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Ringrazio per l’aiuto prestatomi Antonio Bettin, Giacomo Loreggian,<br />
Bruno Mardegan, Camillo, Giacomo e Massimo Trevisan.<br />
Tutti i <strong>di</strong>segni sono <strong>di</strong> Bruno Mardegan; gli schizzi <strong>di</strong> Giuseppe Trevisan.<br />
Le immagini sono ricavate da vecchie stampe.<br />
Stampato in proprio<br />
Giuseppe Trevisan<br />
Vicolo Man<strong>di</strong>ferro, 1<br />
35043 Monselice (PD)<br />
Marzo 2013
Giuseppe Trevisan<br />
VITA NELLA CAMPAGNA<br />
DEL POLESINE<br />
1925 – 1935
Ai miei genitori<br />
Giacomo e Teresa,<br />
che tanto hanno lavorato per<br />
farmi stu<strong>di</strong>are a Rovigo, dove<br />
mi sono <strong>di</strong>plomato nel 1937
Introduzione<br />
Sono nato il 29 novembre 1918 in Ariano Polesine, Rovigo. Nella mia fanciullezza e<br />
prima giovinezza ho abitato poi in vari paesi del me<strong>di</strong>o Polesine dove ho esercitato<br />
la mia attenzione e voglia <strong>di</strong> sapere, fissandomi nella memoria ciò che girava attorno<br />
a me.<br />
Dapprima fui a Costa <strong>di</strong> Rovigo dal 1920 al 1930, dove io ho frequentato tutte le<br />
elementari. Mio padre Giacomo e zio Giacinto, fratello <strong>di</strong> mia madre, acquistarono<br />
un vecchio mulino con annessi abitazione e servizi. All’inizio del 1930 si <strong>di</strong>visero<br />
vendendo il mulino. Noi per un anno andammo in affitto nel mulino <strong>di</strong> Valdentro <strong>di</strong><br />
Len<strong>di</strong>nara, poi passammo nel 1931 a San Bellino, sempre in provincia <strong>di</strong> Rovigo, in<br />
un nuovo mulino <strong>di</strong> proprietà. Nel marzo del 1936 mio padre dovette venderlo per<br />
<strong>di</strong>fficoltà economiche e allora ci trasferimmo in affitto in un mulino <strong>di</strong> Monselice<br />
(<strong>Padova</strong>), paese dove io ancora vivo. Quei quattro mulini erano simili e avevano le<br />
macine <strong>di</strong> pietra.<br />
Andato in pensione nel 2000, per occupare il tempo mi è venuto il desiderio <strong>di</strong> scrivere<br />
i fatti che più mi hanno coinvolto da fanciullo e da giovane. Scrissi un libro sulla<br />
mia prigionia, passai a raccogliere dati sui mulini, ove vissi fino al 1938, poi mi venne<br />
voglia <strong>di</strong> parlare anche <strong>di</strong> tutti i mestieri che ho visto in passato, giacché quel mondo<br />
ora non c’è più. Sono ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un tempo, <strong>di</strong> settanta, ottanta anni fa. Alcuni richiami<br />
potranno far sorridere dato il loro modesto interesse che possono destare nel lettore,<br />
ma mi pare opportuno ricordare quei lavori che hanno con<strong>di</strong>zionato parecchie generazioni<br />
passate. È per questo ritorno alle origini che ritengo utile richiamare anche i<br />
nomi <strong>di</strong>alettali dei lavori e delle cose, perché parecchie voci gergali lentamente scompaiono<br />
non venendo più usate. Può darsi che questo mio frugare nomi veneti nella<br />
memoria mi porti a fare qualche confusione dovuta al fatto che ho cambiato cinque<br />
paesi, ognuno con le proprie peculiarità linguistiche, e che mia madre ha sempre<br />
parlato il suo <strong>di</strong>aletto natio <strong>di</strong> Ariano, che è un misto <strong>di</strong> veneto e ferrarese. Può anche<br />
verificarsi che i miei occhi, prima <strong>di</strong> fanciullo e poi <strong>di</strong> giovane, non abbiano avuto<br />
capacità <strong>di</strong> analizzare e vedere in giusta misura le cose ma, dato che il mio intento è<br />
solamente quello <strong>di</strong> descrivere la vita or<strong>di</strong>naria, penso <strong>di</strong> poterlo fare senza incorrere<br />
in errori fuorvianti. Sono mosso dal desiderio <strong>di</strong> “fotografare” come si viveva una<br />
vita <strong>di</strong> tanti anni fa.<br />
Ho <strong>di</strong>viso il mio lavoro in tre parti perché sono tre i paesi che mi hanno suscitato<br />
tanti interessi: Costa <strong>di</strong> Rovigo, Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara e San Bellino. Più avanti, la<br />
vita mi ha coinvolto in molteplici problemi che mi hanno costretto a superare <strong>di</strong>fficoltà<br />
<strong>di</strong> ogni genere, ma che hanno lasciato impressi nella memoria i lontani ricor<strong>di</strong>.<br />
Monselice, <strong>di</strong>cembre 2008<br />
5
Costa <strong>di</strong> Rovigo, 1927. Mia madre con in braccio<br />
mia sorella Lucia, a sinistra Luisa, a destra Canzio<br />
e io, vestito da Balilla. Manca l’altra mia sorella,<br />
Carla, ancora in culla.
Prefazione alla nuova e<strong>di</strong>zione<br />
Nel <strong>di</strong>cembre 2008 ho completato queste mie memorie <strong>di</strong> “Vita nella campagna del<br />
Polesine 1925-1935”, dove ho raccontato, dapprima in modo cronologico, tutto quello<br />
che mi aveva interessato da fanciullo e da giovanissimo, riunendo poi, alla fine dello<br />
scritto, tutta la documentazione grafica e fotografica raccolta.<br />
Mi sono reso conto, nel tempo, che questa sistemazione dei materiali illustrativi ha<br />
creato nel lettore <strong>di</strong>fficoltà interpretative, poiché la successione delle tavole non va <strong>di</strong><br />
pari passo con la narrazione del testo.<br />
Ho quin<strong>di</strong> stu<strong>di</strong>ato una ricollocazione delle immagini dopo la relativa descrizione, in<br />
modo che le parole siano subito illustrate da quelle.<br />
Ho approfittato <strong>di</strong> questa revisione anche per ampliare i testi con aggiunte e<br />
precisazioni, che mi sono tornate alla mente in questi ultimi anni, e per arricchire la<br />
documentazione con altre tavole, che devo alla cortesia del compianto amico Bruno<br />
Mardegan.<br />
Con la presente relazione ritengo <strong>di</strong> aver dato un quadro più preciso della modesta e<br />
faticosa vita nelle terre della mia provincia natale <strong>di</strong> Rovigo relativamente al secondo<br />
e terzo decennio del secolo scorso.<br />
Monselice, marzo 2013<br />
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Me<strong>di</strong>o Polesine. I luoghi ove si sono svolti i fatti e le mie prime esperienze raccontate in<br />
questo libro: Costa <strong>di</strong> Rovigo, Len<strong>di</strong>nara e San Bellino.
Costa <strong>di</strong> Rovigo 1925 - 1929<br />
Il mulino della mia fanciullezza<br />
La prima percezione della realtà che mi circondava è stato il mulino a gas povero<br />
<strong>di</strong> via Scardona, a Costa. La cosa più importante per me era il motore, un mostro<br />
nero che aveva tutto per sé un grande camerone, sempre pieno <strong>di</strong> pulviscolo<br />
quando il motore era in funzione. A fianco vi era un locale più grande, il mulino<br />
vero e proprio mulin, ove erano installate tre coppie <strong>di</strong> macine <strong>di</strong> pietra completate<br />
da vari accessori; una coppia serviva per macinare il frumento, masènare el formento,<br />
un’altra il granoturco formentòn, la terza per produrre grossi sfarinati adatti<br />
agli animali che tutti chiamavano spezànèle. Nel 1927 quel grande e rombante motore<br />
fu eliminato e sostituito con un altro elettrico, molto più piccolo e silenzioso.<br />
Tutto il complesso delle macine invece rimase quello <strong>di</strong> prima. Fu possibile quella<br />
conversione perché nel 1925 iniziarono la costruzione <strong>di</strong> uno zuccherificio funzionante<br />
con l’energia elettrica; così arrivarono le linee ad alta tensione che furono<br />
estese a poco a poco a tutto il paese.<br />
Il mio immaginario ha ancora molto vivi<strong>di</strong> i ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> quei macchinari sparsi<br />
nei due gran<strong>di</strong> cameroni che venivano usati per mulino e vano motore, anche se<br />
da bambino non capivo l’uso <strong>di</strong> tutti quei congegni che servivano per ottenere le<br />
farine. Solo da studente delle me<strong>di</strong>e superiori ho cominciato a rendermi conto dei<br />
vari funzionamenti; poi ho completato le mie conoscenze facendo il mugnaio negli<br />
anni 1937-38, dopo aver conseguito il <strong>di</strong>ploma magistrale.<br />
Quel motore a gas povero e quelle macine hanno sempre suscitato interesse nel<br />
corso della mia vita, per cui ora da vecchio, dopo aver compreso come funzionavano<br />
tutte le apparecchiature, desidero farne una descrizione. Trovo questo utile<br />
anche per i giovani perché capiscano meglio le gran<strong>di</strong> e rapide conquiste della tecnica<br />
moderna. Trattandosi però <strong>di</strong> risultanze che, pur partendo dalla mia infanzia,<br />
si sono perfezionate nel tempo, ritengo giusto precisarle alla fine <strong>di</strong> questi miei<br />
ricor<strong>di</strong>; così posso descrivere specificatamente tutti gli aspetti pratici, esecutivi ed<br />
esplicativi <strong>di</strong> quelle attività che oggi non esistono più, o che comunque ora sono<br />
molto <strong>di</strong>verse.<br />
L’ambiente <strong>di</strong> Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />
La mia casa era sita in una grande fetta <strong>di</strong> terra posta fra il canale A<strong>di</strong>getto e la carrareccia<br />
<strong>di</strong> via Scardona. Questa strada univa il paese con Len<strong>di</strong>nara. Nel lato nord del<br />
terreno, verso la strada, c’erano la casa a palazzetto su tre piani, il mulino, il grande stanzone<br />
per il motore a gas povero e un magazzino. Nel lato sud c’erano un’aia <strong>di</strong> selciato<br />
<strong>di</strong> trachite maségne, un piccolo giar<strong>di</strong>no, un grande orto e un altrettanto grande cortile.<br />
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Da bambino vedevo tutto questo come spazio immenso ove far correre i miei desideri<br />
e i miei interessi. Quell’immobile era il regno della mia famiglia, dove ciascun<br />
adulto si era ritagliato un particolare interesse personale. Mio padre si era assunto il<br />
compito dell’allevamento del maiale e della coltivazione <strong>di</strong> asparagi e uva; lo zio allevava<br />
conigli e coltivava l’orto, mia madre curava la casa e il giar<strong>di</strong>no, la prozia che noi<br />
cinque fratelli chiamavamo nonna, si interessava dell’allevamento degli animali da<br />
cortile. Io, il più grande dei figli, guardavo attentamente tutto, ma ad attirarmi particolarmente<br />
erano gli animali. Fu così che, un po’ alla volta, imparai come allevare gli<br />
animali da cortile e come sfruttarli per i vari bisogni familiari.<br />
I gallinacei<br />
In cortile razzolavano una quarantina <strong>di</strong> capi <strong>di</strong> pollame <strong>di</strong> varie razze, perché la<br />
nonna ci teneva ad avere animali sempre più gran<strong>di</strong> e per questo faceva scambi<br />
con altre famiglie. Avevamo però anche galline piccole perché erano buone chiocce<br />
cioche. Questo era il ciclo dell’allevamento. In primavera alcune galline cominciavano<br />
ad emettere versi striduli: erano pronte a covare. La nonna ne sceglieva due per<br />
le quali preparava ceste con paglia. Là deponeva le uova che aveva raccolto o scambiato.<br />
Subito le chiocce si mettevano a covare. Quei ni<strong>di</strong> gnari, erano posti in luoghi<br />
tranquilli e non molto illuminati, così le chiocce non venivano <strong>di</strong>sturbate durante<br />
la cova. Ogni giorno però venivano lasciate libere perché potessero bere e mangiare,<br />
mentre le uova venivano ricoperte con stracci <strong>di</strong> lana per mantenerle calde.<br />
Dopo circa due settimane le uova venivano guardate contro la luce <strong>di</strong> una candela<br />
per controllare se il pulcino cominciava a formarsi: era la spera, come <strong>di</strong>cevano.<br />
Le uova senza germe invece avevano il tuorlo che si era trasformato in un liquido<br />
omogeneo con l’albume: erano improduttive e immangiabili perciò venivano gettate<br />
nel letamaio, erano i così detti ovi sguaratoni. Dopo poco tempo nei ni<strong>di</strong> si<br />
sentivano deboli ticchettii, erano i pulcini che cercavano <strong>di</strong> rompere il guscio. La<br />
nonna aiutava quegli sforzi, rompendo il guscio e ne uscivano pulcini pigolanti.<br />
Man mano che nascevano li metteva al caldo dentro un cassetto sotto la piana del<br />
focolare, detta la rola, vi metteva anche una scodellina con un po’ d’acqua e piccoli<br />
pastoni con granellini <strong>di</strong> cereali spezzati: erano i primi assaggi dei pulcini. Finite<br />
le nascite poneva la chioccia sotto un cesto con caratteristiche particolari: rotondo,<br />
senza fondo e con sopra un foro per togliere o mettere la chioccia, era il corgo. Subito<br />
si sentivano gorgheggi particolari, era la chioccia che chiamava attorno a sé i<br />
pulcini. Questi rispondevano subito e s’industriavano a entrare nel corgo, attraverso<br />
una fessura ottenuta rialzandolo un po’ da una parte. Dentro c’erano cibo ed acqua<br />
e la chioccia era tutta presa a insegnare ai pulcini come nutrirsi. Dopo circa un<br />
mese i pulcini erano cresciutelli e la chioccia smetteva <strong>di</strong> gorgheggiare perché aveva<br />
finito la sua mansione <strong>di</strong> madre: i pulcini ormai erano autosufficienti.<br />
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Quando poi dalle creste era evidente quali fossero i galletti, allora subentrava il lavoro<br />
per trasformarne parecchi in capponi, i caponi.<br />
La nonna li castrava facendo un piccolo taglio nel retro, che poi ricuciva col refe.<br />
Non <strong>di</strong>ventavano più i re del pollaio, ma si ingrassavano: erano scelti poi per i gran<strong>di</strong><br />
pranzi specie quelli natalizi. I galletti non mutilati servivano per i pasti, quando arrivava<br />
il nuovo granoturco. In settembre venivano cotti in umido con salse varie e<br />
mangiati con la polenta <strong>di</strong> granone nuovo.<br />
Ho imparato che era abbastanza facile preparare un gallinaceo per la pentola. Gli si<br />
spezzava il collo con un tiro e lo si appendeva subito a testa in giù per farvi defluire<br />
il sangue. Poi veniva immerso in acqua bollente per spennarlo al meglio e con facilità,<br />
in<strong>di</strong> veniva eviscerato.<br />
Fra le varie interiora saltava fuori il fegato richiesto per il risotto con i fegatini, era<br />
questo il modo <strong>di</strong> preparare un gustoso risotto, il risoto coi ruinazi. Oggi mi pare se<br />
ne sia persa l’abitu<strong>di</strong>ne, forse perché le galline non sono più ruspanti, ma crescono<br />
in batteria, dando però carni piuttosto fibrose e insipide.<br />
Animali da cortile, da sinistra: gallo, chioccia con pulcini, conigli, maiale, tacchino pitòn,<br />
cane, capra, gallina, anatre, oche.<br />
I palmipe<strong>di</strong><br />
La nonna allevava anche una dozzina tra anatre anare, e oche. Comperava le papere<br />
e le alimentava, non a becchime come le galline, ma a pastoni <strong>di</strong> farinacei ed<br />
erbe tritate. Nell’allevamento era aiutata dal vicino corso d’acqua ove gli animali<br />
guazzavano felici per parecchie ore giornaliere. Verso sera tornavano al pollaio<br />
attratte soprattutto dai pastoni che la nonna metteva vicino al portello della recinzione,<br />
che <strong>di</strong>videva l’orto e il cortile dall’argine del canale.<br />
Qualche volta gli animali erano in ritardo, allora io e la nonna andavamo a raccoglierli:<br />
io correvo con un bastone, lei guardava se facevo passi falsi per via<br />
dell’acqua corrente e profonda del vicino canale. In autunno inoltrato era l’ora <strong>di</strong><br />
ingrassare quegli animali a più non posso. Era il momento <strong>di</strong> dar loro tanto cibo<br />
e <strong>di</strong> rinchiuderli in un piccolo locale perché non perdessero carne e grasso col<br />
movimento. Soprattutto le oche avevano un trattamento speciale: messe al buio<br />
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venivano portate, una ad una un paio <strong>di</strong> volte al giorno, in cucina dove la nonna<br />
aveva preparato per loro una grande polenta. La ritagliava in piccole fette e ad ogni<br />
oca ficcava in bocca delle fettine che spingeva con le <strong>di</strong>ta, poi all’esterno del collo<br />
accompagnava il boccone fino allo stomaco con una mano, era l’incoconamento.<br />
Di tanto in tanto la nonna versava dell’acqua nella bocca dell’oca, per favorire la<br />
deglutizione. Dopo un certo periodo gli animali venivano macellati. Era questo un<br />
lavoro lento perché erano necessarie varie operazioni. Dapprima levare le penne,<br />
lo spenamento, che doveva essere fatto con attenzione perché le oche sono coperte<br />
dal cosiddetto piumino, tanto richiesto per trapunte, cuscini e rivestimenti <strong>di</strong> cappotti<br />
foderati. Quando l’animale era eviscerato, veniva tagliato in porzioni e la<br />
carne posta in recipienti, soprattutto pignatte o vasi <strong>di</strong> vetro. Tutto il grasso veniva<br />
squagliato a fuoco e versato nei vasi per rasarli. Il fegato dell’oca, boccone ricercato,<br />
era servito subito a tavola. Le anatre venivano anch’esse tagliate a pezzi e messe in<br />
pignatte come le oche. Con questo sistema si ottenevano carni prelibate, che potevano<br />
essere conservate e mangiate anche dopo parecchi mesi.<br />
La nonna, seduta in cucina, riempie a forza il gozzo delle oche da ingrasso con fette <strong>di</strong><br />
polenta.<br />
Il maiale<br />
La nostra famiglia aveva un porcile lontano dalla casa per evitare che nei luoghi<br />
abitati si <strong>di</strong>ffondessero cattivi odori. Il porcile era tutto <strong>di</strong> legno e il pavimento<br />
era formato da pali accostati fra loro e un po’ sollevati dal terreno in modo che<br />
i liquami fossero raccolti in una buca poco profonda. Il maiale poteva uscire a<br />
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grufolare in un piccolo recinto. La broda, fatta <strong>di</strong> crusche, patate e zucche, veniva<br />
versata in un truogolo albio, posto in una parete, mezzo fuori e mezzo dentro per<br />
facilitare i rifornimenti e nel contempo permettere al maiale <strong>di</strong> mangiare.<br />
D’estate la zona veniva rinfrescata dai rami delle zucche che vi crescevano attorno<br />
numerose e fitte, coprendo con le loro larghe foglie sia il porcile che il recinto.<br />
Sopra a questi c’erano dei pali <strong>di</strong> sostegno orizzontali la penda. A Costa c’era il<br />
detto: “girare come na zuca su la penda” per <strong>di</strong>re che uno rimaneva sempre nel<br />
luogo dove aveva la casa.<br />
Quando arrivava il freddo invernale era l’ora <strong>di</strong> fare i salami, far su el porzeo. Il<br />
norcino incaricato portava il giorno prima una tinozza a forma <strong>di</strong> parallelepipedo<br />
veturo, simile a quello che serviva per la pigiatura dell’uva e, ancora, un grande<br />
copritavolo <strong>di</strong> legno e delle corde. Il giorno dopo arrivava <strong>di</strong> buon mattino con la<br />
sua attrezzatura <strong>di</strong> coltelli e raschietti. Intanto i miei genitori avevano fatto bollire<br />
dell’acqua in un grande paiolo parolon. Rovesciato il veturo, il norcino con una<br />
cor<strong>di</strong>cella legata sul grugno del maiale, lo trascinava dove era tutto pre<strong>di</strong>sposto<br />
per lo sgozzamento. Anche se il maiale recalcitrava e grugniva a più non posso,<br />
con forza veniva issato sul vetùro rovesciato. Il maiale ormai domo veniva ucciso<br />
infiggendo un coltello lungo e appuntito sulla vena iugulare. Ne usciva tanto<br />
sangue che veniva raccolto in una grande terrina per fare il migliaccio, chiamato<br />
genericamente in <strong>di</strong>aletto sangue. Successivamente il maiale veniva immerso nel<br />
veturo pieno d’acqua calda per pulire la cotica con i raschietti.<br />
Per girarlo bene da tutte le parti, usavano due corde passanti sotto l’animale.<br />
Finito il lavoro <strong>di</strong> pulizia, che doveva essere accurato, il maiale veniva sollevato<br />
con un ru<strong>di</strong>mentale argano e fissato sulle travi <strong>di</strong> un solaio, in un luogo freddo<br />
a nord. Lo ponevano con la testa in giù per poterlo tagliare a metà lungo tutto il<br />
ventre e togliere prima le interiora, mentre mia madre cospargeva il pavimento<br />
sottostante <strong>di</strong> segatura o cenere per raccogliere gli eventuali liqui<strong>di</strong>.<br />
Invariabilmente il companatico <strong>di</strong> quel giorno era il fegato alla veneziana, cioè<br />
cotto con la cipolla. Una parte del fegato veniva portato in farmacia dove c’era<br />
l’appuntamento col veterinario che lo doveva controllare, tagliuzzandolo un po’,<br />
per vedere se il maiale era sano. Il norcino, con delle bacchette <strong>di</strong> salice scorticate,<br />
metteva dei puntelli sia per tenere aperta la bocca, sia per aprire al massimo<br />
le due parti del ventre tagliate verticalmente le mezane, poi puliva le budella riutilizzabili.<br />
Dopo vari giorni <strong>di</strong> frollatura, il norcino <strong>di</strong> buon mattino arrivava<br />
con la macchina per macinare la carne, con i pungiglioni spuncioni, per aerare gli<br />
insaccati e con lo spago per legare i salami. I pungiglioni erano formati da grossi<br />
tappi <strong>di</strong> sughero ove erano infilati lunghi aghi con la testa a sfera <strong>di</strong> color nero che<br />
usavano le donne anziane per fissare gli scialli fra i capelli, anch’essi generalmente<br />
neri, che usavano per andare a messa o per ripararsi nei mesi invernali. Mio padre<br />
intanto aveva provveduto a comperare sale, pepe, vino nero per le bon<strong>di</strong>ole e<br />
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infine budella secche che aveva già messe in acqua calda per ammorbi<strong>di</strong>rle.<br />
Il norcino iniziava la macellazione vera e propria: tagliava la carne, spolpava le<br />
ossa e il tutto veniva usato per i vari tipi <strong>di</strong> salami: salami da taglio con e senza<br />
aglio, cotechini, salsicce luganeghe, bon<strong>di</strong>ole e soppresse. Mia madre metteva le<br />
ossa in una solida cassa posta in zona fresca; quelle ossa servivano per con<strong>di</strong>re<br />
ogni giorno la minestra. I veli <strong>di</strong> grasso, che coprivano le interiora, venivano<br />
messi sul fuoco per ottenere lo strutto, unto che serviva a con<strong>di</strong>re pane e pinza,<br />
mentre i residui soli<strong>di</strong> i ciccioli zìzole, servivano come completamento del companatico.<br />
Il norcino tagliava gran<strong>di</strong> fette <strong>di</strong> lardo con la cotica; queste venivano subito<br />
appese alle perteghe dei salami perché rinsecchissero un poco, servivano per fare<br />
il pesto per con<strong>di</strong>re la minestra. Per molti mesi nelle mattinate, passando lungo le<br />
strade del paese, si sentivano battere dei pesanti coltelli su un tagliere per sminuzzare<br />
al massimo una fetta <strong>di</strong> lardo: le massaie stavano preparando il pranzo.<br />
A furia <strong>di</strong> battere, nel tagliere <strong>di</strong> legno si formavano delle buche; più erano profonde<br />
e larghe meglio davano un segnale che le massaie sapevano cucinare.<br />
Quello che mi piaceva vedere <strong>di</strong> più erano le corone <strong>di</strong> salsicce luganeghe, forse<br />
anche perché le trovavo gustose, sia cotte sulla graticola del focolare, sia usate per<br />
con<strong>di</strong>re la minestra. Tutti gli insaccati venivano posti in un luogo fresco, appesi<br />
alle pertiche le perteghe dei salami, perché là erano <strong>di</strong>fese dai gatti e dai topi. Le<br />
pertiche erano agganciate con tiranti <strong>di</strong> fil <strong>di</strong> ferro a chiodelle infisse sulle travi<br />
del solaio superiore. I salumi erano legati così in alto che i gatti, per quanti salti<br />
facessero, non riuscivano a raggiungerli. Per i topi c’era poi un accorgimento <strong>di</strong>verso.<br />
Dei gran<strong>di</strong> piatti forati al centro venivano infilati a rovescio nei fili <strong>di</strong> sostegno<br />
delle pertiche.<br />
I topi che scendevano dalle loro tane, quando arrivavano sulla faccia inclinata<br />
verso il basso del piatto <strong>di</strong> ceramica, non riuscivano a superarla e scivolavano a<br />
terra ove, quasi sempre, c’erano i gatti in attesa. In tutto il periodo invernale era<br />
un continuo mangiare <strong>di</strong> salami, cotti in tutti i mo<strong>di</strong>, con contorni <strong>di</strong> verze raccolte<br />
nel nostro orto e gran<strong>di</strong> fette <strong>di</strong> polenta.<br />
Allora era uso che tutti coloro che uccidevano il maiale portassero alla maestra<br />
dei propri figli un pezzo <strong>di</strong> fegato o un cotechino coeghìn. Ero io che annualmente<br />
portavo alla maestra un cartoccio <strong>di</strong> salumi e ogni volta mia madre mi ripeteva:<br />
“È un piccolo dono a chi lavora tanto per insegnarti ed educarti”.<br />
Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni retorica posso <strong>di</strong>re che la mia maestra in cinque anni non solo<br />
mi insegnò a “leggere scrivere e far <strong>di</strong> conto”, come si <strong>di</strong>ceva in quei tempi, ma<br />
mi <strong>di</strong>ede anche regole <strong>di</strong> educazione morale e civile che ancora adesso osservo e<br />
ricordo e che purtroppo oggi pochi insegnano.<br />
14
Il norcino legava con<br />
un nodo scorsoio il<br />
muso del maiale, così<br />
poteva trascinarlo<br />
più facilmente perché,<br />
più la corda era tesa,<br />
più il maiale sentiva<br />
dolore. Varie persone<br />
poi ponevano il<br />
maiale sopra il veturo<br />
rovesciato affinché<br />
potesse essere sgozzato.<br />
Il maiale con la cotica<br />
ben pulita veniva<br />
appeso alle travi e<br />
squartato a metà per<br />
levare e pulire tutte le<br />
interiora.<br />
I salami venivano<br />
appesi a una pertica<br />
fissata in alto sotto<br />
un solaio, in un<br />
luogo fresco per la<br />
stagionatura.<br />
Il norcino spolpava<br />
le ossa, macinava a<br />
mano la carne e faceva<br />
i vari tipi <strong>di</strong> salami.<br />
Usava per questi<br />
la stessa macchina<br />
tritacarne con<br />
l’aggiunta <strong>di</strong><br />
un cilindro che<br />
permetteva <strong>di</strong> infilare<br />
l’amalgama <strong>di</strong> carne,<br />
sale e vino entro le<br />
budella.<br />
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I conigli<br />
Zio Giacinto era un appassionato <strong>di</strong> conigli, conèi; <strong>di</strong> loro conosceva tutto: razze,<br />
preferenze alimentari, gestazioni e come curarli. Cominciò con una coppia e una<br />
gabbia costruita alla buona, poi si interessò a fondo del problema. Lo zio andò alla<br />
fiera campionaria <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, forse nel 1925, e ritornò con una coppia <strong>di</strong> grossi conigli<br />
<strong>di</strong> razza fiamminga e <strong>di</strong> color grigio. Là aveva anche ascoltato tante in<strong>di</strong>cazioni sulle<br />
conigliere e sui meto<strong>di</strong> da osservare nell’allevamento. Costruì subito all’esterno, con<br />
liste <strong>di</strong> legno (le liste erano travetti da quattro metri), quattro box addossati al muro<br />
del locale motore a gas povero. Sembravano costruiti da un falegname. Ogni box<br />
aveva il pavimento <strong>di</strong> un metro quadrato, così pure era grande lo sportello; tutt’intorno<br />
erano racchiusi da rete zincata con fori piccoli. La pavimentazione era formata<br />
da listelli quasi accostati per favorire l’espulsione degli escrementi. Questi non cadevano<br />
per terra ma entro un cassetto estraibile per facilitare le pulizie dei pavimenti.<br />
I box erano alti da terra circa un metro così lo zio poteva anche controllare bene<br />
tutti gli animali e le pulizie interne; <strong>di</strong>ceva sempre che l’igiene è la prima me<strong>di</strong>cina <strong>di</strong><br />
qualsiasi animale. Ben presto quei conigli, estremamente prolifici, si moltiplicarono,<br />
perciò lo zio si preoccupò <strong>di</strong> integrarli con altre razze. Nacquero allora coniglietti<br />
<strong>di</strong> razze e grandezze <strong>di</strong>verse. Era sempre lui che li accu<strong>di</strong>va che portava il cibo e<br />
cambiava l’acqua. Usava le verdure e le erbe dell’orto e i cascami del mulino per i<br />
pastoni. Piano piano lo zio si invogliò fino a costruire altri quattro gran<strong>di</strong> box e arrivò<br />
ad avere anche una sessantina <strong>di</strong> animali. Quelli che a me piacevano <strong>di</strong> più erano<br />
i conigli bianchi, dal pelo lungo <strong>di</strong> razza d’Angora, anche perché avevano degli<br />
occhi rossi brillanti. Fu per questi allevamenti che in casa si cominciò a mangiare<br />
settimanalmente carne <strong>di</strong> coniglio, che tutti apprezzavano. Lo zio per la macellazione<br />
dei conigli si comportava sempre allo stesso modo: prima sceglieva con attenzione il<br />
capo da abbattere, poi l’uccideva con un colpo alla nuca. Io, sempre curioso, osservavo<br />
quando faceva queste operazioni; sulle prime non le capivo poi via via nel tempo me<br />
ne sono reso conto. Se la prescelta era una femmina prima le tastava il basso ventre<br />
per controllare se c’era una gestazione in fieri. Se la femmina aspettava una cucciolata,<br />
veniva rimessa nella gabbia. Poi seguiva anche un altro criterio nella scelta, faceva<br />
una selezione genetica. I capi più vigorosi li teneva per la riproduzione, uccideva gli<br />
esemplari più deboli o che erano in eccedenza fra maschi e femmine. Appendeva<br />
l’animale ucciso con la testa in giù, sia per convogliare il sangue verso la testa, sia<br />
perché quella posizione era utile per la scuoiatura. Lo zio circoncideva la pelliccia<br />
nella parte posteriore del corpo, poi d’un colpo scamiciava l’animale fino alla testa,<br />
che veniva tagliata e gettata via, così si trovava in mano un cilindro peloso all’interno.<br />
A completamento levava le interiora all’animale e riempiva <strong>di</strong> paglia il manicotto <strong>di</strong><br />
pelle per seccarlo. Squartata a pezzi, la carne veniva messa nell’aceto perché perdesse<br />
l’odore <strong>di</strong> selvatico, poi era pronta per la cottura. La pelle, quando era secca, veniva<br />
usata per fare manopole sui manubri delle bici e delle moto; anch’io le ho adoperate<br />
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per quasi sei anni quando andavo in bici alla stazione ferroviaria <strong>di</strong> Fratta Polesine,<br />
partendo da San Bellino, per recarmi a scuola a Rovigo. Ora l’attività cunicola è fatta in<br />
batteria, usando mangimi per una rapida crescita degli animali. Oggi nei supermercati<br />
si trova la carne <strong>di</strong> coniglio dai sapori meno accentuati <strong>di</strong> una volta, ma a un costo<br />
relativamente basso se lo si confronta con i lunghi lavori che faceva lo zio.<br />
Il baco da seta<br />
A Costa era molto <strong>di</strong>ffuso l’allevamento dei bachi da seta i cavalieri, fatto nella tarda<br />
primavera. Tante famiglie si ingegnavano a fare questo lavoro suppletivo perché<br />
generalmente dava un buon guadagno in poco tempo. Per l’allevamento occorrevano<br />
circa un mese <strong>di</strong> lavoro, delle modeste attrezzature e tanti alberi <strong>di</strong> gelso; ma questi in<br />
paese erano <strong>di</strong>sponibili ovunque: nei cortili nei giar<strong>di</strong>ni e nei filari delle campagne.<br />
Erano giorni <strong>di</strong> lavori intensi per le pulizie, per la <strong>di</strong>sinfestazione con vapori <strong>di</strong> zolfo<br />
e per dare cibo costante <strong>di</strong> foglie ai cavalieri. Occorreva anche preparare per loro superfici<br />
sempre più ampie perché essi ingran<strong>di</strong>vano smisuratamente in breve tempo,<br />
da qualche millimetro arrivavano fino a otto centimetri. La mia famiglia non faceva<br />
quell’allevamento, ma alla scuola elementare l’insegnante ce lo spiegava, sia perché<br />
lei da bambina era vissuta in mezzo a quel lavoro, sia perché era un allevamento<br />
specifico e red<strong>di</strong>tizio per tutto il paese. Io ho visto qua e là tutte le fasi <strong>di</strong> sviluppo dei<br />
bachi, i gestori però non sempre lasciavano entrare nei locali perché temevano che gli<br />
estranei fossero portatori <strong>di</strong> malattie.<br />
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Ogni allevatore comperava le uova del baco, che erano piccolissime e bianchicce, le<br />
semenze, presso gli stabilimenti bacologici ove curavano le malattie e creavano ibri<strong>di</strong><br />
sempre più resistenti ai malanni. La misura per l’acquisto era l’oncia, ònza, quantità<br />
<strong>di</strong> peso inglese pari a circa 28 grammi. Mi pare <strong>di</strong> ricordare che generalmente ogni<br />
famiglia comperasse un’onza e meza o due. Ben presto con il tepore della bella stagione<br />
nascevano le larve, che dopo breve tempo <strong>di</strong>venivano voracissimi bruchi pelosi<br />
<strong>di</strong> color bianco e bruno, i bigàti. Dovevano avere abbondante spazio, per non sovrapporsi<br />
gli uni sugli altri e per poter brucare continuamente le foglie <strong>di</strong> gelso.<br />
I bruchi non sviluppavano contemporaneamente il loro corpo assieme alla loro pelle,<br />
per cui facevano tre o quattro mute durante le quali perdevano la pelle più piccola e<br />
ne facevano crescere un’altra più grande.<br />
Se all’inizio alle piccole larve davano foglie tritate, ai bruchi davano prima solo foglie<br />
e poi rami con foglie. Era in questa ultima fase che il lavoro <strong>di</strong> preparazione delle<br />
foglie <strong>di</strong> gelso si faceva frenetico, mentre per noi bambini era il momento <strong>di</strong> raccogliere<br />
le more mature.<br />
Di more ve ne erano almeno tre tipi: bianche o nere che erano zuccherine e rosse<br />
che erano un po’ acidule. Personalmente preferivo le nere perché le bianche erano<br />
troppo dolci. Ne facevo grosse mangiate gratuite perché bastava salire su un albero e<br />
raccoglierle.<br />
I bachi da seta erano tenuti sempre molto puliti e stesi sui graticci <strong>di</strong> erbe palustri<br />
grisole, sostenute da trespoli per formare tanti ripiani sovrapposti, detti castelli<br />
castei. Quando si entrava nei locali dei bachi, verso la fine dei loro cicli, si sentiva un<br />
ronzio continuo, era il loro rodere le foglie. Alla fine gli allevatori facevano il bosco,<br />
cioè stendevano sulle grisiole rami senza foglie, socchiudevano le imposte e i bachi<br />
<strong>di</strong>ventavano crisali<strong>di</strong> racchiudendosi entro i bozzoli <strong>di</strong> seta che formavano con la<br />
loro bava. Talvolta c’erano dei bachi che <strong>di</strong>ventavano flacci<strong>di</strong>, <strong>di</strong> color giallo o bianco,<br />
questi non facevano il bozzolo, erano andati in vaca.<br />
Se la malattia si <strong>di</strong>ffondeva fra i bachi gli allevatori ci rimettevano tutto, però non<br />
ricordo che degli allevamenti si siano rovinati del tutto, anzi ho visto solamente pochi<br />
bachi flacci<strong>di</strong>, poche vache.<br />
Fatto il bozzolo tutti si affrettavano a raccoglierli, venderli e <strong>di</strong>sfare i boschi per fare<br />
le pulizie finali. I fili esterni al bozzolo, che collegavano a mo’ <strong>di</strong> ragnatela i vari rametti<br />
<strong>di</strong> legno, venivano raccolti e anch’essi venduti o regalati. Ricordo che mia nonna<br />
mi fece una trapunta da letto con quei cascami. Ogni anno trovavo chi mi regalava<br />
qualche bozzolo che mettevo su un pezzo <strong>di</strong> giornale steso sul mio tavolino. Dopo<br />
non molto tempo il baco concludeva la sua metamorfosi e allora vedevo parecchie<br />
semenze sparse sul tavolino mentre svolazzavano piccole e tozze farfalle bianchicce. È<br />
per questo fatto che i bozzoli venivano venduti al più presto alle filande, che provvedevano<br />
subito a far morire le crisali<strong>di</strong>, onde evitare lo sfarfallamento che avrebbe<br />
rovinato il filo <strong>di</strong> seta.<br />
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Allevamento dei bachi da seta. I bruchi, bigati, sono stesi sui ripiani delle grisiole <strong>di</strong> un<br />
castello all’italiana castelo. Questi sono poi puliti e i cavalieri sono alimentati con foglie<br />
<strong>di</strong> gelso moraro tritate.<br />
Il bucato<br />
Prima della lavatrice e <strong>di</strong> tutti i vari prodotti saponosi <strong>di</strong>ffusi nell’ultimo dopoguerra,<br />
le massaie per il bucato dovevano usare cenere, che era la lisciva naturale, brusche<br />
<strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ca, pezzi <strong>di</strong> sapone, mastelli d’acqua e tanto lavoro. Quando io ero bambino<br />
i lavaggi erano <strong>di</strong> due tipi. Quello relativo alle vesti che era fatto a seconda delle necessità,<br />
quello della biancheria, lenzuola tovaglie ecc. che avveniva a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> mesi<br />
e solo durante la bella stagione, era il bugà, così lo chiamava mia madre. Nelle case<br />
c’erano sacchi <strong>di</strong> tela o ripostigli ove venivano custo<strong>di</strong>te le telerie sporche per ammucchiarle<br />
e lavarle tutte contemporaneamente. Nonostante i pochi lavaggi i ricambi<br />
<strong>di</strong> biancheria erano sempre eseguiti perché tutte le spose portavano in “dote” tante<br />
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lenzuola, tovaglie e tende. Era d’uso che la famiglia d’origine delle donne desse alla<br />
novella sposa molta biancheria da usarsi nella nuova famiglia, era cosa importante<br />
tanto che la “dote” veniva conteggiata nell’asse ere<strong>di</strong>tario. A Costa fra le varie costruzioni<br />
avevamo la lavanderia, ove venivano custo<strong>di</strong>te mastelle <strong>di</strong> varia grandezza (le me<strong>di</strong>e<br />
o piccole mastèle, le gran<strong>di</strong> mastelòni), accessori, come tavole da bucato e cavalletti.<br />
Il bugà, veniva eseguito da più donne proprio per la sua complessità e per la tanta<br />
biancheria da lavare. Una grossa mastella veniva posta su un trespolo per favorire il<br />
lavoro delle donne quando la riempivano <strong>di</strong> lenzuola e tovaglie ben piegate, poste a<br />
strati sovrapposti. Durante questo lavoro veniva riscaldata dell’acqua in un grande<br />
paiolo el parolòn, posto su un fornello esterno la fornèla.<br />
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La massaia lavava servendosi <strong>di</strong> una tavola verticale che veniva fissata entro la mastella.<br />
C’erano però anche tavole usate orizzontalmente che erano tenute ferme dalle due doghe<br />
rialzate che servivano per il trasporto.<br />
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Prima che l’acqua bollisse vi mettevano dentro un’abbondante dose <strong>di</strong> cenere ottenuta<br />
nell’inverno dai ceppi bruciati nel camino. L’acqua, bollendo, trasformava le ceneri in<br />
lisciva naturale cioè in una soluzione per lavaggi a base <strong>di</strong> sali <strong>di</strong> so<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> potassio,<br />
importante per detergere la biancheria. L’acqua calda e saponosa veniva versata lentamente<br />
nel mastelòn previa stesa <strong>di</strong> un telo per la raccolta delle ceneri el bugaròlo. L’acqua<br />
bagnava ogni pezzo <strong>di</strong> tela sciogliendo parecchio su<strong>di</strong>ciume. Dopo alcuni giorni<br />
essa veniva spillata, poi iniziava la rilavatura <strong>di</strong> ogni capo per togliere le eventuali macchie<br />
rimaste. Questo lavoro veniva eseguito con pezzi <strong>di</strong> sapone Marsiglia e brusche <strong>di</strong><br />
ra<strong>di</strong>ca, unitamente da due donne con due mastelle vicine e piene d’acqua pulita.<br />
Ciascuna usava una tavola <strong>di</strong> legno, generalmente rettangolare, <strong>di</strong> circa ottanta<br />
per sessanta centimetri, che aveva a sinistra un riquadro per deporvi il sapone e<br />
la brusca e che aveva pure un risvolto inclinato per appoggiarvi il corpo. Infatti<br />
la tavola veniva tenuta fissata tra il corpo della lavoratrice e due doghe sporgenti<br />
della mastella. Occorreva che le due lavandaie lavassero all’unisono le lenzuola e<br />
le tovaglie, per insaponarle e strizzarle dall’acqua. Quei capi venivano posti poi su<br />
cavalletti, facili da trasportare per il risciacquo resentare, che veniva fatto generalmente<br />
dove c’era l’acqua corrente. Da noi sotto casa passava il canale A<strong>di</strong>getto che<br />
serviva per l’ultima lavatura dato che aveva l’acqua limpida. Sulla sponda del canale<br />
venivano fissate, con robusti picchetti, due tavole con inginocchiatoio dove si ponevano<br />
le lavandaie per poter risciacquare, era lo scagno. Per ultimo c’era la stesa al sole<br />
<strong>di</strong> tutta la biancheria, posta su lunghe corde sostenute da pertiche che avevano nella<br />
parte terminale una forcella.<br />
Fornitura dell’acqua<br />
Una volta, in tutti i nostri paesi sparsi sul territorio non vi erano acquedotti né fognature:<br />
si sopperiva con pozzi e letamai.<br />
I pozzi erano parecchi e tutti erano a <strong>di</strong>sposizione, per tra<strong>di</strong>zione, dell’intera collettività.<br />
Erano costruiti con mattoni sagomati, i pozzàli, che, uniti tra loro con calce,<br />
formavano un cilindro del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa 1.20/1.40 metri. Anche il parapetto era<br />
in mattoni ed era completato da una pesante armilla, la vera, <strong>di</strong> pietra bianca d’Istria<br />
o <strong>di</strong> trachite grigia che sosteneva un arco <strong>di</strong> ferro infisso e fissato con piombo.<br />
