Sangue dal cielo - Sardegna Cultura
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Marcello Fois<br />
<strong>Sangue</strong><br />
<strong>dal</strong> <strong>cielo</strong>
Tascabili . Narrativa
II edizione (Il Maestrale/Frassinelli) su licenza Edizioni Frassinelli<br />
© 2005 Edizioni Frassinelli<br />
I edizione (Il Maestrale/Frassinelli)<br />
© 1999 Edizioni Frassinelli<br />
Grafica<br />
Nino Mele<br />
Imago multimedia<br />
Foto<br />
Alessandro Contu<br />
Imago multimedia<br />
Impaginazione<br />
Imago multimedia<br />
Redazione: via Massimo D’Azeglio 8 - 08100 Nuoro<br />
Telefono e Fax 0784.31830<br />
E-mail: redazione@edizionimaestrale.com<br />
Internet: www.edizionimaestrale.com<br />
ISBN 88-86109-93-8 Il Maestrale<br />
Marcello Fois<br />
<strong>Sangue</strong> <strong>dal</strong> <strong>cielo</strong><br />
Prefazione di<br />
Manuel Vázquez Montalbán
A Luigi Arru
Natura e delitto<br />
di Manuel Vázquez Montalbán<br />
Un fenomeno letterario preliminare all’esame del testo è<br />
quello dell’estensione del taglio del romanzo poliziesco a<br />
tutte le strategie letterarie, il suo ritorno o riassorbimento,<br />
in definitiva, nel seno della letteratura senza aggettivi. È come<br />
se, esaurito il discorso della letteratura di testimonianza<br />
del comportamento sociale o personale, il passaggio attraverso<br />
l’architettura della narrazione poliziesca avesse facilitato<br />
agli scrittori il rincontro con materiali apparentemente<br />
esauriti dello sfruttamento minerario del realismo, prima<br />
alla ricerca dei minerali del sottosuolo, poi dei minerali a<br />
<strong>cielo</strong> aperto. Bisogna tener conto di questa premessa perché<br />
mi possa spiegare a proposito del nuovo romanzo di<br />
Marcello Fois, l’autore di Sempre caro, che conferma in <strong>Sangue</strong><br />
<strong>dal</strong> <strong>cielo</strong> la costruzione di un personaggio e di uno spazio,<br />
territoriale e temporale, in cui indagare il rapporto tra<br />
comportamento e delitto.<br />
Non è un caso che il prefatore di Sempre caro sia stato<br />
Andrea Camilleri, perché le coincidenze con Fois nella sua<br />
filosofia del romanzo e dello scrittore sono ovvie: il delitto<br />
come provocazione dello sguardo, un ambito geografico<br />
posto tra il giallo urbano e quello campestre senza che ciò<br />
implichi il minimo sfioramento delle verdi distese piene di<br />
7
ladies e di Porto dei romanzi di Agatha Christie, la costruzione<br />
di un personaggio che faccia da intermediario tra<br />
l’autore e il pubblico, l’investigatore che per Camilleri è un<br />
funzionario pubblico e per Fois un avvocato. Entrambi utilizzano<br />
uno speciale investigatore culturalizzato: nel caso di<br />
Camilleri, il commissario Montalbano è capace di risolvere<br />
il delitto mediante una lettura fortunata; in quello di Fois,<br />
l’avvocato Bustianu è anche un poeta. La differenza tra il<br />
mondo del siciliano e quello del sardo sta nel fatto che Fois<br />
recupera un personaggio realmente esistito, Sebastiano Satta,<br />
Bustianu, nato a Nuoro nel 1867 e morto nel 1914. Fois<br />
si costringe così a ricostruire l’immaginario di un territorio<br />
sardo a cavallo di due secoli e a supporre l’atteggiamento<br />
personale di un personaggio esistito prima della sua esistenza<br />
letteraria. Un’altra coincidenza tra Camilleri e Fois<br />
sta nel particolare uso fatto da entrambi del dialetto, uso<br />
che Camilleri esplicita con maggior insistenza di Fois e che<br />
«...consiste in una sapiente, calcolatissima commistione tra<br />
lingua e dialetto». La forma dialettale ratifica la verosimiglianza<br />
dell’ubicazione, come i riferimenti storici ratificano<br />
la verosimiglianza di un’epoca.<br />
Finite le coincidenze, che a loro volta diventano differenze,<br />
Fois porta il genere del romanzo poliziesco al limite<br />
dell’indagine intimistica, in cui il processo interiore dell’avvocato<br />
che cerca di disvelare la verità mediante la difesa del<br />
presunto colpevole, riceve l’aiuto delle sue conoscenze del<br />
contesto e delle sue genti, dei paradigmi dei vivi e del mandato<br />
e delle osservazioni degli avi ricevuti in sogno. Importantissimo<br />
anche il ruolo della natura, in questo caso della<br />
meteorologia, perché <strong>Sangue</strong> <strong>dal</strong> <strong>cielo</strong> è un romanzo intriso<br />
di pioggia, fin quando l’epilogo schiarisce l’orizzonte e il<br />
8<br />
colore azzurro del <strong>cielo</strong> chiude il chiaroscuro di un’indagine<br />
che ha danneggiato soprattutto la pace dello stesso personaggio.<br />
Perché Bustianu è un personaggio difficile ed esigente.<br />
Non si accontenta, come Montalbano o Pepe Carvalho, di<br />
essere strumentalizzato <strong>dal</strong>la strategia creatrice dello scrittore.<br />
I suoi sentimenti fanno parte della trama, la sua identità<br />
come personaggio davvero esistente obbliga Marcello<br />
Fois a rispettare una sua idiosincrasia che prende partito<br />
davanti alle persone e alle cose, muovendo <strong>dal</strong>la memoria o<br />
verso il desiderio. Al secondo romanzo, la riconferma di<br />
questo sorprendente investigatore, sommerso nel rapporto<br />
tra Natura e Delitto, è anche la conferma di un singolare<br />
scrittore e l’apertura di un nuovo universo di finzione che<br />
