</strong> prodotto al<br />
tempo stesso di una bassa domanda aggregata interna e<br />
di una pesante arretratezza dell’apparato produttivo, con<br />
conseguente progressiva perdita di quote di mercato<br />
negli scambi internazionali. Al tempo stesso, l’Italia è <strong>il</strong><br />
paese d’Europa in cui si assiste alla più intensa crescita<br />
degli squ<strong>il</strong>ibri distributivi e territoriali. Queste semplici<br />
annotazioni sono sufficienti per rispondere alla tua<br />
domanda in merito a chi sostenga <strong>il</strong> peso del declino. È<br />
innegab<strong>il</strong>e che <strong>il</strong> declino stia <strong>scarica</strong>ndo gli effetti più<br />
nefasti sui lavoratori. I dati relativi alla caduta del potere<br />
di acquisto dei salari e alla riduzione <strong>della</strong> quota del prodotto<br />
interno lordo che va ai redditi da lavoro parlano<br />
chiaro. D’altronde come potrebbe essere diversamente?<br />
L’abolizione <strong>della</strong> scala mob<strong>il</strong>e, gli accordi di politica dei<br />
redditi del luglio ’93 con la relativa introduzione del<br />
meccanismo dell’inflazione programmata, <strong>il</strong> varo del<br />
Pacchetto Treu e la famigerata legge 30, hanno progressivamente<br />
indebolito <strong>il</strong> potere contrattuale dei lavoratori<br />
e delle organizzazioni sindacali. Lungi dal generare<br />
effetti positivi sulla occupazione, l’unico risultato tangib<strong>il</strong>e<br />
di queste politiche è stato <strong>il</strong> freno alla crescita dei<br />
salari reali, che nel migliore dei casi sono aumentati<br />
meno <strong>della</strong> crescita <strong>della</strong> produttività del lavoro. Sono<br />
questi gli elementi che spiegano, nonostante <strong>il</strong> declino,<br />
l’andamento dei profitti.<br />
59
60<br />
In secondo luogo: a quanto pare la barca dell’economia<br />
italiana continua ad andare e a distribuire dividendi,<br />
pur in presenza di consistenti squ<strong>il</strong>ibri (economici<br />
e sociali). Da un lato, <strong>il</strong> governo sostiene che «la<br />
notte è passata» e che non resta che godere i frutti<br />
del «risanamento»; sul lato opposto, non si è per<br />
nulla ottimisti (e c’è ad esempio chi evoca, dati alla<br />
mano, imminenti crisi commerciali). Quale futuro<br />
prossimo possiamo prevedere per <strong>il</strong> nostro paese?<br />
RICCARDO BELLOFIORE<br />
Qui bisogna intendersi. Innanzi tutto, scordiamoci che un<br />
governo, soprattutto se a predominanza «social-liberista»<br />
come questo, dica mai che la notte è passata e che finalmente<br />
si può godere <strong>il</strong> frutto del risanamento. Il risanamento,<br />
per loro, non finirà mai. La ragione c’è. Quelli<br />
che vengono impropriamente chiamati «moderati», liberisti<br />
sì ma un po’ meno, non credono in realtà neanche<br />
loro ai parametri di Maastricht o al Patto di stab<strong>il</strong>ità. Gli<br />
servono solo come copertura per far passare certe politiche,<br />
quasi come necessità naturale, imposte da uno stato<br />
di emergenza. I parametri sulla finanza pubblica, o <strong>il</strong> Patto<br />
che prevede a medio termine l’azzeramento dei disavanzi,<br />
sono semmai sostenuti per ragioni di reputazione, come<br />
norma sociale. Le conseguenze talora recessive sono in<br />
fondo benvenute, come frusta alla riorganizzazione produttiva<br />
e alla regolazione sociale, alla «modernizzazione».<br />
Di più, e qui si misura la cecità <strong>della</strong> sinistra, quei<br />
vincoli in larga misura autoimposti e quella deriva deflazionistica,<br />
servono perché si pensa che uno stato più «leggero»<br />
aiuti prima o poi a migliorare l’efficienza del settore<br />
pubblico. Che uno stato regolatore aiuti a elevare la produttività<br />
del sistema. Che la politica industriale si possa<br />
ridurre al gioco degli incentivi e disincentivi. Che <strong>il</strong> tenore<br />
di vita possa migliorare, così come le posizioni di rendita<br />
possano ridursi, grazie alle politiche di liberalizzazione<br />
dentro una riregolamentazione dei mercati. Magari<br />
mettendo in piedi una rete sociale di sicurezza che aiuti la<br />
precarietà spacciata per flessib<strong>il</strong>ità. Il «social-liberismo»<br />
appunto. Tutte cose in cui non credo, ma – vivaddio! – è<br />
qualcosa che non sta nel mondo dei sogni, dove si è rifugiata<br />
la sinistra. Una sinistra degna di questo nome avrebbe<br />
dovuto porre, lei, la questione <strong>della</strong> «qualità» del sistema<br />
produttivo, economico, sociale: con un piano di intervento<br />
strutturale a cui si poteva e doveva lavorare da<br />
anni. Se no, perché, per cosa, ti candidi a governare?<br />
Esiste un nuovo, chiarissimo ciclo economico-politico da<br />
molte parti. La destra, o centro-destra, chiamalo come<br />
vuoi, va al governo. Sinistra e centro-sinistra (qualcuno<br />
mi dice, centrosinistra senza trattino, ma non sono un<br />
esperto di queste cose) unite all’opposizione sono spesso<br />
in grado di non far passare <strong>il</strong> lato liberista selvaggio su<br />
mercato del lavoro e welfare del neoliberismo. Intanto<br />
spende e spande, e i disavanzi addirittura crescono. Se <strong>il</strong><br />
centro-sinistra va al governo con un pezzo <strong>della</strong> sinistra,<br />
non c’è più niente o poco da ridistribuire, e allora bisogna<br />
puntare tutto sulla flessib<strong>il</strong>ità (leggi, precariato) e qualche<br />
make-up, e ovviamente «risanare». La stessa sinistra di<br />
governo comincia a fare una operazione sulle parole: si
voleva l’abolizione <strong>della</strong> legge 30? No, «superamento». E<br />
gli esempi si potrebbero moltiplicare. E lì a fare barriera<br />
sul nuovo confine: gli stessi intellettuali vicini al partito<br />
adattano subito la terminologia, non si sa mai. Chi si oppone<br />
viene presto bollato come nemico del popolo. Da<br />
quelli che voi chiamate «moderati» l’accusa viene mossa<br />
alla sinistra al governo, da questa con qualche cautela a<br />
chi rompe le scatole. Si decidono espulsioni, che anche<br />
rappresentanti <strong>della</strong> vecchia area dell’Ernesto mi pare<br />
abbiano votato. Dall’altro versante, ovviamente, da quella<br />
che si vuole sinistra <strong>della</strong> sinistra si finisce con <strong>il</strong> vedere<br />
come salvifica una opposizione pura e semplice, tanto la<br />
sinistra non deve andare mai al governo con i «moderati».<br />
Il conflitto e l’incompatib<strong>il</strong>ismo divengono parole<br />
che sole garantiscono la salvezza. Non ci si parla più. Ci si<br />
spezza in m<strong>il</strong>le anime. È successo anche a voi, mi pare. Si<br />
è già visto, lo si sapeva. Idealisticamente, <strong>il</strong> problema politico<br />
diventa l’egemonia «neoliberista» sulla componente<br />
«moderata», come ho sentito dire a Burgio in un<br />
dibattito a Torino.<br />
Uno dei drammi <strong>della</strong> sinistra radicale è che non capisce<br />
che l’asse Stati Uniti-Asia costituitosi negli ultimi anni ha<br />
marginalizzato l’Europa, un continente che dipende ancora<br />
troppo dal neomercant<strong>il</strong>ismo forte <strong>della</strong> Germania.<br />
Con <strong>il</strong> paradosso che la Germania ora cresce se cresce la<br />
Cina e l’Asia, ma se l’economia degli Stati Uniti va molto<br />
male le difficoltà rimbalzano lo stesso in Europa: o per gli<br />
effetti <strong>della</strong> globalizzazione finanziaria, o perché si hanno<br />
problemi nell’area asiatica. Tutti appesi, dunque e comunque,<br />
a un atterraggio morbido dell’economia americana.<br />
Nonostante alcune tesi, che a me paiono fantasiose<br />
e che sono circolate all’inizio dell’anno (i dati non basta<br />
citarli, bisogna saperli leggere), la ripresa europea è stata<br />
trainata dall’export netto e dagli investimenti tedeschi,<br />
non certo dai disavanzi del b<strong>il</strong>ancio pubblico o dai consumi<br />
salariali. Lo abbiamo sostenuto a più riprese Halevi e<br />
io: ma si può leggere De Cecco su «Repubblica», oppure<br />
Nardozzi su «Il Sole 24 Ore». È chiaro che dentro l’Europa<br />
dell’euro, sotto <strong>il</strong> cappello delle politiche che conosciamo,<br />
va avanti una riarticolazione geografica e settoriale,<br />
che penalizza la nostra industria e <strong>il</strong> nostro manifatturiero:<br />
dove conta la posizione debole dell’Italia tra i<br />
«grandi» fondatori del Mercato comune europeo. Dobbiamo<br />
restare dentro, ed essere posti sotto stress.<br />
Siamo doppiamente dipendenti da uno sv<strong>il</strong>uppo europeo<br />
che è esso stesso non autocentrato. Se la crisi finanziaria<br />
di questa estate – le cui cause e <strong>il</strong> cui contesto sono ignote<br />
alla sinistra, che non l’ha vista arrivare, e che continua<br />
a ragionare in una ottica nazionale, ancora all’oscuro<br />
delle novità del capitalismo da un quindicennio a questa<br />
RIVE GAUCHE<br />
parte – se quella crisi, dicevo, dovesse dar luogo a un atterraggio<br />
duro dell’economia americana, dentro la possib<strong>il</strong>e<br />
se non probab<strong>il</strong>e crisi europea ci sarà una rinnovata<br />
e certa, drammatica stagnazione del nostro paese. È<br />
già successo nei primi cinque anni di questo decennio.<br />
Noi non possediamo né <strong>il</strong> sistema finanziario anglosassone,<br />
peraltro oggi in difficoltà, né la manifattura di qualità<br />
tedesca. Quello che però è chiaro è che le difficoltà<br />
attuali non sono state create dalla moneta unica, che si è<br />
limitata a renderle più visib<strong>il</strong>i.<br />
Per quel che riguarda l’imminenza di una crisi commerciale<br />
tipo 1992, non ne sono affatto convinto. E i «dati<br />
alla mano» di cui parla la domanda non si vede dove<br />
siano. Si applicano all’Italia dentro la moneta unica argomenti<br />
che valgono, quando valgono, fuori dall’unificazione<br />
monetaria. In generale, un grave disavanzo commerciale<br />
può spingere a un riaggiustamento via modificazione<br />
del tasso di cambio nominale. Ma non è detto.<br />
Oggi <strong>il</strong> dollaro si svaluta rispetto a Ingh<strong>il</strong>terra, Australia,<br />
Nuova Zelanda in serio disavanzo commerciale. Il perché<br />
è chiaro: gli alti tassi di interesse di questi paesi più che<br />
compensano sul piano dei movimenti di capitale, e consentono<br />
di rifornire di liquidità la speculazione col c.d.<br />
carry trade, indebitarsi in yen e investire dove i rendimenti<br />
sono elevati, senza più di norma un rischio di<br />
cambio. Non vale neanche sempre nei casi di ipervalutazione<br />
«reale». Si pensi al caso del Giappone dal 1985 al<br />
1995, o negli ultimi anni, cioè nei periodi di grande svalutazione<br />
del dollaro. O si pensi alla Germania negli anni<br />
Settanta, prima del Sistema monetario europeo. Gli stessi<br />
cultori più seri dell’equ<strong>il</strong>ibrio economico generale<br />
hanno smontato la legge <strong>della</strong> domanda alla base dei<br />
meccanismi di riaggiustamento: le variazioni del prezzo<br />
agli eccessi di domanda netta non garantisco l’unicità o<br />
la stab<strong>il</strong>ità dell’equ<strong>il</strong>ibrio, e smontano anche tutti gli<br />
esercizi di statica comparata.<br />
Dentro l’area dell’euro, proprio i dati fanno dubitare<br />
dell’imminenza di una crisi tipo 1992. Secondo le stime<br />
Ocse la Spagna avrà nel 2007 un deficit <strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia<br />
corrente rispetto al P<strong>il</strong> del 10,1%, l’Italia si limiterebbe<br />
al 2,5%. Nel 1992 i valori erano rispettivamente del 3,5%<br />
e del 2,3%. Se deve saltare qualcuno, sarebbe la Spagna.<br />
E la causa sarebbe lo sgonfiamento <strong>della</strong> bolla immob<strong>il</strong>iare<br />
e le conseguenze <strong>della</strong> crisi dei subprime, non la b<strong>il</strong>ancia<br />
commerciale. Nell’unione monetaria non c’è proprio<br />
<strong>il</strong> vincolo valutario. C’è evidentemente un problema<br />
di finanziamento dei disavanzi commerciale e corrente,<br />
e questo ha a che vedere con i trasferimenti nell’area,<br />
con le politiche fiscali, con afflussi di capitale, e così via.<br />
Rimane <strong>il</strong> rischio relativo alla qualità del debitore (un<br />
61
62<br />
punto, ahimé, che resuscita in parte gli argomenti di<br />
quelli che sono preoccupati dello stato <strong>della</strong> nostra finanza<br />
pubblica). Ma non scommetterei su una crisi a<br />
breve. Né <strong>il</strong> disavanzo commerciale dell’Italia, in gran<br />
parte all’interno dell’area (escludendo la bolletta energetica),<br />
influenza l’euro più di tanto. L’Italia fa più paura<br />
fuori che dentro, e una crisi dell’Italia fac<strong>il</strong>mente significherebbe<br />
che salta l’eurozona. Lo ha ricordato sensatamente<br />
Alfonso Gianni criticando Em<strong>il</strong>iano Brancaccio su<br />
«Liberazione»: Gianni si appoggiava su alcune ema<strong>il</strong> di<br />
Joseph Halevi a «Liberazione» che davano ragione a me<br />
su un punto criticato affrettatamente e fuori contesto da<br />
Brancaccio. Mi fa piacere che, per interposta persona,<br />
Alfonso Gianni e io si sia d’accordo almeno su questo.<br />
Per quel che riguarda la nostra posizione con l’estero, si<br />
tratta di nuovo di un vincolo «pseudo-naturale» che<br />
spinge verso le politiche contro <strong>il</strong> lavoro che conosciamo.<br />
Il «riaggiustamento» può procedere per la via di<br />
una prolungata spinta alla deflazione dei salari, alla precarizzazione.<br />
Per un prolungamento del tempo di lavoro<br />
sociale nell’arco vitale. Per <strong>il</strong> dare alle imprese mano libera<br />
sugli orari. Per un attacco al contratto nazionale.<br />
Per un aumento dei salari solo su base territoriale e<br />
aziendale. Al limite, fallimenti e crisi degli investimenti:<br />
in un circolo perverso che aggrava i problemi. Ma scordiamoci<br />
che urlare alla crisi cambi la situazione.<br />
