ai magazzini, tutte le gondole ferme tra i pali, le bitte malinconicamente solitarie, l’approdo delle pescherie deserto. Dissi al pistore di aspettarmi davanti a Palazzo Loredan, sarei tornato in pochi minuti. Ma la casa di mio cognato era vuota. Il signor Piero Episcopi è partito tre settimane fa! gridò la vicina, lo trovate in campagna, a Zelarino. Il pistore volle tutti i bottoni della mia giacca per sbarcarmi alla Riva del Vino. Nelle calli sempre brulicanti dietro Rialto, le botteghe erano sbarrate: alla Stella, ai Tre Stendardi, alla Navicella, ai Tre Monti nessuno rispose. Cominciò a piovere. Non avevo niente per ripararmi. Vagai per la città deserta, incrociando solo pattuglie di pizzicamorti con le barelle, e ladri provvisti di scale che scardinavano le imposte e le finestre e s’introducevano impunemente nelle case abbandonate. Camminavo sopra uno scricchiolante tappeto di vetri rotti. Le calli divennero acquitrini, la fanghiglia mi faceva scivolare – caddi tre volte. Vagai da San Cassan a San Stae, da San Boldo a San Polo, da San Pantalon a San Trovaso, fino ai Carmini: le insegne penzolavano sui battenti chiusi, fra muri neri di pioggia, tutte le farmacie erano sbarrate. Le poche aperte non avevano niente da vendere, i vasi delle polveri per gli antidoti vuoti da settimane: erano stati letteralmente assaltati. Bussai alle imposte di tutte le spezierie che incrociavo, gridavo: aprite per l’amore di Dio! Non c’era nessuno – come se fossero partiti tutti, o tutti morti. A un tratto, con un senso di panico, mi resi conto di essere solo. Che da tempo non incrociavo anima viva. Che la mia città era vuota. Che nel silenzio assurdo riuscivo a sentire lo zampettio di un passero sul tetto del palazzo di fronte. Alla fine, stremato, fradicio di pioggia, scosso dai brividi, arrivai a San Nicolò. La contrada era abitata, i pescatori nicolotti troppo poveri per scappare. C’erano mobili scalcagnati sui ponti e sulle rive, casupole di legno marcio sbarrate con travi di legno altrettanto marcio, croci di gesso sulle porte, facce smunte dietro le finestre, barche bianche in tutti i canali. All’Insegna della Luna si affacciò una donna. Il marito era morto, lei rifiutò di aprire la porta. La supplicai di aiutarmi a curare mia figlia. Che cosa dovevo fare? Mi gridò di darle il vitriolo col brodo caldo, l’avrebbe fatta vomitare e cacare così tanto che alla fine si sarebbe sgravata anche dei vermi della peste. Fu così avida e volgare che rifiutai di credere nel suo rimedio. Corsi via. Non sapevo dove andare, mi attirò un solco di luce fra alte muraglie brune. Era un rio. Un pizzicamorto che caricava sulla barca un cadavere carbonizzato – qualcuno aveva maldestramente tentato di cauterizzargli i bubboni – mi indirizzò da uno speziere all’Angelo Raffaele. Potta dell’anticristo luterano, il vecchio sbutengoso aveva fatto soldi a palate – e siccome tutta la contrada era impiagata e quel diavolo fottuto non si era contagiato, probabilmente conosceva davvero l’antidoto buono. Il vecchio non mi aprì la porta. Io rimasi sul campo, sotto la pioggia battente, lui nella sua bottega. Vedevo solo la sua ombra che strisciava sulle pareti sugli scaffali e sui vasi di ceramica, oscurandoli. Per un attimo pensai che fosse davvero un demone. Ma che importava? Se il diavolo avesse voluto comprarmi l’anima gliel’avrei regalata, pur di salvare Marietta. Socchiuse uno spiraglio e gli tirai dentro le monete. Mi scrisse la ricetta su un foglio e mi gettò i sacchetti con le erbe dalla finestra. Passai il Canal Grande a San Simeone