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Ringrazio per l’aiuto prestatomi Antonio Bettin, Giacomo Loreggian,<br />

Bruno Mardegan, Camillo, Giacomo e Massimo Trevisan.<br />

Tutti i <strong>di</strong>segni sono <strong>di</strong> Bruno Mardegan; gli schizzi <strong>di</strong> Giuseppe Trevisan.<br />

Le immagini sono ricavate da vecchie stampe.<br />

Stampato in proprio<br />

Giuseppe Trevisan<br />

Vicolo Man<strong>di</strong>ferro, 1<br />

35043 Monselice (PD)<br />

Marzo 2013


Giuseppe Trevisan<br />

VITA NELLA CAMPAGNA<br />

DEL POLESINE<br />

1925 – 1935


Ai miei genitori<br />

Giacomo e Teresa,<br />

che tanto hanno lavorato per<br />

farmi stu<strong>di</strong>are a Rovigo, dove<br />

mi sono <strong>di</strong>plomato nel 1937


Introduzione<br />

Sono nato il 29 novembre 1918 in Ariano Polesine, Rovigo. Nella mia fanciullezza e<br />

prima giovinezza ho abitato poi in vari paesi del me<strong>di</strong>o Polesine dove ho esercitato<br />

la mia attenzione e voglia <strong>di</strong> sapere, fissandomi nella memoria ciò che girava attorno<br />

a me.<br />

Dapprima fui a Costa <strong>di</strong> Rovigo dal 1920 al 1930, dove io ho frequentato tutte le<br />

elementari. Mio padre Giacomo e zio Giacinto, fratello <strong>di</strong> mia madre, acquistarono<br />

un vecchio mulino con annessi abitazione e servizi. All’inizio del 1930 si <strong>di</strong>visero<br />

vendendo il mulino. Noi per un anno andammo in affitto nel mulino <strong>di</strong> Valdentro <strong>di</strong><br />

Len<strong>di</strong>nara, poi passammo nel 1931 a San Bellino, sempre in provincia <strong>di</strong> Rovigo, in<br />

un nuovo mulino <strong>di</strong> proprietà. Nel marzo del 1936 mio padre dovette venderlo per<br />

<strong>di</strong>fficoltà economiche e allora ci trasferimmo in affitto in un mulino <strong>di</strong> Monselice<br />

(<strong>Padova</strong>), paese dove io ancora vivo. Quei quattro mulini erano simili e avevano le<br />

macine <strong>di</strong> pietra.<br />

Andato in pensione nel 2000, per occupare il tempo mi è venuto il desiderio <strong>di</strong> scrivere<br />

i fatti che più mi hanno coinvolto da fanciullo e da giovane. Scrissi un libro sulla<br />

mia prigionia, passai a raccogliere dati sui mulini, ove vissi fino al 1938, poi mi venne<br />

voglia <strong>di</strong> parlare anche <strong>di</strong> tutti i mestieri che ho visto in passato, giacché quel mondo<br />

ora non c’è più. Sono ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> un tempo, <strong>di</strong> settanta, ottanta anni fa. Alcuni richiami<br />

potranno far sorridere dato il loro modesto interesse che possono destare nel lettore,<br />

ma mi pare opportuno ricordare quei lavori che hanno con<strong>di</strong>zionato parecchie generazioni<br />

passate. È per questo ritorno alle origini che ritengo utile richiamare anche i<br />

nomi <strong>di</strong>alettali dei lavori e delle cose, perché parecchie voci gergali lentamente scompaiono<br />

non venendo più usate. Può darsi che questo mio frugare nomi veneti nella<br />

memoria mi porti a fare qualche confusione dovuta al fatto che ho cambiato cinque<br />

paesi, ognuno con le proprie peculiarità linguistiche, e che mia madre ha sempre<br />

parlato il suo <strong>di</strong>aletto natio <strong>di</strong> Ariano, che è un misto <strong>di</strong> veneto e ferrarese. Può anche<br />

verificarsi che i miei occhi, prima <strong>di</strong> fanciullo e poi <strong>di</strong> giovane, non abbiano avuto<br />

capacità <strong>di</strong> analizzare e vedere in giusta misura le cose ma, dato che il mio intento è<br />

solamente quello <strong>di</strong> descrivere la vita or<strong>di</strong>naria, penso <strong>di</strong> poterlo fare senza incorrere<br />

in errori fuorvianti. Sono mosso dal desiderio <strong>di</strong> “fotografare” come si viveva una<br />

vita <strong>di</strong> tanti anni fa.<br />

Ho <strong>di</strong>viso il mio lavoro in tre parti perché sono tre i paesi che mi hanno suscitato<br />

tanti interessi: Costa <strong>di</strong> Rovigo, Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara e San Bellino. Più avanti, la<br />

vita mi ha coinvolto in molteplici problemi che mi hanno costretto a superare <strong>di</strong>fficoltà<br />

<strong>di</strong> ogni genere, ma che hanno lasciato impressi nella memoria i lontani ricor<strong>di</strong>.<br />

Monselice, <strong>di</strong>cembre 2008<br />

5


Costa <strong>di</strong> Rovigo, 1927. Mia madre con in braccio<br />

mia sorella Lucia, a sinistra Luisa, a destra Canzio<br />

e io, vestito da Balilla. Manca l’altra mia sorella,<br />

Carla, ancora in culla.


Prefazione alla nuova e<strong>di</strong>zione<br />

Nel <strong>di</strong>cembre 2008 ho completato queste mie memorie <strong>di</strong> “Vita nella campagna del<br />

Polesine 1925-1935”, dove ho raccontato, dapprima in modo cronologico, tutto quello<br />

che mi aveva interessato da fanciullo e da giovanissimo, riunendo poi, alla fine dello<br />

scritto, tutta la documentazione grafica e fotografica raccolta.<br />

Mi sono reso conto, nel tempo, che questa sistemazione dei materiali illustrativi ha<br />

creato nel lettore <strong>di</strong>fficoltà interpretative, poiché la successione delle tavole non va <strong>di</strong><br />

pari passo con la narrazione del testo.<br />

Ho quin<strong>di</strong> stu<strong>di</strong>ato una ricollocazione delle immagini dopo la relativa descrizione, in<br />

modo che le parole siano subito illustrate da quelle.<br />

Ho approfittato <strong>di</strong> questa revisione anche per ampliare i testi con aggiunte e<br />

precisazioni, che mi sono tornate alla mente in questi ultimi anni, e per arricchire la<br />

documentazione con altre tavole, che devo alla cortesia del compianto amico Bruno<br />

Mardegan.<br />

Con la presente relazione ritengo <strong>di</strong> aver dato un quadro più preciso della modesta e<br />

faticosa vita nelle terre della mia provincia natale <strong>di</strong> Rovigo relativamente al secondo<br />

e terzo decennio del secolo scorso.<br />

Monselice, marzo 2013<br />

7


Me<strong>di</strong>o Polesine. I luoghi ove si sono svolti i fatti e le mie prime esperienze raccontate in<br />

questo libro: Costa <strong>di</strong> Rovigo, Len<strong>di</strong>nara e San Bellino.


Costa <strong>di</strong> Rovigo 1925 - 1929<br />

Il mulino della mia fanciullezza<br />

La prima percezione della realtà che mi circondava è stato il mulino a gas povero<br />

<strong>di</strong> via Scardona, a Costa. La cosa più importante per me era il motore, un mostro<br />

nero che aveva tutto per sé un grande camerone, sempre pieno <strong>di</strong> pulviscolo<br />

quando il motore era in funzione. A fianco vi era un locale più grande, il mulino<br />

vero e proprio mulin, ove erano installate tre coppie <strong>di</strong> macine <strong>di</strong> pietra completate<br />

da vari accessori; una coppia serviva per macinare il frumento, masènare el formento,<br />

un’altra il granoturco formentòn, la terza per produrre grossi sfarinati adatti<br />

agli animali che tutti chiamavano spezànèle. Nel 1927 quel grande e rombante motore<br />

fu eliminato e sostituito con un altro elettrico, molto più piccolo e silenzioso.<br />

Tutto il complesso delle macine invece rimase quello <strong>di</strong> prima. Fu possibile quella<br />

conversione perché nel 1925 iniziarono la costruzione <strong>di</strong> uno zuccherificio funzionante<br />

con l’energia elettrica; così arrivarono le linee ad alta tensione che furono<br />

estese a poco a poco a tutto il paese.<br />

Il mio immaginario ha ancora molto vivi<strong>di</strong> i ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> quei macchinari sparsi<br />

nei due gran<strong>di</strong> cameroni che venivano usati per mulino e vano motore, anche se<br />

da bambino non capivo l’uso <strong>di</strong> tutti quei congegni che servivano per ottenere le<br />

farine. Solo da studente delle me<strong>di</strong>e superiori ho cominciato a rendermi conto dei<br />

vari funzionamenti; poi ho completato le mie conoscenze facendo il mugnaio negli<br />

anni 1937-38, dopo aver conseguito il <strong>di</strong>ploma magistrale.<br />

Quel motore a gas povero e quelle macine hanno sempre suscitato interesse nel<br />

corso della mia vita, per cui ora da vecchio, dopo aver compreso come funzionavano<br />

tutte le apparecchiature, desidero farne una descrizione. Trovo questo utile<br />

anche per i giovani perché capiscano meglio le gran<strong>di</strong> e rapide conquiste della tecnica<br />

moderna. Trattandosi però <strong>di</strong> risultanze che, pur partendo dalla mia infanzia,<br />

si sono perfezionate nel tempo, ritengo giusto precisarle alla fine <strong>di</strong> questi miei<br />

ricor<strong>di</strong>; così posso descrivere specificatamente tutti gli aspetti pratici, esecutivi ed<br />

esplicativi <strong>di</strong> quelle attività che oggi non esistono più, o che comunque ora sono<br />

molto <strong>di</strong>verse.<br />

L’ambiente <strong>di</strong> Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />

La mia casa era sita in una grande fetta <strong>di</strong> terra posta fra il canale A<strong>di</strong>getto e la carrareccia<br />

<strong>di</strong> via Scardona. Questa strada univa il paese con Len<strong>di</strong>nara. Nel lato nord del<br />

terreno, verso la strada, c’erano la casa a palazzetto su tre piani, il mulino, il grande stanzone<br />

per il motore a gas povero e un magazzino. Nel lato sud c’erano un’aia <strong>di</strong> selciato<br />

<strong>di</strong> trachite maségne, un piccolo giar<strong>di</strong>no, un grande orto e un altrettanto grande cortile.<br />

9


Da bambino vedevo tutto questo come spazio immenso ove far correre i miei desideri<br />

e i miei interessi. Quell’immobile era il regno della mia famiglia, dove ciascun<br />

adulto si era ritagliato un particolare interesse personale. Mio padre si era assunto il<br />

compito dell’allevamento del maiale e della coltivazione <strong>di</strong> asparagi e uva; lo zio allevava<br />

conigli e coltivava l’orto, mia madre curava la casa e il giar<strong>di</strong>no, la prozia che noi<br />

cinque fratelli chiamavamo nonna, si interessava dell’allevamento degli animali da<br />

cortile. Io, il più grande dei figli, guardavo attentamente tutto, ma ad attirarmi particolarmente<br />

erano gli animali. Fu così che, un po’ alla volta, imparai come allevare gli<br />

animali da cortile e come sfruttarli per i vari bisogni familiari.<br />

I gallinacei<br />

In cortile razzolavano una quarantina <strong>di</strong> capi <strong>di</strong> pollame <strong>di</strong> varie razze, perché la<br />

nonna ci teneva ad avere animali sempre più gran<strong>di</strong> e per questo faceva scambi<br />

con altre famiglie. Avevamo però anche galline piccole perché erano buone chiocce<br />

cioche. Questo era il ciclo dell’allevamento. In primavera alcune galline cominciavano<br />

ad emettere versi striduli: erano pronte a covare. La nonna ne sceglieva due per<br />

le quali preparava ceste con paglia. Là deponeva le uova che aveva raccolto o scambiato.<br />

Subito le chiocce si mettevano a covare. Quei ni<strong>di</strong> gnari, erano posti in luoghi<br />

tranquilli e non molto illuminati, così le chiocce non venivano <strong>di</strong>sturbate durante<br />

la cova. Ogni giorno però venivano lasciate libere perché potessero bere e mangiare,<br />

mentre le uova venivano ricoperte con stracci <strong>di</strong> lana per mantenerle calde.<br />

Dopo circa due settimane le uova venivano guardate contro la luce <strong>di</strong> una candela<br />

per controllare se il pulcino cominciava a formarsi: era la spera, come <strong>di</strong>cevano.<br />

Le uova senza germe invece avevano il tuorlo che si era trasformato in un liquido<br />

omogeneo con l’albume: erano improduttive e immangiabili perciò venivano gettate<br />

nel letamaio, erano i così detti ovi sguaratoni. Dopo poco tempo nei ni<strong>di</strong> si<br />

sentivano deboli ticchettii, erano i pulcini che cercavano <strong>di</strong> rompere il guscio. La<br />

nonna aiutava quegli sforzi, rompendo il guscio e ne uscivano pulcini pigolanti.<br />

Man mano che nascevano li metteva al caldo dentro un cassetto sotto la piana del<br />

focolare, detta la rola, vi metteva anche una scodellina con un po’ d’acqua e piccoli<br />

pastoni con granellini <strong>di</strong> cereali spezzati: erano i primi assaggi dei pulcini. Finite<br />

le nascite poneva la chioccia sotto un cesto con caratteristiche particolari: rotondo,<br />

senza fondo e con sopra un foro per togliere o mettere la chioccia, era il corgo. Subito<br />

si sentivano gorgheggi particolari, era la chioccia che chiamava attorno a sé i<br />

pulcini. Questi rispondevano subito e s’industriavano a entrare nel corgo, attraverso<br />

una fessura ottenuta rialzandolo un po’ da una parte. Dentro c’erano cibo ed acqua<br />

e la chioccia era tutta presa a insegnare ai pulcini come nutrirsi. Dopo circa un<br />

mese i pulcini erano cresciutelli e la chioccia smetteva <strong>di</strong> gorgheggiare perché aveva<br />

finito la sua mansione <strong>di</strong> madre: i pulcini ormai erano autosufficienti.<br />

10


Quando poi dalle creste era evidente quali fossero i galletti, allora subentrava il lavoro<br />

per trasformarne parecchi in capponi, i caponi.<br />

La nonna li castrava facendo un piccolo taglio nel retro, che poi ricuciva col refe.<br />

Non <strong>di</strong>ventavano più i re del pollaio, ma si ingrassavano: erano scelti poi per i gran<strong>di</strong><br />

pranzi specie quelli natalizi. I galletti non mutilati servivano per i pasti, quando arrivava<br />

il nuovo granoturco. In settembre venivano cotti in umido con salse varie e<br />

mangiati con la polenta <strong>di</strong> granone nuovo.<br />

Ho imparato che era abbastanza facile preparare un gallinaceo per la pentola. Gli si<br />

spezzava il collo con un tiro e lo si appendeva subito a testa in giù per farvi defluire<br />

il sangue. Poi veniva immerso in acqua bollente per spennarlo al meglio e con facilità,<br />

in<strong>di</strong> veniva eviscerato.<br />

Fra le varie interiora saltava fuori il fegato richiesto per il risotto con i fegatini, era<br />

questo il modo <strong>di</strong> preparare un gustoso risotto, il risoto coi ruinazi. Oggi mi pare se<br />

ne sia persa l’abitu<strong>di</strong>ne, forse perché le galline non sono più ruspanti, ma crescono<br />

in batteria, dando però carni piuttosto fibrose e insipide.<br />

Animali da cortile, da sinistra: gallo, chioccia con pulcini, conigli, maiale, tacchino pitòn,<br />

cane, capra, gallina, anatre, oche.<br />

I palmipe<strong>di</strong><br />

La nonna allevava anche una dozzina tra anatre anare, e oche. Comperava le papere<br />

e le alimentava, non a becchime come le galline, ma a pastoni <strong>di</strong> farinacei ed<br />

erbe tritate. Nell’allevamento era aiutata dal vicino corso d’acqua ove gli animali<br />

guazzavano felici per parecchie ore giornaliere. Verso sera tornavano al pollaio<br />

attratte soprattutto dai pastoni che la nonna metteva vicino al portello della recinzione,<br />

che <strong>di</strong>videva l’orto e il cortile dall’argine del canale.<br />

Qualche volta gli animali erano in ritardo, allora io e la nonna andavamo a raccoglierli:<br />

io correvo con un bastone, lei guardava se facevo passi falsi per via<br />

dell’acqua corrente e profonda del vicino canale. In autunno inoltrato era l’ora <strong>di</strong><br />

ingrassare quegli animali a più non posso. Era il momento <strong>di</strong> dar loro tanto cibo<br />

e <strong>di</strong> rinchiuderli in un piccolo locale perché non perdessero carne e grasso col<br />

movimento. Soprattutto le oche avevano un trattamento speciale: messe al buio<br />

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venivano portate, una ad una un paio <strong>di</strong> volte al giorno, in cucina dove la nonna<br />

aveva preparato per loro una grande polenta. La ritagliava in piccole fette e ad ogni<br />

oca ficcava in bocca delle fettine che spingeva con le <strong>di</strong>ta, poi all’esterno del collo<br />

accompagnava il boccone fino allo stomaco con una mano, era l’incoconamento.<br />

Di tanto in tanto la nonna versava dell’acqua nella bocca dell’oca, per favorire la<br />

deglutizione. Dopo un certo periodo gli animali venivano macellati. Era questo un<br />

lavoro lento perché erano necessarie varie operazioni. Dapprima levare le penne,<br />

lo spenamento, che doveva essere fatto con attenzione perché le oche sono coperte<br />

dal cosiddetto piumino, tanto richiesto per trapunte, cuscini e rivestimenti <strong>di</strong> cappotti<br />

foderati. Quando l’animale era eviscerato, veniva tagliato in porzioni e la<br />

carne posta in recipienti, soprattutto pignatte o vasi <strong>di</strong> vetro. Tutto il grasso veniva<br />

squagliato a fuoco e versato nei vasi per rasarli. Il fegato dell’oca, boccone ricercato,<br />

era servito subito a tavola. Le anatre venivano anch’esse tagliate a pezzi e messe in<br />

pignatte come le oche. Con questo sistema si ottenevano carni prelibate, che potevano<br />

essere conservate e mangiate anche dopo parecchi mesi.<br />

La nonna, seduta in cucina, riempie a forza il gozzo delle oche da ingrasso con fette <strong>di</strong><br />

polenta.<br />

Il maiale<br />

La nostra famiglia aveva un porcile lontano dalla casa per evitare che nei luoghi<br />

abitati si <strong>di</strong>ffondessero cattivi odori. Il porcile era tutto <strong>di</strong> legno e il pavimento<br />

era formato da pali accostati fra loro e un po’ sollevati dal terreno in modo che<br />

i liquami fossero raccolti in una buca poco profonda. Il maiale poteva uscire a<br />

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grufolare in un piccolo recinto. La broda, fatta <strong>di</strong> crusche, patate e zucche, veniva<br />

versata in un truogolo albio, posto in una parete, mezzo fuori e mezzo dentro per<br />

facilitare i rifornimenti e nel contempo permettere al maiale <strong>di</strong> mangiare.<br />

D’estate la zona veniva rinfrescata dai rami delle zucche che vi crescevano attorno<br />

numerose e fitte, coprendo con le loro larghe foglie sia il porcile che il recinto.<br />

Sopra a questi c’erano dei pali <strong>di</strong> sostegno orizzontali la penda. A Costa c’era il<br />

detto: “girare come na zuca su la penda” per <strong>di</strong>re che uno rimaneva sempre nel<br />

luogo dove aveva la casa.<br />

Quando arrivava il freddo invernale era l’ora <strong>di</strong> fare i salami, far su el porzeo. Il<br />

norcino incaricato portava il giorno prima una tinozza a forma <strong>di</strong> parallelepipedo<br />

veturo, simile a quello che serviva per la pigiatura dell’uva e, ancora, un grande<br />

copritavolo <strong>di</strong> legno e delle corde. Il giorno dopo arrivava <strong>di</strong> buon mattino con la<br />

sua attrezzatura <strong>di</strong> coltelli e raschietti. Intanto i miei genitori avevano fatto bollire<br />

dell’acqua in un grande paiolo parolon. Rovesciato il veturo, il norcino con una<br />

cor<strong>di</strong>cella legata sul grugno del maiale, lo trascinava dove era tutto pre<strong>di</strong>sposto<br />

per lo sgozzamento. Anche se il maiale recalcitrava e grugniva a più non posso,<br />

con forza veniva issato sul vetùro rovesciato. Il maiale ormai domo veniva ucciso<br />

infiggendo un coltello lungo e appuntito sulla vena iugulare. Ne usciva tanto<br />

sangue che veniva raccolto in una grande terrina per fare il migliaccio, chiamato<br />

genericamente in <strong>di</strong>aletto sangue. Successivamente il maiale veniva immerso nel<br />

veturo pieno d’acqua calda per pulire la cotica con i raschietti.<br />

Per girarlo bene da tutte le parti, usavano due corde passanti sotto l’animale.<br />

Finito il lavoro <strong>di</strong> pulizia, che doveva essere accurato, il maiale veniva sollevato<br />

con un ru<strong>di</strong>mentale argano e fissato sulle travi <strong>di</strong> un solaio, in un luogo freddo<br />

a nord. Lo ponevano con la testa in giù per poterlo tagliare a metà lungo tutto il<br />

ventre e togliere prima le interiora, mentre mia madre cospargeva il pavimento<br />

sottostante <strong>di</strong> segatura o cenere per raccogliere gli eventuali liqui<strong>di</strong>.<br />

Invariabilmente il companatico <strong>di</strong> quel giorno era il fegato alla veneziana, cioè<br />

cotto con la cipolla. Una parte del fegato veniva portato in farmacia dove c’era<br />

l’appuntamento col veterinario che lo doveva controllare, tagliuzzandolo un po’,<br />

per vedere se il maiale era sano. Il norcino, con delle bacchette <strong>di</strong> salice scorticate,<br />

metteva dei puntelli sia per tenere aperta la bocca, sia per aprire al massimo<br />

le due parti del ventre tagliate verticalmente le mezane, poi puliva le budella riutilizzabili.<br />

Dopo vari giorni <strong>di</strong> frollatura, il norcino <strong>di</strong> buon mattino arrivava<br />

con la macchina per macinare la carne, con i pungiglioni spuncioni, per aerare gli<br />

insaccati e con lo spago per legare i salami. I pungiglioni erano formati da grossi<br />

tappi <strong>di</strong> sughero ove erano infilati lunghi aghi con la testa a sfera <strong>di</strong> color nero che<br />

usavano le donne anziane per fissare gli scialli fra i capelli, anch’essi generalmente<br />

neri, che usavano per andare a messa o per ripararsi nei mesi invernali. Mio padre<br />

intanto aveva provveduto a comperare sale, pepe, vino nero per le bon<strong>di</strong>ole e<br />

13


infine budella secche che aveva già messe in acqua calda per ammorbi<strong>di</strong>rle.<br />

Il norcino iniziava la macellazione vera e propria: tagliava la carne, spolpava le<br />

ossa e il tutto veniva usato per i vari tipi <strong>di</strong> salami: salami da taglio con e senza<br />

aglio, cotechini, salsicce luganeghe, bon<strong>di</strong>ole e soppresse. Mia madre metteva le<br />

ossa in una solida cassa posta in zona fresca; quelle ossa servivano per con<strong>di</strong>re<br />

ogni giorno la minestra. I veli <strong>di</strong> grasso, che coprivano le interiora, venivano<br />

messi sul fuoco per ottenere lo strutto, unto che serviva a con<strong>di</strong>re pane e pinza,<br />

mentre i residui soli<strong>di</strong> i ciccioli zìzole, servivano come completamento del companatico.<br />

Il norcino tagliava gran<strong>di</strong> fette <strong>di</strong> lardo con la cotica; queste venivano subito<br />

appese alle perteghe dei salami perché rinsecchissero un poco, servivano per fare<br />

il pesto per con<strong>di</strong>re la minestra. Per molti mesi nelle mattinate, passando lungo le<br />

strade del paese, si sentivano battere dei pesanti coltelli su un tagliere per sminuzzare<br />

al massimo una fetta <strong>di</strong> lardo: le massaie stavano preparando il pranzo.<br />

A furia <strong>di</strong> battere, nel tagliere <strong>di</strong> legno si formavano delle buche; più erano profonde<br />

e larghe meglio davano un segnale che le massaie sapevano cucinare.<br />

Quello che mi piaceva vedere <strong>di</strong> più erano le corone <strong>di</strong> salsicce luganeghe, forse<br />

anche perché le trovavo gustose, sia cotte sulla graticola del focolare, sia usate per<br />

con<strong>di</strong>re la minestra. Tutti gli insaccati venivano posti in un luogo fresco, appesi<br />

alle pertiche le perteghe dei salami, perché là erano <strong>di</strong>fese dai gatti e dai topi. Le<br />

pertiche erano agganciate con tiranti <strong>di</strong> fil <strong>di</strong> ferro a chiodelle infisse sulle travi<br />

del solaio superiore. I salumi erano legati così in alto che i gatti, per quanti salti<br />

facessero, non riuscivano a raggiungerli. Per i topi c’era poi un accorgimento <strong>di</strong>verso.<br />

Dei gran<strong>di</strong> piatti forati al centro venivano infilati a rovescio nei fili <strong>di</strong> sostegno<br />

delle pertiche.<br />

I topi che scendevano dalle loro tane, quando arrivavano sulla faccia inclinata<br />

verso il basso del piatto <strong>di</strong> ceramica, non riuscivano a superarla e scivolavano a<br />

terra ove, quasi sempre, c’erano i gatti in attesa. In tutto il periodo invernale era<br />

un continuo mangiare <strong>di</strong> salami, cotti in tutti i mo<strong>di</strong>, con contorni <strong>di</strong> verze raccolte<br />

nel nostro orto e gran<strong>di</strong> fette <strong>di</strong> polenta.<br />

Allora era uso che tutti coloro che uccidevano il maiale portassero alla maestra<br />

dei propri figli un pezzo <strong>di</strong> fegato o un cotechino coeghìn. Ero io che annualmente<br />

portavo alla maestra un cartoccio <strong>di</strong> salumi e ogni volta mia madre mi ripeteva:<br />

“È un piccolo dono a chi lavora tanto per insegnarti ed educarti”.<br />

Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni retorica posso <strong>di</strong>re che la mia maestra in cinque anni non solo<br />

mi insegnò a “leggere scrivere e far <strong>di</strong> conto”, come si <strong>di</strong>ceva in quei tempi, ma<br />

mi <strong>di</strong>ede anche regole <strong>di</strong> educazione morale e civile che ancora adesso osservo e<br />

ricordo e che purtroppo oggi pochi insegnano.<br />

14


Il norcino legava con<br />

un nodo scorsoio il<br />

muso del maiale, così<br />

poteva trascinarlo<br />

più facilmente perché,<br />

più la corda era tesa,<br />

più il maiale sentiva<br />

dolore. Varie persone<br />

poi ponevano il<br />

maiale sopra il veturo<br />

rovesciato affinché<br />

potesse essere sgozzato.<br />

Il maiale con la cotica<br />

ben pulita veniva<br />

appeso alle travi e<br />

squartato a metà per<br />

levare e pulire tutte le<br />

interiora.<br />

I salami venivano<br />

appesi a una pertica<br />

fissata in alto sotto<br />

un solaio, in un<br />

luogo fresco per la<br />

stagionatura.<br />

Il norcino spolpava<br />

le ossa, macinava a<br />

mano la carne e faceva<br />

i vari tipi <strong>di</strong> salami.<br />

Usava per questi<br />

la stessa macchina<br />

tritacarne con<br />

l’aggiunta <strong>di</strong><br />

un cilindro che<br />

permetteva <strong>di</strong> infilare<br />

l’amalgama <strong>di</strong> carne,<br />

sale e vino entro le<br />

budella.<br />

15


I conigli<br />

Zio Giacinto era un appassionato <strong>di</strong> conigli, conèi; <strong>di</strong> loro conosceva tutto: razze,<br />

preferenze alimentari, gestazioni e come curarli. Cominciò con una coppia e una<br />

gabbia costruita alla buona, poi si interessò a fondo del problema. Lo zio andò alla<br />

fiera campionaria <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, forse nel 1925, e ritornò con una coppia <strong>di</strong> grossi conigli<br />

<strong>di</strong> razza fiamminga e <strong>di</strong> color grigio. Là aveva anche ascoltato tante in<strong>di</strong>cazioni sulle<br />

conigliere e sui meto<strong>di</strong> da osservare nell’allevamento. Costruì subito all’esterno, con<br />

liste <strong>di</strong> legno (le liste erano travetti da quattro metri), quattro box addossati al muro<br />

del locale motore a gas povero. Sembravano costruiti da un falegname. Ogni box<br />

aveva il pavimento <strong>di</strong> un metro quadrato, così pure era grande lo sportello; tutt’intorno<br />

erano racchiusi da rete zincata con fori piccoli. La pavimentazione era formata<br />

da listelli quasi accostati per favorire l’espulsione degli escrementi. Questi non cadevano<br />

per terra ma entro un cassetto estraibile per facilitare le pulizie dei pavimenti.<br />

I box erano alti da terra circa un metro così lo zio poteva anche controllare bene<br />

tutti gli animali e le pulizie interne; <strong>di</strong>ceva sempre che l’igiene è la prima me<strong>di</strong>cina <strong>di</strong><br />

qualsiasi animale. Ben presto quei conigli, estremamente prolifici, si moltiplicarono,<br />

perciò lo zio si preoccupò <strong>di</strong> integrarli con altre razze. Nacquero allora coniglietti<br />

<strong>di</strong> razze e grandezze <strong>di</strong>verse. Era sempre lui che li accu<strong>di</strong>va che portava il cibo e<br />

cambiava l’acqua. Usava le verdure e le erbe dell’orto e i cascami del mulino per i<br />

pastoni. Piano piano lo zio si invogliò fino a costruire altri quattro gran<strong>di</strong> box e arrivò<br />

ad avere anche una sessantina <strong>di</strong> animali. Quelli che a me piacevano <strong>di</strong> più erano<br />

i conigli bianchi, dal pelo lungo <strong>di</strong> razza d’Angora, anche perché avevano degli<br />

occhi rossi brillanti. Fu per questi allevamenti che in casa si cominciò a mangiare<br />

settimanalmente carne <strong>di</strong> coniglio, che tutti apprezzavano. Lo zio per la macellazione<br />

dei conigli si comportava sempre allo stesso modo: prima sceglieva con attenzione il<br />

capo da abbattere, poi l’uccideva con un colpo alla nuca. Io, sempre curioso, osservavo<br />

quando faceva queste operazioni; sulle prime non le capivo poi via via nel tempo me<br />

ne sono reso conto. Se la prescelta era una femmina prima le tastava il basso ventre<br />

per controllare se c’era una gestazione in fieri. Se la femmina aspettava una cucciolata,<br />

veniva rimessa nella gabbia. Poi seguiva anche un altro criterio nella scelta, faceva<br />

una selezione genetica. I capi più vigorosi li teneva per la riproduzione, uccideva gli<br />

esemplari più deboli o che erano in eccedenza fra maschi e femmine. Appendeva<br />

l’animale ucciso con la testa in giù, sia per convogliare il sangue verso la testa, sia<br />

perché quella posizione era utile per la scuoiatura. Lo zio circoncideva la pelliccia<br />

nella parte posteriore del corpo, poi d’un colpo scamiciava l’animale fino alla testa,<br />

che veniva tagliata e gettata via, così si trovava in mano un cilindro peloso all’interno.<br />

A completamento levava le interiora all’animale e riempiva <strong>di</strong> paglia il manicotto <strong>di</strong><br />

pelle per seccarlo. Squartata a pezzi, la carne veniva messa nell’aceto perché perdesse<br />

l’odore <strong>di</strong> selvatico, poi era pronta per la cottura. La pelle, quando era secca, veniva<br />

usata per fare manopole sui manubri delle bici e delle moto; anch’io le ho adoperate<br />

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per quasi sei anni quando andavo in bici alla stazione ferroviaria <strong>di</strong> Fratta Polesine,<br />

partendo da San Bellino, per recarmi a scuola a Rovigo. Ora l’attività cunicola è fatta in<br />

batteria, usando mangimi per una rapida crescita degli animali. Oggi nei supermercati<br />

si trova la carne <strong>di</strong> coniglio dai sapori meno accentuati <strong>di</strong> una volta, ma a un costo<br />

relativamente basso se lo si confronta con i lunghi lavori che faceva lo zio.<br />

Il baco da seta<br />

A Costa era molto <strong>di</strong>ffuso l’allevamento dei bachi da seta i cavalieri, fatto nella tarda<br />

primavera. Tante famiglie si ingegnavano a fare questo lavoro suppletivo perché<br />

generalmente dava un buon guadagno in poco tempo. Per l’allevamento occorrevano<br />

circa un mese <strong>di</strong> lavoro, delle modeste attrezzature e tanti alberi <strong>di</strong> gelso; ma questi in<br />

paese erano <strong>di</strong>sponibili ovunque: nei cortili nei giar<strong>di</strong>ni e nei filari delle campagne.<br />

Erano giorni <strong>di</strong> lavori intensi per le pulizie, per la <strong>di</strong>sinfestazione con vapori <strong>di</strong> zolfo<br />

e per dare cibo costante <strong>di</strong> foglie ai cavalieri. Occorreva anche preparare per loro superfici<br />

sempre più ampie perché essi ingran<strong>di</strong>vano smisuratamente in breve tempo,<br />

da qualche millimetro arrivavano fino a otto centimetri. La mia famiglia non faceva<br />

quell’allevamento, ma alla scuola elementare l’insegnante ce lo spiegava, sia perché<br />

lei da bambina era vissuta in mezzo a quel lavoro, sia perché era un allevamento<br />

specifico e red<strong>di</strong>tizio per tutto il paese. Io ho visto qua e là tutte le fasi <strong>di</strong> sviluppo dei<br />

bachi, i gestori però non sempre lasciavano entrare nei locali perché temevano che gli<br />

estranei fossero portatori <strong>di</strong> malattie.<br />

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Ogni allevatore comperava le uova del baco, che erano piccolissime e bianchicce, le<br />

semenze, presso gli stabilimenti bacologici ove curavano le malattie e creavano ibri<strong>di</strong><br />

sempre più resistenti ai malanni. La misura per l’acquisto era l’oncia, ònza, quantità<br />

<strong>di</strong> peso inglese pari a circa 28 grammi. Mi pare <strong>di</strong> ricordare che generalmente ogni<br />

famiglia comperasse un’onza e meza o due. Ben presto con il tepore della bella stagione<br />

nascevano le larve, che dopo breve tempo <strong>di</strong>venivano voracissimi bruchi pelosi<br />

<strong>di</strong> color bianco e bruno, i bigàti. Dovevano avere abbondante spazio, per non sovrapporsi<br />

gli uni sugli altri e per poter brucare continuamente le foglie <strong>di</strong> gelso.<br />

I bruchi non sviluppavano contemporaneamente il loro corpo assieme alla loro pelle,<br />

per cui facevano tre o quattro mute durante le quali perdevano la pelle più piccola e<br />

ne facevano crescere un’altra più grande.<br />

Se all’inizio alle piccole larve davano foglie tritate, ai bruchi davano prima solo foglie<br />

e poi rami con foglie. Era in questa ultima fase che il lavoro <strong>di</strong> preparazione delle<br />

foglie <strong>di</strong> gelso si faceva frenetico, mentre per noi bambini era il momento <strong>di</strong> raccogliere<br />

le more mature.<br />

Di more ve ne erano almeno tre tipi: bianche o nere che erano zuccherine e rosse<br />

che erano un po’ acidule. Personalmente preferivo le nere perché le bianche erano<br />

troppo dolci. Ne facevo grosse mangiate gratuite perché bastava salire su un albero e<br />

raccoglierle.<br />

I bachi da seta erano tenuti sempre molto puliti e stesi sui graticci <strong>di</strong> erbe palustri<br />

grisole, sostenute da trespoli per formare tanti ripiani sovrapposti, detti castelli<br />

castei. Quando si entrava nei locali dei bachi, verso la fine dei loro cicli, si sentiva un<br />

ronzio continuo, era il loro rodere le foglie. Alla fine gli allevatori facevano il bosco,<br />

cioè stendevano sulle grisiole rami senza foglie, socchiudevano le imposte e i bachi<br />

<strong>di</strong>ventavano crisali<strong>di</strong> racchiudendosi entro i bozzoli <strong>di</strong> seta che formavano con la<br />

loro bava. Talvolta c’erano dei bachi che <strong>di</strong>ventavano flacci<strong>di</strong>, <strong>di</strong> color giallo o bianco,<br />

questi non facevano il bozzolo, erano andati in vaca.<br />

Se la malattia si <strong>di</strong>ffondeva fra i bachi gli allevatori ci rimettevano tutto, però non<br />

ricordo che degli allevamenti si siano rovinati del tutto, anzi ho visto solamente pochi<br />

bachi flacci<strong>di</strong>, poche vache.<br />

Fatto il bozzolo tutti si affrettavano a raccoglierli, venderli e <strong>di</strong>sfare i boschi per fare<br />

le pulizie finali. I fili esterni al bozzolo, che collegavano a mo’ <strong>di</strong> ragnatela i vari rametti<br />

<strong>di</strong> legno, venivano raccolti e anch’essi venduti o regalati. Ricordo che mia nonna<br />

mi fece una trapunta da letto con quei cascami. Ogni anno trovavo chi mi regalava<br />

qualche bozzolo che mettevo su un pezzo <strong>di</strong> giornale steso sul mio tavolino. Dopo<br />

non molto tempo il baco concludeva la sua metamorfosi e allora vedevo parecchie<br />

semenze sparse sul tavolino mentre svolazzavano piccole e tozze farfalle bianchicce. È<br />

per questo fatto che i bozzoli venivano venduti al più presto alle filande, che provvedevano<br />

subito a far morire le crisali<strong>di</strong>, onde evitare lo sfarfallamento che avrebbe<br />

rovinato il filo <strong>di</strong> seta.<br />

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Allevamento dei bachi da seta. I bruchi, bigati, sono stesi sui ripiani delle grisiole <strong>di</strong> un<br />

castello all’italiana castelo. Questi sono poi puliti e i cavalieri sono alimentati con foglie<br />

<strong>di</strong> gelso moraro tritate.<br />

Il bucato<br />

Prima della lavatrice e <strong>di</strong> tutti i vari prodotti saponosi <strong>di</strong>ffusi nell’ultimo dopoguerra,<br />

le massaie per il bucato dovevano usare cenere, che era la lisciva naturale, brusche<br />

<strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ca, pezzi <strong>di</strong> sapone, mastelli d’acqua e tanto lavoro. Quando io ero bambino<br />

i lavaggi erano <strong>di</strong> due tipi. Quello relativo alle vesti che era fatto a seconda delle necessità,<br />

quello della biancheria, lenzuola tovaglie ecc. che avveniva a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> mesi<br />

e solo durante la bella stagione, era il bugà, così lo chiamava mia madre. Nelle case<br />

c’erano sacchi <strong>di</strong> tela o ripostigli ove venivano custo<strong>di</strong>te le telerie sporche per ammucchiarle<br />

e lavarle tutte contemporaneamente. Nonostante i pochi lavaggi i ricambi<br />

<strong>di</strong> biancheria erano sempre eseguiti perché tutte le spose portavano in “dote” tante<br />

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lenzuola, tovaglie e tende. Era d’uso che la famiglia d’origine delle donne desse alla<br />

novella sposa molta biancheria da usarsi nella nuova famiglia, era cosa importante<br />

tanto che la “dote” veniva conteggiata nell’asse ere<strong>di</strong>tario. A Costa fra le varie costruzioni<br />

avevamo la lavanderia, ove venivano custo<strong>di</strong>te mastelle <strong>di</strong> varia grandezza (le me<strong>di</strong>e<br />

o piccole mastèle, le gran<strong>di</strong> mastelòni), accessori, come tavole da bucato e cavalletti.<br />

Il bugà, veniva eseguito da più donne proprio per la sua complessità e per la tanta<br />

biancheria da lavare. Una grossa mastella veniva posta su un trespolo per favorire il<br />

lavoro delle donne quando la riempivano <strong>di</strong> lenzuola e tovaglie ben piegate, poste a<br />

strati sovrapposti. Durante questo lavoro veniva riscaldata dell’acqua in un grande<br />

paiolo el parolòn, posto su un fornello esterno la fornèla.<br />

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La massaia lavava servendosi <strong>di</strong> una tavola verticale che veniva fissata entro la mastella.<br />

C’erano però anche tavole usate orizzontalmente che erano tenute ferme dalle due doghe<br />

rialzate che servivano per il trasporto.<br />

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Prima che l’acqua bollisse vi mettevano dentro un’abbondante dose <strong>di</strong> cenere ottenuta<br />

nell’inverno dai ceppi bruciati nel camino. L’acqua, bollendo, trasformava le ceneri in<br />

lisciva naturale cioè in una soluzione per lavaggi a base <strong>di</strong> sali <strong>di</strong> so<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> potassio,<br />

importante per detergere la biancheria. L’acqua calda e saponosa veniva versata lentamente<br />

nel mastelòn previa stesa <strong>di</strong> un telo per la raccolta delle ceneri el bugaròlo. L’acqua<br />

bagnava ogni pezzo <strong>di</strong> tela sciogliendo parecchio su<strong>di</strong>ciume. Dopo alcuni giorni<br />

essa veniva spillata, poi iniziava la rilavatura <strong>di</strong> ogni capo per togliere le eventuali macchie<br />

rimaste. Questo lavoro veniva eseguito con pezzi <strong>di</strong> sapone Marsiglia e brusche <strong>di</strong><br />

ra<strong>di</strong>ca, unitamente da due donne con due mastelle vicine e piene d’acqua pulita.<br />

Ciascuna usava una tavola <strong>di</strong> legno, generalmente rettangolare, <strong>di</strong> circa ottanta<br />

per sessanta centimetri, che aveva a sinistra un riquadro per deporvi il sapone e<br />

la brusca e che aveva pure un risvolto inclinato per appoggiarvi il corpo. Infatti<br />

la tavola veniva tenuta fissata tra il corpo della lavoratrice e due doghe sporgenti<br />

della mastella. Occorreva che le due lavandaie lavassero all’unisono le lenzuola e<br />

le tovaglie, per insaponarle e strizzarle dall’acqua. Quei capi venivano posti poi su<br />

cavalletti, facili da trasportare per il risciacquo resentare, che veniva fatto generalmente<br />

dove c’era l’acqua corrente. Da noi sotto casa passava il canale A<strong>di</strong>getto che<br />

serviva per l’ultima lavatura dato che aveva l’acqua limpida. Sulla sponda del canale<br />

venivano fissate, con robusti picchetti, due tavole con inginocchiatoio dove si ponevano<br />

le lavandaie per poter risciacquare, era lo scagno. Per ultimo c’era la stesa al sole<br />

<strong>di</strong> tutta la biancheria, posta su lunghe corde sostenute da pertiche che avevano nella<br />

parte terminale una forcella.<br />

Fornitura dell’acqua<br />

Una volta, in tutti i nostri paesi sparsi sul territorio non vi erano acquedotti né fognature:<br />

si sopperiva con pozzi e letamai.<br />

I pozzi erano parecchi e tutti erano a <strong>di</strong>sposizione, per tra<strong>di</strong>zione, dell’intera collettività.<br />

Erano costruiti con mattoni sagomati, i pozzàli, che, uniti tra loro con calce,<br />

formavano un cilindro del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa 1.20/1.40 metri. Anche il parapetto era<br />

in mattoni ed era completato da una pesante armilla, la vera, <strong>di</strong> pietra bianca d’Istria<br />

o <strong>di</strong> trachite grigia che sosteneva un arco <strong>di</strong> ferro infisso e fissato con piombo.<br />

Sull’arco c’era una carrucola <strong>di</strong> ferro con catena <strong>di</strong> scorrimento, ove, a un capo, era<br />

legato un secchio. Tutti i proprietari dei pozzi erano forniti <strong>di</strong> un arpione a tre punte<br />

per il ripescaggio del secchio nel caso cadesse nel pozzo.<br />

La fornitura giornaliera d’acqua era generalmente fatta dalle donne che trasportavano<br />

due secchi a mezzo <strong>di</strong> un arconcello bigòlo che ponevano in spalla.<br />

Tutti i rifiuti <strong>di</strong> casa venivano gettati nel letamaio e poi, dopo la fermentazione, erano<br />

usati negli orti.<br />

Nelle case non c’erano gabinetti; vi erano solo latrine poste all’esterno: pure questi<br />

liquami, dopo la fermentazione, venivano sparsi negli orti. Tutto serviva da concime.<br />

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Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara – 1930<br />

Premessa<br />

Valdentro, frazione <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara, è una striscia <strong>di</strong> terreno, fiancheggiata dal canale<br />

A<strong>di</strong>getto, che si incunea nel comune <strong>di</strong> Villanova del Ghebbo. Io ho abitato in quel<br />

paesetto solamente per un anno, dal marzo 1930 al marzo 1931, ma sufficiente però<br />

perché vedessi e fissasi nella mente i meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> lavoro dei calzolai scarpàri, là numerosi.<br />

In quel tempo era prospera la fabbricazione <strong>di</strong> scarpe a cui partecipavano<br />

tanti artigiani sia <strong>di</strong> Villanova del Ghebbo che <strong>di</strong> Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara.<br />

A fianco della mia casa abitava proprio un calzolaio presso il quale passai molte ore.<br />

Si chiamava Albino, ma lo era anche <strong>di</strong> fatto perché tutti i peli della sua faccia erano<br />

bianchi. Avrà avuto cinquant’anni, era sposato senza figli. Aveva una modesta casa<br />

su due piani; al piano terra una entrata con le scale, dove lavorava nell’estate, e una<br />

cucina con un vecchio camino dove lavorava nell’inverno.<br />

A cominciare dalla primavera del 1930 io avevo sufficiente tempo libero perché<br />

avevo già completate le scuole elementari e stavo preparandomi solo per l’esame <strong>di</strong><br />

ammissione alle scuole me<strong>di</strong>e <strong>di</strong> Rovigo. Poi durante l’estate ebbi molto tempo a <strong>di</strong>sposizione<br />

perché ero stato promosso. Così passavo nel mulino <strong>di</strong> mio padre qualche<br />

ora, ma il resto del mio tempo lo trascorrevo da Albino, perché ero affascinato dal<br />

suo lavoro che non avevo mai visto prima.<br />

Il calzolaio<br />

Albino costruiva scarpe a contratto. Gli davano tomaie, cuoio, pellame e il cartone<br />

necessario per il confezionamento, lui ci metteva tutto il resto. Nell’entrata della casa,<br />

su una parete aveva appese tante forme <strong>di</strong> legno legate a coppie che gli erano necessarie<br />

per la confezione delle scarpe. Le forme avevano la soletta in lamiera <strong>di</strong> acciaio<br />

che serviva per ribattere i chio<strong>di</strong>ni somenze, ed erano <strong>di</strong>vise orizzontalmente in due<br />

parti, che si incastravano fra loro, per renderne possibile l’estrazione dopo che la<br />

scarpa era finita.<br />

Albino lavorava sempre alacremente per riuscire a preparare almeno due paia <strong>di</strong><br />

scarpe al giorno. Mi <strong>di</strong>ceva che doveva essere veloce perché altrimenti sarebbe morto<br />

<strong>di</strong> fame, dato che per ogni paio riceveva una misera cifra. Aveva calli e duroni sparsi<br />

nelle mani. Alcune <strong>di</strong>ta erano deformate, specie i pollici, perché le usava per spianare<br />

le pelli e cucire il cuoio a mano. Durante il lavoro adoperava anche la bocca, che<br />

trasformava in un serbatoio delle somenze, necessarie <strong>di</strong> volta in volta.<br />

23


Le sputava a piccoli intervalli e in giusta posizione con la testa sul retro, subito le posizionava<br />

verticalmente battendole col martello: era una macchina che mi incantava. Per<br />

accelerare le esecuzioni, usava il metodo <strong>di</strong> seguire la stessa fase lavorativa per più capi.<br />

Aveva un vecchio deschetto bancheto vecio, pieno <strong>di</strong> piccoli utensili e <strong>di</strong> alcuni materiali<br />

che gli servivano per i lavori. La piana del deschetto aveva un risalto perimetrale<br />

per evitare la caduta degli oggetti. Sul davanti c’erano vari contenitori per i<br />

chio<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa lunghezza. Ai fianchi erano appesi quegli oggetti che servivano<br />

per i lavori finali. Sul davanti aveva anche un cassetto ove conservava spago, cere,<br />

trincetti appena arrotati e la macchinetta per scaldare le cere. Prima <strong>di</strong> iniziare indossava<br />

un grembiule <strong>di</strong> tela rinforzato da strisce <strong>di</strong> pelle, una sul petto per quando<br />

tagliava il cuoio, una sulla gamba dove arrotolava gli spaghi. Si sedeva davanti al<br />

deschetto su un basso sgabello careghéta con cuscino, fornito <strong>di</strong> schienale per appoggiarvisi<br />

quando si stiracchiava le membra.<br />

Il lavoro iniziava preparando le solette col sagomare cartone e crosta <strong>di</strong> cuoio incollati<br />

fra loro. In<strong>di</strong> incollava tra fodera e pelle il puntale della tomaia e il tallone, usando<br />

cartone e poche volte crosta <strong>di</strong> cuoio.<br />

Usava la colla, che era <strong>di</strong> color bruno, spalmandola sui pezzi da infilare poi li lasciava<br />

da parte per vari minuti perché la colla si indurisse senza però perdere la capacità <strong>di</strong><br />

collante; naturalmente nell’attesa preparava altri lavori. In contemporanea sistemava<br />

in via provvisoria soletta e tomaia sulla forma usando somenze lunghe senza impiantarle<br />

totalmente. Completato questo collegamento perimetrale in modo preciso, passava<br />

a quello definitivo impiantando somenze piccole, che venivano risvoltate dalla<br />

lamiera <strong>di</strong> base della forma, stirando ben bene la pelle con una tenaglia a ganasce<br />

piane. Era in queste fasi che la bocca <strong>di</strong> Albino <strong>di</strong>ventava “una sputa chio<strong>di</strong>”. Dopo,<br />

egli levava con una tenaglia normale i chio<strong>di</strong>ni piantati provvisoriamente e nel contempo<br />

preparava gli spaghi per le due cuciture necessarie per completare le scarpe.<br />

Una serviva per unire alla tomaia il guàrdolo, che è una stretta striscia <strong>di</strong> cuoio, l’altra<br />

per unire il guàrdolo con la suola. Le due cuciture non erano fatte allo stesso modo; la<br />

prima era a punto lungo perché poi era nascosta dalla suola, la seconda a punto corto<br />

e regolare perché rimaneva a vista.<br />

I gomitoli <strong>di</strong> spago per calzolai erano formati da un sottile filo <strong>di</strong> canapa, che tutti<br />

chiamavano spago sforzin, forse perché serviva anche ai carrettieri per far schioccare le<br />

fruste scùrie. Albino raddoppiava o triplicava i fili e li arrotolava fra loro con la mano,<br />

servendosi come piano <strong>di</strong> lavoro della coscia protetta dal grembiule, che aveva cucita<br />

una lista <strong>di</strong> pelle. Faceva questo lavoro usando la pece per l’adesione dei vari fili e poi<br />

la cera d’ape per favorirne la scorrevolezza. Completava il tutto innescando per ogni<br />

capo delle setole <strong>di</strong> maiale o degli aghi ricurvi senza cruna. Prima <strong>di</strong> cucire la suola<br />

Albino rispianava l’incavo formato dal risvolto della tomaia inchiodata sulla soletta.<br />

per quel lavoro usava un cartone violaceo, duro e resistente per qualche tempo anche<br />

all’acqua. Fissava quel cartone ridotto a scaglie con un po’ <strong>di</strong> chio<strong>di</strong>ni lunghi e colla,<br />

24


costruendo anche nel contempo l’impronta dei tacchi. Spesso in queste fasi <strong>di</strong> lavoro<br />

Albino si sfogava <strong>di</strong>cendo che i cartoni messi nelle scarpe erano un imbroglio fatto<br />

dai commercianti solo per <strong>di</strong>minuire il più possibile i costi, <strong>di</strong>cendo però ai clienti<br />

che le loro scarpe erano totalmente <strong>di</strong> cuoio. Un suo lavoro <strong>di</strong> intermezzo era quello<br />

<strong>di</strong> sagomare il cuoio delle suole e dei tacchi e poi batterlo sulla faccia piana <strong>di</strong> un<br />

sasso che posizionava fra le sue cosce. Per ritagliare cuoio o cartoni usava trincetti<br />

<strong>di</strong>versi cortéi, sulla piana del deschetto ne aveva molti e a ogni ripresa rifaceva il<br />

filo con la cote piera, bagnata con una spugnetta. Questa era sempre pronta perché<br />

la usava anche per altre necessità. Nei bor<strong>di</strong> della suola faceva un intaglio poco<br />

profondo usando sempre la spugna per bagnare il cuoio onde ammorbi<strong>di</strong>rlo; poi<br />

rialzava la slabbratura con un piccolo strumento <strong>di</strong> legno per fare nell’incavo la<br />

cucitura tra il guàrdolo e la suola. Finito questo lavoro abbassava la slabbratura con<br />

un altro piccolo strumento, così veniva ricoperta la cucitura stessa.<br />

Albino quando cuciva si copriva le mani con speciali guanti <strong>di</strong> pelle, poi per prima<br />

cosa introduceva la punta della lesina in un panetto <strong>di</strong> cera d’ape per farla scorrere<br />

meglio durante la foratura. Quando iniziava il lavoro faceva un foro all’inizio del<br />

guardolo infilandovi lo spago per metà, faceva poi un secondo foro ove infilava <strong>di</strong><br />

qua e <strong>di</strong> là i due cappi liberi dello spago tirandoli fino a fare un punto lasco.<br />

Il calzolaio batte con il martello per fissare il tacco della scarpa. Il suo deschetto era il<br />

deposito <strong>di</strong> tutti gli arnesi necessari al lavoro.<br />

25


Alla fine si avvolgeva per ogni mano un capo dello spago dando contemporaneamente<br />

due forti strattoni in modo che il punto <strong>di</strong>ventasse stretto e a tenuta. Disfaceva<br />

poi gli avvolgimenti attorno alle mani, faceva un altro foro ripetendo quei<br />

movimenti che ho descritto. Così fino alla fine sempre badando alla regolarità<br />

dei punti e favorendo il lavoro della lesina sfregandola sulla cera <strong>di</strong> tanto in tanto.<br />

Dopo c’erano il completamento dei tacchi e i lavori <strong>di</strong> lisciatura dei dorsi del<br />

cuoio. Albino correggeva le irregolarità maggiori con una raspa, poi lisciava il<br />

tutto con gli spigoli <strong>di</strong> pezzi <strong>di</strong> vetro. Sopra il suo deschetto vi erano sempre<br />

ritagli <strong>di</strong> lastre <strong>di</strong> vetro usate per le finestre; li sud<strong>di</strong>videva con una lima triangolare<br />

in piccole parti e, col filo <strong>di</strong> qui pezzetti <strong>di</strong> vetro, levigava ben bene i dorsi<br />

delle suole e dei tacchi. Era il momento <strong>di</strong> stendere la cera colorata, quasi sempre<br />

nera, su tutto il cuoio. Tirava fuori la macchinetta a spirito; era una vaschetta <strong>di</strong><br />

vetro che aveva un beccuccio con stoppino che pescava nell’alcool denaturato.<br />

Accendeva con uno zolfanello e poneva sulla fiamma un piccolo strumento che<br />

riscaldato, scioglieva la cera e la <strong>di</strong>stendeva <strong>di</strong> seguito.<br />

Di questi utensili ce n’erano <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse forme: la lissa per i dorsi, il marcapunto<br />

per il guardolo, il bussetto per la suola; questi arnesi avevano certamente un<br />

nome <strong>di</strong>alettale, ma ora non li ricordo. Alla fine c’era la spazzolatura finale. Albino<br />

allora portava le scarpe confezionate a chi gli aveva dato il materiale e se ne<br />

ritornava a casa con altre tomaie, magari <strong>di</strong> forma e misure <strong>di</strong>verse.<br />

Nella tarda estate <strong>di</strong> quell’anno vi<strong>di</strong> un fatto molto doloroso. Ero con Albino,<br />

quando sentimmo grida provenienti dalla strade e ci affacciammo. Stava passando<br />

un gruppo <strong>di</strong> persone piangenti e urlanti, due delle quali sostenevano<br />

per i fianchi un pover’uomo <strong>di</strong> 27 anni che si doleva con flebili lamenti, pur<br />

riuscendo a camminare.<br />

Aveva la pelle del viso, delle mani e del torace che gli penzolava. Stavano portando<br />

l’infortunato dal me<strong>di</strong>co che abitava al <strong>di</strong> là del canale e dovevano attraversare il<br />

ponte che era vicino alla mia casa.<br />

All’indomani Albino mi spiegò che quel povero giovane, morto dopo poche<br />

ore all’ospedale <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara, era un calzolaio e stava spalmando la cera sulle<br />

suole con lo stesso sistema che usava lui. Accorgendosi che nella sua macchinetta<br />

stava finendo lo spirito, ebbe la malaugurata idea <strong>di</strong> svitare lo stoppino<br />

con la fiamma accesa, per fare il rifornimento. Forse l’aveva fatto altre volte, ma<br />

certo ebbe un attimo <strong>di</strong> <strong>di</strong>strazione per cui il liquido che stava versando cadde<br />

sullo stoppino acceso. Una improvvisa e prolungata fiammata lo investì ustionandogli<br />

faccia, torace e mani. Tutt’e due rimanemmo molto turbati; io mentre<br />

sto scrivendo rivedo quel povero infelice. Albino mi <strong>di</strong>ede un consiglio che ho<br />

sempre cercato <strong>di</strong> rispettare: “mai fidarsi <strong>di</strong> fare qualsiasi lavoro senza usare la<br />

massima attenzione”.<br />

Certo fu per me una tremenda lezione <strong>di</strong> vita.<br />

26


A fianco. La moglie del calzolaio<br />

mentre lavora <strong>di</strong> cucito in cucina.<br />

Sotto. Io che guardo il calzolaio<br />

mentre lavora.


San Bellino 1931 - 1935<br />

L’ambiente socio culturale<br />

Secondo quanto ho capito San Bellino era un paese prettamente agricolo con una<br />

economia <strong>di</strong> tipo curtense, cioè nel suo interno c’era solo il sufficiente per lavorarvi<br />

e viverci. Credo che in quel tempo fosse abitato da poco più <strong>di</strong> 2000 persone. Era<br />

un paese privo <strong>di</strong> como<strong>di</strong>tà. Di fatto non c’era la possibilità <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare necessità e<br />

desideri per rendere agevole la vita quoti<strong>di</strong>ana, mancavano luoghi <strong>di</strong> aggregazione<br />

per giovani e per donne, c’erano solamente tre osterie frequentate da uomini.<br />

La ra<strong>di</strong>o e il gioco del pallone erano quasi degli sconosciuti: mancava cioè qualsiasi<br />

struttura che oggi chiamiamo sportiva. Le persone si muovevano generalmente<br />

in bicicletta, o con calessi tirati da cavalli, perché <strong>di</strong> auto in paese ve ne erano<br />

pochissime in circolazione. Ricordo bene che davanti a casa, nella strada inghiaiata,<br />

passava quasi giornalmente uno <strong>di</strong> Castelguglielmo il quale andava e tornava da<br />

Rovigo con una Isotta Fraschini che allora era una delle auto più gran<strong>di</strong> e belle.<br />

Sollevava un nugolo <strong>di</strong> polvere che faceva imbestialire il carradore vicino <strong>di</strong> casa.<br />

Per attingere acqua c’erano parecchi pozzi sparsi sul territorio. Al centro del sagrato<br />

della chiesa, che era anche la piazza del paese, c’era una grande pompa el<br />

mato, che fungeva anche da monumento.<br />

C’erano le cinque classi elementari, riunite però in pluriclassi perché gli<br />

insegnanti erano solamente tre. I locali delle aule si trovavano al piano terra del<br />

municipio ed erano abbastanza ampi per raccogliere tanti bambini. Vi era pure<br />

un asilo retto da due suore per i bimbetti <strong>di</strong> quattro e cinque anni. Aveva una<br />

saletta per fare teatro ove si esibivano i bimbi e i ragazzetti. su un piccolo palco<br />

<strong>di</strong> legno Anch’io ho recitato più volte in quel teatrino. Le offerte dello spettacolo<br />

servivano per incrementare le entrate delle suore, perché le quote delle frequenze<br />

erano davvero misere.<br />

Per coloro che volevano stu<strong>di</strong>are c’erano due possibilità: frequentare le tre classi<br />

complementari a Len<strong>di</strong>nara, <strong>di</strong>stante una decina <strong>di</strong> chilometri, o per potersi <strong>di</strong>plomare<br />

andare a Rovigo, capoluogo <strong>di</strong>stante venti chilometri da percorrere cinque<br />

in bici e i restanti in treno. Ai miei tempi eravamo due studenti: uno che andava a<br />

Len<strong>di</strong>nara e io che andavo a Rovigo.<br />

Nei cinque anni che ho abitato a S. Bellino sono arrivati nell’autunno <strong>di</strong> anni <strong>di</strong>versi<br />

due piccoli baracconi che sono rimasti là per oltre un mese. Erano i primi<br />

baracconi che si fermavano in paese e molta gente, che non aveva mai visto spettacoli<br />

li frequentava. Uno era un cinema che trasmetteva film muti accompagnati<br />

sempre dalla stessa musica operistica. Io là ho visto film a puntate e ricordo che<br />

quando le scene erano tragiche, come nei Miserabili, la gente piangeva.<br />

28


Nell’altro baraccone si esibivano alcuni saltimbanchi che si ingegnavano a rallegrare<br />

gli spettatori con esercizi atletici, piroette e scenette. Fra costoro c’era<br />

uno che suonava il violino durante le pause o per sottolineare qualche scena, lo<br />

ricordo bene perché chiudeva sempre lo spettacolo usando come strumenti dei<br />

bicchieri contenenti più o meno acqua. Sfiorava con le <strong>di</strong>ta bagnate gli orli e ne<br />

uscivano degli stri<strong>di</strong>i, non sgradevoli, con la melo<strong>di</strong>a delle marcette o canzonette<br />

allora in voga.<br />

Quando ero libero dalle incombenze scolastiche mi <strong>di</strong>vertivo a correre per i campi,<br />

spesso in compagnia <strong>di</strong> coetanei, tutti figli <strong>di</strong> addetti all’agricoltura. Fortunatamente<br />

sono sempre stato attratto e incuriosito da quello che mi circondava e a<br />

San Bellino, essendo presente solo il mondo agricolo, mi sono fatto, per forza, un<br />

ampio bagaglio <strong>di</strong> conoscenze <strong>di</strong>rette <strong>di</strong> quel mondo campagnolo che poi ho allargato<br />

e approfon<strong>di</strong>to con lo stu<strong>di</strong>o scolastico. L’unico centro <strong>di</strong> aggregazione era la<br />

parrocchia, la chiesa era sempre affollata in ogni celebrazione. Non così le organizzazioni<br />

fasciste che, almeno secondo me, erano usate solo per comandare il paese.<br />

Chiesa parrocchiale con facciata <strong>di</strong> tipologia veneta ricostruita nel 1600. Il campanile <strong>di</strong> stile romanico è<br />

del 1500. La chiesa è la basilica <strong>di</strong> San Bellino, ha tre navate e <strong>di</strong>etro l’altare c’è l’urna marmorea del Santo.<br />

Nel 1930 al centro del sagrato c’era una pompa d’acqua a ruota, attualmente c’è invece un monumento.<br />

29


I conduttori agricoli<br />

Il terreno agricolo era misurato a pertiche perteghe, equivalenti, mi era stato detto,<br />

a 1000 metri quadrati. Era <strong>di</strong>viso in fattorie <strong>di</strong> varie grandezze chiamate genericamente<br />

campagne. La più grande fattoria era quella degli Occari <strong>di</strong> 1000 pertiche cioè<br />

100 ettari. Ogni fattoria aveva la propria corte corte, cioè l’insieme <strong>di</strong> tutti i servizi<br />

necessari per la conduzione della campagna. Generalmente c’erano la casa padronale<br />

su due o tre piani, <strong>di</strong> cui l’ultimo a granaio che serviva per immagazzinare i raccolti,<br />

poi l’aia selese usata per seccare i prodotti, la stalla e piccoli fabbricati per abitazioni<br />

degli operai fissi i oblighi, e ancora cantine, ricoveri e spesso anche un forno per il<br />

pane. La corte aveva anche a <strong>di</strong>sposizione servizi collegati <strong>di</strong>rettamente ai conduttori<br />

come orti, giar<strong>di</strong>ni e alberi da frutto; le viti invece erano stese a spalliera fra gli olmi<br />

nelle capezzagne carezà.<br />

Invariabilmente il fabbricato più imponente era la stalla, che si <strong>di</strong>stingueva subito<br />

perché era costruita <strong>di</strong> mattoni non intonacati. Oltre alla stalla dei bovini ve n’era<br />

un’altra per gli equini perché i cavalli, gli asini e i muli hanno bisogno <strong>di</strong> un ricovero<br />

arieggiato anche d’inverno a <strong>di</strong>fferenza dei bovini. I buoi servivano per vari lavori<br />

campestri, le vacche per avere vitelli e latte da vendere, gli equini per i lavori leggeri<br />

da eseguirsi in modo veloce o per i trasporti stradali con i calessi. Questi erano <strong>di</strong> due<br />

tipi, un calesse spartano senza una copertura mobile fòlo, senza cuscini con molle<br />

dure, barozìn, un altro più sofisticato che aveva il folo per ripararsi dalla pioggia<br />

e un telo parasassi posto tra le stanghe nel retro del cavallo. Era un calesse molto<br />

molleggiato che aveva anche i cerchioni delle ruote coperti con gomma. Questo<br />

accorgimento era per evitare <strong>di</strong> schiacciare i sassi durante la corsa sulle strade<br />

inghiaiate ed eliminare quin<strong>di</strong> i rumori molesti, questo calesse era la timonéla.<br />

I vocabolari del <strong>di</strong>aletto veneto <strong>di</strong> provenienza padovana spiegano timonela come<br />

carrozza a quattro ruote; a San Bellino nessuno aveva carrozze e chiamavano timonela<br />

un calesse fornito <strong>di</strong> confort.<br />

Tutti praticavano la rotazione agraria, cioè coltivavano per quattro anni il prato poi,<br />

annualmente via via il frumento, la barbabietola, il granoturco e infine la canapa. La<br />

rotazione agraria dava la possibilità <strong>di</strong> sfruttare al meglio i vari strati <strong>di</strong> terreno per il<br />

<strong>di</strong>verso sviluppo ra<strong>di</strong>cale delle varie piante. Nessuno faceva su larga scala coltivazioni<br />

specialistiche, come aglio o patate, perché <strong>di</strong>cevano che il terreno non era adatto per<br />

le coltivazioni orticole, Solamente ogni anno c’erano qua o là coltivazioni <strong>di</strong> angurie<br />

e meloni le anguriare. I conduttori agricoli davano in subaffitto a persone anziane<br />

qualche campo vicino ai fossi con acqua corrente e fiancheggiati da ontani o salici<br />

albare, salgàri, stropari. Erano luoghi tranquilli e freschi ove l’anguriaro si costruiva<br />

un casotto <strong>di</strong> canne palustri che gli serviva da cucina e camera da letto. A fianco<br />

costruiva tettoie, coperte pure esse <strong>di</strong> canne, panche e tavole costruite su pali piantati<br />

per terra: servivano per i clienti che andavano là a mangiare le angurie. Completavano<br />

il tutto alcune tinozze sempre piene d’acqua per tenere in fresca la merce da vendere.<br />

30


Si andava là in bici, con le tasche piene <strong>di</strong> pan biscotto e si faceva una mangiata<br />

ammollando il pane in mezza anguria.<br />

Gli impren<strong>di</strong>tori agricoli, generalmente fittavoli, facevano anch’essi una vita paesana<br />

senza evasioni o mondanità, forse perché il paese non offriva nulla ed anche perché<br />

era lontano dai luoghi, come Len<strong>di</strong>nara e Ba<strong>di</strong>a, dove c’erano teatri, cinema e sale<br />

da ballo. Qualcuno mandava un figlio a stu<strong>di</strong>are in collegio, ma era un caso raro.<br />

Ricordo che un giovane faceva una scuola per corrispondenza, spesso aveva bisogno<br />

<strong>di</strong> aiuti e ricorreva al parroco. Alla fine si stancò e tralasciò <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are.<br />

La fattoria.<br />

L’anguriaro taglia delle fette d’anguria per venderle ai ragazzetti.<br />

31


I trentottisti<br />

I braccianti, che erano i lavoratori della terra più numerosi, avevano un contratto<br />

limitato relativamente al ciclo <strong>di</strong> ogni singola produzione agricola. Essi non vivevano<br />

nella corte padronale, ma avevano casette, proprie o in affitto, sparse nel territorio.<br />

Il contratto dei braccianti era chiamato trentoto perché i prodotti ottenuti venivano<br />

<strong>di</strong>stribuiti in ragione del 38% fra tutti i lavoratori. Il gestore si assumeva tutte le spese<br />

per le sementi provvedeva all’aratura e alla semina, poi entravano i trentotisti con il<br />

loro lavoro fino al raccolto. I braccianti accettavano <strong>di</strong> partecipare alle varie coltivazioni,<br />

a seconda della forza lavoro della loro famiglia e le loro capacità <strong>di</strong> sfruttare al<br />

meglio l’impegno che si assumevano.<br />

La coltivazione più desiderata era la raccolta del frumento perché dava una remunerazione<br />

in natura molto importante per l’alimentazione della famiglia, anche se il<br />

lavoro era molto faticoso seppur <strong>di</strong> breve durata. D’altra parte i conduttori agricoli<br />

accettavano <strong>di</strong> buon grado un alto numero <strong>di</strong> lavoratori per la mietitura e la trebbiatura<br />

per <strong>di</strong>minuire il più possibile il tempo della raccolta, in quanto il grano poteva<br />

essere facilmente rovinato dalla pioggia.<br />

Ogni famiglia bracciantile partecipava a più coltivazioni, sia perché i lavori agricoli<br />

si susseguivano da giugno a settembre, sia perché tutti avevano bisogno <strong>di</strong> incassare<br />

denaro e provviste soprattutto per l’inverno.<br />

Le case dei braccianti erano in genere <strong>di</strong> quattro vani. Piano terra con entrata e scala, poi cucina col<br />

camino, piano primo con due vani. Il gabinetto era una latrina esterna riparata con erbe palustri o<br />

tavolame. L’acqua veniva attinta dai pozzi sparsi sul territorio. I pozzi servivano anche da frigoriferi,<br />

calandovi dentro secchie piene <strong>di</strong> cibo da conservare al fresco quando si era nell’estate.<br />

32


Un segno delle ristrettezze in cui versavano i braccianti era la consuetu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> mangiare<br />

all’inverno due volte al giorno. Il primo pasto era nella mattinata, il secondo<br />

alle quin<strong>di</strong>ci. Siccome una volta non tutti avevano l’orologio, alla tre del pomeriggio<br />

suonava il campanone della parrocchia per dare il segnale che era l’ora del secondo<br />

pasto. Era davvero una vita grama. Per fortuna, per <strong>di</strong>minuire quelle ristrettezze, c’erano<br />

famiglie che avevano attorno alla loro casetta un orticello per le verdure e uno<br />

spazio per gli animali da cortile, così almeno alla domenica potevano fare un pranzo<br />

completato da carne.<br />

Uno dei cibi più <strong>di</strong>ffusi era l’aringa, pesce che arrivava in grossi barili dai paesi nor<strong>di</strong>ci<br />

d’Europa. Era <strong>di</strong> due tipi: aringa femmina con uova e aringa senza, generalmente<br />

maschio, in <strong>di</strong>aletto rispettivamente renga da late e scopeton. La conservazione era<br />

fatta all’origine stendendo i pesci nel barile e rasando ogni strato con del sale.<br />

Era un cibo molto economico sia per il costo sia perché un pesce bastava per una famiglia<br />

<strong>di</strong> parecchie persone. L’aringa veniva preparata velocemente: pulita dal sale, era messa<br />

a rosolare su una graticola gradéla, poi si toglieva la lisca e si con<strong>di</strong>va con un po’ <strong>di</strong> olio<br />

una gioza o giossa de oio. Essa veniva mangiata con tanta polenta e pochissima carne.<br />

Un focolare visto all’interno. Era costruito tutto in mattoni, come la cappa. Sotto c’era un grande<br />

cassetto per tenere in caldo certe vivande e i pulcini appena nati. Da notare la se<strong>di</strong>a col se<strong>di</strong>le <strong>di</strong> paglia,<br />

il copricapo col fazzoletto legato sulla nuca e la catena ove erano appese le pignatte da riscaldare.<br />

33


Tutti si accontentavano <strong>di</strong> toccare l’aringa tociare, con un pezzo <strong>di</strong> polenta, per darle un<br />

gusto <strong>di</strong>verso, alla fine con gli ultimi bocconi si spartivano l’aringa. Oggi l’aringa è un cibo<br />

considerato prelibato ma è costoso, è venduto pronto da mangiare in eleganti confezioni.<br />

Ricordo fatterelli spassosi sulla renga che venivano declamati per le piazze quand’ero<br />

ragazzo. Un certo Callegari, ven<strong>di</strong>tore ambulante <strong>di</strong> <strong>di</strong>gestivi alla gramigna che lui<br />

preparava, per attirare l’attenzione dei passanti raccontava episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> vita.<br />

I due principali erano Bruneri-Cannella che riguardavano lo smemorato <strong>di</strong> Collegno,<br />

soldato della prima guerra mon<strong>di</strong>ale e la renga. Declamava e mimava trasformando<br />

i racconti in farsa ed era così istrione che alla fine tutti battevano le mani<br />

e parecchi compravano il suo intruglio. Ricordo quello della renga. Prendeva in<br />

giro coloro che vendevano le uova per comperare la renga.<br />

Diceva che poi l’attaccavano alle travi in cucina, nel centro della mensa accontentandosi<br />

tutti <strong>di</strong> toccarla tociarla, con la fetta <strong>di</strong> polenta, facendola poi bollonzolare<br />

da una parte all’altra della tavolata. Purtroppo era vero, l’uovo è più ricco <strong>di</strong><br />

nutrimento rispetto alla polenta, ma un uovo poteva accontentare sì e no solo una<br />

persona, mentre l’aringa serviva per dare una fragranza <strong>di</strong>versa alla polenta che<br />

molti dovevano mangiare per sfamarsi.<br />

Spaccato dell’interno <strong>di</strong> una cucina dei braccianti negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.<br />

Sulla cappa: cucccuma, lume a petrolio, macinino per il caffè, candeliere. Sul focolare: paiolo,<br />

graticola, coperchio per cuocere sotto le brace, mollette per le brace, ascia per spaccare la legna,<br />

palla per abbrustolire il caffè. Appesi al muro: stoviglie <strong>di</strong> rame e tavola della polenta. Pavimento:<br />

scal<strong>di</strong>ni la munega per mettervi il braciere sotto le coperte, scal<strong>di</strong>no <strong>di</strong> rame per strofinarlo,<br />

quando era pieno <strong>di</strong> brace, fra le lenzuola. La nonna prepara il pranzo e il nonno si riscalda.<br />

34


Che i braccianti <strong>di</strong> San Bellino vivessero da sempre una vita <strong>di</strong>sagiata è testimoniato dai<br />

numerosi espatri verso l’America del Sud e altri paesi. Posso <strong>di</strong>rlo perché, quando sono<br />

andato ad abitare a San Bellino, mio padre affittò anche due stanze, che poi risultarono<br />

le migliori, che erano gli ex uffici per sbrigare le pratiche degli emigranti e fatti chiudere<br />

tutti da Mussolini nel 1927. In un angolo trovammo un po’ <strong>di</strong> spazzatura ove io raccolsi<br />

vecchie cartoline e stampati per l’emigrazione in Brasile, così potei far riscontri sulle date.<br />

Anche sotto il fascismo, dopo il 1927, vi furono partenze <strong>di</strong> braccianti che andarono<br />

a bonificare l’Agro Pontino o altri luoghi in<strong>di</strong>cati dal partito. Se oggi pensassimo<br />

e capissimo quale fu la misera vita dei nostri bisnonni e nonni, certamente tutti<br />

avremmo meno pretese e meno egoismi! Va bene che oggi non è ieri, tuttavia se tutti<br />

conoscessimo com’era dura la vita solo ieri, certamente ci sarebbero meno ingiustizie!<br />

Schizzi dei principali utensili che usavano i conta<strong>di</strong>ni negli anni 1930. Gli utensili piccoli<br />

erano <strong>di</strong> proprietà dei trentottisti, quelli più gran<strong>di</strong> dei conduttori agricoli.<br />