guadagnerà sempre più lettori di incondizionata fedeltà e<br />
forse affaticherà un poco un autore tanto dotato e ambizioso<br />
che talvolta vorrà sfuggire alla dittatura della sua stessa<br />
creatura. Una tensione che arricchisce, in quanto Fois è<br />
uno scrittore capace di risolvere ogni genere di sfida, dopo<br />
aver risolto in modo così formidabile quella di rinchiudersi<br />
a Nuoro, all’inizio del secolo, spartendo la paternità dell’opera<br />
con un personaggio presente nel foro e all’anagrafe.<br />
9<br />
(Traduzione di Hado Lyria)
<strong>Sangue</strong> <strong>dal</strong> <strong>cielo</strong>
Pioveva a puàles.<br />
Getti possenti d’acqua ostinata andavano a schiantarsi<br />
contro la crosta granitica ammuffita di cespugli<br />
grassi.<br />
Il <strong>cielo</strong> aveva posizionato l’artiglieria pesante al gran<br />
completo: obici e mortai. Acqua esplodeva in saette<br />
d’acciaio battendo sulle superfici grigiorosate delle<br />
rocce, deflagrando in una raggiera vaporosa di spilli<br />
acutissimi.<br />
Al quarto giorno, le montagne, le vallate, i colli che<br />
circondano sa bidda erano diventati una spugna incapace<br />
di assorbimento, rigurgitanti acqua inaccettabile.<br />
E la terra intorno cominciava a dire che ne aveva abbastanza,<br />
come se ogni giorno ne valesse dieci e fossimo<br />
arrivati al quarantesimo del Diluvio, quando, per quel<br />
pezzo di pane di Noè e per i suoi figli, fu chiaro che<br />
l’acqua aveva portato ancora acqua e che il <strong>cielo</strong>, diventato<br />
una brocca immensa, aveva versato pesanti biglie<br />
di vetro contro il seccùme dei fieni, contro le terre<br />
seminate, contro le schiene lanute dei bestiami, contro<br />
i tetti di canna e le tegole, contro le crepe dei dirupi,<br />
13
contro il malanimo e l’invidia e l’avidità e la lussuria<br />
eccetera; ma era altrettanto chiaro, una colomba col<br />
ramoscello d’ulivo nel becco l’aveva dimostrato senza<br />
ombra di dubbio che tutto era finito, proprio in quel<br />
quarantesimo giorno. Perlomeno si era fissato un termine,<br />
insomma.<br />
Comunque, in quel novembre del 1899, che fossimo<br />
arrivati al quarantesimo o quarto giorno de abba, il<br />
<strong>cielo</strong> di Barbagia di smettere di ghettare non ne voleva<br />
sapere.<br />
Per questo le fonti, congestionate, <strong>dal</strong>le alture precipitavano<br />
verso l’altopiano e spurgavano in direzione<br />
dell’abitato, con sifonate di acqua untuosa, di rìcino<br />
limpidissimo, che si ingegnava a rivestire di una patina<br />
lucente i selciati e faceva gorgogliare i tratturi sterrati<br />
di torrenti torbidi e ribollosi.<br />
Nùoro annaspava, ingoiando a stento.<br />
Acqua obliqua di linee maestrali, scendeva da San<br />
Pietro, si incanalava nei viottoli poco meno che selvatici<br />
che portavano al Ponte di Ferro, riducendo, nel tragitto<br />
in discesa, via Majore in una fiumana trasparente.<br />
Acqua che grattava via le sporcizie della lunghissima<br />
siccità appena trascorsa incistate fra i mattoni e le pietre<br />
a vista; acqua che impregnava gli intonaci come secchiate<br />
di tinta sempre più scura: tono su tono; che obbligava<br />
a ingollare, fino al soffocamento, le rare grondaie<br />
metalliche facendole lamentare come bidoni di lamiera<br />
in cui venisse agitata della ghiaia.<br />
14<br />
Acqua, e acqua ancora, radente e sghimbescia, che<br />
trasformava i piani pavimentati in aree scivolose e i vicoli<br />
in fluttuanti rivi melmosi.<br />
Acqua, e acqua, e acqua ancora, che colmava la scodella<br />
di Seuna come una madre che versasse il latte del<br />
mattino al figlio: abbondante, fino all’orlo.<br />
Per tutta l’estate boschi e garighe erano stati un’immensa<br />
segheria di cicale in amore, poi c’era stato un ottobre<br />
silenzioso che fischiava di grecale agli oliveti. E<br />
ora, in bocca a un novembre ghignante, il frastuono<br />
della pioggia, come quello dell’intera schiera dei dannati<br />
che battessero i denti in attesa del Giudizio.<br />
E che frastuono! Da non sentirsi. Con i tetti che rispedivano<br />
il tra tra tra negli androni e i cortili che si<br />
colmavano per gli scarichi ingorgati. E laghi artificiali<br />
di buche mai appianate. E puzzo di fumo, di cane morto,<br />
di orbaci intrise. Che la traspirazione aromatica del<br />
suolo aveva cessato di profumare l’aria già <strong>dal</strong> secondo<br />
giorno di pioggia e ora pareva che si ostinasse a facilitare<br />
una putrefazione di bestiamene annegato, di carne<br />
bagnata e verdura mucillaginosa come alga di mare.<br />
La strada verso casa era un vicolo scivoloso di pietre<br />
di fiume lucenti. Un immenso cimitero di tartarughe<br />
dai carapaci che sotto al violaceo delle nubi temporalesche<br />
viravano al rosso cupo. Quasi interiora, come reni<br />
di bue incastrati nella terra battuta.<br />
15
Le tomaie ingrassate delle mie scarpe facevano del<br />
loro meglio per respingere gli attacchi delle raffiche e<br />
le suole ferrate rendevano i miei passi quelli di un vecchio<br />
cavallo mansueto che sogna la scuderia o, almeno,<br />
una tettoia.<br />
Raimonda stava davanti alla porta socchiusa per vedermi<br />
arrivare.<br />
– Bustià, c’hai gente, – mi sussurrò mentre mi aiutava<br />
a togliermi l’incerata che aveva fatto parte, secoli prima,<br />