Sull’arco c’era una carrucola <strong>di</strong> ferro con catena <strong>di</strong> scorrimento, ove, a un capo, era<br />
legato un secchio. Tutti i proprietari dei pozzi erano forniti <strong>di</strong> un arpione a tre punte<br />
per il ripescaggio del secchio nel caso cadesse nel pozzo.<br />
La fornitura giornaliera d’acqua era generalmente fatta dalle donne che trasportavano<br />
due secchi a mezzo <strong>di</strong> un arconcello bigòlo che ponevano in spalla.<br />
Tutti i rifiuti <strong>di</strong> casa venivano gettati nel letamaio e poi, dopo la fermentazione, erano<br />
usati negli orti.<br />
Nelle case non c’erano gabinetti; vi erano solo latrine poste all’esterno: pure questi<br />
liquami, dopo la fermentazione, venivano sparsi negli orti. Tutto serviva da concime.<br />
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Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara – 1930<br />
Premessa<br />
Valdentro, frazione <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara, è una striscia <strong>di</strong> terreno, fiancheggiata dal canale<br />
A<strong>di</strong>getto, che si incunea nel comune <strong>di</strong> Villanova del Ghebbo. Io ho abitato in quel<br />
paesetto solamente per un anno, dal marzo 1930 al marzo 1931, ma sufficiente però<br />
perché vedessi e fissasi nella mente i meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> lavoro dei calzolai scarpàri, là numerosi.<br />
In quel tempo era prospera la fabbricazione <strong>di</strong> scarpe a cui partecipavano<br />
tanti artigiani sia <strong>di</strong> Villanova del Ghebbo che <strong>di</strong> Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara.<br />
A fianco della mia casa abitava proprio un calzolaio presso il quale passai molte ore.<br />
Si chiamava Albino, ma lo era anche <strong>di</strong> fatto perché tutti i peli della sua faccia erano<br />
bianchi. Avrà avuto cinquant’anni, era sposato senza figli. Aveva una modesta casa<br />
su due piani; al piano terra una entrata con le scale, dove lavorava nell’estate, e una<br />
cucina con un vecchio camino dove lavorava nell’inverno.<br />
A cominciare dalla primavera del 1930 io avevo sufficiente tempo libero perché<br />
avevo già completate le scuole elementari e stavo preparandomi solo per l’esame <strong>di</strong><br />
ammissione alle scuole me<strong>di</strong>e <strong>di</strong> Rovigo. Poi durante l’estate ebbi molto tempo a <strong>di</strong>sposizione<br />
perché ero stato promosso. Così passavo nel mulino <strong>di</strong> mio padre qualche<br />
ora, ma il resto del mio tempo lo trascorrevo da Albino, perché ero affascinato dal<br />
suo lavoro che non avevo mai visto prima.<br />
Il calzolaio<br />
Albino costruiva scarpe a contratto. Gli davano tomaie, cuoio, pellame e il cartone<br />
necessario per il confezionamento, lui ci metteva tutto il resto. Nell’entrata della casa,<br />
su una parete aveva appese tante forme <strong>di</strong> legno legate a coppie che gli erano necessarie<br />
per la confezione delle scarpe. Le forme avevano la soletta in lamiera <strong>di</strong> acciaio<br />
che serviva per ribattere i chio<strong>di</strong>ni somenze, ed erano <strong>di</strong>vise orizzontalmente in due<br />
parti, che si incastravano fra loro, per renderne possibile l’estrazione dopo che la<br />
scarpa era finita.<br />
Albino lavorava sempre alacremente per riuscire a preparare almeno due paia <strong>di</strong><br />
scarpe al giorno. Mi <strong>di</strong>ceva che doveva essere veloce perché altrimenti sarebbe morto<br />
<strong>di</strong> fame, dato che per ogni paio riceveva una misera cifra. Aveva calli e duroni sparsi<br />
nelle mani. Alcune <strong>di</strong>ta erano deformate, specie i pollici, perché le usava per spianare<br />
le pelli e cucire il cuoio a mano. Durante il lavoro adoperava anche la bocca, che<br />
trasformava in un serbatoio delle somenze, necessarie <strong>di</strong> volta in volta.<br />
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Le sputava a piccoli intervalli e in giusta posizione con la testa sul retro, subito le posizionava<br />
verticalmente battendole col martello: era una macchina che mi incantava. Per<br />
accelerare le esecuzioni, usava il metodo <strong>di</strong> seguire la stessa fase lavorativa per più capi.<br />
Aveva un vecchio deschetto bancheto vecio, pieno <strong>di</strong> piccoli utensili e <strong>di</strong> alcuni materiali<br />
che gli servivano per i lavori. La piana del deschetto aveva un risalto perimetrale<br />
per evitare la caduta degli oggetti. Sul davanti c’erano vari contenitori per i<br />
chio<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa lunghezza. Ai fianchi erano appesi quegli oggetti che servivano<br />
per i lavori finali. Sul davanti aveva anche un cassetto ove conservava spago, cere,<br />
trincetti appena arrotati e la macchinetta per scaldare le cere. Prima <strong>di</strong> iniziare indossava<br />
un grembiule <strong>di</strong> tela rinforzato da strisce <strong>di</strong> pelle, una sul petto per quando<br />
tagliava il cuoio, una sulla gamba dove arrotolava gli spaghi. Si sedeva davanti al<br />
deschetto su un basso sgabello careghéta con cuscino, fornito <strong>di</strong> schienale per appoggiarvisi<br />
quando si stiracchiava le membra.<br />
Il lavoro iniziava preparando le solette col sagomare cartone e crosta <strong>di</strong> cuoio incollati<br />
fra loro. In<strong>di</strong> incollava tra fodera e pelle il puntale della tomaia e il tallone, usando<br />
cartone e poche volte crosta <strong>di</strong> cuoio.<br />
Usava la colla, che era <strong>di</strong> color bruno, spalmandola sui pezzi da infilare poi li lasciava<br />
da parte per vari minuti perché la colla si indurisse senza però perdere la capacità <strong>di</strong><br />
collante; naturalmente nell’attesa preparava altri lavori. In contemporanea sistemava<br />
in via provvisoria soletta e tomaia sulla forma usando somenze lunghe senza impiantarle<br />
totalmente. Completato questo collegamento perimetrale in modo preciso, passava<br />
a quello definitivo impiantando somenze piccole, che venivano risvoltate dalla<br />
lamiera <strong>di</strong> base della forma, stirando ben bene la pelle con una tenaglia a ganasce<br />
piane. Era in queste fasi che la bocca <strong>di</strong> Albino <strong>di</strong>ventava “una sputa chio<strong>di</strong>”. Dopo,<br />
egli levava con una tenaglia normale i chio<strong>di</strong>ni piantati provvisoriamente e nel contempo<br />
preparava gli spaghi per le due cuciture necessarie per completare le scarpe.<br />
Una serviva per unire alla tomaia il guàrdolo, che è una stretta striscia <strong>di</strong> cuoio, l’altra<br />
per unire il guàrdolo con la suola. Le due cuciture non erano fatte allo stesso modo; la<br />
prima era a punto lungo perché poi era nascosta dalla suola, la seconda a punto corto<br />
e regolare perché rimaneva a vista.<br />
I gomitoli <strong>di</strong> spago per calzolai erano formati da un sottile filo <strong>di</strong> canapa, che tutti<br />
chiamavano spago sforzin, forse perché serviva anche ai carrettieri per far schioccare le<br />
fruste scùrie. Albino raddoppiava o triplicava i fili e li arrotolava fra loro con la mano,<br />
servendosi come piano <strong>di</strong> lavoro della coscia protetta dal grembiule, che aveva cucita<br />
una lista <strong>di</strong> pelle. Faceva questo lavoro usando la pece per l’adesione dei vari fili e poi<br />
la cera d’ape per favorirne la scorrevolezza. Completava il tutto innescando per ogni<br />
capo delle setole <strong>di</strong> maiale o degli aghi ricurvi senza cruna. Prima <strong>di</strong> cucire la suola<br />
Albino rispianava l’incavo formato dal risvolto della tomaia inchiodata sulla soletta.<br />
per quel lavoro usava un cartone violaceo, duro e resistente per qualche tempo anche<br />
all’acqua. Fissava quel cartone ridotto a scaglie con un po’ <strong>di</strong> chio<strong>di</strong>ni lunghi e colla,<br />
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costruendo anche nel contempo l’impronta dei tacchi. Spesso in queste fasi <strong>di</strong> lavoro<br />
Albino si sfogava <strong>di</strong>cendo che i cartoni messi nelle scarpe erano un imbroglio fatto<br />
dai commercianti solo per <strong>di</strong>minuire il più possibile i costi, <strong>di</strong>cendo però ai clienti<br />
che le loro scarpe erano totalmente <strong>di</strong> cuoio. Un suo lavoro <strong>di</strong> intermezzo era quello<br />
<strong>di</strong> sagomare il cuoio delle suole e dei tacchi e poi batterlo sulla faccia piana <strong>di</strong> un<br />
sasso che posizionava fra le sue cosce. Per ritagliare cuoio o cartoni usava trincetti<br />
<strong>di</strong>versi cortéi, sulla piana del deschetto ne aveva molti e a ogni ripresa rifaceva il<br />
filo con la cote piera, bagnata con una spugnetta. Questa era sempre pronta perché<br />
la usava anche per altre necessità. Nei bor<strong>di</strong> della suola faceva un intaglio poco<br />
profondo usando sempre la spugna per bagnare il cuoio onde ammorbi<strong>di</strong>rlo; poi<br />
rialzava la slabbratura con un piccolo strumento <strong>di</strong> legno per fare nell’incavo la<br />
cucitura tra il guàrdolo e la suola. Finito questo lavoro abbassava la slabbratura con<br />
un altro piccolo strumento, così veniva ricoperta la cucitura stessa.<br />
Albino quando cuciva si copriva le mani con speciali guanti <strong>di</strong> pelle, poi per prima<br />
cosa introduceva la punta della lesina in un panetto <strong>di</strong> cera d’ape per farla scorrere<br />
meglio durante la foratura. Quando iniziava il lavoro faceva un foro all’inizio del<br />
guardolo infilandovi lo spago per metà, faceva poi un secondo foro ove infilava <strong>di</strong><br />
qua e <strong>di</strong> là i due cappi liberi dello spago tirandoli fino a fare un punto lasco.<br />
Il calzolaio batte con il martello per fissare il tacco della scarpa. Il suo deschetto era il<br />
deposito <strong>di</strong> tutti gli arnesi necessari al lavoro.<br />
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Alla fine si avvolgeva per ogni mano un capo dello spago dando contemporaneamente<br />
due forti strattoni in modo che il punto <strong>di</strong>ventasse stretto e a tenuta. Disfaceva<br />
poi gli avvolgimenti attorno alle mani, faceva un altro foro ripetendo quei<br />
movimenti che ho descritto. Così fino alla fine sempre badando alla regolarità<br />
dei punti e favorendo il lavoro della lesina sfregandola sulla cera <strong>di</strong> tanto in tanto.<br />
Dopo c’erano il completamento dei tacchi e i lavori <strong>di</strong> lisciatura dei dorsi del<br />
cuoio. Albino correggeva le irregolarità maggiori con una raspa, poi lisciava il<br />
tutto con gli spigoli <strong>di</strong> pezzi <strong>di</strong> vetro. Sopra il suo deschetto vi erano sempre<br />
ritagli <strong>di</strong> lastre <strong>di</strong> vetro usate per le finestre; li sud<strong>di</strong>videva con una lima triangolare<br />
in piccole parti e, col filo <strong>di</strong> qui pezzetti <strong>di</strong> vetro, levigava ben bene i dorsi<br />
delle suole e dei tacchi. Era il momento <strong>di</strong> stendere la cera colorata, quasi sempre<br />
nera, su tutto il cuoio. Tirava fuori la macchinetta a spirito; era una vaschetta <strong>di</strong><br />
vetro che aveva un beccuccio con stoppino che pescava nell’alcool denaturato.<br />
Accendeva con uno zolfanello e poneva sulla fiamma un piccolo strumento che<br />
riscaldato, scioglieva la cera e la <strong>di</strong>stendeva <strong>di</strong> seguito.<br />
Di questi utensili ce n’erano <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse forme: la lissa per i dorsi, il marcapunto<br />
per il guardolo, il bussetto per la suola; questi arnesi avevano certamente un<br />
nome <strong>di</strong>alettale, ma ora non li ricordo. Alla fine c’era la spazzolatura finale. Albino<br />
allora portava le scarpe confezionate a chi gli aveva dato il materiale e se ne<br />
ritornava a casa con altre tomaie, magari <strong>di</strong> forma e misure <strong>di</strong>verse.<br />
Nella tarda estate <strong>di</strong> quell’anno vi<strong>di</strong> un fatto molto doloroso. Ero con Albino,<br />
quando sentimmo grida provenienti dalla strade e ci affacciammo. Stava passando<br />
un gruppo <strong>di</strong> persone piangenti e urlanti, due delle quali sostenevano<br />
per i fianchi un pover’uomo <strong>di</strong> 27 anni che si doleva con flebili lamenti, pur<br />
riuscendo a camminare.<br />
Aveva la pelle del viso, delle mani e del torace che gli penzolava. Stavano portando<br />
l’infortunato dal me<strong>di</strong>co che abitava al <strong>di</strong> là del canale e dovevano attraversare il<br />
ponte che era vicino alla mia casa.<br />
All’indomani Albino mi spiegò che quel povero giovane, morto dopo poche<br />
ore all’ospedale <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara, era un calzolaio e stava spalmando la cera sulle<br />
suole con lo stesso sistema che usava lui. Accorgendosi che nella sua macchinetta<br />
stava finendo lo spirito, ebbe la malaugurata idea <strong>di</strong> svitare lo stoppino<br />
con la fiamma accesa, per fare il rifornimento. Forse l’aveva fatto altre volte, ma<br />
certo ebbe un attimo <strong>di</strong> <strong>di</strong>strazione per cui il liquido che stava versando cadde<br />
sullo stoppino acceso. Una improvvisa e prolungata fiammata lo investì ustionandogli<br />
faccia, torace e mani. Tutt’e due rimanemmo molto turbati; io mentre<br />
sto scrivendo rivedo quel povero infelice. Albino mi <strong>di</strong>ede un consiglio che ho<br />
sempre cercato <strong>di</strong> rispettare: “mai fidarsi <strong>di</strong> fare qualsiasi lavoro senza usare la<br />
massima attenzione”.<br />
Certo fu per me una tremenda lezione <strong>di</strong> vita.<br />
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A fianco. La moglie del calzolaio<br />
mentre lavora <strong>di</strong> cucito in cucina.<br />
Sotto. Io che guardo il calzolaio<br />
mentre lavora.
San Bellino 1931 - 1935<br />
L’ambiente socio culturale<br />
Secondo quanto ho capito San Bellino era un paese prettamente agricolo con una<br />
economia <strong>di</strong> tipo curtense, cioè nel suo interno c’era solo il sufficiente per lavorarvi<br />
e viverci. Credo che in quel tempo fosse abitato da poco più <strong>di</strong> 2000 persone. Era<br />
un paese privo <strong>di</strong> como<strong>di</strong>tà. Di fatto non c’era la possibilità <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare necessità e<br />
desideri per rendere agevole la vita quoti<strong>di</strong>ana, mancavano luoghi <strong>di</strong> aggregazione<br />
per giovani e per donne, c’erano solamente tre osterie frequentate da uomini.<br />
La ra<strong>di</strong>o e il gioco del pallone erano quasi degli sconosciuti: mancava cioè qualsiasi<br />
struttura che oggi chiamiamo sportiva. Le persone si muovevano generalmente<br />
in bicicletta, o con calessi tirati da cavalli, perché <strong>di</strong> auto in paese ve ne erano<br />
pochissime in circolazione. Ricordo bene che davanti a casa, nella strada inghiaiata,<br />
passava quasi giornalmente uno <strong>di</strong> Castelguglielmo il quale andava e tornava da<br />
Rovigo con una Isotta Fraschini che allora era una delle auto più gran<strong>di</strong> e belle.<br />
Sollevava un nugolo <strong>di</strong> polvere che faceva imbestialire il carradore vicino <strong>di</strong> casa.<br />
Per attingere acqua c’erano parecchi pozzi sparsi sul territorio. Al centro del sagrato<br />
della chiesa, che era anche la piazza del paese, c’era una grande pompa el<br />
mato, che fungeva anche da monumento.<br />
C’erano le cinque classi elementari, riunite però in pluriclassi perché gli<br />
insegnanti erano solamente tre. I locali delle aule si trovavano al piano terra del<br />
municipio ed erano abbastanza ampi per raccogliere tanti bambini. Vi era pure<br />
un asilo retto da due suore per i bimbetti <strong>di</strong> quattro e cinque anni. Aveva una<br />
saletta per fare teatro ove si esibivano i bimbi e i ragazzetti. su un piccolo palco<br />
<strong>di</strong> legno Anch’io ho recitato più volte in quel teatrino. Le offerte dello spettacolo<br />
servivano per incrementare le entrate delle suore, perché le quote delle frequenze<br />
erano davvero misere.<br />
Per coloro che volevano stu<strong>di</strong>are c’erano due possibilità: frequentare le tre classi<br />
complementari a Len<strong>di</strong>nara, <strong>di</strong>stante una decina <strong>di</strong> chilometri, o per potersi <strong>di</strong>plomare<br />
andare a Rovigo, capoluogo <strong>di</strong>stante venti chilometri da percorrere cinque<br />
in bici e i restanti in treno. Ai miei tempi eravamo due studenti: uno che andava a<br />
Len<strong>di</strong>nara e io che andavo a Rovigo.<br />
Nei cinque anni che ho abitato a S. Bellino sono arrivati nell’autunno <strong>di</strong> anni <strong>di</strong>versi<br />
due piccoli baracconi che sono rimasti là per oltre un mese. Erano i primi<br />
baracconi che si fermavano in paese e molta gente, che non aveva mai visto spettacoli<br />
li frequentava. Uno era un cinema che trasmetteva film muti accompagnati<br />
sempre dalla stessa musica operistica. Io là ho visto film a puntate e ricordo che<br />
quando le scene erano tragiche, come nei Miserabili, la gente piangeva.<br />
28
Nell’altro baraccone si esibivano alcuni saltimbanchi che si ingegnavano a rallegrare<br />
gli spettatori con esercizi atletici, piroette e scenette. Fra costoro c’era<br />
uno che suonava il violino durante le pause o per sottolineare qualche scena, lo<br />
ricordo bene perché chiudeva sempre lo spettacolo usando come strumenti dei<br />
bicchieri contenenti più o meno acqua. Sfiorava con le <strong>di</strong>ta bagnate gli orli e ne<br />
uscivano degli stri<strong>di</strong>i, non sgradevoli, con la melo<strong>di</strong>a delle marcette o canzonette<br />
allora in voga.<br />
Quando ero libero dalle incombenze scolastiche mi <strong>di</strong>vertivo a correre per i campi,<br />
spesso in compagnia <strong>di</strong> coetanei, tutti figli <strong>di</strong> addetti all’agricoltura. Fortunatamente<br />
sono sempre stato attratto e incuriosito da quello che mi circondava e a<br />
San Bellino, essendo presente solo il mondo agricolo, mi sono fatto, per forza, un<br />
ampio bagaglio <strong>di</strong> conoscenze <strong>di</strong>rette <strong>di</strong> quel mondo campagnolo che poi ho allargato<br />
e approfon<strong>di</strong>to con lo stu<strong>di</strong>o scolastico. L’unico centro <strong>di</strong> aggregazione era la<br />
parrocchia, la chiesa era sempre affollata in ogni celebrazione. Non così le organizzazioni<br />
fasciste che, almeno secondo me, erano usate solo per comandare il paese.<br />
Chiesa parrocchiale con facciata <strong>di</strong> tipologia veneta ricostruita nel 1600. Il campanile <strong>di</strong> stile romanico è<br />
del 1500. La chiesa è la basilica <strong>di</strong> San Bellino, ha tre navate e <strong>di</strong>etro l’altare c’è l’urna marmorea del Santo.<br />
Nel 1930 al centro del sagrato c’era una pompa d’acqua a ruota, attualmente c’è invece un monumento.<br />
29
I conduttori agricoli<br />
Il terreno agricolo era misurato a pertiche perteghe, equivalenti, mi era stato detto,<br />
a 1000 metri quadrati. Era <strong>di</strong>viso in fattorie <strong>di</strong> varie grandezze chiamate genericamente<br />
campagne. La più grande fattoria era quella degli Occari <strong>di</strong> 1000 pertiche cioè<br />
100 ettari. Ogni fattoria aveva la propria corte corte, cioè l’insieme <strong>di</strong> tutti i servizi<br />
necessari per la conduzione della campagna. Generalmente c’erano la casa padronale<br />
su due o tre piani, <strong>di</strong> cui l’ultimo a granaio che serviva per immagazzinare i raccolti,<br />
poi l’aia selese usata per seccare i prodotti, la stalla e piccoli fabbricati per abitazioni<br />
degli operai fissi i oblighi, e ancora cantine, ricoveri e spesso anche un forno per il<br />
pane. La corte aveva anche a <strong>di</strong>sposizione servizi collegati <strong>di</strong>rettamente ai conduttori<br />
come orti, giar<strong>di</strong>ni e alberi da frutto; le viti invece erano stese a spalliera fra gli olmi<br />
nelle capezzagne carezà.<br />
Invariabilmente il fabbricato più imponente era la stalla, che si <strong>di</strong>stingueva subito<br />
perché era costruita <strong>di</strong> mattoni non intonacati. Oltre alla stalla dei bovini ve n’era<br />
un’altra per gli equini perché i cavalli, gli asini e i muli hanno bisogno <strong>di</strong> un ricovero<br />
arieggiato anche d’inverno a <strong>di</strong>fferenza dei bovini. I buoi servivano per vari lavori<br />
campestri, le vacche per avere vitelli e latte da vendere, gli equini per i lavori leggeri<br />
da eseguirsi in modo veloce o per i trasporti stradali con i calessi. Questi erano <strong>di</strong> due<br />
tipi, un calesse spartano senza una copertura mobile fòlo, senza cuscini con molle<br />
dure, barozìn, un altro più sofisticato che aveva il folo per ripararsi dalla pioggia<br />
e un telo parasassi posto tra le stanghe nel retro del cavallo. Era un calesse molto<br />
molleggiato che aveva anche i cerchioni delle ruote coperti con gomma. Questo<br />
accorgimento era per evitare <strong>di</strong> schiacciare i sassi durante la corsa sulle strade<br />
inghiaiate ed eliminare quin<strong>di</strong> i rumori molesti, questo calesse era la timonéla.<br />
I vocabolari del <strong>di</strong>aletto veneto <strong>di</strong> provenienza padovana spiegano timonela come<br />
carrozza a quattro ruote; a San Bellino nessuno aveva carrozze e chiamavano timonela<br />
un calesse fornito <strong>di</strong> confort.<br />
Tutti praticavano la rotazione agraria, cioè coltivavano per quattro anni il prato poi,<br />
annualmente via via il frumento, la barbabietola, il granoturco e infine la canapa. La<br />
rotazione agraria dava la possibilità <strong>di</strong> sfruttare al meglio i vari strati <strong>di</strong> terreno per il<br />
<strong>di</strong>verso sviluppo ra<strong>di</strong>cale delle varie piante. Nessuno faceva su larga scala coltivazioni<br />
specialistiche, come aglio o patate, perché <strong>di</strong>cevano che il terreno non era adatto per<br />
le coltivazioni orticole, Solamente ogni anno c’erano qua o là coltivazioni <strong>di</strong> angurie<br />
e meloni le anguriare. I conduttori agricoli davano in subaffitto a persone anziane<br />
qualche campo vicino ai fossi con acqua corrente e fiancheggiati da ontani o salici<br />
albare, salgàri, stropari. Erano luoghi tranquilli e freschi ove l’anguriaro si costruiva<br />
un casotto <strong>di</strong> canne palustri che gli serviva da cucina e camera da letto. A fianco<br />
costruiva tettoie, coperte pure esse <strong>di</strong> canne, panche e tavole costruite su pali piantati<br />
per terra: servivano per i clienti che andavano là a mangiare le angurie. Completavano<br />
il tutto alcune tinozze sempre piene d’acqua per tenere in fresca la merce da vendere.<br />
30
Si andava là in bici, con le tasche piene <strong>di</strong> pan biscotto e si faceva una mangiata<br />
ammollando il pane in mezza anguria.<br />
Gli impren<strong>di</strong>tori agricoli, generalmente fittavoli, facevano anch’essi una vita paesana<br />
senza evasioni o mondanità, forse perché il paese non offriva nulla ed anche perché<br />
era lontano dai luoghi, come Len<strong>di</strong>nara e Ba<strong>di</strong>a, dove c’erano teatri, cinema e sale<br />
da ballo. Qualcuno mandava un figlio a stu<strong>di</strong>are in collegio, ma era un caso raro.<br />
Ricordo che un giovane faceva una scuola per corrispondenza, spesso aveva bisogno<br />
<strong>di</strong> aiuti e ricorreva al parroco. Alla fine si stancò e tralasciò <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are.<br />
La fattoria.<br />
L’anguriaro taglia delle fette d’anguria per venderle ai ragazzetti.<br />
31
I trentottisti<br />
I braccianti, che erano i lavoratori della terra più numerosi, avevano un contratto<br />
limitato relativamente al ciclo <strong>di</strong> ogni singola produzione agricola. Essi non vivevano<br />
nella corte padronale, ma avevano casette, proprie o in affitto, sparse nel territorio.<br />
Il contratto dei braccianti era chiamato trentoto perché i prodotti ottenuti venivano<br />
<strong>di</strong>stribuiti in ragione del 38% fra tutti i lavoratori. Il gestore si assumeva tutte le spese<br />
per le sementi provvedeva all’aratura e alla semina, poi entravano i trentotisti con il<br />
loro lavoro fino al raccolto. I braccianti accettavano <strong>di</strong> partecipare alle varie coltivazioni,<br />
a seconda della forza lavoro della loro famiglia e le loro capacità <strong>di</strong> sfruttare al<br />
meglio l’impegno che si assumevano.<br />
La coltivazione più desiderata era la raccolta del frumento perché dava una remunerazione<br />
in natura molto importante per l’alimentazione della famiglia, anche se il<br />
lavoro era molto faticoso seppur <strong>di</strong> breve durata. D’altra parte i conduttori agricoli<br />
accettavano <strong>di</strong> buon grado un alto numero <strong>di</strong> lavoratori per la mietitura e la trebbiatura<br />
per <strong>di</strong>minuire il più possibile il tempo della raccolta, in quanto il grano poteva<br />
essere facilmente rovinato dalla pioggia.<br />
Ogni famiglia bracciantile partecipava a più coltivazioni, sia perché i lavori agricoli<br />
si susseguivano da giugno a settembre, sia perché tutti avevano bisogno <strong>di</strong> incassare<br />
denaro e provviste soprattutto per l’inverno.<br />
Le case dei braccianti erano in genere <strong>di</strong> quattro vani. Piano terra con entrata e scala, poi cucina col<br />
camino, piano primo con due vani. Il gabinetto era una latrina esterna riparata con erbe palustri o<br />
tavolame. L’acqua veniva attinta dai pozzi sparsi sul territorio. I pozzi servivano anche da frigoriferi,<br />
calandovi dentro secchie piene <strong>di</strong> cibo da conservare al fresco quando si era nell’estate.<br />
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Un segno delle ristrettezze in cui versavano i braccianti era la consuetu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> mangiare<br />
all’inverno due volte al giorno. Il primo pasto era nella mattinata, il secondo<br />
alle quin<strong>di</strong>ci. Siccome una volta non tutti avevano l’orologio, alla tre del pomeriggio<br />
suonava il campanone della parrocchia per dare il segnale che era l’ora del secondo<br />
pasto. Era davvero una vita grama. Per fortuna, per <strong>di</strong>minuire quelle ristrettezze, c’erano<br />
famiglie che avevano attorno alla loro casetta un orticello per le verdure e uno<br />
spazio per gli animali da cortile, così almeno alla domenica potevano fare un pranzo<br />
completato da carne.<br />
Uno dei cibi più <strong>di</strong>ffusi era l’aringa, pesce che arrivava in grossi barili dai paesi nor<strong>di</strong>ci<br />
d’Europa. Era <strong>di</strong> due tipi: aringa femmina con uova e aringa senza, generalmente<br />
maschio, in <strong>di</strong>aletto rispettivamente renga da late e scopeton. La conservazione era<br />
fatta all’origine stendendo i pesci nel barile e rasando ogni strato con del sale.<br />
Era un cibo molto economico sia per il costo sia perché un pesce bastava per una famiglia<br />
<strong>di</strong> parecchie persone. L’aringa veniva preparata velocemente: pulita dal sale, era messa<br />
a rosolare su una graticola gradéla, poi si toglieva la lisca e si con<strong>di</strong>va con un po’ <strong>di</strong> olio<br />
una gioza o giossa de oio. Essa veniva mangiata con tanta polenta e pochissima carne.<br />
Un focolare visto all’interno. Era costruito tutto in mattoni, come la cappa. Sotto c’era un grande<br />
cassetto per tenere in caldo certe vivande e i pulcini appena nati. Da notare la se<strong>di</strong>a col se<strong>di</strong>le <strong>di</strong> paglia,<br />
il copricapo col fazzoletto legato sulla nuca e la catena ove erano appese le pignatte da riscaldare.<br />
33
Tutti si accontentavano <strong>di</strong> toccare l’aringa tociare, con un pezzo <strong>di</strong> polenta, per darle un<br />
gusto <strong>di</strong>verso, alla fine con gli ultimi bocconi si spartivano l’aringa. Oggi l’aringa è un cibo<br />
considerato prelibato ma è costoso, è venduto pronto da mangiare in eleganti confezioni.<br />
Ricordo fatterelli spassosi sulla renga che venivano declamati per le piazze quand’ero<br />
ragazzo. Un certo Callegari, ven<strong>di</strong>tore ambulante <strong>di</strong> <strong>di</strong>gestivi alla gramigna che lui<br />
preparava, per attirare l’attenzione dei passanti raccontava episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> vita.<br />
I due principali erano Bruneri-Cannella che riguardavano lo smemorato <strong>di</strong> Collegno,<br />
soldato della prima guerra mon<strong>di</strong>ale e la renga. Declamava e mimava trasformando<br />
i racconti in farsa ed era così istrione che alla fine tutti battevano le mani<br />
e parecchi compravano il suo intruglio. Ricordo quello della renga. Prendeva in<br />
giro coloro che vendevano le uova per comperare la renga.<br />
Diceva che poi l’attaccavano alle travi in cucina, nel centro della mensa accontentandosi<br />
tutti <strong>di</strong> toccarla tociarla, con la fetta <strong>di</strong> polenta, facendola poi bollonzolare<br />
da una parte all’altra della tavolata. Purtroppo era vero, l’uovo è più ricco <strong>di</strong><br />
nutrimento rispetto alla polenta, ma un uovo poteva accontentare sì e no solo una<br />
persona, mentre l’aringa serviva per dare una fragranza <strong>di</strong>versa alla polenta che<br />
molti dovevano mangiare per sfamarsi.<br />
Spaccato dell’interno <strong>di</strong> una cucina dei braccianti negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.<br />
Sulla cappa: cucccuma, lume a petrolio, macinino per il caffè, candeliere. Sul focolare: paiolo,<br />
graticola, coperchio per cuocere sotto le brace, mollette per le brace, ascia per spaccare la legna,<br />
palla per abbrustolire il caffè. Appesi al muro: stoviglie <strong>di</strong> rame e tavola della polenta. Pavimento:<br />
scal<strong>di</strong>ni la munega per mettervi il braciere sotto le coperte, scal<strong>di</strong>no <strong>di</strong> rame per strofinarlo,<br />
quando era pieno <strong>di</strong> brace, fra le lenzuola. La nonna prepara il pranzo e il nonno si riscalda.<br />
34
Che i braccianti <strong>di</strong> San Bellino vivessero da sempre una vita <strong>di</strong>sagiata è testimoniato dai<br />
numerosi espatri verso l’America del Sud e altri paesi. Posso <strong>di</strong>rlo perché, quando sono<br />
andato ad abitare a San Bellino, mio padre affittò anche due stanze, che poi risultarono<br />
le migliori, che erano gli ex uffici per sbrigare le pratiche degli emigranti e fatti chiudere<br />
tutti da Mussolini nel 1927. In un angolo trovammo un po’ <strong>di</strong> spazzatura ove io raccolsi<br />
vecchie cartoline e stampati per l’emigrazione in Brasile, così potei far riscontri sulle date.<br />
Anche sotto il fascismo, dopo il 1927, vi furono partenze <strong>di</strong> braccianti che andarono<br />
a bonificare l’Agro Pontino o altri luoghi in<strong>di</strong>cati dal partito. Se oggi pensassimo<br />
e capissimo quale fu la misera vita dei nostri bisnonni e nonni, certamente tutti<br />
avremmo meno pretese e meno egoismi! Va bene che oggi non è ieri, tuttavia se tutti<br />
conoscessimo com’era dura la vita solo ieri, certamente ci sarebbero meno ingiustizie!<br />
Schizzi dei principali utensili che usavano i conta<strong>di</strong>ni negli anni 1930. Gli utensili piccoli<br />
erano <strong>di</strong> proprietà dei trentottisti, quelli più gran<strong>di</strong> dei conduttori agricoli.<br />
35
Trentottiste <strong>di</strong> aiuto ai loro uomini. Da sinistra una donna con gerla (per trasporti leggeri,<br />
come erba per i conigli), e con in mano una pala <strong>di</strong> legno che serviva per soleggiare i cereali.<br />
L’altra ha una botticella per il vinello da <strong>di</strong>stribuire durante i lavori pesanti; l’ultima ha in<br />
mano la forca usata in stalla. A destra si intravede uno sgabello usato dai mungitori.<br />
36
La mietitura<br />
La mietitura era la vera sagra paesana, sia perché molto partecipata, sia perché<br />
tutte le facce erano sorridenti. Finalmente arrivava la meanda apportatrice <strong>di</strong><br />
frumento e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> pane.<br />
Alla mattina per tempo era un andare festoso verso i campi da mietere; ma se<br />
il vento aveva steso le spighe sul terreno o una malattia, che chiamavano rosseto<br />
aveva rovinato le spighe, subito sul volto <strong>di</strong> tutti si delineava un profondo<br />
sconforto: erano per<strong>di</strong>te che si ripercuotevano sui mesi futuri. Ognuno partiva<br />
con la propria falce segheto e con la merenda da consumarsi durante il lavoro.<br />
A Costa <strong>di</strong> Rovigo, dove avevo fatto le elementari, la maestra mi aveva insegnato<br />
che le falci erano <strong>di</strong> due tipi: quella messoria che serviva per mietere segheto,<br />
che è anche raffigurato nel <strong>di</strong>stintivo dei comunisti, e quella fienaia falze<br />
o falza, usata per segare il prato e che è anche l’emblema della morte.<br />
Io da ragazzetto andavo a vedere ogni giorno, nella grande fattoria, le <strong>di</strong>stese<br />
<strong>di</strong> frumento interrotte solamente da uno scolo trasversale fiancheggiato da<br />
ontani. I mietitori venivano <strong>di</strong>visi in gruppi, ognuno coor<strong>di</strong>nato da un obligo.<br />
Costui partiva da una capezzagna carezà e mieteva sei solchi <strong>di</strong> frumento trimi<br />
o trini, ponendo i mannelli la sbrancà, sopra l’erba della capezzagna stessa.<br />
Mietitori che lavorato sotto il sole <strong>di</strong> giugno. Qui sono rappresentati dei coltivatori <strong>di</strong>retti che<br />
mietono il loro campetto. Nelle fattorie sanbellinesi i mietitori talvolta superavano anche il<br />
numero <strong>di</strong> quaranta.<br />
37
Quando aveva mietuto alcuni metri in lunghezza, iniziava un secondo che<br />
poneva i mannelli sulle stoppie lasciate dal primo; così tutti gli altri si succedevano<br />
via via uno alla volta. Quando l’ultimo iniziava il proprio lavoro,<br />
subentrava una schiera <strong>di</strong> donne, fornite <strong>di</strong> lacci fatti con erbe palustri e<br />
terminanti nei due capi con no<strong>di</strong> i balzi. Queste raccoglievano <strong>di</strong>versi mannelli,<br />
che legavano formando i covoni le faie, che lasciavano sparse sulle<br />
stoppie.<br />
Quando tutte le donne avevano finito, ripassavano gli uomini per mettere<br />
i covoni ammucchiati in biche ben allineate le crosete. Quattro covoni<br />
venivano messi a croce con le spighe verso l’interno, poi i mietitori vi sovrapponevano<br />
altri tre strati e chiudevano con un covone che andava a coprire<br />
tutte le spighe sottostanti poste nel centro. Tutto ciò, sia perché gli uccelli<br />
non andassero a beccare le spighe delle biche, sia perché se pioveva si bagnassero<br />
solamente le spighe del covone <strong>di</strong> copertura.<br />
Era cura dei mietitori eseguire questi lavori sotto il sole perché, se i chicchi<br />
fossero stati bagnati dalla pioggia o dalla guazza, bisognava attendere i<br />
raggi solari per <strong>di</strong>sseccarli. Nel caso i covoni fossero bagnati li mettevano<br />
in pie<strong>di</strong> con le spighe rivolte verso l’alto; se non facevano così il frumento<br />
raccolto in biche avrebbe fermentato e quin<strong>di</strong> si sarebbe rovinato. Le biche<br />
erano lasciate sul campo per qualche settimana prima della trebbiatura, per<br />
dare possibilità al frumento <strong>di</strong> indurirsi lentamente ed essere pronto per la<br />
battitura della trebbia.<br />
Questi lavori fatti tutti a mano <strong>di</strong>sperdevano una <strong>di</strong>screta quantità <strong>di</strong> spighe,<br />
così c’erano gli spigolatori, soprattutto donne e ragazzetti. Era <strong>di</strong>fficile<br />
che i <strong>di</strong>rigenti li lasciassero entrare nei campi appena mietuti o quando<br />
c’erano ancora le biche, temevano che gli spigolatori allungassero le mani<br />
per strappare le spighe dai covoni. Ho visto però che nella grande fattoria,<br />
appena fatte le biche, lasciavano spigolare i più poveri del paese, magari<br />
sotto la sorveglianza <strong>di</strong> un obligo. Quando invece sui campi non c’erano più<br />
covoni, tutti potevano andare a spigolare dove volevano. Anch’io ci sono<br />
andato e ho fatto qualche piccolo covone che poi ho portato in chiesa.<br />
A San Bellino c’era la tra<strong>di</strong>zione che in una domenica <strong>di</strong> luglio tutti portassero<br />
in chiesa delle spighe: sia per ringraziare Dio del prodotto ottenuto,<br />
sia perché il frumento serviva per fare le ostie della Comunione. Quelle<br />
spighe offerte venivano ammassate nella fattoria che per ultima faceva la<br />
trebbiatura. Venivano colà trebbiate gratuitamente assieme alle varie quantità<br />
ottenute dagli spigolatori.<br />
Mentre scrivo ho davanti agli occhi la mietitura e la spigolatura perché erano<br />
affreschi viventi <strong>di</strong> macchie dai colori vari e <strong>di</strong> persone con le schiene<br />
curve che lavoravano alacremente.<br />
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La trebbiatura<br />
Quando i mietitori e le loro donne si erano riposati per qualche settimana<br />
dall’estenuante lavoro <strong>di</strong> usare segheto e balzi, iniziava la trebbiatura.<br />
Non era la continuazione della sagra vissuta sparpagliati nei campi in mezzo al giallo<br />
del grano e del sole, qui invece erano tutti raggruppati sotto una pesante cappa <strong>di</strong> polvere.<br />
Gli uomini e le donne avevano cappelli <strong>di</strong> paglia per <strong>di</strong>fendersi dai raggi solari<br />
e gran<strong>di</strong> fazzoletti al collo a <strong>di</strong>fesa della polvere perché, impastandosi con il sudore<br />
non penetrasse in tutto il corpo, giacché era urticante.<br />
Ricordo due trebbiature viste nella grande fattoria. Una con una macchina a vapore<br />
che mi ha incantato perché aveva come motrice un macchinario simile alla vaporiera<br />
dei treni; un’altra con un vecchio trattore americano che sulla targa aveva scritto<br />
“Titàn”. In quella corte la trebbiatura durava circa una settimana, io ogni pomeriggio<br />
ero là a curiosare e guardare.<br />
Tutte le persone erano affaccendate e avevano sempre sete, bevevano spesso attingendo<br />
con lo stesso mestolo la caza, da una secchia piena <strong>di</strong> vinello graspia, portata<br />
in giro da una donna.<br />
Per trebbiare vi erano varie fasi concomitanti <strong>di</strong> lavoro che penso <strong>di</strong> spiegare meglio sud<strong>di</strong>videndo<br />
l’argomento per poterlo svolgere in modo dettagliato. Lo faccio soprattutto<br />
per i giovani che certamente, non hanno mai visto e mai vedranno quei lavori pesanti.<br />
Motore a vapore<br />
Era la classica macchina a vapore tutta <strong>di</strong> ferro che veniva spostata da un tiro <strong>di</strong> buoi, perché<br />
la forza motrice prodotta dal vapore non faceva girare le ruote <strong>di</strong> traino ma solamente un<br />
volano. Dopo averla piazzata, vi accatastavano attorno legna e tinozze d’acqua. Erano i<br />
rifornimenti necessari per sostituire l’acqua perduta nelle evaporazioni e per mantenere<br />
sempre acceso il fuoco. Il macchinista, che doveva essere pronto per ogni evenienza, era<br />
aiutato da due braccianti perché i controlli da farsi erano tanti. Un grosso e lungo cinghione<br />
partiva dal volano del motore e arrivava nella puleggia del battitore della trebbiatrice. Un<br />
fischio prolungato e squillante, u<strong>di</strong>to da molto lontano, segnava l’inizio e la fine dei due<br />
turni giornalieri. A mezzogiorno tutti i lavoratori si affrettavano a pulirsi, scuotendo la<br />
polvere dagli abiti e lavandosi mani e faccia. Poi sceglievano un posto all’ombra: qualcuno<br />
accendeva un fuocherello per riscaldare la minestra portata da casa, altri attendevano i<br />
familiari che portavano fette <strong>di</strong> polenta calda accompagnate da pezzetti <strong>di</strong> gallina o coniglio<br />
o maiale. Finito il pranzo, vi era una bevuta generale <strong>di</strong> vinello graspia.<br />
La trebbiatrice<br />
La trebbiatrice era una macchina grande e alta che aveva varie pulegge e cinghie per<br />
muovere tutti i meccanismi interni. Vi erano bocche d’uscita, sul davanti per raccogliere il<br />
grano, <strong>di</strong> fianco per la pula e altre che si protendevano nel retro per espellere la paglia e la<br />
mezza paglia. Attorno c’era tutto un frenetico lavoro <strong>di</strong> tante persone.<br />
39
Anno 1934, la trebbiatura. La trebbiatrice è messa in funzione da una macchina a vapore.<br />
Attorno alla macchina a vapore ci sono il meccanico e gli aiuti; attorno alla trebbia: a<br />
sinistra chi raccoglie la pula, davanti chi raccogli il grano. A destra i carri pieni <strong>di</strong> covoni che<br />
venivano poi posti sopra la trebbia. In cima ci sono operai per ricevere e slegare i covoni e poi<br />
darli a colui che provvedeva a far entrare le spighe entro i battittori.<br />
40<br />
Trebbiatura<br />
del frumento.<br />
Nel retro della<br />
macchina<br />
usciva la<br />
paglia,<br />
davanti il<br />
grano, a metà<br />
la pula.<br />
Sopra la<br />
trebbia vi sono<br />
l’imboccatore<br />
delle spighe e<br />
un bracciante<br />
che gli porge i<br />
covoni.
