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Antologia 2008 - Iulm

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ANTOLOGIA <strong>2008</strong>: 12 AUTORI, 12 RACCONTI<br />

PREMIO SPECIALE UNDER19<br />

UNIVERSITA’ IULM<br />

A cura di Andrea Chiurato e Lucia Rodler<br />

Alice Gioia, Filippo Pozzoli, Andrea Govi, Lorenzo Lodi,<br />

Francesca Perozziello, Giusy Dente, Nicolas Lozito, Sara De Balsi,<br />

Claudia Masucci, Fabrizio Caracausi, Mizar Castello, Livia Satullo


PREMIO SPECIALE UNDER19<br />

UNIVERSITA’ IULM<br />

A cura di<br />

Andrea Chiurato e Lucia Rodler


SUBWAY <strong>2008</strong> - Premio Speciale Università IULM - Under19<br />

A cura di Andrea Chiurato e Lucia Rodler<br />

I dodici racconti pubblicati in questa antologia sono tratti dal corpus delle opere di<br />

Subway-Letteratura <strong>2008</strong>, una manifestazione letteraria ideata e realizzata dalla<br />

Associazione Laboratorio E20, grazie al patrocinio e al contributo del Comune di<br />

Milano, Assessorato allo Sport e Tempo Libero, e dell’Università IULM di Milano.<br />

Il presente volume, realizzato in esclusiva per l’Università IULM di Milano, è fuori<br />

commercio e la sua distribuzione avviene, gratuitamente, a cura del Servizio<br />

Orientamento Studenti dell’Ateneo (iulm.orienta@iulm.it).<br />

Progetto Grafico: Michele Marchesi - Solaris Comunicazione<br />

COPERTINA al TRATTO: Laura Stefanutti<br />

www.iulm.it www.subway-letteratura.org


INDICE<br />

INTRODUZIONE, di Giovanni Puglisi 5<br />

ELEMENTI DI VITA LIQUIDA, Prefazione di Lucia Rodler 7<br />

Anche con gli occhi si può urlare, di Alice Gioia 11<br />

La prima volta che muori, di Filippo Pozzoli 19<br />

H2O, di Andrea Govi 23<br />

Breve avventura parigina con digressioni su sperimentati livelli<br />

di pazienza delle cameriere cinesi, di Lorenzo Lodi 29<br />

Momenti in via d’estinzione, di Francesca Perozziello 41<br />

Mia nonna aspetta, di Giusy Dente 47<br />

Le parole del silenzio, di Nicolas Lozito 53<br />

Proprio ora, di Sara De Balsi 61<br />

Strade, di Claudia Masucci 69<br />

Milano come la sua pancia, di Fabrizio Caracausi 77<br />

Overdose, di Mizar Castello 83<br />

Innocente perversione, di Livia Satullo 93<br />

AGIRE PER SOTTRAZIONE, Postfazione di Andrea Chiurato 103<br />

GIURIA 105<br />

PARTECIPANTI AL PREMIO 106


INTRODUZIONE<br />

Giovanni Puglisi<br />

Rettore Università IULM<br />

Sono passati quattro anni da quando, abbracciando il progetto Subway<br />

Letteratura, l’Università IULM decise di istituire la prima edizione di questo<br />

Premio Speciale Under 19.<br />

Il Premio nacque per promuovere la creatività dei giovani, per stimolare la loro<br />

voglia di fare, per offrire una chance nuova a tanti scrittori in erba aiutandoli a<br />

realizzare il sogno di vedere pubblicato e distribuito, con numeri e meccanismi<br />

da best seller, il loro racconto. Queste motivazioni oggi non sono mutate anzi,<br />

se possibile, sono ancor più radicate di allora.<br />

Anche quest’anno sono stati davvero tanti i giovani aspiranti scrittori che, da<br />

tutta Italia, hanno deciso di concorrere al nostro Premio. Ogni volta, edizione<br />

dopo edizione, leggere, valutare, selezionare i loro elaborati è per noi, per la<br />

nostra Giuria formata in gran parte da docenti universitari, una straordinaria<br />

scuola di vita che ci permette di conoscere meglio il mondo, i sogni, le ambizioni<br />

ma anche le paure e i timori delle nuove generazioni. È bello constatare<br />

che i ragazzi degli SMS hanno ancora il desiderio di esprimersi con la scrittura<br />

in maniera creativa e non passiva offrendoci risultati interessanti, magari<br />

acerbi, mai banali.<br />

Talvolta me li immagino questi giovanissimi Under 19 che, con una passione<br />

straordinariamente genuina, rispondono di anno in anno al nostro bando. Mi<br />

capita di vederli al loro pc o con la penna in mano alle prese con una frase che<br />

magari non esce come vorrebbero. Me li vedo scrivere, cancellare, tagliare &<br />

incollare. E poi inviare il racconto, incrociando le dita.<br />

La palla, a questo punto, passa alla giuria. Quello del selezionare (un elaborato,<br />

nel nostro specifico caso) è un atto non semplice che richiede al selezionatore<br />

essenzialmente due qualità: serietà e competenza.<br />

Come è ormai tradizione, questo volume raccoglie e presenta il primo classificato<br />

e gli altri 11 racconti che la nostra giuria ha reputato più meritevoli fra<br />

tutti quelli concorrenti. L’augurio è che fra gli autori si nasconda anche quest’anno<br />

una firma destinata a far parlare di sé. È già accaduto: nelle passate<br />

edizioni abbiamo premiato due esordienti che successivamente hanno vinto il<br />

Campiello Giovani.<br />

5


ELEMENTI DI VITA LIQUIDA<br />

Prefazione di Lucia Rodler<br />

Docente Università IULM<br />

Per il quarto anno consecutivo un centinaio di ragazzi tra i quattordici e i<br />

diciannove anni partecipa al Premio Speciale che l’Università IULM conferisce<br />

in occasione della manifestazione letteraria Subway. Questa antologia<br />

raccoglie i dodici racconti selezionati da una giuria di lettori adulti come<br />

esperimenti complessivamente riusciti di scrittura creativa. A lavoro finito ci<br />

siamo accorti che la scelta è stata equamente distribuita tra scrittori e scrittrici<br />

e che i narratori suggeriscono alcuni motivi ricorrenti (le lacrime, la pioggia,<br />

l’acqua, la violenza) attraverso i quali è forse possibile indagare l’immaginario<br />

giovanile.<br />

1. Lacrime. Numerosi personaggi si abbandonano al pianto, mostrando<br />

quella sensibilità verso il mondo interiore che si sviluppa con la pubertà. La<br />

disperazione, la tristezza, la rabbia, la paura, la nostalgia, l’amore vengono<br />

sentiti con un’intensità tale da paralizzare la ragione e intenerire il cuore.<br />

Totalmente coinvolti da emozioni e sentimenti e perciò incapaci di prendere<br />

le distanze, i personaggi piangono, chiusi e preferibilmente soli di fronte al<br />

mondo.<br />

Ragazzi e ragazze non desiderano infatti esibire un corpo per così dire in<br />

disordine: i singhiozzi vengono trattenuti, i piagnucolii sono cose “da femmine”,<br />

entrambi rivelano fragilità e inadeguatezza (si vedano le pagine illuminanti<br />

dell’antropologo tedesco Helmuth Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca<br />

sui limiti del comportamento umano, 1982). Ma proprio una giovane<br />

riesce a dominarsi anche grazie a “una storia di sguardi” su corpi estranei.<br />

Con il gioco fisiognomico la protagonista di Strade può lucidamente “godersi<br />

i particolari” senza “porsi nessuna domanda”, procedere a piccoli passi<br />

“senza guardare a un metro dal proprio naso”. Sempre però in solitudine.<br />

A questa strategia di autocontrollo si contrappone l’occhio rassegnato con<br />

cui Olu, personaggio di H2O, scruta il cielo. Il piccolo non versa lacrime perché<br />

non ne ha: il suo corpo è avvizzito, secco, fino a quando una pioggia<br />

miracolosa gli bagna la fronte.<br />

7


2. Pioggia, nebbia, nubi. La vicenda di Olu introduce il secondo elemento<br />

liquido, cioè la pioggia che trasforma H2O in una fiaba, racconto di un<br />

mondo reso perfetto dalla magia. Nel segno opposto della violenza e della<br />

morte, vengono descritti la pioggia siciliana di fine estate in Innocente perversione,<br />

le “nubi grigie” e il “freddo umido” che avvolgono la protagonista<br />

bolognese di Overdose, che “vomita” lacrime prima di farsi una dose di<br />

eroina, e la nebbia accecante e gelida in cui guida sicuro il protagonista di<br />

Anche con gli occhi si può urlare. Ma pure in situazioni più quotidiane, di<br />

giorno come di notte, il cielo si intona allo stato d’animo dei protagonisti.<br />

Basta pensare alla combinazione di pioggia e lacrime in Filippo Pozzoli,<br />

ma anche ai “momenti” di tristezza proposti da Francesca Perozziello.<br />

Questi fenomeni fisici valgono anzitutto come suoni nel senso che, insieme<br />

alla musica, riempiono il “silenzio delle parole” (modificando il titolo di<br />

Lozito) di racconti che sono quasi tutti monologhi o dialoghi minimi, per lo<br />

più tra stranieri, spesso infastiditi (a Londra così come a Parigi), e tra giovani<br />

incapaci di ascolto (in Mizar Castello). Ma oltre a ritmare il tempo, la<br />

pioggia e il pianto trasformano l’acqua in vera protagonista dello spazio di<br />

queste avventure.<br />

3. Acqua. Un’umidità diffusa domina sia le ambientazioni familiari predilette<br />

da circa una metà degli autori (che immaginano una vita soprattutto fuori<br />

casa), sia la Parigi di Lorenzo Lodi (che si arrabbia quando deve pronunciare<br />

eau, ma ritorna a sognare proprio lungo la Senna), sia i paesi “scoperti”<br />

dalla cultura globale (Cina e Africa). A parte l’acqua fiabesca che “cambia<br />

casa”, questo elemento è carico di suggestioni: da una parte può rappresentare<br />

la fluidità di una vita giovane che scorre alla ricerca di un’identità<br />

(sembrano confermare questa ipotesi – riconducibile al poliedrico studioso<br />

francese Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque, 1942 – Lorenzo Lodi<br />

e Fabrizio Caracausi che conclude una dichiarazione d’amore sensuale fantasticando<br />

su una barca a vela in acque limpide e cristalline); dall’altra dà il<br />

senso della precarietà, di una condizione di continua incertezza. E, a leggere<br />

gli altri racconti, si può dire che i giovani autori soffrano per situazioni che<br />

si consumano troppo in fretta: amicizie, amori, affetti, desideri, incontri procedono<br />

a ritmo incalzante, senza che sia possibile fare affidamento su un<br />

futuro di consolidate abitudini, con le stesse persone, negli stessi luoghi:<br />

persino l’unica mamma presente (piangente) in questa antologia non è tale<br />

sino in fondo. Quella che il sociologo polacco Zygmunt Bauman (Vita liquida,<br />

2005) ha definito vita liquida richiede infatti di ricominciare sempre da<br />

capo, di mettere in gioco un’identità che si fa e si disfa continuamente perché<br />

le circostanze cambiano in modo imprevedibile.<br />

8


4. Violenza. Forse per questo i personaggi piangono di fronte a una morte<br />

ora fisica ora psicologica, che resta magari solo sullo sfondo (nella Londra<br />

degli attentati di Sara De Balsi, nella Cina nelle sopraffazioni familiari di<br />

Nicolas Lozito, nel sud Italia incestuoso di Livia Satullo). Anche il linguaggio<br />

descrive un mondo violento, con la precisione di Momenti in via d’estinzione<br />

(sfondare la faccia, tirare calci, incenerire lo sguardo, gridare, puntare il<br />

fucile dietro le spalle, sgozzare), la tensione metaforica di Overdose (sentire<br />

sibilare le armi, trafiggere i polmoni con grosse punte, inghiottire gli altri,<br />

attraversare le fauci sono alcuni esempi dello stile figurato di Mizar Castello)<br />

o la spontaneità della Breve avventura parigina (punteggiata da interiezioni<br />

di registro basso). Non è un caso infine che venga prediletta l’antitesi, cioè<br />

la contrapposizione di concetti attraverso la corrispondenza di parole o segmenti<br />

di frase di significato opposto: la luce e il buio segnano l’esordio di<br />

Strade che si conclude con una sentenza a incrocio sul partire e il tornare,<br />

le parole e il silenzio vengono combinate nel titolo ossimorico di Lozito; e<br />

ancora il pensiero binario modella i contenuti – vicino/lontano di Caracausi,<br />

maschera/faccia di Castello, italiano/stranieri della De Balsi e di Lodi, vecchi/giovani<br />

della Dente e della Satulli, acqua/siccità di Govi, uomo/donna di<br />

Lozito, partire/tornare della Masucci, amore/morte di Pozzoli,<br />

bambino/uomo della Satulli – e alcune delle strutture narrative meglio riuscite:<br />

le storie incrociate della Gioia, quelle parallele di Govi, le sequenze discontinue<br />

della Satulli e la prosa alternata ai versi di Lozito. Forse il ragionamento<br />

oppositivo, che peraltro caratterizza l’età giovanile, assume qui<br />

anche il valore di un ancoraggio rispetto alla liquidità postmoderna di situazioni<br />

e stili di vita (“nulla attorno a me mi permette di aggrapparmi”, afferma<br />

la protagonista di Overdose): come a volere solidificare in un ordine provvisorio<br />

cose ora bianche ora nere. Ma le lacrime, la pioggia, la nebbia, le nubi<br />

dicono che la vita liquida preferisce le tonalità indecidibili del grigio.<br />

9


Racconto vincitore<br />

Premio Speciale Università IULM - Under19<br />

Alice Gioia<br />

Anche con gli occhi si può urlare<br />

GENERE RACCONTO INCROCIATO<br />

1 RACCONTO DA<br />

4 f e r m a t e


Alice Gioia<br />

Io non voglio né vincere né perdere, solo che tu mi ricordi.<br />

Lee, da Comici Spaventati Guerrieri<br />

Stefano Benni<br />

Mi chiamo Alice Gioia e ho diciannove anni. Frequento la facoltà di Lettere<br />

e Filosofia dell’Università di Pavia, città nella quale abito cinque giorni alla<br />

settimana, presso il collegio Ghislieri.<br />

Nella scorsa edizione di Subway, il mio racconto ISTANTInMETRO è stato<br />

pubblicato nella sezione Under 19 ed è uno di quelli scelto per la realizzazione<br />

di un cortometraggio nell’ambito dell’iniziativa Freeway (non mi sto<br />

vantando, è solo che questo è il punto forte del mio curriculum!). Inoltre da<br />

qualche mese collaboro con un quotidiano locale, la Provincia Pavese.<br />

Se nella presentazione dell’anno scorso mi dichiaravo indecisa sul futuro,<br />

ora lo sono più che mai, anche se rimango ferma nel mio proposito di provare<br />

a fare la scrittrice e/o la giornalista.<br />

Ho pensato di partecipare nuovamente a questo concorso perché avevo<br />

una storia da raccontare, forse banale, ma che potrebbe far riflettere qualche<br />

ragazzo della mia età, e non solo. E che sottolinea l’importanza di un’iniziativa<br />

come quella dei “bus by night”, promossa dal comune di Milano, per<br />

riaccompagnare a casa i ragazzi che escono dalle discoteche.<br />

Ma giuro che non avevo intenti moralizzanti: è solo una storia, che ho scelto<br />

tra le infinite possibilità che i miei tre personaggi, Davide, Paolo e Lucia,<br />

mi hanno messo davanti.<br />

E non so se è la migliore, so solo che è ciò che è successo davvero. Nella<br />

mia mente. Nel buio della notte, sulla soglia dei sogni.


Anche con gli occhi si può urlare<br />

Non sa (nessuno può sapere)<br />

la mia innumerabile contrizione e stanchezza.<br />

Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano<br />

La penombra della chiesa è umida di pianto.<br />

Le parole del parroco scivolano addosso, accarezzando le schiene<br />

incurvate dal dolore.<br />

Intravedo, tra le lacrime, le teste di tante persone affollare le navate.<br />

Fuori fa freddo, c’è un vento che ti ghiaccia le palle. Davanti al locale è<br />

pieno di gente che si spinge per entrare.<br />

Ehi, fratello, stai calmino, perché prima o poi entriamo tutti, non mi far<br />

venire la nevra prima ancora di iniziare.<br />

Il fiato esce gelato, e già che tanfa d’alcool: qualcuno si è fatto una puntatina<br />

al bar della piazza, prima di venire al Ponte. C’è uno che salta sul<br />

posto e impreca, perché per fare lo splendido ha lasciato il cappottino firmato<br />

in macchina.<br />

Ma Paolo e Davide e il resto della Cumpa stanno tra i Vips, dove la fila<br />

scorre più veloce.<br />

Io c’ho il tavolo prenotato nel privé, baby, non so se mi spiego.<br />

Appena dentro ti avvolge un tepore che odora di sudaticcio. Devi abituarti<br />

alla penombra sfavillante della discoteca, al rombo della musica<br />

che fa ribollire il sangue.<br />

E poi via tutto, ci si lancia in pista. Perché al Ponte c’è la vita, ragazzi.<br />

E le più belle della zona, che si contorcono sul cubo tutta la notte.<br />

13


E anche tanta bumba.<br />

O storia.<br />

O jiva.<br />

O come la chiamate, voi, la polvere magica che fa sbarellare.<br />

E la musica pompa, eccome se pompa.<br />

Nel silenzio rimbombano passi.<br />

Paolo, sei tu?<br />

No, non può essere lui. È il prete che si siede, commosso, dopo l’omelia.<br />

Sento l’acqua scendere lungo le tubature e i respiri della gente gonfiarsi,<br />

salendo fino alla cupola azzurra. Piego la testa sulle ginocchia, per<br />

soffocare i singhiozzi. Mi manca il fiato.<br />

Tu mi capiresti, Paul, almeno tu.<br />

Dove sei adesso?<br />

Tutti stanno ridendo, tutti tranne Paolo, che è svaccato in un angolo,<br />

tiene su la testa con due dita appoggiate alle tempie.<br />

La botta sta calando, Paolo è in fissa, gli occhi sbarrati davanti a sé.<br />

Sente le risate degli amici, le prese in giro e i commenti sulla tipa che<br />

balla sul cubo.<br />

Cerca di concentrarsi su un’idea. Pensa alla cubista, la vede sfilarsi la<br />

fatale minigonna, ammiccando verso di lui.<br />

Qualcuno gli passa una mano davanti agli occhi e lo scrolla, Paul sei in<br />

fissa? E tutti giù a ridere. Si sistema meglio sul divanetto leopardato,<br />

allunga una mano verso il bicchiere di birra, la sente fredda sotto le dita.<br />

La musica è sempre più alta. Qualcuno barcolla e rovescia un drink sul<br />

pavimento. Paul beve un sorso e muove le dita a tempo.<br />

Scaccia con un’alzata di spalle il pensiero che gli ricorda da quanto<br />

tempo non ha una ragazza. Forse chiamerà Cristina, prima o poi. Ma<br />

quella è una tipa di lusso, e lui lo sa che non la merita. E allora gli brucia<br />

dentro qualcosa, una rabbia forse; e il sorriso diventa un ghigno, e sa<br />

di essere orribile, con gli occhi sbarrati e quel ghigno, e spera che nessuno<br />

se ne accorga.<br />

Scrolla ancora le spalle, si rilassa sulla sedia e beve un altro sorso, e ride di<br />

una battuta che Davide gli urla nell’orecchio, per sovrastare la musica.<br />

Davide è il suo migliore amico, ed è questa l’unica cosa che conta davvero.<br />

E allora sì che va meglio.<br />

14


Gli annunci mortuari dovrebbero essere solo per i vecchi. Per le Pine e<br />

i Guglielmini che, all’invidiata età di novantotto anni, lasciano figli e<br />

nipoti.<br />

Non vanno bene per le persone giovani. Forse è quel nome, che hai<br />

usato così spesso, a sembrare fuori luogo. E poi poche parole, sempre<br />

le stesse, per riassumere una vita.<br />

Non era “un figlio devoto”. Era bello, e giovane, e aveva dita lunghe e<br />

sottili.<br />

Non è “dolore”, non basta. È assenza straziante. E rabbia. E un grido<br />

strozzato in gola. Unghie che lacerano la pelle, e mal di testa da impazzire,<br />

dopo una notte di pianto.<br />

Forse gli annunci servono soltanto a sbatterti in faccia la realtà, nero su<br />

bianco. Ti fanno avere la certezza che tutto è davvero finito. Che non ci<br />

saranno più risate, e baci, e carezze. Che la sua voce, il suo sorriso, la<br />

curva morbida del suo collo sono solo ricordi. Cancellati dalla vita di<br />

ogni giorno, per non impazzire. Cullati nel buio della notte, sulla soglia<br />

dei sogni.<br />

Una notte gelida avvolge la Cumpa fuori dal locale. Le fanciulle si stringono<br />

tra loro, maledicendo le minigonne giropassera che lasciano le gambine<br />

nude. I ragazzi si scaldano con parolacce e sigarette tra le dita.<br />

Una delle ragazze si avvicina tacchettando a Paolo e Davide.<br />

Ma come, Paul, guidi tu? Vi porto a casa io, non ho bevuto.<br />

Paolo ride. Dai, Lucia, smettila, non sono mica un imbecille qualsiasi,<br />

cosa vuoi che mi faccia un tiro di jiva.<br />

Davide deposita un bacio umido sulle labbra della ragazza, che non insiste<br />

e lo guarda con gli occhi grandi, e si stringe nel cappotto.<br />

Le portiere sbattono, un ciao scricchiola nell’aria. Lucia rimane a guardare<br />

l’auto che si allontana sgommando, e pensa che è l’ultima volta che<br />

li lascia andare a casa in quelle condizioni.<br />

Un mozzicone di sigaretta, lanciato dal finestrino, per un istante illumina<br />

l’asfalto.<br />

Fuori, sul sagrato della chiesa, alcuni ragazzi della Cumpa fumano una<br />

sigaretta.<br />

Mi avvicino a loro, mentre la gente esce, urtandomi.<br />

Fingono di non essere provati, ma hanno qualcosa di innaturale nei<br />

15


movimenti.<br />

Una mano trema e la sigaretta cade. La cenere ha un colore rosso, scintillante,<br />

per un attimo. Poi scompare, schiacciata sotto una scarpa.<br />

Colpa della nebbia, non c’è storia.<br />

E del ghiaccio sul vetro della macchina.<br />

Non sono gli occhi che bruciano, la testa che fa male, il ronzio nelle orecchie.<br />

È ‘sta nebbia che non ti fa concentrare, perché non si vede davvero<br />

un accidente.<br />

Davide alza la musica dell’autoradio, senti questa come spacca. Senti che<br />

sound, Paul.<br />

Paolo stringe il volante e fa finta che vada tutto bene, e che non ha le dita<br />

gelate, e che è sicuro e che ci vede bene, e si sporge per pulire il vetro con<br />

la manica e<br />

Quando apre gli occhi, sta cercando ancora di spingere sul pedale del<br />

freno.<br />

Ma fa male, troppo male.<br />

L’airbag preme contro il petto.<br />

Sente il freddo, pungente.<br />

E bagnato, e pezzi di vetro tra le dita.<br />

E fumo, e puzza.<br />

E un dolore atroce.<br />

Chiama Davide, piano, per vedere se gli esce la voce, se non è uno di quegli<br />

incubi in cui urli e nessuno ti sente. Poi dice Davide sempre più forte,<br />

e grida DAVIDE, e non si volta a guardare, non lo vuole sapere perché<br />

non risponde DAVIDE DAVIDE, ti prego rispondi.<br />

E allora piange, e non riesce a muoversi, e non sa cosa fare e urla così<br />

tanto che la voce si riduce a un sussurro strozzato.<br />

Qualcuno, da fuori, gli dice di calmarsi, che sta arrivando l’ambulanza.<br />

Gli chiede se sta bene, se sente dolore.<br />

Paolo non risponde. Fissa il buio davanti a sé, con gli occhi pieni di<br />

lacrime.<br />

Una sirena attraversa la notte.<br />

Qualcuno apre la portiera. Paolo si lascia cadere sulla strada piena di<br />

vetri e ghiaccio, e vomita, e si accascia sul fianco e singhiozza NON<br />

16


VOLEVO LUCIA, qualcuno lo tiene per mano e gli accarezza la testa.<br />

Mi spiace, non volevo, Lucia, ti giuro…<br />

Poi tutto si confonde, e sparisce.<br />

Paolo arranca con le stampelle, instabile sui ciottoli della piazza, fino ai<br />

gradini del sagrato.<br />

Gli altri abbassano lo sguardo, imbarazzati.<br />

Scendo lentamente verso di lui.<br />

L’unica cosa sensata, adesso, sarebbe mettersi a urlare. Uno davanti<br />

all’altra, Paolo davanti a Lucia.<br />

Ma anche con gli occhi si può urlare.<br />

Lo stringo forte.<br />

17


Filippo Pozzoli<br />

La prima volta che muori<br />

GENERE VITA<br />

1 RACCONTO DA<br />

1 f e r m a t e


Filippo Pozzoli<br />

Filippo Pozzoli, autore del racconto La prima volta che muori, nasce a<br />

Lecco il primo febbraio 1989. A sedici anni, al suo terzo anno di liceo<br />

scientifico, si scopre avvezzo alla scrittura, trovando il suo terreno nei racconti<br />

brevi che ama improvvisare senza metro o impostazioni stilistiche<br />

predefinite, ma sempre animato dal piacere dello sperimentare, forte di<br />

ispirazioni o idee proprie che costruisce o smonta in parole.