del mio equipaggiamento militare.<br />
– Chi è? – chiesi senza parlare spingendo il muso in<br />
avanti e agitando la mano destra.<br />
Mia madre si appiliconò per arrivarmi a pochi millimetri<br />
<strong>dal</strong>l’orecchio. – Franceschina Pattusi, – disse. –<br />
Dice che lo sapevi che doveva venire… Quella gente in<br />
casa mia… – Sospirò.<br />
– Eh sì che lo sapevo, l’ha mandata Pascale Dessanai,<br />
ma me ne ero dimenticato. Sta aspettando da molto?<br />
Raimonda alzò le spalle. – Dieci minuti, – disse.<br />
– Sono bagnato fino alle ossa. Dille che aspetti il tempo<br />
di cambiarmi.<br />
La donna era sui quarant’anni, secca come una radica.<br />
Leza di una bruttezza dignitosa. Nel vedermi entrare<br />
in studio si alzò in piedi e, prima che potessi dire qualunque<br />
cosa, mi porse un foglio piegato in quattro che<br />
teneva stretto in mano. Mi sedetti alla scrivania per<br />
aprirlo con molta calma. La invitai a sedersi lei pure; mi<br />
ubbidì guadagnando la punta della sedia di fronte a me.<br />
16<br />
Lessi speditamente. – È la notifica di una sentenza, –<br />
spiegai. – Siete stata ritenuta colpevole di complicità<br />
nel tentativo di evasione di Tanchis Filippo, in attesa di<br />
condanna eccetera eccetera, il resto lo sapete. Vi hanno<br />
messa a piede libero perché non avete precedenti e<br />
hanno creduto alla buona fede…<br />
– Condannata? – chiese la donna interrompendomi.<br />
– Eh, avete cercato di far arrivare al Tanchis oggetti<br />
impropri, non è cosi? Fate mente locale: cosa vi hanno<br />
trovato nella cesta che avete portato in carcere?<br />
La donna guardò Bustianu con l’aria di chi dovesse<br />
rispondere a una domanda da cui dipendesse il destino<br />
del mondo. – Petta, pane, casu, duos arantzos… Per<br />
mangiare qualcosa mischìno, s’abbocà, che se aspettiamo<br />
a quello che gli danno in carcere…<br />
– Carne, pane, formaggio, due arance… Sicura?<br />
Nient’altro?<br />
La donna scosse la testa come se si fosse sforzata abbastanza.<br />
– Tzia mé! – sbottò Bustianu. – Intanto senza il permesso<br />
voi da mangiare in carcere non ne potete portare.<br />
In secondo luogo, qui è nero su bianco, – dissi puntando<br />
con l’indice la notifica. – C’era anche un coltello<br />
nella cesta!<br />
La donna scosse le spalle, quasi le scappava da ridere.<br />
– Ohi che coltello s’abbocà, una leppa minoredda da<br />
bambini che faceva tenerezza a guardarla… Per tagliarsi<br />
il formaggio. Cosa faceva? Se lo mangiava a morsi?<br />
17
– Ma quando vi hanno chiesto cosa c’era voi dovevate<br />
dirlo, benedetta donna!<br />
– A me mi hanno chiesto del mangiare, a me di coltelli<br />
non mi ha chiesto niente nessuno! Che cosa ne so<br />
io di queste cose?<br />
– Vabbé, comunque la prossima volta se volete portare<br />
qualcosa da mangiare a vostro figlio, vi conviene<br />
evitare di fare malinnidades, che tanto avete visto che<br />
controllano.<br />
– Controllano, controllano, a chi gli pare a loro controllano…<br />
– Eh, voi ringraziate soltanto che hanno creduto alla<br />
buona fede e per questa volta ve la cavate con un’ammenda,<br />
ma la prossima volta non ci sono scuse e non<br />
venite da me a lamentarvi.<br />
La donna prese tempo ad allisciarsi la franda, poi mi<br />
guardò dritto negli occhi. – Una… itte? – chiese sospettosa.<br />
– Un’ammenda, – ripetei con uno sbuffo. – Una contravvenzione,<br />
una multa… Dinare tzia mé! – mi arresi.<br />
– Cinque lire di ammenda!<br />
– Chimbe francos… – bisbigliò lei a se stessa.<br />
– Proprio così e ve la cavate con poco, che meno male<br />
che il maresciallo Poli è una persona comprensiva…<br />
– Mì che noi la Zustissia non sapevamo nemmeno cos’era,<br />
s’abbocà! Cosa vi state credendo: che eravamo<br />
tutti i giorni in carcere o in tribunale o appresso agli avvocati?<br />
Se Filippo è finito alla Rotonda è solo perché<br />
18<br />
c’è stato errore di persona, che giovane più onesto di<br />
lui non ce n’è, e non lo dico per cosa: che non mi è nemmeno<br />
figlio. Chiedete a chiunque se ha mai avuto da ridire<br />
su Filippo Tanchis, chiedete!<br />
– Tzia mé è per questo che ve la cavate con poco, che<br />
se c’era il sospetto di qualcosa di brutto voi e vostro…<br />
– Nepode, s’abbocà! Figlio della sorella buonanima…<br />
Poveritta, aitte in sa bida?<br />
– Eh, baciatevi l’Immagine, ché, se c’era il sospetto<br />
di un tentativo di farlo evadere per davvero, stanotte<br />
dormivate sotto lo stesso tetto, voi e vostro nipote! Pagate<br />
e andate tranquilla che se vostro nipote non ha<br />
fatto niente in quattro e quattr’otto è fuori <strong>dal</strong> carcere.<br />
– E ora che cosa devo fare? – domandò la donna senza<br />
alzarsi.<br />
– Dovete andare a casa e lasciar fare a chi è preposto…<br />
– Allora stiamo freschi, s’abbocà: qui non c’è prevosto,<br />
né canonico…<br />
– Preposto, tzia mea, “pre-po-sto”! Chi ha parlato di<br />
preti: la Forza Pubblica, il giudice… cumpresu?<br />
– Eh, stiamo freschi due volte allora… Per noi “prepo-sti”<br />
non ce ne sono, che siamo povera gente…<br />
Quando si è ammalato il marito di mia sorella, che dopo<br />
che è morto non è durata più di tre mesi, chin sas<br />
animas… Eh, quando si è ammalato il padre di Filippo,<br />
dice che dovevamo lasciar fare ai dottori… E abbiamo<br />
lasciato fare: salassi e corfu ’e balla, che di più<br />