Il lavoro più pesante, e nel contempo più pericoloso, era quello dell’imboccatore detto<br />
anche trebbiatore el paiarolo. Questi aveva il <strong>di</strong>fficile compito <strong>di</strong> dover lavorare vicino ad<br />
un congegno che era formato da due cilindri uno interno all’altro. Quello interno girava,<br />
quello esterno era fisso e aveva un largo foro per l’entrata delle spighe e un altro per l’uscita<br />
dei grani, della pula e della paglia mischiati fra loro. La spiga veniva sgranata dai denti<br />
dei due cilindri che lavoravano a contrasto e che formavano il battitore. Per separare i<br />
tre componenti della spiga: grano paglia pula formento paia pula, c’erano all’interno della<br />
trebbiatrice dei meccanismi che facevano la selezione, convogliando i vari prodotti in<br />
<strong>di</strong>stinti luoghi d’uscita.<br />
Chi imboccava le spighe si doveva posizionare entro un pertugio, con le gambe proprio<br />
davanti alla bocca <strong>di</strong> entrata del cilindro fisso. Se uno si <strong>di</strong>straeva, le sue brache potevano<br />
impigliarsi nei denti dell’ingranaggio rotante e rovinarsi qualche arto. Ogni tanto qua o<br />
là capitava purtroppo qualche <strong>di</strong>sgrazia.<br />
Nella grande fattoria ho visto che vi erano più imboccatori che si davano il cambio<br />
ogni due ore. Erano persone abbastanza giovani ed esperte che, durante la pausa, si<br />
rifocillavano all’ombra sbattendo anche le vesti per eliminare il più possibile la polvere<br />
urticante che essi ricevevano in grande quantità durante il lavoro. Sulla copertura piana<br />
della trebbia c’erano anche altre persone <strong>di</strong> aiuto che ricevevano pure esse il cambio.<br />
C’era chi prendeva i covoni con la forca e li allungava ad altri che, tolti i lacci balzi,<br />
li porgevano all’imboccatore in modo che questi potesse sparpagliare le spighe per<br />
introdurle facilmente nei cilindri del battitore.<br />
Il rifornimento dei covoni<br />
Era un lavoro che doveva essere fatto in sincronia da tante persone. Sotto la trebbia<br />
doveva esserci sempre un carro carico <strong>di</strong> covoni che una o due persone mettevano<br />
con le forche sul tetto della trebbiatrice. I rifornimenti erano fatti da un via <strong>vai</strong> <strong>di</strong><br />
carri vuoti che andavano a caricare i covoni nei campi, e <strong>di</strong> carri pieni che andavano<br />
verso la trebbiatrice. Poco <strong>di</strong>scosti dalla trebbia dovevano esserci sempre carri pieni,<br />
così c’erano coloro che con i buoi li spostavano per rimpiazzare quelli che erano stati<br />
scaricati completamente. Più i giorni passavano più numerose erano le spole dei carri<br />
perché le biche erano sempre più lontane.<br />
Le trebbiatrici erano poche in paese, così i fittavoli che erano gli ultimi ad usarle, spesso<br />
dovevano fare un lavoro aggiuntivo. Temendo che piovesse e che l’acqua bagnasse le<br />
biche, ma soprattutto perchè non si potesse più entrare con facilità nei campi dato che<br />
la terra bagnata <strong>di</strong>ventava molle, ammassavano i covoni in un grande mucchio nel<br />
cortile della fattoria el ca<strong>vai</strong>on.<br />
Veniva fatto a forma <strong>di</strong> carena rovesciata mettendo sempre verso l’esterno gli steli <strong>di</strong><br />
paglia perché l’eventuale pioggia potesse scivolare senza penetrare all’interno dove<br />
c’erano le spighe.<br />
41
La raccolta del frumento<br />
Attaccati alle bocchette <strong>di</strong> uscita del grano venivano appesi con ganci dei sacchi<br />
vuoti, quando erano pieni <strong>di</strong> frumento venivano portati sull’aia. Là c’erano delle<br />
donne che provvedevano con rastrelli <strong>di</strong> legno dal lungo manico, a sparpagliare i<br />
chicchi per soleggiarli. Alla sera il frumento steso veniva riammassato con rastrelli<br />
e pale e poi coperto con teli cerati o con tavolati catramati perché la rugiada o la<br />
pioggia non bagnassero il grano. Il giorno dopo lo ri<strong>di</strong>stendevano, così fino a che<br />
non era secco. Quando il grano era seccato veniva portato, solitamente <strong>di</strong> sera nel<br />
granaio che, come già detto, era all’ultimo piano della casa padronale. Quei locali<br />
erano pre<strong>di</strong>sposti per la lotta contro i topi.<br />
L’intonaco perimetrale per un’altezza <strong>di</strong> un metro era liscio e spatolato a marmorino<br />
dove i topi non erano capaci <strong>di</strong> arrampicarsi perché non trovavano rugosità.<br />
Quando scendevano dai loro nascon<strong>di</strong>gli, situati sulle travi del coperto per<br />
mangiare i chicchi, non erano più capaci <strong>di</strong> risalire e così <strong>di</strong>ventavano facili prede<br />
dei gatti. Per questo tutte le porte dei granai avevano alla base uno sportello a<br />
ghigliottina per fare entrare ed uscire i gatti.<br />
Prima <strong>di</strong> metterlo a magazzino il grano veniva misurato con lo staio staro, per garantire<br />
i cottimisti sulla quantità. Era un sistema antico che però funzionava bene<br />
ed era accettato da tutti. Lo staio era un cilindro <strong>di</strong> ferro con sopra una crociera<br />
per il livellamento delle spalate. Perché la crociera non si deformasse, vi era al<br />
centro un ferro verticale, incernierato nella crociera superiore e in quella inferiore<br />
posta all’esterno del fondo. Lo staio misurava il frumento a volume e non a peso,<br />
perché il peso specifico del frumento era variabile a seconda delle annate da 75 a<br />
78 chilogrammi ogni 100 litri. Il peso <strong>di</strong> uno staio <strong>di</strong> grano veniva considerato 25<br />
chilogrammi senza però che venisse battuto per intasarlo.<br />
Per completare il <strong>di</strong>scorso delle vecchie misure ricordo che nella ma<strong>di</strong>a buratàra,<br />
che conteneva farina bianca e gialla, esistente in molte case, c’era un recipiente <strong>di</strong><br />
legno fatto a tino che chiamavano la quarta, era infatti la quarta parte dello staio<br />
che serviva per misurare gli sfarinati.<br />
Il riempimento dei sacchi veniva fatto <strong>di</strong> sera sempre dalla stessa persona ed allo<br />
stesso modo, era un obligo. Usava una pala speciale <strong>di</strong> legno la cui spalata poteva<br />
contenere fino a 10 chilogrammi <strong>di</strong> granaglie. Il manico aveva due impugnature,<br />
una bassa e una alta, tra queste c’era la parte piana del manico ingrossato che a<br />
metà aveva una terza impugnatura a maniglia. L’obligo con tre spalate riempiva lo<br />
staio, poi pareggiava l’eccedenza usando la parte piana del manico manovrandola<br />
con la maniglia. Lo staio veniva rovesciato poi da due persone in un sacco, così per<br />
tre volte. Il sacco sui 75 chilogrammi veniva subito portato a spalla nel granaio.<br />
Alla fine del lavoro tutti ansimavano per la fatica, ma in fondo erano contenti<br />
perché avevano messo in sicurezza il loro tesoro, sapendo già quanto spettava ad<br />
ognuno <strong>di</strong> loro.<br />
42
a) In<strong>di</strong>ca la trebbiatrice nella sua interezza<br />
b) Battitore, cilindro rotante entro uno fisso - ve<strong>di</strong> m -<br />
c) Scuotipaglia per far avanzare la paglia verso l’uscita che è nel retro della<br />
trebbiatrice<br />
d) Tavola oscillante ove cadono i chicchi rimasti fra la paglia e la mezza paglia,<br />
che fuoriescono dal retro e la pula dal fianco<br />
e) Crivellone per selezionare il grano<br />
f) Vaglio con cassone ove vengono raccolti i chicchi sgranati i quali poi vengono<br />
portati in alto a mezzo <strong>di</strong> un elevatore<br />
g) Buratto cilindrico <strong>di</strong> selezione chicchi che poi fuoriescono sul davanti a mezzo <strong>di</strong><br />
bocchette ove sono fissati i sacchi<br />
h) Cassone raccolta chicchi - operazione prima <strong>di</strong> g<br />
i) Serbatoio pulizia chicchi - idem<br />
l) Elevatore chicchi a mezzo tazze - idem<br />
m) Cilindro fisso, controbattitore<br />
N.B. Nella parte retrostante della trebbia vi sono tre <strong>di</strong>stinte uscite <strong>di</strong> paglia intera,<br />
mezza paglia, paglia con pula sulla posizione della sigla e) - sulla posizione d)<br />
fuoriesce solo la pula (brattee del chicco). Tutte le ruote per il trasporto erano <strong>di</strong><br />
ferro, quelle davanti erano snodabili.<br />
Sezione verticale <strong>di</strong> una trebbiatrice anni ‘30-40. Seguendo le lettere dell’alfabeto si può<br />
vedere come funzionava una trebbiatrice. La a) in<strong>di</strong>ca la trebbiatrice nella sua interezza<br />
(a sinistra il fronte, a destra il retro), poi via via tutti gli organi per <strong>di</strong>videre il grano dalla<br />
paglia e dalla pula.<br />
43
La paglia<br />
Il trasporto della paglia, intera o mezza, era una operazione strana per il modo in<br />
cui si sviluppava. Tutta la paglia cadeva dall’alto buttata in avanti da denti che si<br />
muovevano in su e in giù alternativamente. Sotto c’erano varie donne che la sistemavano<br />
a forcate facendo cumuli lunghi fino a cinque metri. Poi si facevano avanti<br />
i trasportatori ciascuno con una pertica lunga circa tre metri e mezzo. Questa aveva<br />
da un capo una punta, dall’altro una maniglia sporgente e un corto bastone trasversale<br />
posto a circa mezzo metro dall’impugnatura. La pertica veniva infilzata sul lungo<br />
cumulo <strong>di</strong> paglia, la donna con la forca impe<strong>di</strong>va gli spostamenti, mentre il bastone<br />
posto <strong>di</strong> traverso della pertica favoriva l’ammassamento. Poi la donna, sempre con<br />
la forca, aiutava l’innalzamento della pertica. Il trasportatore si addossava la pertica<br />
con la paglia infilzata ponendo il bastone trasversale su una spalla così, tenendo in<br />
equilibrio il tutto, andava sul pagliaio ove sfilava la sua quota.<br />
Nel pagliaio poi c’erano altri operai che sistemavano la paglia guidati da uno che<br />
aveva l’occhio come quello dei muratori, riusciva cioè a fare una carenatura rovescia<br />
a piombo e simmetrica. Era importante controllare le pendenze perché il vento non<br />
doveva sollevare nessuno stelo e la pioggia doveva scorrere veloce senza bagnare l’interno.<br />
Dopo l’inverno, quando il pagliaio si era assestato, cominciavano a usarlo, non<br />
levando la paglia con la forca, ma tagliandolo con un lungo segaccio fatto scorrere<br />
avanti e in<strong>di</strong>etro con corde.<br />
Un metodo semplice perché i trasportatori <strong>di</strong> paglia potessero arrivare fino alla sommità<br />
del pagliaio, alto circa quattro metri, era quello <strong>di</strong> fare prima un percorso in<br />
ascesa pestando una rampa formata dalla paglia stessa. Per la chiusura si servivano<br />
prima dei rialzi dei carri, poi usavano scale a tre pie<strong>di</strong> scalòn.<br />
La pula<br />
È l’involucro dei cereali. Usciva dal lato opposto a quello che serviva per i carri <strong>di</strong><br />
rifornimento. Veniva raccolta da donne che la portavano via con una barella barea.<br />
Veniva ammassata in una buca poco profonda ed era usata per frammischiarla al<br />
letto <strong>di</strong> paglia dei bovini.<br />
La canapa<br />
La canapa è una pianta <strong>di</strong>serbante, adatta a soffocare qualsiasi erba infestante perché<br />
superiormente fa una fitta coltre <strong>di</strong> foglie che non lascia passare la luce, tanto necessaria<br />
ai vegetali per crescere. Una volta era coltivata per ricavare fibre per corde, cinghie<br />
e tessuti grossolani. Dopo la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale cadde in <strong>di</strong>suso: prima<br />
fu sostituita dalla iuta, prodotto straniero meno costoso, poi dalla plastica che oggidì<br />
troviamo ovunque a basso prezzo.<br />
La canapa cànio, veniva seminata a marzo in fitte righe. Si ingran<strong>di</strong>va rapidamente<br />
44
con steli <strong>di</strong> oltre 2 metri <strong>di</strong> altezza, privi <strong>di</strong> foglie perché rimanevano solamente<br />
quelle apicali, che formavano un ombrello impenetrabile ai raggi solari.<br />
Finito il raccolto del frumento, i trentotisti cominciavano il ciclo della lavorazione<br />
della canapa. Gli uomini con un falcetto dal manico lungo, tagliavano gli steli che<br />
venivano lasciati in terra. Quando il sole aveva appassito le foglie, le donne facevano<br />
dei mannelli legandoli alla sommità con le foglie stesse ormai avvizzite.<br />
Gli uomini poi facevano dei gran<strong>di</strong> fasci stretti con dei balzi, e li trasportavano<br />
presso il macero el masero, che era lo slargo <strong>di</strong> un fosso con acqua corrente. A monte<br />
e a valle del macero facevano degli sbarramenti <strong>di</strong> terra per fermare il corso d’acqua<br />
i cavedòni; poi costruivano un grande zatterone con i fasci <strong>di</strong> canapa sovrapposti,<br />
sopra i quali infine vi mettevano sassi trachitici, proprio quelli del Montericco <strong>di</strong><br />
Monselice, per immergere lo zatterone.<br />
Nei confronti del termine <strong>di</strong>alettale màsero credo siano utili delle precisazioni<br />
perché in questo caso il <strong>di</strong>aletto polesano non è simile a quello padovano. Qui a<br />
Monselice chiamano il macero màsera, per <strong>di</strong>stinguerlo dal màsero nome del<br />
maschio dell’anitra. A San Bellino invece chiamavano màsero il macero in quanto se<br />
ben ricordo, il maschio dell’anitra era solamente el mascio dea ànara. Come si vede<br />
c’è un’altra <strong>di</strong>fferenza: la ànara è quella che qui chiamano àrena.<br />
Dopo qualche settimana <strong>di</strong> macerazione l’acqua <strong>di</strong>veniva <strong>di</strong> colore verde scuro e<br />
<strong>di</strong>ffondeva nell’aria un odore nauseabondo, mentre i pesci galleggiavano morti: allora<br />
<strong>di</strong>sfacevano lo zatterone. Gli operai dovevano entrare nell’acqua putrida e così le vesti<br />
e la pelle umana si impregnavano <strong>di</strong> quell’odore ributtante. Tolti i sassi dovevano<br />
<strong>di</strong>sfare i fasci. Prendevano i mannelli uno a uno, li sbattevano in quell’acqua putrida<br />
per eliminare il più possibile la corteccia verde che ricopriva la fibra, mettendo in<br />
evidenza il tiglio bianco che era quello che interessava per la ven<strong>di</strong>ta. Fatta questa<br />
pulitura gettavano a riva i mannelli lasciandoli legati nella parte superiore. Le donne<br />
li prendevano, li ponevano in pie<strong>di</strong> a ombrello sullo spiazzo antistante il macero, già<br />
reso libero in precedenza, perché si potessero asciugare ben bene.<br />
Finito quel su<strong>di</strong>cio lavoro, gli uomini <strong>di</strong>sfacevano i cavedòni e l’acqua marcia defluiva.<br />
Essa però nel suo corso danneggiava per vario tempo la fauna dei fossi, stordendo i<br />
pesci. Così noi ragazzi andavamo per <strong>di</strong>vertimento a prenderli con le mani a palpéto,<br />
anche se poi nessuno li mangiava perché impregnati <strong>di</strong> odori cattivi. Quando i<br />
mannelli <strong>di</strong> canapa erano secchi le donne eseguivano la stigliatura, per separare le<br />
fibre dagli steli. Era un lavoro lungo e monotono. Per farlo usavano una gramola<br />
particolare <strong>di</strong> legno che era un po’ simile a una trancia: serviva per rompere i canuli,<br />
cioè i fusti della canapa ormai tutti bianchi e secchi. La gramola era formata da un<br />
pesante asse sostenuto da quattro pie<strong>di</strong> per creare un piano orizzontale <strong>di</strong> lavoro.<br />
Sopra erano fissate in senso della lunghezza due liste <strong>di</strong> legno sagomate a triangolo<br />
le ganàsse, in modo da lasciare sopra uno spazio grande e sotto uno piccolo.<br />
In questo slargo andava a incastrarsi un’altra asta, il coltello, incernierato da un capo<br />
45
e con un manico <strong>di</strong> manovra nell’altro capo. Le donne prima alzavano il coltello<br />
poi stendevano <strong>di</strong> traverso sulle ganàsse un mannello <strong>di</strong> steli <strong>di</strong> canapa, infine<br />
abbassavano con forza il coltello, così i canuli si rompevano: questo lavoro dovevano<br />
eseguirlo più volte. Alla fine sbattevano il tutto in modo da far cadere un po’ alla<br />
volta tutti i pezzi legnosi. Ai pie<strong>di</strong> della gramola si formavano mucchi <strong>di</strong> steli rotti i<br />
canarèi, che nel padovano chiamano scanarèi. Le fibre ben pulite venivano ritorte a<br />
matassa e ripiegate, in modo da ottenere delle balle ben squadrate dal peso uguale <strong>di</strong><br />
circa venti chilogrammi, così almeno ricordo. Tutti i cascami dei filamenti venivano<br />
messi da parte, formavano la stoppa stòpa, che veniva anch’essa venduta, ma a sacchi<br />
e a basso prezzo. Rimanevano sul terreno tanti canaréi, così ogni lavoratore li portava<br />
a casa a seconda del proprio bisogno con el cariolòn, cioè la carriola senza vasca<br />
sostituita da un ripiano che terminava con un’alzata. Il fittavolo vendeva a qualche<br />
commerciante il prodotto finito e poi spartiva al 38 per cento i sol<strong>di</strong> con i lavoratori.<br />
Gramola costruita in legno per rompere gli steli legnosi della canapa, dopo che era stata<br />
messa a vista la fibra con la macerazione. Era manovrata da una donna.<br />
46<br />
Fasci <strong>di</strong> steli <strong>di</strong><br />
canapa,<br />
pronti per la<br />
macerazione.