La prima volta che muori<br />

La prima volta ti svegli e potrebbe essere il giorno prima. Soliti abiti stropicciati<br />

tra sedia e comò, solito caffé freddo e stantio nella moka, solito<br />

bagno occupato dal solito padre architetto. Solito quarto d’ora, borbotterebbe<br />

la sveglia se potesse parlare. Tutto nella consueta imperfezione<br />

d’ogni risveglio. Zaino, scarpe e sei fuori casa, sul treno al volo, già sudato.<br />

Prassi impeccabile. Due passi e sei a scuola, giusto il tempo di tirare<br />

il fiato e di un cappuccio da Franco, il barista che da tempo non ti chiede<br />

più cosa prendi. E mentre t’avvii al calvario di scale per le quotidiane cinque<br />

ore tra sonno e tortura, alla solita aula del solito piano, senza pensarci<br />

alzi lo sguardo dall’abituale punta di scarpe, e ti fermi.<br />

Perché questo, il giorno prima, non era successo. Un’amena moretta ride<br />

con le amiche, giunte puntuali nell’atrio. La conosci da tempo ma non ti<br />

eri mai fermato a guardarla, così, tra folla, pareti e corrimano. Non sai<br />

cosa succeda, ti senti strano, un tantino ebete ma non ti spiace per niente.<br />

L’ebbrezza della follia, la chiami mentre vaneggi su te stesso riprendendo<br />

a camminare, un poco più sbilenco. Folle, pazzo, ubriaco. O innamorato.<br />

Chiamati come vuoi. Ancora non lo sai, ma oggi ci sei cascato<br />

anche tu.<br />

La prima volta vorresti che la tua vita fosse un film di cui tu stesso il regista,<br />

ma non come, in fondo, lo siamo tutti. Vorresti essere chi sceglie le<br />

inquadrature, il sottofondo musicale, la velocità con cui lo sguardo di un<br />

fantomatico pubblico scivolerebbe a forza lungo i vostri corpi avvinghiati.<br />

È normale, pensi, chi non ha imparato a baciare dai film? E così ti<br />

improvvisi una bomba di savoir-faire, di chi per baciare è nato. Chiudi gli<br />

occhi, ma sbirci di tanto in tanto se lo fa anche lei. Nel copione è scritto:<br />

“abbraccio sensuale”, ma non sai dove mettere le mani, così vada per l’e-<br />

21


vergreen della salda presa appena sopra la vita. Immagini un motivo lento<br />

e romantico a sostenere una languida voce sommessa, ma il traffico della<br />

strada accanto si dimostra ben poco incline a soddisfarti. È la prima volta,<br />

cosa pretendi? Va avanti e bacia. Quando fermarsi? Sorridi sornione: la<br />

regia non intende gridare: “Stooooooop! Buona la prima!”.<br />

E poi la prima volta, sì, la prima volta per definizione, ti senti tra il vuoto<br />

e il deluso. Sogni quel momento da anni, nella sana perversione d’adolescente,<br />

ora ci sei dentro e stai andando alla grande, a sentire i gemiti di<br />

lei! Sei orgoglioso, ma non troppo. Dovresti essere eccitato alla follia,<br />

chiudere gli occhi ed abbandonarti al tunnel della frenesia, della droga<br />

che non ti consuma, ma non lo sei, non ce la fai. Ti senti quasi stoico nella<br />

tuo ascetico aplomb, di chi alle passioni non s’abbandona. In realtà sei<br />

una bestia, feroce, carnivora, proprio come ti sei sempre sognato in<br />

amplessi prestante, solo non te ne rendi conto. È la prima volta e ancora<br />

stenti a capire che lo sia, per quanto tu possa accelerare, per quanto tu<br />

voglia correre, per quanto tu voglia osare. È la tua prima volta e una<br />

prima volta c’è sempre, ma nessuno sa quando arriva.<br />

La prima volta di solito piove, e tu sei accovacciato su un marciapiede, da<br />

solo, quasi fosse un videoclip di qualche triste canzone mediocre. Non<br />

siete fatti l’uno per l’altra, qualcosa è morto dentro di lei, forse è meglio<br />

fare un passo indietro e tornare amici, seppure amici non lo siete mai<br />

stati. È la prima volta, ma, non sai come, ti pare d’aver già udito quelle<br />

parole, da qualche parte. Le ascolti senza ascoltarle, perché non importano.<br />

È finita, e di come e di perché non ti curi granché. Lei se ne va e tu<br />

rimani solo, sulle ginocchia, e comincia a piovere. Anche tu cominci a piovere,<br />

un liquido amaro che un tempo credevi da femmine. Lacrime, pioggia<br />

e la fine. Sì, la fine. Fine della storia, fine del film. La prima volta che<br />

sigla la fine alla tua prima volta.<br />

Ti innamorerai ancora, bacerai ancora, farai ancora l’amore e questa volta<br />

l’esuberante istinto saprà farti cacciatore e preda. Ma sarà una seconda<br />

volta, una delle tante. E la prima volta è morta, quella gran chimera suicida,<br />

quella che c’è sempre e non sai quando arriva, quella che è una, la<br />

prima, e poi basta.<br />

Signore e signori, la prima volta è finita.<br />

Anche tu sei finito, mentre continua a piovere e singhiozzi e inali l’umidità<br />

acre di catrame. Non ti alzerai da lì, da quel cordolo nero. Perché ora sai di<br />

aver amato. E la prima volta che ami, lo sai, è la prima volta che muori.<br />

22


Andrea Govi<br />

H2O<br />

GENERE FAVOLA GLOBALE<br />

1 RACCONTO DA<br />

2 f e r m a t e


Andrea Govi<br />

Mi chiamo Andrea Govi,<br />

frequento il secondo anno di liceo scientifico a Forlì. Penserete che voglia<br />

un futuro di numeri ma, tolti gli esercizi di algebra a scuola, gli unici numeri<br />

che mi rimangono sono quelli delle pagine dei libri che adoro leggere.<br />

Amo scrivere e andare in barca a vela, e spesso le due cose si fondono in<br />

un racconto. Per me scrivere è lasciare un’impronta sull’immensa superficie<br />

del mondo, un’impronta calpestata continuamente da altre migliaia, molto<br />

più definite e pesanti, ma comunque indelebile.<br />

Scrivere è uno strumento per far riflettere gli altri e me stesso. Scrivere è un<br />

luogo dove potersi spogliare dello stress quotidiano e poter pensare.<br />

Non sempre quello che scrivo piace, accontenta, spesso annoia, impressiona,<br />

ma per me l’importante è farlo, non per scrivere ciò che piace ma per<br />

scrivere ciò che penso.


H2O<br />

L’acqua scendeva abbondante e bollente turbinando nello scarico della<br />

doccia del ragionier Righetti.<br />

La schiuma intasava lo scarico e l’acqua, esageratamente alta, faceva<br />

fatica a scendere giù nel tubo.<br />

Sulle piastrelle candide della doccia si stava compiendo una battaglia<br />

tra gli elementi. La schiuma dello shampoo turbinava vorticosamente,<br />

un momento era spinta nello scarico dal getto potente, un momento<br />

riaffiorava e girava ancora più forte. Il livello dell’acqua cresceva sempre<br />

di più dal fondo della doccia, ma non usciva una sola goccia sul pavimento<br />

del bagno.<br />

Il ragionier Righetti era molto fiero della sua nuova doccia ultra-potente<br />

che ti travolgeva con i suoi getti da tutti i lati facendo scrosciare quattro<br />

volte l’acqua di una doccia normale.<br />

Sembrava che ogni singola piastrella del muro spruzzasse acqua, come<br />

se quei sottili rettangoli di ceramica bianca trattenessero un fiume.<br />

L’idromassaggio automatico modulava i getti che però tornavano sempre<br />

a incontrarsi sul loro obiettivo: la soddisfazione del ragioniere.<br />

L’acqua era ovunque, copiosa, limpida, creava una confusione estremamente<br />

piacevole.<br />

Una lampada a led cambiava continuamente colore a seconda degli<br />

umori del ragioniere, le essenze dell’aromaterapia e il bagnoschiuma si<br />

confondevano tra le luci e le bolle leggere.<br />

Era sotto l’acqua già da molti minuti, ma gli sembrava di essere appena<br />

entrato, di avere appena aperto il rubinetto. Si insaponava, si sciacquava<br />

e si insaponava di nuovo, alternando il bagno schiuma alla saponetta.<br />

A volte, quando il piacere si attenuava, raffreddava l’acqua per qual-<br />

25


che secondo, per poi riscaldarla al massimo e poter provare il piacere<br />

di gettarsi sotto la doccia dopo una lunga giornata d’inverno.<br />

La doccia era il momento della giornata che Righetti preferiva; dentro<br />

quella cabina di vetro era un re, con quella cabina usciva dallo squallido<br />

appartamento del centro, più grande in altezza che in larghezza, in<br />

quella cabina era convinto di venire a contatto con la libertà, con la<br />

pace, con la felicità.<br />

Gli scienziati dicono che l’universo si sta espandendo ma quando arriverà<br />

un certo momento, forse lo stesso che i Vangeli chiamano<br />

Apocalisse, si ripiegherà su se stesso, oppure si frammenterà distruggendosi<br />

definitivamente dopo che si era allargato per un tempo immemorabile.<br />

E proprio così successe per la doccia del signor Righetti. Non<br />

che una doccia abbia l’importanza di un universo, ma nel suo piccolo<br />

fece più o meno lo stesso effetto.<br />

I capelli radi del ragioniere si risollevarono lentamente, come se la<br />

forza che li opprimeva inzuppandoli fosse sparita. Infatti l’acqua aveva<br />

smesso di uscire dai rubinetti, i getti si erano esauriti. La nuova doccia<br />

ultimo modello aveva iniziato la sua contrazione cosmica.<br />

E al ragioniere non restava che alzare il viso insaponato verso i getti,<br />

che non c’erano più, cercando di capire se fosse un incubo o realtà.<br />

Del fragore passato non era rimasto nulla: non cadeva neppure una<br />

goccia.<br />

Non cadeva una goccia d’acqua da settimane e Olu era molto preoccupato,<br />

come tutti nel raggio di decine di miglia.<br />

Ormai le scorte d’emergenza erano finite, Olu e la sua famiglia stavano<br />

per avvizzire come le piante, secche ormai da settimane.<br />

I vecchi del villaggio erano gli unici a riuscire a girare ancora sotto il<br />

sole cocente, urlando la sciagura. La loro pelle incartapecorita, a quanto<br />

pareva, non poteva essere più secca e asciutta e non sembrava essi<br />

risentissero particolarmente della catastrofe.<br />

Olu stava camminando in mezzo alla sabbia ardente come tutti gli altri,<br />

era da ore che camminavano, trascinando i piedi, per cercare un sorso<br />

d’acqua, per garantirsi qualche altra ora di vita come gli animali selvatici.<br />

Il gruppetto di profughi diventava ogni metro meno numeroso, man<br />

mano che i più deboli cadevano a terra, senza la forza di proseguire,<br />

26


agonizzando negli ultimi attimi di vita distesi sulla sabbia infuocata.<br />

Il sole picchiava troppo forte sulla testa di Olu, la sabbia era troppo<br />

calda, le miglia da percorrere erano troppe. Lentamente il piccolo Olu<br />

si accasciò al suolo, più per disperazione che per mancanza di forze, e<br />

vi rimase disteso guardando i suoi compagni allontanarsi. Non valeva la<br />

pena di combattere, il dolore sarebbe solo aumentato, la fatica e la sete<br />

ancora di più, era meglio attendere la morte in silenzio, in pace, aspettando<br />

che se ne occupasse un avvoltoio, o un animale selvatico, o semplicemente<br />

il tempo.<br />

Il ragionier Righetti era furibondo, non si capacitava dell’accaduto,<br />

eppure la sua nuova super-doccia era garantita, si guardava intorno<br />

come un animale in gabbia cercando un possibile guasto, come era possibile?<br />

Non era possibile, la doccia che ancora non aveva finito di pagare<br />

e per cui aveva fatto tanti sacrifici era rotta… Un guasto era molto<br />

improbabile, un’improvvisa siccità idem, in Africa si moriva di sete e si<br />

puzzava come animali, non in un appartamento a poche fermate di<br />

metropolitana da Piazza Duomo, dove ogni cittadino pagava le tasse per<br />

potersi godere la doccia!!!<br />

Olu era sfinito, ormai era giunta la sua ora, alzò gli occhi al cielo, in collera<br />

con esso e, strizzando gli occhi per il sole, vide delle nubi addensarsi<br />

sulla sua testa. Era sicuramente un miraggio, una dolce distrazione<br />

dal dolore della sua mente stanca, ma si accorse che una goccia<br />

stava cadendo verso di lui, veloce, limpida. Sentì il colpo freddo sulla<br />

fronte insabbiata con una gioia immensa.<br />

Insieme a essa ne cadevano molte altre e presto la sabbia era trasformata<br />

in fango da un potente temporale. Olu si alzò e iniziò a correre e<br />

a saltare cantando come tutta la gente intorno a lui, erano salvi, era un<br />

miracolo, il più bel miracolo a cui avesse mai assistito.<br />

Ed era proprio del “miracolo” che parlavano tutti i telegiornali del<br />

mondo in quel momento, preoccupati o felici: era successo un fatto stranissimo,<br />

l’acqua aveva cambiato casa, o almeno si era distribuita equamente<br />

su tutto il pianeta, regalando la vita ad alcuni e togliendo una<br />

delle docce settimanali ad altri.<br />

Gli scienziati, non sapendo spiegare il fenomeno, parlavano di orbite<br />

27


alterate o strati dell’atmosfera (inventati sul momento) distrutti, mentre<br />

il presidente degli USA annunciava il fatto come un grave attentato<br />

verso l’industria americana.<br />

Per una volta al mondo erano tutti o quasi tutti felici o comunque attenti<br />

verso la stessa cosa, erano tutti davanti ai televisori, erano tutti al corrente<br />

della notizia, a parte il ragionier Righetti che, seduto sulle piastrelle<br />

bagnate, non capiva come la sua costosissima doccia si fosse<br />

potuta rompere e come le uniche gocce sul pavimento in ceramica<br />

potessero essere quelle provenienti dai suoi occhi.<br />

28


Lorenzo Lodi<br />

Breve avventura parigina<br />

con digressioni su sperimentati livelli<br />

di pazienza delle cameriere cinesi<br />

GENERE BREVE RACCONTO DI CRESCITA<br />

1 RACCONTO DA<br />

4 f e r m a t e


Lorenzo Lodi<br />

Salve! Mi chiamo Lorenzo Lodi ho diciotto anni e frequento il quinto anno del<br />

liceo scientifico Giacomo Ulivi di Parma.<br />

Sono venuto a sapere di questo concorso leggendo il bando esposto nell’atrio<br />

della mia scuola e mi ha molto interessato per l’idea del leggere in<br />

metropolitana. Mi è piaciuta l’idea di valutare la lunghezza del racconto in<br />

fermate di metrò e non in pagine. Purtroppo però sono venuto a conoscenza<br />

del concorso giusto una settimana prima della scadenza per la consegna<br />

e tra gli impegni scolastici e il resto ho dovuto scrivere di notte.<br />

Insomma che ora mentre scrivo è il quindici febbraio e sto sperando che la<br />

posta non chiuda, che metta il timbro giusto e di far in tempo a far tutto per<br />

riuscire a inviarlo entro i limiti. Anche per questo la seguente apparirà un po’<br />

affrettata e piena di errori di battitura.<br />

Perché ho deciso di partecipare?? L’ho detto: perché mi è piaciuta l’idea di<br />

Subway Letteratura, perché c’era un concorso apposta per chi ha meno di<br />

diciotto anni e, ovviamente, perché adoro scrivere.<br />

Riguardo al mio testo non c’è molto da dire… insomma non spetta all’autore<br />

(che bello scrivere autore sapendo che è riferito a me!) il momento critico.<br />

È il racconto di un momento di crescita di un ragazzo di diciassette anni,<br />

il tutto nasce da un scherzo, una sorta di prova organizzata dal fratello e finisce<br />

che il protagonista si ritrova in una Parigi estranea tra momenti di disperazione<br />

e di libertà. Ho cercato di dare l’idea di un personaggio che cresce<br />

senza voler moralizzare: è un episodio di vita, divertente, drammatico,<br />

buffo… il protagonista certo non lo scorderà. Spero nemmeno il lettore. Ho<br />

anche cercato di lasciare al testo una certa leggerezza, alcuni momenti<br />

divertenti, ho inserito l’elemento della metropolitana. O almeno ho provato<br />

Ho preso da Salinger, da Enrico Brizzi ma l’idea credo sia originale… mia.<br />

Anche se lo stile con cui scrivo di solito assomiglia terribilmente all’ultimo<br />

libro che ho letto… è una cosa brutta da dire?? Talvolta ho usato qualche<br />

parola, come dire, non “canonica” ecco, ma se l’ho fatto è stato solo per<br />

un’esigenza di realismo (che affermazione terribilmente manzoniana!).<br />

È uno dei primi concorsi a cui partecipo e spero che si riveli un’esperienza<br />

da ripetere. Di solito le persone ai cui faccio leggere quello che scrive<br />

apprezzano o molto più probabilmente FINGONO di apprezzare. Non sono<br />

mai uscito dalla cerchia di amici e (raramente) insegnanti questa è la giusta<br />

occasione.<br />

Che altro dire? Buona lettura.


Breve avventura parigina<br />

con digressioni su sperimentati livelli<br />

di pazienza delle cameriere cinesi<br />

Che poi a pensarci bene non avrei saputo dire se era realmente cinese<br />

o giapponese o sudcoreana o di Taiwan. Ecco. Senz’ombra di dubbio<br />

avrei saputo dire che era incazzata, scocciata, infastidita e sufficientemente<br />

acida e irritata da risultare terribilmente esilarante.<br />

Mi concentrai sul mio uovo sodo. Lo sgusciavo lentamente evitando<br />

con cura di alzare lo sguardo dal mio piatto, di incrociare quello di mio<br />

fratello all’altro capo del tavolo e di scoppiare a ridere.<br />

Memori della colazione sfumata il giorno precedente avevamo regolato<br />

la sveglia perché suonasse qualche minuto prima della chiusura del<br />

buffet così da non sprecare preziosi minuti di sonno.<br />

La donnetta orientale dai capelli corti, che stava già ripulendo la sala,<br />

non parve gradire la nostra intrusione e mostrò un impegno quantomeno<br />

apprezzabile nel farci notare il suo disappunto.<br />

Ci fece sedere in un tavolo all’angolo e iniziò a ronzarci attorno affaccendata<br />

sbuffando di tanto in tanto. Il tavolo del self-service era già<br />

stato sparecchiato così si occupò lei della nostra colazione. Sparì in<br />

cucina e tornò con due croissant appassiti e due uova sode.<br />

“Cafè o late?”. Il suo italiano suonava abbastanza strano senza doppie e<br />

con le parole mezze mangiate. Io risposi caffè. Mio fratello rispose latte.<br />

Ovviamente.<br />

“O cafè o late. Non porto tutti due”.<br />

Silenzio.<br />

Sparì di nuovo in cucina trascinando le ciabatte da infermiera e riapparve<br />

con una brocca scura in una mano, uno straccio e un fregone nell’altra.<br />

Si era evidentemente risolta per il caffè. Versai un po’ di quella soda<br />

caustica nella mia tazza, sgusciai il mio uovo, mozzicai il croissant e mi<br />

31


alzai. “Io torno a letto”, dissi piano a mio fratello e lo lasciai in intimità con<br />

la cameriera cinese e le mie impronte lasciate sul pavimento bagnato.<br />

Bussavano. Mi alzai pesantemente dal letto e mi guardai attorno un po’<br />

stranito: la stanza era insolitamente ordinata. Da quanto tempo mi ero<br />

appisolato?<br />

Bussavano. Aprii la porta a un viso giallo e tondo che pretendeva che io<br />

lasciassi la stanza per entrare a pulire. Cercai di farle capire che doveva<br />

esserci uno sbaglio ma lei insisteva che proprio la 302 doveva essere<br />

libera e pulita per le due del pomeriggio.<br />

Dove cavolo era mio fratello quando succedevano ‘sti casini?… No<br />

aspetta. Ecco perché la stanza era più ordinata: mancava la roba di mio<br />

fratello! Ma mancava tutto, anche la valigia… la valigia e il giubbotto,<br />

insomma proprio tutto! C’erano solo i miei vestiti ammonticchiati qua e<br />

là tra letto e pavimento. Possibile che fosse già sceso a pagare senza<br />

chiamarmi? Ma perché non mi aveva svegliato? Ma poi scusa, quando<br />

mai aveva accennato al fatto che saremmo partiti stamattina?<br />

Feci segno alla cinese di aspettare un paio di minuti, richiusi la porta e<br />

iniziai a frugare nel mucchio di pantaloni a terra alla ricerca del cellulare.<br />

Lo trovai per terra vicino al comodino; segnava le undici e mezza.<br />

Chiamai mio fratello. “Ma dove cazzo sei? Perché hai portato via la tua<br />

roba dalla stanza? Qui c’è una che dice che dobbiamo lasciare la stanza!”.<br />

“Ha ragione!”.<br />

“Ha ragione??”.<br />

“Sì ha ragione. L’hotel era pagato sino a stanotte. Bisognava lasciare la<br />

stanza entro le undici. Io l’ho fatto. Sto prendendo il treno”.<br />

“Ma dico sei deficiente? Per quale cazzo di motivo non mi hai svegliato?<br />

No ma stai scherzando… come diavolo faccio io ora? Tu dove sei?”.<br />

“Te l’ho detto: in stazione. Prendo il treno fra un quarto d’ora”.<br />

“Ma mi hai preso il biglietto? Non ce la farò mai ad essere lì in un quarto<br />

d’ora, ma perché non mi hai detto che tornavamo oggi??”.<br />

Sentii la sua voce compiaciuta oltre il vociare della gente alla Gare de<br />

Lyon.<br />

“Non te l’ho detto perché tu non torni con me”.<br />

“Vorrai scherzare…”.<br />

“Assolutamente no”. Silenzio. “A dire il vero un po’ sì. In effetti è una<br />

specie di scherzo ma sarebbe riuscito meglio se ti fossi svegliato più<br />

32


tardi quando ero già sul treno”.<br />

Mi esasperava quando faceva così. Scandii le parole: “Cosa. Diavolo.<br />

Stai. Dicendo?”.<br />

“Diciamo che è una prova: ti ho lasciato cinquanta euro nel comodino,<br />

il biglietto Parigi-Bologna ne costa ottanta. Se ti scanti e arrivi entro tre<br />

giorni vieni in vacanza con me e i miei amici. Se sei impedito e ti arrendi<br />

sarò costretto a ricaricarti cento euro sulla carta di credito, che ora<br />

è vuota, così tu potrai prendere il treno tornartene a casa ma ti sogni la<br />

vacanza e passi agosto in montagna dai nonni”.<br />

Aprii il cassetto del comodino: c’erano veramente cinquanta euro, quindi<br />

non scherzava.<br />

“Sei una grandissima testa di… ma lo sai che potrebbe capitarmi di<br />

tutto?? Se lo scopre papà ti ammazza”.<br />

“Ah giusto scordavo… se per caso lo venissero a sapere mamma e papà<br />

puoi anche dire addio alla Norvegia e a qualsiasi tipo di ospitalità a casa<br />

mia. Buon divertimento!”.<br />

“Fottiti!”, gettai a terra il telefono e mi buttai sul letto.<br />

Bussavano.<br />

“COSA C’È?”.<br />

Una voce con un’inconfondibile avversione alla pronuncia delle erre mi<br />

rispose che doveva pulire, pulire. Assolutamente pulire.<br />

“Due minuti!”, le urlai di rimando.<br />

Cacciai tutti i vestiti alla rinfusa dentro la valigia, mi infilai le scarpe, i<br />

cinquanta euro in tasca e controllai sotto il letto alla ricerca di calzini<br />

dispersi.<br />

Bussavano.<br />

“Santo Dio entra!”. Aprii la porta e la cameriera cinese entrò furibonda<br />

trascinando un instabile carrello con asciugamani e lenzuola pulite.<br />

Rossa in volto prese a disfare i letti lanciando tutt’attorno occhiate torve<br />

alla stanza disordinata. Me ne andai in fretta prima che mi strozzasse<br />

con un asciugamano. Scesi le scale trascinando la valigia (quel bastardo<br />

si era portato via pure la chitarra) oltrepassai imprecando per tutta<br />

la hall dell’albergo e uscii. Per esser luglio era freddo, attraversai la<br />

strada e rimasi lì a pensare. Finita la scuola avevo convinto i miei a<br />

lasciarmi andare e mi ero trasferito da Parma a Bologna a casa sua,<br />

dove studiava e a suo dire si manteneva, per cercare di convincerlo a<br />

portarmi con lui. Mi era sembrato di esserci quasi riuscito quando mi<br />

33


trascinò con lui a Parigi per un concerto.<br />

Il seguito è tristemente noto.<br />

Ero solo ai piedi di Montmartre, appena cacciato dal Grand Hotel de<br />

Turin, mi servivano trenta euro entro sera, avevo fame e odiavo mio fratello.<br />

Pensai di tornarmene a casa chiuso nel bagno del treno ma realizzai<br />

che era impossibile; il viaggio era troppo lungo e comunque nei<br />

treni a cuccetta controllavano il biglietto prima di far salire sul vagone.<br />