19
non facevano, di soldi ce n’erano pochi e bisognava accontentarsi…<br />
Così al posto di migliorare era peggiorato:<br />
come uno scheletro si era ridotto… E allora il dottorume,<br />
s’abbocà, che cosa ha detto?… Ha detto che<br />
non c’era più niente da fare, che c’aveva quel Male,<br />
che dovevamo solo aspettare che morisse: come se non<br />
lo sapevamo da subito! E quella martire di mia sorella,<br />
che nella vita sua non ha goduto mai, non si spostava<br />
<strong>dal</strong> letto dove era coricato il marito, o quello che era rimasto,<br />
e ogni volta che lo sentiva respirare era come<br />
una fitta che aveva nel cuore “muori… muori tesoro<br />
mio… muori… animedda… muori deddé…”: lo pregava<br />
in questo modo. Che alla vita siamo attaccati come<br />
a una corda, e allora lei gli stava dicendo di lasciarsi<br />
andare… Mio dio! Non è che lo voleva morto, ma<br />
voleva che finisse quella sofferenza… Tanto non ha<br />
tardato a seguirlo: tre mesi, s’abbocà… Così mi sono<br />
rimasti tre figli, che per me i figli di mia sorella sono figli<br />
miei, tre bravi figli, s’abbocà, e ho fatto come ho potuto,<br />
che non mi sono sposata mai… E allora?<br />
– E allora?<br />
– Gliela fate Voi la difesa a Filippo?<br />
– Ma che cosa state dicendo? A me risulta che vostro…<br />
nipote sia già rappresentato…<br />
– Eh, rappresentato, s’abbocà… Ho parlato con Pascale<br />
Dessanai, lo conoscete…<br />
– Sì che lo conosco, il cancelliere del tribunale.<br />
– Esattamente, siamo parenti da parte di madre. Sua<br />
20<br />
madre è la cugina prima di mia madre buonanima. Lui<br />
me l’ha detto…<br />
– Lui vi ha detto cosa?<br />
– Che se non lo tirate fuori Voi a Filippo, non lo tira<br />
fuori nessuno.<br />
– Se me lo dicevate da subito che erano queste le intenzioni,<br />
non perdevamo tempo: chi è l’avvocato di<br />
vostro nipote?<br />
– S’abbocau Marongiu.<br />
– Eh, allora? Che cosa volete di più?<br />
– A Voi vogliamo, s’abbocà… fanno quasi tre mesi<br />
che Filippo è rinchiuso in carcere e finora non abbiamo<br />
visto risultati… Petzi dinare e papiros…<br />
– E tando? Itte bos credies chi deo potta fachere de<br />
prusu? Giovannino Marongiu est unu abbocau con i<br />
fiocchi.<br />
– Eja s’abbocà, ma non è come Voi. Che lo sanno tutti<br />
che Voi al povero in galera non lo lasciate.<br />
– Non potto. Abberu so nande. C’ho troppe cause<br />
da seguire in questo momento e a tutti non si può dire<br />
di sì.<br />
Mi capitava di sognare di svegliarmi in piena notte.<br />
E, nel sogno, desiderare d’alzarmi.<br />
Ché il letto si era fatto una tuppa spinosa.<br />
Desiderare di alzarmi. E farlo, avvolto <strong>dal</strong> buio: una<br />
pece melmosa che si appoggiava sui mobili della mia<br />
21
stanza, ed era morbida e docile al passaggio del mio<br />
corpo.<br />
Buio dappertutto, nel mio sogno, anche sul mio copriletto<br />
tessuto di lana chiara.<br />
Da bambino, prima di chiudere gli occhi, spesso mi<br />
ero chiesto quante pecore era stato necessario tosare<br />
per fare quel copriletto. Mi chiedevo se fosse stato necessario<br />
spogliare due, tre, quattro bestie per il mio calore,<br />
o un gregge intero.<br />
Così sognavo di alzarmi, presagendo le cose senza<br />
vederle; tentando di perforare con gli occhi spalancati<br />
quel nulla perfetto.<br />
Le ombre, più dense dell’oscurità circostante, stavano<br />
dove erano sempre state.<br />
Jaju Gungui in piedi, piccolo e secco come il tronco<br />
di ginepro spellato e allisciato, con i monconi stondati<br />
che servivano per appenderci le zucche seccate; o per<br />
infilarci i colli delle bottiglie a scolare; o per impiccarci<br />
le taschedde e le doppiette.<br />
Bisaju Gungui stava pure lui in piedi, con i capelli<br />
bianchi, lunghi sulle spalle, la barba quadrata <strong>dal</strong> mento<br />
al petto e la cartucciera attorno alla vita. Con quel<br />
viso di pietra sbugnata a scalpello e le labbra immerse<br />
nella rafia biancogiallastra dei baffoni. Che in altezza<br />
non era eccellente nemmeno lui, bisaju, ma aveva superato<br />
cose che neanche un gigante avrebbe affronta-<br />
22<br />
to. Ed era sopravvissuto a un fulmine che gli aveva trapassato<br />
il corpo <strong>dal</strong>la rosa dei capelli agli alluci. E questo<br />
fatto, del fulmine intendo, si era risolto con un fumo<br />
denso e acre che gli si era sprigionato dagli abiti e<br />
le punte dei capelli uscrate. Così se capitava che gli dicessero:<br />
– Bantò, unu raju chi ti fálete! – lui si limitava<br />
a rispondere: – Duos chi tinde fálene, ca deo appo già<br />
dau!<br />
Fin da piccolo, fin da quando mi posso ricordare, era<br />
sempre bisaju a parlare per primo. Una questione di<br />
età e di rispetto: lui era nato nel vecchio secolo, nel<br />
Settecento luminoso.<br />
– E tando? – chiedeva parlando senza aprire la bocca.<br />
Io alzavo le spalle: lo facevo da bambino e lo faccio<br />
anche ora che sono un uomo fatto. E allora che? Voleva<br />
dire quell’alzata di spalle: al solito: ho sete, ho fame,<br />
non riesco a dormire: tutto questo voleva dire. – Deo<br />
bene, e bois? – mi limitavo a rispondere e chiedere a<br />
mia volta.<br />
Bisaju sorrideva, aveva solo gli incisivi in bocca. –<br />
Bene bene non minde paret, – mi prendeva in giro con<br />
la vocetta scettica.<br />