È chiaro da quel che si è detto che dire questo non significa<br />
affatto sottovalutare <strong>il</strong> nodo <strong>della</strong> qualità delle nostre<br />
esportazioni e importazioni, le carenze dell’industria e<br />
del manifatturiero, e così via. Significa anzi l’esatto contrario.<br />
D’altronde quel nodo è al centro da sempre <strong>della</strong><br />
mia riflessione, come di quella di Halevi.<br />
EMILIANO BRANCACCIO<br />
Il rischio di un allargamento degli squ<strong>il</strong>ibri commerciali<br />
tra i paesi dell’Unione monetaria, fino all’eventualità di<br />
una crisi interna all’assetto europeo, è oggetto di indagini<br />
approfondite da parte di studiosi delle più svariate correnti<br />
di pensiero (cito ad esempio Roubini tra i neoclassici, e<br />
Graziani tra gli economisti critici). I dati di cui disponiamo<br />
oggi sembrano avvalorare l’eventualità che nei prossimi<br />
anni possa scatenarsi una crisi commerciale con possib<strong>il</strong>i<br />
epicentri in Italia e negli altri paesi del Mediterraneo,<br />
vale a dire nei paesi in crescente disavanzo estero, soprattutto<br />
rispetto alla Germania. L’Unione monetaria soffre<br />
insomma di una struttura delle b<strong>il</strong>ance commerciali fortemente<br />
squ<strong>il</strong>ibrata, che potrebbe improvvisamente entrare<br />
in crisi anche a seguito di uno shock esterno, come ad<br />
esempio un boom del costo delle materie prime o una crisi<br />
bancaria internazionale. Ora, noi sappiamo che i governi<br />
dei paesi in deficit commerciale – in primis <strong>il</strong> nostro –<br />
stanno cercando di rimediare a questi squ<strong>il</strong>ibri con la solita<br />
ricetta dell’ortodossia neoclassica: da un lato comprimere<br />
la spesa pubblica, in modo da contenere la domanda<br />
e le importazioni; dall’altro comprimere i salari monetari,<br />
in modo da compensare <strong>il</strong> divario di produttività e contrastare<br />
quindi l’aumento del costo del lavoro per unità prodotta<br />
delle merci esportate. Questa strategia deflazionista<br />
però a quanto pare non funziona: basti notare che <strong>il</strong> deficit<br />
nei conti esteri dell’Italia continua ad aumentare. Ora,<br />
nel criticarmi, Halevi (18 agosto, «Liberazione») e altri<br />
hanno sostenuto in modo forse ardimentoso che la deflazione<br />
non funziona perché ormai <strong>il</strong> nesso tra prezzi relativi<br />
e b<strong>il</strong>ancia dei pagamenti non sussiste più. Ora, piacerebbe<br />
anche a me che avessero ragione, ma al momento<br />
questa idea non trova riscontri attendib<strong>il</strong>i. È più probab<strong>il</strong>e,<br />
invece, che <strong>il</strong> mancato aggiustamento delle b<strong>il</strong>ance sia<br />
dovuto al fatto che nell’Unione monetaria la dinamica dei<br />
salari monetari risulta abbastanza omogenea tra i paesi,<br />
mentre l’andamento delle produttività tende a divergere.<br />
In altri termini, la compressione salariale nei paesi cosiddetti<br />
«periferici» non riesce a favorire <strong>il</strong> riequ<strong>il</strong>ibrio poiché<br />
una compressione analoga si sta verificando anche nei<br />
paesi «centrali», nonostante che in questi la produttività<br />
cresca molto. Al pari dei lavoratori italiano e greco, anche<br />
quello tedesco dunque non riesce più ad accaparrarsi gli<br />
incrementi di produttività, sebbene nel suo paese questi<br />
siano estremamente cospicui. Ora, se questo fenomeno<br />
dovesse trovare conferme anche in futuro, faremmo bene<br />
a dedicargli molte attenzioni. Infatti esso rappresenta al<br />
contempo un potenziale fattore di crisi, ma anche un sintomo<br />
di crescente omogeneità nei rapporti di forza in cui<br />
versano i lavoratori europei, che potrebbe magari preludere<br />
a una loro maggiore coesione rivendicativa. Se ci<br />
pensiamo bene, da un punto di vista marxista è diffic<strong>il</strong>e<br />
immaginare una contraddizione più feconda di questa, sul<br />
piano sociale e politico. Ma per sfruttarla bisognerebbe lavorarci<br />
su, e soprattutto iniziare a coordinarsi a livello europeo,<br />
sia sul piano sindacale che partitico.<br />
GIORGIO GATTEI<br />
È troppo presto per dire se l’economia italiana abbia ritrovato<br />
<strong>il</strong> sentiero dello sv<strong>il</strong>uppo (intanto le stime sono<br />
state riviste al ribasso). Quello che sembrerebbe invece<br />
in ordine è <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio dello Stato, così che la prossima finanziaria<br />
potrebbe essere (<strong>il</strong> condizionale è d’obbligo)<br />
«a costo zero». I conti andrebbero così bene che l’obiettivo<br />
dichiarato può essere l’azzeramento del disavanzo
per <strong>il</strong> 2011, come imposto dal sempre più nefasto accordo<br />
di Maastricht (ma perché non costituire un movimento<br />
a dimensione europea per cambiarlo?). Ora azzerare <strong>il</strong><br />
disavanzo significa che a quella data le spese statali saranno<br />
coperte soltanto dalle entrate fiscali, perché <strong>il</strong> deficit<br />
dovrà essere 0,0%. È una regola monetarista, che<br />
ormai non trova oppositori, che sancisce <strong>il</strong> principio che<br />
lo Stato spende solo in base a quanto i cittadini si fanno<br />
tassare. E se non si vogliono le tasse? Niente spesa pubblica!<br />
È questo <strong>il</strong> veleno delle campagne di stampa contro<br />
l’eccessivo peso fiscale che finiscono per essere la copertura<br />
<strong>della</strong> parola d’ordine neoliberista dello «Stato al<br />
minimo» così che tutto sarà iniziativa privata e (se va<br />
bene) sussidarietà – Stati Uniti docet.<br />
Però, messa così, non la si racconta ancora tutta perché<br />
tra le spese dello Stato pesano, e non di poco, gli interessi<br />
sul debito pubblico che non si prevede affatto di azzerare<br />
mediante, che so?, un «annulla <strong>il</strong> debito» (evidentemente<br />
adatto solo ai cantanti e al Terzo mondo) che<br />
portasse a quella «eutanasia dei rentiers» preconizzata in<br />
altri tempi da Keynes. Ma oggi i rentiers sono «sacrosanti»<br />
(e poi ricattano anche), sicché <strong>il</strong> loro diritto a percepire<br />
interessi non si può discutere. Quindi, permanendo<br />
la spesa per interessi, <strong>il</strong> pareggio del b<strong>il</strong>ancio statale necessita<br />
di un ammontare di entrate superiore alle «spese<br />
pubbliche al netto degli interessi». Per questo servono<br />
più tasse e meno servizi per formare quell’avanzo primario<br />
che deve pagare gli interessi sul debito. Siamo così<br />
tutti molto felici che, dopo 9 anni di riduzione, l’avanzo<br />
primario possa riprendere a crescere grazie alla pressione<br />
fiscale in aumento (dal 40,6 % del P<strong>il</strong> nel 2005 al<br />
42,3% del 2006)(p. 135), mentre la spesa pubblica corrente<br />
ha segnato <strong>il</strong> passo: 44,5% del P<strong>il</strong> nel 2005 e 2006<br />
(p. 138). E la spesa per interessi? È aumentata dal 4,5%<br />
del P<strong>il</strong> nel 2005 al 4,6% nel 2006 (p. 138).<br />
Si potrebbe comunque pensare che nel pagare quegli interessi<br />
lo Stato trasferisca reddito nazionale dai cittadini<br />
che pagano le imposte (che dovrebbero essere tutti) ai<br />
RIVE GAUCHE<br />
cittadini che hanno sottoscritto <strong>il</strong> debito, che sono soltanto<br />
una parte ma comunque cittadini sono. Ciò però<br />
non è proprio vero perché buona parte del debito è nelle<br />
mani di investitori stranieri (anche fondi d’investimento<br />
e fondi pensione americani) che approfittano di quell’avanzo<br />
primario per portarsi a casa interessi senza<br />
tasse. Messa così non è più soltanto una partita di giro interna,<br />
ma una fuoriuscita di capitali che «saccheggia» la<br />
ricchezza del paese, un’evenienza ben nota di cui ha<br />
scritto Karl Marx nel Capitale: «con i debiti pubblici è<br />
sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde<br />
una delle fonti dell’accumulazione originaria di<br />
questo o di quel popolo», così che quando <strong>il</strong> credito pubblico<br />
(perché tale andrebbe meglio chiamato) «diventa <strong>il</strong><br />
credo del capitale, al peccato contro lo spirito santo, che<br />
è quello che non trova perdono, subentra <strong>il</strong> mancar di<br />
fede al debito pubblico». Guai dunque a deludere gli interessi<br />
del debito, specie se alle viste c’è una nuova stagione<br />
di «alti tassi del denaro» sim<strong>il</strong>e a quella di reaganiana<br />
memoria. A meno che l’imprevista (?) crisi dei<br />
mutui subprime non imponga invece di fargliela pagare<br />
proprio a «bancocrati, finanzieri, rentiers, mediatori,<br />
agenti di cambio e lupi di Borsa» (K. Marx).<br />
63
64<br />
GIORGIO LUNGHINI<br />
In questo momento – ma in verità sempre – è molto diffic<strong>il</strong>e<br />
fare previsioni: gli economisti possono fare buone diagnosi,<br />
ma di rado fanno buone previsioni. Si può però dire<br />
che proprio perché l’economia italiana dipende troppo dal<br />
contesto internazionale, essa è un’economia strutturalmente<br />
frag<strong>il</strong>e; e che le prospettive economiche mondiali,<br />
in particolare le prospettive di quella parte del mondo cui<br />
siamo più legati, non sono affatto tranqu<strong>il</strong>lizzanti.<br />
Il vero problema – ormai da quasi un secolo – sono gli Stati<br />
Uniti. In uno dei suoi tanti scritti profetici, Keynes scriveva,<br />
nel 1932, che: «<strong>il</strong> capitalista moderno è come un marinaio<br />
che naviga soltanto con <strong>il</strong> vento in poppa, e che non<br />
appena si leva la burrasca viene meno alle regole <strong>della</strong> navigazione<br />
o addirittura affonda le navi che potrebbero trarlo<br />
in salvo, per la fretta di spingere via <strong>il</strong> vicino e salvare se<br />
stesso. Se gli Stati Uniti risolvessero i loro problemi interni,<br />
ciò varrebbe come esempio e stimolo per tutti gli altri<br />
paesi e dunque andrebbe a vantaggio del mondo intero.<br />
Magari uno sguardo ravvicinato potrebbe attenuare <strong>il</strong> mio<br />
pessimismo, ma guardando da lontano non riesco a immaginare<br />
un corso degli eventi che possa risanare l’economia<br />
americana nel futuro immediato».<br />
RICCARDO REALFONZO<br />
Credo che se non assisteremo a una svolta nella politica<br />
economica del governo <strong>il</strong> futuro prossimo del paese sarà<br />
sempre più cupo, soprattutto per i lavoratori. In primo<br />
luogo, c’è da dire che la politica di «risanamento» non<br />
produce alcun frutto. A una Finanziaria di rigore segue<br />
un’altra Finanziaria di rigore, a un avanzo primario (l’eccesso<br />
delle entrate pubbliche sulle uscite, interessi sul<br />
debito a parte) segue un altro avanzo primario, con la conseguente<br />
progressiva fuoriuscita dello Stato dall’economia,<br />
lo svuotamento dello Stato sociale, la sempre più<br />
grave carenza di beni pubblici. Secondo i piani dei «rigoristi»<br />
questa politica dovrebbe proseguire, ai ritmi attuali,<br />
almeno per 20-25 anni. Solo allora, infatti, una volta<br />
che <strong>il</strong> debito fosse sceso alla tanto fatidica quanto del tutto<br />
ingiustificata soglia del 60% del P<strong>il</strong>, dichiarerebbero<br />
compiuto <strong>il</strong> «risanamento», metterebbero fine alla successione<br />
di avanzi primari e ci lascerebbero godere gli effetti<br />
di un b<strong>il</strong>ancio pubblico alleggerito del fardello del<br />
debito. Solo che nel frattempo <strong>il</strong> sistema economico-produttivo<br />
italiano risulterebbe tragicamente immiserito,<br />
definitivamente smantellato, per non parlare degli inaccettab<strong>il</strong>i<br />
costi sociali di una politica di questo genere. Una<br />
vera tragedia. In secondo luogo, la crisi commerciale c’è<br />
già. In un articolo a firma mia e di Augusto Graziani apparso<br />
su «Liberazione» <strong>il</strong> 10 settembre 2006, significativamente<br />
intitolato L’alternativa alla politica di lacrime e<br />
sangue, precisammo che <strong>il</strong> declino ha ormai portato al disavanzo<br />
cronico <strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia commerciale. E chiarimmo<br />
che la strategia «moderata» per rispettare <strong>il</strong> vincolo<br />
esterno (l’equ<strong>il</strong>ibrio dei conti con l’estero) punta sulle<br />
politiche di b<strong>il</strong>ancio restrittive e sul contenimento dei salari.<br />
Infatti, le politiche di b<strong>il</strong>ancio restrittive – la manovra<br />
di abbattimento del debito – determinano una contrazione<br />
<strong>della</strong> domanda interna e quindi dell’occupazione e<br />
delle importazioni, contribuendo per questa via a migliorare<br />
<strong>il</strong> saldo dei conti con l’estero; mentre <strong>il</strong> contenimento<br />
dei salari determina una contrazione dei costi di produzione,<br />
aumentando la competitività delle imprese e<br />
quindi r<strong>il</strong>anciando le esportazioni. Si tratta di una strategia<br />
che evidentemente <strong>scarica</strong> <strong>il</strong> prezzo del riequ<strong>il</strong>ibrio<br />
<strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia commerciale sui lavoratori. E questa sembra<br />
essere, purtroppo, la strategia sulla quale <strong>il</strong> governo in<br />
carica sta di fatto puntando. L’alternativa che noi proponiamo<br />
consiste nello stab<strong>il</strong>izzare <strong>il</strong> debito rispetto al P<strong>il</strong> (e<br />
qui non posso non rimandare al ben noto appello degli<br />
economisti che si trova sul sito<br />
www.appellodeglieconomisti.com), r<strong>il</strong>anciare gli investimenti<br />
nelle infrastrutture materiali e immateriali, rimettere<br />
in piedi una politica industriale degna di questo<br />
nome, valorizzare <strong>il</strong> lavoro. Insomma tentare una «via<br />
alta» al r<strong>il</strong>ancio <strong>della</strong> competitività, giocata su ricerca, innovazioni,<br />
lavoro di qualità.