35


Trentottiste <strong>di</strong> aiuto ai loro uomini. Da sinistra una donna con gerla (per trasporti leggeri,<br />

come erba per i conigli), e con in mano una pala <strong>di</strong> legno che serviva per soleggiare i cereali.<br />

L’altra ha una botticella per il vinello da <strong>di</strong>stribuire durante i lavori pesanti; l’ultima ha in<br />

mano la forca usata in stalla. A destra si intravede uno sgabello usato dai mungitori.<br />

36


La mietitura<br />

La mietitura era la vera sagra paesana, sia perché molto partecipata, sia perché<br />

tutte le facce erano sorridenti. Finalmente arrivava la meanda apportatrice <strong>di</strong><br />

frumento e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> pane.<br />

Alla mattina per tempo era un andare festoso verso i campi da mietere; ma se<br />

il vento aveva steso le spighe sul terreno o una malattia, che chiamavano rosseto<br />

aveva rovinato le spighe, subito sul volto <strong>di</strong> tutti si delineava un profondo<br />

sconforto: erano per<strong>di</strong>te che si ripercuotevano sui mesi futuri. Ognuno partiva<br />

con la propria falce segheto e con la merenda da consumarsi durante il lavoro.<br />

A Costa <strong>di</strong> Rovigo, dove avevo fatto le elementari, la maestra mi aveva insegnato<br />

che le falci erano <strong>di</strong> due tipi: quella messoria che serviva per mietere segheto,<br />

che è anche raffigurato nel <strong>di</strong>stintivo dei comunisti, e quella fienaia falze<br />

o falza, usata per segare il prato e che è anche l’emblema della morte.<br />

Io da ragazzetto andavo a vedere ogni giorno, nella grande fattoria, le <strong>di</strong>stese<br />

<strong>di</strong> frumento interrotte solamente da uno scolo trasversale fiancheggiato da<br />

ontani. I mietitori venivano <strong>di</strong>visi in gruppi, ognuno coor<strong>di</strong>nato da un obligo.<br />

Costui partiva da una capezzagna carezà e mieteva sei solchi <strong>di</strong> frumento trimi<br />

o trini, ponendo i mannelli la sbrancà, sopra l’erba della capezzagna stessa.<br />

Mietitori che lavorato sotto il sole <strong>di</strong> giugno. Qui sono rappresentati dei coltivatori <strong>di</strong>retti che<br />

mietono il loro campetto. Nelle fattorie sanbellinesi i mietitori talvolta superavano anche il<br />

numero <strong>di</strong> quaranta.<br />

37


Quando aveva mietuto alcuni metri in lunghezza, iniziava un secondo che<br />

poneva i mannelli sulle stoppie lasciate dal primo; così tutti gli altri si succedevano<br />

via via uno alla volta. Quando l’ultimo iniziava il proprio lavoro,<br />

subentrava una schiera <strong>di</strong> donne, fornite <strong>di</strong> lacci fatti con erbe palustri e<br />

terminanti nei due capi con no<strong>di</strong> i balzi. Queste raccoglievano <strong>di</strong>versi mannelli,<br />

che legavano formando i covoni le faie, che lasciavano sparse sulle<br />

stoppie.<br />

Quando tutte le donne avevano finito, ripassavano gli uomini per mettere<br />

i covoni ammucchiati in biche ben allineate le crosete. Quattro covoni<br />

venivano messi a croce con le spighe verso l’interno, poi i mietitori vi sovrapponevano<br />

altri tre strati e chiudevano con un covone che andava a coprire<br />

tutte le spighe sottostanti poste nel centro. Tutto ciò, sia perché gli uccelli<br />

non andassero a beccare le spighe delle biche, sia perché se pioveva si bagnassero<br />

solamente le spighe del covone <strong>di</strong> copertura.<br />

Era cura dei mietitori eseguire questi lavori sotto il sole perché, se i chicchi<br />

fossero stati bagnati dalla pioggia o dalla guazza, bisognava attendere i<br />

raggi solari per <strong>di</strong>sseccarli. Nel caso i covoni fossero bagnati li mettevano<br />

in pie<strong>di</strong> con le spighe rivolte verso l’alto; se non facevano così il frumento<br />

raccolto in biche avrebbe fermentato e quin<strong>di</strong> si sarebbe rovinato. Le biche<br />

erano lasciate sul campo per qualche settimana prima della trebbiatura, per<br />

dare possibilità al frumento <strong>di</strong> indurirsi lentamente ed essere pronto per la<br />

battitura della trebbia.<br />

Questi lavori fatti tutti a mano <strong>di</strong>sperdevano una <strong>di</strong>screta quantità <strong>di</strong> spighe,<br />

così c’erano gli spigolatori, soprattutto donne e ragazzetti. Era <strong>di</strong>fficile<br />

che i <strong>di</strong>rigenti li lasciassero entrare nei campi appena mietuti o quando<br />

c’erano ancora le biche, temevano che gli spigolatori allungassero le mani<br />

per strappare le spighe dai covoni. Ho visto però che nella grande fattoria,<br />

appena fatte le biche, lasciavano spigolare i più poveri del paese, magari<br />

sotto la sorveglianza <strong>di</strong> un obligo. Quando invece sui campi non c’erano più<br />

covoni, tutti potevano andare a spigolare dove volevano. Anch’io ci sono<br />

andato e ho fatto qualche piccolo covone che poi ho portato in chiesa.<br />

A San Bellino c’era la tra<strong>di</strong>zione che in una domenica <strong>di</strong> luglio tutti portassero<br />

in chiesa delle spighe: sia per ringraziare Dio del prodotto ottenuto,<br />

sia perché il frumento serviva per fare le ostie della Comunione. Quelle<br />

spighe offerte venivano ammassate nella fattoria che per ultima faceva la<br />

trebbiatura. Venivano colà trebbiate gratuitamente assieme alle varie quantità<br />

ottenute dagli spigolatori.<br />

Mentre scrivo ho davanti agli occhi la mietitura e la spigolatura perché erano<br />

affreschi viventi <strong>di</strong> macchie dai colori vari e <strong>di</strong> persone con le schiene<br />

curve che lavoravano alacremente.<br />

38


La trebbiatura<br />

Quando i mietitori e le loro donne si erano riposati per qualche settimana<br />

dall’estenuante lavoro <strong>di</strong> usare segheto e balzi, iniziava la trebbiatura.<br />

Non era la continuazione della sagra vissuta sparpagliati nei campi in mezzo al giallo<br />

del grano e del sole, qui invece erano tutti raggruppati sotto una pesante cappa <strong>di</strong> polvere.<br />

Gli uomini e le donne avevano cappelli <strong>di</strong> paglia per <strong>di</strong>fendersi dai raggi solari<br />

e gran<strong>di</strong> fazzoletti al collo a <strong>di</strong>fesa della polvere perché, impastandosi con il sudore<br />

non penetrasse in tutto il corpo, giacché era urticante.<br />

Ricordo due trebbiature viste nella grande fattoria. Una con una macchina a vapore<br />

che mi ha incantato perché aveva come motrice un macchinario simile alla vaporiera<br />

dei treni; un’altra con un vecchio trattore americano che sulla targa aveva scritto<br />

“Titàn”. In quella corte la trebbiatura durava circa una settimana, io ogni pomeriggio<br />

ero là a curiosare e guardare.<br />

Tutte le persone erano affaccendate e avevano sempre sete, bevevano spesso attingendo<br />

con lo stesso mestolo la caza, da una secchia piena <strong>di</strong> vinello graspia, portata<br />

in giro da una donna.<br />

Per trebbiare vi erano varie fasi concomitanti <strong>di</strong> lavoro che penso <strong>di</strong> spiegare meglio sud<strong>di</strong>videndo<br />

l’argomento per poterlo svolgere in modo dettagliato. Lo faccio soprattutto<br />

per i giovani che certamente, non hanno mai visto e mai vedranno quei lavori pesanti.<br />

Motore a vapore<br />

Era la classica macchina a vapore tutta <strong>di</strong> ferro che veniva spostata da un tiro <strong>di</strong> buoi, perché<br />

la forza motrice prodotta dal vapore non faceva girare le ruote <strong>di</strong> traino ma solamente un<br />

volano. Dopo averla piazzata, vi accatastavano attorno legna e tinozze d’acqua. Erano i<br />

rifornimenti necessari per sostituire l’acqua perduta nelle evaporazioni e per mantenere<br />

sempre acceso il fuoco. Il macchinista, che doveva essere pronto per ogni evenienza, era<br />

aiutato da due braccianti perché i controlli da farsi erano tanti. Un grosso e lungo cinghione<br />

partiva dal volano del motore e arrivava nella puleggia del battitore della trebbiatrice. Un<br />

fischio prolungato e squillante, u<strong>di</strong>to da molto lontano, segnava l’inizio e la fine dei due<br />

turni giornalieri. A mezzogiorno tutti i lavoratori si affrettavano a pulirsi, scuotendo la<br />

polvere dagli abiti e lavandosi mani e faccia. Poi sceglievano un posto all’ombra: qualcuno<br />

accendeva un fuocherello per riscaldare la minestra portata da casa, altri attendevano i<br />

familiari che portavano fette <strong>di</strong> polenta calda accompagnate da pezzetti <strong>di</strong> gallina o coniglio<br />

o maiale. Finito il pranzo, vi era una bevuta generale <strong>di</strong> vinello graspia.<br />

La trebbiatrice<br />

La trebbiatrice era una macchina grande e alta che aveva varie pulegge e cinghie per<br />

muovere tutti i meccanismi interni. Vi erano bocche d’uscita, sul davanti per raccogliere il<br />

grano, <strong>di</strong> fianco per la pula e altre che si protendevano nel retro per espellere la paglia e la<br />

mezza paglia. Attorno c’era tutto un frenetico lavoro <strong>di</strong> tante persone.<br />

39


Anno 1934, la trebbiatura. La trebbiatrice è messa in funzione da una macchina a vapore.<br />

Attorno alla macchina a vapore ci sono il meccanico e gli aiuti; attorno alla trebbia: a<br />

sinistra chi raccoglie la pula, davanti chi raccogli il grano. A destra i carri pieni <strong>di</strong> covoni che<br />

venivano poi posti sopra la trebbia. In cima ci sono operai per ricevere e slegare i covoni e poi<br />

darli a colui che provvedeva a far entrare le spighe entro i battittori.<br />

40<br />

Trebbiatura<br />

del frumento.<br />

Nel retro della<br />

macchina<br />

usciva la<br />

paglia,<br />

davanti il<br />

grano, a metà<br />

la pula.<br />

Sopra la<br />

trebbia vi sono<br />

l’imboccatore<br />

delle spighe e<br />

un bracciante<br />

che gli porge i<br />

covoni.


Il lavoro più pesante, e nel contempo più pericoloso, era quello dell’imboccatore detto<br />

anche trebbiatore el paiarolo. Questi aveva il <strong>di</strong>fficile compito <strong>di</strong> dover lavorare vicino ad<br />

un congegno che era formato da due cilindri uno interno all’altro. Quello interno girava,<br />

quello esterno era fisso e aveva un largo foro per l’entrata delle spighe e un altro per l’uscita<br />

dei grani, della pula e della paglia mischiati fra loro. La spiga veniva sgranata dai denti<br />

dei due cilindri che lavoravano a contrasto e che formavano il battitore. Per separare i<br />

tre componenti della spiga: grano paglia pula formento paia pula, c’erano all’interno della<br />

trebbiatrice dei meccanismi che facevano la selezione, convogliando i vari prodotti in<br />

<strong>di</strong>stinti luoghi d’uscita.<br />

Chi imboccava le spighe si doveva posizionare entro un pertugio, con le gambe proprio<br />

davanti alla bocca <strong>di</strong> entrata del cilindro fisso. Se uno si <strong>di</strong>straeva, le sue brache potevano<br />

impigliarsi nei denti dell’ingranaggio rotante e rovinarsi qualche arto. Ogni tanto qua o<br />

là capitava purtroppo qualche <strong>di</strong>sgrazia.<br />

Nella grande fattoria ho visto che vi erano più imboccatori che si davano il cambio<br />

ogni due ore. Erano persone abbastanza giovani ed esperte che, durante la pausa, si<br />

rifocillavano all’ombra sbattendo anche le vesti per eliminare il più possibile la polvere<br />

urticante che essi ricevevano in grande quantità durante il lavoro. Sulla copertura piana<br />

della trebbia c’erano anche altre persone <strong>di</strong> aiuto che ricevevano pure esse il cambio.<br />

C’era chi prendeva i covoni con la forca e li allungava ad altri che, tolti i lacci balzi,<br />

li porgevano all’imboccatore in modo che questi potesse sparpagliare le spighe per<br />

introdurle facilmente nei cilindri del battitore.<br />

Il rifornimento dei covoni<br />

Era un lavoro che doveva essere fatto in sincronia da tante persone. Sotto la trebbia<br />

doveva esserci sempre un carro carico <strong>di</strong> covoni che una o due persone mettevano<br />

con le forche sul tetto della trebbiatrice. I rifornimenti erano fatti da un via <strong>vai</strong> <strong>di</strong><br />

carri vuoti che andavano a caricare i covoni nei campi, e <strong>di</strong> carri pieni che andavano<br />

verso la trebbiatrice. Poco <strong>di</strong>scosti dalla trebbia dovevano esserci sempre carri pieni,<br />

così c’erano coloro che con i buoi li spostavano per rimpiazzare quelli che erano stati<br />

scaricati completamente. Più i giorni passavano più numerose erano le spole dei carri<br />

perché le biche erano sempre più lontane.<br />

Le trebbiatrici erano poche in paese, così i fittavoli che erano gli ultimi ad usarle, spesso<br />

dovevano fare un lavoro aggiuntivo. Temendo che piovesse e che l’acqua bagnasse le<br />

biche, ma soprattutto perchè non si potesse più entrare con facilità nei campi dato che<br />

la terra bagnata <strong>di</strong>ventava molle, ammassavano i covoni in un grande mucchio nel<br />

cortile della fattoria el ca<strong>vai</strong>on.<br />

Veniva fatto a forma <strong>di</strong> carena rovesciata mettendo sempre verso l’esterno gli steli <strong>di</strong><br />

paglia perché l’eventuale pioggia potesse scivolare senza penetrare all’interno dove<br />

c’erano le spighe.<br />

41


La raccolta del frumento<br />

Attaccati alle bocchette <strong>di</strong> uscita del grano venivano appesi con ganci dei sacchi<br />

vuoti, quando erano pieni <strong>di</strong> frumento venivano portati sull’aia. Là c’erano delle<br />

donne che provvedevano con rastrelli <strong>di</strong> legno dal lungo manico, a sparpagliare i<br />

chicchi per soleggiarli. Alla sera il frumento steso veniva riammassato con rastrelli<br />

e pale e poi coperto con teli cerati o con tavolati catramati perché la rugiada o la<br />

pioggia non bagnassero il grano. Il giorno dopo lo ri<strong>di</strong>stendevano, così fino a che<br />

non era secco. Quando il grano era seccato veniva portato, solitamente <strong>di</strong> sera nel<br />

granaio che, come già detto, era all’ultimo piano della casa padronale. Quei locali<br />

erano pre<strong>di</strong>sposti per la lotta contro i topi.<br />

L’intonaco perimetrale per un’altezza <strong>di</strong> un metro era liscio e spatolato a marmorino<br />

dove i topi non erano capaci <strong>di</strong> arrampicarsi perché non trovavano rugosità.<br />

Quando scendevano dai loro nascon<strong>di</strong>gli, situati sulle travi del coperto per<br />

mangiare i chicchi, non erano più capaci <strong>di</strong> risalire e così <strong>di</strong>ventavano facili prede<br />

dei gatti. Per questo tutte le porte dei granai avevano alla base uno sportello a<br />

ghigliottina per fare entrare ed uscire i gatti.<br />

Prima <strong>di</strong> metterlo a magazzino il grano veniva misurato con lo staio staro, per garantire<br />

i cottimisti sulla quantità. Era un sistema antico che però funzionava bene<br />

ed era accettato da tutti. Lo staio era un cilindro <strong>di</strong> ferro con sopra una crociera<br />

per il livellamento delle spalate. Perché la crociera non si deformasse, vi era al<br />

centro un ferro verticale, incernierato nella crociera superiore e in quella inferiore<br />

posta all’esterno del fondo. Lo staio misurava il frumento a volume e non a peso,<br />

perché il peso specifico del frumento era variabile a seconda delle annate da 75 a<br />

78 chilogrammi ogni 100 litri. Il peso <strong>di</strong> uno staio <strong>di</strong> grano veniva considerato 25<br />

chilogrammi senza però che venisse battuto per intasarlo.<br />

Per completare il <strong>di</strong>scorso delle vecchie misure ricordo che nella ma<strong>di</strong>a buratàra,<br />

che conteneva farina bianca e gialla, esistente in molte case, c’era un recipiente <strong>di</strong><br />

legno fatto a tino che chiamavano la quarta, era infatti la quarta parte dello staio<br />

che serviva per misurare gli sfarinati.<br />

Il riempimento dei sacchi veniva fatto <strong>di</strong> sera sempre dalla stessa persona ed allo<br />

stesso modo, era un obligo. Usava una pala speciale <strong>di</strong> legno la cui spalata poteva<br />

contenere fino a 10 chilogrammi <strong>di</strong> granaglie. Il manico aveva due impugnature,<br />

una bassa e una alta, tra queste c’era la parte piana del manico ingrossato che a<br />

metà aveva una terza impugnatura a maniglia. L’obligo con tre spalate riempiva lo<br />

staio, poi pareggiava l’eccedenza usando la parte piana del manico manovrandola<br />

con la maniglia. Lo staio veniva rovesciato poi da due persone in un sacco, così per<br />

tre volte. Il sacco sui 75 chilogrammi veniva subito portato a spalla nel granaio.<br />

Alla fine del lavoro tutti ansimavano per la fatica, ma in fondo erano contenti<br />

perché avevano messo in sicurezza il loro tesoro, sapendo già quanto spettava ad<br />

ognuno <strong>di</strong> loro.<br />

42


a) In<strong>di</strong>ca la trebbiatrice nella sua interezza<br />

b) Battitore, cilindro rotante entro uno fisso - ve<strong>di</strong> m -<br />

c) Scuotipaglia per far avanzare la paglia verso l’uscita che è nel retro della<br />

trebbiatrice<br />

d) Tavola oscillante ove cadono i chicchi rimasti fra la paglia e la mezza paglia,<br />

che fuoriescono dal retro e la pula dal fianco<br />

e) Crivellone per selezionare il grano<br />

f) Vaglio con cassone ove vengono raccolti i chicchi sgranati i quali poi vengono<br />

portati in alto a mezzo <strong>di</strong> un elevatore<br />

g) Buratto cilindrico <strong>di</strong> selezione chicchi che poi fuoriescono sul davanti a mezzo <strong>di</strong><br />

bocchette ove sono fissati i sacchi<br />

h) Cassone raccolta chicchi - operazione prima <strong>di</strong> g<br />

i) Serbatoio pulizia chicchi - idem<br />

l) Elevatore chicchi a mezzo tazze - idem<br />

m) Cilindro fisso, controbattitore<br />

N.B. Nella parte retrostante della trebbia vi sono tre <strong>di</strong>stinte uscite <strong>di</strong> paglia intera,<br />

mezza paglia, paglia con pula sulla posizione della sigla e) - sulla posizione d)<br />

fuoriesce solo la pula (brattee del chicco). Tutte le ruote per il trasporto erano <strong>di</strong><br />

ferro, quelle davanti erano snodabili.<br />

Sezione verticale <strong>di</strong> una trebbiatrice anni ‘30-40. Seguendo le lettere dell’alfabeto si può<br />

vedere come funzionava una trebbiatrice. La a) in<strong>di</strong>ca la trebbiatrice nella sua interezza<br />

(a sinistra il fronte, a destra il retro), poi via via tutti gli organi per <strong>di</strong>videre il grano dalla<br />

paglia e dalla pula.<br />

43


La paglia<br />

Il trasporto della paglia, intera o mezza, era una operazione strana per il modo in<br />

cui si sviluppava. Tutta la paglia cadeva dall’alto buttata in avanti da denti che si<br />

muovevano in su e in giù alternativamente. Sotto c’erano varie donne che la sistemavano<br />

a forcate facendo cumuli lunghi fino a cinque metri. Poi si facevano avanti<br />

i trasportatori ciascuno con una pertica lunga circa tre metri e mezzo. Questa aveva<br />

da un capo una punta, dall’altro una maniglia sporgente e un corto bastone trasversale<br />

posto a circa mezzo metro dall’impugnatura. La pertica veniva infilzata sul lungo<br />

cumulo <strong>di</strong> paglia, la donna con la forca impe<strong>di</strong>va gli spostamenti, mentre il bastone<br />

posto <strong>di</strong> traverso della pertica favoriva l’ammassamento. Poi la donna, sempre con<br />

la forca, aiutava l’innalzamento della pertica. Il trasportatore si addossava la pertica<br />

con la paglia infilzata ponendo il bastone trasversale su una spalla così, tenendo in<br />

equilibrio il tutto, andava sul pagliaio ove sfilava la sua quota.<br />

Nel pagliaio poi c’erano altri operai che sistemavano la paglia guidati da uno che<br />

aveva l’occhio come quello dei muratori, riusciva cioè a fare una carenatura rovescia<br />

a piombo e simmetrica. Era importante controllare le pendenze perché il vento non<br />

doveva sollevare nessuno stelo e la pioggia doveva scorrere veloce senza bagnare l’interno.<br />

Dopo l’inverno, quando il pagliaio si era assestato, cominciavano a usarlo, non<br />

levando la paglia con la forca, ma tagliandolo con un lungo segaccio fatto scorrere<br />

avanti e in<strong>di</strong>etro con corde.<br />

Un metodo semplice perché i trasportatori <strong>di</strong> paglia potessero arrivare fino alla sommità<br />

del pagliaio, alto circa quattro metri, era quello <strong>di</strong> fare prima un percorso in<br />

ascesa pestando una rampa formata dalla paglia stessa. Per la chiusura si servivano<br />

prima dei rialzi dei carri, poi usavano scale a tre pie<strong>di</strong> scalòn.<br />

La pula<br />

È l’involucro dei cereali. Usciva dal lato opposto a quello che serviva per i carri <strong>di</strong><br />

rifornimento. Veniva raccolta da donne che la portavano via con una barella barea.<br />

Veniva ammassata in una buca poco profonda ed era usata per frammischiarla al<br />

letto <strong>di</strong> paglia dei bovini.<br />

La canapa<br />

La canapa è una pianta <strong>di</strong>serbante, adatta a soffocare qualsiasi erba infestante perché<br />

superiormente fa una fitta coltre <strong>di</strong> foglie che non lascia passare la luce, tanto necessaria<br />

ai vegetali per crescere. Una volta era coltivata per ricavare fibre per corde, cinghie<br />

e tessuti grossolani. Dopo la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale cadde in <strong>di</strong>suso: prima<br />

fu sostituita dalla iuta, prodotto straniero meno costoso, poi dalla plastica che oggidì<br />

troviamo ovunque a basso prezzo.<br />

La canapa cànio, veniva seminata a marzo in fitte righe. Si ingran<strong>di</strong>va rapidamente<br />

44


con steli <strong>di</strong> oltre 2 metri <strong>di</strong> altezza, privi <strong>di</strong> foglie perché rimanevano solamente<br />

quelle apicali, che formavano un ombrello impenetrabile ai raggi solari.<br />

Finito il raccolto del frumento, i trentotisti cominciavano il ciclo della lavorazione<br />

della canapa. Gli uomini con un falcetto dal manico lungo, tagliavano gli steli che<br />

venivano lasciati in terra. Quando il sole aveva appassito le foglie, le donne facevano<br />

dei mannelli legandoli alla sommità con le foglie stesse ormai avvizzite.<br />

Gli uomini poi facevano dei gran<strong>di</strong> fasci stretti con dei balzi, e li trasportavano<br />

presso il macero el masero, che era lo slargo <strong>di</strong> un fosso con acqua corrente. A monte<br />

e a valle del macero facevano degli sbarramenti <strong>di</strong> terra per fermare il corso d’acqua<br />

i cavedòni; poi costruivano un grande zatterone con i fasci <strong>di</strong> canapa sovrapposti,<br />

sopra i quali infine vi mettevano sassi trachitici, proprio quelli del Montericco <strong>di</strong><br />

Monselice, per immergere lo zatterone.<br />

Nei confronti del termine <strong>di</strong>alettale màsero credo siano utili delle precisazioni<br />

perché in questo caso il <strong>di</strong>aletto polesano non è simile a quello padovano. Qui a<br />

Monselice chiamano il macero màsera, per <strong>di</strong>stinguerlo dal màsero nome del<br />

maschio dell’anitra. A San Bellino invece chiamavano màsero il macero in quanto se<br />

ben ricordo, il maschio dell’anitra era solamente el mascio dea ànara. Come si vede<br />

c’è un’altra <strong>di</strong>fferenza: la ànara è quella che qui chiamano àrena.<br />

Dopo qualche settimana <strong>di</strong> macerazione l’acqua <strong>di</strong>veniva <strong>di</strong> colore verde scuro e<br />

<strong>di</strong>ffondeva nell’aria un odore nauseabondo, mentre i pesci galleggiavano morti: allora<br />

<strong>di</strong>sfacevano lo zatterone. Gli operai dovevano entrare nell’acqua putrida e così le vesti<br />

e la pelle umana si impregnavano <strong>di</strong> quell’odore ributtante. Tolti i sassi dovevano<br />

<strong>di</strong>sfare i fasci. Prendevano i mannelli uno a uno, li sbattevano in quell’acqua putrida<br />

per eliminare il più possibile la corteccia verde che ricopriva la fibra, mettendo in<br />

evidenza il tiglio bianco che era quello che interessava per la ven<strong>di</strong>ta. Fatta questa<br />

pulitura gettavano a riva i mannelli lasciandoli legati nella parte superiore. Le donne<br />

li prendevano, li ponevano in pie<strong>di</strong> a ombrello sullo spiazzo antistante il macero, già<br />

reso libero in precedenza, perché si potessero asciugare ben bene.<br />

Finito quel su<strong>di</strong>cio lavoro, gli uomini <strong>di</strong>sfacevano i cavedòni e l’acqua marcia defluiva.<br />

Essa però nel suo corso danneggiava per vario tempo la fauna dei fossi, stordendo i<br />

pesci. Così noi ragazzi andavamo per <strong>di</strong>vertimento a prenderli con le mani a palpéto,<br />

anche se poi nessuno li mangiava perché impregnati <strong>di</strong> odori cattivi. Quando i<br />

mannelli <strong>di</strong> canapa erano secchi le donne eseguivano la stigliatura, per separare le<br />

fibre dagli steli. Era un lavoro lungo e monotono. Per farlo usavano una gramola<br />

particolare <strong>di</strong> legno che era un po’ simile a una trancia: serviva per rompere i canuli,<br />

cioè i fusti della canapa ormai tutti bianchi e secchi. La gramola era formata da un<br />

pesante asse sostenuto da quattro pie<strong>di</strong> per creare un piano orizzontale <strong>di</strong> lavoro.<br />

Sopra erano fissate in senso della lunghezza due liste <strong>di</strong> legno sagomate a triangolo<br />

le ganàsse, in modo da lasciare sopra uno spazio grande e sotto uno piccolo.<br />

In questo slargo andava a incastrarsi un’altra asta, il coltello, incernierato da un capo<br />

45


e con un manico <strong>di</strong> manovra nell’altro capo. Le donne prima alzavano il coltello<br />

poi stendevano <strong>di</strong> traverso sulle ganàsse un mannello <strong>di</strong> steli <strong>di</strong> canapa, infine<br />

abbassavano con forza il coltello, così i canuli si rompevano: questo lavoro dovevano<br />

eseguirlo più volte. Alla fine sbattevano il tutto in modo da far cadere un po’ alla<br />

volta tutti i pezzi legnosi. Ai pie<strong>di</strong> della gramola si formavano mucchi <strong>di</strong> steli rotti i<br />

canarèi, che nel padovano chiamano scanarèi. Le fibre ben pulite venivano ritorte a<br />

matassa e ripiegate, in modo da ottenere delle balle ben squadrate dal peso uguale <strong>di</strong><br />

circa venti chilogrammi, così almeno ricordo. Tutti i cascami dei filamenti venivano<br />

messi da parte, formavano la stoppa stòpa, che veniva anch’essa venduta, ma a sacchi<br />

e a basso prezzo. Rimanevano sul terreno tanti canaréi, così ogni lavoratore li portava<br />

a casa a seconda del proprio bisogno con el cariolòn, cioè la carriola senza vasca<br />

sostituita da un ripiano che terminava con un’alzata. Il fittavolo vendeva a qualche<br />

commerciante il prodotto finito e poi spartiva al 38 per cento i sol<strong>di</strong> con i lavoratori.<br />

Gramola costruita in legno per rompere gli steli legnosi della canapa, dopo che era stata<br />

messa a vista la fibra con la macerazione. Era manovrata da una donna.<br />

46<br />

Fasci <strong>di</strong> steli <strong>di</strong><br />

canapa,<br />

pronti per la<br />

macerazione.


I trentottisti tagliavano alla base i lunghi steli della canapa, che venivano fatti a mannelli e<br />

questi poi riuniti in fasci.<br />

Dopo la macerazione i fasci venivano sciolti e i mannelli erano posti a ombrello per soleggiarli.<br />

47


La barbabietola e lo zuccherificio<br />

Una volta gli zuccherifici erano sparpagliati nei paesi <strong>di</strong> produzione delle barbabietole,<br />

chiamate alla svelta bietole. I sanbellinesi dovevano conferirle a Len<strong>di</strong>nara<br />

che <strong>di</strong>stava circa <strong>di</strong>eci chilometri. Quella produzione era allora remunerativa e<br />

perciò tutti gli agricoltori volevano seminarla. Le sementi selezionate le forniva<br />

lo zuccherificio per avere poi il <strong>di</strong>ritto sulle bietole. Questo sistema otteneva un<br />

prodotto adeguato alla capacità <strong>di</strong> lavorazione dello zuccherificio. La semina delle<br />

bietole veniva fatta con la seminatrice, ma ne veniva tenuta larga la <strong>di</strong>stanza dei<br />

solchi affiancati, perché le bietole avessero lo spazio per svilupparsi. Bisognava tener<br />

conto però anche che la bietola avesse la stessa possibilità <strong>di</strong> sviluppo lungo i<br />

solchi; allora le donne le <strong>di</strong>radavano sciarezavano, lungo i trimi quando le piantine<br />

erano gran<strong>di</strong>celle.<br />

Le bietole venivano pagate in rapporto al peso e al loro grado zuccherino, per questo<br />

venivano prelevati dei campioni da ogni carro conferito per controllare il grado<br />

<strong>di</strong> zucchero Se la stagione era piovosa c’era tanto peso <strong>di</strong> bietole e poco grado zuccherino,<br />

viceversa se la stagione era siccitosa. L’agricoltore sperava sempre <strong>di</strong> avere<br />

prima un periodo <strong>di</strong> piogge e poi uno <strong>di</strong> sole perché la bietola prima si ingrossasse<br />

con l’acqua e poi che questa evaporasse un poco. La raccolta era un lavoro fatto in<br />

più tempi, sempre eseguito tutto a mano. Cominciavano gli uomini con lo sra<strong>di</strong>camento<br />

<strong>di</strong> ogni singola pianta fatto con una forca a due denti robusti e ravvicinati<br />

che, verso l’incastro con il manico, avevano uno slargo circolare per incastrarvi la<br />

bietola el forchéto. Aveva anche due puntali per fare leva con il piede onde affondare<br />

con facilità la forca nel terreno. Tutte le bietole <strong>di</strong>velte venivano ammucchiate<br />

vicino alle strade poderali le carezà. Poi le scollettavano, cioè con un seghetto tagliavano<br />

le foglie superiori. A questo punto venivano fatti due mucchi: uno <strong>di</strong> sole<br />

bietole, uno <strong>di</strong> foglie. Era necessario ed utile che i mucchi fossero il più possibile<br />

vicini alle strade poderali per il trasporto. Nel campo i carretti carichi sarebbero<br />

affondati e per il traino sarebbero occorsi anche due o tre paia <strong>di</strong> buoi. Poi c’era il<br />

carico dei carretti e carri per il trasporto allo zuccherificio. Tutti questi spostamenti<br />

delle bietole erano eseguiti con una forca speciale a sei branche che terminavano<br />

con una sferetta per evitare che le bietole venissero infilzate. Le foglie ammucchiate<br />

venivano portate via per ultime e scaricate in fosse vicine alla stalla perché servivano<br />

da mangime per i bovini.<br />

In genere tutti i trasporti delle bietole venivano fatti con i cavalli perché più veloci<br />

e più resistenti; infatti i bovini sono lenti, soffrono il caldo estivo e anche hanno gli<br />

zoccoli che si rovinano facilmente camminando sulle carrarecce inghiaiate. Nessun<br />

agricoltore era fornito <strong>di</strong> carretti e cavalli per riuscire a trasportare le proprie bietole<br />

allo zuccherifici, così ricorreva ai carrettieri <strong>di</strong> professione o a quelli stagionali.<br />

Coloro che facevano <strong>di</strong> mestiere il carrettiere erano ben attrezzati e avevano carretti<br />

e cavalli efficienti. Costoro curavano i loro animali sia nell’alimentazione che nel<br />

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ere e li proteggevano dalla pioggia. Entro il cassetto del carretto avevano come<br />

scorta un secchio <strong>di</strong> tela pesante, serviva per attingere acqua e per dare la biada ai<br />

cavalli. Alcuni avevano carretti con cerchioni <strong>di</strong> ferro e pianali maggiorati, erano<br />

le bare, che trainate da cavalli <strong>di</strong> forte taglia i frisoni, potevano fare grossi carichi.<br />

I carrettieri stagionali erano giovani che si industriavano ad arrotondare le entrate<br />

casalinghe con i viaggi che erano pagati in contanti. Comperavano un cavallo per<br />

la campagna bieticola e poi a lavoro finito lo rivendevano, i carretti invece, <strong>di</strong> solito<br />

malandati, erano <strong>di</strong> proprietà <strong>di</strong> chi faceva il carrettiere stagionale. I carretti comunque<br />

dovevano essere attrezzati per aumentare il volume <strong>di</strong> capienza perché le<br />

bietole, ammucchiate alla rinfusa, hanno poco peso specifico. Le sponde, che erano<br />

costruite a telaio, venivano allora chiuse con assi <strong>di</strong> legno e, davanti e <strong>di</strong>etro, fissavano<br />

con ganci delle casse speciali.<br />

Ricordo due fratelli, figli della fruttivendola, che facevano i carrettieri stagionali ed<br />

erano nella bocca <strong>di</strong> tutti perché formavano una coppia singolare. Il più vecchio era<br />

un mingherlino e non era sposato, il più giovane era un robustone sposato con un<br />

figlio. Avevano in proprietà i carretti e i finimenti, però mancavano dei cavalli. Per<br />

la bisogna comperavano un cavallo efficiente per il fratello smilzo e un ronzino per<br />

quello robusto. Siccome succedeva che nei viaggi <strong>di</strong> ritorno molti facessero riempire<br />

il carretto con rifiuti delle barbabietole le polpe, sgocciolanti molta acqua, così<br />

un po’ alla volta la carrareccia davanti allo zuccherificio si ammollava e il manto<br />

stradale <strong>di</strong> ghiaia si rovinava. Erano guai per tutti i conferenti perché in quel tratto<br />

il procedere dei carri era faticosissimo. Entravano allora in gioco i patteggiamenti<br />

fra i carrettieri per superare l’ostacolo. Alcuni avevano un secondo cavallo da traino<br />

a bilancino balanzin, messo in fianco o davanti al carretto. Costoro staccavano<br />

il secondo cavallo e andavano ad aiutare chi era in <strong>di</strong>fficoltà. Ritornando ai fratelli,<br />

dato che essi erano sempre appaiati, chi provvedeva in quei casi <strong>di</strong> bisogno per il<br />

tiro suppletivo era sempre il forzuto che faceva costantemente da mulo per sé e per<br />

il fratello. Almeno così si <strong>di</strong>ceva in paese. D’altra parte dopo i quaranta giorni <strong>di</strong><br />

campagna saccarifera, il fratellone era parecchio <strong>di</strong>magrito per gli enormi sforzi<br />

che aveva fatto nel traino dei carretti.<br />

I carrettieri potevano fare due viaggi giornalieri solo sacrificando il sonno della notte.<br />

Bisognava essere nei primi posti della fila del mattino e poi ritornare velocemente<br />

nei campi a fare un altro carico <strong>di</strong> bietole e ripartire <strong>di</strong> gran carriera. Chi faceva un<br />

solo viaggio <strong>di</strong> bietole, al ritorno caricava le polpe. Queste venivano scaricate poi in<br />

fosse preparate nel terreno. All’inverno quando le polpe avevano fatto il loro ciclo<br />

fermentativo trasformandosi in un amalgama bianco e molliccio, i bovari le <strong>di</strong>stribuivano<br />

sulla greppia dei bovini, ritagliando grossi pastoni con una pala <strong>di</strong> ferro.<br />

I bovini accettavano <strong>di</strong> buon grado quel cibo. Sorgeva però un inconveniente; se<br />

veniva <strong>di</strong>stribuito anche alle vacche da latte, ne usciva un prodotto amarognolo e <strong>di</strong><br />

odore acre, quel latte non era facilmente commerciabile.<br />

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Barbabietole ammucchiate sul ciglio del campo. Pronte per essere scollettate col seghetto<br />

dalle trentottiste. Dopo, le bietole venivano caricate sui carri e sui carretti per il trasporto<br />

allo zuccherificio. In questo caso la forca usata per il carico era grande, a sei branche<br />

terminanti con palline per non infilzare i tuberi.<br />

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Carretto attrezzato per il trasporto delle bietole. Per aumentare la capienza, giacché le<br />

bietole poste alla rinfusa occupano molto spazio, fniti i trasporti <strong>di</strong> bietole le opere sussi<strong>di</strong>arie<br />

venivano tolte.<br />

La barbabietola è una pianta biennale: nel primo anno viene sfruttata la ra<strong>di</strong>ce, il tubero;<br />

nel secondo anno le sementi.<br />

La bietola da orto serve invece in cucina: a sinistra la barbabietola da zucchero, a destra<br />

quella da cucina.<br />

51


Il granoturco<br />

Questo cereale ha più nomi, quand’ero bambino lo chiamavamo granone o granoturco,<br />

oggi tutti lo chiamano mais. La semina, che avviene alla fine dell’inverno, aveva<br />

le stesse necessità della bietola: semente sparsa nei solchi con la seminatrice e <strong>di</strong>radamento<br />

delle pianticelle perché le future pannocchie potessero ricevere il sole.<br />

Quando poi le piante crescevano bisognava <strong>di</strong>radarle sciarezàrle e sarchiarle zapàrle,<br />

più volte, sia per rincalzare le ra<strong>di</strong>ci, sia per <strong>di</strong>struggere le erbacce infestanti e per<br />

rompere la crosta del terreno onde evitare l’evaporazione dell’acqua sotterranea. Il<br />

granoturco formentòn, è una pianta che ama l’acqua per poter crescere bene e dare<br />

più <strong>di</strong> una pannocchia per gambo.<br />

Quando la pianta ingialliva i conta<strong>di</strong>ni andavano a staccare le pannocchie complete<br />