I trentottisti tagliavano alla base i lunghi steli della canapa, che venivano fatti a mannelli e<br />
questi poi riuniti in fasci.<br />
Dopo la macerazione i fasci venivano sciolti e i mannelli erano posti a ombrello per soleggiarli.<br />
47
La barbabietola e lo zuccherificio<br />
Una volta gli zuccherifici erano sparpagliati nei paesi <strong>di</strong> produzione delle barbabietole,<br />
chiamate alla svelta bietole. I sanbellinesi dovevano conferirle a Len<strong>di</strong>nara<br />
che <strong>di</strong>stava circa <strong>di</strong>eci chilometri. Quella produzione era allora remunerativa e<br />
perciò tutti gli agricoltori volevano seminarla. Le sementi selezionate le forniva<br />
lo zuccherificio per avere poi il <strong>di</strong>ritto sulle bietole. Questo sistema otteneva un<br />
prodotto adeguato alla capacità <strong>di</strong> lavorazione dello zuccherificio. La semina delle<br />
bietole veniva fatta con la seminatrice, ma ne veniva tenuta larga la <strong>di</strong>stanza dei<br />
solchi affiancati, perché le bietole avessero lo spazio per svilupparsi. Bisognava tener<br />
conto però anche che la bietola avesse la stessa possibilità <strong>di</strong> sviluppo lungo i<br />
solchi; allora le donne le <strong>di</strong>radavano sciarezavano, lungo i trimi quando le piantine<br />
erano gran<strong>di</strong>celle.<br />
Le bietole venivano pagate in rapporto al peso e al loro grado zuccherino, per questo<br />
venivano prelevati dei campioni da ogni carro conferito per controllare il grado<br />
<strong>di</strong> zucchero Se la stagione era piovosa c’era tanto peso <strong>di</strong> bietole e poco grado zuccherino,<br />
viceversa se la stagione era siccitosa. L’agricoltore sperava sempre <strong>di</strong> avere<br />
prima un periodo <strong>di</strong> piogge e poi uno <strong>di</strong> sole perché la bietola prima si ingrossasse<br />
con l’acqua e poi che questa evaporasse un poco. La raccolta era un lavoro fatto in<br />
più tempi, sempre eseguito tutto a mano. Cominciavano gli uomini con lo sra<strong>di</strong>camento<br />
<strong>di</strong> ogni singola pianta fatto con una forca a due denti robusti e ravvicinati<br />
che, verso l’incastro con il manico, avevano uno slargo circolare per incastrarvi la<br />
bietola el forchéto. Aveva anche due puntali per fare leva con il piede onde affondare<br />
con facilità la forca nel terreno. Tutte le bietole <strong>di</strong>velte venivano ammucchiate<br />
vicino alle strade poderali le carezà. Poi le scollettavano, cioè con un seghetto tagliavano<br />
le foglie superiori. A questo punto venivano fatti due mucchi: uno <strong>di</strong> sole<br />
bietole, uno <strong>di</strong> foglie. Era necessario ed utile che i mucchi fossero il più possibile<br />
vicini alle strade poderali per il trasporto. Nel campo i carretti carichi sarebbero<br />
affondati e per il traino sarebbero occorsi anche due o tre paia <strong>di</strong> buoi. Poi c’era il<br />
carico dei carretti e carri per il trasporto allo zuccherificio. Tutti questi spostamenti<br />
delle bietole erano eseguiti con una forca speciale a sei branche che terminavano<br />
con una sferetta per evitare che le bietole venissero infilzate. Le foglie ammucchiate<br />
venivano portate via per ultime e scaricate in fosse vicine alla stalla perché servivano<br />
da mangime per i bovini.<br />
In genere tutti i trasporti delle bietole venivano fatti con i cavalli perché più veloci<br />
e più resistenti; infatti i bovini sono lenti, soffrono il caldo estivo e anche hanno gli<br />
zoccoli che si rovinano facilmente camminando sulle carrarecce inghiaiate. Nessun<br />
agricoltore era fornito <strong>di</strong> carretti e cavalli per riuscire a trasportare le proprie bietole<br />
allo zuccherifici, così ricorreva ai carrettieri <strong>di</strong> professione o a quelli stagionali.<br />
Coloro che facevano <strong>di</strong> mestiere il carrettiere erano ben attrezzati e avevano carretti<br />
e cavalli efficienti. Costoro curavano i loro animali sia nell’alimentazione che nel<br />
48
ere e li proteggevano dalla pioggia. Entro il cassetto del carretto avevano come<br />
scorta un secchio <strong>di</strong> tela pesante, serviva per attingere acqua e per dare la biada ai<br />
cavalli. Alcuni avevano carretti con cerchioni <strong>di</strong> ferro e pianali maggiorati, erano<br />
le bare, che trainate da cavalli <strong>di</strong> forte taglia i frisoni, potevano fare grossi carichi.<br />
I carrettieri stagionali erano giovani che si industriavano ad arrotondare le entrate<br />
casalinghe con i viaggi che erano pagati in contanti. Comperavano un cavallo per<br />
la campagna bieticola e poi a lavoro finito lo rivendevano, i carretti invece, <strong>di</strong> solito<br />
malandati, erano <strong>di</strong> proprietà <strong>di</strong> chi faceva il carrettiere stagionale. I carretti comunque<br />
dovevano essere attrezzati per aumentare il volume <strong>di</strong> capienza perché le<br />
bietole, ammucchiate alla rinfusa, hanno poco peso specifico. Le sponde, che erano<br />
costruite a telaio, venivano allora chiuse con assi <strong>di</strong> legno e, davanti e <strong>di</strong>etro, fissavano<br />
con ganci delle casse speciali.<br />
Ricordo due fratelli, figli della fruttivendola, che facevano i carrettieri stagionali ed<br />
erano nella bocca <strong>di</strong> tutti perché formavano una coppia singolare. Il più vecchio era<br />
un mingherlino e non era sposato, il più giovane era un robustone sposato con un<br />
figlio. Avevano in proprietà i carretti e i finimenti, però mancavano dei cavalli. Per<br />
la bisogna comperavano un cavallo efficiente per il fratello smilzo e un ronzino per<br />
quello robusto. Siccome succedeva che nei viaggi <strong>di</strong> ritorno molti facessero riempire<br />
il carretto con rifiuti delle barbabietole le polpe, sgocciolanti molta acqua, così<br />
un po’ alla volta la carrareccia davanti allo zuccherificio si ammollava e il manto<br />
stradale <strong>di</strong> ghiaia si rovinava. Erano guai per tutti i conferenti perché in quel tratto<br />
il procedere dei carri era faticosissimo. Entravano allora in gioco i patteggiamenti<br />
fra i carrettieri per superare l’ostacolo. Alcuni avevano un secondo cavallo da traino<br />
a bilancino balanzin, messo in fianco o davanti al carretto. Costoro staccavano<br />
il secondo cavallo e andavano ad aiutare chi era in <strong>di</strong>fficoltà. Ritornando ai fratelli,<br />
dato che essi erano sempre appaiati, chi provvedeva in quei casi <strong>di</strong> bisogno per il<br />
tiro suppletivo era sempre il forzuto che faceva costantemente da mulo per sé e per<br />
il fratello. Almeno così si <strong>di</strong>ceva in paese. D’altra parte dopo i quaranta giorni <strong>di</strong><br />
campagna saccarifera, il fratellone era parecchio <strong>di</strong>magrito per gli enormi sforzi<br />
che aveva fatto nel traino dei carretti.<br />
I carrettieri potevano fare due viaggi giornalieri solo sacrificando il sonno della notte.<br />
Bisognava essere nei primi posti della fila del mattino e poi ritornare velocemente<br />
nei campi a fare un altro carico <strong>di</strong> bietole e ripartire <strong>di</strong> gran carriera. Chi faceva un<br />
solo viaggio <strong>di</strong> bietole, al ritorno caricava le polpe. Queste venivano scaricate poi in<br />
fosse preparate nel terreno. All’inverno quando le polpe avevano fatto il loro ciclo<br />
fermentativo trasformandosi in un amalgama bianco e molliccio, i bovari le <strong>di</strong>stribuivano<br />
sulla greppia dei bovini, ritagliando grossi pastoni con una pala <strong>di</strong> ferro.<br />
I bovini accettavano <strong>di</strong> buon grado quel cibo. Sorgeva però un inconveniente; se<br />
veniva <strong>di</strong>stribuito anche alle vacche da latte, ne usciva un prodotto amarognolo e <strong>di</strong><br />
odore acre, quel latte non era facilmente commerciabile.<br />
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Barbabietole ammucchiate sul ciglio del campo. Pronte per essere scollettate col seghetto<br />
dalle trentottiste. Dopo, le bietole venivano caricate sui carri e sui carretti per il trasporto<br />
allo zuccherificio. In questo caso la forca usata per il carico era grande, a sei branche<br />
terminanti con palline per non infilzare i tuberi.<br />
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Carretto attrezzato per il trasporto delle bietole. Per aumentare la capienza, giacché le<br />
bietole poste alla rinfusa occupano molto spazio, fniti i trasporti <strong>di</strong> bietole le opere sussi<strong>di</strong>arie<br />
venivano tolte.<br />
La barbabietola è una pianta biennale: nel primo anno viene sfruttata la ra<strong>di</strong>ce, il tubero;<br />
nel secondo anno le sementi.<br />
La bietola da orto serve invece in cucina: a sinistra la barbabietola da zucchero, a destra<br />
quella da cucina.<br />
51
Il granoturco<br />
Questo cereale ha più nomi, quand’ero bambino lo chiamavamo granone o granoturco,<br />
oggi tutti lo chiamano mais. La semina, che avviene alla fine dell’inverno, aveva<br />
le stesse necessità della bietola: semente sparsa nei solchi con la seminatrice e <strong>di</strong>radamento<br />
delle pianticelle perché le future pannocchie potessero ricevere il sole.<br />
Quando poi le piante crescevano bisognava <strong>di</strong>radarle sciarezàrle e sarchiarle zapàrle,<br />
più volte, sia per rincalzare le ra<strong>di</strong>ci, sia per <strong>di</strong>struggere le erbacce infestanti e per<br />
rompere la crosta del terreno onde evitare l’evaporazione dell’acqua sotterranea. Il<br />
granoturco formentòn, è una pianta che ama l’acqua per poter crescere bene e dare<br />
più <strong>di</strong> una pannocchia per gambo.<br />
Quando la pianta ingialliva i conta<strong>di</strong>ni andavano a staccare le pannocchie complete<br />
<strong>di</strong> brattee scartòzi o scartòsi, che ammassavano sull’aia avendo cura che non si bagnassero.<br />
Poi, seccati i grani della pannocchia, donne uomini e ragazzi si raccoglievano<br />
<strong>di</strong> sera sull’aia per togliere le brattee scartozare, qualcuno usava un lungo chiodo<br />
che a Monselice chiamano speo. Erano momenti <strong>di</strong> chiacchiericcio, risate, cantate e<br />
mangiate <strong>di</strong> zucca la zuca, e patate dolci le meriche. Poi arrivava lo sgranatoio che<br />
separava i grani dal tutolo. I grani venivano poi messi a seccare e portati in granaio<br />
oppure venivano subito spartiti fra gli aventi <strong>di</strong>ritto. Rimanevano le brattee e i tutoli,<br />
castelòni per Rovigo scanaréi per <strong>Padova</strong>.<br />
Carro agricolo leggero tirato da due vacche trasporta steli <strong>di</strong> granoturco per usarli nella<br />
stalla. Il veicolo percorre una strada poderale chiamata anche carezà.<br />
52
I casteloni venivano bruciati assieme alle fascine e i scartozi servivano per rifare il<br />
pagliericcio el paiòn, ai bo<strong>vai</strong> quando dormivano in stalla e ai poveri del paese; quelle<br />
brattee che avanzavano venivano date ai bovini mescolate al fieno durante i mesi<br />
invernali.<br />
Dopo qualche anno che ero a S. Bellino gli agricoltori provarono a seminare il granoturco<br />
e le barbabietole col sistema a pozzetto per fare più in fretta la <strong>di</strong>radatura. Questo<br />
sistema, che prevedeva <strong>di</strong> seminare in buchette poste a <strong>di</strong>stanza, non funzionò<br />
perché la preparazione era macchinosa. Dovevano allestire degli assi lunghi circa un<br />
metro, inchiodarvi sopra un manico per la manovra e sotto dei pezzi tronco conici<br />
posti a intervalli calcolati. Per affondare sul terreno quello strumento dovevano prima<br />
tirare i fili <strong>di</strong> allineamento per ottenere solchi paralleli; poi due operai adoperavano<br />
l’asse attrezzato che, posto in posizione, veniva premuto con i pie<strong>di</strong> per ottenere le<br />
buchette. Dietro c’erano i seminatori. Così facendo <strong>di</strong>minuì il tempo dello sciarezare,<br />
ma aumentò quello della semina. Quando sono partito da S. Bellino cominciavano<br />
ad entrare in esercizio macchinari adatti per semine <strong>di</strong>stanziate.<br />
Il prato<br />
I prati prà, che venivano coltivati per quattro anni, erano formati da erba me<strong>di</strong>ca<br />
spagna, che dava ottimo fieno appetito dagli animali e che nel contempo ingrassava<br />
la terra. Infatti le lunghe ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> quella pianta graminacea fissano nel terreno l’azoto<br />
utile per tutte le culture. Ogni anno facevano tre o quattro sfalci, generalmente con<br />
la segatrice, macchina allora abbastanza <strong>di</strong>ffusa anche a S. Bellino. Era trainata da un<br />
cavallo che percorreva su e giù i campi coltivati a prato. Le erbe nelle zone delle carezà<br />
e delle rive dei fossi invece venivano segate a mano con la falce fienaia. Purtroppo<br />
una volta non c’erano macchinari attrezzati per lo sfalcio, la raccolta delle erbe e il<br />
loro essiccamento, per cui quasi tutte le fasi lavorative dovevano essere fatte a mano,<br />
specie per l’essiccamento e il trasporto.<br />
Ho visto anche falciare a mano campi <strong>di</strong> erba me<strong>di</strong>ca. In questo caso i falciatori erano<br />
due o più. Essi usavano lo stesso sistema dei mietitori. Uno iniziava sul lato <strong>di</strong> una<br />
capezzagna, fatti pochi metri, cominciava il secondo e così via. Con ogni colpo della<br />
falce dato con tutte e due le braccia, venivano segati circa ottanta centimetri ad arco<br />
per una profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> quaranta. L’erba cadeva dove era cresciuta e così da subito veniva<br />
soleggiata. Alla sera era raccolta con rastrelli <strong>di</strong> legno, o meccanici, in lunghe file<br />
per evitare che la rugiada la bagnasse tutta. Alla mattina con le forche la <strong>di</strong>stendevano<br />
per esporla al sole: così fino a che l’erba <strong>di</strong>ventava secca e si trasformava in fieno fen.<br />
I falciatori, prima <strong>di</strong> iniziare il lavoro alla mattina e qualche volta anche al pomeriggio,<br />
arrotavano le falci. Era un rituale che ho visto molte volte. Conficcavano in terra<br />
per metà, cioè fino a un blocco formato da cerchietti, una cavicchio <strong>di</strong> ferro con la<br />
testa convessa la pianta. Si sedevano sull’erba e con un martelletto a due teste battevano<br />
il filo della lama per assottigliarlo. Finito questo lavoro, ripassavano il filo più<br />
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volte con la cote piera, che avevano appesa alla cintola entro un corno contenente<br />
acqua, per togliere ogni eventuale sbavatura. Anche quando lavoravano <strong>di</strong> tanto in<br />
tanto i falciatori si fermavano, ripassavano la cote sul filo della falce per mantenerlo<br />
tagliente il più a lungo possibile.<br />
Il fieno veniva caricato e scaricato sempre manualmente con forche. Come tutti i<br />
lavori però, anche per caricare i carri <strong>di</strong> fieno occorrevano accorgimenti perché, durante<br />
il trasporto dal prato al fienile, le scosse non facessero scivolare a terra una<br />
parte del fieno. Infatti una volta mi successe <strong>di</strong> cadere da un carretto pieno <strong>di</strong> fieno<br />
perché mi ero appollaiato sopra. Durante il trasporto uno scossone fece cadere il<br />
fieno più alto ove ero seduto. Cad<strong>di</strong> e mi feci abbastanza male a un gomito tanto che<br />
dovetti ricorrere alle cure del me<strong>di</strong>co; guarii in tre settimane.<br />
Carro agricolo pesante che trasporta il fieno dal campo al fienile. Il conducente<br />
ha in mano il pungolo guièlo e la cavezza, poi c’è una forca infissa nel fieno. La<br />
cavezza circondava il muso dell’animale che faceva da guida, sul davanti aveva una<br />
mezzaluna <strong>di</strong> ferro con punte verso l’interno.<br />
Se la cavezza veniva tirata, la mezzaluna pungeva il muso dell’animale il quale era così<br />
costretto a eseguire quanto voleva il conducente.<br />
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La fattoria Chinaglia<br />
La mia abitazione <strong>di</strong>stava dalla fattoria Chinaglia una sessantina <strong>di</strong> passi, si trovava<br />
nel lato opposto della carrareccia. I gestori erano due fratelli sulla cinquantina sposati<br />
e ciascuno con parecchi figli. I più giovani, miei coetanei, erano gli amici delle<br />
mie scorrerie nei campi e lungo i fossi d’acqua. I Chinaglia avevano solamente come<br />
operai fissi due bovari boari, perché tutta la manodopera era formata dai figli. Questa<br />
azienda, lungo il tempo, mi offrì molti insegnamenti in campo agricolo e su tanti animali:<br />
dai buoi ai pesci, dai cavalli agli insetti. Là rivedevo con attento interesse tutto<br />
quello che scorgevo <strong>di</strong> sfuggita in altre aziende e <strong>di</strong> cui non sempre riuscivo a capacitarmi.<br />
Per questo ora descrivo in modo particolareggiato quanto ho conosciuto in<br />
quella fattoria. Quando non ero a scuola o ero libero da impegni <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o, correvo là,<br />
tanto che potevo chiamarla la mia seconda casa. Dai Chinaglia ho percorso in lungo<br />
e in largo la stalla, i campi coltivati, i fossi, là ho visto e rivisto i lavori campagnoli<br />
che si susseguivano nelle varie stagioni. Oggi scrivendo ripasso nella mia mente quei<br />
ricor<strong>di</strong> che alla fine erano sì motivo <strong>di</strong> svago, ma anche <strong>di</strong> forte interesse. Dato che gli<br />
argomenti sono parecchi, ritengo opportuno sud<strong>di</strong>viderli per soggetto.<br />
a) La stalla. Come in tutte le aziende <strong>di</strong> S. Bellino la stalla era un e<strong>di</strong>ficio imponente,<br />
<strong>di</strong> color rosso per via dei mattoni a vista. La stalla si <strong>di</strong>videva in tre sezioni con funzioni<br />
<strong>di</strong>verse e <strong>di</strong>stinte: il portico per il ricovero dei carri, la stalla vera e propria per i<br />
bovini e il sovrastante fienile per le erbe secche. Naturalmente la parte principale era<br />
quella riservata agli animali, che era allora molto <strong>di</strong>versa dai ricoveri degli animali<br />
<strong>di</strong> oggi. La stalla dei buoi aveva una corsia longitu<strong>di</strong>nale al centro con un pavimento<br />
a schiena d’asino per facilitare lo sgrondo delle urine. Ai lati <strong>di</strong> essa c’erano delle<br />
cunette i solcali, <strong>di</strong> raccolta e convogliamento verso l’esterno dei liqui<strong>di</strong>. Ai fianchi <strong>di</strong><br />
questo corridoio erano <strong>di</strong>stribuite le celle per gli animali le poste, <strong>di</strong> una grandezza<br />
sufficiente a raccogliere due bovini sdraiati. Le poste erano <strong>di</strong>vise fra loro da paratie<br />
in legno le stramezare, alte circa un metro e trenta centimetri. In fondo verso l’esterno<br />
ogni posta aveva la greppia grupia. Longitu<strong>di</strong>nalmente questa era irrobustita da una<br />
solida trave per legarvi gli animali con la cavezza caveza o cavessa. Ogni giorno i bovini<br />
venivano liberati e condotti all’esterno due a due, perché potessero abbeverarsi<br />
su un lungo contenitore d’acqua l’albio. Ogni animale aveva i dati anagrafici scritti<br />
con il gesso su tabelle fissate in alto su ogni posta. I bovari che li accu<strong>di</strong>vano, usavano<br />
per ogni animale il nome scritto sulla tabella che <strong>di</strong> solito era un aggettivo, come<br />
Bianchetta, Mora, ecc. Talvolta mi fermavo a chiacchierare coi bovari, così successe<br />
che assistetti alla nascita <strong>di</strong> un vitello. Il bovaro <strong>di</strong> turno legò una corda ai pie<strong>di</strong> del<br />
nascituro che fuoriuscivano e si mise a tirare, dopo qualche sforzo dell’uomo e della<br />
vacca nacque un vitellino. Una volta erano fatti eccitanti per noi ragazzetti, oggi alla<br />
TV si vede <strong>di</strong> tutto. Ricordo che il bovaro mi <strong>di</strong>sse che da alcuni giorni e notti dormiva<br />
in stalla in attesa del lieto evento, perché nella tabella era scritto anche il giorno<br />
della monta del toro, e lui aveva tenuto conto del periodo <strong>di</strong> gestazione.<br />
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I tori erano allevati e selezionati nelle stalle più gran<strong>di</strong> del paese o dei <strong>di</strong>ntorni.<br />
All’esterno <strong>di</strong> quelle stalle c’erano steccati robusti, per trattenere le vacche quando<br />
c’era la monta. Ora se ne incaricano i veterinari sia per la scelta dei tori che per l’inseminazione<br />
delle vacche. Una volta ogni toro aveva una cella propria ed era legato con<br />
una cavezza formata da una catena <strong>di</strong> ferro fissata al muro. Per menare un toro fuori<br />
della stalla occorrevano due bovari perché il toro è un animale bizzoso e pericoloso.<br />
Un bovaro lo conduceva per la cavezza ed era fornito <strong>di</strong> un robusto pungolo guiélo,<br />
un altro teneva una corda con la quale comandava una speciale tenaglia che mettevano<br />
sulle narici. Se il toro faceva le bizze il bovaro tirava la corda e stringeva le narici<br />
provocando sensibili dolori al toro che era costretto ad ammansirsi. Quella tenaglia<br />
non feriva il muso del toro, gli produceva solamente dolori perché aveva le ganasce<br />
che terminavano con due palline.<br />
Ogni mattina i bovari pulivano la stalla, gettavano forcate <strong>di</strong> foraggio nella mangiatoia<br />
e rifacevano le lettiere. Lo strame veniva portato con una carriola piana cariolòn,<br />
nel letamaio loamàro. Talvolta pulivano con la striglia e la brusca gli animali<br />
più insu<strong>di</strong>ciati. All’esterno vi erano tombini interrati che portavano l’urina dei bovini<br />
in una cisterna coperta da grossi assi <strong>di</strong> legno, posta fra le due piazzole formanti<br />
il letamaio. Erano queste costruite in mattoni e circondate da cordoli per trattenere<br />
i liquami. Per far maturare più celermente il letame i bovari irroravano, <strong>di</strong> tanto in<br />
tanto, lo strame con l’urina che estraevano dalla cisterna con una latta petroliera<br />
fissata a un lungo manico.<br />
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Quando il letame <strong>di</strong>ventava nero significava che era maturo; allora lo spargevano sui<br />
campi per concimarli poco prima dell’aratura.<br />
b) Il fienile e il portico. Il fienile era sovrapposto alla zona ricovero bovini e aveva la<br />
stessa superficie. Era chiuso per tre lati da una muratura mentre il quarto, che si affacciava<br />
sul portico, era libero per il carico e scarico del fieno. Su questo quarto lato<br />
c’erano solamente delle pilastrate per sostenere le travi del coperto. Sulle altre pareti<br />
c’erano gran<strong>di</strong> riquadri <strong>di</strong> grigliati in mattoni, fatti a croce greca, onde permettere<br />
l’aerazione della massa del fieno. Il portico era formato da gran<strong>di</strong> arcate poggianti su<br />
robusti pilastri, che avevano anche chiusure parziali sempre in mattoni; per ottenere<br />
zone <strong>di</strong> ricovero protette dalle piogge.<br />
c) Le stallette degli equini. Le stalle dei cavalli, asini e muli erano ambienti piccoli<br />
staccati dalla stalla dei bovini. Le esigenze <strong>di</strong> questi animali sono <strong>di</strong>verse da quelle<br />
dei bovini; essi hanno bisogno <strong>di</strong> ventilazione. Le loro celle poste, erano per un solo<br />
animale, però anch’essi erano legati alla greppia con una cavezza. Pure la pavimentazione<br />
era <strong>di</strong>versa perché per gli equini, che battono gli zoccoli ferrati sul pavimento,<br />
occorre un manufatto molto resistente. Generalmente era formato da mattoni posti a<br />
coltello cortelà. Gli equini producono minor quantità <strong>di</strong> strame, però devono essere<br />
nutriti solo a fieno avena o pastone liquido <strong>di</strong> farina bianca, non appetiscono polpe<br />
o brattee come i bovini. In aggiunta il loro manto deve essere sempre pulito giornalmente<br />
con brusca e striglia.<br />
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Pianta <strong>di</strong> una stalla per bovini in muratura degli anni ‘30 a San Bellino. Ve ne erano <strong>di</strong> più<br />
gran<strong>di</strong> e anche <strong>di</strong> più piccole. A sinistra c’era il letamaio, a destra l’abbeveratoio. Quando<br />
nascevano i vitellini, dopo pochi giorni, venivano posti in una cella e riportati dalla madre<br />
solo quando dovevano fare la poppata.<br />
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Sezione verticale <strong>di</strong> una stallaer bovini in muratura degli anni ‘30 a San Bellino. Sotto il<br />
fienile c’era il ricovero dei bovini. Da notare le pendenze per lo sgrondo delle urine. Le tre<br />
pareti che contenevano il fieno avevano riquadri forati per espellere i gas <strong>di</strong> fermentazione<br />
delle erbe. Il portico serviva per il ricovero dei carri, dei carretti e per scaricare il fieno.<br />
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Prime arature e semine<br />
In settembre cominciavano ad arare quei campi che dovevano essere seminati a frumento<br />
prima dell’inverno, Quel lavoro era, per me ragazzo, pieno <strong>di</strong> scene maestose,<br />
in<strong>di</strong>menticabili che iniziavano all’alba e finivano nella tarda mattinata.<br />
L’aratro versuro, era tirato da sei paia <strong>di</strong> buoi solenni, dalle lunghe corna arcuate e<br />
dall’incedere lento e maestoso. Presto si cominciavano a vedere piccoli sbuffi <strong>di</strong> vapor<br />
acqueo uscire dalle narici <strong>di</strong> quei bestioni bianchi e anche piccole coltri <strong>di</strong> vapore che<br />
sorgevano dalla terra rovesciata dal vomere dell’aratro. Gli operatori erano quattro,<br />
due per <strong>di</strong>rigere i do<strong>di</strong>ci buoi e due per governare il pesante aratro. Ogni bovaro<br />
accu<strong>di</strong>va con il suo pungolo guielo, tre paia <strong>di</strong> buoi in modo sincrono perché tutti<br />
i buoi tirassero assieme l’aratro e non sbandassero <strong>di</strong> qua o <strong>di</strong> là, giacché i gran<strong>di</strong><br />
solchi dovevano essere paralleli: era questo un segnale <strong>di</strong> bravura degli aratori. Altri<br />
due operai manovravano l’aratro il cui vomero doveva costantemente rivoltare la<br />
terra per una profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> cinquanta centimetri, badando contemporaneamente al<br />
parallelismo dei solchi. I terreni erano generalmente <strong>di</strong> impasto agro, cioè forte, per<br />
cui uomini e buoi dovevano faticare. Per mantenere costante il livello del terreno,<br />
cominciavano l’aratura ad anni alterni dalle capezzagne laterali o dal centro <strong>di</strong> ogni<br />
appezzamento. A giorni alterni, invece, gli operai cambiavano sia il coltro, la lama<br />
che tagliava verticalmente il terreno, corteo nel Polesine coltra nel <strong>Padova</strong>no, sia il<br />
vomero che taglia orizzontalmente in profon<strong>di</strong>tà e rivolta le zolle el gomiéro: tutto<br />
questo per farli riaffilare a caldo dal fabbro.<br />
Quel terreno duro lasciava grosse zolle loti, così dovevano ripassare sui campi uomini<br />
e donne che, con un mazzuolo dal lungo manico màzo, battevano sulle zolle per<br />
spappolarle slotavano. Per pareggiare bene il terreno e rompere tutte le zolle piccole<br />
ripassavano ancora con un pesante erpice la rapegàra, tirata dai buoi e fatta artigianalmente<br />
con una robusta e spessa intelaiatura lignea e con grossi cavicchi <strong>di</strong> ferro,<br />
lunghi venti centimetri, fissati negli interstizi delle riquadrature. Alla fine ripassavano<br />
con erpici leggeri che avevano corone dentate <strong>di</strong> ferro e che erano tirati da cavalli<br />
o asini: così il terreno era pronto per essere seminato. Col terreno asciutto iniziava<br />
la semina del grano. Tutti comperavano la semente a Len<strong>di</strong>nara, sia perché ciascun<br />
coltivatore scieglieva la specie <strong>di</strong> frumento che riteneva più produttiva nel suo terreno,<br />
sia perché il frumento doveva essere trattato col “caffaro” che rendeva i chicchi<br />
verdastri: era un antidoto contro le malattie e contro gli uccelli che non lo beccavano<br />
perché <strong>di</strong> gusto sgradevole. Ho visto anche seminare a spaglio in quegli appezzamenti<br />
che avevano una positura infelice per l’uso delle macchine. La seminatrice aveva<br />
un contenitore delle sementi lungo e stretto, dal quale pendevano dei pezzi <strong>di</strong> tubo,<br />
uniti a telescopio, posti alla <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> circa <strong>di</strong>eci centimetri l’uno dall’altro. Il pezzo<br />
<strong>di</strong> tubo terminale era fornito <strong>di</strong> una ghiera sagomata; sul davanti aveva un dente per<br />
tracciare un piccolo solco sul quale subito cadeva la semente, nel retro aveva invece<br />
una spatoletta per richiudere il solco.<br />
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L’abilità del seminatore era <strong>di</strong> condurre la seminatrice in modo rettilineo per ottenere<br />
tanti solchi uniformemente paralleli fra loro.<br />
La seminatrice non era però trainata sul campo dai buoi perché gli zoccoli <strong>di</strong> quei bestioni<br />
avrebbero creato nella terra smossa profonde buche, che sarebbero risultate dannose,<br />
perché in quei luoghi la semente sarebbe rimasta in superficie senza poter attecchire.<br />
Per ovviare a questa <strong>di</strong>fficoltà era stato escogitato il sistema <strong>di</strong> far scorrere su e giù per il<br />
campo solo la seminatrice governata da un uomo. Essa veniva trainata avanti e in<strong>di</strong>etro<br />
con delle corde. Erano corde lunghissime che venivano deviate, per il tiro sulle carezà,<br />
da grosse carrucole ancorate a terra. I capi delle due corde infatti a mezzo delle carrucole<br />
arrivavano sulle strade poderali che delimitavano le due teste dell’appezzamento.<br />
Colà vi erano coppie <strong>di</strong> buoi che alternativamente provvedevano per il tiro. Le carrucole<br />
venivano continuamente spostate dopo un’andata o un ritorno. Finita la semina<br />
usavano rulli leggeri per comprimere un po’ il terreno e per spingere le sementi entro<br />
la terra. I rulli erano tre, <strong>di</strong>stanziati tra loro nel senso della larghezza, ed erano tirati<br />
da un cavallo o da un asino. Prima dei gran<strong>di</strong> fred<strong>di</strong> invernali si vedevano già le foglioline<br />
del grano che crescevano. I conta<strong>di</strong>ni aspettavano il freddo e la neve perché<br />
così il frumento rallenta lo sviluppo verticale e accestisce facendo più steli onde avere<br />
più spighe per ogni granello. Questo io lo avevo già imparato alle elementari <strong>di</strong> Costa<br />
<strong>di</strong> Rovigo. La mia maestra Gigina Beltrame me lo ha ripetuto per cinque anni, terminando<br />
poi la spiegazione col noto proverbio: “sotto la neve pane, sotto l’acqua fame”.<br />
Quando c’era la possibilità, nei bei giorni autunnali, continuava l’aratura per preparare<br />
il terreno alle seminagioni primaverili. Così facendo si otteneva che la pioggia<br />
penetrasse in profon<strong>di</strong>tà sulla terra smossa e che i successivi gelo e <strong>di</strong>sgelo rompessero<br />
le zolle. Coloro che non riuscivano, dovevano farlo negli ultimi tempi invernali<br />
per avere il terreno pronto per granoturco, bietole, canapa.<br />
Carrucola <strong>di</strong> legno col <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa sessanta centimetri usata per la semina. Veniva<br />
ancorata nelle strade poderali con un arpione. Due carrucole servivano per far deviare <strong>di</strong> 90°<br />
le corde legate, davanti e <strong>di</strong>etro, alla seminatrice per essere tirate alternativamente dai bovini<br />
che camminavano nelle due carèza che delimitavano le testate dei campi. Naturalmente le<br />
due carrucole venivano spostate, prima una e poi l’altra, per ogni giro completo.<br />
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62<br />
Sei paia <strong>di</strong> buoi, guidati da due<br />
bovari, tirano un pesante aratro<br />
manovrato da altri due operai. Da<br />
notare che l’aratura è iniziata dalla<br />
carezà.<br />
Trentottisti che, con un mazzuolo <strong>di</strong><br />
legno dal manico lungo, spappolano<br />
le zolle lasciate dall’aratura. Questo<br />
lavoro veniva fatto poco prima della<br />
semina.
Lavori invernali<br />
Dopo la semina del frumento e le ultime arature, i lavori in campagna erano temporaneamente<br />
sospesi. I braccianti trovavano da lavorare in opere sussi<strong>di</strong>arie, come<br />
preparare la legna da ardere, sra<strong>di</strong>cando alberature morte o ammalorate e poi facendo<br />
la potatura degli alberi con la roncola cortelina, e più tar<strong>di</strong> anche quella delle viti,<br />
bruscare la vigna. Vigeva un tacito consenso per la legna da ardere fra i conduttori e<br />
gli operai: “io ti do la legna tu la spacchi, metà a me e metà a te”. Il ceppo delle ra<strong>di</strong>ci<br />
veniva però lasciato a chi lo scavava perché allora non c’erano macchine per lo sra<strong>di</strong>camento.<br />
Il lavoro <strong>di</strong> rottura dei tronchi d’albero era molto faticoso giacché era fatto<br />
tutto a mano senza l’ausilio <strong>di</strong> macchinari.<br />
Usavano un grosso e pesante mazzuolo <strong>di</strong> legno, generalmente <strong>di</strong> rubino. Era un<br />
cilindro lungo sui quaranta centimetri e del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> quin<strong>di</strong>ci, aveva un manico<br />
lungo circa un metro.<br />
Le due teste erano incernierate con anelli <strong>di</strong> ferro mazo con le scione. Prima l’operaio<br />
faceva con la scure manara, delle tacche per infilarvi dei cunei <strong>di</strong> ferro penole, poi<br />
batteva col mazo, così un po’ alla volta otteneva ceppi adatti al focolare le zoche. Ridotti<br />
i tronchi in ceppi per camino, gli operai facevano le cataste <strong>di</strong> legna zocare, prima<br />
per i fittavoli e poi per loro stessi, portandosi a casa la propria quota <strong>di</strong> spettanza.<br />
In quei tempi alcuni signori avevano la cucina economica detta americana, così era<br />
chiamata allora la stufa per cucinare e riscaldare, perciò dovevano provvedere a farsi<br />
tagliare i ceppi in legni piccoli, questo lavoro dovevano pagarlo o farselo da soli. Con<br />
la potatura delle piante e delle viti venivano prodotti tanti bruscoli e sarmenti che<br />
poi venivano legati con rametti <strong>di</strong> salice strope, per fare fascine fasine. Spesso i rami<br />
più resistenti e grossi li usavano come pertiche per sorreggere le vigne i pali. Tutte le<br />
fascine le ammucchiavano facendo il fasinaro: era questa una riserva <strong>di</strong> combustibile<br />
da usarsi per fare fiammate gran<strong>di</strong> e improvvise, come nel forno del pane o nel fornello<br />
del bucato.<br />
L’uva<br />
A S. Bellino non ho mai visto vigneti gran<strong>di</strong> come quelli che ho trovato a Monselice.<br />
L’uva era ritenuta poco remunerativa perché non dava vini caratteristici. In pratica<br />
la coltivazione si riduceva a sod<strong>di</strong>sfare i bisogni della gente del luogo. La vite vegna,<br />
veniva coltivata a spalliera alta rivale, fra gli olmi che crescevano nelle capezzagne.<br />
Generalmente era uva nera che dava vino raboso, bacò, clinton; qua e là v’erano anche<br />
pergole <strong>di</strong> vigne con uva fragola o bianca per mangiarle a tavola.<br />
Le cantine, nel Polesine cantine nel <strong>Padova</strong>no càneve, erano locali piccoli, posti a<br />
nord, forniti però del necessario per la vinificazione. Io non sono mai andato a vendemmiare<br />
quando abitavo a San Bellino, perché i grappoli erano alti e per staccarli<br />
occorreva l’uso della scala a tre pie<strong>di</strong>, scalòn, fatto a triangolo con una gamba mobile,<br />
mi limitavo a guardare le varie operazioni.<br />
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La pigiatura era fatta con i pie<strong>di</strong> entro un contenitore speciale veturo, la fermentazione<br />
del mosto posto entro i tini produceva nuvole <strong>di</strong> moscerini moschini, infine c’era<br />
la spillatura attraverso la spina con lo zipolo cànola. Il passaggio del vino nelle botti<br />
era fatto con l’aiuto <strong>di</strong> uno secchio <strong>di</strong> rame e un grande imbuto: piriòto a Rovigo, a<br />
<strong>Padova</strong> lora. Solamente a lavori finiti noi ragazzetti andavamo a raccogliere i racimoli<br />
recèti, ormai un po’ appassiti e dolci. Usavamo canne selvatiche canàvere, con un<br />
incastro posto nella parte superiore, nel quale cercavamo <strong>di</strong> introdurvi il gambo, poi<br />
giravamo la canna fino a rompere il picciolo pecòlo.<br />
Le vinacce graspe, che rimanevano nel tino dopo la spillatura venivano usate, aggiungendo<br />
acqua, per ottenere il vinello, la graspìa, che serviva durante i lavori pesanti<br />
della mietitura e della trebbiatura. Quei gestori che avevano invece il torchio manuale,<br />
spremevano le vinacce per ricavare altro vino, le vinacce che restavano venivano<br />
gettate nel letamaio, seguendo il ciclo del fertilizzante naturale.<br />
A S. Bellino c’era l’abitu<strong>di</strong>ne che in tutte le famiglie venissero confezionati i succhi<br />
d’uva sùgoli, era una ghiottoneria che pure i braccianti volevano assaggiare, anche perché<br />
costavano poco. Ricordo bene come li faceva la mamma. Sceglieva i grappoli d’uva<br />
più matura, staccava gli acini eliminando quelli <strong>di</strong>fettosi, ne riempiva fino all’orlo un<br />
paiolo <strong>di</strong> rame, ove prima aveva messa una grossa chiave <strong>di</strong> ferro perché c’era in paese<br />
la <strong>di</strong>ceria che il ferro era l’antidoto contro gli aci<strong>di</strong> del mosto che potevano intaccare il<br />
rame. Fatti bollire gli acini, il paiolo veniva tolto dal fuoco e lasciato raffreddare.<br />