Al di là del caso italiano, è ricorrente la domanda<br />
sulla tenuta in generale del sistema capitalistico,<br />
sulla sua capacità di sopravvivere alle sue crisi e di<br />
mostrarsi resistente ai progetti di trasformazione sociale.<br />
Al riguardo <strong>della</strong> recente crisi di solvib<strong>il</strong>ità,<br />
indotta dallo scoppio <strong>della</strong> bolla speculativa e propagatasi<br />
dal cuore dell’impero, qualcuno ha evocato la<br />
crisi del ’29. In effetti, la finanziarizzazione dell’economia<br />
ha accresciuto i punti di vulnerab<strong>il</strong>ità dell’economia<br />
capitalistica. Secondo Federico Rampini, con opportune<br />
e severe correzioni, <strong>il</strong> mercato può recuperare<br />
un suo fisiologico equ<strong>il</strong>ibrio; al contrario, Joseph<br />
Halevi ritiene che la dimensione finanziaria e speculativa<br />
è insita strutturalmente nel sistema capitalistico.<br />
Non sembra una divergenza di poco conto.<br />
RIVE GAUCHE<br />
RICCARDO BELLOFIORE<br />
Joseph Halevi ha assolutamente ragione. Non mi è diffic<strong>il</strong>e<br />
essere d’accordo con lui. Su questo punto, come su tanti<br />
altri, la sintonia con Halevi si è rafforzata negli anni, in un<br />
dialogo ormai ininterrotto, a partire almeno da un convegno<br />
che organizzai a Bergamo nel 1997 e a cui lo invitai. Lo<br />
si è visto nelle due interviste uscite quest’estate su «Liberazione»,<br />
che sono state entrambe attaccate da economisti<br />
di grido e politici di r<strong>il</strong>ievo come affette da «rassegnazione»,<br />
e da «pessimismo» naturalmente «cosmico».<br />
In privato, addirittura, non si sa perché, di «negrismo»<br />
(cosa che ha un che di divertente: l’anno scorso, con Giovanna<br />
Vertova, Halevi e io abbiamo condotto una polemica<br />
proprio con <strong>il</strong> versante economico di questa ideologia<br />
italiana, in cui sono intervenuti f<strong>il</strong>osofi come Tomba e sociologi<br />
come Sacchetto, o ancora Ferruccio Gambino e<br />
Fabio Raimondi; gli economisti <strong>della</strong> Rive Gauche, ma non<br />
solo, si sono fatti notare per <strong>il</strong> loro s<strong>il</strong>enzio; e dire che <strong>il</strong><br />
tema trattato era proprio la precarietà del lavoro). In realtà,<br />
però, forse una ragione c’è. Basta criticare i partiti <strong>della</strong><br />
sinistra così come sono, la loro politica, ricordare che <strong>il</strong><br />
cambiamento necessario non può che andare insieme a<br />
una rinascita dal basso, invitare a smetterla di far finta che<br />
lo scontento <strong>della</strong> «base» sia un mugugno di cui non si è<br />
responsab<strong>il</strong>i per le analisi e le scelte sbagliate degli ultimi<br />
anni. A questo punto la vecchia tradizione «comunista»,<br />
nel senso peggiore, si risveglia e vieni accomunato all’anti-politica,<br />
o sei neutralizzato con <strong>il</strong> richiamo vuoto alla<br />
psicologia.<br />
Sul carattere specifico del capitalismo contemporaneo, e<br />
sulla sua connaturata deriva finanziaria e speculativa, proprio<br />
con Halevi avevamo già incentrato la nostra critica agli<br />
economisti <strong>della</strong> Rive Gauche nel nostro contributo al convegno<br />
di due anni fa, poi raccolto nel volume curato da Cesaratto<br />
e Realfonzo. La crisi recente di questa estate la si<br />
comprende solo su quello sfondo. Sempre con Halevi, in<br />
continuità con quella nostra analisi, ho appena ultimato un<br />
articolo per «Alternative per <strong>il</strong> socialismo» che tratta <strong>della</strong><br />
crisi dei mutui ad alto rischio. In un paragrafo di quello<br />
scritto, la riconduciamo al quadro di insieme delle dinamiche<br />
macroeconomiche degli ultimi decenni.<br />
Il punto d’inizio non può che essere la svolta neoliberista<br />
di Reagan e Volcker. La liberalizzazione dei movimenti di<br />
capitale, la restrizione monetaria, lo smantellamento dello<br />
stato sociale, la concorrenza aggressiva dei global player,<br />
hanno messo in moto negli anni Ottanta una potente tendenza<br />
stagnazionistica. La quota dei salari si riduce e gli investimenti<br />
non crescono a sufficienza. Unica controtendenza,<br />
i disavanzi pubblici eccezionali di Reagan, a furia di<br />
65
66<br />
politiche a favore del complesso m<strong>il</strong>itare-industriale e di<br />
sgravi fiscali per i ricchi. La congiunzione di politica monetaria<br />
restrittiva e di politica fiscale espansiva negli Usa,<br />
in contrasto con le altre aree, ha fatto balzare verso l’alto i<br />
prezzi delle attività finanziarie, e ha determinato un differenziale<br />
positivo dei tassi di interesse che produceva afflussi<br />
di capitale e rivalutazione del dollaro in quel paese.<br />
Si ingrossava così <strong>il</strong> disavanzo nel commercio con l’estero<br />
americano: ma <strong>il</strong> «rosso» nei rapporti con l’estero non è<br />
evidentemente un vincolo per un paese la cui moneta nazionale<br />
è la valuta di riserva mondiale.<br />
Queste dinamiche, accompagnate da numerosi scossoni<br />
finanziari, non hanno instaurato subito un nuovo modello.<br />
È solo alla metà degli anni Novanta – dopo un decennio<br />
di politiche coordinate di svalutazione del dollaro,<br />
e mentre si sgonfiava l’onda dell’alto costo del denaro<br />
– che si assiste a un mutamento qualitativo di r<strong>il</strong>ievo.<br />
Quelle novità che con Halevi abbiamo sintetizzato nella<br />
terna lavoratore «spaventato» – consumatore «indebitato»<br />
– risparmiatore «terrorizzato», e quelle dinamiche<br />
che hanno finito con <strong>il</strong> produrre una «sussunzione<br />
reale» del lavoro alla finanza e al debito che retroagisce<br />
sulle modalità dello sfruttamento in senso stretto.<br />
Per capire queste novità conviene prendere le mosse dalla<br />
new economy: non intesa come nuova ondata tecnologica,<br />
ma come interazione «virtuosa», per gli Stati Uniti, tra<br />
rinnovata politica del dollaro forte e politica monetaria di<br />
fiancheggiamento alla nuova finanza da parte <strong>della</strong> Fed.<br />
Le innovazioni finanziarie, accoppiate allo spostamento<br />
dei risparmi globali dai mercati obbligazionari del debito<br />
statale ai mercati azionari, attivano allora una bolla speculativa<br />
nella speranza di profitti dell’economia virtuale<br />
del tutto irrealistici. La centralizzazione del capitale finanziario<br />
a Wall Street fu favorita dalla prolungata recessione<br />
del Giappone e dalla stagnazione dell’Europa, intrappolata<br />
tra riunificazione tedesca e unificazione monetaria<br />
europea, e venne accelerata dalle varie crisi <strong>della</strong><br />
globalizzazione finanziaria. Grazie anche alla diffusione<br />
dei fondi pensione in giro per <strong>il</strong> mondo, la moneta è affluita<br />
sempre più negli Stati Uniti. L’euforia irrazionale<br />
dei mercati diviene parossistica, sino a che <strong>il</strong> repentino<br />
aumento dei tassi di interesse da parte <strong>della</strong> Fed a fine<br />
1999 porta alla svolta nel marzo 2000.<br />
La nuova «economia <strong>della</strong> borsa» va compresa nel quadro<br />
macroeconomico globale e nel suo ruolo di dispositivo<br />
di un efficace «keynesismo» finanziario. Fuori dall’area<br />
anglosassone vige un eccesso del reddito sulla<br />
spesa, in forza di politiche neomercant<strong>il</strong>iste forti o deboli,<br />
all’insegna di deflazioni o svalutazioni competitive.<br />
Acuta la necessità di trovare sbocchi alla produzione. Gli<br />
Stati Uniti svolgono <strong>il</strong> ruolo di principale fornitore <strong>della</strong><br />
domanda globale. Questa domanda non può venire, per<br />
definizione, dal canale estero. Nel 1995-2000 neanche<br />
dal settore statale, in attivo sotto Clinton. Viene dunque<br />
dal settore privato, famiglie e imprese, la cui b<strong>il</strong>ancia finanziaria<br />
va in passivo. In parte investimenti privati, in<br />
parte più significativa consumi che superano <strong>il</strong> reddito<br />
disponib<strong>il</strong>e. Il meccanismo ebbe come perno la rivalutazione<br />
delle attività finanziarie, in particolare le azioni, e<br />
diede vita a rapporti prezzi/ut<strong>il</strong>i eccessivi. Banche e intermediari<br />
trasformarono la ricchezza cartacea in spesa<br />
senza fondo. Un effetto ricchezza che aumentò la componente<br />
«autonoma» (cioè indipendente dal reddito corrente)<br />
<strong>della</strong> domanda di consumi.<br />
Il processo, insostenib<strong>il</strong>e, si sgonfia nel 2000-01, mentre<br />
riprende la svalutazione di lungo periodo del dollaro.<br />
La crisi si è prolungata sino a metà 2003. Fu tamponata<br />
con più moneta, spesa m<strong>il</strong>itare e meno tasse per i ricchi<br />
(<strong>il</strong> vecchio «keynesismo» di cui molti hanno nostalgia).<br />
Nel triennio, i disavanzi statali bruciarono 7 punti percentuali<br />
di P<strong>il</strong>. Il disavanzo <strong>della</strong> b<strong>il</strong>ancia corrente intanto<br />
peggiorava, raggiungendo <strong>il</strong> 7% del P<strong>il</strong> nel 2005.<br />
Tende ora al 5%: grazie al rallentamento dell’economia<br />
americana, che migliora la b<strong>il</strong>ancia commerciale; e alla<br />
svalutazione di oltre <strong>il</strong> 20%, che favorisce l’indebitamento<br />
netto, dato che le passività sono denominate in<br />
dollari e le attività in valuta estera.<br />
Visto che le imprese hanno ripianato i propri b<strong>il</strong>anci e<br />
spendono meno del risparmio d’impresa, come è ripartita<br />
la crescita? Grazie a una dose più robusta <strong>della</strong> stessa<br />
droga, per far ripartire i consumi di famiglie ancor più<br />
indebitate. Il mercato immob<strong>il</strong>iare, favorito dal crollo<br />
dei tassi di interesse, è venuto in soccorso. Con prezzi<br />
che salgono, e rinegoziazione dei mutui ipotecari a tasso<br />
variab<strong>il</strong>e, le case sono diventate un bancomat. Il deficit<br />
finanziario delle famiglie (misurato come i loro risparmi<br />
al netto dell’investimento residenziale) ha raggiunto <strong>il</strong><br />
4% del P<strong>il</strong>, una novità assoluta nel dopoguerra. Come nel<br />
1995-2000, non sarebbe potuto avvenire senza la compiacenza<br />
<strong>della</strong> banca centrale. La Fed ha favorito la domanda,<br />
prima sostenendo i prezzi dell’immob<strong>il</strong>iare, poi<br />
per <strong>il</strong> tramite dei nuovi strumenti di credito finanziati<br />
dalle banche commerciali. Una piramide la cui sostenib<strong>il</strong>ità<br />
si regge sulla continua disponib<strong>il</strong>ità degli acquirenti<br />
esterni di attività in dollari, in primis la Cina, di finanziare<br />
<strong>il</strong> «buco» americano con l’estero.<br />
Dal 2004 i tassi di interesse riprendono a salire, l’immob<strong>il</strong>iare<br />
cede, e <strong>il</strong> meccanismo di trasmissione <strong>della</strong> nuova<br />
politica monetaria si fa più perverso. Compaiono i subprime,<br />
e si ingrossano sino a costituire, nel 2006, ben <strong>il</strong>
40% dei nuovi crediti ipotecari, e <strong>il</strong> 13% del totale. Bisogna<br />
far entrare nel gioco le famiglie povere e <strong>il</strong> lavoro<br />
precario, che non sarebbero in condizione di indebitarsi.<br />
La sussunzione reale del lavoro al debito promette<br />