<strong>di</strong> brattee scartòzi o scartòsi, che ammassavano sull’aia avendo cura che non si bagnassero.<br />

Poi, seccati i grani della pannocchia, donne uomini e ragazzi si raccoglievano<br />

<strong>di</strong> sera sull’aia per togliere le brattee scartozare, qualcuno usava un lungo chiodo<br />

che a Monselice chiamano speo. Erano momenti <strong>di</strong> chiacchiericcio, risate, cantate e<br />

mangiate <strong>di</strong> zucca la zuca, e patate dolci le meriche. Poi arrivava lo sgranatoio che<br />

separava i grani dal tutolo. I grani venivano poi messi a seccare e portati in granaio<br />

oppure venivano subito spartiti fra gli aventi <strong>di</strong>ritto. Rimanevano le brattee e i tutoli,<br />

castelòni per Rovigo scanaréi per <strong>Padova</strong>.<br />

Carro agricolo leggero tirato da due vacche trasporta steli <strong>di</strong> granoturco per usarli nella<br />

stalla. Il veicolo percorre una strada poderale chiamata anche carezà.<br />

52


I casteloni venivano bruciati assieme alle fascine e i scartozi servivano per rifare il<br />

pagliericcio el paiòn, ai bo<strong>vai</strong> quando dormivano in stalla e ai poveri del paese; quelle<br />

brattee che avanzavano venivano date ai bovini mescolate al fieno durante i mesi<br />

invernali.<br />

Dopo qualche anno che ero a S. Bellino gli agricoltori provarono a seminare il granoturco<br />

e le barbabietole col sistema a pozzetto per fare più in fretta la <strong>di</strong>radatura. Questo<br />

sistema, che prevedeva <strong>di</strong> seminare in buchette poste a <strong>di</strong>stanza, non funzionò<br />

perché la preparazione era macchinosa. Dovevano allestire degli assi lunghi circa un<br />

metro, inchiodarvi sopra un manico per la manovra e sotto dei pezzi tronco conici<br />

posti a intervalli calcolati. Per affondare sul terreno quello strumento dovevano prima<br />

tirare i fili <strong>di</strong> allineamento per ottenere solchi paralleli; poi due operai adoperavano<br />

l’asse attrezzato che, posto in posizione, veniva premuto con i pie<strong>di</strong> per ottenere le<br />

buchette. Dietro c’erano i seminatori. Così facendo <strong>di</strong>minuì il tempo dello sciarezare,<br />

ma aumentò quello della semina. Quando sono partito da S. Bellino cominciavano<br />

ad entrare in esercizio macchinari adatti per semine <strong>di</strong>stanziate.<br />

Il prato<br />

I prati prà, che venivano coltivati per quattro anni, erano formati da erba me<strong>di</strong>ca<br />

spagna, che dava ottimo fieno appetito dagli animali e che nel contempo ingrassava<br />

la terra. Infatti le lunghe ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> quella pianta graminacea fissano nel terreno l’azoto<br />

utile per tutte le culture. Ogni anno facevano tre o quattro sfalci, generalmente con<br />

la segatrice, macchina allora abbastanza <strong>di</strong>ffusa anche a S. Bellino. Era trainata da un<br />

cavallo che percorreva su e giù i campi coltivati a prato. Le erbe nelle zone delle carezà<br />

e delle rive dei fossi invece venivano segate a mano con la falce fienaia. Purtroppo<br />

una volta non c’erano macchinari attrezzati per lo sfalcio, la raccolta delle erbe e il<br />

loro essiccamento, per cui quasi tutte le fasi lavorative dovevano essere fatte a mano,<br />

specie per l’essiccamento e il trasporto.<br />

Ho visto anche falciare a mano campi <strong>di</strong> erba me<strong>di</strong>ca. In questo caso i falciatori erano<br />

due o più. Essi usavano lo stesso sistema dei mietitori. Uno iniziava sul lato <strong>di</strong> una<br />

capezzagna, fatti pochi metri, cominciava il secondo e così via. Con ogni colpo della<br />

falce dato con tutte e due le braccia, venivano segati circa ottanta centimetri ad arco<br />

per una profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> quaranta. L’erba cadeva dove era cresciuta e così da subito veniva<br />

soleggiata. Alla sera era raccolta con rastrelli <strong>di</strong> legno, o meccanici, in lunghe file<br />

per evitare che la rugiada la bagnasse tutta. Alla mattina con le forche la <strong>di</strong>stendevano<br />

per esporla al sole: così fino a che l’erba <strong>di</strong>ventava secca e si trasformava in fieno fen.<br />

I falciatori, prima <strong>di</strong> iniziare il lavoro alla mattina e qualche volta anche al pomeriggio,<br />

arrotavano le falci. Era un rituale che ho visto molte volte. Conficcavano in terra<br />

per metà, cioè fino a un blocco formato da cerchietti, una cavicchio <strong>di</strong> ferro con la<br />

testa convessa la pianta. Si sedevano sull’erba e con un martelletto a due teste battevano<br />

il filo della lama per assottigliarlo. Finito questo lavoro, ripassavano il filo più<br />

53


volte con la cote piera, che avevano appesa alla cintola entro un corno contenente<br />

acqua, per togliere ogni eventuale sbavatura. Anche quando lavoravano <strong>di</strong> tanto in<br />

tanto i falciatori si fermavano, ripassavano la cote sul filo della falce per mantenerlo<br />

tagliente il più a lungo possibile.<br />

Il fieno veniva caricato e scaricato sempre manualmente con forche. Come tutti i<br />

lavori però, anche per caricare i carri <strong>di</strong> fieno occorrevano accorgimenti perché, durante<br />

il trasporto dal prato al fienile, le scosse non facessero scivolare a terra una<br />

parte del fieno. Infatti una volta mi successe <strong>di</strong> cadere da un carretto pieno <strong>di</strong> fieno<br />

perché mi ero appollaiato sopra. Durante il trasporto uno scossone fece cadere il<br />

fieno più alto ove ero seduto. Cad<strong>di</strong> e mi feci abbastanza male a un gomito tanto che<br />

dovetti ricorrere alle cure del me<strong>di</strong>co; guarii in tre settimane.<br />

Carro agricolo pesante che trasporta il fieno dal campo al fienile. Il conducente<br />

ha in mano il pungolo guièlo e la cavezza, poi c’è una forca infissa nel fieno. La<br />

cavezza circondava il muso dell’animale che faceva da guida, sul davanti aveva una<br />

mezzaluna <strong>di</strong> ferro con punte verso l’interno.<br />

Se la cavezza veniva tirata, la mezzaluna pungeva il muso dell’animale il quale era così<br />

costretto a eseguire quanto voleva il conducente.<br />

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La fattoria Chinaglia<br />

La mia abitazione <strong>di</strong>stava dalla fattoria Chinaglia una sessantina <strong>di</strong> passi, si trovava<br />

nel lato opposto della carrareccia. I gestori erano due fratelli sulla cinquantina sposati<br />

e ciascuno con parecchi figli. I più giovani, miei coetanei, erano gli amici delle<br />

mie scorrerie nei campi e lungo i fossi d’acqua. I Chinaglia avevano solamente come<br />

operai fissi due bovari boari, perché tutta la manodopera era formata dai figli. Questa<br />

azienda, lungo il tempo, mi offrì molti insegnamenti in campo agricolo e su tanti animali:<br />

dai buoi ai pesci, dai cavalli agli insetti. Là rivedevo con attento interesse tutto<br />

quello che scorgevo <strong>di</strong> sfuggita in altre aziende e <strong>di</strong> cui non sempre riuscivo a capacitarmi.<br />

Per questo ora descrivo in modo particolareggiato quanto ho conosciuto in<br />

quella fattoria. Quando non ero a scuola o ero libero da impegni <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o, correvo là,<br />

tanto che potevo chiamarla la mia seconda casa. Dai Chinaglia ho percorso in lungo<br />

e in largo la stalla, i campi coltivati, i fossi, là ho visto e rivisto i lavori campagnoli<br />

che si susseguivano nelle varie stagioni. Oggi scrivendo ripasso nella mia mente quei<br />

ricor<strong>di</strong> che alla fine erano sì motivo <strong>di</strong> svago, ma anche <strong>di</strong> forte interesse. Dato che gli<br />

argomenti sono parecchi, ritengo opportuno sud<strong>di</strong>viderli per soggetto.<br />

a) La stalla. Come in tutte le aziende <strong>di</strong> S. Bellino la stalla era un e<strong>di</strong>ficio imponente,<br />

<strong>di</strong> color rosso per via dei mattoni a vista. La stalla si <strong>di</strong>videva in tre sezioni con funzioni<br />

<strong>di</strong>verse e <strong>di</strong>stinte: il portico per il ricovero dei carri, la stalla vera e propria per i<br />

bovini e il sovrastante fienile per le erbe secche. Naturalmente la parte principale era<br />

quella riservata agli animali, che era allora molto <strong>di</strong>versa dai ricoveri degli animali<br />

<strong>di</strong> oggi. La stalla dei buoi aveva una corsia longitu<strong>di</strong>nale al centro con un pavimento<br />

a schiena d’asino per facilitare lo sgrondo delle urine. Ai lati <strong>di</strong> essa c’erano delle<br />

cunette i solcali, <strong>di</strong> raccolta e convogliamento verso l’esterno dei liqui<strong>di</strong>. Ai fianchi <strong>di</strong><br />

questo corridoio erano <strong>di</strong>stribuite le celle per gli animali le poste, <strong>di</strong> una grandezza<br />

sufficiente a raccogliere due bovini sdraiati. Le poste erano <strong>di</strong>vise fra loro da paratie<br />

in legno le stramezare, alte circa un metro e trenta centimetri. In fondo verso l’esterno<br />

ogni posta aveva la greppia grupia. Longitu<strong>di</strong>nalmente questa era irrobustita da una<br />

solida trave per legarvi gli animali con la cavezza caveza o cavessa. Ogni giorno i bovini<br />

venivano liberati e condotti all’esterno due a due, perché potessero abbeverarsi<br />

su un lungo contenitore d’acqua l’albio. Ogni animale aveva i dati anagrafici scritti<br />

con il gesso su tabelle fissate in alto su ogni posta. I bovari che li accu<strong>di</strong>vano, usavano<br />

per ogni animale il nome scritto sulla tabella che <strong>di</strong> solito era un aggettivo, come<br />

Bianchetta, Mora, ecc. Talvolta mi fermavo a chiacchierare coi bovari, così successe<br />

che assistetti alla nascita <strong>di</strong> un vitello. Il bovaro <strong>di</strong> turno legò una corda ai pie<strong>di</strong> del<br />

nascituro che fuoriuscivano e si mise a tirare, dopo qualche sforzo dell’uomo e della<br />

vacca nacque un vitellino. Una volta erano fatti eccitanti per noi ragazzetti, oggi alla<br />

TV si vede <strong>di</strong> tutto. Ricordo che il bovaro mi <strong>di</strong>sse che da alcuni giorni e notti dormiva<br />

in stalla in attesa del lieto evento, perché nella tabella era scritto anche il giorno<br />

della monta del toro, e lui aveva tenuto conto del periodo <strong>di</strong> gestazione.<br />

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I tori erano allevati e selezionati nelle stalle più gran<strong>di</strong> del paese o dei <strong>di</strong>ntorni.<br />

All’esterno <strong>di</strong> quelle stalle c’erano steccati robusti, per trattenere le vacche quando<br />

c’era la monta. Ora se ne incaricano i veterinari sia per la scelta dei tori che per l’inseminazione<br />

delle vacche. Una volta ogni toro aveva una cella propria ed era legato con<br />

una cavezza formata da una catena <strong>di</strong> ferro fissata al muro. Per menare un toro fuori<br />

della stalla occorrevano due bovari perché il toro è un animale bizzoso e pericoloso.<br />

Un bovaro lo conduceva per la cavezza ed era fornito <strong>di</strong> un robusto pungolo guiélo,<br />

un altro teneva una corda con la quale comandava una speciale tenaglia che mettevano<br />

sulle narici. Se il toro faceva le bizze il bovaro tirava la corda e stringeva le narici<br />

provocando sensibili dolori al toro che era costretto ad ammansirsi. Quella tenaglia<br />

non feriva il muso del toro, gli produceva solamente dolori perché aveva le ganasce<br />

che terminavano con due palline.<br />

Ogni mattina i bovari pulivano la stalla, gettavano forcate <strong>di</strong> foraggio nella mangiatoia<br />

e rifacevano le lettiere. Lo strame veniva portato con una carriola piana cariolòn,<br />

nel letamaio loamàro. Talvolta pulivano con la striglia e la brusca gli animali<br />

più insu<strong>di</strong>ciati. All’esterno vi erano tombini interrati che portavano l’urina dei bovini<br />

in una cisterna coperta da grossi assi <strong>di</strong> legno, posta fra le due piazzole formanti<br />

il letamaio. Erano queste costruite in mattoni e circondate da cordoli per trattenere<br />

i liquami. Per far maturare più celermente il letame i bovari irroravano, <strong>di</strong> tanto in<br />

tanto, lo strame con l’urina che estraevano dalla cisterna con una latta petroliera<br />

fissata a un lungo manico.<br />

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Quando il letame <strong>di</strong>ventava nero significava che era maturo; allora lo spargevano sui<br />

campi per concimarli poco prima dell’aratura.<br />

b) Il fienile e il portico. Il fienile era sovrapposto alla zona ricovero bovini e aveva la<br />

stessa superficie. Era chiuso per tre lati da una muratura mentre il quarto, che si affacciava<br />

sul portico, era libero per il carico e scarico del fieno. Su questo quarto lato<br />

c’erano solamente delle pilastrate per sostenere le travi del coperto. Sulle altre pareti<br />

c’erano gran<strong>di</strong> riquadri <strong>di</strong> grigliati in mattoni, fatti a croce greca, onde permettere<br />

l’aerazione della massa del fieno. Il portico era formato da gran<strong>di</strong> arcate poggianti su<br />

robusti pilastri, che avevano anche chiusure parziali sempre in mattoni; per ottenere<br />

zone <strong>di</strong> ricovero protette dalle piogge.<br />

c) Le stallette degli equini. Le stalle dei cavalli, asini e muli erano ambienti piccoli<br />

staccati dalla stalla dei bovini. Le esigenze <strong>di</strong> questi animali sono <strong>di</strong>verse da quelle<br />

dei bovini; essi hanno bisogno <strong>di</strong> ventilazione. Le loro celle poste, erano per un solo<br />

animale, però anch’essi erano legati alla greppia con una cavezza. Pure la pavimentazione<br />

era <strong>di</strong>versa perché per gli equini, che battono gli zoccoli ferrati sul pavimento,<br />

occorre un manufatto molto resistente. Generalmente era formato da mattoni posti a<br />

coltello cortelà. Gli equini producono minor quantità <strong>di</strong> strame, però devono essere<br />

nutriti solo a fieno avena o pastone liquido <strong>di</strong> farina bianca, non appetiscono polpe<br />

o brattee come i bovini. In aggiunta il loro manto deve essere sempre pulito giornalmente<br />

con brusca e striglia.<br />

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Pianta <strong>di</strong> una stalla per bovini in muratura degli anni ‘30 a San Bellino. Ve ne erano <strong>di</strong> più<br />

gran<strong>di</strong> e anche <strong>di</strong> più piccole. A sinistra c’era il letamaio, a destra l’abbeveratoio. Quando<br />

nascevano i vitellini, dopo pochi giorni, venivano posti in una cella e riportati dalla madre<br />

solo quando dovevano fare la poppata.<br />

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Sezione verticale <strong>di</strong> una stallaer bovini in muratura degli anni ‘30 a San Bellino. Sotto il<br />

fienile c’era il ricovero dei bovini. Da notare le pendenze per lo sgrondo delle urine. Le tre<br />

pareti che contenevano il fieno avevano riquadri forati per espellere i gas <strong>di</strong> fermentazione<br />

delle erbe. Il portico serviva per il ricovero dei carri, dei carretti e per scaricare il fieno.<br />

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Prime arature e semine<br />

In settembre cominciavano ad arare quei campi che dovevano essere seminati a frumento<br />

prima dell’inverno, Quel lavoro era, per me ragazzo, pieno <strong>di</strong> scene maestose,<br />

in<strong>di</strong>menticabili che iniziavano all’alba e finivano nella tarda mattinata.<br />

L’aratro versuro, era tirato da sei paia <strong>di</strong> buoi solenni, dalle lunghe corna arcuate e<br />

dall’incedere lento e maestoso. Presto si cominciavano a vedere piccoli sbuffi <strong>di</strong> vapor<br />

acqueo uscire dalle narici <strong>di</strong> quei bestioni bianchi e anche piccole coltri <strong>di</strong> vapore che<br />

sorgevano dalla terra rovesciata dal vomere dell’aratro. Gli operatori erano quattro,<br />

due per <strong>di</strong>rigere i do<strong>di</strong>ci buoi e due per governare il pesante aratro. Ogni bovaro<br />

accu<strong>di</strong>va con il suo pungolo guielo, tre paia <strong>di</strong> buoi in modo sincrono perché tutti<br />

i buoi tirassero assieme l’aratro e non sbandassero <strong>di</strong> qua o <strong>di</strong> là, giacché i gran<strong>di</strong><br />

solchi dovevano essere paralleli: era questo un segnale <strong>di</strong> bravura degli aratori. Altri<br />

due operai manovravano l’aratro il cui vomero doveva costantemente rivoltare la<br />

terra per una profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> cinquanta centimetri, badando contemporaneamente al<br />

parallelismo dei solchi. I terreni erano generalmente <strong>di</strong> impasto agro, cioè forte, per<br />

cui uomini e buoi dovevano faticare. Per mantenere costante il livello del terreno,<br />

cominciavano l’aratura ad anni alterni dalle capezzagne laterali o dal centro <strong>di</strong> ogni<br />

appezzamento. A giorni alterni, invece, gli operai cambiavano sia il coltro, la lama<br />

che tagliava verticalmente il terreno, corteo nel Polesine coltra nel <strong>Padova</strong>no, sia il<br />

vomero che taglia orizzontalmente in profon<strong>di</strong>tà e rivolta le zolle el gomiéro: tutto<br />

questo per farli riaffilare a caldo dal fabbro.<br />

Quel terreno duro lasciava grosse zolle loti, così dovevano ripassare sui campi uomini<br />

e donne che, con un mazzuolo dal lungo manico màzo, battevano sulle zolle per<br />

spappolarle slotavano. Per pareggiare bene il terreno e rompere tutte le zolle piccole<br />

ripassavano ancora con un pesante erpice la rapegàra, tirata dai buoi e fatta artigianalmente<br />

con una robusta e spessa intelaiatura lignea e con grossi cavicchi <strong>di</strong> ferro,<br />

lunghi venti centimetri, fissati negli interstizi delle riquadrature. Alla fine ripassavano<br />

con erpici leggeri che avevano corone dentate <strong>di</strong> ferro e che erano tirati da cavalli<br />

o asini: così il terreno era pronto per essere seminato. Col terreno asciutto iniziava<br />

la semina del grano. Tutti comperavano la semente a Len<strong>di</strong>nara, sia perché ciascun<br />

coltivatore scieglieva la specie <strong>di</strong> frumento che riteneva più produttiva nel suo terreno,<br />

sia perché il frumento doveva essere trattato col “caffaro” che rendeva i chicchi<br />

verdastri: era un antidoto contro le malattie e contro gli uccelli che non lo beccavano<br />

perché <strong>di</strong> gusto sgradevole. Ho visto anche seminare a spaglio in quegli appezzamenti<br />

che avevano una positura infelice per l’uso delle macchine. La seminatrice aveva<br />

un contenitore delle sementi lungo e stretto, dal quale pendevano dei pezzi <strong>di</strong> tubo,<br />

uniti a telescopio, posti alla <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> circa <strong>di</strong>eci centimetri l’uno dall’altro. Il pezzo<br />

<strong>di</strong> tubo terminale era fornito <strong>di</strong> una ghiera sagomata; sul davanti aveva un dente per<br />

tracciare un piccolo solco sul quale subito cadeva la semente, nel retro aveva invece<br />

una spatoletta per richiudere il solco.<br />

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L’abilità del seminatore era <strong>di</strong> condurre la seminatrice in modo rettilineo per ottenere<br />

tanti solchi uniformemente paralleli fra loro.<br />

La seminatrice non era però trainata sul campo dai buoi perché gli zoccoli <strong>di</strong> quei bestioni<br />

avrebbero creato nella terra smossa profonde buche, che sarebbero risultate dannose,<br />

perché in quei luoghi la semente sarebbe rimasta in superficie senza poter attecchire.<br />

Per ovviare a questa <strong>di</strong>fficoltà era stato escogitato il sistema <strong>di</strong> far scorrere su e giù per il<br />

campo solo la seminatrice governata da un uomo. Essa veniva trainata avanti e in<strong>di</strong>etro<br />

con delle corde. Erano corde lunghissime che venivano deviate, per il tiro sulle carezà,<br />

da grosse carrucole ancorate a terra. I capi delle due corde infatti a mezzo delle carrucole<br />

arrivavano sulle strade poderali che delimitavano le due teste dell’appezzamento.<br />

Colà vi erano coppie <strong>di</strong> buoi che alternativamente provvedevano per il tiro. Le carrucole<br />

venivano continuamente spostate dopo un’andata o un ritorno. Finita la semina<br />

usavano rulli leggeri per comprimere un po’ il terreno e per spingere le sementi entro<br />

la terra. I rulli erano tre, <strong>di</strong>stanziati tra loro nel senso della larghezza, ed erano tirati<br />

da un cavallo o da un asino. Prima dei gran<strong>di</strong> fred<strong>di</strong> invernali si vedevano già le foglioline<br />

del grano che crescevano. I conta<strong>di</strong>ni aspettavano il freddo e la neve perché<br />

così il frumento rallenta lo sviluppo verticale e accestisce facendo più steli onde avere<br />

più spighe per ogni granello. Questo io lo avevo già imparato alle elementari <strong>di</strong> Costa<br />

<strong>di</strong> Rovigo. La mia maestra Gigina Beltrame me lo ha ripetuto per cinque anni, terminando<br />

poi la spiegazione col noto proverbio: “sotto la neve pane, sotto l’acqua fame”.<br />

Quando c’era la possibilità, nei bei giorni autunnali, continuava l’aratura per preparare<br />

il terreno alle seminagioni primaverili. Così facendo si otteneva che la pioggia<br />

penetrasse in profon<strong>di</strong>tà sulla terra smossa e che i successivi gelo e <strong>di</strong>sgelo rompessero<br />

le zolle. Coloro che non riuscivano, dovevano farlo negli ultimi tempi invernali<br />

per avere il terreno pronto per granoturco, bietole, canapa.<br />

Carrucola <strong>di</strong> legno col <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa sessanta centimetri usata per la semina. Veniva<br />

ancorata nelle strade poderali con un arpione. Due carrucole servivano per far deviare <strong>di</strong> 90°<br />

le corde legate, davanti e <strong>di</strong>etro, alla seminatrice per essere tirate alternativamente dai bovini<br />

che camminavano nelle due carèza che delimitavano le testate dei campi. Naturalmente le<br />

due carrucole venivano spostate, prima una e poi l’altra, per ogni giro completo.<br />

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62<br />

Sei paia <strong>di</strong> buoi, guidati da due<br />

bovari, tirano un pesante aratro<br />

manovrato da altri due operai. Da<br />

notare che l’aratura è iniziata dalla<br />

carezà.<br />

Trentottisti che, con un mazzuolo <strong>di</strong><br />

legno dal manico lungo, spappolano<br />

le zolle lasciate dall’aratura. Questo<br />

lavoro veniva fatto poco prima della<br />

semina.


Lavori invernali<br />

Dopo la semina del frumento e le ultime arature, i lavori in campagna erano temporaneamente<br />

sospesi. I braccianti trovavano da lavorare in opere sussi<strong>di</strong>arie, come<br />

preparare la legna da ardere, sra<strong>di</strong>cando alberature morte o ammalorate e poi facendo<br />

la potatura degli alberi con la roncola cortelina, e più tar<strong>di</strong> anche quella delle viti,<br />

bruscare la vigna. Vigeva un tacito consenso per la legna da ardere fra i conduttori e<br />

gli operai: “io ti do la legna tu la spacchi, metà a me e metà a te”. Il ceppo delle ra<strong>di</strong>ci<br />

veniva però lasciato a chi lo scavava perché allora non c’erano macchine per lo sra<strong>di</strong>camento.<br />

Il lavoro <strong>di</strong> rottura dei tronchi d’albero era molto faticoso giacché era fatto<br />

tutto a mano senza l’ausilio <strong>di</strong> macchinari.<br />

Usavano un grosso e pesante mazzuolo <strong>di</strong> legno, generalmente <strong>di</strong> rubino. Era un<br />

cilindro lungo sui quaranta centimetri e del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> quin<strong>di</strong>ci, aveva un manico<br />

lungo circa un metro.<br />

Le due teste erano incernierate con anelli <strong>di</strong> ferro mazo con le scione. Prima l’operaio<br />

faceva con la scure manara, delle tacche per infilarvi dei cunei <strong>di</strong> ferro penole, poi<br />

batteva col mazo, così un po’ alla volta otteneva ceppi adatti al focolare le zoche. Ridotti<br />

i tronchi in ceppi per camino, gli operai facevano le cataste <strong>di</strong> legna zocare, prima<br />

per i fittavoli e poi per loro stessi, portandosi a casa la propria quota <strong>di</strong> spettanza.<br />

In quei tempi alcuni signori avevano la cucina economica detta americana, così era<br />

chiamata allora la stufa per cucinare e riscaldare, perciò dovevano provvedere a farsi<br />

tagliare i ceppi in legni piccoli, questo lavoro dovevano pagarlo o farselo da soli. Con<br />

la potatura delle piante e delle viti venivano prodotti tanti bruscoli e sarmenti che<br />

poi venivano legati con rametti <strong>di</strong> salice strope, per fare fascine fasine. Spesso i rami<br />

più resistenti e grossi li usavano come pertiche per sorreggere le vigne i pali. Tutte le<br />

fascine le ammucchiavano facendo il fasinaro: era questa una riserva <strong>di</strong> combustibile<br />

da usarsi per fare fiammate gran<strong>di</strong> e improvvise, come nel forno del pane o nel fornello<br />

del bucato.<br />

L’uva<br />

A S. Bellino non ho mai visto vigneti gran<strong>di</strong> come quelli che ho trovato a Monselice.<br />

L’uva era ritenuta poco remunerativa perché non dava vini caratteristici. In pratica<br />

la coltivazione si riduceva a sod<strong>di</strong>sfare i bisogni della gente del luogo. La vite vegna,<br />

veniva coltivata a spalliera alta rivale, fra gli olmi che crescevano nelle capezzagne.<br />

Generalmente era uva nera che dava vino raboso, bacò, clinton; qua e là v’erano anche<br />

pergole <strong>di</strong> vigne con uva fragola o bianca per mangiarle a tavola.<br />

Le cantine, nel Polesine cantine nel <strong>Padova</strong>no càneve, erano locali piccoli, posti a<br />

nord, forniti però del necessario per la vinificazione. Io non sono mai andato a vendemmiare<br />

quando abitavo a San Bellino, perché i grappoli erano alti e per staccarli<br />

occorreva l’uso della scala a tre pie<strong>di</strong>, scalòn, fatto a triangolo con una gamba mobile,<br />

mi limitavo a guardare le varie operazioni.<br />

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La pigiatura era fatta con i pie<strong>di</strong> entro un contenitore speciale veturo, la fermentazione<br />

del mosto posto entro i tini produceva nuvole <strong>di</strong> moscerini moschini, infine c’era<br />

la spillatura attraverso la spina con lo zipolo cànola. Il passaggio del vino nelle botti<br />

era fatto con l’aiuto <strong>di</strong> uno secchio <strong>di</strong> rame e un grande imbuto: piriòto a Rovigo, a<br />

<strong>Padova</strong> lora. Solamente a lavori finiti noi ragazzetti andavamo a raccogliere i racimoli<br />

recèti, ormai un po’ appassiti e dolci. Usavamo canne selvatiche canàvere, con un<br />

incastro posto nella parte superiore, nel quale cercavamo <strong>di</strong> introdurvi il gambo, poi<br />

giravamo la canna fino a rompere il picciolo pecòlo.<br />

Le vinacce graspe, che rimanevano nel tino dopo la spillatura venivano usate, aggiungendo<br />

acqua, per ottenere il vinello, la graspìa, che serviva durante i lavori pesanti<br />

della mietitura e della trebbiatura. Quei gestori che avevano invece il torchio manuale,<br />

spremevano le vinacce per ricavare altro vino, le vinacce che restavano venivano<br />

gettate nel letamaio, seguendo il ciclo del fertilizzante naturale.<br />

A S. Bellino c’era l’abitu<strong>di</strong>ne che in tutte le famiglie venissero confezionati i succhi<br />

d’uva sùgoli, era una ghiottoneria che pure i braccianti volevano assaggiare, anche perché<br />

costavano poco. Ricordo bene come li faceva la mamma. Sceglieva i grappoli d’uva<br />

più matura, staccava gli acini eliminando quelli <strong>di</strong>fettosi, ne riempiva fino all’orlo un<br />

paiolo <strong>di</strong> rame, ove prima aveva messa una grossa chiave <strong>di</strong> ferro perché c’era in paese<br />

la <strong>di</strong>ceria che il ferro era l’antidoto contro gli aci<strong>di</strong> del mosto che potevano intaccare il<br />

rame. Fatti bollire gli acini, il paiolo veniva tolto dal fuoco e lasciato raffreddare.<br />

Quando c’erano molti grappoli, l’uva veniva pigiata con i pie<strong>di</strong> dentro il veturo. Quando<br />

erano in quantità limitata la pigiatura veniva fatta entro una tinozza. La persona<br />

accovacciata fa la cernita dei grappoli per poi usarli per i sùgoli.<br />

64


Poi la mamma scolava il tutto, spremeva ben bene le bucce le graspiaiòle eliminandole<br />

assieme ai vinaccioli gramùstrini. Era arrivato il momento della dosatura per mescolare<br />

il mosto con la farina doppio zero. La mamma misurava il mosto a bicchieri<br />

e metteva da parte altrettante cucchiate <strong>di</strong> farina. Dopo faceva come per la polenta,<br />

mescolava lentamente la farina nel mosto caldo fino a che riteneva che il tutto fosse<br />

cotto; prima però <strong>di</strong> tanto in tanto, assaggiava l’impasto e nel caso sentisse il bisogno<br />

lo dolcificava con un po’ <strong>di</strong> zucchero. Per raffreddare i sùgoli che ormai erano <strong>di</strong> color<br />

rosso violaceo, mia madre li scodellava in piccoli recipienti che servivano per la conservazione.<br />

I sùgoli non si dovevano mangiare cal<strong>di</strong> perché sarebbe stato come prendere<br />

un purgante, da fred<strong>di</strong> si mangiavano come dessert. Potevano essere conservati<br />

anche fino a Natale, in quel caso facevano una crosta con una muffa verdognola,<br />

sotto però si trovavano i sùgoli ancora in ottimo stato <strong>di</strong> conservazione. A casa mia i<br />

sùgoli duravano al massimo una decina <strong>di</strong> giorni. In questo caso facevano una muffetta<br />

bianca, forse l’efflorescenza degli zuccheri, che a me piaceva molto. Certe volte<br />

quando la mamma aveva fretta, faceva i sùgoli usando <strong>di</strong>rettamente il mosto quando<br />

usciva dal vetùro, poi seguiva lo stesso metodo già detto: cottura del mosto e poi dosaggio<br />

e polenta. I sùgoli così fatti risultavano simili a quelli ricavati dagli acini bolliti,<br />

ma il gusto però era meno pastoso, forse perché mancava il tannino delle bucce. Da<br />

grande ho constatato che questo succo d’uva è <strong>di</strong>ffuso specie nel Veneto e in Emilia<br />

Romagna. Attualmente, nel 2008, vi sono in commercio scodelline <strong>di</strong> 150 grammi <strong>di</strong><br />

sùgoli prodotti a Reggio Emilia che costano attorno ad un euro. È il costo <strong>di</strong> un prodotto<br />

particolare <strong>di</strong>ffuso in piccole aree, ma per noi vecchi, che ben li conosciamo da<br />

antica data, sembra un costo rilevante.<br />

L’ambiente economico<br />

All’inizio ho chiamato economia curtense quella <strong>di</strong> S. Bellino, prendendo a prestito<br />

una realtà me<strong>di</strong>oevale. A S. Bellino vi erano tanti braccianti, il popolo servo della<br />

gleba, e pochi benestanti, i conduttori agricoli cioè i signorotti i vassalli. Certo i<br />

trentotisti potevano abbandonare il quietismo paternalistico e tra<strong>di</strong>zionale dei benestanti,<br />

ma una vecchia sud<strong>di</strong>tanza e le <strong>di</strong>fficoltà economiche frenavano ogni slancio<br />

per le novità. Purtroppo i braccianti <strong>di</strong>sponevano <strong>di</strong> contanti solamente durante la<br />

raccolta dei prodotti agricoli, non tanto per pagare i debiti del futuro ma per saldare<br />

quelli dell’anno precedente. Pochi se la sentivano <strong>di</strong> affrontare una vita <strong>di</strong>versa in altri<br />

luoghi, lasciando arretrati ancora insoluti. Così tutti vivacchiavano tenendosi stretto<br />

quel modesto red<strong>di</strong>to che avevano.<br />

Mio padre nel 1930 fece costruire a San Bellino un piccolo mulino con due palmenti<br />

a mole <strong>di</strong> pietra, uno per il grano l’altro per il granoturco. Proprio quell’economia,<br />

basata sul red<strong>di</strong>to estivo, non <strong>di</strong>ede a mio padre possibilità <strong>di</strong> sviluppo, perché ogni<br />

anno, per parecchi mesi, mancava il denaro alla maggioranza della popolazione; così<br />

mio padre, scarso <strong>di</strong> liquido, dovette vendere il mulino dopo cinque anni.<br />

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Mi pare sia utile spiegare come la popolazione sanbellinese riuscisse a sopravvivere<br />

in un luogo che fondava la propria esistenza soprattutto sul pane e sulla polenta, con<strong>di</strong>ti<br />

soltanto una volta alla settimana, con la carne degli animali da cortile. Quei due<br />

alimenti, il pane per i ricchi e la polenta per i poveri, oggi si trovano ovunque, ma<br />

una volta dovevano essere confezionati in casa; e per far questo c’erano lavori supplementari<br />

specie per le massaie.<br />

Una situazione poi, che sulle prime mi ha meravigliato, fu quella <strong>di</strong> constatare che<br />

parecchie famiglie sparse nella campagna non avevano la luce elettrica. Nel centro<br />

della stanza avevano appeso alle travi un lume a petrolio. Esso era formato da un<br />

contenitore, completo <strong>di</strong> stoppino regolabile, posto entro una struttura circolare <strong>di</strong><br />

ottone che aveva tre catenelle <strong>di</strong> supporto, era il canfin. Poi sulla cappa del camino<br />

erano allineati candelieri portatili. Questi candelieri erano usati però anche da coloro<br />

che avevano la luce elettrica perché <strong>di</strong>cevano che l’uso della candela era meno costoso<br />

della illuminazione elettrica.<br />

In paese c’erano degli operatori in<strong>di</strong>pendenti, artigiani e commercianti, che però erano<br />

in numero limitato perché la loro attività era strettamente legata alla situazione agricola<br />

del paese, ove tutti cercavano <strong>di</strong> arrangiarsi mancando a molti, come detto, il contante.<br />

Credo che l’autonomo che stava meglio fosse l’alimentarista casolino, che aveva il suo negozio<br />

nel centro e che vendeva anche tanti piccoli oggetti, come cancelleria per gli scolari,<br />

rocchetti <strong>di</strong> filo e bottoni per le mamme. Per spiegare poi i bisogni sod<strong>di</strong>sfatti dai commercianti,<br />

dagli artigiani e dalle brave donne <strong>di</strong> casa mi <strong>di</strong>lungo a parlarne specificatamente.<br />

Il pane<br />

La panificazione era una operazione che coinvolgeva tante famiglie. I forni, tutti della<br />

stessa capacità, erano sparsi nel territorio ove le aziende agricole erano più gran<strong>di</strong>.<br />

Essi erano in pratica a <strong>di</strong>sposizione della collettività. Potevano cuocere i panetti ciope,<br />

ricavati da trenta chilogrammi <strong>di</strong> fior <strong>di</strong> farina. Solamente le famiglie numerose<br />

si adoperavano da sole a farsi il pane necessario per un mese. Le piccole famiglie si<br />

associavano e poi si spartivano i costi e il pane. La mia famiglia era numerosa: due<br />

genitori, la zia <strong>di</strong> mia madre e noi cinque figli un po’ cresciutelli. Ricordo bene quei<br />

giorni della panificazione che avveniva circa una decina <strong>di</strong> volte all’anno. E se a me,<br />

sempre curioso <strong>di</strong> osservare, piaceva vedere le varie fasi <strong>di</strong> lavorazione, c’era anche<br />

da mettere in conto la levataccia che dovevo fare perché il rumore della gramola mi<br />

svegliava qualche oretta prima del solito.<br />

Finché mio padre, mugnaio, non iniziò a comperare il fiore <strong>di</strong> farina da cambiare col<br />

frumento, mia madre setacciava tamisava col tamiso, la farina bianca che conteneva<br />

crusca e cruschello semola e semolino. Questo lavoro lo faceva il giorno prima lavorando<br />

su una ma<strong>di</strong>a bassa senza coperchio la mesa, rialzata con due se<strong>di</strong>e.<br />

Il fior <strong>di</strong> farina ottenuto serviva per il pane, usava invece la semola per gli animali da cortile<br />

o per il cavallo che avevamo. Alla sera la mamma prendeva un grosso panetto conservato già<br />