Era vero: non è che andasse proprio bene. Stavo lavorando<br />
troppo in quel periodo.<br />
– Lassael’istare! – interveniva jaju Gungui rivolgendosi<br />
al padre. Mio nonno è sempre stato uno duro con<br />
i figli e tenero, troppo tenero, diceva mia madre, con i<br />
23
nipoti, che erano carne della carne, sangue del sangue,<br />
la vita che continuava, il nome che si tramandava, un<br />
ramo verde e solido che germogliava nell’albero della<br />
famiglia eccetera eccetera.<br />
E lui, mio nonno, era proprio come me lo ricordavo,<br />
come l’avevo visto da bambino, vestito come a sa ria,<br />
pronto da attittare, lavato con la soda, che la sua pelle<br />
non sembrava nemmeno morta.<br />
Nonno e bisnonno paterni non si facevano vedere,<br />
non si erano mai fatti vedere: assenti. Per via di mia<br />
madre credo, che aveva sempre mantenuto una certa<br />
distanza dai parenti del marito, che poi era mio padre.<br />
Nuora gentile, per carità, fin troppo attenta, ma si sa:<br />
quando un uomo esce da casa sposato, la famiglia della<br />
sposa guadagna un figlio e la famiglia dello sposo ne<br />
perde uno.<br />
Era stata la pioggia che mi aveva fatto sognare di svegliarmi<br />
e alzarmi per uscire a tentoni <strong>dal</strong>la mia camera<br />
e andare giù, in cucina a bere.<br />
Il primo gradino scricchiolava. E lì, nel mio sogno,<br />
stava seduto mio padre: – Troppo presto me ne sono<br />
andato, che per poco non riuscivo a vederti camminare<br />
sulle gambe, – diceva, poi abbassava la testa e sollevava<br />
le spalle. – Ma sono contento lo stesso, non c’è cosa<br />
di cui possa rimproverarmi e grazziaddio non vi<br />
manca niente a te e a tuo fratello e a tua madre.<br />
24<br />
– Niente, non ci manca niente, ma è vero che ve ne<br />
siete andato troppo presto… – E la gola mi si bloccava.<br />
Così mi sedevo in quel gradino con lui anche se non<br />
sapevo cosa raccontargli. Di solito restavamo così, a<br />
guardarci.<br />
Ma quella volta, col buio addosso, parlammo fitto di<br />
tante cose. Di tutte quelle cose che non eravamo mai<br />
riusciti a dirci, e che, forse, potendo, non ci saremmo<br />
detti mai.<br />
Così quella notte gli chiesi consiglio. – Che cosa devo<br />
fare? – domandavo. – Come mi devo comportare in<br />
questa causa?<br />
– Come sempre, come hai fatto finora, – diceva mio<br />
padre. – Fai quello che ti sembra giusto.<br />
– Eh, allora devo lasciare perdere, perché se do retta,<br />
io di questo Tanchis non me ne occupo per niente…<br />
ma…<br />
– …Ma la cosa non ti torna…<br />
Nel sogno facevo di no con la testa. Ma volevo dire di<br />
sì: che proprio non mi tornava. – Non ha ancora<br />
vent’anni, – dicevo con una voce che poteva non essere<br />
la mia. – È stato accusato dell’omicidio di un certo Solinas<br />
a Istiritta. È uno strigilino, <strong>dal</strong>la scheda carceraria<br />
risulta alto un metro e cinquantatré e pesa quarantasette<br />
chili. Soffre di polmoni…<br />
– Eh… e allora?<br />
– E allora questo Solinas pesava settanta chili ed era<br />
alto un metro e sessanta. Insomma è morto strangolato.<br />
25
Mio padre si fece pensieroso. – Niente coltello, fucile,<br />
pistola? – chiese a un certo punto.<br />
– Niente di niente: strangolato a mani nude. – E<br />
aspettai un suo commento.<br />
Arrivò dopo qualche secondo di silenzio. – Questo è<br />
strano. Prova a sentire un dottore, ci sono delle malattie,<br />
roba da manicomio, che trasformano anche le persone<br />
più mansuete in bestie feroci quando ci sono gli<br />
attacchi. Questioni della mente, non roba che si vede:<br />
insomma: uno sembra normale, poi si gira di cervello<br />
e addio…<br />
– Un dottore… – mi appuntai a mente.<br />
Il sogno mi riportava al buio senza preavviso e tutte<br />
le mie ombre se ne erano andate.<br />
Era la pioggia che batteva o la voce di mio padre che<br />
da un luogo lontanissimo ripeteva il mio nome?<br />
– Bustianu… Bustianu…<br />
– Bustià!<br />
Ora con gli occhi aperti ebbi un profondo senso di<br />
vertigine. – Un dottore… – farfugliai prima di prendere<br />
pieno contatto con la realtà.<br />
– Che cos’hai? Stai male? – Mia madre era in piedi<br />
davanti a me. La treccia di capelli, ancora nerissimi, le<br />
pendeva <strong>dal</strong>l’omero al fianco come una biscia posata<br />
sulla stoffa grezza della camicia da notte. Sembrava<br />
una baiadera incantatrice di serpenti che avevo visto<br />
26<br />
anni prima nel manifesto di un circo. Una baiadera incantatrice<br />
di serpenti che portava uno scialletto di lana<br />
per coprirsi le spalle. – Bustià, vattene a letto che è<br />
tardi! – All’iniziale tono preoccupato si era sostituita<br />
una risatina di scherno.<br />
– Mi sono addormentato, – fui costretto ad ammettere<br />
strofinandomi gli occhi con le palme delle mani. –<br />
Volevo esaminare questa causa, ma mi sono addormentato,<br />
– ripetei, più a me stesso che a lei, però. – Ritornatevene<br />
a dormire che ora mi corico anch’io.<br />
– Il sonno è prezioso come il cibo, figlio mio.<br />
– E chi male dorme, male veglia, – completai calcando<br />
un po’ troppo sul tono stizzito.<br />
– E allora continua così, – tagliò lei. – Fai quello che<br />
ti pare, grande sei grande, non te lo devo dire io quello<br />
che devi fare.<br />
Quello che dovevo fare era andarmene a letto, anche<br />