Quando c’erano molti grappoli, l’uva veniva pigiata con i pie<strong>di</strong> dentro il veturo. Quando<br />
erano in quantità limitata la pigiatura veniva fatta entro una tinozza. La persona<br />
accovacciata fa la cernita dei grappoli per poi usarli per i sùgoli.<br />
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Poi la mamma scolava il tutto, spremeva ben bene le bucce le graspiaiòle eliminandole<br />
assieme ai vinaccioli gramùstrini. Era arrivato il momento della dosatura per mescolare<br />
il mosto con la farina doppio zero. La mamma misurava il mosto a bicchieri<br />
e metteva da parte altrettante cucchiate <strong>di</strong> farina. Dopo faceva come per la polenta,<br />
mescolava lentamente la farina nel mosto caldo fino a che riteneva che il tutto fosse<br />
cotto; prima però <strong>di</strong> tanto in tanto, assaggiava l’impasto e nel caso sentisse il bisogno<br />
lo dolcificava con un po’ <strong>di</strong> zucchero. Per raffreddare i sùgoli che ormai erano <strong>di</strong> color<br />
rosso violaceo, mia madre li scodellava in piccoli recipienti che servivano per la conservazione.<br />
I sùgoli non si dovevano mangiare cal<strong>di</strong> perché sarebbe stato come prendere<br />
un purgante, da fred<strong>di</strong> si mangiavano come dessert. Potevano essere conservati<br />
anche fino a Natale, in quel caso facevano una crosta con una muffa verdognola,<br />
sotto però si trovavano i sùgoli ancora in ottimo stato <strong>di</strong> conservazione. A casa mia i<br />
sùgoli duravano al massimo una decina <strong>di</strong> giorni. In questo caso facevano una muffetta<br />
bianca, forse l’efflorescenza degli zuccheri, che a me piaceva molto. Certe volte<br />
quando la mamma aveva fretta, faceva i sùgoli usando <strong>di</strong>rettamente il mosto quando<br />
usciva dal vetùro, poi seguiva lo stesso metodo già detto: cottura del mosto e poi dosaggio<br />
e polenta. I sùgoli così fatti risultavano simili a quelli ricavati dagli acini bolliti,<br />
ma il gusto però era meno pastoso, forse perché mancava il tannino delle bucce. Da<br />
grande ho constatato che questo succo d’uva è <strong>di</strong>ffuso specie nel Veneto e in Emilia<br />
Romagna. Attualmente, nel 2008, vi sono in commercio scodelline <strong>di</strong> 150 grammi <strong>di</strong><br />
sùgoli prodotti a Reggio Emilia che costano attorno ad un euro. È il costo <strong>di</strong> un prodotto<br />
particolare <strong>di</strong>ffuso in piccole aree, ma per noi vecchi, che ben li conosciamo da<br />
antica data, sembra un costo rilevante.<br />
L’ambiente economico<br />
All’inizio ho chiamato economia curtense quella <strong>di</strong> S. Bellino, prendendo a prestito<br />
una realtà me<strong>di</strong>oevale. A S. Bellino vi erano tanti braccianti, il popolo servo della<br />
gleba, e pochi benestanti, i conduttori agricoli cioè i signorotti i vassalli. Certo i<br />
trentotisti potevano abbandonare il quietismo paternalistico e tra<strong>di</strong>zionale dei benestanti,<br />
ma una vecchia sud<strong>di</strong>tanza e le <strong>di</strong>fficoltà economiche frenavano ogni slancio<br />
per le novità. Purtroppo i braccianti <strong>di</strong>sponevano <strong>di</strong> contanti solamente durante la<br />
raccolta dei prodotti agricoli, non tanto per pagare i debiti del futuro ma per saldare<br />
quelli dell’anno precedente. Pochi se la sentivano <strong>di</strong> affrontare una vita <strong>di</strong>versa in altri<br />
luoghi, lasciando arretrati ancora insoluti. Così tutti vivacchiavano tenendosi stretto<br />
quel modesto red<strong>di</strong>to che avevano.<br />
Mio padre nel 1930 fece costruire a San Bellino un piccolo mulino con due palmenti<br />
a mole <strong>di</strong> pietra, uno per il grano l’altro per il granoturco. Proprio quell’economia,<br />
basata sul red<strong>di</strong>to estivo, non <strong>di</strong>ede a mio padre possibilità <strong>di</strong> sviluppo, perché ogni<br />
anno, per parecchi mesi, mancava il denaro alla maggioranza della popolazione; così<br />
mio padre, scarso <strong>di</strong> liquido, dovette vendere il mulino dopo cinque anni.<br />
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Mi pare sia utile spiegare come la popolazione sanbellinese riuscisse a sopravvivere<br />
in un luogo che fondava la propria esistenza soprattutto sul pane e sulla polenta, con<strong>di</strong>ti<br />
soltanto una volta alla settimana, con la carne degli animali da cortile. Quei due<br />
alimenti, il pane per i ricchi e la polenta per i poveri, oggi si trovano ovunque, ma<br />
una volta dovevano essere confezionati in casa; e per far questo c’erano lavori supplementari<br />
specie per le massaie.<br />
Una situazione poi, che sulle prime mi ha meravigliato, fu quella <strong>di</strong> constatare che<br />
parecchie famiglie sparse nella campagna non avevano la luce elettrica. Nel centro<br />
della stanza avevano appeso alle travi un lume a petrolio. Esso era formato da un<br />
contenitore, completo <strong>di</strong> stoppino regolabile, posto entro una struttura circolare <strong>di</strong><br />
ottone che aveva tre catenelle <strong>di</strong> supporto, era il canfin. Poi sulla cappa del camino<br />
erano allineati candelieri portatili. Questi candelieri erano usati però anche da coloro<br />
che avevano la luce elettrica perché <strong>di</strong>cevano che l’uso della candela era meno costoso<br />
della illuminazione elettrica.<br />
In paese c’erano degli operatori in<strong>di</strong>pendenti, artigiani e commercianti, che però erano<br />
in numero limitato perché la loro attività era strettamente legata alla situazione agricola<br />
del paese, ove tutti cercavano <strong>di</strong> arrangiarsi mancando a molti, come detto, il contante.<br />
Credo che l’autonomo che stava meglio fosse l’alimentarista casolino, che aveva il suo negozio<br />
nel centro e che vendeva anche tanti piccoli oggetti, come cancelleria per gli scolari,<br />
rocchetti <strong>di</strong> filo e bottoni per le mamme. Per spiegare poi i bisogni sod<strong>di</strong>sfatti dai commercianti,<br />
dagli artigiani e dalle brave donne <strong>di</strong> casa mi <strong>di</strong>lungo a parlarne specificatamente.<br />
Il pane<br />
La panificazione era una operazione che coinvolgeva tante famiglie. I forni, tutti della<br />
stessa capacità, erano sparsi nel territorio ove le aziende agricole erano più gran<strong>di</strong>.<br />
Essi erano in pratica a <strong>di</strong>sposizione della collettività. Potevano cuocere i panetti ciope,<br />
ricavati da trenta chilogrammi <strong>di</strong> fior <strong>di</strong> farina. Solamente le famiglie numerose<br />
si adoperavano da sole a farsi il pane necessario per un mese. Le piccole famiglie si<br />
associavano e poi si spartivano i costi e il pane. La mia famiglia era numerosa: due<br />
genitori, la zia <strong>di</strong> mia madre e noi cinque figli un po’ cresciutelli. Ricordo bene quei<br />
giorni della panificazione che avveniva circa una decina <strong>di</strong> volte all’anno. E se a me,<br />
sempre curioso <strong>di</strong> osservare, piaceva vedere le varie fasi <strong>di</strong> lavorazione, c’era anche<br />
da mettere in conto la levataccia che dovevo fare perché il rumore della gramola mi<br />
svegliava qualche oretta prima del solito.<br />
Finché mio padre, mugnaio, non iniziò a comperare il fiore <strong>di</strong> farina da cambiare col<br />
frumento, mia madre setacciava tamisava col tamiso, la farina bianca che conteneva<br />
crusca e cruschello semola e semolino. Questo lavoro lo faceva il giorno prima lavorando<br />
su una ma<strong>di</strong>a bassa senza coperchio la mesa, rialzata con due se<strong>di</strong>e.<br />
Il fior <strong>di</strong> farina ottenuto serviva per il pane, usava invece la semola per gli animali da cortile<br />
o per il cavallo che avevamo. Alla sera la mamma prendeva un grosso panetto conservato già<br />
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lievitato dall’infornata precedente el levà, e lo sminuzzava; poi con acqua calda salata faceva<br />
entro la mesa un grosso pastone coprendolo con altra farina. Copriva il tutto con una tovaglia<br />
ed una coperta <strong>di</strong> lana e contemporaneamente accendeva il fuoco nel camino per favorire la<br />
lievitazione. Il giorno dopo, prima dell’alba, arrivavano non meno <strong>di</strong> tre donne che, assieme<br />
ai miei genitori, amalgamavano tutta la farina usando acqua calda salata. Tutto l’impasto<br />
veniva <strong>di</strong>viso in tanti pastoni per manipolarli al meglio: e qui iniziava il duro lavoro della<br />
gramolatura per ottenere degli impasti omogenei e vellutati al tatto.<br />
La gramola era tutta <strong>di</strong> legno. Aveva uno spesso e largo pianale lungo oltre un metro, sotto vi<br />
erano quattro robuste gambe, sopra delle leve incernierate che, manovrate a mano, facevano<br />
alzare ed abbassare un coltello per poter schiacciare un pastone che, ad ogni alzata, veniva ripiegato<br />
su se stesso. Due persone in pie<strong>di</strong> muovevano con forza le leve, un’altra seduta sull’asse<br />
rovesciava continuamente il pastone finché sentiva al tatto che l’operazione era completata.<br />
Poi passavano ad un altro pastone. Mentre avveniva l’amalgama del secondo pastone. altre<br />
persone tagliavano a grosse fette il primo. Ogni fetta veniva rotta facendo tanti grumi <strong>di</strong> pasta.<br />
Ognuno <strong>di</strong> questi veniva a sua volta ancora manipolato più volte, poi venivano fatti i vari<br />
formati <strong>di</strong> pane a seconda del gusto: cornetti, mantovane, pinzette accostate, ecc. Prima che<br />
queste operazioni fossero completate, una donna partiva per il forno, che <strong>di</strong>stava un centinaio<br />
<strong>di</strong> passi, e cominciava a far fuoco con le fascine già in sito.<br />
Quel forno, simile a tutti gli altri, era formato da una calotta <strong>di</strong> mattoni del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa<br />
tre metri e mezzo, posta su un ammattonato. Davanti alla calotta c’era un piccolo portico per<br />
poter operare anche quando pioveva, e il tutto era coperto da un tetto <strong>di</strong> coppi. Nel retro vi<br />
era la canna fumaria con un registro, sul davanti c’era invece una porticina <strong>di</strong> ferro costruita<br />
a mezza luna, non incernierata e autoportante, completavano gli strumenti formati da spatole<br />
per le pulizie e pale <strong>di</strong> ferro, dal lungo manico, che servivano per infornare o sfornare il pane.<br />
Quando il forno era ben caldo l’operatrice andava ad avvisare per il trasporto dei panetti,<br />
ciope, che per la bisogna erano posti sopra tavolati, coperti da tovaglie e trasportati da due<br />
persone. Prima <strong>di</strong> tutto veniva pulita la superficie calda del forno, poi con metodo venivano<br />
Schizzo <strong>di</strong> una gramola per impastare il pane, costruita tutta in legno e manovrata da tre<br />
persone: una seduta per girare continuamente il pastone, due per abbassare il coltello.<br />
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depositati dentro i panetti per la cottura: prima nelle zone più lontane poi via via in quelle più<br />
vicine. Finito questo lavoro venivano chiusi sia la bocca che la canna fumaria, per mantenere<br />
il più possibile il calore entro la calotta; il vapore acqueo che si sviluppava, lentamente veniva<br />
espulso dai mattoni per osmosi. Se la farina che si panificava era <strong>di</strong> trenta chili, il pane fresco<br />
che se ne ricavava aveva un peso superiore <strong>di</strong> circa il venti per cento.<br />
Nella tarda mattinata venivano tirati fuori tanti panetti da riempire un cesto <strong>di</strong> pane<br />
fresco; il rimanente, da riempire altri due cesti, rimaneva dentro fino a sera per biscottarsi.<br />
I cesti, sempre ricoperti da tovaglie, venivano appesi nelle pertiche dei salami.<br />
Poche famiglie possedevano gli strumenti necessari per la panificazione, neanche noi<br />
li avevamo, così si ricorreva ai prestiti che generalmente erano gratuiti.<br />
Quando nelle famiglie si continuava a mangiare per qualche tempo solo pane biscotto,<br />
<strong>di</strong> solito allora nasceva in qualcuno il desiderio del pane fresco e tenero: cosí<br />
succedeva anche nella mia famiglia. Allora mia madre faceva la focaccia, fatta a <strong>di</strong>sco<br />
con pasta confezionata come quella del pane. Nel camino poi preparava un fuoco<br />
vivo per riscaldare il focolare rola, costruito in mattoni. Poi lo puliva dalle brace<br />
brònze, e dalla cenere calda zénare, per stendervi la focaccia.<br />
Subito la ricopriva con un coperchio <strong>di</strong> lamiera cuercio, stendendovi sopra cenere<br />
calda e brace. La focaccia veniva rigata profondamente per cuocerla in modo<br />
Schizzo della sezione verticale <strong>di</strong> un forno per pane, usato fino al 1940 circa; fabbricato <strong>di</strong> 7x4 metri.<br />
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uniforme anche all’interno. Il pane cotto in questo modo nel Polesine lo chiamavano<br />
genericamente pinza, mentre a Monselice lo chiamano schisòto. Talvolta, per<br />
accontentare noi cinque figli, mia madre faceva anche focacce con meto<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi, ad<br />
esempio mescolava farina <strong>di</strong> granoturco con quella <strong>di</strong> grano e con<strong>di</strong>va l’impasto con<br />
latte e zucchero o con unto e ciccioli <strong>di</strong> maiale sìsole. Vi erano anche famiglie che non<br />
riuscivano a farsi né ciòpe, né pinze, allora ricorrevano alla bontà dei conoscenti, che<br />
sempre rispondevano con generosità. Da quanto vedo oggi in giro, credo <strong>di</strong> poter<br />
<strong>di</strong>re con franchezza che attualmente c’è troppo egoismo, parecchi pensano solo per<br />
se stessi, anche se vi sono fortunatamente persone che si adoperano per gli altri. Al<br />
proposito desidero portare un vecchio esempio <strong>di</strong> vita coerentemente cristiana.<br />
A San Bellino le porte delle case non venivano chiuse a chiave quando gli abitanti se<br />
ne andavano al lavoro. I poveri, senza bussare, si fermavano sul limitare dell’ uscio<br />
e cominciavano a recitare preghiere ad alta voce. Se nessuno rispondeva, quei poveri<br />
se ne andavano, generalmente però qualcuno sentiva, magari dalle case vicine,<br />
e provvedeva alla bisogna regalando uova o farina, mai denaro perché <strong>di</strong> questo in<br />
giro ce n’era molto poco.<br />
La polenta<br />
Il cibo più <strong>di</strong>ffuso fra i braccianti era la polenta, sia perché la materia prima, il<br />
granoturco, costava meno del frumento, sia perché per il suo confezionamento<br />
bastavano un po’ <strong>di</strong> fuoco e una mano che rimestasse l’amalgama <strong>di</strong> acqua e farina<br />
gialla per una mezz’ora dopo che l’acqua bolliva.<br />
I men<strong>di</strong>canti.<br />
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A mio padre piaceva la polenta, forse perché da giovane fece una vita molto grama<br />
con<strong>di</strong>ta solo da tanta polenta, così mia madre la faceva a giorni alterni, giacché<br />
una paiolata durava due giorni. D’estate adoperava il camino, d’inverno la cucina<br />
economica. Mi <strong>di</strong>vertivo a vedere la mamma quando d’estate confezionava la<br />
polenta: d’estate, perché col caldo ero in vacanza, mentre d’inverno ero a scuola e<br />
quando ritornavo trovavo tutto pronto. In ogni casa c’era un paiolo <strong>di</strong> rame paròlo<br />
nel Polesine lavezo o caliéro nel <strong>Padova</strong>no, simile a quelli che oggi ornano le taverne<br />
delle case. La mamma riempiva il paiolo d’acqua per tre quarti e lo appendeva con<br />
un gancio alla catena del camino. Ad acqua calda e salata cominciava a spandervi<br />
manciatelle <strong>di</strong> farina sempre rimestando con un mestolo <strong>di</strong> legno mescola, perché<br />
non si formassero dei grumi, che alla fine risultavano cotti all’esterno ma pieni<br />
<strong>di</strong> farina all’interno i munàri, non gustosi al palato. Per meglio lavorare doveva<br />
tenere fermo il paiolo, così usava un arnese triangolare <strong>di</strong> legno rivestito <strong>di</strong> latta<br />
verso il fuoco, fissato con un gancio al paiolo e con i pie<strong>di</strong>ni poggiati sul focolare<br />
el copo. Poneva un ginocchio sul copo così poteva mescolare con meno fatica.<br />
La massaia mescola la farina <strong>di</strong> granturco (mais) per preparare la polenta. Da notare, sulla<br />
tavola, la tafferia sulla quale veniva svuotata la polenta; sulla mensola della cappa ci sono<br />
(da sinistra) il macinino da caffé, la bottiglia pigliamosche, moscarola, il lume a petrolio, il<br />
coperchio che serviva per cuocere le focacce, mettendovi sopra della brace. Le varie qualità <strong>di</strong><br />
focacce erano: la pinza (fatta con i resti del pane o della polenta aggiungendovi unto e sisole<br />
<strong>di</strong> maiale o altri ingre<strong>di</strong>enti), lo schìsòto (solo farina <strong>di</strong> frumento), la smeiàsa (un impasto<br />
<strong>di</strong> farina con la melassa, sottoprodotto della lavorazione delle barbabietole da zucchero).<br />
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Cotta la farina, fluida o densa a seconda dei gusti, veniva versata sulla tafferia, la<br />
tavola dea polenta, tavoliere o el panàro. A tutti noi familiari piaceva la polenta un<br />
po’ fluida, così attorno alla tafferia veniva fissato un cerchio, sempre <strong>di</strong> legno, per<br />
non far debordare l’impasto. Raffreddandosi però la polenta si induriva, così si<br />
poteva tagliarla a fette. Il metodo più comune e semplice era quello <strong>di</strong> usare un filo<br />
<strong>di</strong> refe incastrandolo sotto la polenta e tirandolo verso l’alto. Allora era comune<br />
chiamare il borioso che <strong>di</strong>ceva <strong>di</strong> saper far tutto: “è l’inventore del filo della polenta”.<br />
Purtroppo la polenta è stata anche per lunghi anni, a partire dall’Ottocento fino<br />
al fascismo, fonte <strong>di</strong> una grave malattia, specie da noi nel Veneto. Chi si alimentava<br />
prevalentemente <strong>di</strong> polenta, e magari senza sale, veniva colpito dalla pellagra.<br />
Essa indeboliva l’organismo creando vari <strong>di</strong>sturbi fisici tra cui lesioni cutanee <strong>di</strong><br />
tipo eritematoso nelle mani e nel collo.<br />
Mi ricordo che nei miei anni giovanili era in voga l’aggettivo pelagroso, appioppandolo<br />
a tutti gli sfaticati. Nei primi anni 1950 ebbi l’occasione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are i bilanci<br />
dei rinnovati consigli provinciali, in quello <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> furono previste per<br />
due anni delle somme per aiutare i pellagrosi: era un vecchio retaggio dei bilanci<br />
dell’anteguerra. La statistica in<strong>di</strong>ca che in Italia nel 1881 vi furono 100.000 casi <strong>di</strong><br />
pellagra specie nel Veneto e nella Lombar<strong>di</strong>a.<br />
Gli orti e i cortili<br />
A completare il quadro dell’autosufficienza alimentare bisogna ricordare gli orti e i<br />
cortili. Gli orti davano parecchie verdure e vi si coltivavano anche alberi da frutto,<br />
specie le prugne amoli, le mele i pomi dessi e le noci nose; i cortili erano utili per allevare<br />
gallinacei e conigli. Chi possedeva spazi ampi e aveva nel contempo un surplus<br />
<strong>di</strong> farinacei, come i gestori delle fattorie, allevava dei maiali in porcili lontani dalle<br />
abitazioni per i cattivi odori che emanavano.<br />
Vi erano poi allevamenti <strong>di</strong> oche e anatre anare, dove c’erano fossi con l’acqua corrente<br />
o lungo il Canal Bianco. La mia famiglia aveva un orto, con un riquadro a giar<strong>di</strong>no e un<br />
cortile proprio davanti alla casa. In quei modesti spazi non si potevano allevare oche e<br />
anitre perché mancava un corso d’acqua e nemmeno allevare il maiale, perché vicino a<br />
noi c’erano varie case. Potevamo però approvvigionarci in abbondanza <strong>di</strong> verdure, tanto<br />
che <strong>di</strong>videvamo i prodotti con chi ci dava una mano per i vari lavori dell’orto. Tutto<br />
questo fai da te in tutto il paese impe<strong>di</strong>va che vi fossero vari alimentaristi e verdurai.<br />
La fruttivendola<br />
La fruttivendola era il punto <strong>di</strong> riferimento <strong>di</strong> tutti noi giovanissimi. Nel suo negozio<br />
vi erano sì tante cassette in visione, ma contenevano solamente quelle frutta che non<br />
erano coltivate in paese, come arance, carrube, castagne, datteri e fichi secchi.<br />
In bella mostra aveva pure dei contenitori <strong>di</strong> vetro pieni <strong>di</strong> biscottini e caramelle<br />
ciuci. Per quanto ricordo, il centro dell’ interesse, almeno per me, erano le castagne e<br />
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i derivati, come farina, caldarroste e castagne secche stràcaganàse.<br />
La farina <strong>di</strong> castagna ci offriva tre varianti. Il papazon, cioè il mangiare solo la farina<br />
com’era, le papazete, una specie <strong>di</strong> pia<strong>di</strong>ne romagnole, fatte però <strong>di</strong> farina <strong>di</strong> castagna e acqua<br />
che si mangiavano abbrustolite sulla piastra, la mistoca il castagnaccio, farina impastata<br />
con acqua e uvetta, cotta in una padella rettangolare scartà, e venduta a piccoli riquadri.<br />
Non tutti i ragazzetti ricevevano la paghetta così costoro si industriavano a raccogliere<br />
stracci, ossi e ferro vecchio per venderlo allo straccivendolo e avere qualche <strong>di</strong>sponibilità sia<br />
pure in via saltuaria. In quei tempi non eravamo smaniosi <strong>di</strong> avere tutto, come purtroppo<br />
succede oggi, ci accontentavamo <strong>di</strong> avere qualche centesimo <strong>di</strong> lira. Il denaro era <strong>di</strong>viso in<br />
centesimi: cinque e <strong>di</strong>eci <strong>di</strong> rame, venti e cinquanta <strong>di</strong> nichel.<br />
I ricchi ricevevano venti o cinquanta centesimi, gli altri cinque o <strong>di</strong>eci. I <strong>di</strong>eci centesimi<br />
li chiamavamo palanche, forse a ricordo dei <strong>di</strong>eci centesimi ante prima guerra<br />
mon<strong>di</strong>ale, che erano pesanti e gran<strong>di</strong>, sempre <strong>di</strong> rame.<br />
Il carradore<br />
Vicino a casa mia c’era il carradore Pelà che aggiustava carri e calessi, non riusciva<br />
però a farne <strong>di</strong> nuovi perché non aveva l’attrezzatura necessaria. A fianco della casa<br />
aveva la sua bottega e davanti un ampio cortile ove d’estate faceva il lavoro faticoso <strong>di</strong><br />
rimettere i cerchioni <strong>di</strong> ferro alle ruote che aggiustava. Nella sua bottega riassettava<br />
La fruttivendola che aveva sempre in mostra i suoi modesti prodotti, però sempre richiesti dai bambini.<br />
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tutto quello che gli portavano <strong>di</strong> rotto o mancante dei carriaggi, prevalentemente le<br />
ruote. I lavori più facili erano quelli <strong>di</strong> rifare raggi e gavelli, questi ultimi sono i piccoli<br />
archi che formano la circonferenza delle ruote le cuerte. Il legno usato doveva<br />
essere duro e fibroso, generalmente rubino perché più resistente. Per costruire i raggi<br />
ragi o rai, il carradore usava un coltello a due manici; per i gavelli cuerte, invece prima<br />
ricopiava la curvatura del vecchio pezzo, poi sbozzava il legno con un’ascia ricurva<br />
dal manico corto; finiva con la raspa. Per rifare i mozzi mozi, il carradore Pelà usava<br />
un tornio a pedale. Era una macchina molto vecchia e funzionava con una corda.<br />
Dato che quel sistema è ormai fuori uso da molti anni, penso sia utile descrivere<br />
quanto ricordo. Il tornio aveva il banco e il mandrino <strong>di</strong> ferro, costruito da officine<br />
specializzate, tutto il restante era costruito artigianalmente. Il mandrino, che è quel<br />
meccanismo che tiene stretto l’oggetto da tornire, era accoppiato a un grosso tamburo<br />
<strong>di</strong> legno che, assieme ad una corda, era l’organo rotante.<br />
Da fermo il tornio presentava la seguente situazione. Un capo della corda era fissato<br />
all’estremità più sottile <strong>di</strong> una pertica, inchiodata saldamente nella parte più grossa,<br />
I carretti erano costruiti tutti con legno, eccettuato l’asse, i cerchioni e i vari ganci che erano<br />
<strong>di</strong> ferro. Ve ne erano <strong>di</strong> varie <strong>di</strong>mensioni e portata. Erano tirati da equini forniti <strong>di</strong> finimenti<br />
<strong>di</strong> cuoio (briglie con morso e paraocchi, collare ove venivano fissati i tiranti, sella fissata dalla<br />
braca dal sottocoda e dal sotto pancia).<br />
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Carro agricolo pesante col timone e il giogo per i due bovini che dovevano tirarlo. Il giogo veniva<br />
posto nell’incavo della nuca degli animali e veniva fissato poi dal sottogola, che sono i pendagli del<br />
giogo (uno è aperto l’altro è chiuso). Il giogo era attaccato al timone per mezzo <strong>di</strong> un lungo cavicchio.<br />
Schizzo <strong>di</strong> come era il tornio. Il banco, il mandrino e le slitte erano <strong>di</strong> acciaio; il tamburo, il<br />
pedale e la pertica che serviva da molla <strong>di</strong> ritorno, erano <strong>di</strong> legno.<br />
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alle travi <strong>di</strong> un solaio superiore. La corda scendendo faceva alcune spirali attorno al<br />
tamburo, mentre l’altro capo era fissato a una stecca che fungeva da pedale, incernierata<br />
nel pavimento da una parte e dall’altra alta circa sessanta centimetri. Il tornio da<br />
fermo o lavorando aveva sempre la corda tesa. Per far girare il tamburo e quin<strong>di</strong> il<br />
mandrino e il pezzo <strong>di</strong> legno, il carradore abbassava col piede il pedale costringendo<br />
la corda a srotolarsi nella parte bassa e chiamando la parte alta ad avvolgersi costringendo<br />
la pertica ad abbassarsi nella parte non fissata coi chio<strong>di</strong>. Subito il pedale<br />
veniva lasciato libero, la pertica faceva da molla <strong>di</strong> richiamo e il tutto ritornava alla<br />
situazione iniziale. A questo punto il carradore continuava a pedalare mentre con le<br />
mani usava scalpelli e sgorbie scarpei e sgube, per ottenere quanto gli era necessario.<br />
Costruito il mozzo lo completava con due cerchi <strong>di</strong> contenimento, uno <strong>di</strong> qua e uno<br />
<strong>di</strong> là, poi fissava la boccola per l’assale.<br />
I cerchietti venivano posti in opera a caldo, la boccola, entro la quale girava l’asse, doveva<br />
entrare nel foro centrale del mozzo ed essere fissata a freddo col martello perché<br />
tronco conica. Per i piccoli lavori <strong>di</strong> ferro forgiato, il carradore ricorreva al fabbro che<br />
abitava dall’altra parte della mia casa. C’erano poi gli incassi per i raggi che venivano<br />
fatti con scalpelli, usando molta attenzione.<br />
Un lavoro che richiedeva esperienza era il controllo del rapporto tra la struttura lignea<br />
della ruota e il cerchione caldo che doveva rinserrare i gavelli cuerte, delle ruote.<br />
Nel caso vi fossero stati cerchioni usurati o laschi, il carradore adoperava la calandra<br />
con la quale poteva sistemare i cerchioni a freddo. Per i lavori a caldo, rimpicciolimenti<br />
o allargamenti sensibili, usava delle piastrine <strong>di</strong> grafite che interponeva fra i<br />
due pezzi da congiungere. Alla fine <strong>di</strong>sponeva in modo progressivo ed accurato le<br />
ruote e i cerchioni, onde non fare confusione nella loro posa in opera. I cerchioni<br />
venivano accatastati mettendo quelli gran<strong>di</strong> sotto e poi via via in modo piramidale,<br />
quelli più piccoli, usando dei mattoni perché il fuoco non scomponesse l’or<strong>di</strong>ne.<br />
In tutti questi lavori il carradore era aiutato da due figli che erano scapoli, anche se<br />
ormai uomini maturi, che facevano i lavori più faticosi e quelli preparatorii.<br />
Prima <strong>di</strong> accendere il fuoco accatastavano fascine, riempivano d’acqua alcune gran<strong>di</strong><br />
tinozze, <strong>di</strong>sponevano or<strong>di</strong>natamente tutti gli strumenti da lavoro: cavalletti, tenaglioni,<br />
attizzatoi, zappe con manici lunghi, mazze e martelli.<br />
Di buon mattino accendevano il fuoco e, quando i cerchi superiori erano rossi cominciavano<br />
il lavoro <strong>di</strong> incerchiare <strong>di</strong> forza le ruote <strong>di</strong> legno perché i gavelli non<br />
potessero più muoversi. Ho visto quel lavoro parecchie volte e ricordo bene come<br />
fosse un’opera <strong>di</strong> grande fatica. Quei tre uomini erano sempre grondanti sudore e<br />
bevevano continuamente acqua e vinello graspìa, poi <strong>di</strong> tanto in tanto mangiavano<br />
pan biscotto e salame.<br />
Prelevavano il cerchione caldo con tenaglie dai lunghi manici e lo ponevano sopra la<br />
ruota <strong>di</strong> legno che era stesa su robusti cavalletti. Uno batteva con una pesante mazza<br />
e un altro fermava il contraccolpo con un’altra mazza <strong>di</strong> ferro, il terzo usava invece<br />
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una tenaglia costruita artigianalmente. Questa aveva un grosso gancio e un lungo e<br />
robusto braccio <strong>di</strong> legno che usava come leva per la manovra la cagna. Il manico veniva<br />
posto sotto i gavelli delle ruote e il gancio arpionava il cerchione caldo. L’operaio<br />
premendo con forza sul manico della cagna faceva entrare nella giusta sede il cerchione.<br />
In tale fase <strong>di</strong> lavoro si bruciacchiava la circonferenza della ruota, per questo<br />
subito essa veniva fatta girare nell’acqua per il raffreddamento. Così il lavoro per ogni<br />
ruota. I lavoratori dovevano stare attenti che i cerchioni fossero sempre rossi per il<br />
calore, ma che non si deformassero. Lavoravano continuamente fino a che tutto non<br />
fosse finito, compresa la pulizia.<br />
All’indomani mattina riposavano per riprendersi da quelle faticacce <strong>di</strong> lavorare accanto<br />
al fuoco senza alcuna specifica forma <strong>di</strong> sicurezza.<br />
Il maniscalco<br />
Qualche anno dopo il nostro arrivo a San Bellino si installò, vicino al carradore, un<br />
maniscalco che aveva come aiutante suo fratello più giovane. Provenivano da un paese<br />
vicino e giornalmente facevano in bici la spola casa-bottega.<br />
Ricordo quel maniscalco <strong>di</strong> nome Carlo perché poi morì in guerra.<br />
Prima <strong>di</strong> costoro per ferrare gli equini i sanbellinesi dovevano andare fuori paese.<br />
Vi<strong>di</strong> innumerevoli volte come eseguivano il loro lavoro. Nei tempi morti costruivano<br />
ferri da cavallo <strong>di</strong> tutte le qualità e grandezze. Avevano una fucina con una ventola<br />
manuale e spesso io ne facevo il manovratore. Mettevano sul fuoco del carbone<br />
coke delle strisce <strong>di</strong> ferro. Mi fu detto che erano ritagli delle lamiere adoperate nella<br />
Il maniscalco inchioda il ferro sagomato <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa dello zoccolo del cavallo. L’aiutante invece<br />
ravviva il fuoco della fucina.<br />
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costruzione <strong>di</strong> navi. Carlo tagliava a caldo sull’incu<strong>di</strong>ne pezzi <strong>di</strong> lunghezza adatta,<br />
immergendoli subito dopo ancora nel fuoco. Dopo una grossa scaldata il ferro veniva<br />
forgiato. Carlo con un martello pesante nella mano destra e nella sinistra una<br />
tenaglia per manovrare il pezzo, il fratello con una grossa mazza, che batteva a due<br />
mani. Con una decina <strong>di</strong> <strong>di</strong>n-dan ottenevano un ferro da cavallo. Poi procedevano<br />
con un’altra scaldata per la rifinitura dei fori necessari per l’inchiodatura. Spesso i<br />
committenti chiedevano ferri <strong>di</strong> loro gusto, come la cresta triangolare sul davanti o<br />
arpioni pronunciati sul retro: queste correzioni venivano fatte lì per lì.<br />
La ferratura aveva i suoi riti: il fratello ammansiva il cavallo accarezzandogli le gambe,<br />
poi ne sollevava per prima una davanti, Carlo provvedeva a fare l’operazione <strong>di</strong><br />
ferratura. Dapprima sistemava la zoccolatura con una sgorbia a lama larga. Questa<br />
operazione era delicata sia perché doveva essere fatta senza che il cavallo avvertisse<br />
dolore, sia perché si doveva lasciare un poco <strong>di</strong> unghia morta per poter infilarvi i<br />
chio<strong>di</strong> <strong>di</strong> tenuta. I chio<strong>di</strong> avevano la testa tronco piramidale a base quadrata, mentre<br />
l’asticciola era piatta. Venivano fissati in modo che la punta finisse all’esterno dello<br />
zoccolo dove c’era ancora l’unghia morta. Per il bloccaggio veniva fatta una piccola<br />
piegatura <strong>di</strong> ritegno dell’asticciola piatta, mentre la parte eccedente veniva tagliata.<br />
I ferri dei bovini erano <strong>di</strong>versi, erano formati da due piastrine sagomate come le<br />
unghie biforcute degli animali. Verso l’interno le piastrine avevano delle appen<strong>di</strong>ci<br />
forate che servivano per il fissaggio con piccoli chio<strong>di</strong> particolari.<br />
Quei maniscalchi avevano costruito nel loro cortiletto con travi <strong>di</strong> legno un robusto<br />
steccato ad angolo acuto, simile a quello della monta dei tori. Se il cavallo si imbizzarriva<br />
lo costringevano nell’angolo formato dalle travi, ove veniva imbrigliato per<br />
evitare che si muovesse o scalciasse.<br />
Lentamente poi, sempre accarezzandolo, ferravano gli zoccoli uno alla volta. Il lavoro<br />
<strong>di</strong> maniscalco fu ben accetto dai sanbellinesi perché era necessario per gli equini ed<br />
in estate anche per i bovini.<br />
Il fabbro<br />
La sua modesta officina era la cucina ove la sua famiglia cuoceva i cibi e anche dove<br />
mangiavano. Le poche suppellettili casalinghe erano completate da una forgia e da<br />
una incu<strong>di</strong>ne posta su un ceppo <strong>di</strong> legno. Stando a casa mia sentivo i colpi <strong>di</strong> martello.<br />
Di solito il fabbro dava un colpo sul ferro da modellare e uno sull’incu<strong>di</strong>ne perché<br />
in questo breve intervallo riusciva con la tenaglia, manovrata dall’altra mano, a girare<br />
il pezzo che doveva forgiare Erano grosse punte per le erpici pesanti o anelli e ganci<br />
per i carradori. Quando invece doveva riaffilare a caldo i vomeri e i coltri degli aratri,<br />
batteva continuamente con la parte schiacciata <strong>di</strong> un martello pesante, era questo un<br />
lavoro molto faticoso perché, oltre a battere in continuazione, doveva tenere al giusto<br />
posto sull’incu<strong>di</strong>ne dei pezzi pesanti. Lavorava tutto il giorno, ma a me pareva che<br />
guadagnasse poco perché faceva una vita grama, nonostante la moglie lavorasse ad<br />
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ore nelle famiglie vicine; da noi veniva come aiutante per fare il pane. Due fabbri in<br />
quel paese non avrebbero potuto vivere.<br />
Un artigiano particolare<br />
In paese c’era una persona sui trentacinque anni, che mi pare si chiamasse Pelà, che<br />
si era inventato mestieri nuovi. Era un tipo sbruffone che però aveva capacità non<br />
comuni <strong>di</strong> sapersi arrangiare. Da giovanetto aveva fatto il carradore, da adulto recuperava<br />
vecchie auto obsolete, ne trasformava la carrozzeria, sistemava il motore e<br />
poi le vendeva. Ha iniziato con le automobili, residuati della prima guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />
Queste macchine avevano lo chassis portante, così, alla francese, veniva allora chiamato<br />
il telaio. Egli tagliava la parte retrostante della carrozzeria e nello spazio libero<br />
costruiva un cassone <strong>di</strong> legno, ottenendo un furgoncino per il trasporto.<br />
Per quanto riguardava il motore, spesso ricorreva all’espe<strong>di</strong>ente <strong>di</strong> ottenerne uno funzionante<br />
assemblando pezzi <strong>di</strong> vecchi motori uguali; per questo la sua officina era un<br />
groviglio <strong>di</strong> legni e pezzi <strong>di</strong> motore. Installò anche in quei furgoncini degli sgranatoi<br />
<strong>di</strong> pannocchie che funzionavano con cinghie <strong>di</strong> trasmissione mosse da una puleggia<br />
Il fabbro batte il ferro caldo sull’incu<strong>di</strong>ne posta in cucina, mentre il gas sprigionato dal carbone<br />
koke viene incanalato verso l’esterno dalla cappa del camino. Da notare il recipiente dell’acqua<br />
a fianco dell’incu<strong>di</strong>ne: l’acqua serviva per temperare gli scalpelli, i coltelli e i vomeri, che così<br />
<strong>di</strong>ventavano acciaiosi.<br />
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unita al motore. Ve ne era qualcuno anche in paese. Ho visto che d’inverno toglievano<br />
lo sgranatoio e la puleggia e che usavano il furgoncino per piccoli trasporti. Quel<br />
tale riuscì anche a sistemare e far funzionare due trattori Titan, vecchie macchine<br />
americane. Una la usò nella grande fattoria <strong>di</strong> mille pertiche per la trebbiatura.<br />
Grande rumore <strong>di</strong> chiacchiere vi fu in paese quando lo si vide girare con una piccola<br />
auto scoperta. Disse che si chiamava Temperino e che l’aveva trovata a pezzi da uno<br />
che raccoglieva ferro vecchio. Il motore era scoppiettante, ma durò poco, così tutto<br />
cadde nel <strong>di</strong>menticatoio.<br />
Nel 1936, quando partii da San Bellino, in paese era già arrivato dall’autunno precedente<br />
il primo trattore nuovo, un Lan<strong>di</strong>ni a testa calda: così iniziò la meccanizzazione<br />
agricola a San Bellino.<br />
Non ho mai saputo cosa poi si sia messo a fare quel tipo <strong>di</strong> artigiano, dopo che i gestori<br />
agricoli avevano capito l’importanza <strong>di</strong> usare i nuovi macchinari che avevano<br />
cominciato a fabbricare anche in Italia.<br />
