Ho 18 anni, datemi una ragazza 1. Zhu Shang Molto tempo prima di trasferirmi in questo palazzo, avevo sentito parlare della mamma di Zhu Shang da quel vecchio depravato di Kong Jianguo. Diceva che era il suo ideale di donna, una bellezza senza pari. La prima volta che incontrai Zhu Shang, decisi che avrei fatto di tutto per dividere con lei la mia vita. A diciassette o diciotto anni non si ha il senso del tempo, quando si dice “vita” spesso si intende l’eternità. 2. Lezioni private “Tu sei ancora giovane, per questo non capisci. È qualcosa di molto, troppo importante. Rifletti, quando avrai la mia età è probabile che ti chiederai, dalla mia infanzia ad oggi, durante tutta la mia vita, ho mai incontrato una ragazza con un viso, un corpo, delle movenze che me lo facevano venire duro per forza, e dovevo montarle sopra ad ogni costo? E poi avrebbero anche potuto staccarmelo o farmelo a fette, deportarmi o sbattermi in galera? Beh, quel genere di ragazza è la tua donna ideale. Uno solo tra mille uomini a questo mondo si pone questa domanda, e tra mille che se lo chiedono uno solo risponderebbe di sì, e tra mille che rispondono di sì uno solo è riuscito a farsela. E quello che c’è riuscito, poi ha scoperto che, dannazione, non ne valeva la pena. Ma tu devi lo stesso impegnarti a trovarla, e a portartela al letto, perchè questo è carattere, questo significa avere un ideale, questo è essere più fico di tutti”. Era un pomeriggio d’estate, mentre Kong Jianguo mi faceva questo discorso, stavamo seduti contro il tronco di un grosso albero di sofora, lo stridio delle cicale che a tratti si alzava e a tratti si spegneva, era l’unico segno dello strisciare del tempo. Ogni tanto soffiava un alito di vento fresco ma il sole continuava a picchiare inclemente, in chiazze che piombando sulla terra nuda sollevavano nuvole di polvere riarsa. Un gran numero di lombrichi verdi che noi chiamavamo “spettri degli impiccati” avevano filato lunghe bave dalle foglie mangiucchiate di sofora e pendevano a mezz’aria, i corpi grassocci ondeggianti nel vento. Quel vecchio depravato di Kong Jianguo si era appena svegliato, era a torso nudo, sul corpo che poteva ancora definirsi muscoloso si gonfiava il ventre con l’ombelico sprofondato nel mezzo. Una cicatrice da coltello spiccava bianca e benevola sul suo viso. La cinta di pelle gli stringeva i pantaloni di terital, c’erano quattro buchi più consumati degli altri che, come gli anelli di crescita degli alberi, registravano l’evoluzione della pancia di Kong Jianguo: quello più interno si era consumato nell’estate di alcuni anni fa, poi nell’inverno successivo, poi c’era quello dell’inverno dello scorso anno e quello più esterno segnava il punto attuale. Di sicuro si era sdraiato sul lato sinistro per fare la siesta, la stuoia di vimini gli aveva lasciato dei segni chiari sul corpo, dove era rimasta anche appiccicata qualche pagliuzza. Aveva i capelli arruffati, dopo la tirata di cui sopra, si era acceso una sigaretta Da Qianmen e aveva tirato una boccata con le sopracciglia aggrottate. Mio padre mi aveva raccontato di aver ricevuto da piccolo un’istruzione privata, l’avevano ingozzato come le oche con Il classico dei tre caratteri, I cento cognomi, I mille poemi, i Quattro libri e i Cinque mantra, che lui aveva imparato a memoria e sapeva a menadito, senza aver capito una parola. Poi quando era diventato grande, gli erano tornati in mente, e poco alla volta li aveva compresi, come una mucca che rigurgita ruminando l’erba mangiata a mezzodì del giorno prima. Era molto fiero di sé quando adesso, scrivendo i rapporti per l’unità di lavoro, poteva infilarci dentro un paio di frasi del tipo “pensate allo scorrere dei secoli lungo il fiume del tempo”, le sue colleghe di meno di venticinque o più di cinquanta gli riconoscevano un talento classico. Quando quel vecchio depravato di Kong Jianguo mi aveva fatto il discorso, io non ci avevo capito un acca. Anch’io mi ero appena svegliato dalla siesta, nella mia testa c’era solo un pensiero: ammazzare le ore che mi separavano dalla cena. Le sue parole mi sembrarono particolarmente arcane. Se devi dire qualcosa dillo, ma senza tutte le domande retoriche, i parallelismi e le anadiplosi, che mi sembri un professore di lingua. Sì, era capitato anche a me, è come quando hai una smania nel cuore e ti viene l’impellenza di fare una cosa, quando ti scappa talmente che corri in punta di piedi per strada cercando un cesso, oppure hai cinque anni e muori dalla voglia di mangiarti uno dei biscotti Sachima che stanno sopra l’armadio, o quando per il tuo quindicesimo compleanno vorresti un paio di Nike alte da pallacanestro, in pelle bianca con il baffo blu. Perciò a pensarci adesso trovo spaventoso che se non ci fossero state le lezioni private di quel vecchio depravato di Kong Jianguo, la mia donna ideale sarebbe stata come il bagno quando stai per fartela sotto, un pacchetto di biscotti o un paio di scarponcini Nike di pelle bianca. 