se sapevo che di dormire non se ne parlava proprio<br />
ormai.<br />
La pioggia sembrava calata o forse era solo il mio<br />
udito che si era abituato al battere costante sulle imposte.<br />
Invece no. Dentro alla mia camera ebbi la certezza<br />
che la pioggia non era calata: la sentivo farsi largo dentro<br />
al soffitto attraverso le commessure del tetto.<br />
Ospite sgradita. Che mi toglieva l’illusione del sonno.<br />
Che incupiva il mio futuro prossimo. Perché entro po-<br />
27
che ore, pioggia o non pioggia, al tribunale ci sarebbe<br />
stata un’udienza, e la visita <strong>dal</strong> procuratore fresco di<br />
nomina, e il ricevimento degli assistiti e dei loro parenti.<br />
E poi ci sarebbe stato… il dottore.<br />
Feci un rapido elenco di quelli che potevano essermi<br />
utili. Scartabellai una pila di appunti: periti, periti. Ecco:<br />
Causa Moledda Maria… Professor Puligheddu Priamo.<br />
E decisi per Puligheddu, se non ne sapeva qualcosa<br />
lui… Il professor Puligheddu da Oliena, con una<br />
chiara fama di esperto alienista. Gli avrei chiesto un appuntamento<br />
per la mattina dopo, alle undici.<br />
– La prima cosa che faccio domattina è mandare un<br />
cancelliere al suo studio per chiedergli un incontro, –<br />
dissi a me stesso.<br />
La notte, fuori, rideva e tartagliava e la luna se la godeva<br />
di nascosto occultata <strong>dal</strong> manto di panno luttuoso<br />
delle nuvole; bella come sempre, o forse più che<br />
mai, per conto suo, senza nessuno che le volgesse la<br />
faccia contro, a sognare, a maledire, a cantare, ad ammorare.<br />
Allora mi misi allo scrittoio, ma <strong>dal</strong> crocchio del pennino<br />
sul foglio spesso non veniva nulla di buono: tutte<br />
cose senza cuore. Cose da adolescente con l’animo più<br />
volenteroso della mano e il pensiero troppo veloce per<br />
la penna.<br />
Di lacrime e ricordi questo solo decisi di tenere di tutte<br />
le inutilità che avevo scritto. Di lacrime e ricordi:<br />
28<br />
che forse avrebbe aperto un’ode, forse l’avrebbe chiusa,<br />
forse se ne sarebbe stata in mezzo a qualcun’altra<br />
come frase casuale ed efficace.<br />
I ricordi c’erano: uno per tutti: quando ero bambino<br />
mia madre raccontava che un angelo in <strong>cielo</strong> avrebbe<br />
pianto per ogni mia disobbedienza: c’erano pure le lacrime<br />
dunque. Ricordi e lacrime. E il cerchio si chiudeva…<br />
* * *<br />
La pendola sul comò disse che era mattina con sei<br />
rintocchi.<br />
Un’alba che faticava a sbocciare sussurrava che era<br />
cambiato il vento.<br />
Toc. Ora <strong>dal</strong> <strong>cielo</strong> pioveva un’acqua rossastra, come<br />
lo scolo rugginoso del barile dove il fabbro immergeva<br />
il ferro incandescente.<br />
Toc. Ora il terreno era tutto uno sciroppo di amarene<br />
spappolate e chi ci credeva avrebbe fatto bene a regolare<br />
i conti col suo Dio: che quello era l’ultimo giorno<br />
dell’umanità, altro che fine del Diluvio!<br />
Toc. Camminavo col sangue fino alle caviglie ed era<br />
uno scivolare senza controllo. Un avanzare con fatica,<br />
mentre le nubi velavano le montagne e ornavano le<br />
colline come una cucchiaiata di panna montata sulla<br />
fetta di torta.<br />
Toc. E il sole come una fragola sciroppata scolava il<br />
29
osso albuminoso su quel candore. L’aria odorava di<br />
ferro e liquami.<br />
Toc. Non c’era un appoggio, i muri trasudavano.<br />
Toc. <strong>Sangue</strong> colava <strong>dal</strong>l’alto. <strong>Sangue</strong> scaturiva dai<br />
tombini come polle…<br />
Aprii gli occhi. Balzai a sedere sul letto.<br />
Per prima cosa andai a spalancare lo scuro.<br />
Pioveva.<br />
* * *<br />
– Ho fatto una bisione strana, – disse Raimonda<br />
quella mattina, mentre mi versava il latte nella scodella.<br />
– Stavo cercando di togliere degli insetti da una tazza<br />
colma d’origano. Insetti neri, secchi. Mi sforzavo,<br />
con un cucchiaio, di separare la spezia da quelle bestie<br />
morte. Poi a un certo punto, nel fondo della tazza che<br />
stavo forrocando, si agitava un’ape regina, manna da<br />
non credersi, con la pancia tutta scavata piena di uova…<br />
Chissà cosa vuol dire…<br />
– Neanche io ho dormito bene. Troppi sogni, anch’io,<br />
– dissi guardando la collana di perle trasparenti<br />
che ornavano la superficie del latte nella mia scodella.<br />
– Con la pioggia tu non hai mai dormito bene, anche<br />
da bambino… Chissà?… Bisogna che ne parli a<br />
Juannicca di questa bisione…<br />
– Eh proprio: mi mette in agitazione! Ho sognato<br />
jaju e bisaju Gungui… E poi una pioggia rossa…<br />
30<br />
Raimonda fece un sorriso tenero. – Eh jaju e bisaju,<br />
come sarebbe, che tu a tuo bisnonno e tuo nonno non<br />
li hai quasi conosciuti…<br />
– No, a nonno me lo ricordo e anche bisnonno piccoletto<br />
che l’aveva colpito il fulmine.<br />
Raimonda scosse la testa. – Ohi che fulmine, chissà<br />
chissà, era una cosa che si diceva, ma io non ci ho mai<br />
creduto.<br />
– E poi ho sognato babbu Antoni… Mi capita di sognarlo…<br />
È sempre come nella fotografia: seduto sul<br />
primo gradino in cima alle scale… – A mia madre tremò<br />
il labbro inferiore. – Non vedevo l’ora che facesse giorno,<br />
– completai.<br />
– Giorno? – tentò di ironizzare Raimonda per cambiare<br />