Il meccanico <strong>di</strong> biciclette<br />
Dopo qualche tempo che abitavo a San Bellino, arriva in paese la nuova levatrice<br />
comunale che andò ad abitare assieme al marito in una casa vicina al mulino <strong>di</strong> mio<br />
padre: erano una giovane coppia senza figli. L’uomo si chiamava Antonio, per noi<br />
paesani Toni. Egli si mise a fare il meccanico <strong>di</strong> biciclette – el giusta biciclete - perché<br />
non poteva più svolgere il suo primo mestiere <strong>di</strong> autista <strong>di</strong> camion, sia perché in<br />
Tipo <strong>di</strong> automobile usato nella prima guerra mon<strong>di</strong>ale del 1915-18, ancora in circolazione negli<br />
anni Venti/Trenta. L’artigiano la trasformava in camioncino, sostituendo i se<strong>di</strong>li retrostanti con<br />
un pianale o un cassone.<br />
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paese non ce n’era bisogno, ma soprattutto perché aveva perduto una gamba in un<br />
incidente. Il moncherino rimastogli l’aveva allungato con una protesi rigida <strong>di</strong> legno.<br />
D’estate, quando ero in vacanza, andavo giornalmente nel mulino <strong>di</strong> mio padre, così<br />
passavo davanti alla bottega <strong>di</strong> Toni. Presi l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> fermarmi, prima per curiosare<br />
come si sviluppava il lavoro, poi per aiutare Toni e non vederlo zoppicare faticosamente<br />
facendo dondolare il suo corpo, infine per imparare, dato che la bici era il<br />
mio unico mezzo <strong>di</strong> trasporto.<br />
L’officina era la stanza d’entrata della casa, là Toni aveva approntato una modesta attrezzatura<br />
per aggiustare le biciclette e anche per saldare con lo stagno e l’acetilene.<br />
Toni appendeva le biciclette poi provvedeva alle riparazioni. Da notare che nell’angolo c’è<br />
l’apparecchiatura per produrre l’acetilene, necessario per le saldature. In fianco, la bombola <strong>di</strong><br />
ossigeno per la saldatura ossiacetilenica.<br />
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Settantacinque anni fa le strade erano solamente inghiaiate, piene <strong>di</strong> buche e schegge<br />
aguzze, perciò le numerose biciclette in circolazione avevano spesso bisogno <strong>di</strong> riparazioni<br />
alle ruote e ai freni. In aggiunta poi erano le bici pressoché l’unico mezzo <strong>di</strong><br />
trasporto anche per i pesi, come sacchi <strong>di</strong> cereali o fasci <strong>di</strong> legna da ardere, per cui<br />
spesso si spaccavano telai e manubri.<br />
Il guaio più comune, però, erano le forature, per le quali tutti sapevano provvedere.<br />
Anch’io da bambino avevo imparato come fare. Una volta tutte le biciclette erano accessoriate<br />
per riparare in modo autonomo le forature. C’era una pompa incernierata<br />
al tubo che supportava la sella, nel retro <strong>di</strong> questa era appesa una borsetta contenente<br />
due piccole leve, sagomate opportunamente alle estremità, una piccola chiave multipla,<br />
un tubetto <strong>di</strong> mastice, alcuni pezzetti <strong>di</strong> pneumatico e della carta vetrata.<br />
Per riparare le forature si rovesciava le biciclette con le ruote in alto, poi con le due levette<br />
Toni aggiusta un tegame usando una barretta <strong>di</strong> stagno fatta colare goccia a goccia con il martello<br />
<strong>di</strong> rame riscaldato dalla lampada a petrolio illuminante (usato anche per illuminare gli ambienti).<br />
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si toglieva il copertone coperton da una parte della sede e si liberava lo pneumatico la<br />
camaradaria. Per trovare il buco o i buchi si usava un semplice metodo. Si gonfiava lo<br />
pneumatico e, passo passo, lo si stendeva entro l’acqua <strong>di</strong> un catino: dove c’era il foro<br />
uscivano bollicine. Poi si pulivano bene la zona dove c’era il foro e anche il rappezzo,<br />
usando la carta vetrata, si spalmava il mastice e si applicava la pezza peza sul buco.<br />
Anche Toni faceva spesso questo lavoro, specie per le donne e i bambini. Aveva sempre<br />
pronte una bacinella d’acqua e una pompa a pie<strong>di</strong>stallo che produceva rapidamente<br />
tanta aria. Per qualsiasi lavoro sulle biciclette, Toni le appendeva a due catenelle pre<strong>di</strong>sposte<br />
con ganci e ancorate alle travi del solaio, per poter lavorare in pie<strong>di</strong>.<br />
I lavori che faceva erano <strong>di</strong> varia natura, sia perché una volta i ricambi costavano <strong>di</strong> più<br />
che la sistemazione dell’usato, sia perché i componenti delle biciclette erano <strong>di</strong> fattura<br />
semplice: per esempio non vi erano moltipliche, cambi e deragliatori come oggidì.<br />
Fra le varie lavorazioni mi piacevano <strong>di</strong> più il cambio delle sfere dei mozzi delle ruote e<br />
il consolidamento delle pe<strong>di</strong>velle alla ruota dentata <strong>di</strong> trazione, forse perché la mia bici<br />
cigolava e perdeva qualche colpo <strong>di</strong> pedale. Successe che qualche volta ho fatto anch’io<br />
quei lavori cooperando con Toni: lui da una parte, io dall’altra. Per cambiare le sfere<br />
si staccava la ruota perché così era più facile effettuare il cambio delle sfere: venivano<br />
aperti i due cuscinetti a sfere, si eliminavano le sfere fuori uso, si riempiva il supporto <strong>di</strong><br />
grasso minerale, si posizionavano le nuove sfere e alla fine, chiusi i cuscinetti, la ruota<br />
veniva rimessa al suo posto. Per solidarizzare poi le pe<strong>di</strong>velle all’asse dove era fissata la<br />
ruota dentata, si usavano delle spine cilindriche che avevano una rastremazione e una<br />
piccola faccia piana verticale, compreso anche una testa e un dado <strong>di</strong> tenuta con rondella.<br />
La spina veniva posta nel foro della pe<strong>di</strong>vella, là dove il perno aveva una tacca.<br />
Talvolta la spina doveva essere adattata con la lima per delle deformazioni dovute a<br />
riparazioni precedenti; alla fine si batteva la spina col martello e si serrava forte il dado.<br />
Il cambio dei raggi delle ruote, invece, Toni lo faceva da solo perché la loro positura<br />
era complicata e per <strong>di</strong> più bisognava centrare perfettamente il mozzo. Le biciclette<br />
talvolta avevano bisogno <strong>di</strong> saldature al telaio, al manubrio e alle forcelle. Toni prima<br />
puliva dalla ruggine o dalla vernice i pezzi da saldare, poi stu<strong>di</strong>ava come infilare dei<br />
tubetti <strong>di</strong> sostegno nelle cavità, infine preparava l’acetilene. In un angolo della stanza<br />
c’era un’apparecchiatura, verniciata in grigio azzurrognolo, che aveva l’ingombro come<br />
<strong>di</strong> una persona robusta: era il meccanismo che prouceva il gas acetilene. Era formato da<br />
due pezzi: una vasca con acqua e un cilindro verticale galleggiante. L’acqua permetteva<br />
al cilindro <strong>di</strong> salire e scendere, facendo da tappo per non <strong>di</strong>sperdere il gas che veniva<br />
prodotto in quantità variabile. Dentro al cilindro vi erano una graticola, dove venivano<br />
poste zolle <strong>di</strong> carburo <strong>di</strong> calce a seconda del bisogno, <strong>di</strong>rettamente sopra vi era un<br />
contenitore d’acqua fornito <strong>di</strong> dosatore che era comandato da una rotellina esterna al<br />
cilindro. Completavano l’attrezzatura una bombola <strong>di</strong> ossigeno, simile a quelle ancora<br />
in uso, due tubi <strong>di</strong> gomma lunghi, sottili e flessibili collegati alla fine con un cannello<br />
ossidrico (un tubo serviva per convogliare l’acetilene, l’altro l’ossigeno).<br />
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I due gas mescolati davano una fiamma vivida e concentrata che riusciva a fondere i<br />
metalli. Per le saldature Toni usava verghette <strong>di</strong> ferro che, surriscaldate, lasciavano colare<br />
delle gocce <strong>di</strong> metallo sulle zone già arrossate attorno alle rotture.<br />
Una volta l’acetilene veniva usato anche per l’illuminazione, come i fanali delle biciclette.<br />
Anch’io per sei anni ho usato quel sistema per andare a scuola perché dava una<br />
fiammella molto brillante e continua. Avevo un piccolo cilindro appeso verticalmente<br />
al telaio e il fanale col beccuccio appeso su un supporto a sette fissato sul manubrio. Il<br />
cilindro era <strong>di</strong>viso in due parti avvitate fra loro. Nella parte superiore c’era l’acqua che<br />
cadeva a gocce nella parte inferiore dove c’era il carburo: l’acetilene che si sviluppava<br />
veniva convogliato con un tubicino <strong>di</strong> gomma al fanale. In aggiunta Toni arrotondava<br />
i suoi introiti facendo anche lo stagnino per le stoviglierie <strong>di</strong> rame, allora molto in uso.<br />
Aveva un martello <strong>di</strong> rame il saldatore, con un lungo manico, poi una piccola bombola<br />
<strong>di</strong> ottone lampada, che conteneva il petrolio illuminante, fornita <strong>di</strong> una maniglia <strong>di</strong> manovra,<br />
una pompetta per comprimere il petrolio e un beccuccio schermato per formare<br />
una lunga e concentrata fiamma. Toni prima puliva l’oggetto da stagnare con batuffoli<br />
impregnati <strong>di</strong> acido solforico molto <strong>di</strong>luito, poi riscaldava il martello <strong>di</strong> rame col quale<br />
fondeva le stecche <strong>di</strong> stagno che servivano per le saldature, e anche per i rivestimenti<br />
interni dei recipienti <strong>di</strong> rame usati in cucina. Quest’ultimo era un lavoro lungo, ove<br />
occorreva attenzione e pazienza, perché quella stagnatura era necessario che fosse completata<br />
con cura onde evitare ossidazioni interne del rame delle casseruole, pericolose<br />
per la salute.<br />
Questa mia frequentazione nella bottega <strong>di</strong> Toni mi ha dato durevoli frutti perché da<br />
giovane ho poi sempre provveduto alla mia bici, che mi fu utilissima fino a che non fui<br />
chiamato a fare il soldato.<br />
Gli ambulanti<br />
Gli abitanti <strong>di</strong> San Bellino potevano sod<strong>di</strong>sfare tante loro piccole necessità aspettando<br />
l’arrivo in paese degli ambulanti. Ce n’erano <strong>di</strong> vari tipi che giravano per la pianura<br />
portando con sé poche cose e che, per risparmiare, dormivano nelle stalle e mangiavano<br />
quello che qua e là ricevevano in cambio. Ricorderò quelli più caratteristici:<br />
a) Lo straccivendolo. Aveva un piccolo carretto tirato da un asino, era il beniamino<br />
dei ragazzetti perché comperava quello che essi riuscivano a raccogliere: stracci, ossi<br />
e ferro vecchio. Attirava l’attenzione col tintinnio argentino <strong>di</strong> un campanello. Era<br />
allora un accorrere festoso <strong>di</strong> ragazzetti che in quell’occasione potevano ricevere dei<br />
sol<strong>di</strong>ni da spendere dalla fruttivendola.<br />
b) L’aggiustapiatti. Oggi fa sorridere che settant’anni fa si aggiustassero i piatti <strong>di</strong> ceramica,<br />
rotti a metà, con del filo <strong>di</strong> ferro. Sol<strong>di</strong> non ce n’erano, ma neanche un negozio<br />
<strong>di</strong> stoviglie, per <strong>di</strong> più a San Bellino non c’erano mercati <strong>di</strong> nessun tipo. Di piatti<br />
aggiustati col filo <strong>di</strong> ferro ne ho visto parecchi frequentando le famiglie dei miei coetanei,<br />
per <strong>di</strong> più ricordo <strong>di</strong> aver visto un aggiustapiatti al lavoro. Era un girovago che<br />
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si portava appresso tutti i suoi tesori in un sacchetto. Lo guardai ben bene mentre<br />
lavorava. L’opera più lunga fu quella <strong>di</strong> forare le due parti rotte dei piatti nei luoghi<br />
combacianti.<br />
Ha usato un piccolo trapano formato da pochi pezzi che furono assemblati al momento<br />
dell’uso. L’aggiustapiatti preparò con cura il trapano, fece qualche prova poi<br />
iniziò il lavoro. I componenti <strong>di</strong> quell’aggeggio erano oggetti semplici e comuni, quasi<br />
tutti <strong>di</strong> legno. Si riducevano a una bacchetta <strong>di</strong> circa 40 centimetri, una tavoletta<br />
con tre fori due laterali e uno centrale, lunga anch’essa circa 40 centimetri, uno spago,<br />
quello che usavano i calzolai per cucire le suole, lungo 80 centimetri e un chiodo<br />
con la punta schiacciata e temperata. Le parti del legno erano ben levigate e leggere<br />
per manovrarle in modo rapido. Nel foro centrale della tavoletta, che era usata orizzontalmente,<br />
passava verticalmente la bacchetta, che aveva legata in basso la punta<br />
perforante.<br />
La rotazione veniva prodotta dallo spago che era fissato da parte a parte nei due fori<br />
laterali della tavoletta, passando per la tacca fatta in cima alla bacchetta. Alla partenza,<br />
la tavoletta era posizionata in basso, in modo da formare un triangolo con base la<br />
tavoletta stessa e con i due lati uguali ottenuti dallo spago.<br />
Il girovago iniziò il lavoro avvolgendo a spirale lo spago sulla bacchetta per cui la<br />
tavoletta venne tirata in alto, poi con uno strattone abbassò la tavoletta, lo spago si<br />
srotolò e la bacchetta girò. A questo punto l’operatore lasciò libera la tavoletta che,<br />
per il contraccolpo, si alzò e lo spago continuò a riavvolgersi facendo girare continuativamente<br />
la bacchetta. Così <strong>di</strong> seguito fino a che la punta forò la porcellana.<br />
Finito questo lavoro <strong>di</strong> foratura tirò fuori un mastice verdastro, <strong>di</strong> sua invenzione mi<br />
<strong>di</strong>sse, che spalmò sugli spessori dei pezzi <strong>di</strong> piatto. Completò il lavoro facendo passare<br />
per i fori combacianti un sottile filo <strong>di</strong> ferro <strong>di</strong> cui avvolse le estremità unite con<br />
una pinza; così continuò per le varie coppie <strong>di</strong> fori. Poi tagliò il ferro in eccedenza e<br />
pulì il piatto nel <strong>di</strong>ritto e nel rovescio dagli esuberi <strong>di</strong> mastice. Il piatto era pronto per<br />
ricevere anche cibi cal<strong>di</strong>.<br />
c) La misurazione <strong>di</strong> teleria. Di tanto in tanto passava un merciaio che sul suo carretto<br />
aveva anche rotoli <strong>di</strong> teleria da letto. Gridava: “done, bonbasina tre brazi un franco”. Il<br />
suo grido significava che per una lira vendeva una tela economica <strong>di</strong> cotone, misurata<br />
con tre bracciate, pari alla quantità che serviva per fare un lenzuolo.<br />
Una volta era d’uso chiamare franchi le lire, un ricordo della Francia napoleonica. La<br />
bracciata era una misura convenzionale che aveva come riferimento la lunghezza <strong>di</strong><br />
un braccio aumentata dalla larghezza del torace. In pratica il ven<strong>di</strong>tore prendeva con<br />
la destra il capo della tela e la stendeva fino al pugno sinistro posto sul lato esterno<br />
del costato, così per tre volte. La frase “tre brazi un franco” era <strong>di</strong>ventata un motto per<br />
significare persona o cosa <strong>di</strong> poca valore.<br />
d) La misurazione <strong>di</strong> pesi. In paese un giovane si inventò il mestiere <strong>di</strong> raccogliere i<br />
cereali riportandoli al conferente già macinati. Mio padre gli fornì un carretto con<br />
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cavallo, perché potesse fare i giri nelle case sparse nella pianura e lontane da mulini;<br />
gli fornì pure una stadera per le pesature. Dopo vari mesi mi accorsi che quel giovane<br />
faceva una propria elencazione per i conferenti e per le pesature dei sacchi, <strong>di</strong>versa<br />
da quella fatta da mio padre e, nel contempo, mi chiesi come poteva guadagnare con<br />
una quantità modesta <strong>di</strong> clienti; fu così che chiesi e ottenni <strong>di</strong> accompagnarlo una<br />
volta durante uno dei suoi giri giornalieri.<br />
Capii come faceva saltar fuori un guadagno extra. Si mostrava ovunque servizievole<br />
ed andava lui stesso in granaio a prendere le biade. Nello scendere le scale dava scossoni<br />
al sacco perché i grani si impacchettassero ben bene, poi misurava in altezza il<br />
sacco riempito appoggiandolo a una parete, facendo un segno ben visibile col carbone<br />
vegetale.<br />
Al ritorno portava il sacco <strong>di</strong> farina che arrivava sì all’altezza del segno precedente,<br />
ma furbescamente ci metteva sotto un piede per rialzarlo, così riusciva a prelevare<br />
della farina prima della consegna che poi vendeva per proprio conto. Quel gioco gli<br />
fu fatale perché qualcuno se ne accorse: vi fu un passa parola, così dovette smettere.<br />
e) Le canolare. Di tanto in tanto nel periodo estivo passavano delle donne, che provenivano<br />
dalle montagne del Friuli e vendevano piccoli lavori in legno per la cucina<br />
e spine delle botti e dei tini le canole, da cui è derivato il nome canolare <strong>di</strong> chi faceva<br />
quel commercio, anche se vendeva tante altre cose. Portavano tutte quasi una <strong>di</strong>visa:<br />
gonne lunghe, fazzoletto in testa, pantofole <strong>di</strong> pezza che avevano la punta rivolta in<br />
alto, una cassetta a zaino con tanti cassettini. Ogni canolara aveva oggetti <strong>di</strong> legno<br />
ma anche in acciaio, come forbici e coltelli generalmente fabbricati a Maniago, paese<br />
del Friuli, allora luogo assai noto ove producevano coltelleria <strong>di</strong> qualità. Vendevano<br />
anche delle piccole illustrazioni oleografiche <strong>di</strong> Santi e copie <strong>di</strong> stampe famose. Gli<br />
oggetti <strong>di</strong> legno venivano costruiti, durante i lunghi inverni nevosi, dagli uomini liberi<br />
dai lavori <strong>di</strong> fienagione o <strong>di</strong> accompagnamento del bestiame su e giù per i pascoli<br />
montani.<br />
f) L’arrotino. Una volta l’anno, nella bella stagione, passava anche a San Bellino un<br />
arrotino moléta. Metteva la sua strumentazione in bella mostra nel centro del paese,<br />
poi a pie<strong>di</strong> avvisava alcune famiglie che a loro volta facevano il passa parola. La sua<br />
attrezzatura consisteva in una cassa stretta avente un’altezza adatta per usare una<br />
faccia come piano <strong>di</strong> lavoro. La cassa sul retro aveva uno sportello, due piccoli pie<strong>di</strong><br />
che servivano per fissare la cassa nelle soste e due manici rientranti che usava durante<br />
i tragitti da un paese all’altro. Davanti c’erano due piccole ruote per il trasporto.<br />
Nel fianco la cassa aveva una grande ruota a mezz’aria collegata con una biella a un<br />
pedale <strong>di</strong> manovra. A sua volta questa ruota, a mezzo <strong>di</strong> un cingolo, era collegata a<br />
una piccola puleggia solidale con la mola, che aveva i supporti sopra la cassa. Per<br />
bagnare la mola c’era una latta piena d’acqua che scendeva goccia a goccia: senza<br />
l’acqua la mola non affilava. Sotto la mola c’era un raccoglitore dell’acqua che usciva<br />
verso l’esterno attraverso un tubicino. Dentro la cassa, oltre ai suoi pochi strumenti, il<br />
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moleta custo<strong>di</strong>va anche oggetti utili per la sua vita randagia. Per iniziare il lavoro bastava<br />
che l’operatore facesse fare alla ruota grande alcuni giri e contemporaneamente<br />
il pedale andava in su e in giù. Così pigiando il pedale col piede, la mola girava piano<br />
o forte secondo il bisogno dell’arrotino. Le donne facevano affilare coltelli da cucina e<br />
forbici, gli uomini accette manàre, per spaccare gli alberi, coltellacci cortélasi, roncole<br />
cortéline, queste ultime servivano per tagliare pali e potare le piante.<br />
L’arrotino ambulante. Aveva una cassa attrezzata per il trasporto a mano. Sopra la cassa c’erano<br />
una gamella con l’acqua e la mola che girava con un pedale. Le donne portavano ad affilare<br />
forbici e coltelli da cucina, gli uomini le cesoie, i bambini erano dei curiosi.<br />
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I giochi dei bambini e dei ragazzetti<br />
Ottant’anni fa noi fanciulli e ragazzetti non avevamo certo tutti i giocattoli e le<br />
macchinette <strong>di</strong> oggi, particolarmente noi che vivevamo nei piccoli centri agricoli.<br />
Giocavamo con tutto quello che ci capitava <strong>di</strong> trovare: i bottoni (basàne, i gran<strong>di</strong><br />
bottoni da paltò che valevano tre o quattro bottoni piccoli, a seconda se erano <strong>di</strong> osso<br />
o quelli <strong>di</strong> metallo da calzoni), i semi della carrube, caròbe, figurine che si trovavano<br />
nelle caramelle, cartoline... e qualsiasi altro oggetto che attirasse la nostra attenzione.<br />
Con queste piccole cose si giocava a palma, cioè si nascondevano in un pugno della<br />
mano e l’avversario doveva indovinare in quale pugno erano.<br />
A seconda del sesso, i nostri giocattoli, zogàtoli, personali erano spesso dei carrettini<br />
<strong>di</strong> legno o <strong>di</strong> cartone realizzati dai padri, o bambolette, pùe, fatte dalle madri con<br />
legno e stracci.<br />
Solo alle elementari ho imparato a giocare con i compagni. Prima, ricordo che mi<br />
<strong>di</strong>vertivo a ritagliare dei pupazzetti, che poi incollavo a formare delle catene, usando<br />
una colla fatta con farina <strong>di</strong> frumento ed acqua.<br />
Negli anni Venti del Novecento, dopo la prima guerra mon<strong>di</strong>ale, a Costa <strong>di</strong> Rovigo, si<br />
giocava ai soldati. Si usavano pezzi <strong>di</strong> <strong>di</strong>vise e altri ricor<strong>di</strong> che i nostri padri avevano<br />
riportato dal servizio militare, ed era tutto un nascondersi e correre, con agguati,<br />
assalti e ritirate. C’era anche il gioco degli schiavi: ci si <strong>di</strong>videva in due squadre e<br />
ciascuna segnava per terra una linea <strong>di</strong> sicurezza, che chiamavamo trincea. Le due<br />
linee erano a quaranta o cinquanta passi l’una dall’altra. Si doveva uscire dalla propria<br />
trincea per andare a occupare quella avversaria: ne nascevano gran<strong>di</strong> corse e rincorse<br />
durante le quali, se uno era toccato dall’avversario era <strong>di</strong>chiarato schiavo e doveva<br />
appostarsi sulla trincea “nemica”. Si vinceva quando tutti i nemici era <strong>di</strong>ventati<br />
schiavi, oppure quando il capo della squadra avversaria veniva toccato.<br />
C’era poi il gioco della cavalletta. I componenti <strong>di</strong> una squadra, estratti a sorte, formavano<br />
il “cavallo”, <strong>di</strong>sponendosi inchinati uno in fila all’altro; gli altri saltavano uno ad uno in<br />
groppa ma, se qualcuno sbagliava, tutta la sua squadra doveva fare da cavallo.<br />
D’inverno si andava a scivolare, slisegàre, sui fossi ghiacciati con gli zoccoli <strong>di</strong> legno<br />
chiodati, sgàlmare.<br />
Nella prima metà degli anni Trenta, a San Bellino, cominciai a giocare a pallone. Il campo<br />
sportivo era un’aia o un campo <strong>di</strong> stoppie e la palla era <strong>di</strong> pezza. Nessuno conosceva<br />
esattamente le regole del gioco, così tutto si riduceva ad un gran correre per calciare<br />
la palla entro la porta avversaria, segnata da due bussolotti o da due pietre. Ricordo in<br />
particolare una partita <strong>di</strong> cui sono stato spettatore, perché <strong>di</strong>mostra quanto, in quegli<br />
anni, fosse basso il livello sociale nei paesetti del Polesine. Era la fine del giugno 1934.<br />
Dei giovanotti <strong>di</strong> San Bellino sfidarono a pallone quelli <strong>di</strong> un paese vicino. In quella<br />
partita, <strong>di</strong> regolamentare c’era solo il pallone <strong>di</strong> cuoio, tutto il resto era opzionale.<br />
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Le <strong>di</strong>vise erano una variopinta esibizione <strong>di</strong> mutandoni, magliette, camicie e scarpe.<br />
Giocarono in un grande campo <strong>di</strong> stoppie; nessuno conosceva tutte le regole,<br />
neppure chi faceva da arbitro. Tutti gridavano, tutti correvano, ma non fu segnato<br />
alcun gol. Il giocatore che più gridava e dava consigli agli altri era un tipo aitante <strong>di</strong><br />
San Bellino che conoscevo, avendolo visto tante volte al lavoro nella grande azienda<br />
agricola. Si <strong>di</strong>stingueva dagli altri perché la sua <strong>di</strong>visa era un costume da bagno nero<br />
da donna, completo <strong>di</strong> pettorina! La partita <strong>di</strong>venne una farsa e tutti ridevano per il<br />
gran gesticolare <strong>di</strong> molti giocatori, che, al termine della gara, erano fra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> sudore<br />
e con gli stinchi graffiati a sangue dalle stoppie.<br />
I <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> Bruno<br />
L’amico coetaneo Bruno Mardegan ha <strong>di</strong>segnato su mia richiesta una decina <strong>di</strong> fogli<br />
che illustrano i giochi che noi ragazzetti facevamo una volta. Sono l’occasione per<br />
presentare giochi ormai quasi tutti <strong>di</strong>menticati e richiamarne altri simili.<br />
I cerchi<br />
Si correva per le strade facendo rotolare un cerchio <strong>di</strong> ferro con l’aiuto <strong>di</strong> un bastone.<br />
Il cerchio era ricavato dalle ruote delle biciclette o dall’anello superiore dei paioli <strong>di</strong><br />
rame, allora <strong>di</strong> facile reperimento, perché la bici era il più <strong>di</strong>ffuso e comune mezzo<br />
<strong>di</strong> locomozione ed il paiolo, che serviva a cuocere la polenta, era il recipiente più<br />
usato in cucina. Il bastone era un pezzo <strong>di</strong> legno qualunque, quando si usavano i<br />
cerchioni delle bici, mentre, per il cerchio ricavato dai paioli, il bastone era munito <strong>di</strong><br />
un uncino <strong>di</strong> ferro ad U, per incastrarci il cerchio.<br />
Il gioco dei cerchi.<br />
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La trottola, pisòn nel Polesine, mòscolo nel <strong>Padova</strong>no<br />
Il gioco aveva <strong>di</strong>verse varianti. A una trottola <strong>di</strong> legno piuttosto grossa veniva<br />
attorcigliato stretto uno spago, quin<strong>di</strong>, con un colpo a strappo e trattenendo il capo<br />
libero dello spago, si scagliava il tutto a terra: <strong>di</strong>sfacendosi velocemente le spire<br />
dell’avvolgimento, per reazione la trottola girava velocemente.<br />
Un altro sistema per far ruotare la trottola era quello <strong>di</strong> colpirla con la frusta, scùria,<br />
che usavano i carrettieri.<br />
Le trottole più piccole, pisorìn, avevano incastrato sulla faccia superiore una sorta <strong>di</strong><br />
picciolo, che serviva da manico per farla girare con le <strong>di</strong>ta. Va da sé che vinceva chi<br />
riusciva a mantenere in pie<strong>di</strong> la trottola per più tempo.<br />
La corda<br />
Una corda veniva fatta girare da due giocatori e uno doveva saltarla il più a lungo<br />
possibile senza intralciarne la regolare rotazione. Questo gioco, preferito dalle<br />
bambine, aveva delle varianti: due saltatori assieme, un saltatore con due corde che<br />
giravano all’ incontrario, saltare su un solo piede.<br />
C’era poi il tiro alla fune, un classico per <strong>di</strong>mostrare la propria forza.<br />
Riguardo ai salti, c’erano <strong>di</strong>versi giochi: il salto dei fossi, i salti con i pie<strong>di</strong> chiusi in un<br />
sacco, i salti sulle strade inghiaiate a pie<strong>di</strong> scalzi, coi pie<strong>di</strong> uniti o con un solo piede.<br />
Nelle gare si tracciavano a terra un segno <strong>di</strong> partenza e uno <strong>di</strong> arrivo e vinceva chi<br />
saltellando percorreva la <strong>di</strong>stanza nel minor tempo.<br />
Il gioco della trottola, pisòn nel Polesine.<br />
89
Le scaglie<br />
Un premio (costituito da figurine, palline colorate, bottoni o 5-10 centesimi) veniva<br />
posto sopra o ai pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> un bussolotto o <strong>di</strong> una pietra. Lontano 10-12 passi si<br />
tracciava una linea da cui venivano lanciati dai giocatori delle scaglie <strong>di</strong> pietra o<br />
pezzi <strong>di</strong> mattoni o delle palanche (i gran<strong>di</strong> 10 centesimi anteriori alla prima guerra<br />
mon<strong>di</strong>ale). Vinceva chi centrava il bersaglio, facendo cadere il bussolotto o la pietra.<br />
Con sassi e scaglie si facevano delle gare anche lanciandoli sul pelo dell’acqua dei<br />
gran<strong>di</strong> fossi: la pietra rimbalzava sull’acqua e vinceva chi le faceva fare più salti.<br />
Un gioco consisteva nel lanciare il più lontani possibile i sassi che si usavano per<br />
migliorare le strade: i lanci si facevano nei campi, perché gli adulti ci sgridavano se li<br />
lanciavamo per le strade.<br />
La lippa<br />
La lippa, bindèche o pindèche, era un gioco destinato ai più gran<strong>di</strong>celli, sia perché<br />
richiedeva forza sia perché l’oggetto lanciato poteva colpire qualcuno e, per precauzione,<br />
i bambini più piccoli venivano allontanati dal campo <strong>di</strong> gioco. Consisteva nel battere<br />
con un bastone un cilindretto <strong>di</strong> legno appuntito alle due estremità e, quando questo<br />
si sollevava da terra, lanciarlo con lo stesso bastone il più lontano possibile.<br />
Il circuito<br />
Si tracciava per terra un percorso tortuoso, sengiòn, lungo il quale si doveva far<br />
avanzare un piccolo oggetto (generalmente grossi bottoni o coperchietti) a colpi <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>ta, facendo scattare l’in<strong>di</strong>ce o il me<strong>di</strong>o contro il pollice. Era un gioco piacevole,<br />
Il gioco della corda.<br />
90
che richiedeva però attenzione e occhio per superare le insi<strong>di</strong>e delle curve e delle<br />
irregolarità del terreno.<br />
La campana<br />
Disegnata con gesso sul pavimento o per terra una scacchiera da due per quattro,<br />
si doveva saltellare da un riquadro all’altro, secondo una successione stabilita,<br />
trascinando col piede una scaglia <strong>di</strong> pietra. Questo gioco (scalone nel Polesine, cìnciaro<br />
nel <strong>Padova</strong>no) poteva avere delle varianti, secondo accor<strong>di</strong> presi via via, come quella<br />
che prevedeva il salto a riquadri sfalsati. Era giocato soprattutto dalle bambine.<br />
Il gioco delle scaglie, in alto, e, in basso, la lippa nota anche come bindèche o pindèche.<br />
91
Affine era il gioco dei quattro cantoni. Si in<strong>di</strong>viduavano (per esempio con delle pietre) i<br />
quattro vertici <strong>di</strong> un quadrangolo, che rappresentavano i punti <strong>di</strong> sicurezza. I giocatori<br />
dovevano correre dall’uno all’altro <strong>di</strong> questi punti, lungo il perimetro o in <strong>di</strong>agonale,<br />
senza essere toccati dal giocatore che si trovava al centro e si lanciava su loro non appena<br />
lasciavano l’angolo sicuro. Quando questi riusciva a “catturare” un giocatore ne prendeva<br />
il posto in un angolo, mentre l’altro <strong>di</strong>ventava il “cacciatore” al centro del quadrato.<br />
Le palline<br />
Era un gioco <strong>di</strong> gruppo fatto con palline <strong>di</strong> terracotta colorata o <strong>di</strong> vetro, baéte. Le<br />
prime le vendevano i merciai, le seconde si ricavavano spaccando le bottiglia <strong>di</strong><br />
gassosa, che aveva una pallina <strong>di</strong> vetro che fungeva da tappo, tenuta in sede dalla<br />
pressione interna. Consisteva nel mandare la propria pallina entro una buchetta<br />
scavata nel terreno, partendo da una linea <strong>di</strong>stante anche venti passi. All’inizio ogni<br />
giocatore deponeva la sua posta (una o due palline) dentro la buca e quello era il<br />
“monte premi”. Chi tentava con un unico lancio <strong>di</strong> centrare la buca e falliva il colpo<br />
perdeva la propria pallina, ma se il tiro era preciso tutte le palline della buca erano<br />
sue. Si poteva anche far avanzare la pallina a piccoli tratti, scoccandola a turno con le<br />
<strong>di</strong>ta: nel procedere verso il bersaglio ogni giocatore poteva “mangiare” le palline degli<br />
altri se le centrava con la sua, ma se falliva il colpo era lui a perderla e in quel caso<br />
doveva rimetterne in gioco una nuova.<br />
Il gioco del circuito.<br />
92
Mosca cieca e nascon<strong>di</strong>no<br />
Due giochi molto <strong>di</strong>ffusi e popolari e probabilmente praticati ancor oggi. Nel primo<br />
caso, un giocatore con gli occhi bendati doveva riconoscere con solo ausilio del tatto<br />
e dell’u<strong>di</strong>to i suoi amici. Nell’altro, un giocatore con gli occhi chiusi contro un muro,<br />
la tana, doveva contare fino ad un numero prefissato mentre i compagni correvano<br />
a nascondersi. Doveva quin<strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare via via il nascon<strong>di</strong>glio <strong>di</strong> ciascuno e<br />
correre ogni volta fino alla tana: toccandola lui prima dell’avversario questo veniva<br />
eliminato, se invece era l’avversario a toccarla per primo <strong>di</strong>ventava libero. Il gioco lo<br />
chiamavamo scondaròla.<br />
Il gioco della campana (scalone nel Ro<strong>di</strong>gino), in alto, e, in basso, il gioco delle palline.<br />
93
La raganella, racoéta<br />
È questa una scatola <strong>di</strong> legno che contiene una ruota dentata sulla quale è premuto un<br />
sottile listello. Un manico all’esterno permette <strong>di</strong> far girare la ruota che, raschiando<br />
sulla lamina, emette un rumore simile ad un graci<strong>di</strong>o. Era uno strumento usato in<br />
chiesa il Venerdì Santo a sostituzione delle campane e dei campanelli, lasciati muti<br />
quel giorno in rispetto della morte <strong>di</strong> Gesù. Ma noi ragazzetti ne abusavamo, facendola<br />
risuonare dappertutto per le strade durante la Settimana Santa.<br />
Il gioco della mosca cieca, in alto, e, in basso, le raganelle racoéte.<br />
94
Passatempi<br />
Era piacevole per me andare in bicicletta alle sagre paesane delle varie località vicine.<br />
Desideravo vedere, in particolare, le corse degli asini mussi, l’albero della cuccagna<br />
ed il gioco delle pignatte.<br />
L’albero della cuccagna era un robusto palo altro circa sei metri, con la superficie<br />
liscia e unta con le cotiche coéghe <strong>di</strong> maiale; sulla sommità era <strong>di</strong>sposto un cerchio<br />
con appesi salami e galline. L’arrampicata era faticosa e problematica perché non si<br />
potevano usare guanti e scarpe. Bisognava toccare il cerchio e riuscire a strapparne<br />
le cibarie appese.<br />
Nel gioco delle pignatte una pertica veniva posta orizzontalmente tra due trespoli ad<br />
un’altezza <strong>di</strong> circa tre metri. Vi si legavano, ben <strong>di</strong>stanziate, delle pignatte <strong>di</strong> terracotta:<br />
una sola conteneva salami o altri commestibili, le altre erano piene <strong>di</strong> acqua. Veniva<br />
estratto a sorte l’or<strong>di</strong>ne dei concorrenti, poi ciascuno veniva bendato e doveva cercare<br />
<strong>di</strong> colpire alla cieca la pignatta giusta. Di solito gli erano concessi due colpi e quello<br />
si dava da fare tra le grida, le risate, i suggerimenti e gli incitamenti del pubblico. Se<br />
colpiva la pignatta sbagliata era una doccia assicurata, se invece centrava quella con<br />
le cibarie, il coor<strong>di</strong>natore provvedeva lui a romperne una con l’acqua sulla sua testa:<br />
qualsiasi fosse l’esito della prova, il giocatore ne usciva sempre bagnato.<br />
Trovavo interessante osservare i voli radenti delle ron<strong>di</strong>ni che portavano gli insetti<br />
ai loro piccoli, ammassati nei ni<strong>di</strong> sotto i tetti, che le aspettavano a bocca aperta,<br />
mettendo in mostra il palato <strong>di</strong> un giallo intenso.<br />
Costruivo volentieri tutto solo degli aquiloni pavéi: incollavo carte colorate per<br />
realizzare lunghe code, usando la solita colla casareccia a base <strong>di</strong> farina.<br />
Mi interessava scoprire dove le galline deponevano le uova, controllando vari mucchi<br />
<strong>di</strong> fieno od altre erbe secche, per portarle poi alla padrona <strong>di</strong> casa. Succedeva talvolta<br />
che la chioccia le avesse covate <strong>di</strong> nascosto e uscisse da quei mucchi col suo seguito<br />
<strong>di</strong> pulcini pigolanti.<br />
Mi incuriosivano: le file delle formiche; le libellule pavéie con le loro ali iridescenti; i<br />
tacchini pitòni e i pavoni che facevano la ruota tra gli altri animali del cortile; i pesci<br />
che guazzavano nei fossi; le rane a fare salti; i girini a girare a tondo nell’acqua; la<br />
furbizia dei gatti nel procurarsi il cibo e la loro cura nel nascondere i piccoli finché<br />
non riuscivano a cavarsela da soli; i cani delle fattorie con cui giocare.<br />
Insomma, quando non mi <strong>di</strong>vertivo con i miei compagni, osservavo con interesse<br />
e attenzione quanto accadeva nei campi, nelle stalle e nelle botteghe artigiane che<br />
formavano il piccolo mondo dove vivevo. Ero il maggiore <strong>di</strong> cinque fratelli, con un<br />
padre impegnato tutto il giorno al mulino e una madre che accu<strong>di</strong>va la casa: io ed i miei<br />
coetanei imparammo presto a provvedere a noi stessi e a procurarci da soli i semplici<br />
mezzi per passare il tempo con sod<strong>di</strong>sfazione, facendo tesoro <strong>di</strong> scarti e ritagli, <strong>di</strong> cose<br />
trovate per caso o, più raramente, acquistate coi nostri risparmi, spesso impegnati in<br />
giochi che non richiedevano altra attrezzatura che un fisico sufficientemente nutrito.<br />
95
Stampa proveniente dalla parrocchia <strong>di</strong> Santa Maria delle Carceri, in provincia <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>.<br />
Secondo il necrologio, lì conservato, San Bellino è morto il 26 novembre 1147.<br />
96
Santo Bellino<br />
La venerazione verso questo Santo<br />
San Bellino è un Santo poco conosciuto al <strong>di</strong> fuori dell’attuale <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Rovigo-Adria.<br />