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lievitato dall’infornata precedente el levà, e lo sminuzzava; poi con acqua calda salata faceva<br />

entro la mesa un grosso pastone coprendolo con altra farina. Copriva il tutto con una tovaglia<br />

ed una coperta <strong>di</strong> lana e contemporaneamente accendeva il fuoco nel camino per favorire la<br />

lievitazione. Il giorno dopo, prima dell’alba, arrivavano non meno <strong>di</strong> tre donne che, assieme<br />

ai miei genitori, amalgamavano tutta la farina usando acqua calda salata. Tutto l’impasto<br />

veniva <strong>di</strong>viso in tanti pastoni per manipolarli al meglio: e qui iniziava il duro lavoro della<br />

gramolatura per ottenere degli impasti omogenei e vellutati al tatto.<br />

La gramola era tutta <strong>di</strong> legno. Aveva uno spesso e largo pianale lungo oltre un metro, sotto vi<br />

erano quattro robuste gambe, sopra delle leve incernierate che, manovrate a mano, facevano<br />

alzare ed abbassare un coltello per poter schiacciare un pastone che, ad ogni alzata, veniva ripiegato<br />

su se stesso. Due persone in pie<strong>di</strong> muovevano con forza le leve, un’altra seduta sull’asse<br />

rovesciava continuamente il pastone finché sentiva al tatto che l’operazione era completata.<br />

Poi passavano ad un altro pastone. Mentre avveniva l’amalgama del secondo pastone. altre<br />

persone tagliavano a grosse fette il primo. Ogni fetta veniva rotta facendo tanti grumi <strong>di</strong> pasta.<br />

Ognuno <strong>di</strong> questi veniva a sua volta ancora manipolato più volte, poi venivano fatti i vari<br />

formati <strong>di</strong> pane a seconda del gusto: cornetti, mantovane, pinzette accostate, ecc. Prima che<br />

queste operazioni fossero completate, una donna partiva per il forno, che <strong>di</strong>stava un centinaio<br />

<strong>di</strong> passi, e cominciava a far fuoco con le fascine già in sito.<br />

Quel forno, simile a tutti gli altri, era formato da una calotta <strong>di</strong> mattoni del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa<br />

tre metri e mezzo, posta su un ammattonato. Davanti alla calotta c’era un piccolo portico per<br />

poter operare anche quando pioveva, e il tutto era coperto da un tetto <strong>di</strong> coppi. Nel retro vi<br />

era la canna fumaria con un registro, sul davanti c’era invece una porticina <strong>di</strong> ferro costruita<br />

a mezza luna, non incernierata e autoportante, completavano gli strumenti formati da spatole<br />

per le pulizie e pale <strong>di</strong> ferro, dal lungo manico, che servivano per infornare o sfornare il pane.<br />

Quando il forno era ben caldo l’operatrice andava ad avvisare per il trasporto dei panetti,<br />

ciope, che per la bisogna erano posti sopra tavolati, coperti da tovaglie e trasportati da due<br />

persone. Prima <strong>di</strong> tutto veniva pulita la superficie calda del forno, poi con metodo venivano<br />

Schizzo <strong>di</strong> una gramola per impastare il pane, costruita tutta in legno e manovrata da tre<br />

persone: una seduta per girare continuamente il pastone, due per abbassare il coltello.<br />

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depositati dentro i panetti per la cottura: prima nelle zone più lontane poi via via in quelle più<br />

vicine. Finito questo lavoro venivano chiusi sia la bocca che la canna fumaria, per mantenere<br />

il più possibile il calore entro la calotta; il vapore acqueo che si sviluppava, lentamente veniva<br />

espulso dai mattoni per osmosi. Se la farina che si panificava era <strong>di</strong> trenta chili, il pane fresco<br />

che se ne ricavava aveva un peso superiore <strong>di</strong> circa il venti per cento.<br />

Nella tarda mattinata venivano tirati fuori tanti panetti da riempire un cesto <strong>di</strong> pane<br />

fresco; il rimanente, da riempire altri due cesti, rimaneva dentro fino a sera per biscottarsi.<br />

I cesti, sempre ricoperti da tovaglie, venivano appesi nelle pertiche dei salami.<br />

Poche famiglie possedevano gli strumenti necessari per la panificazione, neanche noi<br />

li avevamo, così si ricorreva ai prestiti che generalmente erano gratuiti.<br />

Quando nelle famiglie si continuava a mangiare per qualche tempo solo pane biscotto,<br />

<strong>di</strong> solito allora nasceva in qualcuno il desiderio del pane fresco e tenero: cosí<br />

succedeva anche nella mia famiglia. Allora mia madre faceva la focaccia, fatta a <strong>di</strong>sco<br />

con pasta confezionata come quella del pane. Nel camino poi preparava un fuoco<br />

vivo per riscaldare il focolare rola, costruito in mattoni. Poi lo puliva dalle brace<br />

brònze, e dalla cenere calda zénare, per stendervi la focaccia.<br />

Subito la ricopriva con un coperchio <strong>di</strong> lamiera cuercio, stendendovi sopra cenere<br />

calda e brace. La focaccia veniva rigata profondamente per cuocerla in modo<br />

Schizzo della sezione verticale <strong>di</strong> un forno per pane, usato fino al 1940 circa; fabbricato <strong>di</strong> 7x4 metri.<br />

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uniforme anche all’interno. Il pane cotto in questo modo nel Polesine lo chiamavano<br />

genericamente pinza, mentre a Monselice lo chiamano schisòto. Talvolta, per<br />

accontentare noi cinque figli, mia madre faceva anche focacce con meto<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi, ad<br />

esempio mescolava farina <strong>di</strong> granoturco con quella <strong>di</strong> grano e con<strong>di</strong>va l’impasto con<br />

latte e zucchero o con unto e ciccioli <strong>di</strong> maiale sìsole. Vi erano anche famiglie che non<br />

riuscivano a farsi né ciòpe, né pinze, allora ricorrevano alla bontà dei conoscenti, che<br />

sempre rispondevano con generosità. Da quanto vedo oggi in giro, credo <strong>di</strong> poter<br />

<strong>di</strong>re con franchezza che attualmente c’è troppo egoismo, parecchi pensano solo per<br />

se stessi, anche se vi sono fortunatamente persone che si adoperano per gli altri. Al<br />

proposito desidero portare un vecchio esempio <strong>di</strong> vita coerentemente cristiana.<br />

A San Bellino le porte delle case non venivano chiuse a chiave quando gli abitanti se<br />

ne andavano al lavoro. I poveri, senza bussare, si fermavano sul limitare dell’ uscio<br />

e cominciavano a recitare preghiere ad alta voce. Se nessuno rispondeva, quei poveri<br />

se ne andavano, generalmente però qualcuno sentiva, magari dalle case vicine,<br />

e provvedeva alla bisogna regalando uova o farina, mai denaro perché <strong>di</strong> questo in<br />

giro ce n’era molto poco.<br />

La polenta<br />

Il cibo più <strong>di</strong>ffuso fra i braccianti era la polenta, sia perché la materia prima, il<br />

granoturco, costava meno del frumento, sia perché per il suo confezionamento<br />

bastavano un po’ <strong>di</strong> fuoco e una mano che rimestasse l’amalgama <strong>di</strong> acqua e farina<br />

gialla per una mezz’ora dopo che l’acqua bolliva.<br />

I men<strong>di</strong>canti.<br />

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A mio padre piaceva la polenta, forse perché da giovane fece una vita molto grama<br />

con<strong>di</strong>ta solo da tanta polenta, così mia madre la faceva a giorni alterni, giacché<br />

una paiolata durava due giorni. D’estate adoperava il camino, d’inverno la cucina<br />

economica. Mi <strong>di</strong>vertivo a vedere la mamma quando d’estate confezionava la<br />

polenta: d’estate, perché col caldo ero in vacanza, mentre d’inverno ero a scuola e<br />

quando ritornavo trovavo tutto pronto. In ogni casa c’era un paiolo <strong>di</strong> rame paròlo<br />

nel Polesine lavezo o caliéro nel <strong>Padova</strong>no, simile a quelli che oggi ornano le taverne<br />

delle case. La mamma riempiva il paiolo d’acqua per tre quarti e lo appendeva con<br />

un gancio alla catena del camino. Ad acqua calda e salata cominciava a spandervi<br />

manciatelle <strong>di</strong> farina sempre rimestando con un mestolo <strong>di</strong> legno mescola, perché<br />

non si formassero dei grumi, che alla fine risultavano cotti all’esterno ma pieni<br />

<strong>di</strong> farina all’interno i munàri, non gustosi al palato. Per meglio lavorare doveva<br />

tenere fermo il paiolo, così usava un arnese triangolare <strong>di</strong> legno rivestito <strong>di</strong> latta<br />

verso il fuoco, fissato con un gancio al paiolo e con i pie<strong>di</strong>ni poggiati sul focolare<br />

el copo. Poneva un ginocchio sul copo così poteva mescolare con meno fatica.<br />

La massaia mescola la farina <strong>di</strong> granturco (mais) per preparare la polenta. Da notare, sulla<br />

tavola, la tafferia sulla quale veniva svuotata la polenta; sulla mensola della cappa ci sono<br />

(da sinistra) il macinino da caffé, la bottiglia pigliamosche, moscarola, il lume a petrolio, il<br />

coperchio che serviva per cuocere le focacce, mettendovi sopra della brace. Le varie qualità <strong>di</strong><br />

focacce erano: la pinza (fatta con i resti del pane o della polenta aggiungendovi unto e sisole<br />

<strong>di</strong> maiale o altri ingre<strong>di</strong>enti), lo schìsòto (solo farina <strong>di</strong> frumento), la smeiàsa (un impasto<br />

<strong>di</strong> farina con la melassa, sottoprodotto della lavorazione delle barbabietole da zucchero).<br />

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Cotta la farina, fluida o densa a seconda dei gusti, veniva versata sulla tafferia, la<br />

tavola dea polenta, tavoliere o el panàro. A tutti noi familiari piaceva la polenta un<br />

po’ fluida, così attorno alla tafferia veniva fissato un cerchio, sempre <strong>di</strong> legno, per<br />

non far debordare l’impasto. Raffreddandosi però la polenta si induriva, così si<br />

poteva tagliarla a fette. Il metodo più comune e semplice era quello <strong>di</strong> usare un filo<br />

<strong>di</strong> refe incastrandolo sotto la polenta e tirandolo verso l’alto. Allora era comune<br />

chiamare il borioso che <strong>di</strong>ceva <strong>di</strong> saper far tutto: “è l’inventore del filo della polenta”.<br />

Purtroppo la polenta è stata anche per lunghi anni, a partire dall’Ottocento fino<br />

al fascismo, fonte <strong>di</strong> una grave malattia, specie da noi nel Veneto. Chi si alimentava<br />

prevalentemente <strong>di</strong> polenta, e magari senza sale, veniva colpito dalla pellagra.<br />

Essa indeboliva l’organismo creando vari <strong>di</strong>sturbi fisici tra cui lesioni cutanee <strong>di</strong><br />

tipo eritematoso nelle mani e nel collo.<br />

Mi ricordo che nei miei anni giovanili era in voga l’aggettivo pelagroso, appioppandolo<br />

a tutti gli sfaticati. Nei primi anni 1950 ebbi l’occasione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are i bilanci<br />

dei rinnovati consigli provinciali, in quello <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> furono previste per<br />

due anni delle somme per aiutare i pellagrosi: era un vecchio retaggio dei bilanci<br />

dell’anteguerra. La statistica in<strong>di</strong>ca che in Italia nel 1881 vi furono 100.000 casi <strong>di</strong><br />

pellagra specie nel Veneto e nella Lombar<strong>di</strong>a.<br />

Gli orti e i cortili<br />

A completare il quadro dell’autosufficienza alimentare bisogna ricordare gli orti e i<br />

cortili. Gli orti davano parecchie verdure e vi si coltivavano anche alberi da frutto,<br />

specie le prugne amoli, le mele i pomi dessi e le noci nose; i cortili erano utili per allevare<br />

gallinacei e conigli. Chi possedeva spazi ampi e aveva nel contempo un surplus<br />

<strong>di</strong> farinacei, come i gestori delle fattorie, allevava dei maiali in porcili lontani dalle<br />

abitazioni per i cattivi odori che emanavano.<br />

Vi erano poi allevamenti <strong>di</strong> oche e anatre anare, dove c’erano fossi con l’acqua corrente<br />

o lungo il Canal Bianco. La mia famiglia aveva un orto, con un riquadro a giar<strong>di</strong>no e un<br />

cortile proprio davanti alla casa. In quei modesti spazi non si potevano allevare oche e<br />

anitre perché mancava un corso d’acqua e nemmeno allevare il maiale, perché vicino a<br />

noi c’erano varie case. Potevamo però approvvigionarci in abbondanza <strong>di</strong> verdure, tanto<br />

che <strong>di</strong>videvamo i prodotti con chi ci dava una mano per i vari lavori dell’orto. Tutto<br />

questo fai da te in tutto il paese impe<strong>di</strong>va che vi fossero vari alimentaristi e verdurai.<br />

La fruttivendola<br />

La fruttivendola era il punto <strong>di</strong> riferimento <strong>di</strong> tutti noi giovanissimi. Nel suo negozio<br />

vi erano sì tante cassette in visione, ma contenevano solamente quelle frutta che non<br />

erano coltivate in paese, come arance, carrube, castagne, datteri e fichi secchi.<br />

In bella mostra aveva pure dei contenitori <strong>di</strong> vetro pieni <strong>di</strong> biscottini e caramelle<br />

ciuci. Per quanto ricordo, il centro dell’ interesse, almeno per me, erano le castagne e<br />

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i derivati, come farina, caldarroste e castagne secche stràcaganàse.<br />

La farina <strong>di</strong> castagna ci offriva tre varianti. Il papazon, cioè il mangiare solo la farina<br />

com’era, le papazete, una specie <strong>di</strong> pia<strong>di</strong>ne romagnole, fatte però <strong>di</strong> farina <strong>di</strong> castagna e acqua<br />

che si mangiavano abbrustolite sulla piastra, la mistoca il castagnaccio, farina impastata<br />

con acqua e uvetta, cotta in una padella rettangolare scartà, e venduta a piccoli riquadri.<br />

Non tutti i ragazzetti ricevevano la paghetta così costoro si industriavano a raccogliere<br />

stracci, ossi e ferro vecchio per venderlo allo straccivendolo e avere qualche <strong>di</strong>sponibilità sia<br />

pure in via saltuaria. In quei tempi non eravamo smaniosi <strong>di</strong> avere tutto, come purtroppo<br />

succede oggi, ci accontentavamo <strong>di</strong> avere qualche centesimo <strong>di</strong> lira. Il denaro era <strong>di</strong>viso in<br />

centesimi: cinque e <strong>di</strong>eci <strong>di</strong> rame, venti e cinquanta <strong>di</strong> nichel.<br />

I ricchi ricevevano venti o cinquanta centesimi, gli altri cinque o <strong>di</strong>eci. I <strong>di</strong>eci centesimi<br />

li chiamavamo palanche, forse a ricordo dei <strong>di</strong>eci centesimi ante prima guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale, che erano pesanti e gran<strong>di</strong>, sempre <strong>di</strong> rame.<br />

Il carradore<br />

Vicino a casa mia c’era il carradore Pelà che aggiustava carri e calessi, non riusciva<br />

però a farne <strong>di</strong> nuovi perché non aveva l’attrezzatura necessaria. A fianco della casa<br />

aveva la sua bottega e davanti un ampio cortile ove d’estate faceva il lavoro faticoso <strong>di</strong><br />

rimettere i cerchioni <strong>di</strong> ferro alle ruote che aggiustava. Nella sua bottega riassettava<br />

La fruttivendola che aveva sempre in mostra i suoi modesti prodotti, però sempre richiesti dai bambini.<br />

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tutto quello che gli portavano <strong>di</strong> rotto o mancante dei carriaggi, prevalentemente le<br />

ruote. I lavori più facili erano quelli <strong>di</strong> rifare raggi e gavelli, questi ultimi sono i piccoli<br />

archi che formano la circonferenza delle ruote le cuerte. Il legno usato doveva<br />

essere duro e fibroso, generalmente rubino perché più resistente. Per costruire i raggi<br />

ragi o rai, il carradore usava un coltello a due manici; per i gavelli cuerte, invece prima<br />

ricopiava la curvatura del vecchio pezzo, poi sbozzava il legno con un’ascia ricurva<br />

dal manico corto; finiva con la raspa. Per rifare i mozzi mozi, il carradore Pelà usava<br />

un tornio a pedale. Era una macchina molto vecchia e funzionava con una corda.<br />

Dato che quel sistema è ormai fuori uso da molti anni, penso sia utile descrivere<br />

quanto ricordo. Il tornio aveva il banco e il mandrino <strong>di</strong> ferro, costruito da officine<br />

specializzate, tutto il restante era costruito artigianalmente. Il mandrino, che è quel<br />

meccanismo che tiene stretto l’oggetto da tornire, era accoppiato a un grosso tamburo<br />

<strong>di</strong> legno che, assieme ad una corda, era l’organo rotante.<br />

Da fermo il tornio presentava la seguente situazione. Un capo della corda era fissato<br />

all’estremità più sottile <strong>di</strong> una pertica, inchiodata saldamente nella parte più grossa,<br />

I carretti erano costruiti tutti con legno, eccettuato l’asse, i cerchioni e i vari ganci che erano<br />

<strong>di</strong> ferro. Ve ne erano <strong>di</strong> varie <strong>di</strong>mensioni e portata. Erano tirati da equini forniti <strong>di</strong> finimenti<br />

<strong>di</strong> cuoio (briglie con morso e paraocchi, collare ove venivano fissati i tiranti, sella fissata dalla<br />

braca dal sottocoda e dal sotto pancia).<br />

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Carro agricolo pesante col timone e il giogo per i due bovini che dovevano tirarlo. Il giogo veniva<br />

posto nell’incavo della nuca degli animali e veniva fissato poi dal sottogola, che sono i pendagli del<br />

giogo (uno è aperto l’altro è chiuso). Il giogo era attaccato al timone per mezzo <strong>di</strong> un lungo cavicchio.<br />

Schizzo <strong>di</strong> come era il tornio. Il banco, il mandrino e le slitte erano <strong>di</strong> acciaio; il tamburo, il<br />

pedale e la pertica che serviva da molla <strong>di</strong> ritorno, erano <strong>di</strong> legno.<br />

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alle travi <strong>di</strong> un solaio superiore. La corda scendendo faceva alcune spirali attorno al<br />

tamburo, mentre l’altro capo era fissato a una stecca che fungeva da pedale, incernierata<br />

nel pavimento da una parte e dall’altra alta circa sessanta centimetri. Il tornio da<br />

fermo o lavorando aveva sempre la corda tesa. Per far girare il tamburo e quin<strong>di</strong> il<br />

mandrino e il pezzo <strong>di</strong> legno, il carradore abbassava col piede il pedale costringendo<br />

la corda a srotolarsi nella parte bassa e chiamando la parte alta ad avvolgersi costringendo<br />

la pertica ad abbassarsi nella parte non fissata coi chio<strong>di</strong>. Subito il pedale<br />

veniva lasciato libero, la pertica faceva da molla <strong>di</strong> richiamo e il tutto ritornava alla<br />

situazione iniziale. A questo punto il carradore continuava a pedalare mentre con le<br />

mani usava scalpelli e sgorbie scarpei e sgube, per ottenere quanto gli era necessario.<br />

Costruito il mozzo lo completava con due cerchi <strong>di</strong> contenimento, uno <strong>di</strong> qua e uno<br />

<strong>di</strong> là, poi fissava la boccola per l’assale.<br />

I cerchietti venivano posti in opera a caldo, la boccola, entro la quale girava l’asse, doveva<br />

entrare nel foro centrale del mozzo ed essere fissata a freddo col martello perché<br />

tronco conica. Per i piccoli lavori <strong>di</strong> ferro forgiato, il carradore ricorreva al fabbro che<br />

abitava dall’altra parte della mia casa. C’erano poi gli incassi per i raggi che venivano<br />

fatti con scalpelli, usando molta attenzione.<br />

Un lavoro che richiedeva esperienza era il controllo del rapporto tra la struttura lignea<br />

della ruota e il cerchione caldo che doveva rinserrare i gavelli cuerte, delle ruote.<br />

Nel caso vi fossero stati cerchioni usurati o laschi, il carradore adoperava la calandra<br />

con la quale poteva sistemare i cerchioni a freddo. Per i lavori a caldo, rimpicciolimenti<br />

o allargamenti sensibili, usava delle piastrine <strong>di</strong> grafite che interponeva fra i<br />

due pezzi da congiungere. Alla fine <strong>di</strong>sponeva in modo progressivo ed accurato le<br />

ruote e i cerchioni, onde non fare confusione nella loro posa in opera. I cerchioni<br />

venivano accatastati mettendo quelli gran<strong>di</strong> sotto e poi via via in modo piramidale,<br />

quelli più piccoli, usando dei mattoni perché il fuoco non scomponesse l’or<strong>di</strong>ne.<br />

In tutti questi lavori il carradore era aiutato da due figli che erano scapoli, anche se<br />

ormai uomini maturi, che facevano i lavori più faticosi e quelli preparatorii.<br />

Prima <strong>di</strong> accendere il fuoco accatastavano fascine, riempivano d’acqua alcune gran<strong>di</strong><br />

tinozze, <strong>di</strong>sponevano or<strong>di</strong>natamente tutti gli strumenti da lavoro: cavalletti, tenaglioni,<br />

attizzatoi, zappe con manici lunghi, mazze e martelli.<br />

Di buon mattino accendevano il fuoco e, quando i cerchi superiori erano rossi cominciavano<br />

il lavoro <strong>di</strong> incerchiare <strong>di</strong> forza le ruote <strong>di</strong> legno perché i gavelli non<br />

potessero più muoversi. Ho visto quel lavoro parecchie volte e ricordo bene come<br />

fosse un’opera <strong>di</strong> grande fatica. Quei tre uomini erano sempre grondanti sudore e<br />

bevevano continuamente acqua e vinello graspìa, poi <strong>di</strong> tanto in tanto mangiavano<br />

pan biscotto e salame.<br />

Prelevavano il cerchione caldo con tenaglie dai lunghi manici e lo ponevano sopra la<br />

ruota <strong>di</strong> legno che era stesa su robusti cavalletti. Uno batteva con una pesante mazza<br />

e un altro fermava il contraccolpo con un’altra mazza <strong>di</strong> ferro, il terzo usava invece<br />

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una tenaglia costruita artigianalmente. Questa aveva un grosso gancio e un lungo e<br />

robusto braccio <strong>di</strong> legno che usava come leva per la manovra la cagna. Il manico veniva<br />

posto sotto i gavelli delle ruote e il gancio arpionava il cerchione caldo. L’operaio<br />

premendo con forza sul manico della cagna faceva entrare nella giusta sede il cerchione.<br />

In tale fase <strong>di</strong> lavoro si bruciacchiava la circonferenza della ruota, per questo<br />

subito essa veniva fatta girare nell’acqua per il raffreddamento. Così il lavoro per ogni<br />

ruota. I lavoratori dovevano stare attenti che i cerchioni fossero sempre rossi per il<br />

calore, ma che non si deformassero. Lavoravano continuamente fino a che tutto non<br />

fosse finito, compresa la pulizia.<br />

All’indomani mattina riposavano per riprendersi da quelle faticacce <strong>di</strong> lavorare accanto<br />

al fuoco senza alcuna specifica forma <strong>di</strong> sicurezza.<br />

Il maniscalco<br />

Qualche anno dopo il nostro arrivo a San Bellino si installò, vicino al carradore, un<br />

maniscalco che aveva come aiutante suo fratello più giovane. Provenivano da un paese<br />

vicino e giornalmente facevano in bici la spola casa-bottega.<br />

Ricordo quel maniscalco <strong>di</strong> nome Carlo perché poi morì in guerra.<br />

Prima <strong>di</strong> costoro per ferrare gli equini i sanbellinesi dovevano andare fuori paese.<br />

Vi<strong>di</strong> innumerevoli volte come eseguivano il loro lavoro. Nei tempi morti costruivano<br />

ferri da cavallo <strong>di</strong> tutte le qualità e grandezze. Avevano una fucina con una ventola<br />

manuale e spesso io ne facevo il manovratore. Mettevano sul fuoco del carbone<br />

coke delle strisce <strong>di</strong> ferro. Mi fu detto che erano ritagli delle lamiere adoperate nella<br />

Il maniscalco inchioda il ferro sagomato <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa dello zoccolo del cavallo. L’aiutante invece<br />

ravviva il fuoco della fucina.<br />

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costruzione <strong>di</strong> navi. Carlo tagliava a caldo sull’incu<strong>di</strong>ne pezzi <strong>di</strong> lunghezza adatta,<br />

immergendoli subito dopo ancora nel fuoco. Dopo una grossa scaldata il ferro veniva<br />

forgiato. Carlo con un martello pesante nella mano destra e nella sinistra una<br />

tenaglia per manovrare il pezzo, il fratello con una grossa mazza, che batteva a due<br />

mani. Con una decina <strong>di</strong> <strong>di</strong>n-dan ottenevano un ferro da cavallo. Poi procedevano<br />

con un’altra scaldata per la rifinitura dei fori necessari per l’inchiodatura. Spesso i<br />

committenti chiedevano ferri <strong>di</strong> loro gusto, come la cresta triangolare sul davanti o<br />

arpioni pronunciati sul retro: queste correzioni venivano fatte lì per lì.<br />

La ferratura aveva i suoi riti: il fratello ammansiva il cavallo accarezzandogli le gambe,<br />

poi ne sollevava per prima una davanti, Carlo provvedeva a fare l’operazione <strong>di</strong><br />

ferratura. Dapprima sistemava la zoccolatura con una sgorbia a lama larga. Questa<br />

operazione era delicata sia perché doveva essere fatta senza che il cavallo avvertisse<br />

dolore, sia perché si doveva lasciare un poco <strong>di</strong> unghia morta per poter infilarvi i<br />

chio<strong>di</strong> <strong>di</strong> tenuta. I chio<strong>di</strong> avevano la testa tronco piramidale a base quadrata, mentre<br />

l’asticciola era piatta. Venivano fissati in modo che la punta finisse all’esterno dello<br />

zoccolo dove c’era ancora l’unghia morta. Per il bloccaggio veniva fatta una piccola<br />

piegatura <strong>di</strong> ritegno dell’asticciola piatta, mentre la parte eccedente veniva tagliata.<br />

I ferri dei bovini erano <strong>di</strong>versi, erano formati da due piastrine sagomate come le<br />

unghie biforcute degli animali. Verso l’interno le piastrine avevano delle appen<strong>di</strong>ci<br />

forate che servivano per il fissaggio con piccoli chio<strong>di</strong> particolari.<br />

Quei maniscalchi avevano costruito nel loro cortiletto con travi <strong>di</strong> legno un robusto<br />

steccato ad angolo acuto, simile a quello della monta dei tori. Se il cavallo si imbizzarriva<br />

lo costringevano nell’angolo formato dalle travi, ove veniva imbrigliato per<br />

evitare che si muovesse o scalciasse.<br />

Lentamente poi, sempre accarezzandolo, ferravano gli zoccoli uno alla volta. Il lavoro<br />

<strong>di</strong> maniscalco fu ben accetto dai sanbellinesi perché era necessario per gli equini ed<br />

in estate anche per i bovini.<br />

Il fabbro<br />

La sua modesta officina era la cucina ove la sua famiglia cuoceva i cibi e anche dove<br />

mangiavano. Le poche suppellettili casalinghe erano completate da una forgia e da<br />

una incu<strong>di</strong>ne posta su un ceppo <strong>di</strong> legno. Stando a casa mia sentivo i colpi <strong>di</strong> martello.<br />

Di solito il fabbro dava un colpo sul ferro da modellare e uno sull’incu<strong>di</strong>ne perché<br />

in questo breve intervallo riusciva con la tenaglia, manovrata dall’altra mano, a girare<br />

il pezzo che doveva forgiare Erano grosse punte per le erpici pesanti o anelli e ganci<br />

per i carradori. Quando invece doveva riaffilare a caldo i vomeri e i coltri degli aratri,<br />

batteva continuamente con la parte schiacciata <strong>di</strong> un martello pesante, era questo un<br />

lavoro molto faticoso perché, oltre a battere in continuazione, doveva tenere al giusto<br />

posto sull’incu<strong>di</strong>ne dei pezzi pesanti. Lavorava tutto il giorno, ma a me pareva che<br />

guadagnasse poco perché faceva una vita grama, nonostante la moglie lavorasse ad<br />

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ore nelle famiglie vicine; da noi veniva come aiutante per fare il pane. Due fabbri in<br />

quel paese non avrebbero potuto vivere.<br />

Un artigiano particolare<br />

In paese c’era una persona sui trentacinque anni, che mi pare si chiamasse Pelà, che<br />

si era inventato mestieri nuovi. Era un tipo sbruffone che però aveva capacità non<br />

comuni <strong>di</strong> sapersi arrangiare. Da giovanetto aveva fatto il carradore, da adulto recuperava<br />

vecchie auto obsolete, ne trasformava la carrozzeria, sistemava il motore e<br />

poi le vendeva. Ha iniziato con le automobili, residuati della prima guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />

Queste macchine avevano lo chassis portante, così, alla francese, veniva allora chiamato<br />

il telaio. Egli tagliava la parte retrostante della carrozzeria e nello spazio libero<br />

costruiva un cassone <strong>di</strong> legno, ottenendo un furgoncino per il trasporto.<br />

Per quanto riguardava il motore, spesso ricorreva all’espe<strong>di</strong>ente <strong>di</strong> ottenerne uno funzionante<br />

assemblando pezzi <strong>di</strong> vecchi motori uguali; per questo la sua officina era un<br />

groviglio <strong>di</strong> legni e pezzi <strong>di</strong> motore. Installò anche in quei furgoncini degli sgranatoi<br />

<strong>di</strong> pannocchie che funzionavano con cinghie <strong>di</strong> trasmissione mosse da una puleggia<br />

Il fabbro batte il ferro caldo sull’incu<strong>di</strong>ne posta in cucina, mentre il gas sprigionato dal carbone<br />

koke viene incanalato verso l’esterno dalla cappa del camino. Da notare il recipiente dell’acqua<br />

a fianco dell’incu<strong>di</strong>ne: l’acqua serviva per temperare gli scalpelli, i coltelli e i vomeri, che così<br />

<strong>di</strong>ventavano acciaiosi.<br />

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unita al motore. Ve ne era qualcuno anche in paese. Ho visto che d’inverno toglievano<br />

lo sgranatoio e la puleggia e che usavano il furgoncino per piccoli trasporti. Quel<br />

tale riuscì anche a sistemare e far funzionare due trattori Titan, vecchie macchine<br />

americane. Una la usò nella grande fattoria <strong>di</strong> mille pertiche per la trebbiatura.<br />

Grande rumore <strong>di</strong> chiacchiere vi fu in paese quando lo si vide girare con una piccola<br />

auto scoperta. Disse che si chiamava Temperino e che l’aveva trovata a pezzi da uno<br />

che raccoglieva ferro vecchio. Il motore era scoppiettante, ma durò poco, così tutto<br />

cadde nel <strong>di</strong>menticatoio.<br />

Nel 1936, quando partii da San Bellino, in paese era già arrivato dall’autunno precedente<br />

il primo trattore nuovo, un Lan<strong>di</strong>ni a testa calda: così iniziò la meccanizzazione<br />

agricola a San Bellino.<br />

Non ho mai saputo cosa poi si sia messo a fare quel tipo <strong>di</strong> artigiano, dopo che i gestori<br />

agricoli avevano capito l’importanza <strong>di</strong> usare i nuovi macchinari che avevano<br />

cominciato a fabbricare anche in Italia.<br />

Il meccanico <strong>di</strong> biciclette<br />

Dopo qualche tempo che abitavo a San Bellino, arriva in paese la nuova levatrice<br />

comunale che andò ad abitare assieme al marito in una casa vicina al mulino <strong>di</strong> mio<br />

padre: erano una giovane coppia senza figli. L’uomo si chiamava Antonio, per noi<br />

paesani Toni. Egli si mise a fare il meccanico <strong>di</strong> biciclette – el giusta biciclete - perché<br />

non poteva più svolgere il suo primo mestiere <strong>di</strong> autista <strong>di</strong> camion, sia perché in<br />

Tipo <strong>di</strong> automobile usato nella prima guerra mon<strong>di</strong>ale del 1915-18, ancora in circolazione negli<br />

anni Venti/Trenta. L’artigiano la trasformava in camioncino, sostituendo i se<strong>di</strong>li retrostanti con<br />

un pianale o un cassone.<br />

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paese non ce n’era bisogno, ma soprattutto perché aveva perduto una gamba in un<br />

incidente. Il moncherino rimastogli l’aveva allungato con una protesi rigida <strong>di</strong> legno.<br />

D’estate, quando ero in vacanza, andavo giornalmente nel mulino <strong>di</strong> mio padre, così<br />

passavo davanti alla bottega <strong>di</strong> Toni. Presi l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> fermarmi, prima per curiosare<br />

come si sviluppava il lavoro, poi per aiutare Toni e non vederlo zoppicare faticosamente<br />

facendo dondolare il suo corpo, infine per imparare, dato che la bici era il<br />

mio unico mezzo <strong>di</strong> trasporto.<br />

L’officina era la stanza d’entrata della casa, là Toni aveva approntato una modesta attrezzatura<br />

per aggiustare le biciclette e anche per saldare con lo stagno e l’acetilene.<br />

Toni appendeva le biciclette poi provvedeva alle riparazioni. Da notare che nell’angolo c’è<br />

l’apparecchiatura per produrre l’acetilene, necessario per le saldature. In fianco, la bombola <strong>di</strong><br />

ossigeno per la saldatura ossiacetilenica.<br />

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Settantacinque anni fa le strade erano solamente inghiaiate, piene <strong>di</strong> buche e schegge<br />

aguzze, perciò le numerose biciclette in circolazione avevano spesso bisogno <strong>di</strong> riparazioni<br />

alle ruote e ai freni. In aggiunta poi erano le bici pressoché l’unico mezzo <strong>di</strong><br />

trasporto anche per i pesi, come sacchi <strong>di</strong> cereali o fasci <strong>di</strong> legna da ardere, per cui<br />

spesso si spaccavano telai e manubri.<br />

Il guaio più comune, però, erano le forature, per le quali tutti sapevano provvedere.<br />

Anch’io da bambino avevo imparato come fare. Una volta tutte le biciclette erano accessoriate<br />

per riparare in modo autonomo le forature. C’era una pompa incernierata<br />

al tubo che supportava la sella, nel retro <strong>di</strong> questa era appesa una borsetta contenente<br />

due piccole leve, sagomate opportunamente alle estremità, una piccola chiave multipla,<br />

un tubetto <strong>di</strong> mastice, alcuni pezzetti <strong>di</strong> pneumatico e della carta vetrata.<br />

Per riparare le forature si rovesciava le biciclette con le ruote in alto, poi con le due levette<br />

Toni aggiusta un tegame usando una barretta <strong>di</strong> stagno fatta colare goccia a goccia con il martello<br />

<strong>di</strong> rame riscaldato dalla lampada a petrolio illuminante (usato anche per illuminare gli ambienti).<br />

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si toglieva il copertone coperton da una parte della sede e si liberava lo pneumatico la<br />

camaradaria. Per trovare il buco o i buchi si usava un semplice metodo. Si gonfiava lo<br />

pneumatico e, passo passo, lo si stendeva entro l’acqua <strong>di</strong> un catino: dove c’era il foro<br />

uscivano bollicine. Poi si pulivano bene la zona dove c’era il foro e anche il rappezzo,<br />

usando la carta vetrata, si spalmava il mastice e si applicava la pezza peza sul buco.<br />

Anche Toni faceva spesso questo lavoro, specie per le donne e i bambini. Aveva sempre<br />

pronte una bacinella d’acqua e una pompa a pie<strong>di</strong>stallo che produceva rapidamente<br />

tanta aria. Per qualsiasi lavoro sulle biciclette, Toni le appendeva a due catenelle pre<strong>di</strong>sposte<br />

con ganci e ancorate alle travi del solaio, per poter lavorare in pie<strong>di</strong>.<br />

I lavori che faceva erano <strong>di</strong> varia natura, sia perché una volta i ricambi costavano <strong>di</strong> più<br />

che la sistemazione dell’usato, sia perché i componenti delle biciclette erano <strong>di</strong> fattura<br />

semplice: per esempio non vi erano moltipliche, cambi e deragliatori come oggidì.<br />

Fra le varie lavorazioni mi piacevano <strong>di</strong> più il cambio delle sfere dei mozzi delle ruote e<br />

il consolidamento delle pe<strong>di</strong>velle alla ruota dentata <strong>di</strong> trazione, forse perché la mia bici<br />

cigolava e perdeva qualche colpo <strong>di</strong> pedale. Successe che qualche volta ho fatto anch’io<br />

quei lavori cooperando con Toni: lui da una parte, io dall’altra. Per cambiare le sfere<br />

si staccava la ruota perché così era più facile effettuare il cambio delle sfere: venivano<br />

aperti i due cuscinetti a sfere, si eliminavano le sfere fuori uso, si riempiva il supporto <strong>di</strong><br />

grasso minerale, si posizionavano le nuove sfere e alla fine, chiusi i cuscinetti, la ruota<br />

veniva rimessa al suo posto. Per solidarizzare poi le pe<strong>di</strong>velle all’asse dove era fissata la<br />

ruota dentata, si usavano delle spine cilindriche che avevano una rastremazione e una<br />

piccola faccia piana verticale, compreso anche una testa e un dado <strong>di</strong> tenuta con rondella.<br />

La spina veniva posta nel foro della pe<strong>di</strong>vella, là dove il perno aveva una tacca.<br />

Talvolta la spina doveva essere adattata con la lima per delle deformazioni dovute a<br />

riparazioni precedenti; alla fine si batteva la spina col martello e si serrava forte il dado.<br />

Il cambio dei raggi delle ruote, invece, Toni lo faceva da solo perché la loro positura<br />

era complicata e per <strong>di</strong> più bisognava centrare perfettamente il mozzo. Le biciclette<br />

talvolta avevano bisogno <strong>di</strong> saldature al telaio, al manubrio e alle forcelle. Toni prima<br />

puliva dalla ruggine o dalla vernice i pezzi da saldare, poi stu<strong>di</strong>ava come infilare dei<br />

tubetti <strong>di</strong> sostegno nelle cavità, infine preparava l’acetilene. In un angolo della stanza<br />

c’era un’apparecchiatura, verniciata in grigio azzurrognolo, che aveva l’ingombro come<br />