con la barca dei pizzicamorti – a differenza del pistore, non vollero nessun obolo. Tornai a casa con l’aiuto della notte. Ai quattro angoli del deposito accesi delle torce aromatiche che bruciavano resina di pino, legno di aloe, carlofonia e mirra. Il profumo era così dolce, così buono, che non posso sentirlo ancora senza che qualcosa si schianti dentro di me. Marietta era distesa sul pagliericcio, pallidissima. Le ordinai di spogliarsi, e poiché non si muoveva le sganciai il corpetto – denudandola. Jacomo!? Esclamò, confusa. Ma doveva fidarsi di me, e io avevo bisogno delle sue viscere – e del suo cuore. Sono trascorsi tanti anni, e adesso non ricordo più quali erbe avessi pestato macerato e bollito in cucina per preparare la pappa di semi di lino che doveva farla sudare, e che le applicavo sullo stomaco, e l’unguento che le spalmavo sul cuore. Mi ricordo che sapeva di limone e zafferano e che era fresco al contatto con le dita. Marietta, invece, era calda. La sua pelle bruciava. E io massaggiavo e spalmavo la regione del cuore finché i pori assorbivano ogni goccia di unguento. Il suo cuore batteva all’impazzata – e anche il mio. Poi – sul seno, proprio dove sentivo più forte il battito – adagiavo un’ostia di arsenico cristallino avvolta in un fazzoletto e le dicevo di non muoversi finché non tornavo. Mi chiedeva: perché fai questo per me, Jacomo? Ogni tre, quattro ore entravo nel deposito della legna, le portavo una brocca d’acqua e la esortavo a bere anche se non aveva sete. Se Marietta cercava di tenermi lontano, le dicevo: non ho paura di te, vita della mia vita, anima mia. Poi mi chinavo su di lei per rinnovare il massaggio e seguire i progressi del morbo. La aiutavo a sfilarsi la camicia. La esaminavo, cercando l’ombra dei lividi che denunciavano la peste. Ma a ventidue anni la pelle bianca di mia figlia era punteggiata solo di efelidi. Le rimboccavo il vestito. Sapevo bene dove sbocciano i bubboni. Nell’incavo delle ascelle, nelle ghiandole alla base del collo, sull’inguine. Le mie mani non conoscevano la timidezza né la vergogna. Ero suo padre e il suo medico, il suo giudice e ogni altra cosa. Non c’era più nient’altro che il deposito della legna, il fruscio della pioggia sul tetto di assi, il silenzio spettrale della mia casa e della mia città assassinata. A volte mi pareva di essere rimasti soli al mondo – dopo una catastrofe che ci aveva, chissà perché, risparmiati. Non so quanti giorni è durato, quante ore – o attimi. È stato un sogno. A volte mi pare di aver sognato anche Marietta. Che non sia mai stata con me, né in questa stanza, dove ancora la aspetto, né nel deposito della legna, né altrove. Marietta voleva ascoltare la sentenza dalla mia voce. Neanche quando la ispezionavo ha mai evitato il mio sguardo. Ha sempre vissuto con coraggio, e questo almeno sono fiero di averglielo insegnato. Il suo alito sapeva di melissa e di rosa, il deposito di resina e aloe. Il profumo mi stordiva, il vapore che si levava dalle braci mi ubriacava, mi strappava a me stesso mentre con un fazzoletto intriso di aceto, canfora, arsenico e tiriaca le rinfrescavo le tempie, i polsi e le labbra. Oggi, se ripenso a quei momenti tremendi nella penombra del deposito della legna, in cui non sapevo se eravamo ancora vivi, o già morti, sospesi in un tempo che non era più di questo mondo, disperatissimi e però infinitamente liberi, vi ritrovo una dolcezza che non ho mai più conosciuto – e perdonami per questo, Signore. La mattina del terzo giorno – o fu il quarto, non ricordo – nella piega della pelle, alla