Con me non avevo nulla che avrei potuto convertire in denaro: nessuno<br />

si sarebbe mai comprato i miei vestiti stropicciati, l’orologio era un<br />

regalo di nonna e il cellulare non l’avrei mai venduto per un viaggio con<br />

quell’idiota di mio fratello. Mi infilai nel metrò in Pigalle e rimasi sul<br />

treno cambiando linea di tanto in tanto in attesa che mi venisse qualche<br />

idea. Dopo più di mezz’ora riemersi dal sottosuolo francese tra i grattacieli<br />

della Défense.<br />

Dio! Trenta euro alla fin fine non erano tanti, avrei potuto chiedere in<br />

giro qua e là a qualche passante e li avrei racimolati.<br />

Mi scontrai con l’indifferenza e l’incredulità più totale, come d’altronde<br />

era logico aspettarsi.<br />

Tornai nel metrò, stare sotto terra mi confortava.<br />

Mi fermai: nelle gallerie c’era sempre pieno di gente che chiedeva un’elemosina.<br />

Provai a sedermi accanto alla mia valigia; se solo avessi avuto<br />

la mia chitarra o fossi stato vestito di stracci non mi sarei sentito così<br />

idiota. Mi guardavo attorno aspettando che non ci fosse nessuno. Mi<br />

piegai due volte ma finii per rialzarmi e fare qualche passo avanti e<br />

indietro. Insomma dalla vergogna non riuscii nemmeno a sedermi, finsi<br />

di allacciarmi le scarpe, mi rialzai subito e me ne andai quasi di corsa<br />

trascinando la valigia, preoccupatissimo del giudizio di tutti gli sconosciuti<br />

che avevo attorno. Ero lontano anni luce dai livelli di disperazione<br />

che mi avrebbero portato a stendere una mano seduto ai margini di<br />

una strada. A pensarci chiedere l’elemosina era un’umiliazione terribile,<br />

ben al di là di quanto avessi mai potuto pensare. E poi vestito com’ero<br />

ero l’accattone meno credibile che si fosse mai visto. Finii insomma<br />

per sentirmi in colpa nei confronti di chi l’elemosina è costretto a farla<br />

veramente eccetera eccetera. Scavalcai per l’ennesima volta i cancelletti<br />

del metrò e fui inghiottito dal primo vagone che mi si parò davanti.<br />

Alle sette di sera bazzicavo distrutto per il Quartiere Latino: nessun<br />

34


istorante aveva bisogno di un lavapiatti (maledette lavastoviglie, nei<br />

vecchi film ne avevano sempre bisogno!), nessun facchino aveva bisogno<br />

di una mano e nessun venditore ambulante era interessato a comprare<br />

un paio di jeans o qualcuna delle mie magliette. Ero stanco, avevo<br />

fame e mi eccitava la consapevolezza che non avrei mai preso il treno<br />

delle ventidue e zero sette per Bologna.<br />

Quando iniziò a fare buio ebbi paura. Paura del buio, della città, della<br />

gente. Stavo nelle strade trafficate, chiamai a casa due volte e due volte<br />

buttai giù prima che rispondessero. Mi infilai in qualche negozio ancora<br />

aperto, con la musica e la gente che comprava, per tenermi allegro.<br />

Alle nove era buio ed ebbi veramente paura. Mi prese un’angoscia infinita.<br />

Camminavo veloce al margine di quei vialoni senza fine, avevo<br />

paura delle ombre, delle persone. Mi mettevo paura da solo a camminare<br />

così rapido come se stessi scappando, e sobbalzavo se vedevo due<br />

facce scure venirmi incontro o un barbone sdraiato a terra in un angolo.<br />

Ebbi paura della città, degli sconosciuti che ridevano, chiacchieravano<br />

e mi passavano accanto, delle luci, delle ombre, delle entrate sotterranee<br />

del metrò.<br />

Poi mi fermai: erano le dieci e un quarto, il treno era andato. Iniziai a<br />

piagnucolarmi in testa che ero solo, che ero a Parigi, che avevo perso il<br />

treno e di nuovo che ero solo, che avevo solo diciassette anni, che era<br />

stato uno scherzo idiota e che mio fratello era un idiota.<br />

E mi misi a piangere. Ma veramente.<br />

All’angolo di una strada che non avrei saputo dire quale, con la mia valigia<br />

a lato e le braccia distese lungo i fianchi piangevo. Piangevo e avevo<br />

fame. In tutta la giornata avevo speso soltanto un euro di hamburger da<br />

McDonald e stavo morendo di fame.<br />

Mi serviva un posto per dormire.<br />

Presi un loculo a venti euro a notte in un posto che faceva anche da<br />

ristorante in pieno quartiere cinese. Mi sedetti smorto a un tavolo del<br />

China House e ordinai qualcosa che ricordava vagamente nell’aspetto<br />

un ammasso di gamberetti fritti. Quel qualcosa si rivelò terribilmente<br />

piccante. Chiamai la cameriera per ordinare dell’acqua.<br />

Arrivò zampettando una graziosa ragazzina cinese nella sua uniforme a<br />

strisce rosa e bianche. Sperai che capisse l’inglese come fortunatamente<br />

avevano fatto tutti sino ad ora.<br />

“Could you bring me another glass of water please?”.<br />

35


Gli occhietti a mandorla si schiacciarono sotto il peso della fronte corrugata.<br />

Non aveva capito.<br />

“Water, water”, insistetti picchiettando con l’indice sulla caraffa vuota.<br />

Mi guardava allucinata. Disperato con la gola in fiamme inizia a modulare<br />

delle “o” con la speranza di conferire ai suoni che emettevo un<br />

minimo di accento francese. Ma io mi chiedo: ma i francesi come cavolo<br />

riescono a usare parole come “EAU” che al momento di pronunciarle<br />

si riducono a un’unica incomprensibile vocale??<br />

La cinesina non capiva. Esasperato sollevai la caraffa dal tavolo e presi<br />

a sventolargliela in faccia urlando: “Acqua! Acqua! Voglio dell’acqua,<br />

cazzo! È tanto difficile da capire??”.<br />

Dopo qualche attimo di stupore Hoio, così stava scritto sul cartellino<br />

che aveva sul petto, mi strappò sgarbatamente la caraffa di mano e se<br />

ne andò a passetti svelti urlando qualcosa in un cinese acutissimo alla<br />

sua collega dietro il bancone. Riportò la caraffa piena d’acqua, la posò<br />

sul tavolo con tanto garbo da rovesciarne mezza sul tavolo e se ne andò<br />

di nuovo. Almeno aveva capito.<br />

Quando finii di mangiare, pagai e mi trascinai sino in camera su per<br />

delle scale strette.<br />

Doveva esserci una qualche incompatibilità di fondo tra me e le cameriere<br />

cinesi. Sorvolando sul fatto che ormai mi ossessionavano e che da<br />

quand’ero a Parigi non avevo fatto che incontrarne a decine, devo dire<br />

che io a pelle non avevo nulla contro di loro. Erano così buffe e carine<br />

nei loro modi scattanti e nervosi, con quei piccoli seni tondi e quei visini<br />

schiacciati sotto i capelli neri.<br />

Eppure loro mi odiavano. Suscitavo in loro un’antipatia di fondo che<br />

non riuscivano a nascondere. Doveva essere un qualcosa di ancestrale,<br />

di genetico, come se un mio trisavolo, un fratello cattivo di Marco Polo,<br />

avesse compiuto non so quali azioni scellerate in quel di Pechino e loro<br />

ora avvertissero la presenza negativa di quella discendenza.<br />

Solo nella mia camera mi riprese l’angoscia di solitudine e paura che mi<br />

era passata un po’ nel ristorante affollato di sotto. Non riuscivo a spegnere<br />

la luce, a stendermi sul letto e dormire. Sentivo dei passi oltre la<br />

porta e mi agitavo terribilmente, così spostai la testiera del letto contro<br />

la porta così che nessuno potesse entrare.<br />

Non so se mi svegliò l’odore di fritto che arrivava pungente sin nella<br />

camera o i rumori della stanza accanto. Non avevo dormito nemmeno<br />

36


un’ora, la stanza piccola, vuota, con quella luce forte che non riuscivo a<br />

spegnere mi soffocava. Mi alzai, usai il bagno e poi ero di nuovo nella<br />

stanza piccola e vuota. Non ne potei più, presi la mia valigia, spostai il<br />

letto da contro la porta e me ne andai svelto. Paure idiote.<br />

Autosuggestioni del cavolo.<br />

Quando fui di nuovo in strada mi calmai.<br />

Alle undici passeggiavo più perso che mai dalle parti di Notre Dame.<br />

Passeggiavo, sì. La rassegnazione aveva portato con sé una certa tranquillità.<br />

La consapevolezza che ormai il treno se ne era andato e che<br />

avevo buttato al vento la metà dei soldi che avevo mi lasciava ormai<br />

quasi indifferente. A vederla in modo ottimista fra qualche ora sarebbe<br />

stato mattino. Dovevo solo passeggiare per qualche ora e poi verso le<br />

cinque avrebbe cominciato ad albeggiare, poi avrei chiamato furibondo<br />

mio fratello, l’avrei fatto sentire in colpa, mi sarei fatto ricaricare i soldi<br />

sul mio bancomat asciutto e me ne sarei tornato a casa col treno del<br />

mattino. Una volta a casa mi sarei limitato a minacciarlo di raccontare<br />

tutto a mamma e papà e così mi avrebbe portato con lui in vacanza. Che<br />

poi, a dirla tutta in Norvegia con quel cretino non volevo più nemmeno<br />

andare.<br />

Passai davanti a Notre Dame, poi attraversai la Senna, poi non so più...<br />

seguivo a distanza un gruppo di ragazzi e ragazze che qualche birra di<br />

troppo teneva allegri. Poi si divisero e li persi.<br />

Svoltai a un angolo e notai sulla mia destra un negozio ancora aperto.<br />

Era una libreria silenziosa affacciata sulla Senna. Shakespeare & Co.<br />

diceva l’insegna. Entrai lasciandomi alle spalle la porta che sbatteva leggera<br />

e il tintinnare di un campanello. Il ragazzo che contava i soldi dietro<br />

la cassa e a un bancone col computer mi fece un cenno di saluto.<br />

Cosa faceva ancora aperta una libreria a quell’ora?<br />

Più che un negozio sembrava una casa su due piani: l’ingresso, il corridoio,<br />

la sala a pian terreno e poi le scale per il piano di sopra. Le stanze<br />

sembravano ammobiliate normalmente con divani poltrone e comodini,<br />

solo che il tutto era ricoperto da libri che, come polvere, parevano<br />

essersi posati ovunque in quelle stanze. Aprii un libro, poi un altro:<br />

erano tutti scritti in inglese. Libri inglesi vecchi ricoprivano gli scaffali<br />

su tutte le pareti ma soprattutto libri inglesi vecchi stavano ammonticchiati<br />

in pile sul pavimento tra vecchie poltrone da cinema in velluto<br />

37


osso e macchine da scrivere sdentellante. Fu un orgasmo artistico,<br />

uno di quei posti da favola, da film, uno di quei buchi di negozio che<br />

puoi solo immaginare.<br />

Era l’essenza più british di Parigi.<br />

Salii le scale trascinando la mia valigia che mi trotterellava fedele alle<br />

spalle, superai un bagno anch’esso ricolmo di libri ed entrai in una stanza<br />

da letto dove nemmeno a dirlo si faceva fatica a camminare per via<br />

delle cataste di libri che circondavano il letto. Una bella parigina e le<br />

sue tette leggevano un libro distese sul letto con un gatto nero a fianco.<br />

Lei sollevò gli occhi dal libro e mi sorrise poi tornò alla lettura. Io continuai<br />

il mio giro di perlustrazione per la casa/libreria. Ogni tanto mentre<br />

ciondolavo per i corridoi trovavo qualche lettore silenzioso assorto<br />

in un libro su un letto, una sedia o una poltrona.<br />

Finii per tornare nella stanzetta della ragazza che se ne era andata<br />

lasciando il letto libero. Stanco morto mi stesi sul materasso con il gatto<br />

nero che si stiracchiava e mi annusava le mani. Presi un libro a caso tra i<br />

tanti gettati sul letto e mentre il gatto si era appallottolato sul cuscino iniziai<br />

a leggere da metà My happy days di non so quale autore americano.<br />

Qualcuno al piano di sotto suonava il piano, oltre la finestra stava Notre<br />

Dame lievemente illuminata nella notte estiva di Parigi, mi scaldava un<br />

buon umore nuovo.<br />

E il gatto faceva le fusa.<br />

Mi svegliò, scrollandomi una spalla, il ragazzo che avevo visto all’entrata<br />

dietro alla cassa. La stanchezza ormai mi prendeva alle spalle e mi<br />

ero addormentato mentre leggevo.<br />

Il tizio capì che non parlavo francese e in un inglese amico mi disse che<br />

Shakespeare & Co. a mezzanotte e mezza chiudeva. Mi alzai contro<br />

voglia con una stretta allo stomaco feci per andarmene ma il tizio, che<br />

avrà avuto sì e no trent’anni, fece il grave errore di chiedermi se avevo<br />

bisogno d’aiuto.<br />

Non starò ad annoiarvi raccontando di come mi sedetti pesantemente<br />

su un angolo del letto e gli spiegai della situazione del cavolo in cui mi<br />

trovavo, di come mi tornò il magone ripensando che in fin dei conti<br />

avevo fallito, che non avevo nessuna voglia di chiamare mio fratello per<br />

farmi dare i soldi ma che non vedevo alternative se non un altro giorno<br />

perso a ciondolare inutilmente per Parigi ormai senza soldi. E che non<br />

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avevo un cavolo di posto dove dormire. E mi tornò fame.<br />

Dunque non vi racconterò nemmeno che Louis tirò fuori ottanta euro<br />

dalla cassa e me li diede. Non vi dirò nemmeno che allora tutti i miei<br />

problemi erano risolti, che non avevo più sonno, più fame e che fra qualche<br />

ora avrei preso un treno per l’Italia.<br />

Stavo male dalla gioia.<br />

Veramente.<br />

Ero così contento che mi girava la testa, perché la soluzione era arrivata<br />

così inaspettata, così semplice che mi veniva da ridere. Ero a Parigi<br />

da solo, così libero, così di notte, così d’estate, così felice. Quello era il<br />

tipico caso in cui i soldi, orribilmente, fanno la felicità.<br />

Abbracciai Louis con tutta la riconoscenza che riuscivo a dimostrare<br />

verso quello sconosciuto a cui volevo così bene. Lui sorrideva probabilmente<br />

compiaciuto di far così piacere a una persona. Mi spiegò che<br />

la libreria era gestita da un gruppo di studenti e di amici che ogni giorno<br />

della settimana stava in libreria uno diverso di loro, così nessuno si<br />

sarebbe mai accorto che mancavano quei soldi. Gli promisi che non<br />

appena a casa glieli avrei mandati per posta ma non ne volle sapere.<br />

Poco più tardi fumavamo Lucky Strike sulla Senna con i piedi penzoloni<br />

nel vuoto che dondolavano un po’ come me, così libero e perso e confuso<br />

in quella notte francese.<br />

Dopo un po’ Louis se ne andò a casa. Ci salutammo calorosamente e lo<br />

vidi scivolare oltre Pont d’Arcole come un’ombra estiva che non avrei<br />

mai più rivisto. Mi punse un po’ di dispiacere per quella persona che<br />

sentivo così amica che conoscevo da un’ora e che già perdevo.<br />

Va beh. L’avrei ricordato.<br />

Rimasi seduto sul ponte con gli auricolari infilati nelle orecchie ad<br />

ascoltare Jim Morrison.<br />

Era ancora notte e se non avevo voglia di dormire avevo voglia di sognare:<br />

la cinquecento gialla di mio fratello su un traghetto nel fiordo.<br />

39


Francesca Perozziello<br />

Momenti in via d’estinzione<br />

GENERE NOIR<br />

1 RACCONTO DA<br />

5 f e r m a t e


Francesca Perozziello<br />

Come studentessa utilizzo ogni giorno i mezzi pubblici e lo spunto per i miei<br />

racconti nasce proprio così, in autobus o in metropolitana, fra giornali gratuiti<br />

e colazioni frettolose, fra discorsi lasciati a metà e buoni propositi per la<br />

giornata appena iniziata.<br />

Il mio racconto nasce da frammenti di vita quotidiana, non solo passati, presenti<br />

o futuri, ma anche inventati. La fantasia ci dà la possibilità di giocare<br />

con gli episodi più insignificanti della nostra esperienza, di modellarli e impastarli<br />

fino a farli diventare qualcosa di totalmente diverso.


Momenti in via d’estinzione<br />

A una festa, sul tram, per caso, per sbaglio, la domanda è sempre la<br />

stessa. Ma davvero scrivi, sul serio o per finta?<br />

E le risposte possibili non sono poi molte. Opzione numero uno: sì, scrivo<br />

ma non ho intenzione di farti leggere una sola riga di quello che ho<br />

prodotto negli ultimi centocinquant’anni. Opzione numero due: voci di<br />

corridoio, so scrivere a malapena la lista della spesa! Opzione numero<br />

tre: sfondo la faccia al mio interlocutore. Con qualsiasi mezzo a disposizione.<br />

E continuo a chiedermi perché non ho tanti amici.<br />

In una notte senza luna, una di quelle notti in cui starei volentieri<br />

abbracciata al mio cuscino singhiozzando nell’oscurità… capita a casa<br />

uno sconosciuto. No. Suona alla porta la vicina che ha perso il gatto.<br />

Nemmeno. È il mio fidanzato che non trova le chiavi di casa. Macché.<br />

È l’anagrafe: vogliono cambiarmi nome. Neppure.<br />

Suonano alla porta nel cuore della notte… e scopro l’orrida verità: non<br />

è il campanello ma la radiosveglia che si è attivata da sola. Ho puntato<br />

la radiosveglia alle sei e mezza e si è attivata da sola alle tre. Ho perso<br />

un’altra notte di seghe mentali. Avrei potuto psicoanalizzarmi come<br />

ogni notte, nei miei sogni simbolici e rituali… e invece sono sveglia. E<br />

non sono più depressa. Come si fa a vivere senza depressione?! Non è<br />

mica giusto! Non fa parte del mio copione vivere senza depressione.<br />

Da domani vivrò una vita normale. Mi iscrivo in palestra. Mollo teatro.<br />

Finisco l’articolo per il giornale. Dò da mangiare al gatto. Ma poi è<br />

ancora vivo il gatto? Tiro un calcio alla cieca, di solito lui dorme sui miei<br />

piedi. Non miagola. È vivo e sta dormendo. La zia dice che sono la versione<br />

noir di Audrey Hepburn. Io mi ritengo la versione economica di<br />

43


Audrey Hepburn.<br />

All’asilo ho fatto una recita: Piccole storie per imparare. C’era sempre<br />

uno scopo in quello che facevo all’asilo, un nauseante scopo pedagogico.<br />

Nella recita ero, ero, ero… ah, sì, ero: la gru dalla piuma d’oro! Un<br />

personaggio affascinante. Muta, zoppa, troppo in carne per la parte,<br />

strizzata in un costume di cartapesta, trafitta dalle graffette che pinzavano<br />

le piume… insomma invidiata da tutte le amichette. La morale<br />

della piccola storia? Chi va con la gru impara a zoppicare. Ricordo solo<br />

che dopo la recita, mentre i miei compagni si abbuffavano di pizzette e<br />

cioccolata, io ero ancora dietro un paravento, nel tentativo disperato di<br />

liberarmi del costume. Quando finalmente, dopo ore di lotta estenuante,<br />

riuscii a emergere dall’ammasso di piume sintetiche…il rinfresco era<br />

finito. Finito! Non mi avevano lasciato niente. Neanche mezza pizzetta.<br />

Happy hour in Corso Como in un locale mai sentito nominare. Da quando<br />

sono diventata vegetariana questi aperitivi mi seccano abbastanza. È<br />

tutto a base di carne e pesce. E quello che non deriva da cadaveri di animali<br />

è comunque fritto, grasso, imburrato, COLESTEROLIZZATO!!<br />

Prendo un bicchier d’acqua del rubinetto. La cameriera mi incenerisce<br />

con lo sguardo. Mangio gli avanzi della frittata di Chiara. Sperando che<br />

non ci siano cipolle a sorpresa. Negli ultimi centosedicimila happy<br />

hour abbiamo parlato dei soliti argomenti. La conversazione scema<br />

verso le nove. Qualcuno mi riporti a casa che sta per iniziare il mio<br />

telefilm preferito.<br />

Domenica sera. Discoteca. Una macchina grigia parcheggiata nel viale.<br />

La riconosco. Ci ho passato qualche bel momento. Ci sarà anche lui,<br />

questa sera? È giusto che ci sia anche lui. Di sicuro è fidanzato. Prima<br />

di dimenticarmi il suo muso ebete vorrei rivederlo. Masochismo a puntate…<br />

puntata numero tre. Le mie amiche fanno scommesse. Ci cascherò<br />

per la terza volta?<br />

Ricordati del pianoforte, suonava così lento. E smetti di gridare, che<br />

svegli la bambina!<br />

Conosci una scrittrice, una di quelle vere. E ti promette mari e monti e<br />

44


gloria imperitura. Cominciamo con sale e vacanze, a me basta. Ma no,<br />

fidati, hai talento. Una successione di eventi imprecisati. Non saprei collocare<br />

niente al posto giusto. Non saprei abbinare i loro volti confusi a<br />

nomi che non mi interessano. Ricominciamo con le ultime lagne di un<br />

successo che non arriva, ma la strada si moltiplica per mille, come le<br />

offerte del supermercato.<br />

Ancora quella sensazione. Dietro le mie spalle un fucile puntato. Scrivo<br />

e qualcuno mi osserva. Ho letto il manuale del manager moderno e ho<br />

ancora qualche dubbio. Ma tu scrivi, che a vivere ci penso io! E domani<br />

potrei vincere un bel cervello! Il mio è nuovo di zecca. Io scrivo, non<br />

penso. Lo dici anche tu.<br />

Modestia a parte, ho saputo reggere lo scontro. Un calciatore brasiliano<br />

imita il suo idolo. Dalle favelas alla discoteche di Milano c’è un solo<br />

lungo filo. Rosso oro meraviglioso filo di certezze. Arriverai, arriverai.<br />

Giocala bene, la prima partita. È la prima impressione quella che conta.<br />

E se sgozzassero il tuo film preferito?<br />

Un attimo fa ero convinta del mio destino. Ora vado a fare un giro sotto<br />

la pioggia. Un vento da ricordare per quando starò meglio. Verso le<br />

sette un sorriso tiepido, si calmerà almeno in parte la voglia di esasperarti<br />

con le mie richieste infantili. Un elemento mancante. Un attimo in<br />

più. Un soldo dato a chi ha perso tempo. Non farmelo fare di nuovo.<br />

Non sarò così coraggiosa.<br />

Un mese indefinibile. So solo che è estate. Nave. L’ultima volta ero da<br />

sola. Viaggiare, stancare la mente. Il peggio deve ancora venire. È stato<br />

perfido perderti di nuovo, ma ho avuto stile. Devi ammetterlo. Vincerò<br />

alla lotteria o rimarrò delusa, cambierò strada o paio di jeans, fregherò<br />

il lavoro e le amicizie giuste a chi mi ha aiutata. In cambio potrei vendere<br />

le mie storie, farne cibo per pesci d’alto mare. Spacciare la mia vita<br />

per leggenda e umiliare quel poco senso del pudore che mi resta.<br />

Una volta avevo un sogno, un sogno limpido e genuino. Mi sembrava più<br />

reale del passato. Più facile che vivere con te. Domani ci penserò, a come<br />

sistemare anche quello in cantina. Sullo scaffale c’è posto per tutto.<br />

45


Giusy Dente<br />

Mia nonna aspetta<br />

GENERE ESPERIENZA PERSONALE<br />

1 RACCONTO DA<br />

5 f e r m a t e


Giusy Dente<br />

Avete presente quelle ragazze goffe e sbadate, perennemente con la testa<br />

altrove? Di quelle che vi siedono accanto sul bus, o vi passano a fianco per<br />

strada, ma che sono vicine a voi solo fisicamente perché la loro testa è<br />

persa in chissà quali pensieri, in chissà quali sogni, in chissà quali fantasie,<br />

come se in realtà si trovassero su una nuvola lontana, lassù nel cielo? Ecco,<br />

io sono una di quelle. Mia madre mi ha soprannominata “Nuvoletta”. Lei dice<br />

che sono speciale, me lo ripete da sempre, ma io l’ho capito da poco tempo.<br />

E da allora sto bene. Non sono più la ragazzina col broncio, arrabbiata col<br />

mondo intero, ora sorrido di più e mi creo qualche problema in meno.<br />

Quella sfiducia in me stessa, quel pessimismo, quell’essere lunatica e disordinata,<br />

sensibile e possessiva, orgogliosa e cocciuta, mi accompagnano<br />

ancora, purtroppo. Ma la consapevolezza di essere una bella persona, di<br />

essere speciale così come sono, mi fanno vivere meglio questi difetti e<br />

fanno emergere di più i miei pregi. Credo di essere una ragazza socievole e<br />

simpatica, capace sì di provare profondo rancore ma anche profondo<br />

amore, cerco di essere disponibile con tutti, di dare una mano come posso.<br />

a volte basta anche un sorriso, purchè sincero.<br />

Da ottobre frequento l’Università degli Studi di Salerno, sono iscritta al primo<br />

anno della Facoltà di Lettere e Filosofia. Da undici anni frequento anche una<br />

scuola di danza moderna. non sarà nel mondo dello spettacolo il mio futuro,<br />

ne sono cosciente, ma è una disciplina sottovalutata, collegata alle veline<br />

che mostrano il fondoschiena in televisione. Ma la danza è molto di più.<br />

Non so “cosa voglio fare da grande”, ma di sicuro mi piacerebbe una carriera<br />

lavorativa nell’ambito che ho scelto per i miei studi. Ora come ora il<br />

pensiero della laurea sovrasta tuttto il resto, è una cosa a cui tengo tantissimo<br />

e so che darà una grande gioia alla mia famiglia. A proposito di famiglia<br />

la protagonista del mio racconto, di quei pensieri scritti in giorni particolari, è<br />

mia nonna. Una brutta malattia l’ha cambiata radicalmente e ho voluto condividere<br />

la mia esperienza personale, perchè sono in tanti a vivere una<br />

situazione come la mia, unasituazione che richiede tanta pazienza ma<br />

soprattutto tanto amore. Mia nonna merita entrambi per tutto ciò che ha fatto<br />

nella sua vita, ciò che sono ora lo devo anche a lei. A lei, così come a ogni<br />

singola persona incontrata lungo la mia strada. Perchè credo che nessuno<br />

di loro si sia trovato lì per caso.