argomento. – Se non lo dicesse l’orologio, non ci<br />
crederei che è già giorno. – Poi si ammutolì con lo<br />
sguardo da qualche parte. – Avevi solo cinque anni<br />
quando è morto tuo padre. Ma che bene che ti ha voluto<br />
Bustià! – riprese a tradimento tirando su col naso.<br />
Ma fu solo un attimo, come dandosi una scrollata<br />
riprese il controllo di se stessa. – Prenditi il paracqua<br />
stamattina, che la situazione è troppo metzana.<br />
– Smetterà prima o poi, – tagliai. – Ho tante di quelle<br />
cose da fare stamattina che non so da dove cominciare…<br />
Intanto un vento sottile mandava la pioggia a batterci<br />
il buongiorno sui vetri delle finestre. Piovevano fasci<br />
di fieno, e il <strong>cielo</strong> era un campo che veniva falciato sulle<br />
nostre teste.<br />
31
Misi il cappellaccio di feltro e presi il paracqua. E via<br />
a camminare sui flutti, come un torronaio sul Lago di<br />
Tiberiade.<br />
32<br />
Ore 8,10<br />
Non mi tolsi nemmeno il pastrano. Arrivato in tribunale<br />
presi il primo cancelliere a disposizione e lo mandai<br />
allo studio di Puligheddu e se non fosse stato ancora<br />
in studio, a casa sua: cosa della massima urgenza.<br />
Dovetti ripetere il messaggio due o tre volte. Gli chiesi<br />
di ripetere e per tre volte sbagliò. Alla fine decisi per<br />
un messaggio scritto. Il cancelliere attese in piedi che<br />
avessi finito di stilarlo: Esimio professore, ardisco di importunarLa<br />
per chiederLe la cortesia di un incontro a<br />
quattr’occhi per le undici antimeridiane di oggi al caffè<br />
Tettamanzi. È questione urgente. La prego di comunicare<br />
per iscritto, tramite il latore di questa mia, qualunque<br />
eventuale ostacolo al nostro abboccamento e di comunicare<br />
altresì un luogo e una data confacente ai Suoi impegni.<br />
In mancanza di una rettifica da parte Sua darò per<br />
confermato il nostro appuntamento. Sempre il suo con<br />
rispetto e stima… Firmai, soffiai, piegai, consegnai al<br />
cancelliere.<br />
33
Ore 8,23<br />
Giovannino Marongiu lo incontrai appena uscito <strong>dal</strong><br />
mio ufficio per recarmi alla sala delle udienze. Mi salutò<br />
allargando quella sua faccia schietta incorniciata<br />
<strong>dal</strong>la barba più nera che avessi mai visto. – Ajò a cumbidarci!<br />
– mi disse. Io dissi che non potevo, anche se<br />
un caffè l’avrei preso volentieri, che avevo dormito<br />
male eccetera eccetera. E lui a dire che invece a lui la<br />
pioggia lo faceva dormire come un neonato, ben cuberrato,<br />
al calduccio, stretto alla sua femina – e non ti<br />
naro àtteru. – E non c’era bisogno di dire altro, che si<br />
era capito tutto benissimo. Gli dissi che avevo i minuti<br />
contati, ma che avevo bisogno di parlargli a proposito<br />
di un suo assistito. Lui disse che sapeva tutto, Franceschina<br />
Pattusi, Filippo Tanchis e tutto il resto. Disse<br />
che era una causa persa. Che a carico del giovane c’erano<br />
prove sostanziali: l’orologio della vittima gli era stato<br />
trovato addosso e poi il Tanchis non sapeva dire dove<br />
si trovasse all’ora dell’omicidio. Che gli conveniva<br />
dichiararsi colpevole e fidare nella clemenza della Corte.<br />
Gli chiesi se non avesse pensato al fatto che era perlomeno<br />
strano che un giovane così esile potesse aver<br />
avuto la meglio a mani nude su un uomo della stazza<br />
del Solinas. Mi confessò di no, che non ci aveva pensato.<br />
E il sorriso sulla sua faccia larga si smorzò un poco.<br />
Parlavamo avanzando celermente nel corridoio che<br />
portava in aula. Cominciai a sentirmi in imbarazzo. Mi<br />
34<br />
pareva di essere un ragazzo invidioso del cavallo di un<br />
altro o del suo fucile. Dissi che avremmo potuto finire<br />
il discorso al San Giovanni a pranzo. Disse che andava<br />
bene.<br />
Ore 8,30<br />
Andavo avanti con un peso addosso come se il coperchio<br />
di nubi scure e piovose, che trasudava sui nostri<br />
poveri corpi da cinque giorni, mi fosse caduto sulle<br />
spalle.<br />
In Corte d’Assise si giudicava un pastore accusato di<br />
avere ucciso e occultato il cadavere di un vicino per<br />
una questione di confini.<br />
Ernesto Calvisi, il pubblico ministero, era in forma<br />
smagliante: anche lui, con la pioggia, dormiva benone<br />
evidentemente:<br />
– Signori Giurati, siete stati riuniti da codesto tribunale<br />
per giudicare quest’uomo! Ora noi dimostreremo<br />
che non più oltre quest’orrido fantoccio, che vi guarda<br />
celando un intimo ilare sarcasmo nel suo sguardo afflitto,<br />
può essere considerato degno del consorzio umano!<br />
Sono state esibite prove inconfutabili della sua colpevolezza.<br />
Macabri reperti: resti di apparati dentari, frammenti<br />
ossei, che il dottor Camboni, <strong>dal</strong>l’alto della sua<br />
incontrovertibile esperienza di thanatologo, ha ricondotto<br />
senza dubbio al povero Bachisio Lunas scomparso<br />
tre mesi orsono. Abbiamo inoltre esibito testimoni <strong>dal</strong>-<br />
35
le cui parole è apparsa fuor di dubbio la condotta biasimevole<br />
di costui! Condotta che ci spinge ad ipotizzare<br />
una serie ben più tragica di delitti, rispetto a quello per<br />
il quale è stato chiamato in giudizio al Vostro cospetto.<br />
Non lasciatevi ingannare <strong>dal</strong> suo aspetto dimesso, <strong>dal</strong>la<br />