l’accesso fac<strong>il</strong>e alla proprietà. Nessuno si curerà di chi<br />
resta sul terreno. Ma quando le cose vanno male per <strong>il</strong><br />
debitore, <strong>il</strong> creditore non riesce a disfarsi <strong>della</strong> casa se<br />
non a prezzi inferiori ai suoi impegni. E si avvia la crisi<br />
che abbiamo descritto.<br />
Non si capisce nulla del capitalismo contemporaneo se<br />
non si ragiona dentro questo quadro (in Italia Luciano Gallino<br />
è, di nuovo, chi sembra avere più coscienza di questa<br />
dinamica). Né si capisce nulla di quel che succede e succederà<br />
in Europa o in Italia se non legandolo a questo discorso.<br />
Le politiche sul lavoro e sulle pensioni, per esempio,<br />
nascono di qui. Il «keynesismo» reale è questo, osc<strong>il</strong>lante<br />
tra <strong>il</strong> bellico e <strong>il</strong> finanziario. Il capitalismo è questo virus, e<br />
lo si affronta solo con politiche che mettano davvero in<br />
questione questo meccanismo unico. L’appello al «conflittualismo»<br />
incompatib<strong>il</strong>ista, beh, fa sempre bene ma<br />
lascia <strong>il</strong> tempo che trova. Come la discussione governo sìgoverno<br />
no. Con Halevi non ci facciamo <strong>il</strong>lusioni su quello<br />
che porterà questo governo. La soluzione non sta però in<br />
un’opposizione pura e semplice. Una controversia che di<br />
nuovo oppone un politicismo a un altro. Sta, semmai, in<br />
un’opposizione che sia in grado di avere anche una cultura<br />
da classe dirigente, che ambisca a governare i processi.<br />
Oppure si dimostri coi fatti e con i risultati, non con le parole<br />
o le promesse, di poter ottenere che qualche punto essenziale<br />
del proprio programma venga realizzato. E la si<br />
smetta con una contrattazione continua e uno scontro<br />
ideale esasperato che non porta a niente.<br />
EMILIANO BRANCACCIO<br />
La semplice dicotomia concettuale tra stab<strong>il</strong>ità e instab<strong>il</strong>ità,<br />
tra equ<strong>il</strong>ibrio e crisi del capitalismo, non mi ha mai particolarmente<br />
convinto. Di solito <strong>il</strong> concetto di «crisi» viene<br />
dalle nostre parti declinato come un sintomo dell’instab<strong>il</strong>ità<br />
e quindi <strong>della</strong> debolezza sistemica del capitale. E invece,<br />
soprattutto ai giorni nostri, accade spesso che la crisi agisca<br />
paradossalmente da fattore di riequ<strong>il</strong>ibrio del sistema.<br />
Pensiamo ad esempio alla crisi valutaria italiana del 1992.<br />
La vendita in massa di titoli pubblici nazionali mise nell’angolo<br />
i sindacati, e li costrinse ad accettare una compressione<br />
<strong>della</strong> spesa e dei salari di tali proporzioni da rimediare<br />
al deficit nei conti esteri. La crisi, insomma, può agire sul<br />
grado di sfruttamento assoluto e relativo dei lavoratori, può<br />
ridurre questi ultimi a variab<strong>il</strong>e residuale del sistema e può<br />
consentire, per questa via, di ripristinare l’ordine nelle<br />
RIVE GAUCHE<br />
condizioni di riproduzione del capitale. Si badi bene che<br />
questa «crisi disciplinante» può riproporsi, anche in Italia.<br />
Se <strong>il</strong> deficit nei conti esteri continua a crescere, potrebbe<br />
diffondersi <strong>il</strong> timore di un’uscita del nostro paese dall’euro<br />
e di una conseguente svalutazione. Il solo diffondersi<br />
di un tale sospetto potrebbe attivare una massiccia<br />
vendita di titoli pubblici, e di conseguenza anche i sindacati<br />
più combattivi potrebbero esser messi alle strette, così da<br />
ridurre <strong>il</strong> deficit estero attraverso una compressione dei salari<br />
unitari ancor più violenta di quella del 1992. La prospettiva<br />
è funesta, ma se si volesse davvero evitarla bisognerebbe<br />
forse cimentarsi nel recupero e nell’aggiornamento<br />
di una vecchia lezione di Lenin, a mio avviso non del<br />
tutto obsoleta: imparare ad anticipare la crisi, per annunciarne<br />
i rischi e per saperla poi sfruttare politicamente.<br />
Personalmente ho cercato di approfondire la questione (11<br />
e 22 luglio, «Liberazione»), ma riflessioni di questo tipo<br />
mi sembrano ancora poco diffuse. C’è addirittura un certo<br />
imbarazzo nell’affrontarle. Eppure la loro attualità è evidente,<br />
così come è evidente che fino a quando non ci si attiverà<br />
per anticipare le crisi, queste piegheranno sempre in<br />
una direzione disciplinante e normalizzatrice.<br />
GIORGIO GATTEI<br />
La crisi di Borsa che si è aperta in agosto sarà per <strong>il</strong> capitale<br />
appena un «turbamento» oppure <strong>il</strong> suo «crollo»?<br />
Credo nessuna delle due. Certamente la crisi è gravissima<br />
e avrà ricadute sull’economia «reale», proprio come è<br />
stata la Grande crisi che nel 1929 ai commentatori appariva<br />
appena finanziaria e circoscritta (poi s’è visto cos’è suc-<br />
67
68<br />
cesso). Tuttavia essa potrà mettere alle corde <strong>il</strong> capitalismo<br />
americano, non di certo <strong>il</strong> capitale nel suo complesso che<br />
adesso vede diversi soggetti inediti in competizione come<br />
Cina+India. E che ne potrà succedere?<br />
Per gli Stati Uniti non mi pare che ne possano uscire senza<br />
un’inversione radicale di tendenza che porti all’aumento<br />
dell’imposizione fiscale per ripianare <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio federale e<br />
alla svalutazione del dollaro per raddrizzare la b<strong>il</strong>ancia dei<br />
pagamenti. Però le imposte ridimensionerebbero quel<br />
mercato interno americano che attualmente funziona da<br />
luogo priv<strong>il</strong>egiato <strong>della</strong> domanda globale, mentre la caduta<br />
del dollaro lo spodesterebbe dal ruolo priv<strong>il</strong>egiato di<br />
moneta mondiale. Sarebbe un disastro per tutti, che quindi<br />
proprio tutti si sforzeranno d’impedire.<br />
Ma sarà proprio così? Fino all’altro ieri avrei detto di sì,<br />
perché a fronte <strong>della</strong> crisi americana ci sarebbe stata la<br />
vittoria dell’Urss nella «guerra fredda» con l’intero<br />
«mondo libero» a farne le spese. Oggi però l’Urss non<br />
c’è più e per <strong>il</strong> «mondo libero» la fedeltà all’America<br />
non è più una virtù. Fino a ieri c’era poi anche <strong>il</strong> fatto che<br />
al mercato americano e al dollaro mondiale non si davano<br />
alternative. Ma ora potrebbe aprirsi <strong>il</strong> grande mercato<br />
euro-asiatico, se Europa, Russia e Cina+India passassero<br />
a uno sv<strong>il</strong>uppo continentale integrato, e poi c’è l’euro<br />
che, macinando guadagni sul dollaro, sconsiglia di<br />
comprarlo. Insomma, può darsi che stiamo vivendo, più<br />
che una crisi del capitale, un trapasso di supremazia capitalistica<br />
dagli Stati Uniti all’Eurasia all’incontrario di<br />
quello che dopo <strong>il</strong> 1945 portò alla detronizzazione (pacifica)<br />
dell’Ingh<strong>il</strong>terra e <strong>della</strong> sterlina estenuate dalla<br />
«guerra dei trent’anni» contro la Germania. Può così<br />
darsi che <strong>il</strong> XXI secolo non sia più americano e al proposito<br />
raccolgo una notizia giornalistica passata in sordina:<br />
«La Cina vende T-Bond Usa? È la sua “opzione nucleare”.<br />
Un pesante calo nelle ultime cinque settimane del<br />
possesso di titoli del tesoro americano (Treasury bonds)<br />
ha fatto crescere i timori che Pechino stia s<strong>il</strong>enziosamente<br />
ritirando i propri fondi in dollari dai mercati degli<br />
Stati Uniti» («Wall Street Italia», 7 settembre 2007).<br />
GIORGIO LUNGHINI<br />
È vero che <strong>il</strong> capitalismo è capace di metamorfosi, di trasformazioni<br />
che però non ne intaccano <strong>il</strong> nesso interno,<br />
cioè <strong>il</strong> rapporto tra capitale e lavoro salariato. Metamorfosi<br />
che anzi sono intese a salvaguardarlo. L’esempio più<br />
chiaro è stato proprio <strong>il</strong> fordismo, come risposta alla crisi<br />
del ’29; e lo è anche questa globalizzazione, come risposta<br />
alla crisi del fordismo. Quale sarà la prossima metamorfosi,<br />
non lo so; ma credo che non avrà un bell’aspetto.<br />
Circa i rischi <strong>della</strong> finanziarizzazione, cito di nuovo Keynes,<br />
<strong>il</strong> Keynes <strong>della</strong> Teoria generale: «gli speculatori possono<br />
essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso<br />
regolare di intraprese economiche; ma la situazione è<br />
seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un<br />
vortice di speculazioni. Quando l’accumulazione di capitale<br />
di un paese diventa <strong>il</strong> sottoprodotto delle attività di<br />
un casinò, è probab<strong>il</strong>e che le cose vadano male. Se alla<br />
borsa si guarda come a una istituzione la cui funzione sociale<br />
appropriata è orientare i nuovi investimenti verso i<br />
canali più profittevoli in termini di rendimenti futuri, <strong>il</strong><br />
successo conquistato da Wall Street non può proprio essere<br />
vantato tra gli straordinari trionfi di un capitalismo<br />
del laissez faire. Il che non dovrebbe meravigliare, se ho<br />
ragione quando sostengo che i migliori cervelli di Wall<br />
Street sono in verità orientati a tutt’altri obiettivi».<br />
RICCARDO REALFONZO<br />
Su questi temi preferisco continuare ad avere come punti<br />
di riferimento i contributi di Marx, Keynes e Schumpeter.<br />
Questi autori, insieme con la migliore e più recente<br />
letteratura postkeynesiana e sul circuito monetario, ci<br />
hanno insegnato che l’economia capitalistica possiede<br />
una natura intimamente monetaria, attraversata da incertezza<br />
sistemica, e quindi anche da una dimensione<br />
speculativa, e non a caso procede lungo sentieri di sv<strong>il</strong>uppo<br />
ciclici e non lineari. Ormai sappiamo bene che<br />
lungo la fase crescente del ciclo gli atteggiamenti speculativi<br />
degli agenti – imprese e famiglie – si moltiplicano,<br />
assecondati dagli intermediari finanziari e dalle banche,<br />
facendo aumentare la frag<strong>il</strong>ità finanziaria delle singole<br />
imprese, anche delle famiglie, e del sistema nel suo insieme.<br />
E sappiamo anche che in fondo <strong>il</strong> capitalismo non<br />
è riformab<strong>il</strong>e, ma che lo Stato può ridurre gli scossoni e<br />
le crisi cicliche attraverso l’intervento diretto nell’economia<br />
e la regolamentazione dei mercati. Le vicende di<br />
questi giorni, con la crisi dei mutui subprime, mostra ancora<br />
una volta quanto sia fallace <strong>il</strong> mito liberista <strong>della</strong><br />
piena libertà dei mercati, con i suoi assunti <strong>della</strong> perfetta<br />
informazione e <strong>della</strong> perfetta razionalità, con <strong>il</strong> suo<br />
mito dello sv<strong>il</strong>uppo in equ<strong>il</strong>ibrio. In realtà i mercati finanziari<br />
dovrebbero essere regolamentati più intensamente,<br />
anche impedendo l’emissione di strumenti derivati<br />
ad alto rischio. I movimenti interni e internazionali<br />
di capitale, non associati allo scambio di merci e servizi,<br />
dovrebbero essere maggiormente controllati e limitati.<br />
E, naturalmente, la politica fiscale e la politica monetaria<br />
dovrebbero essere libere dai lacci in cui i modelli neoliberisti<br />
tendono a imbrigliarle.