Ho consultato varie enciclope<strong>di</strong>e sull’argomento, ma nessuna riporta notizie.<br />
Io che ho vissuto cinque anni nel paese che da questo Santo prese il nome, desidero<br />
evidenziare che una volta c’era per San Bellino una sentita e profonda venerazione<br />
<strong>di</strong>ffusa in tutto il Polesine.<br />
Il 26 novembre, festa del Santo, in paese c’era una totale partecipazione sia per le<br />
Sante Messe celebrate in suo onore, sia per baciare una sua reliquia, racchiusa in una<br />
teca d’argento a forma <strong>di</strong> una mano bene<strong>di</strong>cente. L’ultima Messa della giornata era<br />
un solenne pontificale celebrato dal Vescovo, o da un suo delegato, e il coro era formato<br />
dai chierici del seminario. Agli ospiti la parrocchia offriva il pranzo nella sala<br />
superiore della canonica, in quell’occasione io facevo il cameriere. In aggiunta nella<br />
Diocesi tutti i pubblici uffici erano chiusi in omaggio al Santo.<br />
Una volta era viva nel Polesine la tra<strong>di</strong>zione che il Santo fosse il patrono della rabbia<br />
canina; chi era morso da cani, invece <strong>di</strong> ricorrere ai me<strong>di</strong>ci, invocava la bene<strong>di</strong>zione<br />
con la reliquia <strong>di</strong> San Bellino. Oggi forse questa tra<strong>di</strong>zione si sarà affievolita perché la<br />
me<strong>di</strong>cina ora dà rime<strong>di</strong> sicuri, ma una volta mancando sieri e vaccini, così molti ricorrevano<br />
all’intercessione del Santo. È successo anche a me. Quando abitavo a Costa<br />
<strong>di</strong> Rovigo, fui morso alla mano da un cane lupo. Il me<strong>di</strong>co <strong>di</strong>sse ai miei genitori che<br />
per avere la certezza che io non fossi stato contagiato dalla rabbia, bisognava portare<br />
a Bologna la testa del cane e attendere almeno un mese per il responso. Fu così che i<br />
miei genitori, consigliati dai vicini, mi portarono a San Bellino per una bene<strong>di</strong>zione.<br />
Quando io abitavo in quel paese fui chierichetto nella chiesa parrocchiale, così ebbi<br />
modo <strong>di</strong> vedere <strong>di</strong> tanto in tanto persone che chiedevano una grazia a San Bellino, o<br />
che lo volevano ringraziare. Tra queste ricordo l’arrivo inaspettato del Vescovo <strong>di</strong> <strong>Padova</strong><br />
Elia Dalla Costa che, nel ‘33 o ‘34, fu nominato car<strong>di</strong>nale e vescovo <strong>di</strong> Firenze.<br />
Disse <strong>di</strong> voler pregare sulla tomba <strong>di</strong> un suo illustre predecessore; quella volta le campane<br />
suonarono a lungo. Infine ogni anno nel periodo estivo vi era il pellegrinaggio<br />
del popolo <strong>di</strong> Gognano <strong>di</strong> Villamarzana per sod<strong>di</strong>sfare un antico voto.<br />
La sua storia<br />
Prima <strong>di</strong> terminare i miei ricor<strong>di</strong> desidero parlare della storia <strong>di</strong> San Bellino della<br />
quale mi sono sempre interessato.<br />
Dalla storiografia documentata riporto le notizie del canonico Antonio Barzon il<br />
quale nel 1947 <strong>di</strong>ede alle stampe, presso la tipografia Antoniana <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, il libro<br />
“San Bellino, Vescovo e Martire”.<br />
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Bellino, nato nel 1077, era il quarto figlio della famiglia padovana dei Bertal<strong>di</strong> sembra<br />
<strong>di</strong> antica origine germanica. Erano quegli anni pieni <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> turbolenze cagionate<br />
dalle lotte per le investiture, dalle intromissioni nella gestione della chiesa fatte<br />
dall’imperatore del Sacro Romano Impero e dai feudatari locali a lui asserviti.<br />
Bellino fu prete, canonico e arciprete della cattedrale <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, essendo vescovo<br />
Sinibaldo, e lottò sempre contro i soprusi, le ingiustizie e gli scismatici. Questi ultimi<br />
erano clero e signorotti che, per avere prebende dall’imperatore, ricusavano l’autorità<br />
del Vescovo unito al Papa. In una <strong>di</strong> queste controversie gli scismatici riuscirono<br />
a cacciare da <strong>Padova</strong> il Vescovo Sinibaldo che dovette rifugiarsi a Este. Da quel<br />
momento l’arciprete Bellino fu il più valido aiuto del Vescovo, tanto che con ferma<br />
volontà riuscì a riportarlo nella sua sede <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>. Nel 1123 Bellino assieme al suo<br />
Vescovo Sinibaldo fu a Roma, dal Papa Callisto II, che arricchì la <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> <strong>Padova</strong><br />
con privilegi assoggettando all’autorità vescovile monasteri e priorati che prima non<br />
<strong>di</strong>pendevano dal Vescovo.<br />
Morto Sinibaldo nel 1125, Bellino raccolse la complessa ere<strong>di</strong>tà. La sua elezione a<br />
vescovo si svolse in un ambiente sereno e con voto unanime del popolo e del clero. Nel<br />
ventennio del suo episcopato <strong>di</strong>ede sistemazione definitiva alle chiese, vecchie e nuove,<br />
Ex voto del 1876 esistente nella parrocchiale. San Bellino era venerato come protettore della<br />
rabbia dei cani perché la sua urna <strong>di</strong> legno, sepolta dalla inondazione del Po del 1770, fu<br />
ritrovata dopo trent’anni dai cani <strong>di</strong> un cacciatore.<br />
98
a<strong>di</strong>bendo per esse uno o più sacerdoti perché provvedessero alla cura delle anime.<br />
In <strong>Padova</strong> vi erano allora ricche famiglie che spadroneggiavano sia nell’appropriarsi<br />
dei benefici delle chiese, sia nel vessare il popolo soprattutto del contado. C’erano<br />
i servi della gleba che erano comperati o venduti assieme ai terreni e agli armenti,<br />
perciò i signori erano anche padroni delle persone, e questo uso li portava a fare<br />
angherie d’ogni genere. In quel tempo vi fu a <strong>Padova</strong> un secondo Vescovo nominato<br />
dall’imperatore del Sacro Romano Impero e perciò scismatico. Era Milone che, avendo<br />
ottenuto in dono dall’imperatore la città <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, cercava <strong>di</strong> sopraffare Bellino<br />
vescovo unito al Papa. Il problema, però, che soprattutto angustiava Bellino era <strong>di</strong><br />
avere nella <strong>di</strong>ocesi parecchie chiese, con relativo clero, che non <strong>di</strong>pendevano dal Vescovo,<br />
ma dal priore del convento della Vanga<strong>di</strong>zza – oggi Ba<strong>di</strong>a Polesine –, mentre<br />
la popolazione era sotto la giuris<strong>di</strong>zione pastorale <strong>di</strong> Bellino. Per questo motivo il<br />
vescovo Bellino non poteva visitare quelle chiese e influenzare sull’attività del clero<br />
che spesso provvedeva alla cura d’anime in modo negligente. Nel groviglio <strong>di</strong> questa<br />
situazione il Vescovo Bellino ritenne utile ottenere l’aiuto <strong>di</strong> una autorità superiore.<br />
Ipotesi e tra<strong>di</strong>zioni del Santo<br />
Il primo biografo <strong>di</strong> Bellino fu il Vescovo <strong>di</strong> Adria Bonagiunta che nel 1288 scrisse la<br />
vita del Santo ucciso dai sicari nei pressi <strong>di</strong> Fratta – ora Fratta Polesine – località che<br />
faceva parte anche allora della <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Adria. A lui spetta il merito <strong>di</strong> aver approvato<br />
e <strong>di</strong>ffuso il culto <strong>di</strong> Bellino. Mancando <strong>di</strong> documentazioni certe, fece però alcuni<br />
Antica stampa con la ricostruzione ideale <strong>di</strong> come poteva essere l’Abba<strong>di</strong>a della Vanga<strong>di</strong>zza,<br />
ora Ba<strong>di</strong>a Polesine. L’abate <strong>di</strong> questo centro religioso governava nei secoli XI – XIII un grande<br />
territorio che arrivava fino a Monselice. Ora vi sono pochi ruderi.<br />
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errori e della confusione, corretti poi dagli stu<strong>di</strong>osi. Quel Vescovo, convinto della<br />
grandezza morale e della santità <strong>di</strong> Bellino riuscì a farlo proclamare, per decreto del<br />
Papa e volere del popolo, “Patrono principalissimo <strong>di</strong> tutta la <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Adria” come<br />
lo è ancora oggi.<br />
Il Bonagiunta non fu il primo a proclamare Santo il Vescovo Bellino, perché già<br />
precedentemente nel 1210 il Vescovo <strong>di</strong> Adria Rolando della nobile famiglia padovana<br />
degli Zabarella, aveva riconosciuta la venerazione pubblica verso Bellino<br />
ed esortato il popolo ad onorarlo come un Santo, “il cui culto Id<strong>di</strong>o confermava<br />
col dono del miracolo”. Il Bonagiunta scrisse anche che alla fine <strong>di</strong> novembre del<br />
1151 nei pressi <strong>di</strong> Fratta, allora crocevia <strong>di</strong> varie strade tra cui una per Roma, Bellino<br />
fu ucciso da sicari mentre con pochi compagni stava recandosi a Roma per<br />
chiedere aiuto al Papa. A questo proposito il Barzon invece scrive che è improbabile<br />
che Bellino si avventurasse ad affrontare a pie<strong>di</strong> con pochi compagni, un<br />
lungo viaggio fino a Roma nel periodo invernale, così ipotizza un´altra soluzione.<br />
Ritiene inoltre che l’anno dell’uccisione non poteva essere il 1151 bensì il 1147.<br />
Infatti dei documenti precisano che il 23 novembre 1147 Bellino sottoscrisse a<br />
<strong>Padova</strong> un atto <strong>di</strong> donazione a dei canonici, mentre il 24 luglio del 1148 il Vescovo<br />
Cacio successore <strong>di</strong> Bellino, concesse un’investitura feudale come vescovo <strong>di</strong><br />
<strong>Padova</strong>. Il Barzon ipotizza così che Bellino, con poca scorta, nei giorni 24, 25 e<br />
26 novembre 1147 fosse arrivato fino a Fratta per prendere la strada <strong>di</strong>retta che,<br />
fra canneti e boscaglie, arrivava alla Ba<strong>di</strong>a della Vanga<strong>di</strong>zza. Ritiene poi che Bellino<br />
volesse risolvere una volta per tutte il grosso problema delle numerose chiese<br />
della <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, che erano sotto la giuris<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> questa abbazia perché<br />
costruite su terreni da essa posseduti, e delle quali il priore eleggeva anche i parroci,<br />
nonostante i fedeli fossero sotto l’autorità <strong>di</strong> Bellino. In quella zona <strong>di</strong>sabitata<br />
e sperduta sarebbe stato ucciso da sicari il giorno 26 novembre 1147, giorno, ma<br />
non l’anno, registrato anche nel necrologio del Monastero <strong>di</strong> Santa Maria delle<br />
Carceri (<strong>Padova</strong>).<br />
Le spoglie mortali del Vescovo furono subito raccolte dalla pietà del popolo, che<br />
provvide a seppellirle nella vicina chiesetta <strong>di</strong> S. Giacomo presso Fratta. Subito il popolo<br />
parlò <strong>di</strong> Bellino Martire e Santo.<br />
Ai miei tempi, nei primi anni 1930, vicino a Fratta c’era una casa bassa con muratura<br />
spessa che la tra<strong>di</strong>zione in<strong>di</strong>cava come un’abitazione costruita sulle fondamenta della<br />
vecchia chiesetta <strong>di</strong> S. Giacomo.<br />
Andrea Favoschi nel suo manoscritto latino, custo<strong>di</strong>to ora nel seminario <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>,<br />
in cui parla delle famiglie padovane, accusa quale mandante del delitto Tommaso <strong>di</strong><br />
Capo<strong>di</strong>vacca, famiglia detta anche Para<strong>di</strong>si o Capineri. Questi era stato condannato<br />
dai giu<strong>di</strong>ci a restituire al Vescovo Bellino le decime che aveva usurpato precedentemente,<br />
cosa che non voleva fare, perciò pensò <strong>di</strong> eliminare Bellino che lo aveva<br />
chiamato in giu<strong>di</strong>zio.<br />
100
Nel 1170 il Po straripò e le acque si riversarono su buona parte del Polesine, Fratta<br />
compresa, trasformando tutto in laguna.<br />
La chiesetta <strong>di</strong> San Giacomo e l’urna <strong>di</strong> San Bellino scomparvero alla vista dei sopravvissuti.<br />
Ma verso l’anno 1200 le acque lentamente si ritirarono e riaffiorarono le<br />
rovine della chiesetta, ma non l’urna.<br />
Una tra<strong>di</strong>zione locale che mi fu ripetuta tante volte, racconta che l’urna fu riportata<br />
in luce dai cani. Subito i pii abitanti del luogo, memori <strong>di</strong> quanto era successo<br />
trent’anni prima, posero l’arca su un carro agricolo trainato dai buoi per portare il<br />
sarcofago a Fratta, il paese più vicino. Ma i buoi non vollero partire. Lasciati liberi<br />
essi si <strong>di</strong>ressero spontaneamente verso S. Martino <strong>di</strong> Variano, <strong>di</strong>stante circa cinque<br />
chilometri. Lungo la strada si fermarono due volte e in quei luoghi <strong>di</strong> sosta oggi ci<br />
sono due capitelli a ricordo del fatto che i pungoli del bovaro là piantati, ogni volta<br />
fiorirono. Arrivati davanti alla chiesa <strong>di</strong> San Martino <strong>di</strong> Variano i buoi si fermarono<br />
per la terza volta e non vollero più ripartire. Cosi l’arca <strong>di</strong> San Bellino fu posta in<br />
quella chiesa. Anche questa volta il pungolo del bovaro fiorì e ora a ricordo c’e una<br />
piastrella <strong>di</strong> marmo.<br />
A sinistra. Una delle due cappelline che ricordano le fermate dei buoi quando nel XII secolo<br />
l’urna <strong>di</strong> legno fu portata nel paese <strong>di</strong> San Martino <strong>di</strong> Variano. In quella occasione, si tramanda,<br />
che i pungoli abbiano fiorito. I buoi si fermarono definitivamente per la terza volta davanti alla<br />
chiesa che prima aveva la facciata rivolta rispetto a quella attuale.<br />
A destra. Urna del Santo del XVII secolo che ingloba quella <strong>di</strong> legno della prima sepoltura del<br />
secolo XIII è nel retro dell’altare maggiore.<br />
101
Il paese e la chiesa del Santo<br />
Trasportato il corpo <strong>di</strong> San Bellino nella chiesa <strong>di</strong> San Martino <strong>di</strong> Variano, da subito<br />
quegli abitanti iniziarono a venerarlo in modo solenne, tanto che, a furor <strong>di</strong> popolo,<br />
vollero che il loro paese cambiasse nome in San Bellino.<br />
Il Barzon non parla della chiesa, ma la tra<strong>di</strong>zione e altri libri <strong>di</strong> storia locale <strong>di</strong>cono<br />
che, prima della traslazione delle spoglie <strong>di</strong> Bellino, la facciata della chiesa <strong>di</strong> San<br />
Martino <strong>di</strong> Variano era dalla parte opposta a quella oggi esistente. Infatti nel presente<br />
presbiterio c’è la tessera <strong>di</strong> marmo, già richiamata, che segna dove si è fermato il carro<br />
ed è ora proprio davanti all’altare maggiore.<br />
Di certo si sa che nel XV secolo la parrocchia perse una gran parte del suo territorio<br />
e che il paese si ridusse a una piccola località. Nel 1487 Giovanni Marcello, nobile<br />
veneziano pretore <strong>di</strong> Rovigo, visitò la chiesa <strong>di</strong> San Bellino e la trovò spoglia e trascurata,<br />
come relazionò al doge <strong>di</strong> Venezia Agostino Barbarigo. Questi intervenne<br />
d’autorità e, prendendo a cuore le sorti del santuario, decretò l’istituzione <strong>di</strong> una amministrazione<br />
che provvedesse ai bisogni della chiesa.<br />
Del 1544 c’è la relazione del Vescovo Bartolomeo Zerbinati in cui si precisa che la<br />
chiesa aveva la facciata rivolta a sud e che era a tre navate, cioè pressappoco come<br />
l’attuale, e continuava <strong>di</strong>cendo che nella navata a destra c’era l’altare <strong>di</strong> San Bellino,<br />
con l’urna posta a fianco, coperta da un panno rosso, mentre l’altare maggiore era de<strong>di</strong>cato<br />
a San Martino, il primo santo venerato in quel paese. Da un verbale <strong>di</strong>ocesano<br />
del 1603 risulta poi che il tempio aveva le colonne delle tre navate deteriorate e che<br />
dovevano essere sostituite, veniva precisato pure che gli abitanti erano 500. Fu così<br />
che negli anni 1647 – 49 la chiesa fu rifatta dalle fondamenta, con l’aiuto <strong>di</strong> tutta la<br />
popolazione, dandole l’impronta della tra<strong>di</strong>zione veneta.<br />
La nobile Giulia Arcostis ved. Guarini, assieme al figlio Giuseppe, fece invece erigere<br />
la cappella <strong>di</strong>etro l’altare maggiore, ponendovi un’arca marmorea e inglobandovi<br />
quella più modesta <strong>di</strong> legno. Nei secoli successivi, specie nel settecento, la chiesa fu<br />
impreziosita con statue, pale d’altare e arre<strong>di</strong> sacri.<br />
Il campanile, pur del ‘500, è in stile romanico.<br />
La prima ricognizione della salma <strong>di</strong> San Bellino fu fatta il 24 aprile 1863 e furono<br />
trovate le reliquie “immerse nel fango secco”, segno evidente dei trent’anni passati<br />
dalla vecchia urna fra acquitrini e canneti.<br />
102
In alto a sinistra. Al tempo <strong>di</strong> Bellino i conti <strong>di</strong> Baone d’Este<br />
erano feudatari del Vescovo, per questo nella cappella <strong>di</strong><br />
Ca’Borini <strong>di</strong> Baone fu esposta questa tela. Si vedono San Bellino<br />
con la Madonna, il Bambino Gesù e dei Santi. Una strada<br />
pedemontana <strong>di</strong> Monselice che porta a Baone è ancora oggi<br />
chiamata “Argine del Vescovo” perché attraversava delle palu<strong>di</strong><br />
e perché era usata dai Vescovi <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> quando visitavano i<br />
loro Vassalli <strong>di</strong> Baone.<br />
In alto a destra. Ceregnano (in provincia <strong>di</strong> Rovigo, a pochi<br />
chilometri da San Bellino). La statua <strong>di</strong> San Bellino che orna la<br />
nicchia <strong>di</strong> sinistra della facciata della chiesa parrocchiale <strong>di</strong> San<br />
Martino vescovo.<br />
A fianco. Reliquiario <strong>di</strong> San Bellino, il quale veniva baciato<br />
da chi, morsicato dai cani, temeva <strong>di</strong> contrarre la rabbia, una<br />
malattia infettiva acuta.<br />
103
I mulini con macine<br />
Vissi la mia fanciullezza a Costa <strong>di</strong> Rovigo, in un mulino a macine, condotto da mio<br />
padre Giacomo e da zio Giacinto. Era un mulino funzionante con un grande e nero<br />
motore a vapore alimentato dal gas povero.<br />
La mia giovinezza la trascorsi invece in altri paesi, ove c’erano sempre le stesse macine<br />
<strong>di</strong> pietra ma fatte girare da motori elettrici e gestiti solamente da mio padre.<br />
Considerato che i motori a gas povero e le macine <strong>di</strong> pietra si trovano ora solo nei<br />
musei e dato che ho ancora ben presenti nella mia memoria i vari congegni e quel<br />
motore, che io da bambino consideravo un mostro, desidero descrivere, a futura memoria,<br />
il mulino della mia fanciullezza. Non tanto tecnicamente, ché quelle informazioni<br />
le si trova sui libri, ma in modo rievocativo, per illustrare come si ottenevano le<br />
farine dai cereali quasi un secolo fa.<br />
104<br />
Schizzo<br />
planimetrico<br />
relativo al<br />
fabbricato <strong>di</strong> un<br />
solo piano, sito a<br />
Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />
via Scardona.<br />
Erano gli anni<br />
1920-1930<br />
e vi erano:<br />
mulino, locale<br />
motore, tettoia<br />
per il focolare,<br />
carbonaia per<br />
l’antracite,<br />
ripostiglio per<br />
sacchi vuoti o<br />
pieni <strong>di</strong> cereali.
Il fornello<br />
Era un grande camino che serviva per riscaldare un grosso bidone riempito <strong>di</strong> carbon<br />
fossile. Tutti chiamavano quel braciere fornèla, posto all’esterno sotto una tettoia<br />
per sicurezza. Prima <strong>di</strong> accendere il fuoco si doveva riempire <strong>di</strong> carbone il bidone a<br />
tenuta stagna, posto orizzontalmente sopra il fuoco. Nel focolare venivano bruciati<br />
legna e carbone già sfruttato per ottenere gas, che chiamavano cok.<br />
Il gasogeno<br />
Quel bidone pieno <strong>di</strong> carbone minerale era il gasogeno, cioè il generatore <strong>di</strong> gas. Mio<br />
padre <strong>di</strong>ceva che il miglior carbone da <strong>di</strong>stillare per ottenere gas, era l’antracite inglese<br />
proveniente da Car<strong>di</strong>ff, in Inghilterra. Il carbone surriscaldato produceva una<br />
miscela <strong>di</strong> gas, in prevalenza metano, che passava attraverso una valvola <strong>di</strong> tenuta e<br />
un tubo in un recipiente particolare per il deposito.<br />
Il gasometro<br />
Il gas prodotto arrivava in un contenitore chiamato gasometro, cioè misuratore <strong>di</strong><br />
gas. Questo meccanismo era all’interno dello stanzone, proprio vicino al motore, ed<br />
era formato da una campana posta in una vasca d’acqua. La campana saliva e scendeva<br />
a seconda della quantità del gas prodotto e <strong>di</strong> quanto ne veniva usato. Quando il<br />
gas era al limite minimo, una valvola <strong>di</strong> controllo della pressione fischiava per attirare<br />
l’attenzione del mugnaio che subito accorreva per ravvivare il fuoco in modo che la<br />
produzione <strong>di</strong> gas salisse.<br />
Il motore a gas povero<br />
Era un macchinario possente che aveva ai fianchi due gran<strong>di</strong> ruote, i cui <strong>di</strong>ametri<br />
erano parecchio più gran<strong>di</strong> della statura <strong>di</strong> mio padre; oggi stimo fossero due<br />
metri e mezzo. Servivano per l’avviamento. Mio padre e mio zio Giacinto, persone<br />
robuste, dovevano far leva con tutte le loro forze sui raggi delle due ruote;<br />
quando il motore era avviato le ruote venivano messe in folle, cioè venivano<br />
staccate dagli organi rotanti. Erano così pesanti e ingombranti che, quando il<br />
motore è stato smontato, le hanno tagliate con la fiamma ad acetilene in quattro<br />
parti per farle passare dalla porta. Il motore era un grande tubo orizzontale nel<br />
cui interno c’era la camera <strong>di</strong> scoppio che azionava grossi pistoni accoppiati con<br />
gran<strong>di</strong> bielle. Ricordo che io usavo per giocare i cerchi smessi dei pistoni, quelli<br />
che chiamavano fasce le fasse, che servivano per chiudere bene le camere a cilindro<br />
ove scorrevano i pistoni. Come ho già raccontato nel capitolo de<strong>di</strong>cato<br />
ai giochi, era allora in uso per noi bambini correre per sentieri e strade facendo<br />
rotolare un cerchio <strong>di</strong> ferro: gli altri usavano i cerchi ricavati dall’orlo superiore<br />
dei paioli, io invece usavo i cerchi dei pistoni.<br />
Ebbi una chiara idea dell’uso <strong>di</strong> quel gas quando, nel periodo dell’autarchia fascista,<br />
105
vi<strong>di</strong> dei gran<strong>di</strong> fornelli cilindrici posti sulle pedane dei camion, che producevano il<br />
gas necessario per la trazione, erano dei piccoli gasogeni e gasometri.<br />
Quando il grande motore si rompeva, il lavoro <strong>di</strong> aggiustaggio era lungo e faticoso<br />
perché bisognava spostare pezzi pesanti. Era anche molto su<strong>di</strong>cio perché si lavorava<br />
in mezzo al grasso necessario per la lubrificazione. Mio padre e lo zio vestivano allora<br />
una tuta <strong>di</strong> fustagno scuro la cui giacchetta era simile a quelle che poi, più tar<strong>di</strong>, vi<strong>di</strong><br />
indossata da Stalin e da Mao. A lavoro finito erano due maschere nere; mia madre,<br />
poverina, doveva lavare le tute e prepararle per future rotture.<br />
Il motore lavorava a perio<strong>di</strong> saltuari perché, quando partiva, andava continuativamente<br />
notte e giorno, fino a macinare le scorte <strong>di</strong> frumento e granone ammassate e<br />
portate dai clienti quando il motore era fermo. Poi si attendeva un altro ammasso <strong>di</strong><br />
cereali in attesa <strong>di</strong> riprendere il lavoro. Questo sistema veniva usato perché l’avviamento<br />
del motore era così lungo, <strong>di</strong>fficile e faticoso che non si poteva fare altrimenti<br />
per risparmiare fatica. Ricordo che mio padre mi <strong>di</strong>sse più volte che il motore, durante<br />
la prima guerra mon<strong>di</strong>ale, fu usato per qualche tempo per produrre l’energia elettrica<br />
che serviva come illuminazione pubblica nel centro del paese. In quella occasione<br />
il motore faceva girare le <strong>di</strong>namo per la produzione dell’elettricità che subito veniva<br />
immagazzinata nei condensatori, per <strong>di</strong>stribuirla poi in modo uniforme anche quando,<br />
in via saltuaria, il motore veniva fermato. Quando arrivammo a Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />
non trovammo le <strong>di</strong>namo, però in un ripostiglio c’erano ben accatastati dei gran<strong>di</strong> e<br />
robusti vasi <strong>di</strong> vetro. Mio padre mi <strong>di</strong>sse che servivano per i condensatori. Mia madre<br />
invece usò quei vasi per mettere sotto unto o sotto cenere, salami e pezzi d’oca.<br />
L’asse orizzontale <strong>di</strong> trasmissione<br />
Era un asse molto lungo che collegava le tre coppie <strong>di</strong> macine poste nel mulino, con<br />
la puleggia <strong>di</strong> trasmissione, situata nello stanzone ove c’era il motore. Data la sua lunghezza<br />
era sostenuto da cinque bronzine, fissate con gambe sul pavimento. Le bronzine<br />
erano cuscinetti antifrizione, formate da due lastre semicircolari in bronzo, che<br />
avevano rigature profonde per contenere il grasso minerale lubrificante. Erano poste<br />
in scatole stagne <strong>di</strong> ghisa a <strong>di</strong>fesa dalla polvere. Nell’incontro tra l’asse orizzontale<br />
e i tre verticali delle macine c’erano gli ingranaggi dentati che giravano a vista, cioè<br />
senza alcun riparo.<br />
Gli ingranaggi<br />
Ogni ingranaggio era formato da due ruote <strong>di</strong> ghisa, con denti <strong>di</strong> legno duro, una<br />
orizzontale e l’altra verticale. Ingranandosi tra loro trasmettevano il movimento rotatorio<br />
dell’asse orizzontale a quello verticale. Le ruote <strong>di</strong> ghisa avevano un <strong>di</strong>ametro<br />
come l’altezza <strong>di</strong> un foglio <strong>di</strong> giornale e nella circonferenza avevano dei fori rettangolari,<br />
per fissarvi i denti <strong>di</strong> legno posti a una <strong>di</strong>stanza prestabilita e costante. Le due<br />
ruote dell’ingranaggio avevano anche, nella circonferenza esterna, una accentuata<br />
106
Costa <strong>di</strong> Rovigo, via Scardona. Schizzo dell’asse <strong>di</strong> trasmissione lungo una decina <strong>di</strong> metri e sostenuto<br />
da bronzine. Da destra puleggia collegata con cinghione al motore, numero tre ruote verticali <strong>di</strong> ghisa<br />
del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa 70 centimetri completate da denti <strong>di</strong> legno infissi in apposite se<strong>di</strong>.<br />
Schizzo relativo al movimento delle due ruote <strong>di</strong> ghisa, con denti in legno, che formavano l’ingranaggio<br />
in modo che la rotazione orizzontale si trasformasse in verticale per fare girare la macina.<br />
In basso a sinistra: schizzi dei tre tipi <strong>di</strong> martelli necessari per rifare, sulle pietre delle macine,<br />
orizzontalità, scanalatura e tacche. Questi lavori venivano fatti circa ogni sei settimane. I denti o il filo<br />
dei martelli venivano rifatti subito dopo l’uso.<br />
Schizzi dei denti <strong>di</strong><br />
legno che venivano<br />
infilati con martello<br />
nelle apposite tasche<br />
delle due ruote<br />
<strong>di</strong> ghisa. La parte<br />
esterna era tronco<br />
piramidale a base<br />
rettangolare e sporgeva<br />
per circa tre centimetri.<br />
107
svasatura contrapposta, necessaria perché le parti sagomate dei denti che fuoriuscivano<br />
dalle ruote dovevano incontrarsi fra loro senza alcuna <strong>di</strong>fficoltà.<br />
Quando dei denti si rompevano negli strappi <strong>di</strong> partenza, venivano rapidamente sostituiti<br />
con altri che erano stati preparati nel tempo libero. Era possibile fare spe<strong>di</strong>tamente<br />
questo lavoro sia perché il volano del motore poteva essere messo in folle<br />
(lo stesso si faceva quando si rompeva il cinghione), sia perché la ruota orizzontale<br />
dell’ingranaggio poteva essere sollevata con una leva a scrocco, mettendo in folle<br />
anche le macine.<br />
Mio padre mi spiegò che, se l’ingranaggio fosse stato fatto tutto <strong>di</strong> ghisa, vi sarebbe<br />
stato un rumore infernale perché i denti non potevano essere lubrificati. E ancora, se<br />
con gli strappi si fossero rotti dei denti <strong>di</strong> ghisa si doveva sostituire tutto l’ingranaggio,<br />
con enorme spesa <strong>di</strong> tempo e denaro.<br />
Il cinghione<br />
Era una lunga e pesante striscia <strong>di</strong> cuoio. La sua lunghezza totale era forse <strong>di</strong> una<br />
dozzina <strong>di</strong> metri, la larghezza invece come un mio quaderno <strong>di</strong> scuola. Era annerito<br />
per il suo lungo uso e si rompeva con facilità. Mio padre aveva tutto l’occorrente per<br />
l’aggiustaggio che poteva protrarsi per qualche ora. Conservava per la bisogna dei<br />
pezzi <strong>di</strong> cinghione nuovi e vecchi, delle robuste strisce gialle <strong>di</strong> cuoio, i cinghioli,<br />
una grossa lesina a spatola con doppio taglio e un trincetto da calzolaio. Con questo<br />
ultimo assottigliava il cuoio ove si dovevano sovrapporre le parti per la cucitura, poi<br />
con la lesina faceva una dozzina <strong>di</strong> fori ove infilava su e giù i cinghioli, facendo poi<br />
quattro cuciture per ogni giunto. Il cinghione serviva a collegare il volano, che girava<br />
sulla testata del motore, lontana dalla camera <strong>di</strong> scoppio, con una robusta puleggia<br />
posta all’inizio del lungo asse orizzontale <strong>di</strong> trasmissione.<br />
L’elettricità sostituisce il gas povero<br />
Nel 1927 quando mio padre eliminò il motore a gas povero, lo sostituì con un altro<br />
elettrico e da allora in poi lavorò sempre con motori elettrici. Solamente le macine e<br />
gli accessori rimasero gli stessi. Evidentemente questi ultimi formavano un sistema<br />
collaudato da moltissimi anni <strong>di</strong> esperienze.<br />
I motori elettrici erano semplici, como<strong>di</strong>, silenziosi. A Costa <strong>di</strong> Rovigo nel locale<br />
prima usato per il motore a gas povero, ne fu posto uno molto più piccolo, ma<br />
capace <strong>di</strong> muovere contemporaneamente le tre coppie <strong>di</strong> macine e altro macchinario<br />
accessorio che fu subito aggiunto. Per primo fu posto in opera un lungo<br />
assale più sottile del precedente, che girava su cuscinetti a sfere lubrificati da ingrassatori<br />
a vite che davano garanzie <strong>di</strong> efficienza Contemporaneamente furono<br />
cambiati i gran<strong>di</strong> ingranaggi con ruote <strong>di</strong> ghisa e denti <strong>di</strong> legno, e al loro posto<br />
furono messi tre vasi metallici a chiusura stagna che contenevano ingranaggi<br />
metallici che giravano entro olio minerale.<br />
108
Per avviare il motore venivano usati degli interruttori a coltello posti su un quadro<br />
<strong>di</strong> marmo bianco. Sopra vi erano le scatole dei contatori. Accesa la corrente questa,<br />
prima <strong>di</strong> arrivare al motore, passava per un cilindro chiuso nelle teste perché pieno<br />
<strong>di</strong> olio. Era il reostato che, manovrando una ruota superiore, eliminava gli strappi,<br />
regolando la velocità iniziale del motore, portandola gradualmente da lenta a quella<br />
necessaria per la macinazione. Furono aggiunti poi due elevatori a tazze i fachini, per<br />
eliminare il riempimento a mano delle tramogge, poste sopra le macine. A fianco<br />
fu installato un vaglio <strong>di</strong> recupero burato, che però chiamavano plansista, probabilmente<br />
dall’inglese. Con questo sistema si sarebbe dovuto eliminare la setacciatura a<br />
mano delle farine, ma il macchinario non <strong>di</strong>ede buoni risultati e fu eliminato Tutti<br />
gli accessori si muovevano a mezzo <strong>di</strong> pulegge che potevano essere messe in folle,<br />
per cui si <strong>di</strong>stribuivano le varie lavorazioni senza che vi fosse la necessità <strong>di</strong> far girare<br />
contemporaneamente tutti i macchinari.<br />
Ricordo ancora quando mio padre e lo zio hanno assemblato con un lavoro in economia<br />
i vari pezzi degli elevatori. Le trombe verticali, le tramogge <strong>di</strong> base e le canalette<br />
<strong>di</strong> raccordo furono costruite dal falegname Giusfin che abitava vicino a noi. Le tazze<br />
<strong>di</strong> sollevamento furono fatte invece da zio Giacinto ritagliandole, una ad una, da lastre<br />
<strong>di</strong> lamiera zincata e poi ripiegando i lembi per ottenere una scodella. Mio padre<br />
provvide gli assi, le pulegge e le fasce <strong>di</strong> canapa per fissarvi le tazze. Queste girando<br />
si riempivano nelle tramogge <strong>di</strong> base piene <strong>di</strong> cereali andando poi a scaricarsi nelle<br />
tramogge poste sopra le macine, quando iniziavano il percorso <strong>di</strong> ritorno.<br />
I palmenti<br />
Ogni palmento era l’insieme <strong>di</strong> due macine sovrapposte Esse erano protette da un<br />
tamburo perché le farine non si <strong>di</strong>sperdessero durante la lavorazione. Sopra <strong>di</strong> questo<br />
c’era una tramoggia per contenere i cereali, posti là dal mugnaio o dagli elevatori,<br />
per essere macinati; sotto la tramoggia invece c’era una guantiera che serviva per il<br />
dosaggio, lento ma continuo dei chicchi.<br />
Tutte queste attrezzature che formavano il palmento erano supportate da un impalcato.<br />
A Costa <strong>di</strong> Rovigo vi erano tre palmenti: uno per farina <strong>di</strong> frumento, uno per<br />
farina <strong>di</strong> granturco e uno per spezzettare i chicchi, le spezanéle.<br />
L’impalcato<br />
Era una struttura in legno, con l’impiantito <strong>di</strong> calpestio sopraelevato, che sosteneva<br />
l’occorrente per la macinazione. Quelli che ho visto erano costruiti con travi e tavole<br />
<strong>di</strong> legno piallato, ben controventati per reggere sia il peso statico delle macine sia le<br />
vibrazioni <strong>di</strong>namiche della rotazione. Il colore era invariabilmente sul marroncino<br />
chiaro, colore caratteristico del legno vecchio. La sopraelevazione del piano <strong>di</strong> lavoro,<br />
che oggi stimo <strong>di</strong> circa un metro, era dovuta al fatto che sotto vi erano gli ingranaggi<br />
e tutto il necessario per far girare, abbassare o rialzare le macine rotanti.<br />
109
I palmenti erano serviti da scalette per salire sul piano <strong>di</strong> lavoro. Fin quando fui<br />
bambino mio padre mi proibì <strong>di</strong> salire sulle scalette perché era molto pericoloso in<br />
quanto mancavano protezioni. L’impalcato era completato da alcune travature, poste<br />
a soffitto, che servivano per sostenere delle gru sempre <strong>di</strong> legno, pre<strong>di</strong>sposte per togliere<br />
o porre in opera le macine.<br />
Le macine <strong>di</strong> pietra<br />
Le macine màsene erano <strong>di</strong>schi pesanti con un <strong>di</strong>ametro che oggi stimo <strong>di</strong> circa metri<br />
1.60, uno spessore attorno ai 25 centimetri e un foro centrale del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa<br />
25 centimetri. Ogni macina aveva una faccia <strong>di</strong> pietra e l’altra con intonaco. La pietra<br />
doveva avere una cristallizzazione particolare che permettesse <strong>di</strong> essere facilmente<br />
battuta dalla martellina del mugnaio, senza sfaldarsi, e nel contempo mantenere a<br />
lungo la zigrinatura che veniva fatta. La pietra non era un unico blocco, ma erano<br />
lastre <strong>di</strong> grosso spessore ben combacianti, tenute assieme da un conglomerato <strong>di</strong> calce<br />
e da due robusti cerchioni in ferro, uno posto sul bordo inferiore e uno su quello<br />
superiore. Mio padre <strong>di</strong>ceva che le migliori macine erano le francesi che chiamava<br />
“les fertes” (almeno penso che si scriva così). Tutte le macine avevano dei solchi a<br />
raggiera, mi pare otto, meno gran<strong>di</strong> al centro e sempre più larghi e profon<strong>di</strong> verso la<br />
circonferenza, servivano per sparpagliare i cereali da macinare e far convogliare alla<br />
periferia le farine ottenute. Le macine lavoravano in coppia, pietra contro pietra; tra<br />
loro però dovevano esserci sempre cereali o farine, perché altrimenti si sfregavano,<br />
si surriscaldavano e si rovinavano le zigrinature, cioè quei dentini che servivano per<br />
ridurre in polvere i cerali.<br />
I fori centrali delle macine avevano precise funzioni. Quello della macina superiore<br />
che girava serviva per far entrare le granaglie. quello della macina inferiore,<br />
che era fissa, per lasciare passare l’asse rotante verticale il quale, con l’aggiunta<br />
<strong>di</strong> un modesto congegno, faceva girare la mola superiore. L’asse passante entro il<br />
foro della macina fissa, perché rimanesse sempre perfettamente verticale e non<br />
oscillasse, era guidato da una boccola. Questa era fissata nel foro da cunei <strong>di</strong><br />
legno duro, battuti a martello. Le varie piccole fessure che rimanevano venivano<br />
chiuse colando zolfo liquido, che si otteneva riscaldandolo a circa sessanta gra<strong>di</strong>.<br />
Tutto ciò aveva anche lo scopo <strong>di</strong> sigillare ogni interstizio onde evitare cadessero<br />
a terra chicchi o farine. L’asse verticale così guidato penetrava, con la sua testa<br />
arrotondata, per circa venti centimetri oltre la mola fissa, per incastrarsi nell’incavo<br />
<strong>di</strong> un cavallotto, fissato sulla mola rotante. Il cavallotto era una robusta<br />
barra piatta <strong>di</strong> ferro sagomata a U rovescio che aveva due naselli che erano fissati<br />
nella faccia <strong>di</strong> pietra della mola superiore. Anche queste due piccole protuberanze<br />
erano fissate con zolfo liquido. Questo sostegno e la macina venivano fatti<br />