Mia nonna aspetta<br />

Mia nonna non riesce a mettersi sotto le coperte da sola, Dice che non<br />

può, se prima non tornano a casa suo marito e “o guaglione”. Non ricorda<br />

che suo marito è morto da ventitré anni e non sa che suo figlio è<br />

entrato abbondantemente negli “anta” ed è un fallito che non è riuscito<br />

a combinare nulla di buono nella sua vita.<br />

Mia nonna non sa che i suoi ricordi sono divorati da una malattia viscida,<br />

sulle sue cartelle cliniche c’è scritto Alzheimer, o qualcosa del genere.<br />

Poco importa saperlo scrivere correttamente questo nome, la realtà<br />

non cambia. E la realtà è che mia nonna non è più quella di una volta.<br />

Quando il cielo è grigio, o nuvoloso, lei dice: “U tiemp non è sincer”.<br />

Magari in realtà fuori splende il sole. ma lei non si rende conto. E allora<br />

divento poco sincera anche io, le dico che è vero, che sta per piovere.<br />

Anche oggi pomeriggio non sono stata sincera. Avevo paura di chiederglielo,<br />

ma dovevo sapere. L’ho guardata negli occhi e le ho chiesto:<br />

“Norina, ma hai capito chi sono?”, mentre le rimboccavo le coperte. Lei<br />

ha riso, mostrando i pochi denti che le restano in bocca e mi ha detto:<br />

“Come no! Tu sì ‘a Rosanna!”. Peccato solo che io sia tutta un’altra persona.<br />

Gli occhi sì sono riempiti di lacrime ma non ce l’ho fatta.<br />

Trattenendo il pianto le ho sorriso e le ho detto di sì, che ero proprio<br />

Rosanna.<br />

Mia nonna ha ottantadue anni, mi racconta sempre la storia di quando<br />

è nata, credo sia uno dei pochi ricordi che è riuscita a conservare, insieme<br />

alle poesiole di quando andava a scuola. Ebbene sì. È passato quasi<br />

un secolo, ma le ricorda perfettamente. Non mi riconosce, non ha idea<br />

di che anno sia quello corrente, ripete continuamente le stesse frasi,<br />

non distingue una mela da un pomodoro, ma ripete sempre che è nata<br />

49


alla fine del 1925. Io la ascolto, faccio finta di non saperla a memoria<br />

quella storia; così come le sento dire dieci volte di fila che si deve comprare<br />

il pane e le faccio sembrare normale parlare con la vecchietta che<br />

viene a trovarla tutti i pomeriggi. Sarebbe inutile spiegarle che l’immagine<br />

che vede non è altro che te stessa, che si trova davanti a uno specchio<br />

e che non c’è nessun altro nella stanza. Una volta ci ho provato, ma<br />

cinque minuti dopo già stava chiacchierando di nuovo da sola.<br />

Mia nonna mi ha insegnato a lavorare all’uncinetto, quando ero piccola.<br />

Peccato che crescendo non abbia più continuato, ero piuttosto brava.<br />

Associo la stagione invernale alle castagne che raccoglieva in campagna<br />

e mi faceva trovare bollite al ritorno dal catechismo. Mi ha insegnato<br />

tante preghiere, molte non le ricordo più. Ma ricordo perfettamente<br />

quando per Natale mi regalava le calze rosse di lana, quando mi<br />

chiamava “bimba”, quando rincorreva per le stanze me e mio cugino,<br />

da piccoli, perché la facevamo arrabbiare. Ricordo il sapore della sua<br />

pasta fatta in casa, delle zeppole con lo zucchero che faceva a Natale,<br />

della pizza con la verdura di Pasqua. Poi non ha cucinato più nulla di<br />

tutto ciò. Ha iniziato a sentirsi stanca, ha iniziato a dimenticare le chiavi<br />

a casa quando usciva, ha iniziato a comprare il latte quattro volte al<br />

giorno, lasciando puntualmente la busta al negozio. Non le sento più<br />

pronunciare il mio nome da troppo tempo.<br />

Quando ho compiuto diciotto anni ho festeggiato con amici e parenti,<br />

lei era l’unica a non esserci. Fisicamente. Ho combattuto con mia<br />

madre fino al giorno prima, perché la volevo con me. Ma che senso<br />

avrebbe avuto? A lei non piace stare tra la gente, non si rende conto che<br />

si tratta della sua famiglia, non abbandona casa sua per nulla al mondo,<br />

trema al pensiero che qualcuno possa entrare e “scigliare tutte cose”.<br />

Le avrei fatto del male, in quel momento. Ma nel mio cuore l’ho sentita<br />

comunque vicina, come fosse stata lì accanto, magari a lavorare all’uncinetto<br />

con me come quando ero bambina. A volte diventa aggressiva,<br />

è come se sentisse sulla sua pelle il mio dolore nel vederla così, o la rabbia<br />

di mia madre che si sente impotente nei suoi confronti. Quindi urla,<br />

ci dice di andare via. Ma poi le passa, ed è bellissimo. Pian piano la<br />

porto a letto, le rimbocco le coperte e la coccolo un po’. E lì ridivento la<br />

bambina con le calze rosse che divora una zeppola con lo zucchero il<br />

giorno di Natale. Ha il viso pieno di rughe, i capelli sono ormai tutti<br />

bianchi, ha degli occhi tanto dolci, ma anche tanto tristi. Come se voles-<br />

50


sero piangere, ma non ne ricordano il motivo, quindi le lacrime restano<br />

su, in attesa di ricordare, in attesa di qualcosa di bello, in attesa. Quindi<br />

le tengo la mano, le accarezzo le guance, ci diamo dei bacini.<br />

Forse l’unico lato positivo di tutta questa storia è che lei non sa, lei non<br />

si rende conto di come questa malattia l’abbia ridotta, è convinta di non<br />

essere poi tanto vecchia, che le cose non vadano poi tanto male.<br />

Ringrazia ogni giorno il Signore. Forse è da lei che ultimamente ho<br />

imparato a farlo anche io. Gli unici a capire la sua condizione siamo noi<br />

della famiglia ed è una sofferenza continua. In paese la conoscono tutti<br />

e tutti le vogliono bene, per strada mi fermano spesso e mi chiedono di<br />

lei, qualcuno si commuove. Dicono che “‘A zi Rosa nun era proprio capità<br />

na cos ‘e chest”. Però è capitata. Mentre mi chiedo il perché le faccio<br />

ancora un po’ compagnia. Sarà difficile trovare una risposta, ma abbiamo<br />

tanto tempo da occupare. Lei deve pur sempre aspettare che torni<br />

il nonno...<br />

51


Nicolas Lozito<br />

Le parole del silenzio<br />

GENERE POESIA D’ALTRI TEMPI<br />

1 RACCONTO DA<br />

5 f e r m a t e


Nicolas Lozito<br />

Nicolas, senza la h, mi chiamo così. Ma è solo un nome. Dietro ci sono io,<br />

ragazzo che a sedici anni si è stancato di leggere e basta e ha deciso di<br />

inventarsi lui le storie.<br />

È tutta un’altra cosa ora, poter decidere dove mettere i punti, le virgole, che<br />

parole usare e come farle suonare. Ecco sì, mi piace come suonano le frasi<br />

che scrivo e dò molta attenzione a questo particolare elemento. Forse dovevo<br />

fare il musicista, la rockstar magari. O forse avrei dovuto scrivere poesie.<br />

Caspita sì, solo ora me ne accorgo. No scherzo, in realtà le rockstar non mi<br />

piacciono e la poesia non fa per me. I racconti, invece, sono perfetti: non mi<br />

piace scrivere tanto e perdere tempo in infinite pagine di meccaniche descrizioni<br />

o irreali dialoghi, e così riesco a raccogliere quello che voglio dire in<br />

poche pagine, sempre con la speranza di riuscire a emozionare il lettore<br />

almeno allo stesso modo in cui mi emoziono io.<br />

In questo racconto ho avuto l’immenso piacere e la grande possibilità di raccontare<br />

una storia fantastica, una storia magica, unica e soprattutto vera.<br />

Inventata ma con basi storiche concrete.<br />

In questo racconto ho avuto la possibilità di vedere e avvicinarmi a un impalpabile<br />

sogno. Spero anche voi riusciate a trovarlo immerso tra le righe di<br />

queste pagine.


55<br />

Le parole del silenzio<br />

E anche quel giorno, venne la sera.<br />

Con difficoltà. Con difficoltà il sole, forse anche lui finalmente stanco,<br />

si era accasciato dietro i lontani monti dell’Hunan. Si era improvvisamente<br />

nascosto, portando con sé tutta la luce. Il buio aveva inghiottito<br />

la natura. Gli alberi erano ormai solo strane e irriconoscibili sagome<br />

chiaro-scure, i campi che correvano verso l’infinito orizzonte cinese<br />

ormai solo un ricordo.<br />

La notte stava avvertendo uno dei piccoli villaggi dello Jiang Zong che<br />

era tempo di dormire, di riposare.<br />

Xi Ling si sentiva ormai vecchia, sentiva il peso, il terribile peso della<br />

sofferenza, spezzarle le gambe. Le ossa tutte. Ormai curva e rigida si<br />

trascinava per la casa. In silenzio. In incessante silenzio. Quanto avrebbe<br />

voluto liberarsi dalle sue catene. E danzare. Come una volta. Ballare<br />

con passi del tutto improvvisati seguendo le note di quel magico tung<br />

che tanto amava sentire suonare. E invece no. Ovviamente camminava<br />

piano, doveva camminare piano, senza farsi sentire. Un fantasma. Un<br />

fantasma che come ogni sera compiva il suo solito viaggio. Dopo la<br />

cena, finito di servire con dedizione il marito, Xi Ling camminava fino<br />

alla fine del corridoio. Fino ad arrivare all’ultima stanza. Era piccola.<br />

Era un piccolo deposito di vivande. O forse era grande. Un infinito spazio<br />

dove Xi Ling depositava la sua vita. La nostalgia dei ricordi. La delusione<br />

per gli eventi. La sofferenza del silenzio.<br />

La passione per i sogni.<br />

Da dietro dei sacchi di riso tirava fuori il suo tesoro.<br />

Era avvolto in un panno marrone. Ruvido al tatto. Grezzo alla vista.<br />

Ma per lei, ogni sera, era la cosa più bella che avesse visto in tutta la


giornata.<br />

Più bella del volo degli uccelli, più della luna e del brillare intenso e lontano<br />

delle stelle.<br />

Lievemente lo estraeva. E compariva. Il suo più prezioso tesoro.<br />

Il suo San Chao Shu.<br />

Perfetto. Bianco.<br />

Decorato con delicati fiori. Chiusi e appena nati, che mai sono appassiti<br />

ma che mai neanche sbocceranno.<br />

Era il suo diario.<br />

Aveva ormai trentaquattro anni, sedici in meno di lei. Ancora con la<br />

dolcezza del primo giorno, di quel lontano primo giorno, lo apriva,<br />

quasi accarezzandolo, cercando di stare attenta, preoccupata dalla sua<br />

fragilità.<br />

e insegui la felicità<br />

finché il marito<br />

non ti viene a prendere.<br />

Ama la vita assieme a noi<br />

Non sprecare il sole<br />

che risplende libero nel cielo.<br />

E quando sarai ormai<br />

moglie<br />

e madre,<br />

costretta a non vedere nessuno<br />

all’infuori di te<br />

non soffrire,<br />

sorella.<br />

Pensa alla tua danza.<br />

Alla tua poesia.<br />

Alla Lingua delle Donne.<br />

Guarda il cielo.<br />

Fissa lontano.<br />

E ricordati di noi,<br />

noi amiche lontane.<br />

Ogni giorno Xi Ling rileggeva le prime tre pagine del suo San Chao Shu.<br />

Le prime tre pagine scritte dalle sue amiche di quel tempo così lontano.<br />

56


Le sue per sempre amiche viste per l’ultima volta trentaquattro anni fa.<br />

Loro le avevano regalato il San Chao Shu. Per il suo matrimonio.<br />

Ogni giorno Xi Ling piangeva. Di nascosto. In silenzio.<br />

Sapeva a memoria quello che c’era scritto. Ma ogni sera amava, desiderava<br />

rileggere quel canto. Scritto con i fiori.<br />

Scritto in Nushu.<br />

Scritto con i fiori.<br />

I caratteri non erano semplici caratteri. Erano tratti che scivolavano<br />

sulla carta soffici, quasi senza mai finire. Segni leggeri e allo stesso<br />

tempo forti e chiari. Infiniti segni che sembravano potersi staccare con<br />

un piccolo semplice soffio di vento, segni che finalmente, saldi, volevano<br />

dire qualcosa.<br />

Ogni singolo carattere un suono. Ogni suono una voce spezzata.<br />

Questo era il Nushu. La lingua delle donne.<br />

Non ho ancora il coraggio di guardare in faccia mio marito,<br />

soffro,<br />

quanto siamo distanti amiche,<br />

quanto mi mancate.<br />

Xi Ling quasi mai continuava a leggere il San Chao Shu dopo essere<br />

arrivata alla fine delle prime tre pagine, non amava rileggere quello che<br />

lei aveva scritto negli anni, la faceva solo soffrire. Questa sera però<br />

qualcosa era cambiato, voleva ricordare. Tornare indietro nel tempo, a<br />

quel tempo lontano.<br />

Quella volta, quei trentaquattro anni fa, la primavera era diversa. Il<br />

tempo era diverso, scorreva rapido e un po’ maldestro, felice e spensierato.<br />

Il giorno non era il semplice conto alla rovescia per arrivare alla<br />

sera. Xi Ling viveva. Felice.<br />

Era un villaggio piuttosto piccolo quello dove viveva. Era il villaggio<br />

Pumai. Piccolo ma accogliente. Il vento caldo ogni mattina da secoli<br />

aveva l’abitudine di soffiare da quelle parti, accarezzando le coltivazioni<br />

nelle campagne e posandosi soffice sul viso delle genti che per quel<br />

villaggio passavano, o ci vivevano. Si diceva fosse merito del non molto<br />

lontano lago Dongting, che avesse questa magica caratteristica. La produzione<br />

agricola era buona e gli uomini si assicuravano un buon raccolto<br />

a fine stagione senza infinito lavoro.<br />

57


In ogni caso ogni giorno, durante le stagioni calde, una volta svegliati,<br />

dovevano raggiungere la campagna e rimanerci fino a sera. Lasciando<br />

a casa mogli, figlie, madri e suocere.<br />

Donne.<br />

Che potevano finalmente essere libere.<br />

Donne.<br />

Che finalmente potevano, soavi e leggere, toccare e arrivare alla loro<br />

metà di cielo.<br />

Xi Ling era tra queste.<br />

Quando ha iniziato a prendere parte al Nuhong aveva dodici anni e lo<br />

credeva ancora un simpatico gioco passatempo. Ma ben presto avrebbe<br />

cambiato idea.<br />

Aveva una sorella. Non era una vera e propria sorella. Era una Jiebai<br />

Zimei. Una sorella “di giuramento”. Passava con lei moltissimo tempo.<br />

Ricamavano, dolcemente, con le loro piccole affusolate e speciali mani<br />

tanti piccoli fiori, tanti piccoli segni sulla stoffa. Ogni tanto li disegnavano.<br />

All’inizio lo credeva ancora un simpatico gioco. Un semplice<br />

gioco, fatto per passare il tempo.<br />

Lavoravano e decoravano divertite il cotone fino a sera, fino a che gli<br />

uomini non tornavano dalla campagna. A quel punto tutte tornavano<br />

dentro, con spontaneità tutte le donne del villaggio andavano a riabbracciare<br />

le loro catene.<br />

Tutto cambiava.<br />

Il padre di Xi Ling non era così, le concedeva qualche libertà e non la<br />

trattava male.<br />

Xi Ling però era tra le poche a stare bene.<br />

Tante sue compagne soffrivano. Veramente. Uscivano con difficoltà di<br />

casa la mattina, con le gambe gonfie e il corpo cosparso qua e là di lividi.<br />

Carezze affettuose avrebbero raccontato ironicamente gli uomini nei<br />

campi durante il lavoro.<br />

Feroce violenza. La stessa che si usa con i muli che non vogliono muoversi.<br />

Terribile violenza, si lamentavano invece le donne. Sempre con<br />

costante silenzio. Sempre e solo tra di loro. Erano abituate al silenzio.<br />

Erano obbligate a non dire niente in presenza di uomini.<br />

Fortunatamente il dolore passava e veniva presto giorno, la gioia di stare<br />

con le amiche era più forte della voglia di nascondersi per sempre. La<br />

speranza era l’ultimo frutto che si sarebbe staccato dal grosso albero<br />

58


della loro vita. Nonostante le tempeste e le raffiche forti, resisteva.<br />

Fortunatamente la notte passava rapida, un rapido respiro prima di<br />

ricominciare la giornata.<br />

Xi Ling era una ragazza in gamba e lavorava il cotone divinamente.<br />

Decorava i vestiti con maestria unica. Spesso riusciva a lavorare con le<br />

più anziane ed esperte donne del villaggio. Era anche perspicace ed<br />

intelligente.<br />

Certo non conosceva la storia o le regole della musica. Non sapeva queste<br />

cose, ovviamente.<br />

Era una donna. E come tutte era ignorante.<br />

Forzatamente ignorante.<br />

Voluta ignorante. L’uomo l’aveva resa schiava.<br />

Ma Xi Ling era intelligente. E questo era l’importante. Le cose le capiva.<br />

Aveva capito, giorno per giorno, nonostante la sua giovane età, che<br />

quei disegni che copiava, quei segni che ricamava sui vestiti non erano<br />

semplici segni. C’era di più.<br />

Lei guardava, li fissava bene. E loro le parlavano. Le raccontavano una<br />

storia. Una bellissima storia di libertà.<br />

Non era facile fare domande, Xi Ling aveva paura, rispettava le donne<br />

che facevano il Nuhong con lei. Non voleva disturbarle e quindi passò<br />

parecchio tempo prima che lei si decidesse a parlare.<br />

Amiche,<br />

mi trovo spesso<br />

a piangere da sola,<br />

ricordando con gioia<br />

quel lontano giorno.<br />

Quando imparammo a scrivere<br />

la nostra Lingua.<br />

Sento ancora il profumo<br />

con pazienza e<br />

rispetto,<br />

per anni ci protesse.<br />

Xi Ling ormai era sprofondata nei ricordi. Non poteva ormai più sfuggire.<br />

Né di certo lo voleva. Si sentiva bene, per qualche istante felice<br />

come allora.<br />

59


Una sera, al villaggio vi fu una festa. Invitati solo gli uomini.<br />

Le donne a casa. O forse no.<br />

Non v’era mai stata occasione per le donne di incontrarsi la notte. Le<br />

sole volte che avevano visto la luna era dall’interno delle loro case. Ma<br />

quella sera approfittarono, con l’inarrestabile e ingenuo entusiasmo per<br />

la vita che solo loro avevano, per rivedersi. Per stare assieme. Tutte<br />

intorno a quella lontana, libera e tanto amata luna.<br />

Era grande. Lontana e vicina. Di una luce bianca e leggera. Illuminava<br />

le loro piccole dita. La loro piccola bocca.<br />

Era nell’aria. C’era qualcosa. E Xi Ling lo sentiva.<br />

Infatti la più anziana, Deng Zhujun, prese la parola e cominciò a parlare.<br />

Gli occhi di Xi Ling, come quelli delle altre ragazze, erano smarriti, all’inizio.<br />

Si erano persi fissando il lontano e rosso orizzonte. Un po’ confusi,<br />

un po’ increduli.<br />

Tutto però era vero.<br />

C’erano delle donne, delle fantastiche e speciali donne, che, non molti<br />

anni prima, senza conoscere la scrittura cinese Hanzi maschile, avevano<br />

creato il Nushu. La Lingua delle Donne.<br />

Era un sistema di scrittura creato per le donne. Solo per le donne. Un<br />

dono divino, o forse perfettamente umano, che serviva solo a loro e che<br />

solo loro capivano. Serviva a combattere il loro silenzio. La loro sofferenza<br />

infinita.<br />

Coloro che lo imparavano, le amiche che l’avrebbero condiviso, sarebbero<br />

rimaste unite per sempre.<br />

Nonostante la distanza, nonostante la separazione che il matrimonio<br />

comportava. Nonostante tutto. Unite attraverso i loro versi, attraverso<br />

quel San Chao Shu che a vicenda si regalavano.<br />

Quel San Chao Shu che solo loro potevano leggere in silenzio, che solo<br />

loro potevano scrivere.<br />

Quel San Chao Shu che però tutte avrebbero sentito.<br />

Quei petali disegnati su carta che volavano via.<br />

Villaggio per villaggio.<br />

Trasportati da quel magico vento proveniente dal lago Dongting.<br />

Nonostante il silenzio tutte l’avrebbero sentito.<br />

60


Sara De Balsi<br />

Proprio ora<br />

GENERE ENGLISH POP<br />

1 RACCONTO DA<br />

7 f e r m a t e


Sara De Balsi<br />

Mi chiamo Sara De Balsi.<br />

Sono nata il primo aprile 1988 e ho sempre vissuto a Sant’Angelo d’Alife, un<br />

piccolo centro in provincia di Caserta; attualmente vivo a Napoli, dove studio<br />

Lettere Classiche presso l’Università degli Studi Federico II.<br />

Nel 2006 ho fatto parte della cinquina finalista del Premio Campiello<br />

Giovani.<br />

Il racconto che vi invio s’intitola Proprio ora ed è ambientato nella Londra<br />

degli attentati terroristici del 2005, che ho in parte vissuto di persona. Si può<br />

leggere in circa sette fermate di metropolitana.


63<br />

Proprio ora<br />

Londra, giugno 2005<br />

La ragazzina è a qualche metro di distanza dal bancone, in Cafeteria.<br />

Demetrio l’ha fatta sedere a un tavolo da quattro e le ha messo davanti<br />

il solito test d’ingresso e ora lei è lì, con l’aria concentratissima, come<br />

se da quel test dipendesse tutta la sua spocchiosa esistenza.<br />

Mi diverto a osservarla mentre continuo, da dietro al bancone, a preparare<br />

i sandwich. Sone le nove e un quarto, i ragazzi - ritardatari compresi<br />

- sono in classe e io, ripulite le macerie della colazione mi dedico<br />

già ai preparativi per il pranzo.<br />

Capelli castani, carnagione chiara ma abbronzata, abbigliamento casual<br />

firmato da ricca. Italiana, cento per cento. Ne conosco troppi per non<br />

indovinare. Sui diciassette anni, sicuramente minorenne. Ricca, a questo<br />

c’eravamo già arrivati. Infastidirla è quasi un obbligo. Alzo il volume della<br />

mia radio, sintonizzata su una stazione di rivoltante musica da discoteca.<br />

La ragazzina alza gli occhi, per vedere chi l’ha distolta dal suo test. Mi<br />

guarda, io la ignoro, continuando a spalmare senape sul pane. Il suo<br />

sguardo torna sul foglio. Io alzo il volume ancora un po’. Stavolta è lei a<br />

ignorarmi, continuando a tracciare crocette sullo stupido test. Io affetto i<br />

pomodori e li distribuisco sulle fette di pane. I panini al pomodoro vanno<br />

a ruba, meglio abbondare. Dopo diversi minuti, mi accorgo che ha finito<br />

di compilare le risposte. È stata molto veloce. Ora si guarda intorno, il<br />

suo sguardo vaga dal pianoforte a muro, al divano sfondato, ai vari tavolini<br />

rotondi al bancone stile far west dietro il quale ci sono io. Fissa i miei<br />

panini con aria disgustata. Prevedibile. La musica è sempre a tutto volume.<br />

Lei mi fissa, io la ignoro. Potremmo andare avanti a lungo, davvero.<br />

Demetrio torna in Cafeteria e mi guarda arricciando il naso.