radice della coscia, proprio dove cominciava la peluria della sua natura, ebbi l’impressione di sentire sotto le dita un rigonfiamento – non più grande di una lenticchia. Marietta dovette leggere il terrore nei miei occhi perché mi disse, serenamente: si vede che era il mio destino, Jacomo. Però non lasciarmi morire sola, ho paura di andare in un posto dove tu non ci sei. Un attimo dopo aggiunse, col sorriso malizioso che era la sua caratteristica a me più cara: ma se devo dirti la verità, papà, preferirei non morire. Sono troppo giovane. Devo fare ancora tante cose. Non ho ancora dipinto un’opera che mi darà la gloria, non ho mai visto nessun’altra città, non ho mai fatto l’amore. No? esclamai. No, Jacomo, l’amore non so cos’è, bisbigliò. Lo farai, scintilla, te lo prometto. Continuavo a tastare la pelle e a premere la lenticchia fra le dita. Mi dissi: non vedrò la malattia insultare la sua bellezza. Non permetterò a un lercio pizzicamorto di abusare di lei nella barca che la portava via. La ucciderà, piuttosto. E l’avrei fatto, Signore. Tenevo il pugnale nella cinta dei calzoni. Se la lenticchia fosse diventata una pustola sul suo corpo diletto, le avrei tagliato la gola. Quel giorno, accovacciato davanti al camino – mentre Faustina pregava sottovoce per le sue figlie, delle quali non aveva notizie – esaminai le possibilità che mi restavano. I rimedi dei medici e degli spezieri non erano serviti. Rimanevano solo le formule dei ciarlatani e le strigherie delle comari. Immergere Marietta nell’acqua salsa del mare per dodici ore, nel fango per sedici. Seppellirla fino al collo, nuda, e tenerla là sotto per ventiquattro ore, confidando negli umori benefici della terra – che ci è madre, grembo e nutrice. Procurarmi l’olio dello scorpione, mescolarlo col bolo armeno, polvere di corno di cervo, mucillagine di radici, mela cotogna rasura d’avorio, zenzero e carne di vipera, e farglielo bere col suo sangue mestruale. Oppure procurarmi fiele di talpa e sebo di bove, e farglielo bere con bava di porco e polvere di diamante grattugiato – facendo attenzione alle quantità perché una misura eccesiva le avrebbe lacerato e forato le viscere, mentre la dose cauta le avrebbe fatto uscire il male dagli intestini. Oppure al mattino farle bere due dita della sua urina, e alla sera d’acqua d’orzo, con un boccone di pane intriso d’aceto e sette cime di ruta; infilare un ago incandescente nella postiema e disinfettarla col pepe finché non cicatrizza. Valutai concretamente la possibilità di procurarmi quegli impiastri, di pagarli ogni prezzo. Mi sarei venduto i gioielli di mia moglie, la mia ammirata collezione – i calchi di Michelangelo, il quadro di Tiziano, le statuette di Giambologna, gli abbozzi di Vittoria e Sansovino, il mio angelo volante, le armature dei tempi di Marco Polo, le icone greche, i quadri di Bassano, Veronese, Schiavone, i miei quadri, la proprietà in campagna, la mia stessa casa. So che oggi questi rimedi apparirebbero fallaci o perfino criminali, ma io non avevo più nient’altro. Quando la sapienza è fallita, la scienza impotente, quando tutto è vano, cos’altro resta? Non ricordo perché rinunciai. Forse non c’era più tempo per tentare. Disperato, cercai rifugio alla Madonna dell’Orto. Mentre andavo verso la chiesa non incontrai nessuno – né sul rio né sul campo né sul ponte. Dove di solito si affollavano donne, ragazzi, nobili, popolani e forestieri l’unica cosa che si muoveva sui muri e sul selciato era la mia ombra. L’unico rumore che mi seguì fu quello dei miei stessi passi. Non si sentiva 10 11