Con <strong>il</strong> mutamento epocale del 1989, la crisi dei modelli<br />
social-democratici ha accompagnato l’eclissi del<br />
cosiddetto «socialismo reale». Anche a sinistra <strong>il</strong><br />
«piano» è caduto in disgrazia, a tutto vantaggio dell’idea<br />
di «mercato», seppure regolato. Per chi oggi –<br />
nel mondo occidentale – fa riferimento a un impianto<br />
analitico marxiano, ciò è nella sostanza espressione<br />
di una sconfitta «di classe». Analogamente, quanti<br />
non ritengono Keynes una sorta di residuo archeologico<br />
sopravvissuto alla globalizzazione capitalistica<br />
vedono in tali sv<strong>il</strong>uppi <strong>il</strong> presupposto di una verticale<br />
regressione sociale. È qui in gioco un pezzo essenziale<br />
dell’identità di una critica del modo di produzione<br />
capitalistico.<br />
RIVE GAUCHE<br />
RICCARDO BELLOFIORE<br />
Credo, a questa domanda, di avere già risposto. Keynes è<br />
autore di grande ut<strong>il</strong>ità per capire gli aspetti monetari e<br />
finanziari, l’inadeguatezza <strong>della</strong> domanda effettiva, <strong>il</strong><br />
ruolo di aspettative e incertezza, l’insufficienza di domanda<br />
effettiva nel capitalismo «puro», la disoccupazione<br />
di massa come stato permanente, la povertà in<br />
mezzo all’abbondanza, <strong>il</strong> costitutivo disequ<strong>il</strong>ibrio che caratterizza<br />
<strong>il</strong> capitalismo. Ma lui, come le politiche economiche<br />
costruite e costruib<strong>il</strong>i dentro <strong>il</strong> suo quadro, resta<br />
in un ambito borghese. Solo una ridefinizione strutturale<br />
<strong>della</strong> domanda, ma anche dell’offerta, può superarne i<br />
limiti intrinseci. Lo sapevano molto bene Joan Robinson<br />
e Hyman Minsky negli anni Sessanta e Settanta, critici<br />
interni del keynesismo realizzato, che non scambiavano<br />
certo per l’anticamera del comunismo. Per quel che riguarda<br />
Marx, poi, in Italia davvero nessuno se ne preoccupa<br />
più, se non come f<strong>il</strong>osofo: e, veramente, a quel<br />
punto Marx è ridotto a un classico o a oggetto di studio f<strong>il</strong>ologico<br />
che non mi interessa. Riprendere la critica dell’economia<br />
politica significa peraltro stare dentro la teoria<br />
del valore, dentro l’essenzialità del denaro come capitale.<br />
Queste cose, per alcuni economisti <strong>della</strong> Rive<br />
Gauche, sono un «pantano» e nulla più.<br />
La domanda fa riferimento a un primato del «mercato»,<br />
pur regolato, nella cultura prevalente nella sinistra cosiddetta<br />
moderata (ma è poi ancora sinistra?). È un buon<br />
punto di partenza, se si sv<strong>il</strong>uppa sino a criticare <strong>il</strong> tic tipico<br />
di tutti, non ultimi <strong>il</strong> vecchio «Ernesto» e ora «<strong>Essere</strong><br />
comunisti» (vedi i contributi di Burgio), che parlano<br />
sempre di liberismo o di neoliberismo come se fosse<br />
la riedizione del laissez faire. Quel liberismo non è mai<br />
esistito davvero. Oggi la retorica liberista d<strong>il</strong>aga nel centro-sinistra,<br />
anche in conseguenza del risultato elettorale<br />
risicato, sicché economisti di quell’impronta hanno<br />
larga eco. Ma <strong>il</strong> liberismo non è però più da tempo un’opzione<br />
reale, se mai lo è stato davvero.<br />
69
70<br />
Il neoliberismo, vedi Bush e Berlusconi, protegge i monopoli,<br />
usa i disavanzi del b<strong>il</strong>ancio dello Stato e fa aumentare<br />
<strong>il</strong> debito pubblico senza problemi. È selvaggiamente liberista<br />
sul mercato del lavoro e contro lo stato assistenziale,<br />
questo sì. I social-liberisti, dal canto loro, si credono<br />
per più mercato e più stato perché vogliono liberalizzare<br />
per riregolamentare. In questo sono, per un verso, più liberisti,<br />
sul mercato dei beni e dei servizi. Ma sono anche,<br />
per l’altro verso, per un welfare universalista, per una<br />
qualche redistribuzione, per politiche industriali e del<br />
credito basate su incentivi e disincentivi. Cercano di<br />
riempire l’ampio spazio che si apre secondo loro tra liberismo<br />
e statalismo vecchio stampo. I primi si rifanno al<br />
monetarismo e alla nuova macroeconomia classica, ma<br />
più ancora agli austriaci Mises e Hayek. I secondi, partono<br />
da quell’«imperfezionismo» alla Stiglitz che nega<br />
l’ut<strong>il</strong>ità dell’equ<strong>il</strong>ibrio economico generale walrasiano<br />
come guida al come funzionano i mercati nella realtà.<br />
Siamo ben lontani dalla social-democrazia, ma anche da<br />
Keynes. Però, sia chiaro, tutti usano le politiche keynesiane<br />
quando ce n’è bisogno. Di nuovo, la sinistra ha su questo<br />
un’arretratezza culturale spaventosa, non sa cosa sia<br />
oggi <strong>il</strong> dibattito vero in economia o in politica economica.<br />
Lo dimostrano come meglio non si potrebbe la gran parte<br />
degli interventi degli economisti sulle pagine de «<strong>il</strong> manifesto»<br />
e di «Liberazione», un giorno sì e l’altro pure.<br />
EMILIANO BRANCACCIO<br />
Io non so se la critica del capitale ponga effettivamente un<br />
problema di «identità». È chiaro che la pianificazione socialista<br />
o anche la socializzazione degli investimenti possono<br />
rappresentare delle valide prospettive attorno alle<br />
quali riunirsi, soprattutto se si riuscirà nuovamente ad approfondire<br />
<strong>il</strong> nesso tra queste forme di organizzazione<br />
delle relazioni economiche e le forme di espressione <strong>della</strong><br />
democrazia. Contrariamente al mercato capitalistico, infatti,<br />
la pianificazione potrebbe costituire un vettore delle<br />
più grandi e disattese istanze di emancipazione sociale,<br />
dalla tutela dell’ambiente alla lotta al patriarcato. Ma al di<br />
là del discorso sugli obiettivi di riferimento, io credo che la<br />
critica del capitalismo, almeno da un punto di vista marxista,<br />
ponga in primo luogo un problema di metodo. Quel<br />
che oggi manca ai movimenti anticapitalisti è un metodo,<br />
vale a dire un criterio di analisi e di anticipazione degli avvenimenti<br />
concreti. La questione dell’efficacia del metodo<br />
di analisi è assolutamente cruciale dal punto di vista politico.<br />
Ad esempio, sempre riguardo alle vicende europee, io<br />
prima ho sostenuto che la duplice tendenza alla convergenza<br />
dei salari e alla divergenza delle produttività potrebbe<br />
rappresentare una contraddizione feconda sul piano<br />
politico. Tuttavia un buon metodo di analisi potrebbe farci<br />
scoprire che la divergenza delle produttività stia avanzando<br />
più speditamente <strong>della</strong> convergenza nelle retribuzioni e<br />
nelle condizioni di lavoro. Questo significherebbe che la<br />
crisi e la relativa normalizzazione dei sindacati possono<br />
sopraggiungere ben prima che si creino le condizioni per<br />
un ricompattamento del movimento dei lavoratori a livello<br />
europeo. La notizia non sarebbe delle migliori, ma mi<br />
pare sia meglio essere a conoscenza di sim<strong>il</strong>i evenienze<br />
piuttosto che continuare imperterriti a brancolare nel<br />
buio. Se non altro, saremmo ancor più consapevoli del<br />
fatto che l’ingranaggio dell’euro deve ancora dispiegare i<br />
suoi effetti più repressivi, e che forse, per sperare in un<br />
rafforzamento <strong>della</strong> sinistra europea, non ci si può limitare<br />
ad attendere che i movimenti dei lavoratori convergano<br />
spontaneamente, «dal basso», senza una guida politica<br />
capace di anticipare gli eventi.<br />
GIORGIO LUNGHINI<br />
Di questo esito è responsab<strong>il</strong>e la stessa sinistra, che ha<br />
rinunciato senza ragione ai suoi riferimenti teorici classici,<br />
Marx e Keynes, e ha aderito frettolosamente alla visione<br />
oggi imperante di un capitalismo del laissez faire<br />
capace di autoregolarsi: una visione priva di qualsiasi<br />
fondamento teorico robusto e foriera di gravi guasti economici,<br />
sociali e politici. È anche un segno di provincialismo,<br />
poiché in nessuna parte del mondo c’è oggi uno<br />
stato liberista.<br />
RICCARDO REALFONZO<br />
Continuo a pensare che Marx e Keynes siano vivi e quanto<br />
mai ut<strong>il</strong>i per capire e per agire. Ed è per questo che occorre<br />
tornare faticosamente a evidenziare i tanti fallimenti<br />
del mercato e la necessità dell’intervento pubblico,<br />
<strong>della</strong> programmazione economica, del piano.
In questo quadro – a dispetto degli esiti referendari<br />
registrati a suo tempo in Francia e Olanda – <strong>il</strong> progetto<br />
europeo conferma nei fatti l’ispirazione e le politiche<br />
neoliberiste. E, al di là <strong>della</strong> «retorica europeista»,<br />
va consolidandosi una conduzione comunitaria<br />
a misura degli stati più forti (in primo luogo, Germania<br />
e Francia). Al punto che Valentino Parlato, già nel<br />
convegno di due anni fa, prospettava per una politica<br />
delle sinistre la necessità di una scelta netta: o si<br />
procede nella democratizzazione del suddetto progetto,<br />
in direzione di un’«Europa dei popoli», o è meglio<br />
tornare a dare forza e autonomia ai governi nazionali.<br />
Una tale alternativa non si pone oggi con<br />
maggior radicalità?<br />
RIVE GAUCHE<br />
RICCARDO BELLOFIORE<br />
No, quella proposta da Valentino Parlato è una falsa alternativa.<br />
La categoria di «popolo» è tra le più ambigue che<br />
conosca. Una sinistra autentica dovrebbe ripartire da una<br />
analisi di classe del capitalismo contemporaneo, e delle<br />
trasformazioni in Europa, quella cui ho accennato nelle<br />
risposte precedenti. Un’esigenza del genere è stata affermata<br />
all’inizio di questa estate tanto dallo stesso Parlato<br />
quanto da Rossana Rossanda. Bene, non si capisce perché<br />
<strong>il</strong> loro giornale, che non è un giornale qualsiasi, non<br />
se ne faccia promotore. Idem per «Liberazione», che<br />
sembra procedere sul terreno dell’economia con un approccio<br />
di tipo «pluralista» nel senso più deteriore: i<br />
tecnici dicano quello che vogliono, tanto la sintesi la tirano<br />
altri. Il punto è che una «analisi di classe», una volta<br />
fatta, imporrebbe scelte diverse, vincolerebbe le mani.<br />
Né si può pretendere che gli intellettuali che vi mettono<br />
mano non abbiano una loro politicità, non pongano una<br />
sfida cui occorre rispondere.<br />
Le politiche «nazionali» in Europa certo che ci sono. Ma<br />
dal lato <strong>della</strong> classe operaia, come dal lato del capitale,<br />
non si può non osservare come «centri» e «periferie»<br />
divengano trasversali, e così la catena <strong>della</strong> creazione di<br />
valore in senso marxiano. Qualcosa che non si può pensare<br />
scorra lungo i confini delle «nazioni». Bisognerebbe<br />
allora avere <strong>il</strong> coraggio di dire che una sinistra autentica<br />
esiste davvero solo se ha un progetto di trasformazione radicale,<br />
e se è a partire da questo che va a una dialettica con<br />
i «social-liberisti». E che dunque, come dice Lafontaine,<br />
va al governo se su qualche punto discriminante del suo<br />
programma quel governo si impegna. Insomma, non vedo<br />
in nessun partito o aggregazione un discorso veramente<br />
europeo e di classe, se non a parole. Occorre abituarsi all’idea<br />
di una lunga marcia attraverso le contraddizioni<br />
reali per tornare a poter incidere davvero, smetterla con i<br />
cortocircuiti. Questi errori sono stati condivisi da praticamente<br />
tutti a sinistra, inclusa l’area dell’Ernesto. Sulle<br />
questioni che stiamo discutendo, si è appiattita, senza distinguo,<br />
alle analisi più correnti sul terreno dell’economia,<br />
che non hanno con tutta evidenza portato da alcuna<br />
parte. Ricordo bene come, quando posi più o meno queste<br />
questioni nella discussione al Cpn sulle Tesi del Prc, a fine<br />
2001, la reazione fu una simmetrica sordità, tanto <strong>della</strong><br />
maggioranza di allora, quanto degli emendatari. Mi votò<br />
praticamente solo <strong>il</strong> compianto compagno Rigacci, uno<br />
che sulle questioni dell’economia – come Maitàn – darebbe<br />
molti punti agli economisti vicini al partito. Si vede che<br />
avevo torto.<br />
71
72<br />
EMILIANO BRANCACCIO<br />
La contrapposizione tra europeismo e neonazionalismo<br />
viene presentata troppo spesso in modo semplicistico.<br />
Stando all’esperienza passata, credo sia lecito ritenere che<br />
la strada verso un’Europa più unita e democratica possa<br />
essere imboccata solo attraverso un maggior protagonismo<br />
dei paesi periferici. Il problema <strong>della</strong> maggiore forza<br />
e autonomia dei governi di questi paesi dunque si pone, e<br />
indubbiamente potrebbe esser fonte di complicazioni e di<br />
contrasti. Ma sarebbe ingenuo o strumentale considerare<br />
i conflitti interstatuali necessariamente disgreganti.<br />
Nulla toglie che essi possano invece rivelarsi <strong>il</strong> giusto stimolo<br />
per la ripresa del processo di unificazione politica<br />
europea. A ogni modo, è chiaro che i governi dei paesi periferici<br />
potranno acquisire maggiore forza solo se si rendono<br />
più autonomi rispetto al vincolo di b<strong>il</strong>ancia dei pagamenti<br />
con l’estero (che non si vede più ma esiste eccome).<br />
Ciò può esser conseguito tramite una politica<br />
protezionistica, <strong>della</strong> quale mi farebbe senz’altro piacere<br />
discutere ma che non mi pare sia all’ordine del giorno.<br />
Oppure, si può cercare di allentare <strong>il</strong> vincolo dei conti<br />
esteri attraverso un allentamento del vincolo dei conti<br />
pubblici, e un ut<strong>il</strong>izzo delle risorse statali per un programma<br />
di politica industriale selettivo, fondato sull’intervento<br />
pubblico negli assetti proprietari e orientato all’esportazione<br />
(questo, in sostanza, era <strong>il</strong> progetto insito<br />
nell’appello degli economisti contro l’abbattimento del<br />
debito). Si noti che, in misura più o meno radicale, tutte le<br />
soluzioni menzionate richiedono la violazione di almeno<br />
alcune delle regole europee (dal patto di stab<strong>il</strong>ità alle<br />
norme sulla concorrenza e sugli aiuti di stato). Ma <strong>il</strong> problema<br />
chiave non è di ordine politico-istituzionale. Il<br />
problema di fondo è di capire se c’è <strong>il</strong> margine economico<br />
per agire in questa direzione. A tale riguardo, dall’esame<br />
<strong>della</strong> reattività dei tassi di interesse si scopre che questi<br />
sono scarsamente sensib<strong>il</strong>i alla dinamica dei conti pubblici<br />
mentre risultano abbastanza condizionati dalla dinamica<br />
dei conti esteri. Dunque, contrariamente a quel che<br />
si pensa, se vogliamo capire quanto margine abbiamo,<br />
dobbiamo spostare l’attenzione dal deficit pubblico al deficit<br />
commerciale. Se l’allentamento del vincolo sul deficit<br />
pubblico viene sfruttato nel modo giusto – che è quello<br />
di accrescere i parametri di competitività nazionale –<br />
allora è possib<strong>il</strong>e che <strong>il</strong> conseguente ampliamento del deficit<br />
commerciale venga assorbito prima di un attacco<br />
speculativo sui titoli pubblici nazionali, o comunque in<br />
tempo ut<strong>il</strong>e per evitare un’eccessiva instab<strong>il</strong>ità finanziaria.<br />
Sarebbe un sentiero stretto, non particolarmente agevole.<br />
Eppure la ferma volontà dei paesi «periferici» di<br />
imboccarlo potrebbe aprire in sé nuovi scenari, magari<br />
pure convincendo la Germania e gli altri paesi «centrali»<br />
<strong>della</strong> necessità di costituire un ampio b<strong>il</strong>ancio pubblico<br />
europeo per salvare <strong>il</strong> processo di unificazione. Ma, soprattutto,<br />
rinunciare a questa opzione politica alternativa<br />
significherebbe proseguire lungo la nefasta e già ampiamente<br />
sperimentata via crucis <strong>della</strong> deflazione, questo vediamo<br />
di non dimenticarlo mai.<br />
GIORGIO LUNGHINI<br />
Penso anch’io che la prospettiva auspicab<strong>il</strong>e sia quella di<br />
un’Europa degli Stati-nazione anziché di un mercato<br />
dell’Europa, ma non ne vedo le premesse politiche e culturali.<br />
RICCARDO REALFONZO<br />
Purtroppo temo che la grande speranza in quello straordinario<br />
progetto di pace e solidarietà che chiamiamo<br />
«Europa dei popoli» rischi di tramontare. Sappiamo sin<br />
troppo bene, infatti, che <strong>il</strong> Trattato istitutivo dell’Unione<br />
Europea ha prospettato un modello ben diverso, incentrato<br />
sulla moneta e sul mercato. Un modello che ha preteso<br />
la progressiva fuoriuscita dello Stato dall’economia,<br />
l’indebolimento dello stato sociale, nonché una politica<br />
monetaria che guarda con ost<strong>il</strong>ità alla piena occupazione,<br />
perché foriera di spinte salariali e conseguenti rischi inflazionistici.<br />
Tutto ciò ha determinato una significativa<br />
crescita degli squ<strong>il</strong>ibri e delle disuguaglianze. Le aree<br />
centrali e sv<strong>il</strong>uppate sono diventate più ricche e congestionate,<br />
le aree periferiche e sottosv<strong>il</strong>uppate più povere<br />
e desertificate; i profitti e le rendite sono aumentati, i salari<br />
si sono contratti; l’occupazione non è aumentata e<br />
invece si sono intensificati i flussi migratori. Eppure, per<br />
quanto tutto ciò abbia del paradossale, la moneta unica e<br />
l’abbattimento delle barriere alla circolazione delle<br />
merci avrebbero effettivamente potuto costituire <strong>il</strong> volano<br />
per un nuovo modello di sv<strong>il</strong>uppo, per l’«Europa dei<br />
popoli». Con l’adesione alla moneta unica l’Italia e gli<br />
altri stati d’Europa hanno perso la sovranità monetaria,<br />
hanno rinunciato a importanti strumenti di politica economica,<br />
hanno accettato una serie di vincoli alle politiche<br />
di b<strong>il</strong>ancio. Oggi non solo siamo lontani anni luce<br />
dall’«Europa dei popoli», ma abbiamo anche vincolato<br />
l’azione dei governi, e abdicato pezzi di democrazia economica<br />
a favore delle tecnocrazie <strong>della</strong> moneta unica.