<strong>di</strong> una persona robusta: era il meccanismo che prouceva il gas acetilene. Era formato da<br />

due pezzi: una vasca con acqua e un cilindro verticale galleggiante. L’acqua permetteva<br />

al cilindro <strong>di</strong> salire e scendere, facendo da tappo per non <strong>di</strong>sperdere il gas che veniva<br />

prodotto in quantità variabile. Dentro al cilindro vi erano una graticola, dove venivano<br />

poste zolle <strong>di</strong> carburo <strong>di</strong> calce a seconda del bisogno, <strong>di</strong>rettamente sopra vi era un<br />

contenitore d’acqua fornito <strong>di</strong> dosatore che era comandato da una rotellina esterna al<br />

cilindro. Completavano l’attrezzatura una bombola <strong>di</strong> ossigeno, simile a quelle ancora<br />

in uso, due tubi <strong>di</strong> gomma lunghi, sottili e flessibili collegati alla fine con un cannello<br />

ossidrico (un tubo serviva per convogliare l’acetilene, l’altro l’ossigeno).<br />

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I due gas mescolati davano una fiamma vivida e concentrata che riusciva a fondere i<br />

metalli. Per le saldature Toni usava verghette <strong>di</strong> ferro che, surriscaldate, lasciavano colare<br />

delle gocce <strong>di</strong> metallo sulle zone già arrossate attorno alle rotture.<br />

Una volta l’acetilene veniva usato anche per l’illuminazione, come i fanali delle biciclette.<br />

Anch’io per sei anni ho usato quel sistema per andare a scuola perché dava una<br />

fiammella molto brillante e continua. Avevo un piccolo cilindro appeso verticalmente<br />

al telaio e il fanale col beccuccio appeso su un supporto a sette fissato sul manubrio. Il<br />

cilindro era <strong>di</strong>viso in due parti avvitate fra loro. Nella parte superiore c’era l’acqua che<br />

cadeva a gocce nella parte inferiore dove c’era il carburo: l’acetilene che si sviluppava<br />

veniva convogliato con un tubicino <strong>di</strong> gomma al fanale. In aggiunta Toni arrotondava<br />

i suoi introiti facendo anche lo stagnino per le stoviglierie <strong>di</strong> rame, allora molto in uso.<br />

Aveva un martello <strong>di</strong> rame il saldatore, con un lungo manico, poi una piccola bombola<br />

<strong>di</strong> ottone lampada, che conteneva il petrolio illuminante, fornita <strong>di</strong> una maniglia <strong>di</strong> manovra,<br />

una pompetta per comprimere il petrolio e un beccuccio schermato per formare<br />

una lunga e concentrata fiamma. Toni prima puliva l’oggetto da stagnare con batuffoli<br />

impregnati <strong>di</strong> acido solforico molto <strong>di</strong>luito, poi riscaldava il martello <strong>di</strong> rame col quale<br />

fondeva le stecche <strong>di</strong> stagno che servivano per le saldature, e anche per i rivestimenti<br />

interni dei recipienti <strong>di</strong> rame usati in cucina. Quest’ultimo era un lavoro lungo, ove<br />

occorreva attenzione e pazienza, perché quella stagnatura era necessario che fosse completata<br />

con cura onde evitare ossidazioni interne del rame delle casseruole, pericolose<br />

per la salute.<br />

Questa mia frequentazione nella bottega <strong>di</strong> Toni mi ha dato durevoli frutti perché da<br />

giovane ho poi sempre provveduto alla mia bici, che mi fu utilissima fino a che non fui<br />

chiamato a fare il soldato.<br />

Gli ambulanti<br />

Gli abitanti <strong>di</strong> San Bellino potevano sod<strong>di</strong>sfare tante loro piccole necessità aspettando<br />

l’arrivo in paese degli ambulanti. Ce n’erano <strong>di</strong> vari tipi che giravano per la pianura<br />

portando con sé poche cose e che, per risparmiare, dormivano nelle stalle e mangiavano<br />

quello che qua e là ricevevano in cambio. Ricorderò quelli più caratteristici:<br />

a) Lo straccivendolo. Aveva un piccolo carretto tirato da un asino, era il beniamino<br />

dei ragazzetti perché comperava quello che essi riuscivano a raccogliere: stracci, ossi<br />

e ferro vecchio. Attirava l’attenzione col tintinnio argentino <strong>di</strong> un campanello. Era<br />

allora un accorrere festoso <strong>di</strong> ragazzetti che in quell’occasione potevano ricevere dei<br />

sol<strong>di</strong>ni da spendere dalla fruttivendola.<br />

b) L’aggiustapiatti. Oggi fa sorridere che settant’anni fa si aggiustassero i piatti <strong>di</strong> ceramica,<br />

rotti a metà, con del filo <strong>di</strong> ferro. Sol<strong>di</strong> non ce n’erano, ma neanche un negozio<br />

<strong>di</strong> stoviglie, per <strong>di</strong> più a San Bellino non c’erano mercati <strong>di</strong> nessun tipo. Di piatti<br />

aggiustati col filo <strong>di</strong> ferro ne ho visto parecchi frequentando le famiglie dei miei coetanei,<br />

per <strong>di</strong> più ricordo <strong>di</strong> aver visto un aggiustapiatti al lavoro. Era un girovago che<br />

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si portava appresso tutti i suoi tesori in un sacchetto. Lo guardai ben bene mentre<br />

lavorava. L’opera più lunga fu quella <strong>di</strong> forare le due parti rotte dei piatti nei luoghi<br />

combacianti.<br />

Ha usato un piccolo trapano formato da pochi pezzi che furono assemblati al momento<br />

dell’uso. L’aggiustapiatti preparò con cura il trapano, fece qualche prova poi<br />

iniziò il lavoro. I componenti <strong>di</strong> quell’aggeggio erano oggetti semplici e comuni, quasi<br />

tutti <strong>di</strong> legno. Si riducevano a una bacchetta <strong>di</strong> circa 40 centimetri, una tavoletta<br />

con tre fori due laterali e uno centrale, lunga anch’essa circa 40 centimetri, uno spago,<br />

quello che usavano i calzolai per cucire le suole, lungo 80 centimetri e un chiodo<br />

con la punta schiacciata e temperata. Le parti del legno erano ben levigate e leggere<br />

per manovrarle in modo rapido. Nel foro centrale della tavoletta, che era usata orizzontalmente,<br />

passava verticalmente la bacchetta, che aveva legata in basso la punta<br />

perforante.<br />

La rotazione veniva prodotta dallo spago che era fissato da parte a parte nei due fori<br />

laterali della tavoletta, passando per la tacca fatta in cima alla bacchetta. Alla partenza,<br />

la tavoletta era posizionata in basso, in modo da formare un triangolo con base la<br />

tavoletta stessa e con i due lati uguali ottenuti dallo spago.<br />

Il girovago iniziò il lavoro avvolgendo a spirale lo spago sulla bacchetta per cui la<br />

tavoletta venne tirata in alto, poi con uno strattone abbassò la tavoletta, lo spago si<br />

srotolò e la bacchetta girò. A questo punto l’operatore lasciò libera la tavoletta che,<br />

per il contraccolpo, si alzò e lo spago continuò a riavvolgersi facendo girare continuativamente<br />

la bacchetta. Così <strong>di</strong> seguito fino a che la punta forò la porcellana.<br />

Finito questo lavoro <strong>di</strong> foratura tirò fuori un mastice verdastro, <strong>di</strong> sua invenzione mi<br />

<strong>di</strong>sse, che spalmò sugli spessori dei pezzi <strong>di</strong> piatto. Completò il lavoro facendo passare<br />

per i fori combacianti un sottile filo <strong>di</strong> ferro <strong>di</strong> cui avvolse le estremità unite con<br />

una pinza; così continuò per le varie coppie <strong>di</strong> fori. Poi tagliò il ferro in eccedenza e<br />

pulì il piatto nel <strong>di</strong>ritto e nel rovescio dagli esuberi <strong>di</strong> mastice. Il piatto era pronto per<br />

ricevere anche cibi cal<strong>di</strong>.<br />

c) La misurazione <strong>di</strong> teleria. Di tanto in tanto passava un merciaio che sul suo carretto<br />

aveva anche rotoli <strong>di</strong> teleria da letto. Gridava: “done, bonbasina tre brazi un franco”. Il<br />

suo grido significava che per una lira vendeva una tela economica <strong>di</strong> cotone, misurata<br />

con tre bracciate, pari alla quantità che serviva per fare un lenzuolo.<br />

Una volta era d’uso chiamare franchi le lire, un ricordo della Francia napoleonica. La<br />

bracciata era una misura convenzionale che aveva come riferimento la lunghezza <strong>di</strong><br />

un braccio aumentata dalla larghezza del torace. In pratica il ven<strong>di</strong>tore prendeva con<br />

la destra il capo della tela e la stendeva fino al pugno sinistro posto sul lato esterno<br />

del costato, così per tre volte. La frase “tre brazi un franco” era <strong>di</strong>ventata un motto per<br />

significare persona o cosa <strong>di</strong> poca valore.<br />

d) La misurazione <strong>di</strong> pesi. In paese un giovane si inventò il mestiere <strong>di</strong> raccogliere i<br />

cereali riportandoli al conferente già macinati. Mio padre gli fornì un carretto con<br />

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cavallo, perché potesse fare i giri nelle case sparse nella pianura e lontane da mulini;<br />

gli fornì pure una stadera per le pesature. Dopo vari mesi mi accorsi che quel giovane<br />

faceva una propria elencazione per i conferenti e per le pesature dei sacchi, <strong>di</strong>versa<br />

da quella fatta da mio padre e, nel contempo, mi chiesi come poteva guadagnare con<br />

una quantità modesta <strong>di</strong> clienti; fu così che chiesi e ottenni <strong>di</strong> accompagnarlo una<br />

volta durante uno dei suoi giri giornalieri.<br />

Capii come faceva saltar fuori un guadagno extra. Si mostrava ovunque servizievole<br />

ed andava lui stesso in granaio a prendere le biade. Nello scendere le scale dava scossoni<br />

al sacco perché i grani si impacchettassero ben bene, poi misurava in altezza il<br />

sacco riempito appoggiandolo a una parete, facendo un segno ben visibile col carbone<br />

vegetale.<br />

Al ritorno portava il sacco <strong>di</strong> farina che arrivava sì all’altezza del segno precedente,<br />

ma furbescamente ci metteva sotto un piede per rialzarlo, così riusciva a prelevare<br />

della farina prima della consegna che poi vendeva per proprio conto. Quel gioco gli<br />

fu fatale perché qualcuno se ne accorse: vi fu un passa parola, così dovette smettere.<br />

e) Le canolare. Di tanto in tanto nel periodo estivo passavano delle donne, che provenivano<br />

dalle montagne del Friuli e vendevano piccoli lavori in legno per la cucina<br />

e spine delle botti e dei tini le canole, da cui è derivato il nome canolare <strong>di</strong> chi faceva<br />

quel commercio, anche se vendeva tante altre cose. Portavano tutte quasi una <strong>di</strong>visa:<br />

gonne lunghe, fazzoletto in testa, pantofole <strong>di</strong> pezza che avevano la punta rivolta in<br />

alto, una cassetta a zaino con tanti cassettini. Ogni canolara aveva oggetti <strong>di</strong> legno<br />

ma anche in acciaio, come forbici e coltelli generalmente fabbricati a Maniago, paese<br />

del Friuli, allora luogo assai noto ove producevano coltelleria <strong>di</strong> qualità. Vendevano<br />

anche delle piccole illustrazioni oleografiche <strong>di</strong> Santi e copie <strong>di</strong> stampe famose. Gli<br />

oggetti <strong>di</strong> legno venivano costruiti, durante i lunghi inverni nevosi, dagli uomini liberi<br />

dai lavori <strong>di</strong> fienagione o <strong>di</strong> accompagnamento del bestiame su e giù per i pascoli<br />

montani.<br />

f) L’arrotino. Una volta l’anno, nella bella stagione, passava anche a San Bellino un<br />

arrotino moléta. Metteva la sua strumentazione in bella mostra nel centro del paese,<br />

poi a pie<strong>di</strong> avvisava alcune famiglie che a loro volta facevano il passa parola. La sua<br />

attrezzatura consisteva in una cassa stretta avente un’altezza adatta per usare una<br />

faccia come piano <strong>di</strong> lavoro. La cassa sul retro aveva uno sportello, due piccoli pie<strong>di</strong><br />

che servivano per fissare la cassa nelle soste e due manici rientranti che usava durante<br />

i tragitti da un paese all’altro. Davanti c’erano due piccole ruote per il trasporto.<br />

Nel fianco la cassa aveva una grande ruota a mezz’aria collegata con una biella a un<br />

pedale <strong>di</strong> manovra. A sua volta questa ruota, a mezzo <strong>di</strong> un cingolo, era collegata a<br />

una piccola puleggia solidale con la mola, che aveva i supporti sopra la cassa. Per<br />

bagnare la mola c’era una latta piena d’acqua che scendeva goccia a goccia: senza<br />

l’acqua la mola non affilava. Sotto la mola c’era un raccoglitore dell’acqua che usciva<br />

verso l’esterno attraverso un tubicino. Dentro la cassa, oltre ai suoi pochi strumenti, il<br />

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moleta custo<strong>di</strong>va anche oggetti utili per la sua vita randagia. Per iniziare il lavoro bastava<br />

che l’operatore facesse fare alla ruota grande alcuni giri e contemporaneamente<br />

il pedale andava in su e in giù. Così pigiando il pedale col piede, la mola girava piano<br />

o forte secondo il bisogno dell’arrotino. Le donne facevano affilare coltelli da cucina e<br />

forbici, gli uomini accette manàre, per spaccare gli alberi, coltellacci cortélasi, roncole<br />

cortéline, queste ultime servivano per tagliare pali e potare le piante.<br />

L’arrotino ambulante. Aveva una cassa attrezzata per il trasporto a mano. Sopra la cassa c’erano<br />

una gamella con l’acqua e la mola che girava con un pedale. Le donne portavano ad affilare<br />

forbici e coltelli da cucina, gli uomini le cesoie, i bambini erano dei curiosi.<br />

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I giochi dei bambini e dei ragazzetti<br />

Ottant’anni fa noi fanciulli e ragazzetti non avevamo certo tutti i giocattoli e le<br />

macchinette <strong>di</strong> oggi, particolarmente noi che vivevamo nei piccoli centri agricoli.<br />

Giocavamo con tutto quello che ci capitava <strong>di</strong> trovare: i bottoni (basàne, i gran<strong>di</strong><br />

bottoni da paltò che valevano tre o quattro bottoni piccoli, a seconda se erano <strong>di</strong> osso<br />

o quelli <strong>di</strong> metallo da calzoni), i semi della carrube, caròbe, figurine che si trovavano<br />

nelle caramelle, cartoline... e qualsiasi altro oggetto che attirasse la nostra attenzione.<br />

Con queste piccole cose si giocava a palma, cioè si nascondevano in un pugno della<br />

mano e l’avversario doveva indovinare in quale pugno erano.<br />

A seconda del sesso, i nostri giocattoli, zogàtoli, personali erano spesso dei carrettini<br />

<strong>di</strong> legno o <strong>di</strong> cartone realizzati dai padri, o bambolette, pùe, fatte dalle madri con<br />

legno e stracci.<br />

Solo alle elementari ho imparato a giocare con i compagni. Prima, ricordo che mi<br />

<strong>di</strong>vertivo a ritagliare dei pupazzetti, che poi incollavo a formare delle catene, usando<br />

una colla fatta con farina <strong>di</strong> frumento ed acqua.<br />

Negli anni Venti del Novecento, dopo la prima guerra mon<strong>di</strong>ale, a Costa <strong>di</strong> Rovigo, si<br />

giocava ai soldati. Si usavano pezzi <strong>di</strong> <strong>di</strong>vise e altri ricor<strong>di</strong> che i nostri padri avevano<br />

riportato dal servizio militare, ed era tutto un nascondersi e correre, con agguati,<br />

assalti e ritirate. C’era anche il gioco degli schiavi: ci si <strong>di</strong>videva in due squadre e<br />

ciascuna segnava per terra una linea <strong>di</strong> sicurezza, che chiamavamo trincea. Le due<br />

linee erano a quaranta o cinquanta passi l’una dall’altra. Si doveva uscire dalla propria<br />

trincea per andare a occupare quella avversaria: ne nascevano gran<strong>di</strong> corse e rincorse<br />

durante le quali, se uno era toccato dall’avversario era <strong>di</strong>chiarato schiavo e doveva<br />

appostarsi sulla trincea “nemica”. Si vinceva quando tutti i nemici era <strong>di</strong>ventati<br />

schiavi, oppure quando il capo della squadra avversaria veniva toccato.<br />

C’era poi il gioco della cavalletta. I componenti <strong>di</strong> una squadra, estratti a sorte, formavano<br />

il “cavallo”, <strong>di</strong>sponendosi inchinati uno in fila all’altro; gli altri saltavano uno ad uno in<br />

groppa ma, se qualcuno sbagliava, tutta la sua squadra doveva fare da cavallo.<br />

D’inverno si andava a scivolare, slisegàre, sui fossi ghiacciati con gli zoccoli <strong>di</strong> legno<br />

chiodati, sgàlmare.<br />

Nella prima metà degli anni Trenta, a San Bellino, cominciai a giocare a pallone. Il campo<br />

sportivo era un’aia o un campo <strong>di</strong> stoppie e la palla era <strong>di</strong> pezza. Nessuno conosceva<br />

esattamente le regole del gioco, così tutto si riduceva ad un gran correre per calciare<br />

la palla entro la porta avversaria, segnata da due bussolotti o da due pietre. Ricordo in<br />

particolare una partita <strong>di</strong> cui sono stato spettatore, perché <strong>di</strong>mostra quanto, in quegli<br />

anni, fosse basso il livello sociale nei paesetti del Polesine. Era la fine del giugno 1934.<br />

Dei giovanotti <strong>di</strong> San Bellino sfidarono a pallone quelli <strong>di</strong> un paese vicino. In quella<br />

partita, <strong>di</strong> regolamentare c’era solo il pallone <strong>di</strong> cuoio, tutto il resto era opzionale.<br />

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Le <strong>di</strong>vise erano una variopinta esibizione <strong>di</strong> mutandoni, magliette, camicie e scarpe.<br />

Giocarono in un grande campo <strong>di</strong> stoppie; nessuno conosceva tutte le regole,<br />

neppure chi faceva da arbitro. Tutti gridavano, tutti correvano, ma non fu segnato<br />

alcun gol. Il giocatore che più gridava e dava consigli agli altri era un tipo aitante <strong>di</strong><br />

San Bellino che conoscevo, avendolo visto tante volte al lavoro nella grande azienda<br />

agricola. Si <strong>di</strong>stingueva dagli altri perché la sua <strong>di</strong>visa era un costume da bagno nero<br />

da donna, completo <strong>di</strong> pettorina! La partita <strong>di</strong>venne una farsa e tutti ridevano per il<br />

gran gesticolare <strong>di</strong> molti giocatori, che, al termine della gara, erano fra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> sudore<br />

e con gli stinchi graffiati a sangue dalle stoppie.<br />

I <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> Bruno<br />

L’amico coetaneo Bruno Mardegan ha <strong>di</strong>segnato su mia richiesta una decina <strong>di</strong> fogli<br />

che illustrano i giochi che noi ragazzetti facevamo una volta. Sono l’occasione per<br />

presentare giochi ormai quasi tutti <strong>di</strong>menticati e richiamarne altri simili.<br />

I cerchi<br />

Si correva per le strade facendo rotolare un cerchio <strong>di</strong> ferro con l’aiuto <strong>di</strong> un bastone.<br />

Il cerchio era ricavato dalle ruote delle biciclette o dall’anello superiore dei paioli <strong>di</strong><br />

rame, allora <strong>di</strong> facile reperimento, perché la bici era il più <strong>di</strong>ffuso e comune mezzo<br />

<strong>di</strong> locomozione ed il paiolo, che serviva a cuocere la polenta, era il recipiente più<br />

usato in cucina. Il bastone era un pezzo <strong>di</strong> legno qualunque, quando si usavano i<br />

cerchioni delle bici, mentre, per il cerchio ricavato dai paioli, il bastone era munito <strong>di</strong><br />

un uncino <strong>di</strong> ferro ad U, per incastrarci il cerchio.<br />

Il gioco dei cerchi.<br />

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La trottola, pisòn nel Polesine, mòscolo nel <strong>Padova</strong>no<br />

Il gioco aveva <strong>di</strong>verse varianti. A una trottola <strong>di</strong> legno piuttosto grossa veniva<br />

attorcigliato stretto uno spago, quin<strong>di</strong>, con un colpo a strappo e trattenendo il capo<br />

libero dello spago, si scagliava il tutto a terra: <strong>di</strong>sfacendosi velocemente le spire<br />

dell’avvolgimento, per reazione la trottola girava velocemente.<br />

Un altro sistema per far ruotare la trottola era quello <strong>di</strong> colpirla con la frusta, scùria,<br />

che usavano i carrettieri.<br />

Le trottole più piccole, pisorìn, avevano incastrato sulla faccia superiore una sorta <strong>di</strong><br />

picciolo, che serviva da manico per farla girare con le <strong>di</strong>ta. Va da sé che vinceva chi<br />

riusciva a mantenere in pie<strong>di</strong> la trottola per più tempo.<br />

La corda<br />

Una corda veniva fatta girare da due giocatori e uno doveva saltarla il più a lungo<br />

possibile senza intralciarne la regolare rotazione. Questo gioco, preferito dalle<br />

bambine, aveva delle varianti: due saltatori assieme, un saltatore con due corde che<br />

giravano all’ incontrario, saltare su un solo piede.<br />

C’era poi il tiro alla fune, un classico per <strong>di</strong>mostrare la propria forza.<br />

Riguardo ai salti, c’erano <strong>di</strong>versi giochi: il salto dei fossi, i salti con i pie<strong>di</strong> chiusi in un<br />

sacco, i salti sulle strade inghiaiate a pie<strong>di</strong> scalzi, coi pie<strong>di</strong> uniti o con un solo piede.<br />

Nelle gare si tracciavano a terra un segno <strong>di</strong> partenza e uno <strong>di</strong> arrivo e vinceva chi<br />

saltellando percorreva la <strong>di</strong>stanza nel minor tempo.<br />

Il gioco della trottola, pisòn nel Polesine.<br />

89


Le scaglie<br />

Un premio (costituito da figurine, palline colorate, bottoni o 5-10 centesimi) veniva<br />

posto sopra o ai pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> un bussolotto o <strong>di</strong> una pietra. Lontano 10-12 passi si<br />

tracciava una linea da cui venivano lanciati dai giocatori delle scaglie <strong>di</strong> pietra o<br />

pezzi <strong>di</strong> mattoni o delle palanche (i gran<strong>di</strong> 10 centesimi anteriori alla prima guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale). Vinceva chi centrava il bersaglio, facendo cadere il bussolotto o la pietra.<br />

Con sassi e scaglie si facevano delle gare anche lanciandoli sul pelo dell’acqua dei<br />

gran<strong>di</strong> fossi: la pietra rimbalzava sull’acqua e vinceva chi le faceva fare più salti.<br />

Un gioco consisteva nel lanciare il più lontani possibile i sassi che si usavano per<br />

migliorare le strade: i lanci si facevano nei campi, perché gli adulti ci sgridavano se li<br />

lanciavamo per le strade.<br />

La lippa<br />

La lippa, bindèche o pindèche, era un gioco destinato ai più gran<strong>di</strong>celli, sia perché<br />

richiedeva forza sia perché l’oggetto lanciato poteva colpire qualcuno e, per precauzione,<br />

i bambini più piccoli venivano allontanati dal campo <strong>di</strong> gioco. Consisteva nel battere<br />

con un bastone un cilindretto <strong>di</strong> legno appuntito alle due estremità e, quando questo<br />

si sollevava da terra, lanciarlo con lo stesso bastone il più lontano possibile.<br />

Il circuito<br />

Si tracciava per terra un percorso tortuoso, sengiòn, lungo il quale si doveva far<br />

avanzare un piccolo oggetto (generalmente grossi bottoni o coperchietti) a colpi <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ta, facendo scattare l’in<strong>di</strong>ce o il me<strong>di</strong>o contro il pollice. Era un gioco piacevole,<br />

Il gioco della corda.<br />

90


che richiedeva però attenzione e occhio per superare le insi<strong>di</strong>e delle curve e delle<br />

irregolarità del terreno.<br />

La campana<br />

Disegnata con gesso sul pavimento o per terra una scacchiera da due per quattro,<br />

si doveva saltellare da un riquadro all’altro, secondo una successione stabilita,<br />

trascinando col piede una scaglia <strong>di</strong> pietra. Questo gioco (scalone nel Polesine, cìnciaro<br />

nel <strong>Padova</strong>no) poteva avere delle varianti, secondo accor<strong>di</strong> presi via via, come quella<br />

che prevedeva il salto a riquadri sfalsati. Era giocato soprattutto dalle bambine.<br />

Il gioco delle scaglie, in alto, e, in basso, la lippa nota anche come bindèche o pindèche.<br />

91


Affine era il gioco dei quattro cantoni. Si in<strong>di</strong>viduavano (per esempio con delle pietre) i<br />

quattro vertici <strong>di</strong> un quadrangolo, che rappresentavano i punti <strong>di</strong> sicurezza. I giocatori<br />

dovevano correre dall’uno all’altro <strong>di</strong> questi punti, lungo il perimetro o in <strong>di</strong>agonale,<br />

senza essere toccati dal giocatore che si trovava al centro e si lanciava su loro non appena<br />

lasciavano l’angolo sicuro. Quando questi riusciva a “catturare” un giocatore ne prendeva<br />

il posto in un angolo, mentre l’altro <strong>di</strong>ventava il “cacciatore” al centro del quadrato.<br />

Le palline<br />

Era un gioco <strong>di</strong> gruppo fatto con palline <strong>di</strong> terracotta colorata o <strong>di</strong> vetro, baéte. Le<br />

prime le vendevano i merciai, le seconde si ricavavano spaccando le bottiglia <strong>di</strong><br />

gassosa, che aveva una pallina <strong>di</strong> vetro che fungeva da tappo, tenuta in sede dalla<br />

pressione interna. Consisteva nel mandare la propria pallina entro una buchetta<br />

scavata nel terreno, partendo da una linea <strong>di</strong>stante anche venti passi. All’inizio ogni<br />

giocatore deponeva la sua posta (una o due palline) dentro la buca e quello era il<br />

“monte premi”. Chi tentava con un unico lancio <strong>di</strong> centrare la buca e falliva il colpo<br />

perdeva la propria pallina, ma se il tiro era preciso tutte le palline della buca erano<br />

sue. Si poteva anche far avanzare la pallina a piccoli tratti, scoccandola a turno con le<br />

<strong>di</strong>ta: nel procedere verso il bersaglio ogni giocatore poteva “mangiare” le palline degli<br />

altri se le centrava con la sua, ma se falliva il colpo era lui a perderla e in quel caso<br />

doveva rimetterne in gioco una nuova.<br />

Il gioco del circuito.<br />

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Mosca cieca e nascon<strong>di</strong>no<br />

Due giochi molto <strong>di</strong>ffusi e popolari e probabilmente praticati ancor oggi. Nel primo<br />

caso, un giocatore con gli occhi bendati doveva riconoscere con solo ausilio del tatto<br />

e dell’u<strong>di</strong>to i suoi amici. Nell’altro, un giocatore con gli occhi chiusi contro un muro,<br />

la tana, doveva contare fino ad un numero prefissato mentre i compagni correvano<br />

a nascondersi. Doveva quin<strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare via via il nascon<strong>di</strong>glio <strong>di</strong> ciascuno e<br />

correre ogni volta fino alla tana: toccandola lui prima dell’avversario questo veniva<br />

eliminato, se invece era l’avversario a toccarla per primo <strong>di</strong>ventava libero. Il gioco lo<br />

chiamavamo scondaròla.<br />

Il gioco della campana (scalone nel Ro<strong>di</strong>gino), in alto, e, in basso, il gioco delle palline.<br />

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La raganella, racoéta<br />

È questa una scatola <strong>di</strong> legno che contiene una ruota dentata sulla quale è premuto un<br />

sottile listello. Un manico all’esterno permette <strong>di</strong> far girare la ruota che, raschiando<br />

sulla lamina, emette un rumore simile ad un graci<strong>di</strong>o. Era uno strumento usato in<br />

chiesa il Venerdì Santo a sostituzione delle campane e dei campanelli, lasciati muti<br />

quel giorno in rispetto della morte <strong>di</strong> Gesù. Ma noi ragazzetti ne abusavamo, facendola<br />

risuonare dappertutto per le strade durante la Settimana Santa.<br />

Il gioco della mosca cieca, in alto, e, in basso, le raganelle racoéte.<br />

94


Passatempi<br />

Era piacevole per me andare in bicicletta alle sagre paesane delle varie località vicine.<br />

Desideravo vedere, in particolare, le corse degli asini mussi, l’albero della cuccagna<br />

ed il gioco delle pignatte.<br />

L’albero della cuccagna era un robusto palo altro circa sei metri, con la superficie<br />

liscia e unta con le cotiche coéghe <strong>di</strong> maiale; sulla sommità era <strong>di</strong>sposto un cerchio<br />

con appesi salami e galline. L’arrampicata era faticosa e problematica perché non si<br />

potevano usare guanti e scarpe. Bisognava toccare il cerchio e riuscire a strapparne<br />

le cibarie appese.<br />

Nel gioco delle pignatte una pertica veniva posta orizzontalmente tra due trespoli ad<br />

un’altezza <strong>di</strong> circa tre metri. Vi si legavano, ben <strong>di</strong>stanziate, delle pignatte <strong>di</strong> terracotta:<br />

una sola conteneva salami o altri commestibili, le altre erano piene <strong>di</strong> acqua. Veniva<br />

estratto a sorte l’or<strong>di</strong>ne dei concorrenti, poi ciascuno veniva bendato e doveva cercare<br />

<strong>di</strong> colpire alla cieca la pignatta giusta. Di solito gli erano concessi due colpi e quello<br />

si dava da fare tra le grida, le risate, i suggerimenti e gli incitamenti del pubblico. Se<br />

colpiva la pignatta sbagliata era una doccia assicurata, se invece centrava quella con<br />

le cibarie, il coor<strong>di</strong>natore provvedeva lui a romperne una con l’acqua sulla sua testa:<br />

qualsiasi fosse l’esito della prova, il giocatore ne usciva sempre bagnato.<br />

Trovavo interessante osservare i voli radenti delle ron<strong>di</strong>ni che portavano gli insetti<br />

ai loro piccoli, ammassati nei ni<strong>di</strong> sotto i tetti, che le aspettavano a bocca aperta,<br />

mettendo in mostra il palato <strong>di</strong> un giallo intenso.<br />

Costruivo volentieri tutto solo degli aquiloni pavéi: incollavo carte colorate per<br />

realizzare lunghe code, usando la solita colla casareccia a base <strong>di</strong> farina.<br />

Mi interessava scoprire dove le galline deponevano le uova, controllando vari mucchi<br />

<strong>di</strong> fieno od altre erbe secche, per portarle poi alla padrona <strong>di</strong> casa. Succedeva talvolta<br />

che la chioccia le avesse covate <strong>di</strong> nascosto e uscisse da quei mucchi col suo seguito<br />

<strong>di</strong> pulcini pigolanti.<br />

Mi incuriosivano: le file delle formiche; le libellule pavéie con le loro ali iridescenti; i<br />

tacchini pitòni e i pavoni che facevano la ruota tra gli altri animali del cortile; i pesci<br />

che guazzavano nei fossi; le rane a fare salti; i girini a girare a tondo nell’acqua; la<br />

furbizia dei gatti nel procurarsi il cibo e la loro cura nel nascondere i piccoli finché<br />

non riuscivano a cavarsela da soli; i cani delle fattorie con cui giocare.<br />

Insomma, quando non mi <strong>di</strong>vertivo con i miei compagni, osservavo con interesse<br />

e attenzione quanto accadeva nei campi, nelle stalle e nelle botteghe artigiane che<br />

formavano il piccolo mondo dove vivevo. Ero il maggiore <strong>di</strong> cinque fratelli, con un<br />

padre impegnato tutto il giorno al mulino e una madre che accu<strong>di</strong>va la casa: io ed i miei<br />

coetanei imparammo presto a provvedere a noi stessi e a procurarci da soli i semplici<br />

mezzi per passare il tempo con sod<strong>di</strong>sfazione, facendo tesoro <strong>di</strong> scarti e ritagli, <strong>di</strong> cose<br />

trovate per caso o, più raramente, acquistate coi nostri risparmi, spesso impegnati in<br />

giochi che non richiedevano altra attrezzatura che un fisico sufficientemente nutrito.<br />

95


Stampa proveniente dalla parrocchia <strong>di</strong> Santa Maria delle Carceri, in provincia <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>.<br />

Secondo il necrologio, lì conservato, San Bellino è morto il 26 novembre 1147.<br />

96


Santo Bellino<br />

La venerazione verso questo Santo<br />

San Bellino è un Santo poco conosciuto al <strong>di</strong> fuori dell’attuale <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Rovigo-Adria.<br />

Ho consultato varie enciclope<strong>di</strong>e sull’argomento, ma nessuna riporta notizie.<br />

Io che ho vissuto cinque anni nel paese che da questo Santo prese il nome, desidero<br />

evidenziare che una volta c’era per San Bellino una sentita e profonda venerazione<br />

<strong>di</strong>ffusa in tutto il Polesine.<br />

Il 26 novembre, festa del Santo, in paese c’era una totale partecipazione sia per le<br />

Sante Messe celebrate in suo onore, sia per baciare una sua reliquia, racchiusa in una<br />

teca d’argento a forma <strong>di</strong> una mano bene<strong>di</strong>cente. L’ultima Messa della giornata era<br />

un solenne pontificale celebrato dal Vescovo, o da un suo delegato, e il coro era formato<br />

dai chierici del seminario. Agli ospiti la parrocchia offriva il pranzo nella sala<br />

superiore della canonica, in quell’occasione io facevo il cameriere. In aggiunta nella<br />

Diocesi tutti i pubblici uffici erano chiusi in omaggio al Santo.<br />

Una volta era viva nel Polesine la tra<strong>di</strong>zione che il Santo fosse il patrono della rabbia<br />

canina; chi era morso da cani, invece <strong>di</strong> ricorrere ai me<strong>di</strong>ci, invocava la bene<strong>di</strong>zione<br />

con la reliquia <strong>di</strong> San Bellino. Oggi forse questa tra<strong>di</strong>zione si sarà affievolita perché la<br />

me<strong>di</strong>cina ora dà rime<strong>di</strong> sicuri, ma una volta mancando sieri e vaccini, così molti ricorrevano<br />

all’intercessione del Santo. È successo anche a me. Quando abitavo a Costa<br />

<strong>di</strong> Rovigo, fui morso alla mano da un cane lupo. Il me<strong>di</strong>co <strong>di</strong>sse ai miei genitori che<br />

per avere la certezza che io non fossi stato contagiato dalla rabbia, bisognava portare<br />

a Bologna la testa del cane e attendere almeno un mese per il responso. Fu così che i<br />

miei genitori, consigliati dai vicini, mi portarono a San Bellino per una bene<strong>di</strong>zione.<br />

Quando io abitavo in quel paese fui chierichetto nella chiesa parrocchiale, così ebbi<br />

modo <strong>di</strong> vedere <strong>di</strong> tanto in tanto persone che chiedevano una grazia a San Bellino, o<br />

che lo volevano ringraziare. Tra queste ricordo l’arrivo inaspettato del Vescovo <strong>di</strong> <strong>Padova</strong><br />

Elia Dalla Costa che, nel ‘33 o ‘34, fu nominato car<strong>di</strong>nale e vescovo <strong>di</strong> Firenze.<br />

Disse <strong>di</strong> voler pregare sulla tomba <strong>di</strong> un suo illustre predecessore; quella volta le campane<br />

suonarono a lungo. Infine ogni anno nel periodo estivo vi era il pellegrinaggio<br />

del popolo <strong>di</strong> Gognano <strong>di</strong> Villamarzana per sod<strong>di</strong>sfare un antico voto.<br />

La sua storia<br />

Prima <strong>di</strong> terminare i miei ricor<strong>di</strong> desidero parlare della storia <strong>di</strong> San Bellino della<br />

quale mi sono sempre interessato.<br />

Dalla storiografia documentata riporto le notizie del canonico Antonio Barzon il<br />

quale nel 1947 <strong>di</strong>ede alle stampe, presso la tipografia Antoniana <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, il libro<br />

“San Bellino, Vescovo e Martire”.<br />

97


Bellino, nato nel 1077, era il quarto figlio della famiglia padovana dei Bertal<strong>di</strong> sembra<br />

<strong>di</strong> antica origine germanica. Erano quegli anni pieni <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> turbolenze cagionate<br />

dalle lotte per le investiture, dalle intromissioni nella gestione della chiesa fatte<br />

dall’imperatore del Sacro Romano Impero e dai feudatari locali a lui asserviti.<br />

Bellino fu prete, canonico e arciprete della cattedrale <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, essendo vescovo<br />

Sinibaldo, e lottò sempre contro i soprusi, le ingiustizie e gli scismatici. Questi ultimi<br />

erano clero e signorotti che, per avere prebende dall’imperatore, ricusavano l’autorità<br />

del Vescovo unito al Papa. In una <strong>di</strong> queste controversie gli scismatici riuscirono<br />

a cacciare da <strong>Padova</strong> il Vescovo Sinibaldo che dovette rifugiarsi a Este. Da quel<br />

momento l’arciprete Bellino fu il più valido aiuto del Vescovo, tanto che con ferma<br />

volontà riuscì a riportarlo nella sua sede <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>. Nel 1123 Bellino assieme al suo<br />

Vescovo Sinibaldo fu a Roma, dal Papa Callisto II, che arricchì la <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> <strong>Padova</strong><br />

con privilegi assoggettando all’autorità vescovile monasteri e priorati che prima non<br />

<strong>di</strong>pendevano dal Vescovo.<br />

Morto Sinibaldo nel 1125, Bellino raccolse la complessa ere<strong>di</strong>tà. La sua elezione a<br />

vescovo si svolse in un ambiente sereno e con voto unanime del popolo e del clero. Nel<br />

ventennio del suo episcopato <strong>di</strong>ede sistemazione definitiva alle chiese, vecchie e nuove,<br />

Ex voto del 1876 esistente nella parrocchiale. San Bellino era venerato come protettore della<br />

rabbia dei cani perché la sua urna <strong>di</strong> legno, sepolta dalla inondazione del Po del 1770, fu<br />

ritrovata dopo trent’anni dai cani <strong>di</strong> un cacciatore.<br />

98


a<strong>di</strong>bendo per esse uno o più sacerdoti perché provvedessero alla cura delle anime.<br />