“Viktor, sei insopportabile, spegni quella musica! Gianna devi scusarlo…<br />

Avresti dovuto dirgli di abbassare il volume…”.<br />

“Nessun problema, davvero”, risponde lei sorridendo. “Sono riuscita a<br />

fare lo stesso il test, come vedi”.<br />

È italiana. Dalla pronuncia lo distinguo chiaramente. Ma la sua sicurezza<br />

nel parlare è strabiliante. Nel frattempo io ho abbassato il volume<br />

e sto incartando i panini con dei fogli plastificati.<br />

“Hai fatto proprio in fretta. Ero tornato solo per fare colazione, ma se<br />

hai finito puoi darmi il test. Te lo farò correggere in pochi minuti. Posso<br />

offrirti un caffè?”.<br />

“Mai offrire un caffè a un’italiana in un paese straniero…”, dice lei,<br />

ancora sorridendo. “Ma lo accetto volentieri. Non può essere peggio<br />

che a New York, no?”.<br />

Io sono un monumento all’intuito. Italiana, ricca e spocchiosa, Le avevo<br />

indovinate tutte e tre. Ora sta anche flirtando con il membro più giovane<br />

e carino della segreteria di questa stupida scuola di inglese per stranieri.<br />

Quale la prossima conquista? Una classe avanzata, o i complimenti<br />

del direttore?<br />

“Beh, Viktor, metticela tutta con questi caffè”, mi sta dicendo intanto<br />

Demetrio. “Quindi sei stata a New York?”.<br />

Eccoli qua i miei caffè, signori, sperando che siano di vostro gradimento…<br />

La principessina testa il peso della tazza che le ho messo davanti.<br />

“È lunghissimo”, commenta.<br />

“Avresti potuto chiedermi un espresso”, replico, stavolta senza riuscire a<br />

trattenermi.<br />

Lei, in risposta, beve tutto il caffè dalla tazza in un unico, lungo sorso.<br />

“Hai ragione, avrei sofferto per meno tempo”.<br />

Demetrio ridacchia. “Dai Gianna! Non è male. E soprattutto non è inglese.<br />

Né Viktor, né molti altri sono inglesi, qui”.<br />

“Tu di dove sei?”.<br />

“Del Brasile”.<br />

“E tu, Viktor?”, chiede, guardandomi. Mi prende in giro?<br />

“Della Croazia”.<br />

“Non ci sono mai stata”.<br />

“Che peccato”.<br />

Demetrio guarda l’orologio. “Devo tornare in ufficio, questa pausa sta<br />

64


durando troppo. Ti farò avere il test nel giro di mezz’ora”, dice, posando<br />

i soldi del caffè sul bancone.<br />

“Devo aspettare qui?”, chiede Gianna con aria depressa.<br />

“Come vuoi”.<br />

Demetrio esce dalla stanza, mentre lei resta davanti a me. Io ignoro il<br />

suo sguardo insistente e, dopo aver riposto tutti i panini nel frigo, mi<br />

dedico al primo di oggi (riso in salsa piccante).<br />

Lei continua a fissarmi mentre dò inizio ai lavori.<br />

“Vuoi qualcosa?”, le chiedo bruscamente. Inizia a infastidirmi con quell’aria<br />

critica.<br />

“Siete tutti così maleducati in Croazia?”.<br />

“Siete tutti così invadenti in Italia?”.<br />

“La tua musica era invadente quanto lo sono io adesso”.<br />

Scoppio a ridere, che situazione stupida.<br />

“Sì, noi cuochi della Croazia che viviamo in Inghilterra siamo molto,<br />

molto maleducati”.<br />

“E vivi qui da molto?”, mi chiede lei. Stavolta sembra solo curiosa.<br />

“Da due mesi. Sto da un mio cugino che vive qui da anni”.<br />

Cade il silenzio. Io inizio a cuocere il riso.<br />

“Quanti anni hai?”, mi chiede a un tratto lei.<br />

“Ventuno, e tu?”.<br />

“Diciotto”. Ahi, stavolta mi ero sbagliato.<br />

“Questo riso sarà fantastico vedrai”.<br />

“Al massimo vedrò le facce dei poveretti che lo assaggeranno”.<br />

Demetrio rientra nella stanza con il suo solito sorriso a trentadue denti<br />

bianchissimi.<br />

“Eccoti qua Gianna!”, le tende un foglio di carta, il suo test corretto.<br />

“Classe avanzata!”.<br />

Mi butterei nel riso bollente. Ho indovinato anche questo.<br />

I giorni passano e quella ragazzina diventa sempre più boriosa.<br />

Il mio solito intuito mi informa che ha puntato Demetrio, solo che lui,<br />

calatosi perfettamente nella parte dell’impiegato molto, molto professionale,<br />

sta alla larga da tutte le studentesse. Gianna compresa.<br />

Tra noi invece l’unico rapporto rimane il caffè prima delle lezioni: dal<br />

secondo giorno in poi, espresso. Scambiamo qualche parola con scarsa<br />

delicatezza, lei sempre altezzosa, io insolente. Mi rendo conto che<br />

65


avremmo molti argomenti di conversazione, ma non abbiamo nessuna<br />

voglia di abbassare la guardia e chiacchierare come persone normali.<br />

Così andiamo avanti per parecchi giorni senza farci problemi, lei parlando<br />

con tutti tranne che con me, io rendendomi sempre antipatico e<br />

mostrandomi occupato in qualcosa ogni volta che c’è lei.<br />

Un giovedì mattina, arrivo un po’ più presto perché mi sono messo in<br />

testa di preparare un piatto orientale abbastanza elaborato: gli involtini<br />

primavera, mia massima espressione del corso di cucina internazionale<br />

a Zagabria. Sono appena le otto e mezza, ma Gianna è già all’ingresso<br />

dell’edificio.<br />

“Che fai già qui a quest’ora?”, le domando.<br />

“Non sono affari che ti riguardano”, risponde.<br />

“Se aspetti Demetrio, arriva alle nove meno un quarto, basta chiedere”.<br />

“Vaffanculo Viktor”.<br />

“Grazie cara”.<br />

Vado dritto in Cafeteria con il sorriso sulle labbra e inizio i preparativi<br />

per gli involtini: nel frattempo sistemo la spesa appena fatta: frutta,<br />

yogurt e croissant per colazione.<br />

Gli studenti iniziano ad arrivare, ma Gianna non viene a prendere il suo<br />

solito espresso. Mentre servo tè e caffè in quantità agli studenti assonnati,<br />

scruto tra i tavoli. Ci sono i suoi amici e c’è anche Demetrio, a un<br />

tavolo con gli altri della segreteria, ma lei no. Forse se l’è presa.<br />

Alle nove spariscono tutti nelle aule e io riprendo a dedicarmi ai miei<br />

involtini primavera: non sono passati neanche dieci minuti che arriva<br />

Demetrio con altri due impiegati.<br />

“Viktor spegni quella radio e accendi la televisione”.<br />

“Che succede?”, domando seccato.<br />

Nessuno mi risponde. Accendo il televisore e guardo, sorpreso come<br />

tutti gli altri, le ultime notizie. Nel giro di pochi minuti ci sono state tre<br />

esplosioni su tre treni della metropolitana, uno dei quali non molto lontano<br />

da qui. Molti treni sono bloccati, il traffico sotterraneo è paralizzato.<br />

Nei minuti che seguono gli studenti scendono dalle aule a gruppi di dieci<br />

o quindici, insegnanti compresi; hanno ricevuto telefonate da casa e sono<br />

corsi a cercare conferme. Londra è nelle televisioni di tutto il mondo.<br />

La Cafeteria non è mai stata così piena, mi viene chiesto di prendere<br />

delle sedie in più sul retro, di preparare qualche caffè. C’è anche<br />

Gianna, seduta da sola vicino al pianoforte, pallida, scossa. C’è confu-<br />

66


sione, Demetrio traduce in portoghese per un gruppo di brasiliani che<br />

non capiscono dalla televisione, imitato da un impiegato giapponese<br />

che inizia a tradurre per i suoi connazionali. La televisione non si sente<br />

più, in compenso però si vedono le immagini dei treni sventrati.<br />

Poco dopo arriva la notizia di un pullman saltato in aria. L’ipotesi del terrorismo<br />

prende piede, anche se ancora non giungono conferme.<br />

La mattina passa così finché, a ora di pranzo, molti studenti decidono di<br />

tornare a casa. Nessuno ha voglia di continuare le lezioni e non è davvero<br />

il caso di uscire per la città: si sentono sirene della polizia dappertutto<br />

e il trasporto pubblico è bloccato. La Cafeteria si svuota rapidamente, io<br />

abbandono l’idea di cuocere i miei involtini e metto tutto nel freezer.<br />

Demetrio torna in segreteria senza uno sguardo per nessuno. Il direttore<br />

rientra nel suo ufficio; la tristezza si è impadronita di tutta la scuola.<br />

Gianna è rimasta seduta vicino a pianoforte, non si è mai mossa, se non<br />

per dire a un paio di amiche che non torna a casa con loro, resta lì.<br />

Io non le dico niente, anche perché sarei costretto a scusarmi per averla<br />

offesa, stamattina.<br />

Continuo a pulire la cucina dalle macerie di una colazione durata quattro<br />

ore, evitando di guardarla. A un tratto il suo telefono squilla insistentemente.<br />

Lei risponde. Parla in italiano, capiscono soltanto poche<br />

parole. “Ciao”, “Mamma”, “bombe”, “Londra”, “New York”. La parola<br />

“New York” ricorre più volte. Gianna parla a voce sempre più forte,<br />

scatta in piedi, misura la stanza a grandi passi; a un tratto grida qualcosa,<br />

infine interrompe la conversazione. Io intanto mi sono fermato e la<br />

guardo da dietro il bancone.<br />

“Beh, sarai contento”, mi dice lei. Due grosse lacrime le scendono sul<br />

viso.<br />

“Contento? Che stai dicendo?”, replico. Mi si è formato un groppo alla<br />

gola.<br />

“Me ne vado da Londra”.<br />

Fa per uscire, ma io non posso lasciarla scappare. Esco da dietro il bancone<br />

in un secondo e la raggiungo quando ormai è già alla porta.<br />

“Gianna, ma cosa…”.<br />

La fermo, afferrandola per un braccio. Un secondo dopo è lì che piange<br />

a dirotto tra le mie braccia. Io non sono mai stato così in imbarazzo,<br />

ma allo stesso tempo mi sento bene, mi sembra quasi di riuscire a proteggerla<br />

in questo modo.<br />

67


“Mi vuoi spiegare cosa succede?”, le dico, con un tono che è inusuale<br />

per me.<br />

Ci sediamo sul divano sfondato. Siamo completamente soli.<br />

Gianna si asciuga gli occhi e incomincia a parlare.<br />

“Mi ha telefonato mia madre. Mi ha prenotato un volo per domani mattina,<br />

per tornare in Italia”.<br />

“Ma… Perché? Per l’attacco che c’è stato? Non ti è successo niente, no?<br />

Stai bene, no?”, chiedo io, confuso.<br />

“Sì, ma… C’è una cosa che non sai, che non sa nessuno, qui. Quando ero<br />

a New York era il settembre del 2001”. Inizio a capire. “Ero sotto le Torri<br />

Gemelle quando sono state colpite. Capisci? Io e i miei genitori stavamo<br />

per salire sulla torre che ci è crollata davanti. Se fosse successo cinque<br />

minuti dopo, sarei stata lassù, avevo solo tredici anni, non capivo fino in<br />

fondo… Quelle grida, quei corpi, quella polvere… Mi madre non vuole<br />

che resti qui, nello stesso clima di terrore. Devo tornare a casa”.<br />

“Ma vuoi tornare?”, le domando io.<br />

“No!”, risponde. “Io sto bene qui. Non stavo così bene da anni… Vorrei<br />

restare fino a settembre, come previsto, ma lei ha già deciso…”.<br />

“Scusa Gianna, ma non puoi opporti?”, le chiedo, nervosamente.<br />

“Non posso fare niente Viktor. Ho solo diciassette anni”.<br />

E così aveva mentito per fingersi più grande, e così avevo indovinato<br />

anche questo fin dall’inizio. Ora sento una stretta al cuore mentre la<br />

guardo, così piccola e infelice, accanto a me sul divano.<br />

A un tratto entra Demetrio. Gianna è ancora in lacrime, con una mano<br />

tra le mie e la testa sulla mia spalla.<br />

“C’è qualcosa che non va?”. La voce è gelida, mi guarda con un’aria sospettosa.<br />

Istintivamente, ritraggo le mani, ma Gianna non le lascia andare.<br />

“Niente”, Gianna tira su col naso. “Per favore vai via, Demetrio”.<br />

Lui esce alzando le spalle. Ci guardiamo.<br />

“Ma allora non ti piace Demetrio”, dico, quasi tra me.<br />

“No, non è Demetrio a piacermi”, risponde lei, altrettanto piano.<br />

Questo non l’avevo capito.<br />

Appoggia di nuovo la testa sulla mia spalla, singhiozzando sempre più<br />

piano. Io circondo la sua vita esile con le mie braccia.<br />

È triste doverla perdere proprio ora che l’ho trovata.<br />

68


Claudia Masucci<br />

Strade<br />

GENERE STORIA DI SGUARDI<br />

1 RACCONTO DA<br />

5 f e r m a t e


Claudia Masucci<br />

Sono nata in un piccolo paese a metà strada tra Torino e Aosta ma ormai da<br />

alcuni anni mi sono trasferita a Napoli, la città dei miei genitori; questo cambiamento<br />

mi è servito a osservare tutto con uno sguardo diverso e un distacco<br />

che, mi rendo conto, non avrei potuto avere se avessi vissuto fin dai<br />

primi anni di vita a Napoli. Riesco a indignarmi per situazioni che ai più sembrano<br />

ovvie ma riesco anche, con un’ingenuità tutta “provinciale”, a stupirmi<br />

delle meraviglie e dei piccoli miracoli che talvolta si verificano in questa città.<br />

Ho frequentato il liceo classico, che ho profondamente amato. La scelta dell’università<br />

non è stata facile: che fare? Non c’era nulla che non mi piacesse;<br />

escludendo le materie scientifiche, per le quali avevo una minore attitudine,<br />

restavano comunque Giurisprudenza, Lettere classiche e moderne,<br />

Lingue, ma soprattutto la mia passione: Filosofia. Alla fine ho optato per<br />

Giurisprudenza: non si è trattato di una scelta residuale, quanto piuttosto di<br />

un impegno ad agire in modo concreto verso un cambiamento. Non ho<br />

ancora capito, però, se per cambiare il mondo servano di più le parole o i<br />

fatti… e quindi continuo a studiare anche il resto e a seguire i seminari presso<br />

l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Fin da piccola ho sempre letto tantissimo,<br />

di tutto: all’inizio soprattutto i classici del giallo e dell’avventura, ma<br />

poi ho scoperto tutta la letteratura italiana e i grandi capolavori<br />

dell’Ottocento e del Novecento. È impossibile dire quale sia il mio autore<br />

preferito, ma ultimamente sono particolarmente “presa” da Calvino,<br />

Queneau, Borges, Hemingway, Garcìa Màrquez… Passo continuamente<br />

dalla letteratura antica a quella contemporanea, da quella impegnata ai puri<br />

esercizi di stile, e non c’è angolo del mondo che non m’incuriosisca. Penso<br />

tra l’altro che sia necessario leggere in lingua originale per apprezzare davvero<br />

un libro e lo faccio sempre, per quanto le mie conoscenze linguistiche<br />

(inglese, francese, spagnolo, poco portoghese) me lo consentano. Scrivo<br />

tantissimo ma soprattutto per me, come sfogo, per chiarirmi le idee, per<br />

comunicare con gli altri: scrivo decine di e-mails al giorno, non amo il telefono.<br />

Solo ultimamente ho iniziato a cercare di razionalizzare quello che inizialmente<br />

era soltanto un torrente di emozioni. Mi piacerebbe molto scrivere<br />

su un giornale.


71<br />

Strade<br />

Se non temi dio, temi i metalli.<br />

Jorge Luis Borges<br />

Luce-buio-luce-buio-luce-buio.<br />

Lo sconosciuto guida rapido e sicuro, silenzioso. Lo sconosciuto guida<br />

immobile guardando dritto oltre il parabrezza e se non vedessi la tangenziale<br />

scorrere veloce penserei che non ci stiamo muovendo.<br />

Luce-buio-luce-buio-luce-buio.<br />

Passiamo rapidi nei coni di luce dei lampioni e poi di nuovo buio.<br />

Luce-buio-luce-buio-luce-buio.<br />

Non ho paura; il trucco è, un passaggio alla volta. Risolvere un problema<br />

alla volta come gli stupidi, senza pensare alle conseguenze, senza<br />

guardare a un metro dal proprio naso. Una parte del cervello ignora<br />

completamente l’esistenza del problema mentre una parte l’ha già risolto.<br />

Punto agli obiettivi minimi. Traccio le traiettorie essenziali. Non mi<br />

pongo nessuna domanda.<br />

Nella tasca della giacca scopro qualcosa di freddo, metallico. Come c’è<br />

finito? Lo stringo.<br />

Mi godo la corsa attraverso il nulla ma poi mi accorgo che sorrido.<br />

Sono in auto con uno sconosciuto che guida immobile e muto, lanciata<br />

ai centocinquanta all’ora verso una città che mi corre incontro troppo<br />

veloce e… sorrido?<br />

Rido quasi, ora: adoro i paradossi.<br />

La città mi corre incontro ai centocinquanta all’ora e inizio a vedere i<br />

grattacieli del centro direzionale e gli scrostati, insignificanti palazzi


che si trovano alla periferia di ogni città. Il mare.<br />

Il mare è una sensazione vaga, costante. Il sentore di qualcosa che non<br />

sai. Quando abiti in una città di mare non importa se non lo vedi, coperto<br />

dai palazzi: lo senti lo stesso. Forse è l’aria, più limpida e più salata<br />

insieme, o forse è il richiamo rauco e ritmato delle navi. Forse è la luce:<br />

una luce inspiegabile,sempre uguale eppure sempre nuova, col sole e<br />

con la pioggia. È la luce che si nasconde tra i palazzi grigi, invisibile, e<br />

poi ti acceca quando sei sulla terrazza più alta di Castel dell’Ovo, a stordirti<br />

di vento e di gabbiani.<br />

Lo sconosciuto mette una mano sul cambio, il profilo resta perfettamente<br />

immobile. Accarezzo il metallo e mi chiedo se lui si ricordi che<br />

ci sono anch’io.<br />

Nel silenzio assoluto non riesco quasi a ricordare la sua voce, non<br />

riesco a immaginare alcun suono. Da quando siamo saliti in auto non ci<br />

siamo scambiati nemmeno una parola: eppure non è un silenzio imbarazzato.<br />

È il silenzio intento di chi rincorre i fili di pensieri troppo ingarbugliati,<br />

di chi pensa talmente forte da dimenticare cosa stava pensando.<br />

Mi sembra di non aver mai parlato, di non aver mai saputo parlare,<br />

che non potrò parlare mai più.<br />

Guardo lo sconosciuto guidatore e penso al caso. Il caso per cui noi<br />

due ci troviamo uno a fianco all’altra a respirare la stessa aria e vedere<br />

lo stesso cielo, senza neanche sapere perché, nessuno sa perché. Il<br />

caso per cui ogni giorno incrocio lo sguardo di milioni di sconosciuti e<br />

per un momento c’incontriamo: ci scambiamo qualcosa. Sono le persone<br />

che vedo ogni mattina per strada, sul pullman, sulla metro: sconosciuti<br />

che diventano familiari, di cui osservo i particolari, completo<br />

le storie. Ogni cosa che fai parla di te. E allora io osservo le loro mani,<br />

i libri che leggono, come si muovono. Osservo i loro occhi: se sono<br />

appannati o assonnati, se sono felici. Cos’hanno sognato stanotte? Da<br />

dove vengono? Cosa pensano? Se colleghiamo con delle linee tutti i<br />

pensieri di tutti i passeggeri di un pullman, e poi i pensieri dei pensieri,<br />

e i pensieri dei pensieri dei pensieri, colleghiamo tutti i punti del<br />

mondo. Tutte le lingue.<br />

Questo guidatore immobile e silenzioso, questo Frollo dalla faccia di<br />

pietra: cosa pensa? Cosa sa?<br />

La tangenziale scorre veloce sotto di noi e tutto sembra diverso, a questa<br />

velocità. Sembra di essere nel vuoto siderale: non ci sono odori,<br />

72


umori. Non c’è vento. Non c’è neanche il tempo.<br />

Quand’è stata l’ultima volta che ho scordato il tempo, che ho smesso di<br />

osservare incantata le lancette di un orologio sempre troppo veloce?<br />

Doveva essere in una metropolitana qualsiasi in un giorno qualsiasi,<br />

persa a osservare gli Altri.<br />

Ci sono quelli che incontro tutte le mattine, i pendolari. A seconda del<br />

luogo dove ci incrociamo capisco quanto sono in ritardo. Ci scambiamo<br />

uno sguardo d’intesa, sembra dire: “Ti vedo, ti ho riconosciuto. Almeno<br />

per oggi esisti sul serio: te lo garantisco io”. Osservo i piccoli cambiamenti<br />

- il colore dei capelli, lo smalto, i vestiti - e mi chiedo quanto siano<br />

significativi.<br />

Ci sono quelli che vedo una volta ogni tanto ma che mi restano impressi.<br />

Quelli con lo sguardo perso nel vuoto, quelli che ogni volta hanno<br />

una ragazza diversa; quelli che non smettono di leggere un secondo.<br />

Ci sono le badanti polacche e i ragazzi africani con le borse false da vendere<br />

per strada, le madri che parlano ai bambini lingue incomprensibili.<br />

Un tassello per volta, ricostruisco le loro vite. Persone con cui condivido<br />

un rumore. Un colore. Un odore.<br />

A volte diventano personaggi quasi sognati, degni di vivere soltanto<br />

dove li ho incontrati. Scoprirli in altre situazioni mi sconvolge quasi:<br />

dunque esistono davvero! Dunque hanno cani da portare a spasso, case<br />

a cui tornare. Ognuno di loro la sera va a dormire in un letto. Ognuno<br />

di loro è nato da una madre, ha un primo ricordo, ha visto qualcosa che<br />

io non so, che io non saprò mai. Ognuno di loro è unico e diverso: impenetrabile.<br />

Loro mi ricordano? Un fantasma inventato in una metropolitana<br />

deserta; il riflesso di uno specchio sempre appannato.<br />

Alzo gli occhi, guardo fuori e siamo all’uscita della tangenziale. Dove<br />

stiamo arrivando? Il freddo metallo nella tasca, stranamente, conforta.<br />

Fa compagnia. Iniziano a scorrere nuove strade, questa volta lentamente,<br />

nel traffico. Il tempo di godersi i particolari. Le strade sono soltanto<br />

una sensazione, l’idea vaga di qualcosa che sarebbe potuto essere<br />

ma non è stato. Una direzione da prendere. Ripenso alle città che ho<br />

visto, tante città invisibili oppure solo una, forse nessuna, forse immagino<br />

soltanto. Davvero ricordo? Oppure sogno immagino aggiungo<br />

modifico dimentico completo? Mi ricordo una strada un po’ buia piena<br />

di strumenti musicali, una melodia calda e lontana, esotica. Già allora<br />

mi sembrava d’averla già intuita: in un sogno, forse? E poi una strada<br />

73


piena di libri; bancarelle, libri nuovi o con le copertine sgualcite, ingiallite.<br />

Libri odorosi, da respirare voluttuosamente. Da sfogliare, per trovare<br />

tra le pagine segni misteriosi e messaggi cifrati. Un quadrifoglio.<br />

Scoprire le “orecchie”. Non sono mai stata d’accordo con chi dice che<br />

non bisogna fare le orecchie ai libri. Le orecchie ci raccontano chi l’ha<br />

letto prima di noi. Dove si è fermato. Quali sono i passaggi che è tornato<br />

a rileggere mille volte, che avrebbe riletto per sempre.<br />

Passo la punta delle dita sulla superficie levigata nella mia tasca, scopro<br />

delle asperità. Massaggio la punta dell’indice contro una parte più<br />

appuntita.<br />

Ci infiliamo per vicoli stretti e intricati, palazzi che si toccano e panni<br />

stesi. Davanti alla soglia di casa, una vecchia sdentata sbuccia le patate.<br />

Come per magia, un paniere vuoto si cala dalla finestra del secondo<br />

piano. Strade anonime, larghe e dense di traffico. Strade dai nomi magici,<br />

evocativi. Vicoli in cui perdersi e perdere la memoria, dimenticare<br />

dove si stava andando perché quello che importa non è più la meta ma<br />

godersi ogni passo. Questa è la mia città e la sto riconoscendo una strada<br />

alla volta.<br />

Un neon di troppo e sono di nuovo in auto con uno sconosciuto, in rotta<br />

verso non so dove. Forse l’ho soltanto dimenticato? Un trillo improvviso<br />

e sussultiamo entrambi, ci guardiamo costernati. Il suo telefono ci ha<br />

riscossi dal limbo immemore dell’assenza di suono. Lo spegne, nervoso.<br />

Per un momento i nostri sguardi s’incrociano e mi chiedo da dove<br />

venga quest’uomo con gli occhi stanchi, grigi, che contrastano stranamente<br />

con i capelli, neri d’un nero inchiostrato. La barba sfatta non lo<br />

rende interessante come gli uomini sulle riviste: sembra solo più stanco,<br />

più grigio.<br />

Quand’ero piccola pensavo che tutte le città fossero uguali. Milano,<br />

Roma, Napoli: erano città. Città era: tante case, tantissime, più che in un<br />

paese. Poco verde e tante auto. Fabbriche e operai che vanno a lavorare.<br />

Questo valeva per ogni città in ogni parte del mondo, e non potevo<br />

capire come la gente potesse amare viaggiare da una città all’altra. Per<br />

me viaggiare era soltanto attraversare pianure di mille verdi diversi,<br />

montagne e colline. Vedere il mare. Conoscere le strade un metro alla<br />

volta, sentire le distanze.<br />

Non ricordo quando ho capito cos’è che rende Milano diversa da Roma,<br />

da Napoli. Da Parigi. Forse non l’ho ancora capito.<br />

74


Ferma a un semaforo mi accorgo che quello che amo della mia città<br />

sono le infinite possibilità, le infinite combinazioni. Gli infiniti incontri<br />

scontri sguardi. Il caso e la necessità. Mi ricordo che questa è la mia<br />

città, e viverci è una missione. La missione è renderla come vorremmo<br />

che fosse. La differenza tra l’essere e il dover essere, partire dalla sua<br />

essenza senza adeguarci al contingente. Cambiarlo. Non sopravvivere<br />

alla meglio, non sopportare una situazione insopportabile: cambiarla.<br />

Ferma a un semaforo mi accorgo che è proprio questa missione ad<br />

avermi stancata.<br />

Ci troviamo in una strada che qualunque viaggiatore ha già incrociato,<br />

da qualche parte: molto lunga e molto larga, molto colorata. Piena di<br />

gente. All’improvviso mi pare di vederla in un mattino presto, d’inverno:<br />

incolore, quasi deserta, i passanti si affrettano indaffarati, ognuno<br />

con la sua andatura. Si colpiscono l’un l’altro con occhiate sempre diverse:<br />

ora lunghe e sfacciate, ora brevi e nascoste, ora casuali… Qualcuno<br />

guarda per terra: è ancora troppo presto per iniziare la quotidiana<br />

danza degli sguardi. Il cielo bianco non lascia presagire niente di<br />

buono: sarà una di quelle giornate fredde e dure, solitarie. Sospese. Mi<br />

ricordo la strada che facevo ogni mattina per andare a scuola. Il molle<br />

piacere della routine. Conoscere ogni buca e ogni particolare a memoria,<br />

contare i passi a occhi chiusi. Attraversare sempre nello stesso<br />

posto, fermarsi sempre dallo stesso giornalaio: “Buongiorno”<br />

“Buongiorno”. Avrei dovuto odiare quella strada sempre uguale, quegli<br />

incontri sempre uguali. Invece li amavo. Bisogna rischiare tutto per<br />

amare la banale quotidianità. Bisogna imparare ad apprezzare i piccoli,<br />

tiepidi particolari che riempiono il cuore, che strappano un sorriso.<br />

Bisogna avere dei ricordi e delle immagini conservate in fondo agli<br />

occhi per poter amare ogni giorno una strada grigia, anonima.<br />

Possiamo cambiare letto tutti i giorni, possiamo parlare lingue diverse<br />

e scoprire realtà differenti: ma dobbiamo avere una strada in cui ritornare.<br />