Il convegno <strong>della</strong> Rive Gauche aveva provato a fornire<br />
indicazioni circa la politica economica che un governo<br />
progressista dovrebbe proporsi di attuare. Il<br />
fatto che, nella sostanza, nel nostro paese non si sia<br />
dato seguito a quelle sollecitazioni dipende da un difetto<br />
di ascolto da parte del versante moderato<br />
<strong>della</strong> coalizione di governo oppure esistono impedimenti<br />
«strutturali» al concretizzarsi delle suddette<br />
politiche? In altri termini, quale spazio c’è oggi – oggettivamente<br />
– per politiche progressiste?<br />
RIVE GAUCHE<br />
RICCARDO BELLOFIORE<br />
Di nuovo, la domanda mi sembra malposta. È ovvio che<br />
esistono impedimenti «strutturali»: si chiamano rapporto<br />
di classe e relazioni di potere, ma ci si dovrebbe<br />
muovere per cambiare lo stato di cose esistente, no? La<br />
domanda non considera neanche la possib<strong>il</strong>ità che le<br />
«sollecitazioni» sulla politica economica avanzate dagli<br />
economisti <strong>della</strong> Rive Gauche fossero superficiali e sbagliate.<br />
Ed è infatti questa la vera risposta. Non può non<br />
colpire che nelle vostre domande la questione su cui più si<br />
sono impegnati gli economisti <strong>della</strong> Rive Gauche più presenti<br />
su «<strong>il</strong> manifesto» e «Liberazione», ma anche sul<br />
vecchio «Ernesto» e ora «<strong>Essere</strong> comunisti», quella<br />
<strong>della</strong> battaglia sul debito pubblico, compaia marginalmente,<br />
sullo sfondo. D’altronde, è così nello stesso articolo<br />
che annuncia un secondo convegno di economisti<br />
promosso da «<strong>il</strong> manifesto» a Roma, di Leon e Realfonzo,<br />
dove non vi si fa praticamente cenno. Peraltro, si parla<br />
solo del neoliberismo, come se <strong>il</strong> social-liberismo non<br />
esistesse, e la crisi economica che dagli Usa rischia di tracimare,<br />
anzi lo ha già fatto, merita una riga come se non ci<br />
riguardasse, e non avesse a che vedere con le questioni<br />
<strong>della</strong> precarietà o delle pensioni.<br />
Quella che si è fatta sul debito pubblico è stata per due anni<br />
una battaglia «gridata», su un approccio in fondo contab<strong>il</strong>e<br />
al pari di quello <strong>della</strong> controparte: meglio la «stab<strong>il</strong>izzazione»<br />
del «risanamento finanziario». Questo lo sappiamo<br />
tutti. Ma è chiaro che la stab<strong>il</strong>izzazione di per sé non<br />
comporta alcun avvio di una diversa politica economica, è<br />
all’insegna di un’<strong>il</strong>lusoria riduzione del danno. Un ministro<br />
bravissimo di suo, come Paolo Ferrero, si è in qualche<br />
misura sganciato. E si è attestato sulla linea del Piave dell’attuazione<br />
del programma. Costretto a questo punto a sostenere<br />
una tesi altrettanto debole: quella di spalmare <strong>il</strong> rigorismo<br />
su due anni. Illusoria, la pretesa riduzione del<br />
danno, perché la parola d’ordine <strong>della</strong> stab<strong>il</strong>izzazione è debole,<br />
tanto sul terreno dell’analisi, quanto sullo stesso terreno<br />
immediatamente politico, di una proposta efficace.<br />
Sul terreno dell’analisi, dei contenuti, perché la sinistra<br />
dovrebbe, come ho detto, partire lei all’offensiva, non<br />
farsi mettere nell’angolo. Pretendere lei di partire dai<br />
73
74<br />
problemi del «declino» economico e sociale da cui è iniziata<br />
la nostra conversazione. Denunciare lei l’inaccettab<strong>il</strong>ità<br />
del come sono articolate spesa pubblica ed entrate<br />
statali, la qualità a rischio <strong>della</strong> nostra specializzazione<br />
produttiva, i limiti seri <strong>della</strong> nostra posizione verso<br />
l’estero, <strong>il</strong> pericolo del degrado strutturale che ne consegue.<br />
Dunque, presentarsi lei con una qualche proposta di<br />
dove e come intervenire, in un’ottica meno debole di<br />
quella <strong>della</strong> cosiddetta via alta alla produttività (ne ho<br />
scritto con Garibaldo su «<strong>il</strong> manifesto»). Se no i discorsi<br />
sulla programmazione, sulla lotta alla precarietà, la<br />
stessa battaglia contro la controriforma delle pensioni e<br />
lo scippo del Tfr, su un pieno impiego di qualità, sono<br />
tutti fiato sprecato.<br />
Muoversi in quest’altra direzione (che va preparata da un<br />
lavoro vero: e un lavoro vero prende tempo, sta lontano<br />
dai riflettori, non si esaurisce in articoli, convegni e presenza<br />
mediatici, che vengono dopo) comporta una politica<br />
di maggiore spesa per «investimenti» pubblici in<br />
senso lato. È chiaro che con questa struttura dell’imposizione<br />
fiscale, si determina un peggioramento, nell’immediato,<br />
del rapporto disavanzo/P<strong>il</strong>. A medio-lungo termine,<br />
però, se le politiche sono ben disegnate, <strong>il</strong> denominatore<br />
aumenta. Ovviamente ciò deve avvenire con<br />
una composizione <strong>della</strong> produzione che segnali l’impronta<br />
di sinistra, ed è qui che per esempio divengono<br />
essenziali l’ottica ambientalista e anche quella femminista:<br />
dovremmo smetterla di vedere queste questioni<br />
come separate, si tratta di far vivere la questione di genere<br />
e quella <strong>della</strong> natura dentro <strong>il</strong> proprio orizzonte di<br />
cambiamento dei modi dello sv<strong>il</strong>uppo economico. È <strong>il</strong><br />
cosiddetto «paradosso <strong>della</strong> produttività», che risale in<br />
fondo a Schumpeter. Per aumentare la produttività, per<br />
innovare, prima devi finanziare una politica di investimenti<br />
che avrà effetti, darà frutto, solo nel futuro.<br />
A questo punto, se ti contrappongono l’esigenza di evitare<br />
un aumento del disavanzo, beh, si può replicare che si<br />
vadano a cercare delle entrate altrove che nel mondo del<br />
lavoro, che una politica di spesa pubblica è produttiva eccome.<br />
Graziani ha spesso ricordato che gli stessi parametri<br />
di Maastricht non impediscono affatto una politica<br />
espansiva, visto che un aumento delle spese finanziato da<br />
entrate di pari ammontare accresce reddito e occupazione.<br />
Su questa linea si sarebbe evitata la situazione prevedib<strong>il</strong>e,<br />
e che si è poi effettivamente verificata, che la battaglia<br />
sul debito sarebbe stata etichettata come la solita da<br />
parte di una sinistra che difende l’esistente, insensib<strong>il</strong>e<br />
ai problemi strutturali. Ammettiamolo, non del tutto a<br />
torto. D’altronde quello che chiedono i partiti <strong>della</strong> sinistra<br />
e qualche sindacalista è un po’ di respiro: si può ca-<br />
pire, ma è cortoterminismo anche quello. Come ha detto<br />
con efficacia, qualche tempo fa, Giorgio Lunghini: nel<br />
breve periodo siamo tutti morti, anche e soprattutto a sinistra.<br />
La carica distruttiva del capitalismo odierno non è<br />
certo frenata dal piccolo cabotaggio.<br />
Non è un caso che a Salvati, che ha posto da destra questi<br />
problemi, gli economisti <strong>della</strong> Rive Gauche non hanno saputo<br />
replicare praticamente niente. Avevamo in realtà risposto<br />
in anticipo due anni fa Halevi e io, nel contributo<br />
al convegno e poi volume di Rive Gauche. E su «<strong>il</strong> manifesto»<br />
abbiamo controbattuto Garibaldo e io, in un articolo<br />
sui nodi strutturali che ho messo al centro delle risposte<br />
in questa intervista. <strong>Essere</strong> «rassegnati» significa<br />
prendere questi ragionamenti sottogamba, come un discorso<br />
di utopia. Mi è stato detto a ripetizione, nei vari<br />
dibattiti a cui ho partecipato dall’anno scorso: sei, come<br />
Halevi, un «esagerato». Gli investimenti pubblici, sì, va<br />
bene, ma in realtà non si sa cosa siano. E comunque non<br />
ci sono le condizioni politiche. Se la sinistra non sa come<br />
dare carne e sangue a un discorso sulle politiche strutturali,<br />
è chiaro che perde. Perde per molte ragioni, ma
anche perché non ha veri argomenti, non conosce i processi<br />
strutturali, non sa come ragionano gli altri.<br />
Claudio Napoleoni nel 1987, in un intervento a un convegno<br />
del Cespe, e pur all’interno di una impostazione<br />
piena di limiti, in parte subalterna alla sirena del «risanamento»,<br />
non ha però mai perso di vista un punto essenziale<br />
senza del quale non c’è politica economica di sinistra.<br />
Che si deve intervenire sulle questioni <strong>della</strong> spesa<br />
pubblica e del debito solo «all’interno di una operazione<br />
più complessiva che abbia come suo punto di partenza un<br />
punto immediatamente mob<strong>il</strong>itante: quello <strong>della</strong> redistribuzione<br />
del reddito». E aggiungeva subito che «le<br />
operazioni che si intendono fare mediante <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio<br />
pubblico sono quelle volte allo spostamento in avanti del<br />
vincolo interno»: in altre parole, che spazi per una diversa<br />
distribuzione del reddito si aprono soltanto se<br />
contemporaneamente si rimette in questione, a partire<br />
dalle politiche statali di spesa, la struttura economica e<br />
produttiva, se dunque con quelle politiche si allenta<br />
anche <strong>il</strong> vincolo «esterno». E questo, se deve avere contenuti<br />
di sinistra, richiede una vera e propria rivoluzione<br />
culturale. Richiede «di mutare in maniera radicale le<br />
prospettive, gli obiettivi e perciò anche gli strumenti, di<br />
contrapporre veramente al modello degli altri un altro<br />
modello». La sinistra, quest’altro modello, ce l’ha o no?<br />
O si tratta di parole da spendere come moneta ormai svalutata<br />
senza dar loro un contenuto, prima o poi?<br />
Uno come me, che è «pessimista» e «rassegnato», e per<br />
qualcuno poco meno o poco più che un traditore perché<br />
non convinto dall’economia <strong>della</strong> Rive Gauche, non capisce<br />
come sia possib<strong>il</strong>e che Sarkozy possa dire e fare quello<br />
che da noi la sinistra non ha <strong>il</strong> coraggio nemmeno di<br />
bisbigliare a Prodi e Padoa Schioppa. Si tratta in fondo<br />
dell’ex Presidente <strong>della</strong> Commissione Europea e di un ex<br />
banchiere centrale <strong>della</strong> Banca Centrale Europea. Dovrebbero<br />
spendere <strong>il</strong> loro prestigio in Europa per far accettare<br />
un serio programma di intervento strutturale,<br />
anche se all’inizio finanziato in ulteriore disavanzo.<br />
Questo avrebbe almeno potuto, e dovuto, chiedere la sinistra,<br />
se fosse giunta all’appuntamento preparata sul<br />
piano programmatico. Così, alla resa dei conti, risulta<br />
più coraggioso – oggi come nel 1998 – Prodi con <strong>il</strong> suo<br />
discorso sull’ut<strong>il</strong>izzo in Europa, a fini di investimento,<br />
dell’eccesso di riserve in oro delle banche centrali. Vola<br />
diecim<strong>il</strong>a volte più alto <strong>della</strong> sinistra.<br />
Né ci si può nascondere che la battaglia condotta da alcuni<br />
dei promotori dell’appello degli economisti, quelli più<br />
presenti sui giornali <strong>della</strong> sinistra, è stata pressoché integralmente<br />
autoriferita in modo imbarazzante, una<br />
sorta di grandiosa autopromozione di ceto. Non ci vuole<br />
RIVE GAUCHE<br />
molto a provarlo. Si vada sul sito<br />
www.appellodeglieconomisti.com, e si contino, tra i soli<br />
suoi firmatari, gli interventi raccolti (articoli, interviste,<br />
radio o televisione) dopo <strong>il</strong> lancio dell’appello sotto la<br />
rubrica «<strong>il</strong> dibattito». I dati sono questi: Em<strong>il</strong>iano<br />
Brancaccio, Università del Sannio, 19 ricorrenze: Riccardo<br />
Realfonzo Università del Sannio, 14 ricorrenze;<br />
Luigi Cavallaro, editorialista, 4 ricorrenze; Guglielmo<br />
Forges Davanzati e Rosario Patalano, 3 ricorrenze ciascuno;<br />
Paolo Leon, 2 ricorrenze; Artoni, Bosco, Cesaratto,<br />
Graziani (con Realfonzo), Palermo, Romano: 1. Se si<br />
tiene conto che Forges Davanzati e Patalano, di altre sedi<br />
universitarie, sono però legati da una lunga collaborazione<br />
a Realfonzo, gli interventi di quello che <strong>il</strong> «Corriere<br />
<strong>della</strong> Sera» ha denominato l’Mit del Sannio ammontano<br />
a 39 ricorrenze (senza Forges Davanzati e Patalano, sono<br />
comunque 33). Gli altri firmatari sono intervenuti, o per<br />
lo meno i loro interventi sono stati registrati, per 12 ricorrenze<br />
(con Forges Davanzati e Patalano si arriverebbe<br />
in ogni caso a 18). Si noti che uno dei quattro primi promotori,<br />
Ciccone, non compare tra gli interventi. Né è intervenuto<br />
in alcun modo, che non sia la firma dell’appello,<br />
Garegnani.<br />
Lasciamo perdere dunque <strong>il</strong> versante «moderato» <strong>della</strong><br />
coalizione, come lo chiamate, che non è comunque rinchiudib<strong>il</strong>e<br />
nella caricatura che se ne dà nella polemica<br />
giornalistica su <strong>il</strong> «<strong>il</strong> manifesto» e «Liberazione», e<br />
neanche nei contributi che ho letto sul vecchio «Ernesto»<br />
o su «<strong>Essere</strong> comunisti». E d’altra parte, se gli economisti<br />
<strong>della</strong> parte «moderata» <strong>della</strong> coalizione fossero<br />
tutti «bocconiani» e «neoliberisti», magari «un po’<br />
meno», davvero non capisco come si possa aver pensato<br />
di andarci al governo insieme. Qui <strong>il</strong> problema sta nella<br />
sinistra. Come anche nella debolezza intrinseca, su diversi<br />
piani, dell’appello. E sta nel fatto che un certo<br />
modo di fare l’economista di sinistra, «consigliere del<br />
principe», è ormai giunto al capolinea.<br />
EMILIANO BRANCACCIO<br />
Non definirei «moderato» <strong>il</strong> nascituro Partito democratico.<br />
Quel partito resta fedele alla deflazione da salari e da<br />
domanda per rimediare al deficit commerciale. In esso<br />
cova da tempo <strong>il</strong> desiderio di una resa dei conti con le<br />
frange più combattive del sindacato, magari proprio attraverso<br />
una «crisi disciplinante». Non mi pare che in<br />
questo anno e mezzo di governo le forze <strong>della</strong> sinistra abbiano<br />
avuto la possib<strong>il</strong>ità concreta di scalfire l’egemonia<br />
dei cosiddetti «democratici» nel campo prioritario <strong>della</strong><br />
politica economica. E non credo proprio che un convegno<br />
75
76<br />
e un appello come i nostri, pur lodevoli, pur tempestivi sul<br />
piano politico, potessero cambiare lo stato dei rapporti di<br />
forza. L’unità degli economisti <strong>della</strong> Rive gauche, le loro<br />
iniziative, nel loro piccolo stanno sicuramente aiutando a<br />
fare chiarezza, e stanno mettendo in seria difficoltà gli<br />
esponenti dell’ortodossia liberista, i quali vedono finalmente<br />
un po’ scalfito <strong>il</strong> priv<strong>il</strong>egio di poter diffondere <strong>il</strong><br />
loro verbo senza alcun contraddittorio (a titolo di esempio,<br />
mi permetto di segnalare <strong>il</strong> confronto che ho avuto<br />
con Giavazzi e Ichino in tema di precarietà, su «Liberazione»<br />
dell’1, 4, 6 e 8 settembre). Questa rinnovata dialettica<br />
ci ha permesso anche di dare la sveglia ai numerosi<br />
esponenti e opinionisti <strong>della</strong> sinistra che si erano lasciati<br />
condizionare dai falsi dogmi dell’ideologia<br />
dominante, e che per questo motivo avevano preso ormai<br />
una velleitaria deriva etico-sentimentale (del tipo: le leggi<br />
economiche proprio non le conosco, ma le considero<br />
brutte e cattive). Ma al di là di questi pur apprezzab<strong>il</strong>i risultati,<br />
l’<strong>il</strong>lusione che delle belle teste pensanti si siedano<br />
a un tavolo, scrivano un gran programma e grazie a questo<br />