In <strong>Padova</strong> vi erano allora ricche famiglie che spadroneggiavano sia nell’appropriarsi<br />

dei benefici delle chiese, sia nel vessare il popolo soprattutto del contado. C’erano<br />

i servi della gleba che erano comperati o venduti assieme ai terreni e agli armenti,<br />

perciò i signori erano anche padroni delle persone, e questo uso li portava a fare<br />

angherie d’ogni genere. In quel tempo vi fu a <strong>Padova</strong> un secondo Vescovo nominato<br />

dall’imperatore del Sacro Romano Impero e perciò scismatico. Era Milone che, avendo<br />

ottenuto in dono dall’imperatore la città <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, cercava <strong>di</strong> sopraffare Bellino<br />

vescovo unito al Papa. Il problema, però, che soprattutto angustiava Bellino era <strong>di</strong><br />

avere nella <strong>di</strong>ocesi parecchie chiese, con relativo clero, che non <strong>di</strong>pendevano dal Vescovo,<br />

ma dal priore del convento della Vanga<strong>di</strong>zza – oggi Ba<strong>di</strong>a Polesine –, mentre<br />

la popolazione era sotto la giuris<strong>di</strong>zione pastorale <strong>di</strong> Bellino. Per questo motivo il<br />

vescovo Bellino non poteva visitare quelle chiese e influenzare sull’attività del clero<br />

che spesso provvedeva alla cura d’anime in modo negligente. Nel groviglio <strong>di</strong> questa<br />

situazione il Vescovo Bellino ritenne utile ottenere l’aiuto <strong>di</strong> una autorità superiore.<br />

Ipotesi e tra<strong>di</strong>zioni del Santo<br />

Il primo biografo <strong>di</strong> Bellino fu il Vescovo <strong>di</strong> Adria Bonagiunta che nel 1288 scrisse la<br />

vita del Santo ucciso dai sicari nei pressi <strong>di</strong> Fratta – ora Fratta Polesine – località che<br />

faceva parte anche allora della <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Adria. A lui spetta il merito <strong>di</strong> aver approvato<br />

e <strong>di</strong>ffuso il culto <strong>di</strong> Bellino. Mancando <strong>di</strong> documentazioni certe, fece però alcuni<br />

Antica stampa con la ricostruzione ideale <strong>di</strong> come poteva essere l’Abba<strong>di</strong>a della Vanga<strong>di</strong>zza,<br />

ora Ba<strong>di</strong>a Polesine. L’abate <strong>di</strong> questo centro religioso governava nei secoli XI – XIII un grande<br />

territorio che arrivava fino a Monselice. Ora vi sono pochi ruderi.<br />

99


errori e della confusione, corretti poi dagli stu<strong>di</strong>osi. Quel Vescovo, convinto della<br />

grandezza morale e della santità <strong>di</strong> Bellino riuscì a farlo proclamare, per decreto del<br />

Papa e volere del popolo, “Patrono principalissimo <strong>di</strong> tutta la <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Adria” come<br />

lo è ancora oggi.<br />

Il Bonagiunta non fu il primo a proclamare Santo il Vescovo Bellino, perché già<br />

precedentemente nel 1210 il Vescovo <strong>di</strong> Adria Rolando della nobile famiglia padovana<br />

degli Zabarella, aveva riconosciuta la venerazione pubblica verso Bellino<br />

ed esortato il popolo ad onorarlo come un Santo, “il cui culto Id<strong>di</strong>o confermava<br />

col dono del miracolo”. Il Bonagiunta scrisse anche che alla fine <strong>di</strong> novembre del<br />

1151 nei pressi <strong>di</strong> Fratta, allora crocevia <strong>di</strong> varie strade tra cui una per Roma, Bellino<br />

fu ucciso da sicari mentre con pochi compagni stava recandosi a Roma per<br />

chiedere aiuto al Papa. A questo proposito il Barzon invece scrive che è improbabile<br />

che Bellino si avventurasse ad affrontare a pie<strong>di</strong> con pochi compagni, un<br />

lungo viaggio fino a Roma nel periodo invernale, così ipotizza un´altra soluzione.<br />

Ritiene inoltre che l’anno dell’uccisione non poteva essere il 1151 bensì il 1147.<br />

Infatti dei documenti precisano che il 23 novembre 1147 Bellino sottoscrisse a<br />

<strong>Padova</strong> un atto <strong>di</strong> donazione a dei canonici, mentre il 24 luglio del 1148 il Vescovo<br />

Cacio successore <strong>di</strong> Bellino, concesse un’investitura feudale come vescovo <strong>di</strong><br />

<strong>Padova</strong>. Il Barzon ipotizza così che Bellino, con poca scorta, nei giorni 24, 25 e<br />

26 novembre 1147 fosse arrivato fino a Fratta per prendere la strada <strong>di</strong>retta che,<br />

fra canneti e boscaglie, arrivava alla Ba<strong>di</strong>a della Vanga<strong>di</strong>zza. Ritiene poi che Bellino<br />

volesse risolvere una volta per tutte il grosso problema delle numerose chiese<br />

della <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>, che erano sotto la giuris<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> questa abbazia perché<br />

costruite su terreni da essa posseduti, e delle quali il priore eleggeva anche i parroci,<br />

nonostante i fedeli fossero sotto l’autorità <strong>di</strong> Bellino. In quella zona <strong>di</strong>sabitata<br />

e sperduta sarebbe stato ucciso da sicari il giorno 26 novembre 1147, giorno, ma<br />

non l’anno, registrato anche nel necrologio del Monastero <strong>di</strong> Santa Maria delle<br />

Carceri (<strong>Padova</strong>).<br />

Le spoglie mortali del Vescovo furono subito raccolte dalla pietà del popolo, che<br />

provvide a seppellirle nella vicina chiesetta <strong>di</strong> S. Giacomo presso Fratta. Subito il popolo<br />

parlò <strong>di</strong> Bellino Martire e Santo.<br />

Ai miei tempi, nei primi anni 1930, vicino a Fratta c’era una casa bassa con muratura<br />

spessa che la tra<strong>di</strong>zione in<strong>di</strong>cava come un’abitazione costruita sulle fondamenta della<br />

vecchia chiesetta <strong>di</strong> S. Giacomo.<br />

Andrea Favoschi nel suo manoscritto latino, custo<strong>di</strong>to ora nel seminario <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>,<br />

in cui parla delle famiglie padovane, accusa quale mandante del delitto Tommaso <strong>di</strong><br />

Capo<strong>di</strong>vacca, famiglia detta anche Para<strong>di</strong>si o Capineri. Questi era stato condannato<br />

dai giu<strong>di</strong>ci a restituire al Vescovo Bellino le decime che aveva usurpato precedentemente,<br />

cosa che non voleva fare, perciò pensò <strong>di</strong> eliminare Bellino che lo aveva<br />

chiamato in giu<strong>di</strong>zio.<br />

100


Nel 1170 il Po straripò e le acque si riversarono su buona parte del Polesine, Fratta<br />

compresa, trasformando tutto in laguna.<br />

La chiesetta <strong>di</strong> San Giacomo e l’urna <strong>di</strong> San Bellino scomparvero alla vista dei sopravvissuti.<br />

Ma verso l’anno 1200 le acque lentamente si ritirarono e riaffiorarono le<br />

rovine della chiesetta, ma non l’urna.<br />

Una tra<strong>di</strong>zione locale che mi fu ripetuta tante volte, racconta che l’urna fu riportata<br />

in luce dai cani. Subito i pii abitanti del luogo, memori <strong>di</strong> quanto era successo<br />

trent’anni prima, posero l’arca su un carro agricolo trainato dai buoi per portare il<br />

sarcofago a Fratta, il paese più vicino. Ma i buoi non vollero partire. Lasciati liberi<br />

essi si <strong>di</strong>ressero spontaneamente verso S. Martino <strong>di</strong> Variano, <strong>di</strong>stante circa cinque<br />

chilometri. Lungo la strada si fermarono due volte e in quei luoghi <strong>di</strong> sosta oggi ci<br />

sono due capitelli a ricordo del fatto che i pungoli del bovaro là piantati, ogni volta<br />

fiorirono. Arrivati davanti alla chiesa <strong>di</strong> San Martino <strong>di</strong> Variano i buoi si fermarono<br />

per la terza volta e non vollero più ripartire. Cosi l’arca <strong>di</strong> San Bellino fu posta in<br />

quella chiesa. Anche questa volta il pungolo del bovaro fiorì e ora a ricordo c’e una<br />

piastrella <strong>di</strong> marmo.<br />

A sinistra. Una delle due cappelline che ricordano le fermate dei buoi quando nel XII secolo<br />

l’urna <strong>di</strong> legno fu portata nel paese <strong>di</strong> San Martino <strong>di</strong> Variano. In quella occasione, si tramanda,<br />

che i pungoli abbiano fiorito. I buoi si fermarono definitivamente per la terza volta davanti alla<br />

chiesa che prima aveva la facciata rivolta rispetto a quella attuale.<br />

A destra. Urna del Santo del XVII secolo che ingloba quella <strong>di</strong> legno della prima sepoltura del<br />

secolo XIII è nel retro dell’altare maggiore.<br />

101


Il paese e la chiesa del Santo<br />

Trasportato il corpo <strong>di</strong> San Bellino nella chiesa <strong>di</strong> San Martino <strong>di</strong> Variano, da subito<br />

quegli abitanti iniziarono a venerarlo in modo solenne, tanto che, a furor <strong>di</strong> popolo,<br />

vollero che il loro paese cambiasse nome in San Bellino.<br />

Il Barzon non parla della chiesa, ma la tra<strong>di</strong>zione e altri libri <strong>di</strong> storia locale <strong>di</strong>cono<br />

che, prima della traslazione delle spoglie <strong>di</strong> Bellino, la facciata della chiesa <strong>di</strong> San<br />

Martino <strong>di</strong> Variano era dalla parte opposta a quella oggi esistente. Infatti nel presente<br />

presbiterio c’è la tessera <strong>di</strong> marmo, già richiamata, che segna dove si è fermato il carro<br />

ed è ora proprio davanti all’altare maggiore.<br />

Di certo si sa che nel XV secolo la parrocchia perse una gran parte del suo territorio<br />

e che il paese si ridusse a una piccola località. Nel 1487 Giovanni Marcello, nobile<br />

veneziano pretore <strong>di</strong> Rovigo, visitò la chiesa <strong>di</strong> San Bellino e la trovò spoglia e trascurata,<br />

come relazionò al doge <strong>di</strong> Venezia Agostino Barbarigo. Questi intervenne<br />

d’autorità e, prendendo a cuore le sorti del santuario, decretò l’istituzione <strong>di</strong> una amministrazione<br />

che provvedesse ai bisogni della chiesa.<br />

Del 1544 c’è la relazione del Vescovo Bartolomeo Zerbinati in cui si precisa che la<br />

chiesa aveva la facciata rivolta a sud e che era a tre navate, cioè pressappoco come<br />

l’attuale, e continuava <strong>di</strong>cendo che nella navata a destra c’era l’altare <strong>di</strong> San Bellino,<br />

con l’urna posta a fianco, coperta da un panno rosso, mentre l’altare maggiore era de<strong>di</strong>cato<br />

a San Martino, il primo santo venerato in quel paese. Da un verbale <strong>di</strong>ocesano<br />

del 1603 risulta poi che il tempio aveva le colonne delle tre navate deteriorate e che<br />

dovevano essere sostituite, veniva precisato pure che gli abitanti erano 500. Fu così<br />

che negli anni 1647 – 49 la chiesa fu rifatta dalle fondamenta, con l’aiuto <strong>di</strong> tutta la<br />

popolazione, dandole l’impronta della tra<strong>di</strong>zione veneta.<br />

La nobile Giulia Arcostis ved. Guarini, assieme al figlio Giuseppe, fece invece erigere<br />

la cappella <strong>di</strong>etro l’altare maggiore, ponendovi un’arca marmorea e inglobandovi<br />

quella più modesta <strong>di</strong> legno. Nei secoli successivi, specie nel settecento, la chiesa fu<br />

impreziosita con statue, pale d’altare e arre<strong>di</strong> sacri.<br />

Il campanile, pur del ‘500, è in stile romanico.<br />

La prima ricognizione della salma <strong>di</strong> San Bellino fu fatta il 24 aprile 1863 e furono<br />

trovate le reliquie “immerse nel fango secco”, segno evidente dei trent’anni passati<br />

dalla vecchia urna fra acquitrini e canneti.<br />

102


In alto a sinistra. Al tempo <strong>di</strong> Bellino i conti <strong>di</strong> Baone d’Este<br />

erano feudatari del Vescovo, per questo nella cappella <strong>di</strong><br />

Ca’Borini <strong>di</strong> Baone fu esposta questa tela. Si vedono San Bellino<br />

con la Madonna, il Bambino Gesù e dei Santi. Una strada<br />

pedemontana <strong>di</strong> Monselice che porta a Baone è ancora oggi<br />

chiamata “Argine del Vescovo” perché attraversava delle palu<strong>di</strong><br />

e perché era usata dai Vescovi <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> quando visitavano i<br />

loro Vassalli <strong>di</strong> Baone.<br />

In alto a destra. Ceregnano (in provincia <strong>di</strong> Rovigo, a pochi<br />

chilometri da San Bellino). La statua <strong>di</strong> San Bellino che orna la<br />

nicchia <strong>di</strong> sinistra della facciata della chiesa parrocchiale <strong>di</strong> San<br />

Martino vescovo.<br />

A fianco. Reliquiario <strong>di</strong> San Bellino, il quale veniva baciato<br />

da chi, morsicato dai cani, temeva <strong>di</strong> contrarre la rabbia, una<br />

malattia infettiva acuta.<br />

103


I mulini con macine<br />

Vissi la mia fanciullezza a Costa <strong>di</strong> Rovigo, in un mulino a macine, condotto da mio<br />

padre Giacomo e da zio Giacinto. Era un mulino funzionante con un grande e nero<br />

motore a vapore alimentato dal gas povero.<br />

La mia giovinezza la trascorsi invece in altri paesi, ove c’erano sempre le stesse macine<br />

<strong>di</strong> pietra ma fatte girare da motori elettrici e gestiti solamente da mio padre.<br />

Considerato che i motori a gas povero e le macine <strong>di</strong> pietra si trovano ora solo nei<br />

musei e dato che ho ancora ben presenti nella mia memoria i vari congegni e quel<br />

motore, che io da bambino consideravo un mostro, desidero descrivere, a futura memoria,<br />

il mulino della mia fanciullezza. Non tanto tecnicamente, ché quelle informazioni<br />

le si trova sui libri, ma in modo rievocativo, per illustrare come si ottenevano le<br />

farine dai cereali quasi un secolo fa.<br />

104<br />

Schizzo<br />

planimetrico<br />

relativo al<br />

fabbricato <strong>di</strong> un<br />

solo piano, sito a<br />

Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />

via Scardona.<br />

Erano gli anni<br />

1920-1930<br />

e vi erano:<br />

mulino, locale<br />

motore, tettoia<br />

per il focolare,<br />

carbonaia per<br />

l’antracite,<br />

ripostiglio per<br />

sacchi vuoti o<br />

pieni <strong>di</strong> cereali.


Il fornello<br />

Era un grande camino che serviva per riscaldare un grosso bidone riempito <strong>di</strong> carbon<br />

fossile. Tutti chiamavano quel braciere fornèla, posto all’esterno sotto una tettoia<br />

per sicurezza. Prima <strong>di</strong> accendere il fuoco si doveva riempire <strong>di</strong> carbone il bidone a<br />

tenuta stagna, posto orizzontalmente sopra il fuoco. Nel focolare venivano bruciati<br />

legna e carbone già sfruttato per ottenere gas, che chiamavano cok.<br />

Il gasogeno<br />

Quel bidone pieno <strong>di</strong> carbone minerale era il gasogeno, cioè il generatore <strong>di</strong> gas. Mio<br />

padre <strong>di</strong>ceva che il miglior carbone da <strong>di</strong>stillare per ottenere gas, era l’antracite inglese<br />

proveniente da Car<strong>di</strong>ff, in Inghilterra. Il carbone surriscaldato produceva una<br />

miscela <strong>di</strong> gas, in prevalenza metano, che passava attraverso una valvola <strong>di</strong> tenuta e<br />

un tubo in un recipiente particolare per il deposito.<br />

Il gasometro<br />

Il gas prodotto arrivava in un contenitore chiamato gasometro, cioè misuratore <strong>di</strong><br />

gas. Questo meccanismo era all’interno dello stanzone, proprio vicino al motore, ed<br />

era formato da una campana posta in una vasca d’acqua. La campana saliva e scendeva<br />

a seconda della quantità del gas prodotto e <strong>di</strong> quanto ne veniva usato. Quando il<br />

gas era al limite minimo, una valvola <strong>di</strong> controllo della pressione fischiava per attirare<br />

l’attenzione del mugnaio che subito accorreva per ravvivare il fuoco in modo che la<br />

produzione <strong>di</strong> gas salisse.<br />

Il motore a gas povero<br />

Era un macchinario possente che aveva ai fianchi due gran<strong>di</strong> ruote, i cui <strong>di</strong>ametri<br />

erano parecchio più gran<strong>di</strong> della statura <strong>di</strong> mio padre; oggi stimo fossero due<br />

metri e mezzo. Servivano per l’avviamento. Mio padre e mio zio Giacinto, persone<br />

robuste, dovevano far leva con tutte le loro forze sui raggi delle due ruote;<br />

quando il motore era avviato le ruote venivano messe in folle, cioè venivano<br />

staccate dagli organi rotanti. Erano così pesanti e ingombranti che, quando il<br />

motore è stato smontato, le hanno tagliate con la fiamma ad acetilene in quattro<br />

parti per farle passare dalla porta. Il motore era un grande tubo orizzontale nel<br />

cui interno c’era la camera <strong>di</strong> scoppio che azionava grossi pistoni accoppiati con<br />

gran<strong>di</strong> bielle. Ricordo che io usavo per giocare i cerchi smessi dei pistoni, quelli<br />

che chiamavano fasce le fasse, che servivano per chiudere bene le camere a cilindro<br />

ove scorrevano i pistoni. Come ho già raccontato nel capitolo de<strong>di</strong>cato<br />

ai giochi, era allora in uso per noi bambini correre per sentieri e strade facendo<br />

rotolare un cerchio <strong>di</strong> ferro: gli altri usavano i cerchi ricavati dall’orlo superiore<br />

dei paioli, io invece usavo i cerchi dei pistoni.<br />

Ebbi una chiara idea dell’uso <strong>di</strong> quel gas quando, nel periodo dell’autarchia fascista,<br />

105


vi<strong>di</strong> dei gran<strong>di</strong> fornelli cilindrici posti sulle pedane dei camion, che producevano il<br />

gas necessario per la trazione, erano dei piccoli gasogeni e gasometri.<br />

Quando il grande motore si rompeva, il lavoro <strong>di</strong> aggiustaggio era lungo e faticoso<br />

perché bisognava spostare pezzi pesanti. Era anche molto su<strong>di</strong>cio perché si lavorava<br />

in mezzo al grasso necessario per la lubrificazione. Mio padre e lo zio vestivano allora<br />

una tuta <strong>di</strong> fustagno scuro la cui giacchetta era simile a quelle che poi, più tar<strong>di</strong>, vi<strong>di</strong><br />

indossata da Stalin e da Mao. A lavoro finito erano due maschere nere; mia madre,<br />

poverina, doveva lavare le tute e prepararle per future rotture.<br />

Il motore lavorava a perio<strong>di</strong> saltuari perché, quando partiva, andava continuativamente<br />

notte e giorno, fino a macinare le scorte <strong>di</strong> frumento e granone ammassate e<br />

portate dai clienti quando il motore era fermo. Poi si attendeva un altro ammasso <strong>di</strong><br />

cereali in attesa <strong>di</strong> riprendere il lavoro. Questo sistema veniva usato perché l’avviamento<br />

del motore era così lungo, <strong>di</strong>fficile e faticoso che non si poteva fare altrimenti<br />

per risparmiare fatica. Ricordo che mio padre mi <strong>di</strong>sse più volte che il motore, durante<br />

la prima guerra mon<strong>di</strong>ale, fu usato per qualche tempo per produrre l’energia elettrica<br />

che serviva come illuminazione pubblica nel centro del paese. In quella occasione<br />

il motore faceva girare le <strong>di</strong>namo per la produzione dell’elettricità che subito veniva<br />

immagazzinata nei condensatori, per <strong>di</strong>stribuirla poi in modo uniforme anche quando,<br />

in via saltuaria, il motore veniva fermato. Quando arrivammo a Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />

non trovammo le <strong>di</strong>namo, però in un ripostiglio c’erano ben accatastati dei gran<strong>di</strong> e<br />

robusti vasi <strong>di</strong> vetro. Mio padre mi <strong>di</strong>sse che servivano per i condensatori. Mia madre<br />

invece usò quei vasi per mettere sotto unto o sotto cenere, salami e pezzi d’oca.<br />

L’asse orizzontale <strong>di</strong> trasmissione<br />

Era un asse molto lungo che collegava le tre coppie <strong>di</strong> macine poste nel mulino, con<br />

la puleggia <strong>di</strong> trasmissione, situata nello stanzone ove c’era il motore. Data la sua lunghezza<br />

era sostenuto da cinque bronzine, fissate con gambe sul pavimento. Le bronzine<br />

erano cuscinetti antifrizione, formate da due lastre semicircolari in bronzo, che<br />

avevano rigature profonde per contenere il grasso minerale lubrificante. Erano poste<br />

in scatole stagne <strong>di</strong> ghisa a <strong>di</strong>fesa dalla polvere. Nell’incontro tra l’asse orizzontale<br />

e i tre verticali delle macine c’erano gli ingranaggi dentati che giravano a vista, cioè<br />

senza alcun riparo.<br />

Gli ingranaggi<br />

Ogni ingranaggio era formato da due ruote <strong>di</strong> ghisa, con denti <strong>di</strong> legno duro, una<br />

orizzontale e l’altra verticale. Ingranandosi tra loro trasmettevano il movimento rotatorio<br />

dell’asse orizzontale a quello verticale. Le ruote <strong>di</strong> ghisa avevano un <strong>di</strong>ametro<br />

come l’altezza <strong>di</strong> un foglio <strong>di</strong> giornale e nella circonferenza avevano dei fori rettangolari,<br />

per fissarvi i denti <strong>di</strong> legno posti a una <strong>di</strong>stanza prestabilita e costante. Le due<br />

ruote dell’ingranaggio avevano anche, nella circonferenza esterna, una accentuata<br />

106


Costa <strong>di</strong> Rovigo, via Scardona. Schizzo dell’asse <strong>di</strong> trasmissione lungo una decina <strong>di</strong> metri e sostenuto<br />

da bronzine. Da destra puleggia collegata con cinghione al motore, numero tre ruote verticali <strong>di</strong> ghisa<br />

del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa 70 centimetri completate da denti <strong>di</strong> legno infissi in apposite se<strong>di</strong>.<br />

Schizzo relativo al movimento delle due ruote <strong>di</strong> ghisa, con denti in legno, che formavano l’ingranaggio<br />

in modo che la rotazione orizzontale si trasformasse in verticale per fare girare la macina.<br />

In basso a sinistra: schizzi dei tre tipi <strong>di</strong> martelli necessari per rifare, sulle pietre delle macine,<br />

orizzontalità, scanalatura e tacche. Questi lavori venivano fatti circa ogni sei settimane. I denti o il filo<br />

dei martelli venivano rifatti subito dopo l’uso.<br />

Schizzi dei denti <strong>di</strong><br />

legno che venivano<br />

infilati con martello<br />

nelle apposite tasche<br />

delle due ruote<br />

<strong>di</strong> ghisa. La parte<br />

esterna era tronco<br />

piramidale a base<br />

rettangolare e sporgeva<br />

per circa tre centimetri.<br />

107


svasatura contrapposta, necessaria perché le parti sagomate dei denti che fuoriuscivano<br />

dalle ruote dovevano incontrarsi fra loro senza alcuna <strong>di</strong>fficoltà.<br />

Quando dei denti si rompevano negli strappi <strong>di</strong> partenza, venivano rapidamente sostituiti<br />

con altri che erano stati preparati nel tempo libero. Era possibile fare spe<strong>di</strong>tamente<br />

questo lavoro sia perché il volano del motore poteva essere messo in folle<br />

(lo stesso si faceva quando si rompeva il cinghione), sia perché la ruota orizzontale<br />

dell’ingranaggio poteva essere sollevata con una leva a scrocco, mettendo in folle<br />

anche le macine.<br />

Mio padre mi spiegò che, se l’ingranaggio fosse stato fatto tutto <strong>di</strong> ghisa, vi sarebbe<br />

stato un rumore infernale perché i denti non potevano essere lubrificati. E ancora, se<br />

con gli strappi si fossero rotti dei denti <strong>di</strong> ghisa si doveva sostituire tutto l’ingranaggio,<br />

con enorme spesa <strong>di</strong> tempo e denaro.<br />

Il cinghione<br />

Era una lunga e pesante striscia <strong>di</strong> cuoio. La sua lunghezza totale era forse <strong>di</strong> una<br />

dozzina <strong>di</strong> metri, la larghezza invece come un mio quaderno <strong>di</strong> scuola. Era annerito<br />

per il suo lungo uso e si rompeva con facilità. Mio padre aveva tutto l’occorrente per<br />

l’aggiustaggio che poteva protrarsi per qualche ora. Conservava per la bisogna dei<br />

pezzi <strong>di</strong> cinghione nuovi e vecchi, delle robuste strisce gialle <strong>di</strong> cuoio, i cinghioli,<br />

una grossa lesina a spatola con doppio taglio e un trincetto da calzolaio. Con questo<br />

ultimo assottigliava il cuoio ove si dovevano sovrapporre le parti per la cucitura, poi<br />

con la lesina faceva una dozzina <strong>di</strong> fori ove infilava su e giù i cinghioli, facendo poi<br />

quattro cuciture per ogni giunto. Il cinghione serviva a collegare il volano, che girava<br />

sulla testata del motore, lontana dalla camera <strong>di</strong> scoppio, con una robusta puleggia<br />

posta all’inizio del lungo asse orizzontale <strong>di</strong> trasmissione.<br />

L’elettricità sostituisce il gas povero<br />

Nel 1927 quando mio padre eliminò il motore a gas povero, lo sostituì con un altro<br />

elettrico e da allora in poi lavorò sempre con motori elettrici. Solamente le macine e<br />

gli accessori rimasero gli stessi. Evidentemente questi ultimi formavano un sistema<br />

collaudato da moltissimi anni <strong>di</strong> esperienze.<br />

I motori elettrici erano semplici, como<strong>di</strong>, silenziosi. A Costa <strong>di</strong> Rovigo nel locale<br />

prima usato per il motore a gas povero, ne fu posto uno molto più piccolo, ma<br />

capace <strong>di</strong> muovere contemporaneamente le tre coppie <strong>di</strong> macine e altro macchinario<br />

accessorio che fu subito aggiunto. Per primo fu posto in opera un lungo<br />

assale più sottile del precedente, che girava su cuscinetti a sfere lubrificati da ingrassatori<br />

a vite che davano garanzie <strong>di</strong> efficienza Contemporaneamente furono<br />

cambiati i gran<strong>di</strong> ingranaggi con ruote <strong>di</strong> ghisa e denti <strong>di</strong> legno, e al loro posto<br />

furono messi tre vasi metallici a chiusura stagna che contenevano ingranaggi<br />

metallici che giravano entro olio minerale.<br />

108


Per avviare il motore venivano usati degli interruttori a coltello posti su un quadro<br />

<strong>di</strong> marmo bianco. Sopra vi erano le scatole dei contatori. Accesa la corrente questa,<br />

prima <strong>di</strong> arrivare al motore, passava per un cilindro chiuso nelle teste perché pieno<br />

<strong>di</strong> olio. Era il reostato che, manovrando una ruota superiore, eliminava gli strappi,<br />

regolando la velocità iniziale del motore, portandola gradualmente da lenta a quella<br />

necessaria per la macinazione. Furono aggiunti poi due elevatori a tazze i fachini, per<br />

eliminare il riempimento a mano delle tramogge, poste sopra le macine. A fianco<br />

fu installato un vaglio <strong>di</strong> recupero burato, che però chiamavano plansista, probabilmente<br />

dall’inglese. Con questo sistema si sarebbe dovuto eliminare la setacciatura a<br />

mano delle farine, ma il macchinario non <strong>di</strong>ede buoni risultati e fu eliminato Tutti<br />

gli accessori si muovevano a mezzo <strong>di</strong> pulegge che potevano essere messe in folle,<br />

per cui si <strong>di</strong>stribuivano le varie lavorazioni senza che vi fosse la necessità <strong>di</strong> far girare<br />

contemporaneamente tutti i macchinari.<br />

Ricordo ancora quando mio padre e lo zio hanno assemblato con un lavoro in economia<br />

i vari pezzi degli elevatori. Le trombe verticali, le tramogge <strong>di</strong> base e le canalette<br />

<strong>di</strong> raccordo furono costruite dal falegname Giusfin che abitava vicino a noi. Le tazze<br />

<strong>di</strong> sollevamento furono fatte invece da zio Giacinto ritagliandole, una ad una, da lastre<br />

<strong>di</strong> lamiera zincata e poi ripiegando i lembi per ottenere una scodella. Mio padre<br />

provvide gli assi, le pulegge e le fasce <strong>di</strong> canapa per fissarvi le tazze. Queste girando<br />

si riempivano nelle tramogge <strong>di</strong> base piene <strong>di</strong> cereali andando poi a scaricarsi nelle<br />

tramogge poste sopra le macine, quando iniziavano il percorso <strong>di</strong> ritorno.<br />

I palmenti<br />

Ogni palmento era l’insieme <strong>di</strong> due macine sovrapposte Esse erano protette da un<br />

tamburo perché le farine non si <strong>di</strong>sperdessero durante la lavorazione. Sopra <strong>di</strong> questo<br />

c’era una tramoggia per contenere i cereali, posti là dal mugnaio o dagli elevatori,<br />

per essere macinati; sotto la tramoggia invece c’era una guantiera che serviva per il<br />

dosaggio, lento ma continuo dei chicchi.<br />

Tutte queste attrezzature che formavano il palmento erano supportate da un impalcato.<br />

A Costa <strong>di</strong> Rovigo vi erano tre palmenti: uno per farina <strong>di</strong> frumento, uno per<br />

farina <strong>di</strong> granturco e uno per spezzettare i chicchi, le spezanéle.<br />

L’impalcato<br />

Era una struttura in legno, con l’impiantito <strong>di</strong> calpestio sopraelevato, che sosteneva<br />

l’occorrente per la macinazione. Quelli che ho visto erano costruiti con travi e tavole<br />

<strong>di</strong> legno piallato, ben controventati per reggere sia il peso statico delle macine sia le<br />

vibrazioni <strong>di</strong>namiche della rotazione. Il colore era invariabilmente sul marroncino<br />

chiaro, colore caratteristico del legno vecchio. La sopraelevazione del piano <strong>di</strong> lavoro,<br />

che oggi stimo <strong>di</strong> circa un metro, era dovuta al fatto che sotto vi erano gli ingranaggi<br />

e tutto il necessario per far girare, abbassare o rialzare le macine rotanti.<br />

109


I palmenti erano serviti da scalette per salire sul piano <strong>di</strong> lavoro. Fin quando fui<br />

bambino mio padre mi proibì <strong>di</strong> salire sulle scalette perché era molto pericoloso in<br />

quanto mancavano protezioni. L’impalcato era completato da alcune travature, poste<br />

a soffitto, che servivano per sostenere delle gru sempre <strong>di</strong> legno, pre<strong>di</strong>sposte per togliere<br />

o porre in opera le macine.<br />

Le macine <strong>di</strong> pietra<br />

Le macine màsene erano <strong>di</strong>schi pesanti con un <strong>di</strong>ametro che oggi stimo <strong>di</strong> circa metri<br />

1.60, uno spessore attorno ai 25 centimetri e un foro centrale del <strong>di</strong>ametro <strong>di</strong> circa<br />

25 centimetri. Ogni macina aveva una faccia <strong>di</strong> pietra e l’altra con intonaco. La pietra<br />

doveva avere una cristallizzazione particolare che permettesse <strong>di</strong> essere facilmente<br />

battuta dalla martellina del mugnaio, senza sfaldarsi, e nel contempo mantenere a<br />

lungo la zigrinatura che veniva fatta. La pietra non era un unico blocco, ma erano<br />

lastre <strong>di</strong> grosso spessore ben combacianti, tenute assieme da un conglomerato <strong>di</strong> calce<br />

e da due robusti cerchioni in ferro, uno posto sul bordo inferiore e uno su quello<br />

superiore. Mio padre <strong>di</strong>ceva che le migliori macine erano le francesi che chiamava<br />

“les fertes” (almeno penso che si scriva così). Tutte le macine avevano dei solchi a<br />

raggiera, mi pare otto, meno gran<strong>di</strong> al centro e sempre più larghi e profon<strong>di</strong> verso la<br />

circonferenza, servivano per sparpagliare i cereali da macinare e far convogliare alla<br />

periferia le farine ottenute. Le macine lavoravano in coppia, pietra contro pietra; tra<br />

loro però dovevano esserci sempre cereali o farine, perché altrimenti si sfregavano,<br />

si surriscaldavano e si rovinavano le zigrinature, cioè quei dentini che servivano per<br />

ridurre in polvere i cerali.<br />

I fori centrali delle macine avevano precise funzioni. Quello della macina superiore<br />

che girava serviva per far entrare le granaglie. quello della macina inferiore,<br />

che era fissa, per lasciare passare l’asse rotante verticale il quale, con l’aggiunta<br />

<strong>di</strong> un modesto congegno, faceva girare la mola superiore. L’asse passante entro il<br />

foro della macina fissa, perché rimanesse sempre perfettamente verticale e non<br />

oscillasse, era guidato da una boccola. Questa era fissata nel foro da cunei <strong>di</strong><br />

legno duro, battuti a martello. Le varie piccole fessure che rimanevano venivano<br />

chiuse colando zolfo liquido, che si otteneva riscaldandolo a circa sessanta gra<strong>di</strong>.<br />

Tutto ciò aveva anche lo scopo <strong>di</strong> sigillare ogni interstizio onde evitare cadessero<br />

a terra chicchi o farine. L’asse verticale così guidato penetrava, con la sua testa<br />

arrotondata, per circa venti centimetri oltre la mola fissa, per incastrarsi nell’incavo<br />

<strong>di</strong> un cavallotto, fissato sulla mola rotante. Il cavallotto era una robusta<br />

barra piatta <strong>di</strong> ferro sagomata a U rovescio che aveva due naselli che erano fissati<br />

nella faccia <strong>di</strong> pietra della mola superiore. Anche queste due piccole protuberanze<br />

erano fissate con zolfo liquido. Questo sostegno e la macina venivano fatti<br />

ruotare da alette solidali con l’asse rotante verticale.<br />

Dato che la macina superiore doveva essere sempre in perfetto equilibrio durante<br />

110


la macinazione, aveva nella parte intonacata quattro tasche contrapposte, ove si<br />

potevano mettere dei pesi metallici per riequilibrarla, che venivano fissati anch’essi<br />

con lo zolfo liquido (veniva usato lo zolfo perché non è urticante). Pure la macina<br />

inferiore aveva bisogno <strong>di</strong> una perfetta orizzontalità e questa la si otteneva apportando<br />

qualche correzione, girando i pie<strong>di</strong>ni a vite su cui appoggiava.<br />

Un lavoro molto importante era la ribattitura delle macine fatta a lunghi intervalli.<br />

Ricordo che mio padre e lo zio iniziavano togliendo prima gli accessori, tramoggia<br />

cilindro ecc. poi la gru sollevava la mola superiore che veniva sospesa sul vuoto, davanti<br />

all’impalcato. Questa gru era formata da due travi collegati a sette che avevano<br />

un saettone <strong>di</strong> rinforzo, La gru era incernierata sull’impalcato, in alto e in basso, con<br />

piastre e perni metallici. Sopra il braccio orizzontale c’era poi una ruota che governava<br />

un vitone senza fine che terminava con due ganci: il tutto era guidato da piastre<br />

<strong>di</strong> ferro fissate sopra e sotto sulla struttura lignea. Venivano poi appesi ai ganci del<br />

vitone due robusti settori circolari <strong>di</strong> ferro lunghi circa un metro che avevano in ogni<br />

estremità degli occhielli. Gli anelli superiori venivano agganciati al vitone, negli inferiori<br />

venivano invece infilate delle spine spinòti, che poi venivano introdotte anche<br />

nei due fori dorsali della macina. Con questo sistema la macina veniva sollevata e<br />

messa da parte.<br />

Mio padre per prima cosa faceva un accurato controllo delle facce delle mole usando<br />

una staggia verniciata <strong>di</strong> terra rossa sui dorsi perché, ruotandola su tutta la pietra, si<br />

evidenziassero i rialzi che subito eliminava con la bocciarda. Poi usava la bolla per un<br />

perfetto controllo dell’orizzontalità. Se poi i solchi a raggiera erano <strong>di</strong>ventanti ormai<br />

poco profon<strong>di</strong>, provvedeva ad ingran<strong>di</strong>rli picconando con un pesante martello che<br />

aveva una punta in ogni testa la martelina a punta. Finiti questi lavori <strong>di</strong> preparazione<br />

provvedeva a fare le tacche della zigrinatura sulle superfici degli spicchi <strong>di</strong> pietra,<br />

usando un pesante martello a doppio taglio la martelina a taio.<br />

Quest’ultimo lavoro, <strong>di</strong>ceva mio padre, doveva essere fatto sempre dalla stessa<br />

mano perché le tacche dovevano essere pressoché uguali per profon<strong>di</strong>tà e <strong>di</strong>rezione.<br />

Era questo il lavoro che pretendeva fare da solo, forse perché gli piaceva o<br />

perché pensava <strong>di</strong> esserne perfettamente capace per aver fatto un lungo appren<strong>di</strong>stato.<br />

Durante il lavoro <strong>di</strong> battitura usava una scopetta rigida, che chiamava granadéo,<br />

per controllare l’andamento delle battiture. Per ripristinare la mola rotante<br />

provvedeva a stenderla sulla macina fissa previa stesa <strong>di</strong> travi. Anche su questa<br />

veniva eseguita la stessa lavorazione.<br />

Per sistemare poi a nuovo i vari martelli mio padre faceva anche il fabbro: <strong>di</strong>ceva che<br />

l’aveva imparato quando era piccolo. Sotto la tettoia c’erano la fucina per scaldare il<br />

ferro ed un secchio pieno d’acqua per temperarlo. Mio padre prima doveva forgiava<br />

i tre martelli per rifare le punte e i fili, poi immergeva parzialmente il ferro caldo entro<br />

l’acqua finché la parte immersa <strong>di</strong>ventava violacea. Io in quel caso mi <strong>di</strong>vertivo a<br />

ravvivare il fuoco con un apposito soffietto.<br />

111


Il tamburo, la tramoggia e la guantiera<br />

Questi tre oggetti <strong>di</strong> legno erano accessori necessari per arrivare ad avere i sacchi<br />

pieni <strong>di</strong> farina. Il tamburo posto a copertura delle macine serviva, per evitare il più<br />

possibile la <strong>di</strong>spersione <strong>di</strong> farine e polveri ed era nel contempo <strong>di</strong> supporto alla tramoggia.<br />