Un letto che sarà più comodo degli altri…<br />

Ma non siamo più sulla strada larga: ci stiamo inerpicando su per un<br />

dedalo di vicoli minuscoli, ingombri di motorini e spazzatura. C’è gente<br />

davanti alle soglie di casa e sembra incredibile che ogni volta riusciamo<br />

a passare. Improvvisamente lo sconosciuto svolta in un vicolo non più<br />

noto né più nuovo degli altri. Svolta e si ferma. Sembra sorpreso, anche<br />

se resta immobile. Se fumassi, sarebbe il momento per accendere una<br />

75


sigaretta. Stiamo così, fermi in silenzio, per un po’ di tempo. Poi apre la<br />

portiera dell’auto e scende. La resa dei conti. La battaglia finale. Con il<br />

cuore impazzito, stringo forte il metallo e mi preparo. Scendo anch’io.<br />

Il biancore lucente dell’auto mi stordisce nel buio. Lo sconosciuto sembra<br />

scosso. Ci confrontiamo ancora un momento in silenzio, perplessi.<br />

Più che una battaglia sembra un dialogo tra due sordomuti che non<br />

sanno cosa dirsi. Alzo gli occhi a disagio e c’è un cancello. Un cancello<br />

che ho aperto milioni di volte o forse nessuna, tornano in un secondo<br />

tutti i cancelli della mia vita, latitudini e climi diversi. Una canzone. C’è<br />

una ferita - in fondo al cuore - grande come - non l’hai vista mai - guarda<br />

il sangue il suo colore - è bellissima. Questo è solo un cancello grigio<br />

come tutti gli altri eppure è diverso, lo riconoscerei a occhi chiusi.<br />

Riconoscerei al tatto la goccia di vernice vicino alla serratura, la superficie<br />

leggermente scabra.<br />

Il tassista prende la valigia nel bagagliaio e la posa delicatamente per<br />

terra, come in un sogno. Improvvisamente si riscuote: “Grazie. Signurì,<br />

so’ diec’euro”.<br />

Gli metto in mano il pezzo di carta e tiro fuori le chiavi, scelgo quella<br />

grande. La giro sicura nella serratura.<br />

A partire non ci vuole niente. Il difficile è, come sempre, ritornare.<br />

76


Fabrizio Caracausi<br />

Milano come la sua pancia<br />

GENERE STORIE DI VITA<br />

1 RACCONTO DA<br />

4 f e r m a t e


Fabrizio Caracausi<br />

Nato a Ponte dell’Olio in provincia di Piacenza, vive fin dalla seconda settimana<br />

della sua vita a Milano. Dopo la licenza media inferiore, decide, al<br />

principio con scetticismo, di frequentare il liceo linguistico. Dopo quattro anni<br />

di lingue, si accorge che gli piacciono proprio e che sono compagne di viaggio<br />

indispensabili in ogni occasione. Ama la sua città, e non la cambierebbe<br />

con nessun altra al mondo, ama viaggiare e scoprire cose sempre nuove.<br />

Fra i sui interessi troviamo: la fotografia, i computer, la lettura, il cinema, la<br />

musica, le ragazze (come universo complesso da decifrare), gli scout, gli<br />

amici, il vino, il cibo (solo se cucinato bene), la notte, il giorno e la vita in sé,<br />

ma si potrebbe andare avanti per ben più di duemila caratteri.<br />

Un giorno a scuola, legge annoiato una rivista per ragazze e trova il bando<br />

di concorso di Subway. Conosce già l’iniziativa e nella scorsa edizione ne è<br />

rimasto ammaliato. Con un po’ di indugi, finisce di scrivere il suo racconto e<br />

lo spedisce al Laboratorio E20.<br />

Ed eccomi qua, presento Milano come la sua pancia, dove cerco di mettere<br />

in relazione l’amore per una donna con l’amore che mi lega a questa città.<br />

Il racconto è molto breve ma emozionale, o almeno, spero che anche il lettore<br />

si immedesimi nella trama e riesca a provare le stesse sensazioni che<br />

io ho provato scrivendolo (piuttosto ambizioso e presuntuoso lo so).<br />

Ho deciso di partecipare al progetto Subway perché lo ritengo un ottima<br />

opportunità, per i giovani, di riuscire a invogliare al piacere della lettura, i<br />

propri coetanei, con racconti che parlino loro… di noi.<br />

Solo un’ultima piccola precisazione: nel titolo Milano e la sua pancia è<br />

nascosto un doppio senso, che si può chiaramente interpretare leggendo il<br />

racconto stesso. La pancia, che viene menzionata nel titolo, non è la pancia<br />

di Milano come si potrebbe pensare, ma bensì la pancia della ragazza,<br />

senza nome e senza volto descritta nel racconto stesso.


Milano come la sua pancia<br />

Amo la pancia delle donne. Fra tutte le cose che una donna ha da offrirmi<br />

io trovo serenità nel cullare il mio orecchio e la mia testa sulla sua<br />

pancia. La cosa che amo di più di un rapporto è quando ho il permesso<br />

di appoggiarmi alla sua pancia, e ascoltarla, e sentirla sotto di me, e<br />

baciarla, accarezzarla. Io amo le pance, accarezzare il respiro di una<br />

donna, stando solo a guardarle il ventre scendere e salire. Un atto di<br />

amore, un atto di purezza, di semplicità. Un atto di vita.<br />

E ora sono qui, abbiamo fatto l’amore e adesso dorme. Dorme e respira.<br />

Ha gli occhi chiusi, ma il suo sguardo è tanto indifeso quanto sicuro,<br />

sicuro di non essere tradito, sicuro di non essere turbato.<br />

Dorme, e respira. E io la amo, Dio… come non si fa ad amare una<br />

donna che dorme mentre l’aria le gonfia la pancia illuminata dal primo<br />

raggio di sole del mattino?<br />

Sono in piedi e la guardo, vestito di tutto punto, mi mancano solo calze<br />

e scarpe. Il pavimento in legno grezzo è caldo e ruvido. È una sensazione<br />

piacevole, sentire il legno sotto i piedi. È un emozione stare qui e<br />

guardarla dormire, scalzo, sul pavimento.<br />

Sono in ritardo, mi devo sbrigare ma non posso abbandonare quest’immagine<br />

d’amore. Apro lo zaino, piano, per non fare rumore. Le scatto<br />

una foto. Vorrei tappezzare la città di questa immagine, vorrei far sapere<br />

al modo quanto la amo, vorrei far sapere al mondo come sono belle<br />

e comode le pance calde delle donne.<br />

Esco in silenzio, e scendo le scale. Potrei prendere l’ascensore, ma le<br />

scale aiutano a riflettere. L’ho letto da qualche parte. Riesco a incontrare<br />

lo sguardo della portinaia che mi osserva dalla guardiola, mentre<br />

esco di fretta dal portone. Uno sguardo indagatore, come se mi stesse<br />

79


chiedendo: “Perché sei felice?”.<br />

Fumo, sono per strada e fumo, sono per strada, fumo e sono felice, sono<br />

contento, non riesco a togliermi dalla testa la foto che io stesso ho scattato<br />

di lei che dorme. E sono felice, sono felice di non riuscire a schiodare<br />

dalla mia mente la sua pancia.<br />

Quante pance ci sono al mondo? Tante, tantissime, troppe, ma la sua è<br />

unica, lei è unica. Io la amo, io sono innamorato perso. Lei è un soffio<br />

di libertà nella mia vita. Lei è tutto quello che vorrei dare a mio figlio.<br />

Lei è tutto quello che non ho, tutto quello che non si può comprare o<br />

desiderare. Quando lei arriva, quando lei arriva nella tua vita, senza<br />

accorgertene, scopri una parte di mondo, un’emozione, che pensavi<br />

non esistesse e adesso non puoi farne a meno.<br />

Leggo, sono in metropolitana e leggo un libricino. Sono in metropolitana,<br />

sono accaldato, ho corso per prendere questo treno, ho lottato per<br />

riuscire a entrare nel convoglio. Ma non importa, adesso sono in metropolitana,<br />

seduto e leggo un libricino, uno di quei libricini che non narrano<br />

il racconto che portano scritto sulle loro pagine, narrano la loro di<br />

storia. Uno di quei libricini comprati in un sabato pomeriggio in fiera,<br />

in mezzo a tutte quelle bancarelle di cose usate, di bici rubate, di kefie<br />

ed eskimi. Uno di quei pomeriggi in fiera, passati sotto un cielo azzurro,<br />

quanto bello tanto anonimo, passeggiando e scambiando oggetti per<br />

fogli di carta colorati, barattando vestiti e autoradio per pezzi di metallo<br />

lucido. Uno di quei pomeriggi passati a scegliere libricini dal passato<br />

ricco di storie. E li vedi, nei loro scatoloni di cartone, poggiati in bella<br />

mostra da un uomo che poco distante legge un fumetto cercando di<br />

abbronzarsi. Li senti quando li tieni in mano, la carta consunta, la copertina<br />

sbiadita e le pagine ingiallite, rilegate solo con i fili spessi. Uno di<br />

quei libricini che non costano nulla, ma che hanno tanto da raccontare.<br />

Sono in metropolitana, accaldato, seduto, ma non riesco a leggere, lei è<br />

così incredibile, così libera, tanto libera da essere in due posti nello<br />

stesso momento. Lei è nel letto, dorme, ma è anche nella mia mente, e<br />

vive anche in me. Vive in me, quando facciamo l’amore, quando siamo<br />

stretti l’un l’altra sotto le lenzuola, quando camminiamo per le vie del<br />

mondo mano nella mano. Lei è viva dentro di me anche quando non mi<br />

è vicina. Quante donne in questo vagone, quante pance in questa metropolitana,<br />

in questa città. Saranno anche loro comode come la sua? E<br />

quanti uomini, come me, stanno pensando a una pancia in questo<br />

80


momento. Quanti uomini non hanno ancora scoperto la bellezza di una<br />

pancia?<br />

Sono tornato a casa, sono tornato a casa dopo un’intera giornata passata<br />

a scrutare il mondo vuoi dal finestrino della sessantuno, vuoi negli<br />

occhi della ragazza che sulla cinquanta legge distratta le notizie sul<br />

giornale. Sono tornato a casa, e guardo la sua foto, sono tornato a casa<br />

e sono solo, sono solo mentre il parquet accarezza le piante dei miei<br />

piedi, e guardo la sua foto, Sono tornato a casa, sono in piedi, scalzo,<br />

esattamente dove mi trovavo stamattina, e il caldo del legno sotto i miei<br />

piedi mi aiuta a rivivere la mia emozione. Osservo il suo sguardo. È<br />

finto, è solo una foto, ma è speciale, è una foto unica, è un emozione che<br />

solo io posso capire. La osservo, e vedo l’amore con gli occhi di un bambino.<br />

Guardo il mondo, fuori dalla finestra sopra il letto, con gli occhi di<br />

un innamorato. Guardo la mia vita scorrere sopra le ali del mio amore.<br />

Ed è così viva, così attraente. Dà una sensazione di freschezza. Ha il<br />

sapore della nutella, ma anche della menta e della mozzarella, quella<br />

buona. È Milano avvolta nel silenzio e nella bruma, è la macchina solitaria<br />

che alle quattro del mattino sorpassa la tua bici in fretta su via<br />

Albani. È la cinquantasette piena la mattina. È la sicurezza di sentire<br />

tutti i lunedì i rintocchi di un campanile nascosto a Cordusio. Ha una<br />

pelle liscia, morbida. È un piacere accarezzare le sue braccia, è un piacere<br />

scorrere le mie labbra sulla sua pelle, sulla sua pancia, è un<br />

momento magico, quando incontro le sue labbra, quando si sfiorano<br />

con le mie. È un piacere nuovo, un sapore sempre diverso. È vita, in<br />

potenza e atto, è pluralità di forme, di pensiero, è il suo odore sul mio<br />

cuscino al risveglio. È un bacio, una carezza del vento, un soffio di profumo<br />

di biscotti, è la cosa che più vorrei al mondo.<br />

Cammino, sono solo di notte e cammino. Non so bene il perché ma amo<br />

Milano di notte, mi sembra più mia, è solitaria silenziosa, sorniona. Si<br />

prepara a un’altra giornata di lavoro, a un’altra giornata di show. Come<br />

se tutti allestissero l’alzata del sipario alle prime luci del giorno. Tutti<br />

zitti, di notte si riposa, e Bramante già alle nove di sera rimane avvolta<br />

in un alone di mistero. Sferragliare di tram e rombo di autobus su e giù<br />

per le vie vuote e complicate di una città avvolta nel silenzio di milioni<br />

di pensieri.<br />

Sono solo, di notte e cammino. Scorgo, passo dopo passo luci accese e<br />

chiese dal sagrato illuminato. Sguardi appollaiati ai balconi, che scruta-<br />

81


no la notte dalle loro case. Penso, mentre sono solo e cammino. Penso<br />

che certe notti sembrano non finire mai, altre sono troppo brevi. E ti<br />

ritrovi a mangiare pizzette calde, al forno di via Trenno, mentre gli<br />

occhi ti suggeriscono già che manca poco al sorgere di un’alba che non<br />

ti lascerà mai deluso o abituato. E senti già le macchine moltiplicarsi<br />

sulle strade e la terra tremare per la prima corsa della rossa. E la senti<br />

già all’orizzonte, la senti sempre più tua, non ti abbandona. È sempre<br />

con te, non ti poni neanche la domanda del perché lei sia così. Lo è, e<br />

basta. E potrai girare il mondo in ottanta o cento giorni, potrai fare tutto<br />

quello che vorrai, potrai andare a New York e fare colazione sulla Fifth<br />

Avenue sorseggiando un cappuccino take-away, potrai andare a Buenos<br />

Aires e scrutare i palazzi di dieci-venti-trenta piani, in vendita per un<br />

pugno di dollari. Potrai andare a Berlino e dormire in uno dei suoi innumerevoli<br />

centri sociali. Ma lei sarà sempre lì, lei sarà sempre con te.<br />

Sempre vicina a ricordarti chi sei, e quanto la ami. Questo è l’amore: i<br />

suoi occhi osservare una barca a vela, scomparire all’orizzonte sul calar<br />

del sole su acque limpide e cristalline. E un soffio di vento trasporta<br />

poesia, mossa dal dolce sciabordio del mare e dai suoi baci.<br />

82


Mizar Castello<br />

Overdose<br />

GENERE DRAMMATICO<br />

1 RACCONTO DA<br />

9 f e r m a t e


Mizar Castello<br />

Parlo di me...<br />

“Troppo sensibile”<br />

“Non saprei dirti ch’io sia”, se non descrivendolo attraverso il retaggio di una<br />

piccola storia.<br />

Mi chiamo Mizar - nome arabo della stella del timone del Gran Carro -<br />

Castello. Forse, proprio per questa particolare caratteristica, sono sempre<br />

rimasta affascinata dalla sfera celeste e da quella “lanterna che presenta la<br />

luna bicornuta, ed io, a quanto pare, son l’uomo della luna”.<br />

Sono nata il ventun maggio degli anni Novanta, quegli anni di cui tutti ricordano.<br />

Quegli anni che si sono portati via leggende, che hanno strappato vite<br />

di geni come Kurt Cobain e Freddie Mercury. Una buona dose d’ottimismo<br />

di Mandela accompagnata da Samba Pa Ti.<br />

Sono cresciuta con gli ideali di persone che dicevano “per le cose in cui<br />

credo, lotto con tutte le armi di cui dispongo”; “io e te siamo una sola cosa:<br />

non posso farti male senza ferirmi”; con chi cantava di avere un sogno e con<br />

chi tentava di realizzarlo davvero.<br />

“Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono<br />

solo ciò che è limitato. Guarda con il tuo intelletto, e scopri quello che<br />

conosci già, allora imparerai come si vola”.<br />

Frequento il quinto anno del liceo scientifico A. B. Sabin, a Bologna. Bologna<br />

la città dai tetti rossi, il caput mundi medievale, una delle più importanti sedi<br />

dei Templari del 1300 e vertice del grande triangolo alchemico completato<br />

da Praga e Santiago de Compostela.<br />

La scrittura è una parte importante della mia vita, credo che essa sia in<br />

grado di trasmettere una melodia. Scrivere è come comporre, come far scintillare<br />

uno dei tuoi brani preferiti, quei brani che conosci alla perfezione (i<br />

miei brani partono dal death, passando per trash, black, power, industrial,<br />

gore, doom, grindcore, giungendo al progressive metal e al metalcore).<br />

Metal uguale rabbia: sfogo, dolore e, perché no, pazzia. Non male.<br />

Così chiudo, nella speranza di trovare l’Aleph anch’io, di poter sentire nel<br />

gorgogliare di un fiume tutte le vite scorrere in me. Probabilmente il Nirvana<br />

è nascosto dietro l’angolo, dietro quella stella a destra lontana, dritto fino al<br />

mattino, o forse nascosta negli occhi delle persone che ti stanno accanto,<br />

che stilla in lacrime. Termino ringraziando e cogliendo piccoli, scuri, fiori del<br />

male ai lati della mia strada. Saluti.<br />

“… et la met dans son cœur loin des yeux du soleil”.


85<br />

Overdose<br />

Buio. L’orrore di un abisso senza fine, senza voce, senza vita; che non ode<br />

le grida mute di gole lontane, non vede il vuoto lume di un altro tramonto<br />

d’un giorno che scompare, non sente gli squarti di una dolce carezza.<br />

Ombre piccole, malefiche e ossute slittano veloci da un lato all’altro del<br />

mio sogno oscuro: come posso scorgerle se anch’esse sono buie quanto<br />

il cielo? Corrono attorno a me, disattente, poco scaltre, senza nessun interesse<br />

nel non fare rumore. Tengono grosse lame d’argento strette nei<br />

loro pugni che non esistono. Sento sibilare le armi poco lontano da me,<br />

ne vedo lo scintillare opaco, vedo i miei occhi riflessi nella lama, vedo<br />

l’ombra che la stringe e vedo anche le altre anime, finalmente, in faccia.<br />

Le loro maschere cadono, senza un suono, s’appoggiano lievi al terreno,<br />

e lasciano respirare volti di persone che conosco bene, di coloro che<br />

siamo soliti chiamare amici. La lama scende di colpo. Poi il nulla.<br />

Spalanco gli occhi e un ago di luce mi trapassa il cervello. Un sudore gelido<br />

mi imperla la fronte e le tempie tremano sotto il rombo di un terremoto<br />

lontano. Mi metto a sedere, i miei movimenti sono così lenti, legati,<br />

compressi. Non riesco a respirare, un peso mi schiaccia e grosse punte<br />

mi trafiggono i polmoni. Non so cosa sia; o meglio lo so bene, ma faccio<br />

finta di non saperlo. Non dormivo da due notti, due lunghe notti insonne<br />

a scrutare la mia solitudine, a vedere la mia anima proiettata lontano dalla<br />

luce di una torcia. Guardo l’ora e sono le sei di mattina. Ho dormito quasi<br />

un’ora stanotte, sto migliorando. Quando non dormi tutto sembra così<br />

distorto, distante, stonato. Le persone diventano lugubri manichini, dalle<br />

sembianze cangianti, dalle parole e voci roche e lagnanti. Poi ti capita di<br />

dormire e quando ti svegli stai peggio di prima. Mi avvio verso il bagno<br />

per vedere le mie condizioni, ovviamente pessime. Lo specchio alto sul


lavabo m’attende paziente. Eccola, è sempre lì quella figura che mi aspetta<br />

dall’altra parte, che mi chiama in un mondo che è solo pensiero, che<br />

mi vuole. Quegli occhi mi guardano ogni volta con rimprovero, e ogni<br />

volta sprofondo nella loro incommensurabile insicurezza. Mi lavo la faccia<br />

e torno a scrutarmi, ma non mi sembra che la maschera sia cambiata<br />

o sia migliorata. Ora è soltanto una maschera più pulita. Con lentezza<br />

mi vesto, faccio la cartella, e guardo le eventuali interrogazioni: diritto. E<br />

chi l’ha studiato? Batto le ciglia due volte e sono le sette e tre quarti:<br />

come è possibile? Scendo le scale e sono in strada, l’aria pungente della<br />

mattina corrobora le membra spente ormai. Il corpo si muove da solo, io<br />

non sono più in grado di controllarlo. Avanzo nella squillante luce del<br />

giorno, che sorride benevola alle ali di chi può vedere in alto. Arrivo<br />

davanti alla mia scuola in dieci minuti. Un cancello grigio chiude le fauci<br />

su quello che dovrebbe essere un cortile, inghiottendo tutti coloro che vi<br />

entrano. Mancano ancora dieci minuti all’inizio delle lezioni e mi accendo<br />

una sigaretta. Inspiro. Il fumo scende dolce, come l’acqua di un fiume,<br />

giù, sempre più giù. Lo assaporo e poi espiro lentamente; i rigagnoli di<br />

fumo ondeggiano contro il cielo, serpeggiando maestosamente prima di<br />

dissolversi nell’aria. Allora attraverso le fauci, sorpasso tutti coloro che<br />

ancora assonnati sperano di volare via. Salgo le scale e raggiungo la mia<br />

piccola classe, con le tapparelle sempre tirate giù e le luci al neon che<br />

inondano l’ambiente di un alone di malattia. Il mio banco è quello in<br />

prima fila: lancio la cartella a terra, la giacca sulla sedia e mi lascio cadere<br />

anch’io sopra la giacca. La classe sciama attorno a me, le voci sono il<br />

rombo di una tempesta che non si placa, i volti contorti in smorfie che<br />

pensano rappresentino loro stessi. Da una parte vi sono coloro che credono<br />

di essere intelligenti e pestano con violenza tutto ciò che s’allontana<br />

dalla loro visione della vita e dal loro delirio di onniscienza. Dall’altra<br />

parte vi sono coloro che credono di essere intelligenti, ma non hanno né<br />

i mezzi né il coraggio di pestare tutto ciò che non si conforma ai loro pensieri<br />

e a ciò che credono giusto. Nel mezzo nessuno, se non io e il mio<br />

demone; così posso pestare tutti a prescindere. La professoressa entra in<br />

classe e si siede alla cattedra, di fronte a me, in quella scomoda posizione<br />

centrale, anche se credo che lei starebbe molto meglio sulla destra.<br />

Inizia un’altra mattina scolastica come le altre, sempre tutte uguali, noiose,<br />

monotone. Quando spiegano di solito mi accoccolo dietro la cartella<br />

che tengo sul banco; dormo meglio in classe che nel mio letto. Il profes-<br />

86


sore di diritto interroga e io non spiccico parola: cosa si può dire d’altro<br />

a un uomo per cui la legge impera, catastrofica e solenne, tentando di piegare<br />

tutto ciò che d’ingovernabile sfugge alla comprensione? Nulla. Così<br />

non ho detto nulla e mi sono presa un bel quattro. L’argenteo suono della<br />

campanella pone fine a quello che il professore crede sia un supplizio per<br />

me, perchè nell’ignoranza del nemico si trova sciocco e superbo. Mi<br />

metto la giacca ed esco nel cortiletto. Estraggo una sigaretta da quel pacchetto<br />

che dovrebbe essere mezzo pieno, ma alla fine è mezzo vuoto.<br />

Vedo un mio amico nell’orda di persone fumanti che s’agitano e schiamazzano.<br />

I suoi occhi tristi avanzano verso di me, il passo infermo, il sorriso<br />

mesto di un dolcezza violentata. Lo saluto con un sorriso, amo tutto<br />

ciò che di fragile guarda con gli occhi luccicanti e s’aggrappa al più piccolo<br />

segno d’affetto. Parliamo, di cose a caso, perchè non ha importanza<br />

quello che si dice ma cosa senti mentre lo dici, che mare ti si agita dentro.<br />