arrivino a cambiare <strong>il</strong> mondo la lascio volentieri all’amico<br />
Bellofiore, che si professa «marxiano» ma che spesso<br />
cade, curiosamente, in un idealismo alquanto ingenuo.<br />
Come ho detto e ripetuto, un’analisi accurata e un programma<br />
efficace ci servirebbero senz’altro, ma uno spazio<br />
per la politica economica alternativa potrà emergere solo<br />
dalla capacità di impiegare le conoscenze acquisite al fine<br />
di sfruttare la prossima congiuntura, la prossima emergenza.<br />
Pertanto la questione prioritaria è la seguente: se<br />
domani all’improvviso ci trovassimo nel bel mezzo di un<br />
momento «emergenziale», saremmo noi in grado di<br />
sfruttarlo, di piegare la direzione degli eventi secondo i<br />
nostri scopi? Io credo proprio di no, credo che risulteremmo<br />
ancora una volta impreparati e sguarniti, come nel<br />
1992. È questo <strong>il</strong> grave problema politico sul quale bisognerebbe<br />
concentrarsi e lavorare. A partire forse da un<br />
interrogativo: fino a che punto si possono condividere le<br />
responsab<strong>il</strong>ità di governo con degli alleati che puntano<br />
alla deflazione e che magari passerebbero volentieri per<br />
una «crisi disciplinante»? Visto che a sinistra non è ancora<br />
maturato un effettivo potenziale egemonico, mi domando<br />
molto sommessamente se non sarebbe opportuno<br />
assumere una posizione più critica e def<strong>il</strong>ata rispetto a gestioni<br />
di cui non abbiamo ancora visto <strong>il</strong> lato più oscuro, e<br />
che al momento non abbiamo la forza di cambiare.<br />
GIORGIO GATTEI<br />
Scrive Marx che le parole d’ordine economico <strong>della</strong> Comune<br />
di Parigi (1871) furono l’abolizione <strong>della</strong> proprietà<br />
privata dei mezzi di produzione, da sostituirsi con la proprietà<br />
collettiva degli stessi, e l’abolizione dell’anarchia<br />
del mercato, da sostituirsi con una direzione di piano. La<br />
sinistra del Novecento ha portato avanti queste due<br />
«bandiere», sicura che l’impresa pubblica fosse più efficiente<br />
<strong>della</strong> privata (<strong>il</strong> caso italiano dell’Iri si è giustificato<br />
a lungo così) e che col piano si potessero meglio governare<br />
le grandezze economiche fondamentali (l’esperienza<br />
italiana <strong>della</strong> «programmazione» si è giustificata<br />
a lungo così). E va detto che verifiche storiche concrete<br />
non sono mancate negli anni del «miracolo economico»,<br />
poi però <strong>il</strong> giocattolo si è rotto. L’impresa pubblica è<br />
precipitata nell’inefficienza e corruzione, così che l’Iri è<br />
stata soppressa con <strong>il</strong> plauso di tutti e oggi quelle poche<br />
imprese pubbliche rimaste, che nel frattempo sono tornate<br />
efficienti, rischiano la privatizzazione (o lo «spezzatino»<br />
per renderle inefficienti e quindi privatizzab<strong>il</strong>i).<br />
La programmazione invece è franata sotto l’urto <strong>della</strong> supremazia<br />
dell’impresa diventata «globale»: come governare<br />
un’economia nazionale quando i capitali finanziari<br />
e industriali che la compongono possono fuggire da tutte<br />
le parti? Per di più con l’Unione Europea si sono trasferite<br />
quote consistenti di sovranità economica agli organi<br />
comunitari, così che adesso un singolo governo, che<br />
fosse deciso a prendere iniziative d’indirizzo, dovrebbe<br />
misurarsi con gli inevitab<strong>il</strong>i divieti europei.<br />
Per questo, se di politica di piano si vuole tornare a parlare,<br />
non può che essere a livello europeo. Ma qui ci si imbatte<br />
in un altro ordine di problemi. I centri di decisione<br />
economica comunitaria, che non sono di nomina elettiva,<br />
sono stranamente (?) imbevuti <strong>della</strong> peggiore ideologia<br />
neoliberista: priv<strong>il</strong>egiano <strong>il</strong> libero mercato (dei capitali),<br />
l’iniziativa privata (delle imprese), le rendite finanziarie<br />
(delle borse) a tutto danno di un «mondo del lavoro»,<br />
peraltro in via di frammentazione, che patisce le conseguenze<br />
di una sconfitta storica (nei fatti, prima ancora che<br />
nelle idee) di cui non ha ancora preso piena coscienza (altrimenti<br />
non voterebbe come vota, anche perché nell’insieme<br />
non è affatto minoranza). Con sim<strong>il</strong>i rapporti di<br />
forza europei diventa diffic<strong>il</strong>e immaginare politiche di<br />
piano a livello nazionale perché prima ci vorrebbe un<br />
cambiamento nell’indirizzo economico <strong>della</strong> Ue, che lo<br />
rendesse almeno «eclettico», se è troppo sperare «di sinistra».<br />
D’altra parte la Comune di Parigi aveva potuto alzare<br />
quelle sue bandiere sulla base del fatto politico che<br />
quella era «<strong>il</strong> governo <strong>della</strong> classe operaia», o piuttosto<br />
«<strong>il</strong> dominio politico dei produttori» (K. Marx). Oggi in<br />
Europa abbiamo a che fare con <strong>il</strong> dominio politico dei<br />
rentiers e con l’assenza (perfino) di una coscienza di classe<br />
lavoratrice, così che «a sinistra» non restano che di-
chiarazioni di principio e capitolazioni di fatto. A meno<br />
che la crisi finanziaria in corso non arrivi a produrre conseguenze<br />
economico-sociali tali da far paura a Lorpadroni,<br />
così che siano proprio loro a tornare a richiedere l’intervento<br />
«salvifico» dello Stato nell’economia. È già successo<br />
e può darsi che risuccederà.<br />
GIORGIO LUNGHINI<br />
Oggi i governi nazionali non dispongono più <strong>della</strong> leva<br />
monetaria e sono soggetti a vincoli di b<strong>il</strong>ancio per quanto<br />
riguarda la politica fiscale. Tuttavia dispongono ancora<br />
di un potentissimo strumento di politica economica e<br />
sociale, che è la produzione legislativa. Tutto dipende<br />
dunque dal potere politico. Forse per ragioni di età, io<br />
continuo a pensare che <strong>il</strong> miglior programma per un governo<br />
di sinistra sia già stato scritto nella Costituzione<br />
del 1947. Il problema è che non la legge più nessuno o che<br />
semmai la si vorrebbe mandare al macero. Dunque può<br />
essere ut<strong>il</strong>e, per i più giovani, ricordarne i passi di maggior<br />
r<strong>il</strong>ievo economico-politico.<br />
«L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.<br />
È compito <strong>della</strong> Repubblica rimuovere gli ostacoli di<br />
RIVE GAUCHE<br />
ordine economico e sociale, che impediscono <strong>il</strong> pieno sv<strong>il</strong>uppo<br />
<strong>della</strong> persona umana e l'effettiva partecipazione di<br />
tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e<br />
sociale del paese. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini<br />
<strong>il</strong> diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano<br />
effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha <strong>il</strong> dovere di<br />
svolgere, secondo le proprie possib<strong>il</strong>ità e la propria scelta,<br />
un'attività o una funzione che concorra al progresso<br />
materiale o spirituale <strong>della</strong> società. La Repubblica tutela la<br />
salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse<br />
<strong>della</strong> collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.<br />
L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.<br />
La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione<br />
e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e<br />
gradi. Enti e privati hanno <strong>il</strong> diritto di istituire scuole e<br />
istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La scuola è<br />
aperta a tutti. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,<br />
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La<br />
Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di<br />
studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono<br />
essere attribuite per concorso.<br />
La Repubblica tutela <strong>il</strong> lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.<br />
Cura la formazione e l'elevazione professionale<br />
dei lavoratori. Il lavoratore ha diritto a una retribuzione<br />
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro<br />
e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia<br />
un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima <strong>della</strong><br />
giornata lavorativa è stab<strong>il</strong>ita dalla legge. Il lavoratore ha<br />
diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e<br />
non può rinunziarvi. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti<br />
e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano<br />
al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire<br />
l'adempimento <strong>della</strong> sua essenziale funzione fam<strong>il</strong>iare<br />
e assicurare alla madre e al bambino una speciale<br />
adeguata protezione. La legge stab<strong>il</strong>isce <strong>il</strong> limite minimo<br />
di età per <strong>il</strong> lavoro salariato. La Repubblica tutela <strong>il</strong> lavoro<br />
dei minori con speciali norme e garantisce a essi, a parità<br />
di lavoro, <strong>il</strong> diritto alla parità di retribuzione. Ogni<br />
77
78<br />
cittadino inab<strong>il</strong>e al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari<br />
per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza<br />
sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e<br />
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso<br />
di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione<br />
involontaria. Gli inab<strong>il</strong>i e i minorati hanno diritto<br />
all'educazione e all'avviamento professionale. L'iniziativa<br />
economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto<br />
con l'ut<strong>il</strong>ità sociale o in modo da recare danno alla<br />
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina<br />
i programmi e i controlli opportuni perché l'attività<br />
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e<br />
coordinata a fini sociali. La proprietà privata è riconosciuta<br />
e garantita dalla legge, che ne determina i modi di<br />
acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne<br />
la funzione sociale e di renderla accessib<strong>il</strong>e a tutti. La<br />
proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla<br />
legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse<br />
generale. La legge stab<strong>il</strong>isce le norme e i limiti <strong>della</strong><br />
successione legittima e testamentaria e i diritti dello<br />
Stato sulle eredità. A fini di ut<strong>il</strong>ità generale la legge può<br />
riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione<br />
e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o<br />
a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese<br />
o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici<br />
essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio<br />
e abbiano carattere di preminente interesse generale.<br />
La Repubblica riconosce la funzione sociale <strong>della</strong> cooperazione<br />
a carattere di mutualità e senza fini di speculazione<br />
privata. Ai fini <strong>della</strong> elevazione economica e sociale<br />
del lavoro in armonia con le esigenze <strong>della</strong> produzione, la<br />
Repubblica riconosce <strong>il</strong> diritto dei lavoratori a collaborare,<br />
nei modi e nei limiti stab<strong>il</strong>iti dalle leggi, alla gestione<br />
delle aziende. La Repubblica incoraggia e tutela <strong>il</strong> risparmio<br />
in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla<br />
l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio<br />
popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà<br />
diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento<br />
azionario nei grandi complessi produttivi del paese. Tutti<br />
sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione<br />
<strong>della</strong> loro capacità contributiva. Il sistema tributario è<br />
informato a criteri di progressività».<br />
Ecco, mi pare che la sinistra potrebbe trovare qui <strong>il</strong> proprio<br />
programma, un programma semplice e chiaro, dunque<br />
comprensib<strong>il</strong>e, convincente, e seducente. Mi viene<br />
però in mente l’ultimo editoriale di Luigi Pintor, del<br />
2003: «La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non<br />
lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica<br />
quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci<br />
con elezioni parziali o con una manifestazione rumo-<br />
rosa. Ma la sinistra rappresentativa è fuori scena».<br />
RICCARDO REALFONZO<br />
Dal convegno Rive Gauche era emerso con chiarezza <strong>il</strong><br />
quadro complessivo delle linee di una politica economica<br />
progressista da perseguire nelle condizioni date dell’economia<br />
e <strong>della</strong> società italiana. Al di là delle questioni<br />
relative alle politiche sociali, gli economisti convenivano<br />
sulla necessità di agire per favorire un vero e<br />
proprio «salto strutturale», che consentisse al nostro<br />
apparato produttivo di superare le strozzature presenti<br />
dal lato <strong>della</strong> domanda e dal lato dell’offerta e appariva<br />
chiaro che la condizione di base per la messa in pratica di<br />
una politica economica incisiva – in grado di r<strong>il</strong>anciare<br />
l’economia del paese e spingerla nella direzione di un<br />
nuovo modello di sv<strong>il</strong>uppo – era una politica delle finanze<br />
pubbliche che sapesse spogliarsi dei dogmi liberisti e<br />
«rigoristi» del pareggio del b<strong>il</strong>ancio. In altre parole, si<br />
rendeva necessario evitare di intraprendere la strada<br />
dell’abbattimento del debito pubblico e puntare viceversa<br />
sulla stab<strong>il</strong>izzazione del debito rispetto al P<strong>il</strong> nell’arco<br />
temporale <strong>della</strong> legislatura. Personalmente posi la questione<br />
nel dibattito che anticipò <strong>il</strong> convegno sulle pagine<br />
de «<strong>il</strong> manifesto» raccogliendo subito molte adesioni. E<br />
non a caso, quando alcuni mesi dopo proponemmo l’appello<br />
per la stab<strong>il</strong>izzazione del debito, gli economisti di<br />
sinistra risposero compatti. L’appello raccolse rapidamente<br />
un centinaio di adesioni, tra cui quelle dei più autorevoli<br />
rappresentanti dell’economia politica critica italiana.<br />
Al di là di rare posizioni minoritarie, di cui non si<br />
comprendono né i punti di partenza politici né gli sbocchi,<br />
resta ancora oggi evidente per gli economisti di sinistra<br />
che la stab<strong>il</strong>izzazione del debito rappresenti l’unica<br />
strada capace di liberare le risorse necessarie per una<br />
svolta incisiva nella politica economica; ed è su questo<br />
punto che – prima di ogni altra cosa – registriamo l’inadeguatezza<br />
del governo Prodi. Va da sé che la stab<strong>il</strong>izzazione<br />
del debito rappresenta una condizione necessaria<br />
ma non sufficiente per intraprendere la strada del «salto<br />
strutturale»; non si può certo ignorare <strong>il</strong> tema <strong>della</strong> qualità<br />
<strong>della</strong> spesa, come ci ricorda tutti i giorni la scarsa efficacia<br />
<strong>della</strong> pur ridotta spesa nel Mezzogiorno, improntata<br />
come è ai principi <strong>della</strong> programmazione negoziata.<br />
E va anche da sé – come diversi di noi hanno mostrato nel<br />
dibattito che ha fatto seguito all’appello – che non esistono<br />
ragioni tecnico-istituzionali che impediscano l’attuazione<br />
di un programma di politica economica di sinistra.<br />
Semplicemente non abbiamo avuto la forza per imporlo.