Il tamburo era un cilindro basso e robusto, perché la sovrastante tramoggia<br />

poteva contenere anche un quintale <strong>di</strong> cerali, ed era sprovvisto delle due facce piane.<br />

Anni 1920-1940. Schizzo <strong>di</strong> un palmento comprendente due macine e tutti gli accessori.<br />

Qui è tenuto conto <strong>di</strong> ingranaggi racchiusi in una vaschetta a tenuta, piena <strong>di</strong> olio<br />

minerale, per lubrificare piccoli ingranaggi metallici. Questo sistema <strong>di</strong>minuiva <strong>di</strong> molto i<br />

rumori del sistema illustrato nelle figure delle pagine precedenti.<br />

112


Schizzo delle macine <strong>di</strong> pietra. Le misure riportate nel primo <strong>di</strong>segno danno un peso per macina <strong>di</strong> circa<br />

kg 350. Nel secondo <strong>di</strong>segno si vuol <strong>di</strong>mostrate come lavoravano a contrasto le scanalature a raggiera.<br />

Esse servivano per veicolare i grani che entravano e anche per trasportare in periferia la farina ottenuta.<br />

Schizzo del sistema metallico per far girare la macina, sovrastante quella fissa, mantenendola<br />

sempre in perfetto equilibrio. L’asse verticale, guidato dalla boccola fissata nel foro della macina<br />

fissa, supportava con un cavallotto quella rotante.<br />

Schizzo della gru <strong>di</strong> legno incernierata nell’impalcato. Una gru serviva due palmenti. Parti<br />

integranti della gru erano due bracci ad arco e due spinotti.<br />

113


Aveva un <strong>di</strong>ametro interno superiore <strong>di</strong> venti centimetri a quello delle macine per<br />

poter contenere, a livello della macina fissa, una corsia per la raccolta farine che vi<br />

arrivavano per il moto centrifugo. La macina rotante aveva una spatola che raschiava<br />

la corsia e convogliava le farine verso la bocchetta d’uscita, dove era appeso il sacco.<br />

La tramoggia, che doveva contenere sempre granaglie finché la macina girava, aveva<br />

sotto un pertugio da cui uscivano lentamente e con continuità i chicchi. Questi<br />

cadevano sulla guantiera, che era un pezzo <strong>di</strong> tavola <strong>di</strong> legno duro concavo con un<br />

solo invito <strong>di</strong> uscita. I suoi sostegni erano delle corregge che servivano per renderla<br />

mobile. La guantiera veniva scossa da un’asticella, fissata sul foro della macina rotante,<br />

facendo cadere in progressione i chicchi. Quando la tramoggia si svuotava del<br />

tutto, si liberava il fermo <strong>di</strong> una cor<strong>di</strong>cella collegata a un campanello, il quale subito<br />

si metteva a suonare. Tutto ciò serviva per richiamare l’attenzione del mugnaio che<br />

doveva subito provvedere a riempire la tramoggia con altri cereali. Per questa ultima<br />

operazione bisognava prima mettere il fermo della cor<strong>di</strong>cella del campanello sotto il<br />

peso dei chicchi. Nel caso estremo in cui il mugnaio non riusciva a riempire tempestivamente<br />

la tramoggia, doveva sollevare la macina rotante con una leva con scrocco<br />

<strong>di</strong> sicurezza, posta sotto l’impiantito, per evitare che le mole si toccassero. Per fare poi<br />

farine più o meno grosse c’era una ruota <strong>di</strong> manovra, posta a fianco della precedente,<br />

che serviva per eseguire spostamenti millimetrici.<br />

La macinazione<br />

La qualità dei cereali<br />

I cereali avevano <strong>di</strong>fferenze per misura e durezza, non solo fra le <strong>di</strong>verse razze, ma<br />

anche nella stessa famiglia, a seconda dei terreni ove erano stati coltivati. Per queste<br />

variazioni bisognava, <strong>di</strong> volta in volta, rapportare le quantità che entravano nelle mole,<br />

secondo la durezza e grandezza dei chicchi e lo stato manutentivo delle macine.<br />

C’era allora la battaglia del grano voluta da Mussolini e <strong>di</strong> continuo venivano messi<br />

in commercio sementi <strong>di</strong> nuovi tipi Era il tempo in cui i frumenti tar<strong>di</strong>vi, da sempre<br />

coltivati, venivano soppiantati da razze precoci. I tar<strong>di</strong>vi producevano più paglia e meno<br />

grano, e per <strong>di</strong> più si allettavano facilmente, creando <strong>di</strong>fficoltà nella mietitura. I precoci<br />

erano pronti da mietere una decina <strong>di</strong> giorni prima, avevano lo stelo <strong>di</strong> paglia più basso<br />

e la spiga più turgida. Ricordo che mio padre chiamava sempre in causa lodandolo un<br />

certo “Strampelli”, che parecchio più tar<strong>di</strong> seppi essere il famoso agronomo genetista<br />

Nazzareno Strampelli, il quale produsse numerose nuove razze <strong>di</strong> frumento, da usare<br />

secondo le qualità dei terreni e del clima. In quegli anni erano in voga a Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />

i tipi precoci Mentana, Villa Glori, Ar<strong>di</strong>to, Strampelli e ognuno aveva caratteristiche<br />

organolettiche <strong>di</strong>verse che influivano anche sulla macinazione. Ricordo che le spighe<br />

dei frumenti tar<strong>di</strong>vi avevano tutte le ariste, mentre i precoci le avevano attenuate.<br />

114


Per completare l’elenco delle manovre necessarie onde ottenere gli sfarinati voluti, devo anche<br />

ricordare un piccolo <strong>di</strong>spositivo metallico, che regolava il flusso dei chicchi sulla guantiera,<br />

fissato sul davanti del tamburo. Infatti vicino alla bocchetta della farina, c’era un supporto<br />

con una piccola ruota <strong>di</strong> manovra la quale, a mezzo <strong>di</strong> asticciole, apriva più o meno la<br />

serranda della feritoia posta sotto la tramoggia. L’immagine mostra l’interno <strong>di</strong> un casotto <strong>di</strong><br />

un mulino sul Po, ove si vedono gli accessori delle macine. Il rifornimento dei cereali avveniva<br />

attraverso una bocchetta ancorata a un solaio superiore, sul quale erano stati ammassati<br />

precedentemente i sacchi <strong>di</strong> cereali da macinare. Dalla fattura presumo che il palmento sia del<br />

Settecento, considerando anche che la prozia Luigia paragonava i palmenti del nonno del Secolo<br />

XIX simili a quelli <strong>di</strong> Costa <strong>di</strong> Rovigo, che erano come ho descritto precedentemente.<br />

115


Quasi la stessa cosa succedeva per il granoturco perché cominciava ad entrare in Italia<br />

il Plata, granoturco <strong>di</strong> origine argentina. Le nostre razze davano pannocchie piccole<br />

con grani rotondeggianti e schiacciati, il Plata dava pannocchie gran<strong>di</strong> con grani<br />

allungati, tanto che all’inizio veniva chiamato denton, cioè dente grande, e dava una<br />

produzione maggiore. Ricordo che un anno, forse il 1928, vi fu un raccolto misero <strong>di</strong><br />

granoturco nostrano.<br />

Mio padre, viste le richieste, acquistò allora vari vagoni <strong>di</strong> Plata sudamericano dal<br />

costo accessibile che arrivarono fino a Rovigo. Per portare il granoturco a Costa furono<br />

ingaggiati dei carrettieri che dovevano fare il trasporto per <strong>di</strong>eci chilometri. Successe<br />

però un fatto strano, almeno per me. Circa duecento metri <strong>di</strong> strada inghiaiata nel<br />

comune <strong>di</strong> Costa si rovinarono in modo totale. Un agricoltore, che aveva la stalla nei<br />

pressi, si adoperò per trarre d’impiccio i carrettieri con due tiri <strong>di</strong> buoi, facendosi<br />

ovviamente pagare. Fu così che il granoturco ebbe un rincaro non previsto che<br />

suscitò dei brontolii fra gli acquirenti. Il granoturco americano ebbe nel tempo delle<br />

migliorie genetiche, così oggi tutti noi abbiamo degli ibri<strong>di</strong> chiamati mais.<br />

Una volta era d’uso seminare subito tra le stoppie <strong>di</strong> frumento il “cinquantino”, granoturco<br />

dalle pannocchie e dai grani piccoli. Fra quelle razze ce ne era una molto<br />

ricercata, il Marano, che dava farina saporita e d’un giallo intenso.<br />

Il costo della macinazione<br />

I prodotti per la macinazione, che venivano portati al mulino, erano pesati con la<br />

bascula. I dati <strong>di</strong> identificazione venivano scritti su un registro e sui sacchi. Nel registro<br />

venivano scritti, con una matita copiativa, la data, il nome, il peso e il numero<br />

progressivo <strong>di</strong> conferimento settimanale; sui sacchi venivano scritti con un pennello<br />

intriso <strong>di</strong> acqua e terra rossa, il peso e il numero <strong>di</strong> conferimento. Il costo della lavorazione<br />

era calcolato con due percentuali relative al peso. Le farine venivano consegnate<br />

con il peso dei cerali decurtato <strong>di</strong> una percentuale per la volativa, cioè la<br />

polvere che si spandeva nell’ambiente. Poi c’era un costo in denaro in rapporto alla<br />

quantità dei cereali portati per la macinazione. Ho avuto modo <strong>di</strong> constatare che i<br />

calcoli della volativa erano sempre superiori a quelli reali: alla fine della settimana gli<br />

avanzi servivano per il nostro uso familiare.<br />

Gli inconvenienti provocati dalle macine<br />

Una volta non c’erano norme <strong>di</strong> sicurezza sui lavori, tutti si comportavano come meglio<br />

credevano. Anche i mugnai non dovevano osservare prescrizioni <strong>di</strong> salvaguar<strong>di</strong>a.<br />

Per questo mio padre subì nella sua vita almeno tre malanni dovuti al tipo <strong>di</strong><br />

lavoro che faceva. Aveva i dorsi delle mani punteggiati <strong>di</strong> tanti puntini neri perché,<br />

non usando i guanti durante la battitura delle macine, le piccole schegge <strong>di</strong> pietra che<br />

schizzavano via gli punzecchiavano la pelle, lasciando il loro segno in modo indelebile.<br />

Nei mulini poi, dove regnava la volativa, non c’erano né aspiratori o depuratori,<br />

116


né gli addetti usavano mascherine <strong>di</strong> protezione, così sia i macchinari che i mugnai<br />

erano sempre ricoperti <strong>di</strong> polvere; non per niente c’era il proverbio: “Chi va al mulino<br />

si infarina”. In aggiunta tutti i mugnai avevano i bronchi ricoperti <strong>di</strong> polvere.<br />

Quando mio padre nel 1909 si presentò alla visita me<strong>di</strong>ca per fare il soldato fu sulle<br />

prime scartato. Il giovane me<strong>di</strong>co che gli aveva controllato il torace sentì brontolii,<br />

segno <strong>di</strong> malattia polmonare, e lo mandò dal suo superiore. Questi, me<strong>di</strong>co anziano,<br />

gli chiese subito che mestiere facesse, mio padre rispose che era mugnaio. Fu <strong>di</strong>chiarato<br />

abile e fece 24 mesi <strong>di</strong> servizio <strong>di</strong> leva; così era lungo una volta il servizio militare.<br />

Poi richiamato, dovette fare anche tutta la guerra del 1915 – 18, combattendo nella<br />

terza armata. Quel me<strong>di</strong>co esperto sapeva che tutti i mugnai avevano i bronchi pieni<br />

<strong>di</strong> polvere! Infine mio padre, dopo i cinquant’anni, ebbe <strong>di</strong>sturbi motori. Cosa abbastanza<br />

naturale se si pensa che i sacchi che portava a spalla erano generalmente <strong>di</strong> 75<br />

chilogrammi pari a tre staia pieni <strong>di</strong> chicchi, o <strong>di</strong> 100 chilogrammi se erano sacchi<br />

pieni <strong>di</strong> farina doppio zero: pesi che oggi nessuno affronta per legge.<br />

In alto. Mulino sul Po. Questo<br />

è meglio strutturato rispetto<br />

a quello raffigurato in basso.<br />

Ritengo che quello sia del<br />

secolo XIX, questo del secolo<br />

XX: lo <strong>di</strong>mostrano soprattutto<br />

gli steccati che sono costruiti a<br />

regola d’arte.<br />

In basso. Vecchio mulino sul<br />

Po del XIX secolo. I casotti <strong>di</strong><br />

tavole <strong>di</strong> legno erano ricoperti<br />

con canne palustri. La<br />

barchetta che si vede serviva<br />

per i controlli attorno alle<br />

chiatte. La scritta devozionale,<br />

molto significativa riguardo i<br />

pericoli <strong>di</strong> quel lavoro, è: “Dio<br />

ti salvi”.<br />

117


Piccoli pioli della grande ruota fatta girare dalla<br />

turbina. I denti <strong>di</strong> questa ruota si incastravano<br />

con quelli più lunghi <strong>di</strong> una piccola ruota: erano<br />

gli ingranaggi che facevano girare la mola.<br />

A destra: mulino ad acqua dell’entroterra dove<br />

c’era un salto d’acqua. Il mulino è in muratura<br />

e la turbina, rispetto a quella sui fiumi, ha una<br />

grande ruota con numerose piccole pale.<br />

118


I mulini ad acqua<br />

Di mulini ad acqua nell’800 ve ne erano molti lungo i fiumi, in modo particolare<br />

sul Po, e altri dove c’erano salti d’acqua sia nelle montagne che nelle pianure.<br />

Il padre <strong>di</strong> mia madre Teresa, nonno Giuseppe Nagliati, era mugnaio del Po a<br />

S. Maria in Punta, frazione <strong>di</strong> Ariano Polesine. Quella località era ed è tuttora<br />

un piccolo paese che si trova nella punta del delta, là dove il Po <strong>di</strong> Venezia,<br />

detto il Po grande, si <strong>di</strong>vide dal Po <strong>di</strong> Goro detto il Po piccolo. Una foto del<br />

1895, riprodotta nel libro “I Santamarianti” <strong>di</strong> William Balsamo, mostra che in<br />

quell’epoca i mulinari <strong>di</strong> S. Maria in Punta erano <strong>di</strong>eci, tra i quali il nonno. Ho<br />

letto sul giornale “Repubblica “del 10 giugno 2005 un articolo <strong>di</strong> Jenner Meletti<br />

ove era scritto che i mulini ferraresi nel 1873 erano ben 173, schierati sui fiumi<br />

e in particolare a sud del Po <strong>di</strong> Venezia e del Po <strong>di</strong> Goro.<br />

Mio nonno scomparve nelle acque del fiume in una gelida notte del gennaio<br />

1900, quando mia madre aveva quattro anni e zio Giacinto due. Per motivi<br />

familiari, giacché la nonna si era risposata, i due fratelli furono aiutati a crescere<br />

dalla zia Luigia, sorella del nonno. Questa zia che io chiamavo nonna, nata nel<br />

1854 visse poi con noi fino alla morte nel 1934.<br />

Lei mi parlò parecchie volte dei mulini sul Po, tanto che quando da grande ne<br />

vi<strong>di</strong> uno, forse mantenuto per memoria, lo conoscevo già molto bene. Erano<br />

due chiatte galleggianti a fondo piatto, ciascuna con un palmento, unite fra <strong>di</strong><br />

loro da una grande ruota con gran<strong>di</strong> pale, la turbina, che girava con la corrente<br />

dell’acqua. In aggiunta fra una barca e l’altra vi erano passerelle e catene <strong>di</strong> ferro,<br />

necessarie queste ultime per gli ormeggi. La prozia mi <strong>di</strong>sse che all’esterno i<br />

mulini variavano come tipo <strong>di</strong> costruzione a seconda dell’estro e dei sol<strong>di</strong> del<br />

mulinaro, ma che all’interno invece erano pressoché uguali a quelli <strong>di</strong> Costa<br />

<strong>di</strong> Rovigo, poi <strong>di</strong> Valdentro e <strong>di</strong> Monselice. Tutto era <strong>di</strong> legno compreso gli<br />

ingranaggi, metodo superato nei primi anni del Novecento. La grande ruota<br />

<strong>di</strong> legno, fatta girare dalla turbina, aveva una corona <strong>di</strong> piccoli pioli sporgenti<br />

che andavano a incastrarsi con i denti lunghi <strong>di</strong> una piccola ruota, posta su un<br />

asse verticale, trasformando così la rotazione orizzontale della turbina in quello<br />

verticale che faceva girare la mola.<br />

La prozia Luigia mi spiegò anche tante volte cosa poteva essere successo a suo<br />

fratello, mio nonno Giuseppe. Diceva sempre le stesse cose.<br />

Dato che le macine erano poste dentro un casotto ben chiuso per proteggere<br />

dalla pioggia i cereali e le farine, siccome poi la macinazione produceva un<br />

gradevole tepore, la prozia ipotizzava che il nonno fosse uscito dal casotto<br />

mentre era un po’ accaldato, avesse preso uno choc per il freddo e, caduto in<br />

acqua, fosse annegato pur essendo un abile nuotatore. Allora molte protezioni<br />

<strong>di</strong> sicurezza non esistevano.<br />

I mulini ad acqua, costruiti in muratura, erano posti all’interno dei paesi, là<br />

119


Mulino ad acqua nella terraferma.<br />

120


dove vi erano salti <strong>di</strong> acqua continua. L’acqua muoveva una grande ruota con<br />

piccole pale, fatte in modo <strong>di</strong>verso a seconda della tra<strong>di</strong>zione o delle necessità;<br />

era la turbina idraulica che faceva girare le macine. L’interno, anche in questi<br />

casi, era del tutto simile a quanto c’era negli altri mulini che io ho visto.<br />

L’altro mio nonno Giobatta Trevisan, lavorava nell’entroterra in un mulino<br />

ad acqua a Carrara San Giorgio, ora Due Carrare, in provincia <strong>di</strong> <strong>Padova</strong>. I<br />

suoi primi due figli, mio padre Giacomo e zio Demetrio, <strong>di</strong>vennero mugnai<br />

iniziando a lavorare fin da ragazzetti e poi andandosene in giro per lavoro fin da<br />

giovanissimi, perché era morta la madre e il loro padre si era risposato.<br />

È certo che una volta i mugnai del Po, anche se non erano poveri, conducevano<br />

una vita travagliata sia per il lento processo <strong>di</strong> lavoro, sia perché dovevano essere<br />

presenti giorno e notte anche per fare la guar<strong>di</strong>a ai prodotti dei clienti.<br />

Un’ultima annotazione che riguarda il detto, specie fra gli anziani, che “Il pane e<br />

la polenta <strong>di</strong> una volta erano migliori <strong>di</strong> quelli <strong>di</strong> oggi”. Al riguardo ricordo che<br />

mio padre, mugnaio <strong>di</strong> lungo corso, <strong>di</strong>ceva che più è lenta la macinazione, più<br />

le farine mantengono il loro sapore, perché non vengono riscaldate durante la<br />

lavorazione. Penso che i vecchi abbiano ragione perché oggi tutto è velocizzato<br />

al massimo, le farine macinate nei cilindri <strong>di</strong> acciaio vengono insaccate ancora<br />

calde, perdendo la loro naturale fragranza.<br />

121


Glossario dei vocaboli veneti usati nel testo<br />

Àlbara pioppo o albero frondoso<br />

Àlbio abbeveratoio o truogolo<br />

Àmoli piccole prugne tondeggianti<br />

Ànara anitra in Polesine<br />

Ànca anche, pure<br />

Anguriàra dove si coltivano o si ammassano i cocomeri<br />

Anguriàro colui che vende i cocomeri<br />

Àrena anitra nel <strong>Padova</strong>no<br />

Baéta pallina <strong>di</strong> terracotta colorata o <strong>di</strong> vetro<br />

Balanzìn l’attacco per il tiro <strong>di</strong> un secondo animale in aiuto per il tiro<br />

Bàlzo pezzo <strong>di</strong> corda fatto con erbe palustri e con un nodo per ogni capo<br />

Banachéto banco piccolo, deschetto<br />

Bàre carretto con strutture maggiorate adatte per grossi carichi<br />

Barèa tavola con stanghe per il trasporto<br />

Barozìn calesse senza cuscini e mantice <strong>di</strong> copertura<br />

Basàna bottone da cappotto<br />

Bigàto verme<br />

Bindèche lippa, anche pindèche<br />

Bò bue o buoi<br />

Boàro bo<strong>vai</strong>o, bovaro<br />

Bombasìna tessuto <strong>di</strong> cotone poco pregiato<br />

Bràzo braccio o bracciata<br />

Brìgòlo archetto, arnese ad arco per i trasporti, che si poneva sulle spalle<br />

Brònza brace<br />

Brusàre bruciare<br />

Bruscàre potare<br />

Bugà bucato<br />

Bugàròlo tela grezza che tratteneva la cenere frammista ad acqua calda<br />

Buratàra ma<strong>di</strong>a chiusa dal coperchio<br />

Buràto vaglio o buratto per separare la farina dalla crusca<br />

Bùso foro, buco<br />

Càgna grande tenaglia formata da legno e ferro<br />

Calièro paiolo <strong>di</strong> rame<br />

Càmaradària tubo <strong>di</strong> gomma contenente aria<br />

Canarèo pezzo dello stelo della canapa<br />

Canavèra canna selvatica simile al bambù<br />

122


Càneva cantina del vino<br />

Canfìn lume a petrolio<br />

Cànio canapa<br />

Canolàra la ven<strong>di</strong>trice <strong>di</strong> cannelli per botti, le cànole<br />

Cànula stelo intero della canapa<br />

Capòn galletto evirato<br />

Carezà stra<strong>di</strong>na <strong>di</strong> campagna o fascia <strong>di</strong> terreno che <strong>di</strong>videva i campi<br />

Cariolòn carriola con un piano grande, senza vasca<br />

Caròba carruba<br />

Casolìn bottegaio <strong>di</strong> generi alimentari<br />

Castelòn tutolo, torsolo della pannocchia<br />

Castèo l’insieme dei sostegni e dei graticci sovrapposti per stendervi i bachi da seta<br />

Ca<strong>vai</strong>òn mucchio <strong>di</strong> covoni a forma <strong>di</strong> carena rovesciata<br />

Cavalière baco da seta<br />

Cavedòni riparo <strong>di</strong> terra per trattenere l’acqua<br />

Cavèssa fune per trattenere buoi, cavalli, anche cavèzza<br />

Càza mestolo<br />

Ciàpa voce del verbo prendere, presente, III p. sing.<br />

Cìncero (o cìnciaro) termine padovano per il gioco noto in italiano come “campana”<br />

Ciòca chioccia<br />

Ciòpa panetto, pagnotta<br />

Ciùcio un piccolo dolce da succhiare<br />

Codèga o Coéga cotica del maiale<br />

Coeghìn cotechino<br />

Còke oppure cok, il carbone che rimaneva dopo lo sfruttamento dei gas<br />

Conéio coniglio<br />

Copertòn pneumatico<br />

Còpo riparo triangolare agganciato al paiolo della polenta<br />

Còrgo stia cilindrica senza fondo con sportello superiore<br />

Cortelà mattoni posti a coltello in modo che i dorsi facciano da pavimento<br />

Cortelàzo coltello rettangolare e pesante<br />

Cortelìna piccolo coltello ricurvo, roncola<br />

Cortèo coltello, cioè il coltro dell’aratro, coltello in generale<br />

Covèrta gavello, piccolo arco <strong>di</strong> legno formante le ruote, anche cuèrta<br />

Crosète biche formate da covoni <strong>di</strong> spighe<br />

Crùo crudo, non cotto<br />

Cuèrcio coperchio<br />

Cusinàre cuocere<br />

123


Cussì così<br />

De <strong>di</strong><br />

Dòna donna, anche voce del verbo donare<br />

El il<br />

Fachìn riferito alle tazze degli elevatori<br />

Fàia covone<br />

Fàlsa falcia, anche falza<br />

Far sù trasformare la carne <strong>di</strong> maiale in salami<br />

Fasinàro mucchio <strong>di</strong> fascine, le fasìne<br />

Fàssa fascia<br />

Fen fieno<br />

Fòlo mantice <strong>di</strong> copertura <strong>di</strong> un calesse<br />

Forchèto la forca che serviva per svellere le bietole, anche forca a due rebbi<br />

Formènto frumento<br />

Formentòn mais<br />

Fornèla focolare esterno per grossi recipienti<br />

Frànco lira, la vecchia moneta<br />

Frisòni grossi cavalli da tiro<br />

Ga voce del verbo avere, tempo presente. Mi go, ti te ghe, lu el ga, ecc.<br />

Ganàssa ganascia<br />

Ghe è anche pronome, a lui - gli<br />

Giòza goccia, anche giosa<br />

Giustàre aggiustare<br />

Gnàro nido<br />

Gomìero vomero<br />

Gradèla graticola<br />

Gramustìn vinaccioli<br />

Gràn grano, frumento, anche qualsiasi granello<br />

Granadèo piccola scopa senza manico<br />

Graspaiòle bucce dell’acino d’uva<br />

Gràspe ciò che rimane dopo la pigiatura dell’uva<br />

Graspìa vinello ottenuto dalle graspe messe nell’acqua<br />

Grisòla graticcio <strong>di</strong> erbe palustri, arella<br />

Grùpia greppia<br />

Guièlo pungolo dei bovari<br />

Guzàre affilare un coltello, una falce, ecc.<br />

In vàca quando c’è un risultato pessimo<br />

Incoconamènto far entrare <strong>di</strong> forza il cibo in gola<br />

124


Incuciàrsi abbassarsi<br />

La spèra controllo con una candela se un uovo ha il germe<br />

Lasàre lasciare<br />

Lavèzo paiolo <strong>di</strong> rame<br />

Levà un pane crudo con lievito<br />

Loàme letame, loàmaro è il letamaio grande<br />

Lòra imbuto rettangolare per botti<br />

Lòto zolla<br />

Lugàneghe collana <strong>di</strong> salsicce<br />

Lùzia Lucia<br />

Magnàre mangiare<br />

Manàra scure, accetta<br />

Màre madre, anche mare<br />

Martelìna martello con penne affilate o a punta<br />

Màs-cio maschio, maiale<br />

Masègna grossa lastra <strong>di</strong> selce adatta per la pavimentazione<br />

Masenàre macinare<br />

Màsera macero nel <strong>Padova</strong>no<br />

Màsero macero nel Ro<strong>di</strong>gino o maschio dell’anitra<br />

Mastèla mastello<br />

Mastelòn grande mastello<br />

Màto pompa per attingere acqua<br />

Màza grosso martello <strong>di</strong> legno, chiamato anche màzo, anche ammazza,<br />

Meànda contratto in natura per la mietitura e la trebbiatura<br />

Mèjo meglio<br />

Menarìn piccola ascia da muratore<br />

Mèriche patate dolci, patate americane<br />

Mèsa ma<strong>di</strong>a senza coperchio, serviva per impastare la farina<br />

Mèscola mestolo <strong>di</strong> legno<br />

Méza metà<br />

Mezàna mezzo maiale in lunghezza<br />

Mistòca castagnaccio<br />

Molèta arrotino o piccola mola<br />

Moletìn un arrotino giovanissimo<br />

Moràro gelso<br />

Moschìn moscerino<br />

Mòscolo trottola nel <strong>Padova</strong>no<br />

Mulìn mulino<br />

125


Munàri grumi <strong>di</strong> farina non cotta nella polenta<br />

Munàro mugnaio, al plurale munari<br />

Mùnega monaca o oggetto <strong>di</strong> legno che serviva a scaldare le coperte, scal<strong>di</strong>no<br />

Musso asino<br />

Nòsa noce<br />

Òbligo bracciante con lavoro fisso<br />

Òio olio<br />

Onto strutto o sporco <strong>di</strong> grasso<br />

Ònza oncia, misura per i semi dei bachi da seta<br />

Òvo uovo<br />

Pàia paglia<br />

Paiàro pagliaio<br />

Paiaròlo l’imboccatore delle spighe nel battitore della trebbiatrice<br />

Paiòn pagliericcio fatto con le brattee del mais<br />

Palànca <strong>di</strong>eci centesimi, moneta in rame<br />

Palpèto pesca fatta solo con le mani<br />

Paltàn fango<br />

Panàro tavola della polenta<br />

Panòcia pannocchia<br />

Papazète pia<strong>di</strong>ne fatte con farina <strong>di</strong> castagna<br />

Papazòn farina <strong>di</strong> castagna mangiata senza alcuna lavorazione<br />

Pàre padre, anche verbo<br />

Paròlo paiolo <strong>di</strong> rame<br />

Parolòn un grande paiolo<br />

Paròn padrone<br />

Pavéia libellula<br />

Pavéio aquilone<br />

Pecòlo picciolo<br />

Pelagròso sfaticato<br />

Pénda pergolato<br />

Pénole cunei<br />

Peòcio pidocchio<br />

Pèrtega pertica o misura <strong>di</strong> aree<br />

Pèsto lardo tritato su un tagliere con un grosso coltello detto da lardo<br />

Péza rappezzo piccolo, straccio<br />

Pézo peggio<br />

Piànta cavicchio per battere sul filo delle falci, anche pianta e verbo<br />

Piéra cote per affilare, custo<strong>di</strong>ta entro un corno pieno d’acqua e appeso alla cintola<br />

126


Pìnza focaccia <strong>di</strong> vari tipi cotta sul focolare<br />

Piriòto imbuto<br />

Pisòn trottola nel Polesine<br />

Pisorìn piccola trottola col picciolo<br />

Pitòn tacchino<br />

Plansìsta vaglio per la farina<br />

Pòlpe la fettuccia <strong>di</strong> bietole dopo la lavorazione per ottenere lo zucchero<br />

Pòmo mela – pomi dessi varietà <strong>di</strong> mele<br />

Ponàro pollaio<br />

Porsèo maiale, anche porzèo<br />

Pòsta cella per i bovini ed equini<br />

Pozzàli mattoni sagomati che servono per fare i pozzi<br />

Pua bambola<br />

Quàrta contenitore della quarta parte in volume dello staio<br />

Racoéta raganella, strumento <strong>di</strong> legno<br />

Rài raggi<br />

Rapegàre spianare il terreno arato con l’erpice, cioè con la rapegàra<br />

Recèti racimoli<br />

Rènga aringa<br />

Resentàre risciacquare<br />

Rivàle fila <strong>di</strong> viti stese fra gli olmi che <strong>di</strong>videvano i campi<br />

Ròla piana del focolare ove si faceva il fuoco<br />

Rossèto una malattia dei chicchi <strong>di</strong> frumento che sviluppava una polvere rossastra<br />

Ruinàzi calcinacci, metaforicamente così chiamati i fegati e i cuori dei gallinacei<br />

Salgàro salice<br />

Sànca anche zanca, come in italiano, ton<strong>di</strong>no <strong>di</strong> ferro con l’estremità sagomata a U<br />

Savère sapere<br />

Sbrancà mannello, o quanto può contenere una mano<br />

Sbusàre bucare<br />

Scàgno tavola <strong>di</strong> legno che le lavandaie ponevano lungo un corso d’acqua per il risciaquo<br />

Scàia scaglia, pezzo <strong>di</strong> pietra o <strong>di</strong> sasso<br />

Scalòn scala a tre gambe <strong>di</strong> cui una mobile<br />

Scalòne nome polesano del gioco della campana<br />

Scanarèo torsolo <strong>di</strong> pannocchia o pezzi dello stelo legnoso della canapa<br />

Scarpèo scalpello<br />

Scarsèa tasca<br />

Scartà teglia rettangolare per fare il castagnaccio o altri dolci<br />

Scartozàre levare le brattee, scartòzi, della pannocchia<br />

127


Schisòto pinza <strong>di</strong> sola farina <strong>di</strong> grano, anche schizòto<br />

Sc-iarezàre <strong>di</strong>radare le piantine <strong>di</strong> bietole o <strong>di</strong> mais<br />

Sc-iòne anelli <strong>di</strong> rinforzo o per attaccare corde<br />

Scopetòn aringa maschio o femmina senza uova<br />

Scùria frusta del carrettiere<br />

Segàzo sega a una sola maniglia <strong>di</strong> presa<br />

Seghèto falce messoria<br />

Semènze le piccole uova dei bachi da seta<br />

Sengiòn pista o circuito segnato per terra<br />

Sgàlmare zoccoli con suola <strong>di</strong> legno chiodato<br />

Sguaratòn l’uovo andato a malo<br />

Sgùba sgorbia<br />

Sìsola cicciolo, anche sìzola<br />

Slisegàre sdrucciolare, scivolare sul ghiaccio<br />

Slotàre rompere le zolle col mazzuolo<br />

Smeiàsa pinza con la melassa<br />

Solcàle cunetta per raccolta urine nelle stalle<br />

Somènza chio<strong>di</strong>no dei calzolai<br />

Soramàn pialla per raddrizzare le coste degli assi <strong>di</strong> legno<br />

Spàgna erba me<strong>di</strong>ca<br />

Spàgo sforzìn spago dei calzolai<br />

Spenamènto levare le penne ai volatili<br />

Spèo punteruolo<br />

Spezanèla il chicco <strong>di</strong> mais ridotto in più pezzi<br />

Spinòto pezzo <strong>di</strong> ferro da infilare nelle cavità<br />

Spunciòn grosso ago da infilare in un sughero per pungere i salami<br />

Stàro cilindro per misurare a volume i prodotti della terra<br />

Stòpa stoppa, cascame della canapa<br />

Stracaganàse castagne secche<br />

Stramezàra paratia che <strong>di</strong>videva le varie celle degli animali nelle stalle<br />

Stropàro salice i cui rami servivano ai conta<strong>di</strong>ni per fare legacci, le stròpe<br />

Stùfo stanco<br />

Sùgolo polenta <strong>di</strong> mosto e farina <strong>di</strong> grano<br />

Taiàre tagliare<br />

Tamisàre setacciare col tamìso<br />

Tasére tacere<br />

Tavoliére la tavola della polenta<br />

Timonèla calesse con cuscini, ruote ricoperte <strong>di</strong> gomma e il mantice <strong>di</strong> copertura<br />

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Tociàre bagnare pane e polenta nel sugo, el tòcio<br />

Trìmi righe <strong>di</strong> piante <strong>di</strong> frumento, mais, canapa, ecc., anche trìni<br />

Vedèo vitello<br />

Vègna vigna<br />

Vera come in italiano, ghiera attorno alla bocca del pozzo, detta anche pigna,<br />

corona, armilla<br />

Versùro aratro<br />

Vérze apre o gli ortaggi verze<br />

Vetùro ma<strong>di</strong>a lunga senza coperchio, adatta per pigiare l’uva o per pulire il maiale<br />

Volatìva la polvere più sottile che durante la macinazione si <strong>di</strong>sperdeva nell’ambiente<br />

Zànca guida <strong>di</strong> fil <strong>di</strong> ferro per far rotolare i cerchioni nei giochi dei bambini<br />

Zapàre zappare<br />

Zénare cenere<br />

Zocàra mucchi <strong>di</strong> zòche cioè <strong>di</strong> ceppi pronti per bruciare<br />

Zogàre giocare<br />

Zògo gioco<br />

Zucàra pianta della zucca, il frutto zuca<br />

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In<strong>di</strong>ce<br />

Introduzione<br />

Prefazione alla nuova e<strong>di</strong>zione<br />

Costa <strong>di</strong> Rovigo 1925- 1929<br />

- Il mulino della mia giovinezza<br />

- L’ambiente <strong>di</strong> Costa <strong>di</strong> Rovigo<br />

- I gallinacei<br />

- I palmipe<strong>di</strong><br />

- Il maiale<br />

- I conigli<br />

- Il baco da seta<br />

- Il bucato<br />

- Fornitura dell’acqua<br />

Valdentro <strong>di</strong> Len<strong>di</strong>nara 1930<br />

- Premessa<br />

- Il calzolaio<br />

San Bellino<br />

- L’ambiente socio culturale<br />

- I conduttori agricoli<br />

- I trentottisti<br />

- La mietitura<br />

- La trebbiatuira<br />

- Motore a vapore<br />

- Il rifornimento dei covoni<br />

- La raccolta del frumento<br />

- La paglia<br />

- La pula<br />

- La canapa<br />

- La barbabietola e lo zuccherificio<br />

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- Il granoturco<br />

- Il prato<br />

- La fattoria Chinaglia<br />

- Prime arature e semine<br />

- Lavori invernali<br />

- L’uva<br />

- L’ambiente economico<br />

- Il pane<br />

- La polenta<br />

- Gli orti e i cortili<br />

- La fruttivendola<br />

- Il carradore<br />

- Il maniscalco<br />

- Il fabbro<br />

- Un artigiano particolare<br />

- Il meccanico <strong>di</strong> biciclette<br />

- Gli ambulanti<br />

Lo straccivendolo<br />

L’aggiustapiatti<br />

La misurazione <strong>di</strong> teleria<br />

La misurazione dei pesi<br />

La canolara<br />

L’arrotino<br />

I giochi dei bambini e dei ragazzetti<br />

- I <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> Bruno<br />

- I cerchi<br />

- La trottola<br />

- La corda<br />

- Le scaglie<br />

- La lippa<br />

- Il circuito<br />

- La campana<br />

- Le palline<br />

- Mosca cieca e nascon<strong>di</strong>no<br />

- La raganella<br />

- Passatempi<br />

Santo Bellino<br />

- La venerazione verso questo Santo<br />

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- La sua storia<br />

- Ipotesi e tra<strong>di</strong>zioni del Santo<br />

- Il paese e la chiesa del Santo<br />

I mulini con macine<br />

- Il fornello<br />

- Il gasogeno<br />

- Il gasometro<br />

- Il motore a gas povero<br />

- L’asse orizzontale <strong>di</strong> trasmissione<br />

- Gli ingranaggi<br />

- Il cinghione<br />

L’elettricità sostituisce il gas povero<br />

I palmenti<br />

- L’impalcato<br />

- La macina <strong>di</strong> pietra<br />

- Il tamburo, la tramoggia e la guantiera<br />

La macinazione<br />

- La qualità dei cereali<br />

- Il costo della macinazione<br />

- Gli inconvenienti provenienti dalle macine<br />

I mulini ad acqua<br />

Glossario dei vocaboli veneti usati nel testo<br />

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