Riesco quasi a vedere il grande buco che ha dentro di sé, del quale<br />

tenta di coccolare le slabbrature per farlo bruciare di meno. Anche lui<br />

non ha dormito, anche lui porta la mia stessa maschera. Il suono argenteo<br />

della campanella ci avverte che ricomincia il tedio. Ci salutiamo dalle<br />

scale, io mi fermo e lui procede solitario sino al suo terzo piano. Passano<br />

altre due ore e arriva l’una, ma non so come. Respiro profondamente e<br />

sono quasi pronta ad affrontare il mondo, quello vero, quello del pomeriggio<br />

in centro. Esco da scuola, confusa in un’orda di spinte e gesti scurrili,<br />

di storie buffe e parole sotto voce, è il momento più vero e vivo a<br />

scuola. Vado alla fermata dell’autobus: devo andare in centro a pranzare<br />

con una mia amica. Guardo il cielo che mi schiaffeggia con il suo azzurro<br />

terso, con il sole cieco al di là delle catene e delle paure. Salgo sull’autobus<br />

e scruto attentamente alla ricerca di un qualche temibile controllore.<br />

Passo il ponte di Galliera e m’immetto in via Indipendenza lunga e<br />

immortale. Scendo all’ultima fermata di via Indipendenza e mi faccio un<br />

pezzo a piedi, sentendo la vita che sciama da tutte le parti, che vibra in<br />

canali che, non si sa come, non esplodono. Arrivo al punto in cui la schiena<br />

del Nettuno mi s’erge davanti, re della piazza, che si srotola sotto i suoi<br />

piedi. Raggiungo persone che conosco sulle scale della Sala Borsa, statici<br />

compagni del nulla pomeridiano. Saluto e mi seggo, intromettendomi<br />

in discorsi privati che non hanno remore a terminare in mia presenza.<br />

Con loro sento solo una grande, inimmaginabile rabbia, curata e compressa<br />

nei loro occhi, nei loro gesti, nelle loro parole. Ridono digrignan-<br />

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do quasi i denti e spostano lo sguardo famelico da un volto a un altro, in<br />

cerca di quel benessere che a loro manca e che vogliono succhiare. La<br />

mia amica arriva con mezz’ora di ritardo e le mie orecchie sono piene di<br />

odio. Mi alzo e andiamo in una pizzeria di via Ugo Bassi. Lei ha lo sguardo<br />

felice, lieto, ma quella letizia che deve esserci per forza, non che esiste<br />

perchè fa stare bene. Mi parla della sua vita, dei suoi problemi, delle<br />

sue paure. La mia amica è molto brava a parlare di sé, ma è incapace di<br />

ascoltare. Non riesce a decentralizzare la sua mente, anche solo per qualche<br />

secondo da lei, dalle sue sensazioni, dai suoi sentimenti. Non sa chiudere<br />

la bocca, chiudere il cervello, chiudere se stessa e aprire agli altri.<br />

Ma io ascolto lo stesso e taccio, perchè la accetto anche se non è capace<br />

di sentirmi. Finito di mangiare ci incamminiamo per le viottole in cerca<br />

di qualche negozio che a lei vada bene, saltando da un vestito all’altro, da<br />

una spesa a un’altra. Per la mia amica è importante, in questo cerca l’affetto<br />

che non ha, io la assecondo nella sua continua ricerca di quell’amore<br />

che tenta di comprare. Verso le quattro io sono sfinita, lei è ridanciana<br />

e con tre borse di plastica colorata in una mano e due nell’altra. La saluto<br />

perchè me ne devo proprio andare, mi dispiace tanto ma l’ultima storia<br />

del suo ragazzo me la dovrà raccontare la prossima volta. Scappo<br />

verso l’autobus che riesco a prendere per un soffio. Dal finestrino scorgo<br />

il mondo esterno: sullo sfondo sfocato sciamano tanti piccoli pupazzi dai<br />

mille colori, dalle tante forme e dimensioni, che hanno tanti pensieri<br />

diversi, battito del cuore diverso, passi diversi, lingue diverse, ma tutte la<br />

stessa insostenibile maschera. Le ombre sono l’unica cosa che attesta la<br />

vera materialità di queste figure che non vogliono lasciare alcuna traccia<br />

di loro. Guardo il mondo e vedo solo l’opaco riflesso di una notte senza<br />

luna, le stelle spente nel loro silenzioso angolo d’infinito, il tempo che<br />

corre su desolate lande di polvere rossa e misere ossa. Attendo che il mio<br />

viaggio finisca e quando arriva la mia fermata quasi mi attanaglia la voglia<br />

di non voler scendere mai più, di rimanere per sempre in moto stando<br />

ferma, senza dover camminare coprendomi gli occhi. Scendo e mi incammino<br />

verso casa del mio amico; ci metto solo venti minuti a trovare il campanello<br />

e poi suono. La sua voce chiede “Chi è?” come se non sapesse<br />

che sono io. Mi da il tiro e salgo le due rampe di scale. Il cancello e la<br />

porta sono aperte, aspettano solo i miei passi incerti. Lui è dentro che<br />

traffica da qualche parte con qualcosa, non saluta mai dalla porta. Entro<br />

e mi chiudo l’uscio alle spalle, tolgo la giacca e la appoggio sulla sedia. Ci<br />

88


salutiamo con un sorriso. I suoi occhi chiari sono diversi, quel verde<br />

parla di solitudine. I suoi sguardi sembrano lacrime silenti di una ferita<br />

mai chiusa, di una spirale di dolore, una dilaniante richiesta di un aiuto<br />

che ormai non cerca più. Ha i capelli lunghi e neri e parla molto poco. I<br />

suoi respiri, il modo in cui osserva e ride, parlano di lui solo, sono la sua<br />

firma solitaria in un posto da cui vorrebbe scappare. Irraggiungibile e<br />

lontano, vorrei donargli ciò che disperatamente chiede, ma ha perso fiducia<br />

in quello che può dargli la salvezza. Al suo fianco sento quasi i suoi<br />

timori; mi sembra una creatura così fragile, che al primo brivido rischia<br />

di svanire, di sparire, di dividersi per non unirsi mai più. Vorrei accarezzarlo,<br />

sfiorargli le gote, colmare quei vuoti che lo dilaniano dentro. Ma<br />

non è ancora pronto, non bisogna andare veloce o spaventarlo; bisogna<br />

muoversi lentamente perchè non sobbalzi tutte le volte che lo guardo.<br />

Parliamo poco, ma il cuore galoppa da solo, il cuore non è più mio, è suo.<br />

Le labbra parlano di giochi, di divertimento, di amici, ma lui è lontano, lui<br />

è al di là dello sguardo, oltre la luce. Un battito di cuore e sono le sette.<br />

Non torno a casa stasera. L’ultimo saluto con lo sguardo, l’ultimo colpo<br />

nel petto, l’ultimo sospiro di dolore. Scendo le scale e sono fuori, nell’aria<br />

fredda della sera. Il cielo è coperto da nubi, dalle quali la diafana luce<br />

della luna appare sporadicamente, getta un occhio sul mondo in subbuglio<br />

e, poi, se ne va. Penso al mio amico, che ho appena lasciato a casa<br />

sua, solo con se stesso, come è sempre stato, come vuole rimanere.<br />

Cammino nel buio e vado verso la fermata dell’autobus dove aspetto di<br />

veder spuntare gli occhi di fuoco da lontano, e vederli camminare sino a<br />

me. Il cuore mi batte nella gola e una morsa fredda mi attanaglia violenta<br />

lo stomaco, come se fossi braccata, un dito freddo mi percorre la schiena.<br />

Lo so, è lui, lo stavo aspettando. Pensavo d’essermene liberata, invece<br />

ecco la mia lama nel cuore, la ghigliottina sulla mia testa. L’autobus<br />

arriva, il bagliore del suo ruggito mi acceca quasi, e salgo. Dentro solo<br />

qualche persona che da tanto che è brutta dentro è brutta anche fuori.<br />

Vado nel centro, che è sempre affollato, che ha sempre qualcuno a vagabondare<br />

per i suoi capillari. Scendo in via Ugo Bassi e cammino per qualche<br />

stradina sperduta, scappando da tutto e tutti e scappando anche da<br />

me stessa. La strada è buia, l’ho scelta apposta. Mi acquatto nell’angolo<br />

più recondito, dietro al muro dell’oscurità, dietro al mio dolore che è<br />

scoppiato di nuovo, come sempre. Ho tutto dietro con me, lo so che<br />

rischio tanto, ma non importa. La morsa mi prende alla gola e graffia con-<br />

89


tinuamente, i polmoni bruciano, non riesco a trattenere le lacrime, sembra<br />

quasi che vengano vomitate, sputate fuori. Tremo come una povera<br />

stupida nel freddo improvviso d’una notte di gennaio, sotto il cielo delle<br />

classiche nubi grigie di Bologna. Vorrei vedere le stelle, ma non ci riesco.<br />

Sento come se stesse scoppiando tutto: tante piccole cariche poste in<br />

ogni piccola fenditura delle mie cuciture, dei rattoppi frettolosi dati agli<br />

strappi, alle membra slabbrate. Così tutto mi crolla addosso, ancora una<br />

volta, come sempre. Dentro di me l’agonia di una vita che muore, che si<br />

dibatte per trattenere quello che sta svanendo, che, irrimediabilmente, se<br />

ne sta andando. La vera essenza, quello che ho realmente dietro la mia<br />

maschera, è un dado di fragile cristallo, trasparente, puoi scrutarne la<br />

struttura ma non penetrare all’interno, cambia volto, cambia sensazione.<br />

Sono fragile come il cristallo: caduto tante volte che ha perso qualche sua<br />

lucente scheggia e non riesce più a trovarla. Sono esattamente come i<br />

miei amici, sono uguale a loro, ma non sono in grado di condividere il<br />

mio dolore. Tiro fuori dalla tasca un piccolo sacchetto di plastica trasparente,<br />

poi prendo anche il cucchiaino. Apro il sacchettino facendo meno<br />

scricchiolii possibili e con il cucchiaio prendo solo un po’ di quella magica<br />

polverina lunare, raccolta dalle braccia delle costellazioni. Chiudo il<br />

sacchetto e lo rimetto accuratamente nella tasca, prendo un accendino e<br />

accendo la fiamma sotto il cucchiaio. Lucente e meraviglioso il fuoco<br />

purifica, nasce vincente dal passato per bruciare il presente. Danza sotto<br />

i miei occhi una lingua sottile rossa e blu, morbida come le movenze di<br />

una danzatrice. La polvere bianca, perfetta, immacolata, si scioglie con<br />

mille bollicine in un liquido brunastro, che riesco a scorgere a malapena<br />

nella fioca luce. Dalla tasca tiro fuori un ago sterile, ancora incartato, lo<br />

scarto e lo aggancio alla siringa. Piano, con calma, immergo l’ago e aspiro,<br />

con estrema lentezza, con esasperante certezza. Lascio il cucchiaio<br />

vuoto e scruto attentamente la siringa, picchiettando l’ago. La siringa riluce<br />

beffarda in risposta al mio sguardo, coglie il flebile riverbero della luce<br />

e lo getta contro di me. Mi tolgo la giacca, la felpa e rimango in maniche<br />

corte in una notte di gennaio, il freddo umido di Bologna penetra dentro<br />

la pelle, fino alle ossa. Con un laccetto rosso, il laccetto d’un regalo di<br />

Natale, stringo il braccio in una morsa, e guardo le vene gonfiarsi. Tiro<br />

due buffetti sulla vena e guardo la pelle diventare rossa. Non sento più<br />

freddo ora. Ci sono solo il vento, il buio e il mio male incurabile. Ci siamo<br />

io e il mio demone, faccia a faccia. Lui sogghignante aspetta quel momen-<br />

90


to, quello in cui vincerà ancora una volta. Il male ha tanti aspetti, ha tante<br />

voci e volti. Il Male non svanisce mai, cambia forma, muta pelle, risorge<br />

dalle sue ceneri per tornare a ferire. Così la fenice nera, accucciata in un<br />

angolo del mio cielo, in me risorgerà, nell’eterna rinascita d’un giorno<br />

senza il ricordo della luce. Infilo l’ago, la solita puntura e il solito brivido.<br />

Il battere nel cranio occupa tutta la mia mente, il suonare costante del folgore<br />

nero d’una tempesta di cenere. Succhio un po’ di sangue; poi lo<br />

inietto piano, senza fretta. Finito mi rimetto la siringa in tasca, tolgo il laccio.<br />

Basta qualche minuto. Tutto esplode in mille scintillii policromi,<br />

come vetrate di grandi chiese profane, di tanti pensieri di un bambino<br />

ancora piccolo e innocente. Il cuore si calma, rallenta, si placa. Il peso<br />

doloroso svanisce, scompare portato via dalla notte. Le orecchie si spengono,<br />

tutto tace, il rombo lontano, il mugghiare dell’anima è stato vinto.<br />

Il respiro rallenta, rallenta ancora, ancora. Sento che si sta spegnendo,<br />

ma non mi rendo realmente conto, come inghiottita dal cemento che<br />

sembra così materno. Si spengono i pensieri, le grida, le paure, si spegne<br />

la mia mente e il mio dolore... mi spengo io ancora dalla parte sbagliata<br />

della vita.<br />

Sono nel buio ora. Quasi come nel mio sogno. Non c’è terrore qui e non<br />

ci sono grida. C’è una placida e soffocante oscurità che non mi fa respirare,<br />

che mi lascia nella lenta agonia di una morte senza rimpianto né<br />

rimorso. Nulla attorno a me mi permette di aggrapparmi, il nulla non mi<br />

permette di muovermi e agire. Cado e non so il perchè. O meglio, lo so,<br />

ma faccio finta di non saperlo. Non c’è dubbio, non c’è pena, non c’è timore,<br />

solo il calmo decesso delle mie speranze. Tutto sfuma nel nero.<br />

Apro gli occhi, di colpo. Mi scruto attorno: dove sono? Una luce al neon<br />

bianca e la morte in bocca, nel respiro, nei movimenti. Come si chiama?<br />

Il demone non c’è, non può rispondere. Io lo so, si chiama overdose. Chi<br />

è? Cos’è successo? Gli angeli esistono. Non sono figure alate dal vestito<br />

bianco. Sono macchie di colore improvvise e fuggevoli, che giungono poi<br />

svaniscono; sono macchine che stendono le loro lunghe braccia di circuiti<br />

su chi è andato troppo in là. Ma forse questa è la mia mente che<br />

parla, forse questa sono solo io che tento di dare una spiegazione a una<br />

cosa che io so, ma che faccio finta di non sapere. Il mio angelo... beh, il<br />

mio angelo si chiama Narcan.<br />

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Livia Satullo<br />

Innocente perversione<br />

GENERE RACCONTO INTROSPETTIVO<br />

1 RACCONTO DA<br />

8 f e r m a t e


Livia Satullo<br />

Ho diciotto anni e frequento il primo anno di Scienze Politiche all’Università<br />

di Messina, città che amo e che spesso ricorre nei miei scritti. Ho frequentato<br />

il liceo classico e ho avuto occasione di prendere parte a vari concorsi<br />

letterari a livello provinciale, regionale e nazionale. Le mie passioni più grandi<br />

sono sempre state le stesse: scrivere e fare atletica. Due attività delle<br />

quali non posso fare a meno. Esse rappresentano un modo di fuggire dalla<br />

realtà. Mi permettono, in modi differenti ma analoghi, di sfogarmi, liberarmi,<br />

riappacificarmi con me stessa e col mondo. E di sognare. Nei momenti di<br />

massimo sconforto ma anche in quelli di maggiore esaltazione, la penna è<br />

lì che mi aspetta e mi invita a prenderla in mano. Il fascino delle parole, la<br />

loro capacità di comunicare mi spinge a provare, ogni volta, il variegato e<br />

immenso universo verbale nel tentativo di esprimere l’inesprimibile. Ed è in<br />

questa loro capacità di essere così duttili, multiformi e polivalenti che risiede,<br />

a mio parere, il miracolo delle parole, che sanno dire tutto e niente.<br />

Miracolo che mi stupisce e rapisce ogni volta che scrivo.


Innocente perversione<br />

“Peppino, spostati di là! Lo sai che la mamma sta in pensiero se salti sugli<br />

scogli!” e, allo sguardo del bambino, dispettoso e provocatorio: “Peppino,<br />

torna subito qui! Altrimenti, ti giuro che le buschi da papà!”.<br />

La spiaggia dove andavano a fare i bagni d’estate non era altro che quel<br />

lembo di pietruzze grigie e sabbia fine dirimpetto alla casa. Un paio di<br />

metri di lido delimitati da due filari di scogli che uscivano come giganti dal<br />

mare per conquistare la terraferma. Grossi e spigolosi, Peppino li assaliva<br />

come un ardito patriota farebbe con le file nemiche per difendere la sua<br />

terra. E ogni volta, ogni pomeriggio, era una nuova lotta ch’egli ingaggiava<br />

contro quei mostri marini. In quelle ore dense di calura, quelle più noiose<br />

del meriggio, durante il quale il sonno pacifico della sazietà assale i<br />

corpi, in quelle ore Peppino era l’unico essere dotato di ragione ad avventurarsi<br />

fuori di casa. Quando il sole tramontava all’orizzonte Peppino era<br />

ancora a zampettare sul bagnasciuga, in riva al mare, tra le onde quiete<br />

della risacca che risucchiavano la sabbia.<br />

“Peppino torna qua!”, ma il bambino testardo ignorava i richiami materni.<br />

“’Sto picciriddu è un selvaggio. Non sacciu chiu com’ai a fari!”, sospirò la<br />

donna che sedeva all’ombra su una piccola seggiola di legno. Il vestito leggero,<br />

color panna, le svolazzava fresco tra le gambe, mosso dalla dolce<br />

brezza estiva che sempre soffiava tra le due sponde, facendo viaggiare dall’una<br />

all’altra sapori diversi, di diverse regioni e culture, unite, tuttavia, da<br />

quella familiarità col mare.<br />

Guardando svogliatamente alle spadare nello stretto sospirò. “Domani<br />

dobbiamo scendere in città. Tra poco inizia la scuola e Peppino deve comprare<br />

l’agenda e i quaderni”.<br />

“Peppino, basta! È arrivata l’ora di tornare a casa! Ti fai un riposino e poi<br />

95


prendiamo un gelato”. Mentre finalmente il bambino, allettato dall’ultima<br />

proposta, si avvicinava alle donne, la madre aggiunse: “E domani a fare le<br />

compere ti ci accompagna la zia Gina. Fai il bravo e non la fare impazzire,<br />

ci siamo capiti?”, dichiarò eccessivamente perentoria.<br />

Il bambino sembrò stranamente contento della notizia.<br />

Era arrivato l’autunno, ormai. Così sosteneva la zia Dora, sempre scettica<br />

e pessimista. Ignara forse del fatto che ancora si era a metà ottobre. E per<br />

i bagni, fino ai primi di novembre c’era ancora tempo. Erano i morti a sancire<br />

la fine dell’estate. Con la loro malinconia, con i loro sguardi vigili e<br />

fissi. Erano i morti, coi loro fiori, a salutare l’estate e a introdurre l’inverno,<br />

il freddo, le piogge. Sembravano fatti per l’inverno i morti. Quanto soffrivano<br />

l’estate! In quei loculi stretti, nel caldo torrido, che in breve faceva<br />

imputridire i fiori. In quel puzzo che aleggiava tra le tombe in quell’aria<br />

spettrale di dimenticanza, di abbandono, d’oblio.<br />

Non era ancora finita l’estate, questo era certo, ma quel giorno le nubi non<br />

lasciavano filtrare neanche un raggio di sole. Maria si stava cambiando<br />

nella sua camera. Dietro le tendine leggere la pioggia, prepotente, si<br />

abbatteva martellante, là dove fino a poco prima aveva spadroneggiato il<br />

sole. Regnava una quieta penombra nella stanza. Dinanzi allo specchio, in<br />

veste da camera, corta e trasparente, Maria si contemplava. Le forme<br />

magre ma armoniche e proporzionate, le vedeva riflettersi a pochi centimetri.<br />

Esaminava la faccia, le impercettibili imperfezioni del naso, il rossore<br />

naturale delle guance e delle labbra, le sopracciglia lunghe e scure,<br />

gli occhi grandi, marroni, le orecchie piccole e la fronte alta. Faceva smorfie<br />

alla sua gemella e, incuriosita, la guardava rispondere dall’altro capo<br />

dello specchio. Stupita di scoprirsi in quel modo. Si sentiva ancora giovane,<br />

lei. Solleva la gamba, muovi il braccio, scosta svogliatamente la sottana.<br />

Le tappe di una donna che si riscopre e ritrova allo specchio, nell’intimità<br />

più vera che è quella propria del corpo.<br />

C’è silenzio in casa: Gaetano è a lavoro e Peppino riposa nella sua stanza<br />

tappezzata di auto.<br />

Maria toglie la sottana. Lancia un ultimo sguardo alla sua compagna di<br />

scoperte. Di rimando le giunge però un altro sguardo. Inaspettato e al contempo<br />

presentito. Non è il suo. Sul fondo destro dello specchio un visino<br />

piccolo e birichino la guarda. Incuriosito. Avido di vedere, di scoprire.<br />

Dapprima non realizza di essere stato scoperto. Osserva quelle forme<br />

96


nuove. Non resiste, Peppino, dal distogliere lo sguardo dalla novità. Poi<br />

d’un tratto la vede quando, ripercorrendole il corpo, dalla punta dei piedi,<br />

ne incrocia infine lo sguardo. Lei lo fissa ormai da un po’. Il suo sguardo<br />

non è più lo sguardo di madre. È uno sguardo di donna. Lo guarda.<br />

Imbarazzata e impaurita. Attonita e sconvolta. Raccoglie le vesti nervosamente,<br />

copre in fretta il corpo appoggiandole maldestramente su di sé.<br />

Ma si sente ancora intrappolata da quello sguardo che dietro, ancora, può<br />

osservarla e studiarla impunemente. Peppino però, non ci pensa più.<br />

Coglie quello sguardo, ancora più nuovo di quel corpo. Coglie quell’interrogativo,<br />

misero e senza parole, stampato su quel volto di sconosciuta. E<br />

se ne spaventa. Una frazione di secondo per congedarsi definitivamente<br />

dalla madre, poi fugge via.<br />

“Qual è il problema? sono giorni che fai così! Eviti tutti e tutto!”.<br />

Maria non lo guarda in volto. Non ne ha il coraggio. China il capo, come<br />

un cane appena bastonato e devia vistosamente lo sguardo. Gli occhi di lui<br />

la accusano e implorano. Hanno paura, quegli occhi grandi e forti.<br />

“Maria, ne dobbiamo parlare. Lo voglia o non lo voglia tu non mi interessa!<br />

Ora ti siedi e mi dici che hai!”. Grida lui, ma è dolce. È così dolce, lui.<br />

“Non sei tu il problema Gaetano…”.<br />

“Sempre così iniziate, voi femmine! Sentiamo chi è il problema!”. Inveisce<br />

lui, ma sono parole d’amore, lei lo sa.<br />

“È lui, Gaetano. L’altro giorno, un paio di settimane fa, mi guardava…”.<br />

Silenzio. Cerca le forze per andare avanti, per ammettere una realtà che<br />

da giorni nasconde a se stessa sotto quelle vesti spesse e scure.<br />

“Mi guardava, di nascosto. Io ero in camera, davanti allo specchio…”.<br />

Pausa. Non sa come proseguire. Lui forse non la capirà? Lui forse crederà<br />

che stia vaneggiando? Inventando?<br />

“Mi guardavo… sai, come facciamo noi donne… un po’ vanitose.<br />

Civettando allo specchio. Innocentemente… ero sola!”.<br />

Lui la guarda. Non capisce.<br />

“Poi l’ho visto. Attraverso lo specchio. Continuava a guardami…”.<br />

“Ma parli di Peppino?!”. Lei cala la testa. “Ma Maria! Il bambino si sarà vergognato<br />

di fare lo spione della mamma sola in camera e di essere stato<br />

così vigliaccamente scoperto!”.<br />

“Non l’hai visto il suo sguardo. lui mi guardava, ma non era il suo sguardo…<br />

non era lo sguardo di un figlio. Mi guardava curioso. E avido. Mi stu-<br />

97


diava… era estraneo”.<br />

“Tu hai le paranoie!”.<br />

Si sente pazza. Incompresa. Inascoltata.<br />

“Gaetano… sta crescendo. Sta diventando un ragazzo, un uomo. Tu lo<br />

sai… tu lo sai che non è…”.<br />

Lui sbatte i pugni sul tavolo, forte. La tavola di compensato trema sotto il<br />

vigore di quei pugni. “Non ti voglio più sentire parlare di questa faccenda.<br />

L’argomento è chiuso. Da domani si torna a pranzare come una famiglia!”.<br />

Ormai li vedeva sempre insieme. La zia Gina e l’uomo baffuto erano diventati<br />

una coppia stabile. L’aveva immaginato, Peppino, che la zia sarebbe<br />

finita con uno baffuto. Ma non avrebbe mai creduto si sarebbe trattato del<br />

cartolaio, quell’omone che aveva accompagnato l’acquisto della sua prima<br />

agenda scolastica. Ricordava l’odore dell’uomo e quel fastidio nel vederlo<br />

importunare la zia. Ricordava quei loro giochi di parole e di sguardi, quella<br />

sensazione di esser di troppo.<br />

Ma la zia non era bella - Peppino l’aveva scoperto crescendo - ecco perché<br />

stava col cartolaio. Non aveva il sorriso della sorella Maria, sua madre;<br />

quello sguardo innocente e insieme sensuale. Non aveva la stessa compostezza<br />

ed eleganza. Non possedeva quelle forme misurate ma incredibilmente<br />

perfette e armoniose. Quel fascino carnale e spirituale che spingeva<br />

ormai da un paio d’anni, Peppino, a spiarla, ben nascosto, attraverso<br />

gli spiragli delle porte lasciate semiaperte, attraverso le toppe delle porte,<br />

persino accovacciato dentro gli armadi lasciati socchiusi. Ed era sempre<br />

più bella.<br />

Ne avevano parlato un giorno in classe, tra compagni maschi, alla ricreazione.<br />