Che compagni saremmo se non stessimo assieme?<br />
La nostra festa a Gubbio l’abbiamo fatta apposta.<br />
Per discutere, riflettere, documentarci. Per conoscere<br />
altri punti di vista. Per unire la sinistra senza perdere<br />
le nostre identità e i nostri orizzonti di comunisti. Per<br />
non dimenticare mai la nostra storia di resistenze e di<br />
assalti al cielo. Per difendere la dignità del lavoro e<br />
reclamare i diritti che ci spettano. Per continuare a<br />
urlare «no alla guerra» e «no al fascismo», senza se e<br />
senza ma. Lo abbiamo fatto tra un bicchiere di vino e<br />
un ballo in pista. Spesso a bocca piena, solo <strong>il</strong> sorriso<br />
a trattenerla. Tutti m<strong>il</strong>itanti, perché non c’è altro modo<br />
di essere comunisti. A Gubbio abbiamo portato un<br />
pezzo di Cuba e un po’ di Venezuela. A Gubbio <strong>il</strong> Sud<br />
Alberto Burgio<br />
Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno<br />
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Tra <strong>il</strong> 1945 e <strong>il</strong> 1975 le società occidentali cambiano volto. Aprendosi, integrandosi,<br />
evolvendosi non soltanto sul terreno delle libertà civ<strong>il</strong>i, ma anche sul piano <strong>della</strong><br />
partecipazione democratica e nel riconoscimento dei diritti del lavoro. Non stupisce che<br />
questa dinamica progressiva susciti una furiosa reazione. Che dura tuttora.<br />
A partire dai tardi anni Settanta, la restaurazione capitalistica promossa dalla «rivoluzione<br />
conservatrice» di Reagan e Thatcher determina in tutto l’Occidente <strong>il</strong> sopravvento di poteri<br />
oligarchici. È una vera e propria rivoluzione passiva. Che svolge una funzione analoga a<br />
quella assolta, a giudizio di Gramsci, da altre «rivoluzioni-restaurazioni» come <strong>il</strong> fascismo<br />
e <strong>il</strong> New Deal rooseveltiano.<br />
Ma la crisi è luogo di ambivalenze. Alleva nascostamente in seno una incoercib<strong>il</strong>e istanza di<br />
cambiamento. Di giustizia, di libertà e dignità per tutti: <strong>il</strong> «sogno di una cosa».<br />
È questa la lezione di Gramsci, grazie alla quale ancora oggi, a settant’anni dalla sua morte,<br />
leggiamo nei Quaderni la partitura teorica <strong>della</strong> nostra epoca e <strong>della</strong> sua crisi.<br />
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COMUNICAZIONI<br />
Siamo comunisti,<br />
vogliamo le<br />
stelle!<br />
del mondo e <strong>il</strong> Sud d’Italia hanno ribadito che vogliono<br />
tornare al centro. A Gubbio abbiamo fatto incontrare i<br />
Quaderni di Gramsci con gli Scritti corsari di Pasolini.<br />
A Gubbio Bella Ciao e Bandiera Rossa le fischiettavano<br />
pure gli uccellini. A Gubbio c’erano più falci e martello<br />
che coltelli e forchette. A Gubbio ci siamo divertiti,<br />
perché senza gioia non si fa la rivoluzione. A Gubbio<br />
eravamo tanti. A Gubbio, dove i comunisti governano<br />
davvero e da soli, ci siamo ripetuti che <strong>il</strong> governo non<br />
è un fine ma un mezzo. A Gubbio abbiamo riaffermato,<br />
se qualcuno se lo fosse dimenticato, che noi ci siamo.<br />
Nel partito e per <strong>il</strong> partito. Rifondazione comunista è<br />
qui e non vuol smettere di lottare. E noi di continuare<br />
a <strong>Essere</strong> comunisti.<br />
79
Comitato editoriale<br />
Maurizio Acerbo<br />
Gianni Alasia<br />
Marco Amagliani<br />
Pierfranco Arrigoni<br />
Jone Bagnoli<br />
Imma Barbarossa<br />
Giorgio Baratta<br />
Katia Bell<strong>il</strong>lo<br />
Riccardo Bellofiore<br />
Piergiorgio Bergonzi<br />
Maria Luisa Boccia<br />
Manuele Bonaccorsi<br />
Vittorio Bonanni<br />
Bianca Bracci Torsi<br />
Nori Bramb<strong>il</strong>la Pesce<br />
Em<strong>il</strong>iano Brancaccio<br />
Giordano Bruschi<br />
Tonino Bucci<br />
Alberto Burgio<br />
Maria Rosa Calderoni<br />
Maria Campese<br />
Luigi Cancrini<br />
Luciano Canfora<br />
Guido Cappelloni<br />
Gennaro Carotenuto<br />
Bruno Casati<br />
Luciana Castellina<br />
Giulietto Chiesa<br />
Francesco Cirigliano<br />
Fausto Co'<br />
Cristina Corradi<br />
Aurelio Crippa<br />
Roberto Croce<br />
Marco Dal Toso<br />
Walter De Cesaris<br />
Peppe De Cristofaro<br />
Jose' Luiz Del Roio<br />
Tommaso Di Francesco<br />
Giuseppe Di Lello Finuoli<br />
Piero Di Siena<br />
Rolando Dubini<br />
Gianni Ferrara<br />
Guglielmo Forges Davanzati<br />
Gianni Fresu<br />
Mercedes Frias<br />
Alberto Gabriele<br />
Haidi Gaggio Giuliani<br />
Francesco Germinario<br />
Orfeo Goracci<br />
Roberto Gramiccia<br />
Claudio Grassi<br />
Dino Greco<br />
Margherita Hack<br />
Alessandro Leoni<br />
Lucio Manisco<br />
Giovanni Mazzetti<br />
Enrico Melchionda<br />
Maria Grazia Meriggi<br />
Enzo Modugno<br />
Sabina Morandi<br />
Raul Mordenti<br />
Franco Nappo<br />
Giorgio Nebbia<br />
Saverio Nigretti<br />
Alfredo Novarini<br />
Simone Oggionni<br />
Angelo Orlando<br />
Franco Ottaviano<br />
Gianni Pagliarini<br />
Valentino Parlato<br />
Armando Petrini<br />
Michele Pist<strong>il</strong>lo<br />
Felice Roberto Pizzuti<br />
Giuseppe Prestipino<br />
Mar<strong>il</strong>de Provera<br />
Riccardo Realfonzo<br />
Alessandra Riccio<br />
Paolo Sabatini<br />
Giuseppe Sacchi<br />
Luigi Saragnese<br />
Marco Sferini<br />
Guglielmo Simoneschi<br />
Vincenzo Siniscalchi<br />
Massim<strong>il</strong>iano Smeriglio<br />
Bruno Steri<br />
Antonella Stirati<br />
Mario Tiberi<br />
Nicola Tranfaglia<br />
Fulvio Vassallo Paleologo<br />
Mario Vegetti<br />
Massimo V<strong>il</strong>lone<br />
Luigi Vinci<br />
Pasquale Voza<br />
Maurizio Zipponi<br />
Stefano Zolea<br />
Stefano Zuccherini<br />
direttore – Bruno Steri<br />
direttore editoriale – Mauro Cimaschi<br />
direttore responsab<strong>il</strong>e – Bianca Bracci Torsi<br />
redazione – Mauro Belisario,<br />
S<strong>il</strong>via Di Giacomo, Marcello Notarfonso<br />
ema<strong>il</strong>: redazione@esserecomunisti.it<br />
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editore<br />
associazione culturale essere comunisti<br />
via Buonarroti 25 – 00185 Roma<br />
stampa<br />
tipografia Jacobelli – Pavona (Roma)<br />
chiuso in Tipografia <strong>il</strong> 15 ottobre 2007<br />
grafica<br />
progetto grafico, impaginazione e service<br />
editoriale: DeriveApprodi<br />
credits immagini<br />
p. 2, p. 6, p. 10: Nanni Balestrini; p. 13: da<br />
«Docks»; p. 16: da «Troubles»; p. 18:<br />
Eugenio Cappuccio; p. 20: teatro romano<br />
di Benevento; p. 22: lapide funeraria,<br />
Benevento; p. 23: Arcangelo; p. 25, p. 26:<br />
Thomas Feuerstein; p. 32, p. 33, p. 36: da<br />
Muro scritto; p. 40, p. 42: Michael<br />
Grobman; p. 44, p. 46, p. 48, p. 49: da La<br />
créativité en noir et blanc; p. 55, p. 60, p.<br />
63, p. 64, p. 65, p. 67, p. 69, p. 71, p. 73,<br />
p. 74, p. 77: Henri Michaux; copertina:<br />
elaborazione grafica originale da un<br />
progetto di Tyler Poniatowski<br />
registrazione Tribunale di Roma<br />
n. 170/2007 del 08/05/2007<br />
anno I, numero 3, ottobre 2007<br />
bimestrale<br />
Poste Italiane s.p.a. – spedizione in A.P.<br />
70% Roma n. 96/2007<br />
www.esserecomunisti.it<br />
La notizia è che <strong>il</strong> nostro sito sta, giorno<br />
dopo giorno, crescendo. Cresce<br />
rinnovandosi: una nuova veste grafica,<br />
nuove sezioni (a partire da quella<br />
multimediale, arricchita ogni giorno con<br />
nuovi audiovisivi), un doppio<br />
aggiornamento quotidiano e già in<br />
mattinata articoli e commenti sui fatti del<br />
giorno. E ancora: più attenzione alla<br />
cultura, una rassegna stampa più<br />
completa e articolata, un maggior numero<br />
di interventi, commenti e interviste<br />
redazionali. E i risultati si vedono:<br />
l’attenzione dei nostri lettori è in costante<br />
crescita al punto che, dall’uscita del<br />
secondo numero <strong>della</strong> <strong>rivista</strong> a oggi,<br />
abbiamo guadagnato migliaia di contatti<br />
giornalieri.<br />
Insomma: ci stiamo ritagliando uno spazio.<br />
Come la <strong>rivista</strong> ha bisogno degli abbonati<br />
(e del loro sostegno, dei loro suggerimenti),<br />
<strong>il</strong> sito ha bisogno dei lettori, <strong>della</strong> loro<br />
fiducia e del loro sguardo critico. In questi<br />
anni ce l’abbiamo fatta anche e, forse, in<br />
primo luogo, grazie al fatto che la fiducia e<br />
la critica non sono mai venute meno. E<br />
grazie a voi, lettori e abbonati <strong>della</strong> <strong>rivista</strong>,<br />
a cui chiediamo di moltiplicare per due <strong>il</strong><br />
vostro già preziosissimo lavoro di<br />
suggeritori e critici: ciascuno di voi<br />
coinvolga una nuova compagna o un nuovo<br />
compagno, diffondendo la <strong>rivista</strong> e facendo<br />
conoscere <strong>il</strong> sito (consultab<strong>il</strong>e all’indirizzo:<br />
www.esserecomunisti.it). Scommettiamo<br />
che non rimarranno delusi?<br />
Per la realizzazione di questo numero non<br />
è stato richiesto alcun compenso.<br />
Si ringraziano tutti gli autori e collaboratori.