3. Prendete la svergognata Kong Jianguo era molto vecchio, avrà avuto venti o trent’anni più di me. Come per gli attori dell’opera, il momento di grazia di un delinquente dura quattro o cinque anni. Spesso succede che il vecchio che ai suoi tempi era stato in auge venga rimpiazzato dal giovane della generazione successiva, lo fanno diventare scemo con una mattonata, lo trapassano con un forcone, allo stesso modo in cui succede tra gli attori. Facendo un calcolo di età, secondo le regole della mala tra me e Kong Jianguo passavano almeno cinque o sei generazioni. All’epoca avevo diciassette o diciott’anni, proprio il momento che se i miei mi dicevano di andare a est, tu potevi star sicuro che correvo a ovest. Prima di trasferirmi nel palazzo, mia madre aveva sottolineato varie volte che la maggior parte degli inquilini erano brave persone, con loro si poteva essere gentili senza problemi, chiamarli nonno e nonna, zio e zia, prendere i dolci che ti davano e intascare i soldi se te ne offrivano, nessun rischio. Se i loro figli volevano attaccare briga, potevo usare il mio raziocino per valutare se ci guadagnavo qualcosa, e poi buttarmi nella mischia, niente colpi in viso ma mirare sotto la cintola e poi giù botte da orbi. C’erano però due gruppi da evitare accuratamente. Il primo era composto da due gemelle di minoranza coreana che facevano di cognome Che, le sopracciglia arcuate disegnate col pennello come colline in primavera e gli occhi lunghi e a mandorla, due punti con l’inchiostro. Di viso si somigliavano parecchio, portavano tutte e due i capelli lunghi oltre le spalle, ma erano molto diverse fisicamente. Una era piccola e delicata, con le curve al punto giusto. L’altra robusta, con un petto fuori misura. Così avevamo soprannominato la piccola “Che numero due” e l’altra “grande Che”. Eravamo all’inizio della riforma e dell’apertura economica, le due sorelle non si vestivano come gli Han ma in modi strani e fogge diverse, mia madre con quel suo sguardo acuto si era anche accorta che “portavano i braccialetti alla caviglia, che scampanellavano malevoli dingdang ”. Loro uscivano ed entravano sempre insieme, quando si infilavano nel portone, io mettevo giù il libro o il quaderno dei compiti, correvo al balcone e mi affacciavo per vedere il loro strano abbigliamento, per sapere chi si stavano portando in casa, per vedere la scriminatura netta dei capelli, con la bianca pelle della cute e le chiome lucide e lisce come l’olio sui due lati. A quell’epoca non c’era ancora lo shampoo “Head & Shoulders” e dove ora hanno costruito il quartiere residenziale Jingsong c’erano i campi coltivati. D’estate noi ci andavamo a caccia di libellule tra le piante di riso e gli ufficiali e i soldati della polizia armata ci allevavano i maiali e le pecore. Io mi lavavo i capelli con il sapone da bucato marca Faro, che quando ti strofinavi la testa ti sembrava fosse un pennello di setola di maiale n.1, quello della misura più grande. Eppure ricordo con chiarezza che le sorelle Che non avevano la minima traccia di forfora, i loro capelli erano come messi lucide su un campo fertile concimato bene. Su quei capelli lisci, l’occhio cadeva e non poteva non scivolare verso il basso. Il mio sguardo dai capelli scendeva sui loro petti bianchi come la neve che passavano lampeggiando e nella mia testa canticchiavo: “I piccoli coniglietti bianchi, oh così bianchi, con quelle orecchie ritte in alto”. E sapevo bene che a rizzarsi non erano certo le orecchie. A quel tempo mio padre si dava un gran daffare nell’unità di lavoro, lui rappresentava le masse e stava fuori tutto l’anno a farsi i suoi interessi guadagnando soldi. Mia sorella era una ragazzina posata che si era tagliata i capelli a spazzola per tener fresco il cervello. Era diligente da morire, ma non riusciva mai a essere la prima della classe. Anche se si fosse tagliata i capelli ancora più corti non sarebbe mai diventata quella che i suoi compagni definivano “una bestia da soma” (le secchione erano tutte chiamate “bestie da soma”) perciò lei stava a testa a bassa e sgobbava. Mia madre veniva da una famiglia di contadini, una volta cresciuta aveva trovato il modo di venire in città a fare l’operaia, diventando parte della classe dirigente del nostro Paese. Si portava a casa i guanti da lavoro di filo di cotone bianco che distribuivano in fabbrica e li disfaceva per farci delle magliette, che non riparavano dal vento né avevano la minima elasticità. Lei infilava il guanto che stava smontando sulla zampa di una sedia capovolta, poi ci si metteva seduta davanti, siccome si annoiava a morte a fare quel lavoro, cercava sempre qualcuno con cui chiacchierare. Il nostro televisore a quell’epoca era un 9 pollici in bianco e nero, a mia madre non piaceva guardare la televisione, il lunedì, il mercoledì e il venerdì diceva che i presentatori erano dei deficienti, il martedì, il giovedì e il sabato diceva che avevano 36 37