Mentre le compagnette, aggirandosi smorfiosamente per il cortile,<br />

passavano accanto falsamente noncuranti dei loro discorsi. Ma erano tutte<br />

orecchie, loro.<br />

Fu da quel giorno che Peppino si mise l’anima in pace. Si convinse, o<br />

meglio, si volle convincere in qualche modo, che l’incontenibile curiosità<br />

che provava nello spiare la madre fosse… naturale. Tutti suoi compagni,<br />

venne a scoprire, l’avevano fatto e lo facevano.<br />

Fu così che improvvisamente riprese a parlare a Maria. Senza, tuttavia,<br />

aver recuperato l’innocenza e l’ingenuità di bambino. Ma non se ne accorse.<br />

Solo Maria lo notava, di sotto a quegli occhi che ancora conservavano<br />

sguardi attenti alle sue forme e alle sue movenze. Sguardi che, nonostan-<br />

98


te la familiarità riacquistata, non erano più sguardi di figlio, ma rimanevano<br />

sguardi d’uomo.<br />

Il tempo non ha pietà dei morti. Ci sia il sole, la pioggia, il gelo. La neve o<br />

il vento. È sempre inadeguato. È sempre irrispettoso. Possono esserci<br />

giacche, cappotti, magliette, sciarpe. È sempre sbagliato. Preferiresti l’imparzialità<br />

di una camera asettica. Non esprime giudizi. Dà spazio al dolore,<br />

in tutta la sua verità. Incondizionata. Eppure ogni volta ti sembra un<br />

segno. E ogni volta è tremendamente inappropriato. Ti chiedi quale sarebbe<br />

l’ideale. Ma realizzi che non cambia proprio niente. Ogni volta sarà lo<br />

stesso. La stessa prevaricazione dei sentimenti. È sempre così. Non cambierà<br />

mai.<br />

Quel corpo piccolo intirizzito. Un corpo da bambina. Più piccolo di come<br />

già non fosse in vita. Aveva perso la sua vitalità nell’immobilità della<br />

morte. Il colorito scomparso. Guardandola scoprì che stava invecchiando.<br />

Incredibile a dirsi. Mentre la osservava da dietro le porte, dagli armadi<br />

dalle ante socchiuse, lei, era invecchiata! Ora lo scoprì: osservandola in<br />

quella cassa di noce, piccola ma non abbastanza. Notando le rughe, fermate<br />

nella brutalità della morte. Mentre prega al suo fianco le osserva il<br />

volto. Non è il volto che ha conosciuto, che ha amato. Ha una smorfia che<br />

non conosce, che non gli è propria. Il corpo, fino a poco prima così morbido,<br />

ora è rigido. Paurosamente rigido. E le mani. Lei non amava<br />

mostrarle. Oddio le mani! Mani traditrici. Non le riconobbe. Capì di non<br />

averle mai conosciute, le mani di lei. Troppo presto privato delle loro<br />

carezze. E i piedi allargati sulle punte, stretti sui talloni, secchi e ossuti. Li<br />

aveva creduti belli. E ancora guardandola, distesa lì, passiva e indifesa, ne<br />

scoprì i difetti mai notati, le imperfezioni ben mascherate. Eppure quella<br />

nuova scoperta, la nuova verità della sua bellezza imperfetta, umana<br />

anch’essa, nulla tolse al fascino di quel corpo morto. E lei era là, stesa.<br />

Finalmente sua, se lo avesse voluto. Si sarebbe arresa, infine, a quel giovane<br />

statuario e bello. Se lui lo avesse voluto. Lei lo avrebbe permesso.<br />

Erano soli. Di nuovo. Una seconda volta ancora. E questa volta, avrebbe<br />

potuto violarla. E lei si sarebbe arresa al suo amore. Al loro amore. Ma già<br />

la morte l’aveva violata. Non volle unirsi a quello scempio. Continuò a<br />

osservare il suo sonno ostinato, tra fiori bianchi e lenzuola di lino.<br />

Quel giorno lo ricordava bene. Gli era rimasto impresso nella memoria e,<br />

99


avvinghiatosi alla coscienza, gliela risucchiava nel rimorso.<br />

Non seppe mai bene come accadde. Non riuscì mai a capirlo. A spiegarlo.<br />

Lo ricorda ancora quell’odore di chiuso e naftalina che si respirava nell’armadio.<br />

Quell’armadio che, mano mano che vi cresceva dentro, era<br />

sempre più piccolo, sempre più stretto, sempre più scomodo.<br />

“Quando mi guarderai, coi tuoi occhi neri e nei miei occhi ti rispecchierai.<br />

E mi domanderai… Che ne sarà di noi?”, Maria canticchiava. La sua voce<br />

appassionata e sensuale era un invito che doveva essere colto senza titubanza<br />

prima che fosse ritirato.<br />

Si stava togliendo la camicia leggera.<br />

Lui la guardava avidamente. Come si guarda un passerotto indifeso, volare<br />

da un ramo all’altro e cinguettare spensierato. E ti vien voglia di prenderlo,<br />

afferrarlo, catturarlo, e tenerlo tutto per te. E soggiogarlo alla tua<br />

volontà, al tuo potere, alla tua forza.<br />

Peppino ci stava stretto in quell’armadio. Come stava stretto in quel ruolo<br />

innocente di figlio.<br />

Le note lo chiamano. Sono per lui. Invocano il suo arrivo. Come rifiutare?<br />

Quando l’ultimo ritornello prepara ormai la chiusa della canzonetta, lui ha<br />

già spalancato quella porta segreta. Con amore e violenza. È sua madre o<br />

la sua amante? Entrambe e nessuna. È un’immagine chimerica e sfumante<br />

che ha puntigliosamente dipinto nella sua infanzia, arricchendola di particolari<br />

sempre nuovi. Non ha nome: potrebbe chiamarsi Maria o<br />

Maddalena, non farebbe differenza alcuna.<br />

Maria sobbalza all’indietro. Sbigottita. Impreparata a simile imboscata. Lo<br />

guarda. Uno sguardo di gelido terrore. E quando lui, ormai addosso, tenta<br />

di prenderla sussurrandole promesse d’amore, lei grida. Grida disperate<br />

che non invocano aiuto, ma invocano pietà e ragione.<br />

“Sebastiano, Sebastiano no!”.<br />

Sebastiano… con chi parla quella donna, bella e disperata, dagli occhi<br />

lacrimanti e il volto gocciolante di gelido sudore?<br />

Eppure guarda lui. È lui che chiama. A lui parla.<br />

Sebastiano… Forse è il suo primo amante, forse il nome di uno sconosciuto,<br />

di un antico innamorato. Eppure si rivolge a lui. E le parole che nel<br />

mezzo farfuglia raccontano una storia che Peppino non riesce a capire.<br />

Da una settimana non avevano alcun contatto, neppure visivo. Maria, era<br />

riuscita a sfuggire a quel tranello. Ora stava in camera, chiusa a chiave e<br />

100


piangeva giorno e notte, nascosta sotto il lenzuolo. E quel lenzuolo bianco<br />

la faceva sentire ancora più sporca dentro. Non riusciva più a toccare Tano.<br />

Fu al settimo giorno che Tano lo chiamò. Stranamente serio in volto, ancora<br />

un palmo più alto di lui e di gran lunga più impostato e muscoloso. Non<br />

avevano mai parlato molto. Non avevano mai giocato insieme. Quando gli<br />

altri bambini trascorrevano i pomeriggi a pesca con i loro padri, Peppino<br />

al più si recava in spiaggia con la madre a prendere il sole e fare il bagno.<br />

Non lo conosceva l’uomo che aveva davanti. Non l’aveva mai conosciuto.<br />

Era una presenza estranea, fredda e ostile in quella casa illuminata dal<br />

calore e dalla vita di Maria. Come poteva, Maria, essere sua? Di quell’uomo<br />

così indifferente e insensato?<br />

Quando gli si parò innanzi, con quel cipiglio impassibile che diceva più di<br />

tante parole, l’unica espressione che in diciassette anni di vita aveva conosciuto<br />

di lui, scoprì quanto la sua indifferenza si fosse mutata in odio.<br />

Qualche secondo ancora di silenzio fu l’ultima accusa prima della sentenza<br />

definitiva.<br />

“Penso sia arrivata l’ora che te ne vada da questa casa. Da questo momento<br />

non è più la tua, come, in realtà non lo è mai stata”.<br />

“Ti devo raccontare una storia, Sebastiano, che forse mai hai potuto<br />

immaginare”.<br />

Sebastiano, ancora quel nome… eppure ora non gli suona più nuovo, piuttosto<br />

quasi familiare.<br />

Non riesce a ricordare ma ha come un presentimento. Avverte, in quel<br />

nome, qualcosa di lontano e materno. Gli tornano in mente braccia calde<br />

che lo avvolgono che lo baciano, seni turgidi che lo allattano e un amore<br />

enorme, inaspettato. Un amore così grande da sconvolgerlo.<br />

“Diciotto anni fa Maria restò incinta. Eravamo sposati da poco. Maria<br />

sapeva che non poteva avere figli e che il figlio che stava allevando in<br />

grembo sarebbe morto ancor prima di nascere. Tuttavia, non voleva sottoporsi<br />

ai commenti aspri e insensibili dei parenti. Pensammo allora di<br />

concederci un viaggio di nozze per conto nostro, proprio nel periodo in cui<br />

avrebbe avuto luogo l’aborto spontaneo. Quando tornammo, Sebastiano,<br />

c’eri anche tu. Solo che non volemmo chiamarti Sebastiano, come aveva<br />

stabilito tua madre e Maria pensò di chiamarti Peppino, come il nonno,<br />

per non dare occasione a voci maligne. Ora, penso sia arrivato il momento<br />

che tu te ne vada dalla nostra casa. Puoi prendere questi miei risparmi,<br />

andare fuori città e trovarti un lavoro”.<br />

101


Non aveva potuto credere a quella storia, così sommariamente accennatagli<br />

l’ultima volta che aveva visto suo padre…<br />

Eppure le donne della contrada l’avevano immaginato molto tempo prima.<br />

Quando Maria, quel giorno, era tornata con in braccio il neonato, già si<br />

vociava per i vicoli. Erano voci maligne, ma stranamente veggenti. “Stu<br />

picciriddu troppu piccolu iè! E che nasciu? Chiù tardi?”. In queste parole<br />

Donna Nina insinuava il germe del dubbio. “E talia, quanto gli è neru!<br />

Sembra d’autri!”, cantilenava Donna Pina.<br />

Poi, come tutte le storie, perse col tempo il suo fascino. Cadde nel dimenticatoio<br />

per esserne stranamente riportata in vita diciassette anni dopo,<br />

quando quel bambino, ormai grande, scomparve in modo tanto misterioso<br />

come quello in cui aveva fatto la sua comparsa in quella contrada di<br />

mare.<br />

Lui, da quel giorno non la vide più, Maria. Immagina tutto quello che<br />

non ha avuto, che non ha vissuto. Pensa a tutte le verità che non ha mai<br />

saputo e che ha abilmente sostituito con le storie tessute dalla sua stessa<br />

fantasia.<br />

Non riesce a credere ancora, nemmeno davanti a quel corpo privo di vita,<br />

a quella storia che il padre gli aveva raccontato. E ancora lo chiama padre,<br />

sebbene con astio. E lei, ancora, non sa come chiamarla. Madre o amante?<br />

O sfumante chimera della sua fantasia giovanile? Sussurra il suo nome,<br />

Maria, e ne riscopre il potere seducente dietro il velo innocente e pudico<br />

di quei semplici suoni.<br />

102


AGIRE PER SOTTRAZIONE<br />

Postfazione di Andrea Chiurato<br />

Assegnista di Ricerca Università IULM<br />

A volte ritornano. A volte ritornano... per vincere. Già l’anno scorso Alice Gioia<br />

ci aveva incuriosito e colpito con ISTANTInMETRO, “racconto discontinuo”,<br />

cucito sapientemente attraverso un intrecciarsi di vite, di sguardi.<br />

Catturando nella fugacità di un’istantanea l’incomunicabilità, la difficoltà di<br />

ogni incontro, vero tema dominante dell’antologia 2007. Alice insiste, Anche<br />

con gli occhi si può urlare ne è la prova. Scorre sciolto, stringato, ridotto all’osso,<br />

eppure arrivati alla fine, vi assicuro, lo sentirete anche voi, come un pugno<br />

allo stomaco. L’effetto dipende in buona parte dall’inedito “montaggio” scelto<br />

dall’autrice. Un montaggio tanto riuscito da passare quasi inosservato. Due<br />

storie e due personaggi (Paolo e Lucia) che corrono fino alla fine su binari<br />

paralleli, prima della svolta, o meglio, dello schianto. Due mondi diversi, ma<br />

anche due modi diversi di raccontare. Da un lato il sagrato di una chiesa, il<br />

freddo presente fotografato con distacco, quasi per rispetto. Dall’altra l’immersione<br />

nei pensieri, confusi e frenetici, di Paolo. La dimensione del ricordo catturata<br />

in presa diretta, puntando tutto su una forte immedesimazione. Showing<br />

e telling, “mostrare” e “raccontare”, il metronomo del racconto oscilla tra i due<br />

estremi con calcolata precisione ma, soprattutto, senza una sbavatura, senza<br />

una parola in più. Se dovessimo riassumere la filosofia di Alice non ci sarebbe<br />

motto più adatto che: “agire per sottrazione”.<br />

Questo doppio “sguardo” sulla quotidianità inscrive Anche con gli occhi si può<br />

urlare nel fortunato solco dello “spaccato esistenziale”, genere che anche quest’anno<br />

conquista l’egemonia e le simpatie dei nostri autori. Il racconto di Alice<br />

corre, di notte, su una strada buia. Altrettanto veloci la inseguono due monologhi:<br />

La prima volta che muori, cinematografico unhappy ending di una storia<br />

d’amore; Momenti in via d’estinzione, istantanea di un’irresistibile e vegetariana<br />

“versione economica di Audrey Hepburn” nella frenesia dell’happy hour<br />

milanese. Se non amate correre potete accostare un attimo e ascoltare il<br />

respiro della città. Sempre all’ombra del Duomo insieme a Fabrizio Caracausi<br />

(Milano come la sua pancia), o magari nella Bologna noir di Mizar Castello<br />

(Overdose). Storie dai toni contrastanti, regolate sulla medesima, aristotelica,<br />

durata: una giornata, felice o disperata. Sullo sfondo in lontananza, si intravedono<br />

le assolate spiagge dell’infanzia (Livia Satullo, Innocente perversione),<br />

103


di un paese lontano e senza nome, adagiato sul fondo dei ricordi.<br />

Vagheggiando la madeline di Proust e l’“isola” di Elsa Morante.<br />

Potete anche lasciar guidare qualcun altro e lasciarvi cullare dalla colonna sonora<br />

di silenzio che si diffonde nell’abitacolo, seguendo le Strade di Claudia<br />

Masucci: “Avrei dovuto odiare quella strada sempre uguale, quegli incontri sempre<br />

uguali. Invece li amavo. Bisogna rischiare tutto per amare la banale quotidianità”.<br />

Il rischio, la scommessa della quotidianità che conosce bene anche la<br />

protagonista di Mia nonna aspetta. Dove, ancora una volta (come in La terrazza,<br />

Subway Under 19, 2007; 40 centimetri orari, Subway Under 35, <strong>2008</strong>) il<br />

tema della famiglia viene affrontato attraverso l’ombra della malattia. Tre casi in<br />

cui le frasi di circostanza mostrano la corda rimanendo, per assurdo, l’unica possibile<br />

forma di contatto di fronte all’incomunicabile realtà del dolore.<br />

Abbandonando per un attimo l’area del monologo, anche là dove il narratore<br />

si allontana il minimo indispensabile dai propri personaggi il dialogo appare<br />

difficile. Dall’indecifrabile ostilità delle cameriere asiatiche, in una Parigi vagamente<br />

surreale (Lorenzo Lodi, Breve avventura parigina…), alla tormentata<br />

relazione tra una studentessa italiana con un cameriere croato all’ombra degli<br />

attentati di Londra (Sara De Balsi, Proprio ora), la parola si fa ponte (spesso<br />

traballante) attraverso un diffuso senso di precarietà. Testimoniando la problematicità<br />

di ogni rapporto in cui il “diverso” non sia semplicemente pensato,<br />

immaginato, risolto nell’interiorità, ma realmente vissuto.<br />

Una difficoltà, una fatica, che esprime comunque un’esigenza profonda e trasversale,<br />

il bisogno di comunicare, o meglio, di essere ascoltati: “La mia amica<br />

è molto brava a parlare di sé, ma è incapace ad ascoltare. Non riesce a<br />

decentralizzare la sua mente, anche solo per qualche secondo da lei, dalle<br />

sue sensazioni, dai suoi sentimenti. Non sa chiudere la bocca, chiudere il cervello,<br />

chiudere se stessa e aprire agli altri. Ma io ascolto lo stesso e taccio,<br />

perchè la accetto anche se non è capace di sentirmi” (Overdose).<br />

Il silenzio come ultima risorsa. Una lezione che conosce bene Nicolas Lozito<br />

(Le parole del silenzio) regalandoci un racconto esotico e intenso.<br />

La nostra breve carrellata si chiude registrando la scomparsa della metafiction<br />

di fronte al piacere dell’affabulazione. Sembrano finiti i tempi di racconti nel<br />

racconto, ipotesi di personaggi, storie al quadrato in cui aspiranti scrittori ci<br />

restituivano in forma poetica l’angosciante specchio della pagina bianca. Negli<br />

ultimi due anni Subway Under 19 traccia decisamente un altra rotta, una<br />

nuova direzione: un ritorno al puro piacere della storia. Ipotesi riconfermata da<br />

H2O, sguardo certo più ironico, ma gettato su un argomento attualissimo<br />

come lo spreco di risorse naturali. Difficile dire quale sarà il nuovo vento dell’anno<br />

prossimo, verso quali nuove isole si spingeranno le nostre giovani<br />

penne. La mappa dei generi di Subway, intanto, continua ad allargarsi.<br />

104


Giuria del Premio Speciale Under19<br />

Presidente: Lucia Rodler<br />

Federico Bortolini<br />

Andrea Chiurato<br />

Loredana di Candia<br />

Stefano D’Andrea<br />

Riccardo Manzotti<br />

Alessandra Mazzei<br />

Ariela Mortara<br />

Cristina Panico<br />

Anna Re<br />

Doriana Sala<br />

Egle Sardina<br />

Gretel Sello<br />

Maria Luigia Ventura<br />

105


Partecipanti al Premio<br />

Abascione Gabriele NA<br />

Albani Kenji VA<br />

Albertini Martina MI<br />

Amoroso Luca AV<br />

Aquaro Antonella TA<br />

Arciprete Emanuele NA<br />

Barbaro Francesco IS<br />

Bazzanella Giacomo BZ<br />

Belladelli Francesca MN<br />

Bertolini Erika MS<br />

Bini Francesca RG<br />

Bonino Vittorio OT<br />

Borchiellini Marta PG<br />

Boschi Serena RSM<br />

Boso Francesco MI<br />

Brembati Elisa BG<br />

Brinchi Giusti Fabio LT<br />

Buonocore Elvira NA<br />

Calvo Jessica RG<br />

Candiani Micol VA<br />

Caracusi Fabrizio MI<br />

Carbone Micaela VA<br />

Carillo Carla NA<br />

Casciello Marialuisa NA<br />

Castello Mizar BO<br />

Catalano Matteo TO<br />

Cella Lucia TV<br />

Civico Valeria CB<br />

Clemente Dario MI<br />

Cocco Francesca BL<br />

Collotta Debora PA<br />

Condoluci Adalgisa RC<br />

Contartese Andrea RM<br />

Costanzelli Carlo MN<br />

Cova Susanna MI<br />

106<br />

Crespo Greta RC<br />

Danza Antonio TA<br />

De Angelis Martina RM<br />

De Balsi Sara CE<br />

Dei Tos Giulia TV<br />

Dente Giusy SA<br />

Di Carlo Simona BA<br />

Di Meo Marianna LT<br />

Di Pietro Marco VT<br />

Dulcamare Giuseppe BA<br />

Esposito Alessia NA<br />

Fanelli Cristina VT<br />

Fazzi Federico LI<br />

Ferrè Chiara MI<br />

Ferrero Fabio TO<br />

Foce Carlo MS<br />

Foti Andrea RC<br />

Franceschini Marta PG<br />

Fusaro Ambra MN<br />

Gamen Mariachiara NA<br />

Garelli Elisa AP<br />

Gatta Vincenzo NA<br />

Gazzoldi Erica BS<br />

Giacobbi Eleonora AP<br />

Gioia Alice PV<br />

Govi Andrea FC<br />

Greco Edoardo VC<br />

Gubellini Giulia BO<br />

Guberti Irene MN<br />

Immolo Filippo MI<br />

Iovino Marcellino CE<br />

La Brocca Emanuele TO<br />

Laganà Francesca TO<br />

Landini Francesca MS<br />

Lauletta Andrea RM


Lo Presti Umberto RG<br />

Lodi Lorenzo PR<br />

Lorandi Giulia VI<br />

Lozito Nicolas UD<br />

Magnago Lampugnani Anna MI<br />

Mancuso Prizzitano Maria Giulia EN<br />

Mangiulli Federica RG<br />

Marinelli Guido IS<br />

Marino Francesco TP<br />

Martini Alma VR<br />

Massaggia Elena Giulia VE<br />

Mastrangeli Elena PG<br />

Masucci Claudia NA<br />

Micca Stefania AT<br />

Mieli Micol RM<br />

Millado Shane Hannilore RM<br />

Mineo Antonio PA<br />

Minghini Francesca MN<br />

Moioli Marianna BG<br />

Moni Giulia PI<br />

Morano Roberta NA<br />

Morsetti Matteo AL<br />

Nicolodi Luca TN<br />

Nigro Alessandro TO<br />

Nordio Francesco VE<br />

Noto Chiara PA<br />

Pellegrino Caterina PA<br />

Perozziello Francesca MI<br />

Pesce Giuliano MI<br />

Petrillo Erica MI<br />

Piccica Alessandro VC<br />

Pinci Adriano RM<br />

Pistono Davide VC<br />

Pizzo Mariateresa SR<br />

Pollini Luna TR<br />

107<br />

Pozzoli Filippo CO<br />

Prati Elena AL<br />

Quadarella Andrea PD<br />

Radaelli Valentina MI<br />

Ravasi Kevin RM<br />

Redaelli Marco MI<br />

Ricceri Salvo CT<br />

Riolo Domenico MI<br />

Ronchi Elena NO<br />

Rosso Manuel SV<br />

Santucci Francesca LT<br />

Satullo Livia ME<br />

Scarabelli Mattia MO<br />

Scoppapietra Lara TO<br />

Sensale Emilia NA<br />

Silvestro Cristina RC<br />

Simeone Beatrice VE<br />

Spalletta Alice RM<br />

Squadrini Federica AP<br />

Stefani Ilaria FC<br />

Testore Ottavia AT<br />

Torregorssa Andrea ME<br />

Torrente Luca TO<br />

Torrisi Federico TS<br />

Traina Elena MI<br />

Violante Pietro MI<br />

Vitali Alessio RM<br />

Vitali Rosati Carlo AP<br />

Vittorini Serena AQ<br />

Volpe Federica MI<br />

Volpe Leonardo RC<br />

Zurino Michael PG


Finito di stampare nel mese di ottobre <strong>2008</strong><br />

da Vela Web S.r.l. di Binasco (MI)


Sport e Tempo Libero<br />

L’<strong>Antologia</strong> del Premio Speciale Under19 è ormai un appuntamento di culto<br />

per i tanti giovani che amano scrivere, leggere e confrontare le proprie creatività.<br />

Anche quest’anno l’Università IULM propone in questo volume il racconto<br />

vincitore del Premio, pubblicato e diffuso da Subway-Letteratura <strong>2008</strong><br />

con una tiratura, da vero bestseller, di oltre 300.000 copie, insieme alle altre<br />

undici Opere che la giuria dell’Ateneo milanese ha selezionato tra le oltre<br />

centotrenta pervenute in concorso da tutta Italia.<br />

È bello constatare che i ragazzi degli SMS hanno ancora il desiderio di<br />

esprimersi con la scrittura in maniera creativa e non passiva offrendoci risultati<br />

interessanti, magari acerbi, mai banali.<br />

Dall’Introduzione di Giovanni Puglisi<br />

Questa antologia raccoglie i dodici racconti selezionati da una giuria di lettori<br />

adulti come esperimenti complessivamente riusciti di scrittura creativa.<br />

A lavoro finito ci siamo accorti che la scelta è stata equamente distribuita tra<br />

scrittori e scrittrici e che i narratori suggeriscono alcuni motivi ricorrenti (le<br />

lacrime, la pioggia, l’acqua, la violenza) attraverso i quali è forse possibile<br />

indagare l’immaginario giovanile.<br />

Dalla Prefazione di Lucia Rodler

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