ruotare da alette solidali con l’asse rotante verticale.<br />
Dato che la macina superiore doveva essere sempre in perfetto equilibrio durante<br />
110
la macinazione, aveva nella parte intonacata quattro tasche contrapposte, ove si<br />
potevano mettere dei pesi metallici per riequilibrarla, che venivano fissati anch’essi<br />
con lo zolfo liquido (veniva usato lo zolfo perché non è urticante). Pure la macina<br />
inferiore aveva bisogno <strong>di</strong> una perfetta orizzontalità e questa la si otteneva apportando<br />
qualche correzione, girando i pie<strong>di</strong>ni a vite su cui appoggiava.<br />
Un lavoro molto importante era la ribattitura delle macine fatta a lunghi intervalli.<br />
Ricordo che mio padre e lo zio iniziavano togliendo prima gli accessori, tramoggia<br />
cilindro ecc. poi la gru sollevava la mola superiore che veniva sospesa sul vuoto, davanti<br />
all’impalcato. Questa gru era formata da due travi collegati a sette che avevano<br />
un saettone <strong>di</strong> rinforzo, La gru era incernierata sull’impalcato, in alto e in basso, con<br />
piastre e perni metallici. Sopra il braccio orizzontale c’era poi una ruota che governava<br />
un vitone senza fine che terminava con due ganci: il tutto era guidato da piastre<br />
<strong>di</strong> ferro fissate sopra e sotto sulla struttura lignea. Venivano poi appesi ai ganci del<br />
vitone due robusti settori circolari <strong>di</strong> ferro lunghi circa un metro che avevano in ogni<br />
estremità degli occhielli. Gli anelli superiori venivano agganciati al vitone, negli inferiori<br />
venivano invece infilate delle spine spinòti, che poi venivano introdotte anche<br />
nei due fori dorsali della macina. Con questo sistema la macina veniva sollevata e<br />
messa da parte.<br />
Mio padre per prima cosa faceva un accurato controllo delle facce delle mole usando<br />
una staggia verniciata <strong>di</strong> terra rossa sui dorsi perché, ruotandola su tutta la pietra, si<br />
evidenziassero i rialzi che subito eliminava con la bocciarda. Poi usava la bolla per un<br />
perfetto controllo dell’orizzontalità. Se poi i solchi a raggiera erano <strong>di</strong>ventanti ormai<br />
poco profon<strong>di</strong>, provvedeva ad ingran<strong>di</strong>rli picconando con un pesante martello che<br />
aveva una punta in ogni testa la martelina a punta. Finiti questi lavori <strong>di</strong> preparazione<br />
provvedeva a fare le tacche della zigrinatura sulle superfici degli spicchi <strong>di</strong> pietra,<br />
usando un pesante martello a doppio taglio la martelina a taio.<br />
Quest’ultimo lavoro, <strong>di</strong>ceva mio padre, doveva essere fatto sempre dalla stessa<br />
mano perché le tacche dovevano essere pressoché uguali per profon<strong>di</strong>tà e <strong>di</strong>rezione.<br />
Era questo il lavoro che pretendeva fare da solo, forse perché gli piaceva o<br />
perché pensava <strong>di</strong> esserne perfettamente capace per aver fatto un lungo appren<strong>di</strong>stato.<br />
Durante il lavoro <strong>di</strong> battitura usava una scopetta rigida, che chiamava granadéo,<br />
per controllare l’andamento delle battiture. Per ripristinare la mola rotante<br />
provvedeva a stenderla sulla macina fissa previa stesa <strong>di</strong> travi. Anche su questa<br />
veniva eseguita la stessa lavorazione.<br />
Per sistemare poi a nuovo i vari martelli mio padre faceva anche il fabbro: <strong>di</strong>ceva che<br />
l’aveva imparato quando era piccolo. Sotto la tettoia c’erano la fucina per scaldare il<br />
ferro ed un secchio pieno d’acqua per temperarlo. Mio padre prima doveva forgiava<br />
i tre martelli per rifare le punte e i fili, poi immergeva parzialmente il ferro caldo entro<br />
l’acqua finché la parte immersa <strong>di</strong>ventava violacea. Io in quel caso mi <strong>di</strong>vertivo a<br />
ravvivare il fuoco con un apposito soffietto.<br />
111
Il tamburo, la tramoggia e la guantiera<br />
Questi tre oggetti <strong>di</strong> legno erano accessori necessari per arrivare ad avere i sacchi<br />
pieni <strong>di</strong> farina. Il tamburo posto a copertura delle macine serviva, per evitare il più<br />
possibile la <strong>di</strong>spersione <strong>di</strong> farine e polveri ed era nel contempo <strong>di</strong> supporto alla tramoggia.<br />
Il tamburo era un cilindro basso e robusto, perché la sovrastante tramoggia<br />
poteva contenere anche un quintale <strong>di</strong> cerali, ed era sprovvisto delle due facce piane.<br />
Anni 1920-1940. Schizzo <strong>di</strong> un palmento comprendente due macine e tutti gli accessori.<br />
Qui è tenuto conto <strong>di</strong> ingranaggi racchiusi in una vaschetta a tenuta, piena <strong>di</strong> olio<br />
minerale, per lubrificare piccoli ingranaggi metallici. Questo sistema <strong>di</strong>minuiva <strong>di</strong> molto i<br />
rumori del sistema illustrato nelle figure delle pagine precedenti.<br />
112
Schizzo delle macine <strong>di</strong> pietra. Le misure riportate nel primo <strong>di</strong>segno danno un peso per macina <strong>di</strong> circa<br />
kg 350. Nel secondo <strong>di</strong>segno si vuol <strong>di</strong>mostrate come lavoravano a contrasto le scanalature a raggiera.<br />
Esse servivano per veicolare i grani che entravano e anche per trasportare in periferia la farina ottenuta.<br />
Schizzo del sistema metallico per far girare la macina, sovrastante quella fissa, mantenendola<br />
sempre in perfetto equilibrio. L’asse verticale, guidato dalla boccola fissata nel foro della macina<br />
fissa, supportava con un cavallotto quella rotante.<br />
Schizzo della gru <strong>di</strong> legno incernierata nell’impalcato. Una gru serviva due palmenti. Parti<br />
integranti della gru erano due bracci ad arco e due spinotti.<br />
113
Aveva un <strong>di</strong>ametro interno superiore <strong>di</strong> venti centimetri a quello delle macine per<br />
poter contenere, a livello della macina fissa, una corsia per la raccolta farine che vi<br />
arrivavano per il moto centrifugo. La macina rotante aveva una spatola che raschiava<br />
la corsia e convogliava le farine verso la bocchetta d’uscita, dove era appeso il sacco.<br />
La tramoggia, che doveva contenere sempre granaglie finché la macina girava, aveva<br />
sotto un pertugio da cui uscivano lentamente e con continuità i chicchi. Questi<br />
cadevano sulla guantiera, che era un pezzo <strong>di</strong> tavola <strong>di</strong> legno duro concavo con un<br />
solo invito <strong>di</strong> uscita. I suoi sostegni erano delle corregge che servivano per renderla<br />
mobile. La guantiera veniva scossa da un’asticella, fissata sul foro della macina rotante,<br />
facendo cadere in progressione i chicchi. Quando la tramoggia si svuotava del<br />
tutto, si liberava il fermo <strong>di</strong> una cor<strong>di</strong>cella collegata a un campanello, il quale subito<br />
si metteva a suonare. Tutto ciò serviva per richiamare l’attenzione del mugnaio che<br />
doveva subito provvedere a riempire la tramoggia con altri cereali. Per questa ultima<br />
operazione bisognava prima mettere il fermo della cor<strong>di</strong>cella del campanello sotto il<br />
peso dei chicchi. Nel caso estremo in cui il mugnaio non riusciva a riempire tempestivamente<br />
la tramoggia, doveva sollevare la macina rotante con una leva con scrocco<br />
<strong>di</strong> sicurezza, posta sotto l’impiantito, per evitare che le mole si toccassero. Per fare poi<br />
farine più o meno grosse c’era una ruota <strong>di</strong> manovra, posta a fianco della precedente,<br />
che serviva per eseguire spostamenti millimetrici.<br />
La macinazione<br />
La qualità dei cereali<br />
I cereali avevano <strong>di</strong>fferenze per misura e durezza, non solo fra le <strong>di</strong>verse razze, ma<br />
anche nella stessa famiglia, a seconda dei terreni ove erano stati coltivati. Per queste<br />
variazioni bisognava, <strong>di</strong> volta in volta, rapportare le quantità che entravano nelle mole,<br />
secondo la durezza e grandezza dei chicchi e lo stato manutentivo delle macine.<br />
C’era allora la battaglia del grano voluta da Mussolini e <strong>di</strong> continuo venivano messi<br />
in commercio sementi <strong>di</strong> nuovi tipi Era il tempo in cui i frumenti tar<strong>di</strong>vi, da sempre<br />
coltivati, venivano soppiantati da razze precoci. I tar<strong>di</strong>vi producevano più paglia e meno<br />
grano, e per <strong>di</strong> più si allettavano facilmente, creando <strong>di</strong>fficoltà nella mietitura. I precoci<br />
erano pronti da mietere una decina <strong>di</strong> giorni prima, avevano lo stelo <strong>di</strong> paglia più basso<br />
e la spiga più turgida. Ricordo che mio padre chiamava sempre in causa lodandolo un<br />
certo “Strampelli”, che parecchio più tar<strong>di</strong> seppi essere il famoso agronomo genetista<br />
Nazzareno Strampelli, il quale produsse numerose nuove razze <strong>di</strong> frumento, da usare<br />
secondo le qualità dei terreni e del clima. In quegli anni erano in voga a Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />
i tipi precoci Mentana, Villa Glori, Ar<strong>di</strong>to, Strampelli e ognuno aveva caratteristiche<br />
organolettiche <strong>di</strong>verse che influivano anche sulla macinazione. Ricordo che le spighe<br />
dei frumenti tar<strong>di</strong>vi avevano tutte le ariste, mentre i precoci le avevano attenuate.<br />
114
Per completare l’elenco delle manovre necessarie onde ottenere gli sfarinati voluti, devo anche<br />
ricordare un piccolo <strong>di</strong>spositivo metallico, che regolava il flusso dei chicchi sulla guantiera,<br />
fissato sul davanti del tamburo. Infatti vicino alla bocchetta della farina, c’era un supporto<br />
con una piccola ruota <strong>di</strong> manovra la quale, a mezzo <strong>di</strong> asticciole, apriva più o meno la<br />
serranda della feritoia posta sotto la tramoggia. L’immagine mostra l’interno <strong>di</strong> un casotto <strong>di</strong><br />
un mulino sul Po, ove si vedono gli accessori delle macine. Il rifornimento dei cereali avveniva<br />
attraverso una bocchetta ancorata a un solaio superiore, sul quale erano stati ammassati<br />
precedentemente i sacchi <strong>di</strong> cereali da macinare. Dalla fattura presumo che il palmento sia del<br />
Settecento, considerando anche che la prozia Luigia paragonava i palmenti del nonno del Secolo<br />
XIX simili a quelli <strong>di</strong> Costa <strong>di</strong> Rovigo, che erano come ho descritto precedentemente.<br />
115
Quasi la stessa cosa succedeva per il granoturco perché cominciava ad entrare in Italia<br />
il Plata, granoturco <strong>di</strong> origine argentina. Le nostre razze davano pannocchie piccole<br />
con grani rotondeggianti e schiacciati, il Plata dava pannocchie gran<strong>di</strong> con grani<br />
allungati, tanto che all’inizio veniva chiamato denton, cioè dente grande, e dava una<br />
produzione maggiore. Ricordo che un anno, forse il 1928, vi fu un raccolto misero <strong>di</strong><br />
granoturco nostrano.<br />
Mio padre, viste le richieste, acquistò allora vari vagoni <strong>di</strong> Plata sudamericano dal<br />
costo accessibile che arrivarono fino a Rovigo. Per portare il granoturco a Costa furono<br />
ingaggiati dei carrettieri che dovevano fare il trasporto per <strong>di</strong>eci chilometri. Successe<br />
però un fatto strano, almeno per me. Circa duecento metri <strong>di</strong> strada inghiaiata nel<br />
comune <strong>di</strong> Costa si rovinarono in modo totale. Un agricoltore, che aveva la stalla nei<br />
pressi, si adoperò per trarre d’impiccio i carrettieri con due tiri <strong>di</strong> buoi, facendosi<br />
ovviamente pagare. Fu così che il granoturco ebbe un rincaro non previsto che<br />
suscitò dei brontolii fra gli acquirenti. Il granoturco americano ebbe nel tempo delle<br />
migliorie genetiche, così oggi tutti noi abbiamo degli ibri<strong>di</strong> chiamati mais.<br />
Una volta era d’uso seminare subito tra le stoppie <strong>di</strong> frumento il “cinquantino”, granoturco<br />
dalle pannocchie e dai grani piccoli. Fra quelle razze ce ne era una molto<br />
ricercata, il Marano, che dava farina saporita e d’un giallo intenso.<br />
Il costo della macinazione<br />
I prodotti per la macinazione, che venivano portati al mulino, erano pesati con la<br />
bascula. I dati <strong>di</strong> identificazione venivano scritti su un registro e sui sacchi. Nel registro<br />
venivano scritti, con una matita copiativa, la data, il nome, il peso e il numero<br />
progressivo <strong>di</strong> conferimento settimanale; sui sacchi venivano scritti con un pennello<br />
intriso <strong>di</strong> acqua e terra rossa, il peso e il numero <strong>di</strong> conferimento. Il costo della lavorazione<br />
era calcolato con due percentuali relative al peso. Le farine venivano consegnate<br />
con il peso dei cerali decurtato <strong>di</strong> una percentuale per la volativa, cioè la<br />
polvere che si spandeva nell’ambiente. Poi c’era un costo in denaro in rapporto alla<br />
quantità dei cereali portati per la macinazione. Ho avuto modo <strong>di</strong> constatare che i<br />
calcoli della volativa erano sempre superiori a quelli reali: alla fine della settimana gli<br />
avanzi servivano per il nostro uso familiare.<br />
Gli inconvenienti provocati dalle macine<br />
Una volta non c’erano norme <strong>di</strong> sicurezza sui lavori, tutti si comportavano come meglio<br />
credevano. Anche i mugnai non dovevano osservare prescrizioni <strong>di</strong> salvaguar<strong>di</strong>a.<br />
Per questo mio padre subì nella sua vita almeno tre malanni dovuti al tipo <strong>di</strong><br />
lavoro che faceva. Aveva i dorsi delle mani punteggiati <strong>di</strong> tanti puntini neri perché,<br />
non usando i guanti durante la battitura delle macine, le piccole schegge <strong>di</strong> pietra che<br />
schizzavano via gli punzecchiavano la pelle, lasciando il loro segno in modo indelebile.<br />
Nei mulini poi, dove regnava la volativa, non c’erano né aspiratori o depuratori,<br />
116
né gli addetti usavano mascherine <strong>di</strong> protezione, così sia i macchinari che i mugnai<br />
erano sempre ricoperti <strong>di</strong> polvere; non per niente c’era il proverbio: “Chi va al mulino<br />
si infarina”. In aggiunta tutti i mugnai avevano i bronchi ricoperti <strong>di</strong> polvere.<br />
Quando mio padre nel 1909 si presentò alla visita me<strong>di</strong>ca per fare il soldato fu sulle<br />
prime scartato. Il giovane me<strong>di</strong>co che gli aveva controllato il torace sentì brontolii,<br />
segno <strong>di</strong> malattia polmonare, e lo mandò dal suo superiore. Questi, me<strong>di</strong>co anziano,<br />
gli chiese subito che mestiere facesse, mio padre rispose che era mugnaio. Fu <strong>di</strong>chiarato<br />
abile e fece 24 mesi <strong>di</strong> servizio <strong>di</strong> leva; così era lungo una volta il servizio militare.<br />
Poi richiamato, dovette fare anche tutta la guerra del 1915 – 18, combattendo nella<br />
terza armata. Quel me<strong>di</strong>co esperto sapeva che tutti i mugnai avevano i bronchi pieni<br />
<strong>di</strong> polvere! Infine mio padre, dopo i cinquant’anni, ebbe <strong>di</strong>sturbi motori. Cosa abbastanza<br />
naturale se si pensa che i sacchi che portava a spalla erano generalmente <strong>di</strong> 75<br />
chilogrammi pari a tre staia pieni <strong>di</strong> chicchi, o <strong>di</strong> 100 chilogrammi se erano sacchi<br />
pieni <strong>di</strong> farina doppio zero: pesi che oggi nessuno affronta per legge.<br />
In alto. Mulino sul Po. Questo<br />
è meglio strutturato rispetto<br />
a quello raffigurato in basso.<br />
Ritengo che quello sia del<br />
secolo XIX, questo del secolo<br />
XX: lo <strong>di</strong>mostrano soprattutto<br />
gli steccati che sono costruiti a<br />
regola d’arte.<br />
In basso. Vecchio mulino sul<br />
Po del XIX secolo. I casotti <strong>di</strong><br />
tavole <strong>di</strong> legno erano ricoperti<br />
con canne palustri. La<br />
barchetta che si vede serviva<br />
per i controlli attorno alle<br />
chiatte. La scritta devozionale,<br />
molto significativa riguardo i<br />
pericoli <strong>di</strong> quel lavoro, è: “Dio<br />
ti salvi”.<br />
117
Piccoli pioli della grande ruota fatta girare dalla<br />
turbina. I denti <strong>di</strong> questa ruota si incastravano<br />
con quelli più lunghi <strong>di</strong> una piccola ruota: erano<br />
gli ingranaggi che facevano girare la mola.<br />
A destra: mulino ad acqua dell’entroterra dove<br />
c’era un salto d’acqua. Il mulino è in muratura<br />
e la turbina, rispetto a quella sui fiumi, ha una<br />
grande ruota con numerose piccole pale.<br />
118
I mulini ad acqua<br />
Di mulini ad acqua nell’800 ve ne erano molti lungo i fiumi, in modo particolare<br />
sul Po, e altri dove c’erano salti d’acqua sia nelle montagne che nelle pianure.<br />
Il padre <strong>di</strong> mia madre Teresa, nonno Giuseppe Nagliati, era mugnaio del Po a<br />
S. Maria in Punta, frazione <strong>di</strong> Ariano Polesine. Quella località era ed è tuttora<br />
un piccolo paese che si trova nella punta del delta, là dove il Po <strong>di</strong> Venezia,<br />
detto il Po grande, si <strong>di</strong>vide dal Po <strong>di</strong> Goro detto il Po piccolo. Una foto del<br />
1895, riprodotta nel libro “I Santamarianti” <strong>di</strong> William Balsamo, mostra che in<br />
quell’epoca i mulinari <strong>di</strong> S. Maria in Punta erano <strong>di</strong>eci, tra i quali il nonno. Ho<br />
letto sul giornale “Repubblica “del 10 giugno 2005 un articolo <strong>di</strong> Jenner Meletti<br />
ove era scritto che i mulini ferraresi nel 1873 erano ben 173, schierati sui fiumi<br />
e in particolare a sud del Po <strong>di</strong> Venezia e del Po <strong>di</strong> Goro.<br />
Mio nonno scomparve nelle acque del fiume in una gelida notte del gennaio<br />
1900, quando mia madre aveva quattro anni e zio Giacinto due. Per motivi<br />
familiari, giacché la nonna si era risposata, i due fratelli furono aiutati a crescere<br />
dalla zia Luigia, sorella del nonno. Questa zia che io chiamavo nonna, nata nel<br />
1854 visse poi con noi fino alla morte nel 1934.<br />
Lei mi parlò parecchie volte dei mulini sul Po, tanto che quando da grande ne<br />
vi<strong>di</strong> uno, forse mantenuto per memoria, lo conoscevo già molto bene. Erano<br />
due chiatte galleggianti a fondo piatto, ciascuna con un palmento, unite fra <strong>di</strong><br />
loro da una grande ruota con gran<strong>di</strong> pale, la turbina, che girava con la corrente<br />
dell’acqua. In aggiunta fra una barca e l’altra vi erano passerelle e catene <strong>di</strong> ferro,<br />
necessarie queste ultime per gli ormeggi. La prozia mi <strong>di</strong>sse che all’esterno i<br />
mulini variavano come tipo <strong>di</strong> costruzione a seconda dell’estro e dei sol<strong>di</strong> del<br />
mulinaro, ma che all’interno invece erano pressoché uguali a quelli <strong>di</strong> Costa<br />
<strong>di</strong> Rovigo, poi <strong>di</strong> Valdentro e <strong>di</strong> Monselice. Tutto era <strong>di</strong> legno compreso gli<br />
ingranaggi, metodo superato nei primi anni del Novecento. La grande ruota<br />
<strong>di</strong> legno, fatta girare dalla turbina, aveva una corona <strong>di</strong> piccoli pioli sporgenti<br />
che andavano a incastrarsi con i denti lunghi <strong>di</strong> una piccola ruota, posta su un<br />
asse verticale, trasformando così la rotazione orizzontale della turbina in quello<br />
verticale che faceva girare la mola.<br />
La prozia Luigia mi spiegò anche tante volte cosa poteva essere successo a suo<br />
fratello, mio nonno Giuseppe. Diceva sempre le stesse cose.<br />
Dato che le macine erano poste dentro un casotto ben chiuso per proteggere<br />
dalla pioggia i cereali e le farine, siccome poi la macinazione produceva un<br />
gradevole tepore, la prozia ipotizzava che il nonno fosse uscito dal casotto<br />
mentre era un po’ accaldato, avesse preso uno choc per il freddo e, caduto in<br />
acqua, fosse annegato pur essendo un abile nuotatore. Allora molte protezioni<br />
<strong>di</strong> sicurezza non esistevano.<br />
I mulini ad acqua, costruiti in muratura, erano posti all’interno dei paesi, là<br />
119
Mulino ad acqua nella terraferma.<br />
120
dove vi erano salti <strong>di</strong> acqua continua. L’acqua muoveva una grande ruota con<br />
piccole pale, fatte in modo <strong>di</strong>verso a seconda della tra<strong>di</strong>zione o delle necessità;<br />
era la turbina idraulica che faceva girare le macine. L’interno, anche in questi<br />
casi, era del tutto simile a quanto c’era negli altri mulini che io ho visto.<br />
L’altro mio nonno Giobatta Trevisan, lavorava nell’entroterra in un mulino<br />
ad acqua a Carrara San Giorgio, ora Due Carrare, in provincia <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>. I<br />
suoi primi due figli, mio padre Giacomo e zio Demetrio, <strong>di</strong>vennero mugnai<br />
iniziando a lavorare fin da ragazzetti e poi andandosene in giro per lavoro fin da<br />
giovanissimi, perché era morta la madre e il loro padre si era risposato.<br />
È certo che una volta i mugnai del Po, anche se non erano poveri, conducevano<br />
una vita travagliata sia per il lento processo <strong>di</strong> lavoro, sia perché dovevano essere<br />
presenti giorno e notte anche per fare la guar<strong>di</strong>a ai prodotti dei clienti.<br />
Un’ultima annotazione che riguarda il detto, specie fra gli anziani, che “Il pane e<br />
la polenta <strong>di</strong> una volta erano migliori <strong>di</strong> quelli <strong>di</strong> oggi”. Al riguardo ricordo che<br />
mio padre, mugnaio <strong>di</strong> lungo corso, <strong>di</strong>ceva che più è lenta la macinazione, più<br />
le farine mantengono il loro sapore, perché non vengono riscaldate durante la<br />
lavorazione. Penso che i vecchi abbiano ragione perché oggi tutto è velocizzato<br />
al massimo, le farine macinate nei cilindri <strong>di</strong> acciaio vengono insaccate ancora<br />
calde, perdendo la loro naturale fragranza.<br />
121
Glossario dei vocaboli veneti usati nel testo<br />
Àlbara pioppo o albero frondoso<br />
Àlbio abbeveratoio o truogolo<br />
Àmoli piccole prugne tondeggianti<br />
Ànara anitra in Polesine<br />
Ànca anche, pure<br />
Anguriàra dove si coltivano o si ammassano i cocomeri<br />
Anguriàro colui che vende i cocomeri<br />
Àrena anitra nel <strong>Padova</strong>no<br />
Baéta pallina <strong>di</strong> terracotta colorata o <strong>di</strong> vetro<br />
Balanzìn l’attacco per il tiro <strong>di</strong> un secondo animale in aiuto per il tiro<br />
Bàlzo pezzo <strong>di</strong> corda fatto con erbe palustri e con un nodo per ogni capo<br />
Banachéto banco piccolo, deschetto<br />
Bàre carretto con strutture maggiorate adatte per grossi carichi<br />
Barèa tavola con stanghe per il trasporto<br />
Barozìn calesse senza cuscini e mantice <strong>di</strong> copertura<br />
Basàna bottone da cappotto<br />
Bigàto verme<br />
Bindèche lippa, anche pindèche<br />
Bò bue o buoi<br />
Boàro bo<strong>vai</strong>o, bovaro<br />
Bombasìna tessuto <strong>di</strong> cotone poco pregiato<br />
Bràzo braccio o bracciata<br />
Brìgòlo archetto, arnese ad arco per i trasporti, che si poneva sulle spalle<br />
Brònza brace<br />
Brusàre bruciare<br />
Bruscàre potare<br />
Bugà bucato<br />
Bugàròlo tela grezza che tratteneva la cenere frammista ad acqua calda<br />
Buratàra ma<strong>di</strong>a chiusa dal coperchio<br />
Buràto vaglio o buratto per separare la farina dalla crusca<br />
Bùso foro, buco<br />
Càgna grande tenaglia formata da legno e ferro<br />
Calièro paiolo <strong>di</strong> rame<br />
Càmaradària tubo <strong>di</strong> gomma contenente aria<br />
Canarèo pezzo dello stelo della canapa<br />
Canavèra canna selvatica simile al bambù<br />
122
Càneva cantina del vino<br />
Canfìn lume a petrolio<br />
Cànio canapa<br />
Canolàra la ven<strong>di</strong>trice <strong>di</strong> cannelli per botti, le cànole<br />
Cànula stelo intero della canapa<br />
Capòn galletto evirato<br />
Carezà stra<strong>di</strong>na <strong>di</strong> campagna o fascia <strong>di</strong> terreno che <strong>di</strong>videva i campi<br />
Cariolòn carriola con un piano grande, senza vasca<br />
Caròba carruba<br />
Casolìn bottegaio <strong>di</strong> generi alimentari<br />
Castelòn tutolo, torsolo della pannocchia<br />
Castèo l’insieme dei sostegni e dei graticci sovrapposti per stendervi i bachi da seta<br />
Ca<strong>vai</strong>òn mucchio <strong>di</strong> covoni a forma <strong>di</strong> carena rovesciata<br />
Cavalière baco da seta<br />
Cavedòni riparo <strong>di</strong> terra per trattenere l’acqua<br />
Cavèssa fune per trattenere buoi, cavalli, anche cavèzza<br />
Càza mestolo<br />
Ciàpa voce del verbo prendere, presente, III p. sing.<br />
Cìncero (o cìnciaro) termine padovano per il gioco noto in italiano come “campana”<br />
Ciòca chioccia<br />
Ciòpa panetto, pagnotta<br />
Ciùcio un piccolo dolce da succhiare<br />
Codèga o Coéga cotica del maiale<br />
Coeghìn cotechino<br />
Còke oppure cok, il carbone che rimaneva dopo lo sfruttamento dei gas<br />
Conéio coniglio<br />
Copertòn pneumatico<br />
Còpo riparo triangolare agganciato al paiolo della polenta<br />
Còrgo stia cilindrica senza fondo con sportello superiore<br />
Cortelà mattoni posti a coltello in modo che i dorsi facciano da pavimento<br />
Cortelàzo coltello rettangolare e pesante<br />
Cortelìna piccolo coltello ricurvo, roncola<br />
Cortèo coltello, cioè il coltro dell’aratro, coltello in generale<br />
Covèrta gavello, piccolo arco <strong>di</strong> legno formante le ruote, anche cuèrta<br />
Crosète biche formate da covoni <strong>di</strong> spighe<br />
Crùo crudo, non cotto<br />
Cuèrcio coperchio<br />
Cusinàre cuocere<br />
123
Cussì così<br />
De <strong>di</strong><br />
Dòna donna, anche voce del verbo donare<br />
El il<br />
Fachìn riferito alle tazze degli elevatori<br />
Fàia covone<br />
Fàlsa falcia, anche falza<br />
Far sù trasformare la carne <strong>di</strong> maiale in salami<br />
Fasinàro mucchio <strong>di</strong> fascine, le fasìne<br />
Fàssa fascia<br />
Fen fieno<br />
Fòlo mantice <strong>di</strong> copertura <strong>di</strong> un calesse<br />
Forchèto la forca che serviva per svellere le bietole, anche forca a due rebbi<br />
Formènto frumento<br />
Formentòn mais<br />
Fornèla focolare esterno per grossi recipienti<br />
Frànco lira, la vecchia moneta<br />
Frisòni grossi cavalli da tiro<br />
Ga voce del verbo avere, tempo presente. Mi go, ti te ghe, lu el ga, ecc.<br />
Ganàssa ganascia<br />
Ghe è anche pronome, a lui - gli<br />
Giòza goccia, anche giosa<br />
Giustàre aggiustare<br />
Gnàro nido<br />
Gomìero vomero<br />
Gradèla graticola<br />
Gramustìn vinaccioli<br />
Gràn grano, frumento, anche qualsiasi granello<br />
Granadèo piccola scopa senza manico<br />
Graspaiòle bucce dell’acino d’uva<br />
Gràspe ciò che rimane dopo la pigiatura dell’uva<br />
Graspìa vinello ottenuto dalle graspe messe nell’acqua<br />
Grisòla graticcio <strong>di</strong> erbe palustri, arella<br />
Grùpia greppia<br />
Guièlo pungolo dei bovari<br />
Guzàre affilare un coltello, una falce, ecc.<br />
In vàca quando c’è un risultato pessimo<br />
Incoconamènto far entrare <strong>di</strong> forza il cibo in gola<br />
124
Incuciàrsi abbassarsi<br />
La spèra controllo con una candela se un uovo ha il germe<br />
Lasàre lasciare<br />
Lavèzo paiolo <strong>di</strong> rame<br />
Levà un pane crudo con lievito<br />
Loàme letame, loàmaro è il letamaio grande<br />
Lòra imbuto rettangolare per botti<br />
Lòto zolla<br />
Lugàneghe collana <strong>di</strong> salsicce<br />
Lùzia Lucia<br />
Magnàre mangiare<br />
Manàra scure, accetta<br />
Màre madre, anche mare<br />
Martelìna martello con penne affilate o a punta<br />
Màs-cio maschio, maiale<br />
Masègna grossa lastra <strong>di</strong> selce adatta per la pavimentazione<br />
Masenàre macinare<br />
Màsera macero nel <strong>Padova</strong>no<br />
Màsero macero nel Ro<strong>di</strong>gino o maschio dell’anitra<br />
Mastèla mastello<br />
Mastelòn grande mastello<br />
Màto pompa per attingere acqua<br />
Màza grosso martello <strong>di</strong> legno, chiamato anche màzo, anche ammazza,<br />
Meànda contratto in natura per la mietitura e la trebbiatura<br />
Mèjo meglio<br />
Menarìn piccola ascia da muratore<br />
Mèriche patate dolci, patate americane<br />
Mèsa ma<strong>di</strong>a senza coperchio, serviva per impastare la farina<br />
Mèscola mestolo <strong>di</strong> legno<br />
Méza metà<br />
Mezàna mezzo maiale in lunghezza<br />
Mistòca castagnaccio<br />
Molèta arrotino o piccola mola<br />
Moletìn un arrotino giovanissimo<br />
Moràro gelso<br />
Moschìn moscerino<br />
Mòscolo trottola nel <strong>Padova</strong>no<br />
Mulìn mulino<br />
125
Munàri grumi <strong>di</strong> farina non cotta nella polenta<br />
Munàro mugnaio, al plurale munari<br />
Mùnega monaca o oggetto <strong>di</strong> legno che serviva a scaldare le coperte, scal<strong>di</strong>no<br />
Musso asino<br />
Nòsa noce<br />
Òbligo bracciante con lavoro fisso<br />
Òio olio<br />
Onto strutto o sporco <strong>di</strong> grasso<br />
Ònza oncia, misura per i semi dei bachi da seta<br />
Òvo uovo<br />
Pàia paglia<br />
Paiàro pagliaio<br />
Paiaròlo l’imboccatore delle spighe nel battitore della trebbiatrice<br />
Paiòn pagliericcio fatto con le brattee del mais<br />
Palànca <strong>di</strong>eci centesimi, moneta in rame<br />
Palpèto pesca fatta solo con le mani<br />
Paltàn fango<br />
Panàro tavola della polenta<br />
Panòcia pannocchia<br />
Papazète pia<strong>di</strong>ne fatte con farina <strong>di</strong> castagna<br />
Papazòn farina <strong>di</strong> castagna mangiata senza alcuna lavorazione<br />
Pàre padre, anche verbo<br />
Paròlo paiolo <strong>di</strong> rame<br />
Parolòn un grande paiolo<br />
Paròn padrone<br />
Pavéia libellula<br />
Pavéio aquilone<br />
Pecòlo picciolo<br />
Pelagròso sfaticato<br />
Pénda pergolato<br />
Pénole cunei<br />
Peòcio pidocchio<br />
Pèrtega pertica o misura <strong>di</strong> aree<br />
Pèsto lardo tritato su un tagliere con un grosso coltello detto da lardo<br />
Péza rappezzo piccolo, straccio<br />
Pézo peggio<br />
Piànta cavicchio per battere sul filo delle falci, anche pianta e verbo<br />
Piéra cote per affilare, custo<strong>di</strong>ta entro un corno pieno d’acqua e appeso alla cintola<br />
126
Pìnza focaccia <strong>di</strong> vari tipi cotta sul focolare<br />
Piriòto imbuto<br />
Pisòn trottola nel Polesine<br />
Pisorìn piccola trottola col picciolo<br />
Pitòn tacchino<br />
Plansìsta vaglio per la farina<br />
Pòlpe la fettuccia <strong>di</strong> bietole dopo la lavorazione per ottenere lo zucchero<br />
Pòmo mela – pomi dessi varietà <strong>di</strong> mele<br />
Ponàro pollaio<br />
Porsèo maiale, anche porzèo<br />
Pòsta cella per i bovini ed equini<br />
Pozzàli mattoni sagomati che servono per fare i pozzi<br />
Pua bambola<br />
Quàrta contenitore della quarta parte in volume dello staio<br />
Racoéta raganella, strumento <strong>di</strong> legno<br />
Rài raggi<br />
Rapegàre spianare il terreno arato con l’erpice, cioè con la rapegàra<br />
Recèti racimoli<br />
Rènga aringa<br />
Resentàre risciacquare<br />
Rivàle fila <strong>di</strong> viti stese fra gli olmi che <strong>di</strong>videvano i campi<br />
Ròla piana del focolare ove si faceva il fuoco<br />
Rossèto una malattia dei chicchi <strong>di</strong> frumento che sviluppava una polvere rossastra<br />
Ruinàzi calcinacci, metaforicamente così chiamati i fegati e i cuori dei gallinacei<br />
Salgàro salice<br />
Sànca anche zanca, come in italiano, ton<strong>di</strong>no <strong>di</strong> ferro con l’estremità sagomata a U<br />
Savère sapere<br />
Sbrancà mannello, o quanto può contenere una mano<br />
Sbusàre bucare<br />
Scàgno tavola <strong>di</strong> legno che le lavandaie ponevano lungo un corso d’acqua per il risciaquo<br />
Scàia scaglia, pezzo <strong>di</strong> pietra o <strong>di</strong> sasso<br />
Scalòn scala a tre gambe <strong>di</strong> cui una mobile<br />
Scalòne nome polesano del gioco della campana<br />
Scanarèo torsolo <strong>di</strong> pannocchia o pezzi dello stelo legnoso della canapa<br />
Scarpèo scalpello<br />
Scarsèa tasca<br />
Scartà teglia rettangolare per fare il castagnaccio o altri dolci<br />
Scartozàre levare le brattee, scartòzi, della pannocchia<br />
127
Schisòto pinza <strong>di</strong> sola farina <strong>di</strong> grano, anche schizòto<br />
Sc-iarezàre <strong>di</strong>radare le piantine <strong>di</strong> bietole o <strong>di</strong> mais<br />
Sc-iòne anelli <strong>di</strong> rinforzo o per attaccare corde<br />
Scopetòn aringa maschio o femmina senza uova<br />
Scùria frusta del carrettiere<br />
Segàzo sega a una sola maniglia <strong>di</strong> presa<br />
Seghèto falce messoria<br />
Semènze le piccole uova dei bachi da seta<br />
Sengiòn pista o circuito segnato per terra<br />
Sgàlmare zoccoli con suola <strong>di</strong> legno chiodato<br />
Sguaratòn l’uovo andato a malo<br />
Sgùba sgorbia<br />
Sìsola cicciolo, anche sìzola<br />
Slisegàre sdrucciolare, scivolare sul ghiaccio<br />
Slotàre rompere le zolle col mazzuolo<br />
Smeiàsa pinza con la melassa<br />
Solcàle cunetta per raccolta urine nelle stalle<br />
Somènza chio<strong>di</strong>no dei calzolai<br />
Soramàn pialla per raddrizzare le coste degli assi <strong>di</strong> legno<br />
Spàgna erba me<strong>di</strong>ca<br />
Spàgo sforzìn spago dei calzolai<br />
Spenamènto levare le penne ai volatili<br />
Spèo punteruolo<br />
Spezanèla il chicco <strong>di</strong> mais ridotto in più pezzi<br />
Spinòto pezzo <strong>di</strong> ferro da infilare nelle cavità<br />
Spunciòn grosso ago da infilare in un sughero per pungere i salami<br />
Stàro cilindro per misurare a volume i prodotti della terra<br />
Stòpa stoppa, cascame della canapa<br />
Stracaganàse castagne secche<br />
Stramezàra paratia che <strong>di</strong>videva le varie celle degli animali nelle stalle<br />
Stropàro salice i cui rami servivano ai conta<strong>di</strong>ni per fare legacci, le stròpe<br />
Stùfo stanco<br />
Sùgolo polenta <strong>di</strong> mosto e farina <strong>di</strong> grano<br />
Taiàre tagliare<br />
Tamisàre setacciare col tamìso<br />
Tasére tacere<br />
Tavoliére la tavola della polenta<br />
Timonèla calesse con cuscini, ruote ricoperte <strong>di</strong> gomma e il mantice <strong>di</strong> copertura<br />
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Tociàre bagnare pane e polenta nel sugo, el tòcio<br />
Trìmi righe <strong>di</strong> piante <strong>di</strong> frumento, mais, canapa, ecc., anche trìni<br />
Vedèo vitello<br />
Vègna vigna<br />
Vera come in italiano, ghiera attorno alla bocca del pozzo, detta anche pigna,<br />
corona, armilla<br />
Versùro aratro<br />
Vérze apre o gli ortaggi verze<br />
Vetùro ma<strong>di</strong>a lunga senza coperchio, adatta per pigiare l’uva o per pulire il maiale<br />
Volatìva la polvere più sottile che durante la macinazione si <strong>di</strong>sperdeva nell’ambiente<br />
Zànca guida <strong>di</strong> fil <strong>di</strong> ferro per far rotolare i cerchioni nei giochi dei bambini<br />
Zapàre zappare<br />
Zénare cenere<br />
Zocàra mucchi <strong>di</strong> zòche cioè <strong>di</strong> ceppi pronti per bruciare<br />
Zogàre giocare<br />
Zògo gioco<br />
Zucàra pianta della zucca, il frutto zuca<br />
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In<strong>di</strong>ce<br />
Introduzione<br />
Prefazione alla nuova e<strong>di</strong>zione<br />
Costa <strong>di</strong> Rovigo 1925- 1929<br />
- Il mulino della mia giovinezza<br />
- L’ambiente <strong>di</strong> Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />
- I gallinacei<br />
- I palmipe<strong>di</strong><br />
- Il maiale<br />
- I conigli<br />
- Il baco da seta<br />
- Il bucato<br />
- Fornitura dell’acqua<br />
Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara 1930<br />
- Premessa<br />
- Il calzolaio<br />
San Bellino<br />
- L’ambiente socio culturale<br />
- I conduttori agricoli<br />
- I trentottisti<br />
- La mietitura<br />
- La trebbiatuira<br />
- Motore a vapore<br />
- Il rifornimento dei covoni<br />
- La raccolta del frumento<br />
- La paglia<br />
- La pula<br />
- La canapa<br />
- La barbabietola e lo zuccherificio<br />
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- Il granoturco<br />
- Il prato<br />
- La fattoria Chinaglia<br />
- Prime arature e semine<br />
- Lavori invernali<br />
- L’uva<br />
- L’ambiente economico<br />
- Il pane<br />
- La polenta<br />
- Gli orti e i cortili<br />
- La fruttivendola<br />
- Il carradore<br />
- Il maniscalco<br />
- Il fabbro<br />
- Un artigiano particolare<br />
- Il meccanico <strong>di</strong> biciclette<br />
- Gli ambulanti<br />
Lo straccivendolo<br />
L’aggiustapiatti<br />
La misurazione <strong>di</strong> teleria<br />
La misurazione dei pesi<br />
La canolara<br />
L’arrotino<br />
I giochi dei bambini e dei ragazzetti<br />
- I <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> Bruno<br />
- I cerchi<br />
- La trottola<br />
- La corda<br />
- Le scaglie<br />
- La lippa<br />
- Il circuito<br />
- La campana<br />
- Le palline<br />
- Mosca cieca e nascon<strong>di</strong>no<br />
- La raganella<br />
- Passatempi<br />
Santo Bellino<br />
- La venerazione verso questo Santo<br />
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- La sua storia<br />
- Ipotesi e tra<strong>di</strong>zioni del Santo<br />
- Il paese e la chiesa del Santo<br />
I mulini con macine<br />
- Il fornello<br />
- Il gasogeno<br />
- Il gasometro<br />
- Il motore a gas povero<br />
- L’asse orizzontale <strong>di</strong> trasmissione<br />
- Gli ingranaggi<br />
- Il cinghione<br />
L’elettricità sostituisce il gas povero<br />
I palmenti<br />
- L’impalcato<br />
- La macina <strong>di</strong> pietra<br />
- Il tamburo, la tramoggia e la guantiera<br />
La macinazione<br />
- La qualità dei cereali<br />
- Il costo della macinazione<br />
- Gli inconvenienti provenienti dalle macine<br />
I mulini ad acqua<br />
Glossario dei vocaboli veneti usati nel testo<br />
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