sua aria afflitta, <strong>dal</strong> ghigno penitente stampato sulle sue<br />
labbra, Egli è un mostro!<br />
Era in forma Calvisi!<br />
Feci un’arringa blanda, che significava alzare la voce<br />
più del solito, sospendere le frasi oltre il dovuto: campare<br />
di rendita insomma. Così al mio difeso concessero<br />
le attenuanti richieste…<br />
Ore 10,10<br />
Il cancelliere mi raggiunse mentre mi cambiavo nello<br />
spogliatoio degli avvocati. Tutto a posto: Puligheddu,<br />
alle undici, da Tettamanzi.<br />
Poi ci fu l’assemblea per dare il benvenuto al nuovo<br />
procuratore del re. Questi si presentò con la toga alla<br />
folla di Esimi Colleghi. Sembrava una persona mite,<br />
persino d’apparenza dimessa, ma si diceva che alla sede<br />
di Tempio Pausania avesse fatto tabula rasa di buona<br />
parte del gruppo della Pubblica Accusa. Ritenuto da lui<br />
troppo blando nel perseguire. Si mormorava che avesse<br />
messo a riposo forzato il vecchio giudice Loddo, il padrone<br />
di Tempio per intenderci, che, dicevano, discutesse<br />
la maggior parte delle cause fuori <strong>dal</strong> tribunale.<br />
36<br />
La prolusione del procuratore regio era tediosa e<br />
piena di buon senso, piena di quelle frasi che si dicono<br />
quando si conoscono i fatti per sentito dire e quindi<br />
non si conoscono. Il suo programma era traboccante<br />
di buoni propositi, di mano ferma, di non tollereremo<br />
eccetera eccetera.<br />
Ore 10,50<br />
Alle undici meno dieci abbandonai l’assemblea di<br />
benvenuto per raggiungere il professor Puligheddu<br />
come stabilito.<br />
Il locale era straordinariamente affollato di gente fumante<br />
che spaporava l’umidità degli abiti al calore untuoso<br />
dell’interno.<br />
Puligheddu mi fece un cenno da un tavolino in fondo<br />
alla sala: era arrivato con leggero anticipo.<br />
37
– La ringrazio per aver accettato quest’incontro con<br />
un preavviso così breve… – attaccai, cercando di far<br />
stare in piedi il paracqua agganciandolo alla spalliera<br />
della mia sedia.<br />
– Sono un suo lettore accanito e un suo fervente ammiratore…<br />
E… Anch’io mi diletto, di tanto in tanto, a<br />
poetare, modestamente… Niente che possa accostarsi<br />
a quei gioielli che lei ha inserito in Nella terra dei Nuraghes,<br />
– attaccò lui, chiarendomi il motivo della sua disponibilità<br />
immediata.<br />
– Ci tengo a specificare che ho chiesto di incontrarla<br />
per questioni strettamente professionali…<br />
Misi le mani avanti per paura di dover perdere tutta<br />
la mattinata a parlare di metri e rime, ma soprattutto<br />
per il terrore che mi chiedesse di leggere quanto lo dilettava<br />
modestamente.<br />
Puligheddu si irrigidì leggermente sulla sedia. – Se<br />
posso esserle utile e nei limiti del segreto professionale…<br />
– concesse.<br />
Provai un sorriso di sconcerto. – No, no, per carità.<br />
39
Niente che riguardi i suoi pazienti nello specifico. Ho<br />
voluto disturbarla per una… consulenza di carattere…<br />
peritale. – Puligheddu accennò senza rispondere.<br />
– Due anni fa, se non ricordo male, lei fu chiamato ad<br />
assistere all’udienza, quale perito indotto <strong>dal</strong>la difesa,<br />
per dare un giudizio in ordine allo stato di mente dell’imputata<br />
Moledda…<br />
– Sì, mi ricordo bene quel caso: Moledda Maria, aveva<br />
ucciso il marito… Sì, il parere che emisi fu che la<br />
donna andava sottoposta senza indugi a opportune osservazioni.<br />
– E il tribunale accolse l’istanza.<br />
– L’accolse, basandosi sul fatto che in rapporto alla<br />
colpevolezza patente della donna, tuttavia, la… dinamica<br />
dell’omicidio risultava incomprensibile.<br />
– Si spieghi meglio.<br />
– Ah, è semplice: la Moledda era una donnina minuta<br />
e il marito un uomo, come dire?… di complessione<br />
piuttosto robusta. E…<br />
– E?<br />
– E la Moledda l’aveva ucciso a mani nude.<br />
Sollevai le mani al <strong>cielo</strong>. – Era quello che volevo sentire!<br />
Così l’imputata fu messa in osservazione.<br />
– Il tribunale ne ordinò la traduzione al manicomio<br />
provinciale, affinché fosse sottoposta alle convenienti<br />
osservazioni di due periti psichiatri, che il tribunale<br />
nominò nella persona del professor Delitala e, modestamente,<br />
del sottoscritto…<br />
40<br />
– E cosa concludeste?<br />
Il professor Puligheddu attese qualche secondo con<br />
un sorriso da lince. – Isterismo, – disse a un certo punto.<br />
– Oltre al resto, l’esame del campo visivo non lasciava<br />
dubbi, offriva in entrambi gli occhi quell’anomalia,<br />
che come oggigiorno è ben noto, è il sintomo<br />
fondamentale di una costituzione neuropatica che va<br />
sotto il nome di isterismo, appunto.<br />
– E sarebbe? – Pendevo <strong>dal</strong>le sue labbra.<br />
Al professor Puligheddu questo piaceva. – Beviamo<br />
qualcosa? – prese tempo godendosi la mia impazienza.<br />
Dissi di sì a qualunque cosa e mi trovai a dover bere<br />
latte di mandorle che odiavo: appoggiai il bordo del<br />
bicchiere alla punta delle labbra.<br />
Puligheddu, al contrario, ne sorseggiò avidamente<br />
una buona metà, si ripulì la bocca con un gesto lentissimo.<br />
– Di raro, – ricominciò, – avviene che soggetti i<br />
quali soffrono di turbe nervose di natura isterica non<br />
presentino un’alterazione del campo visivo che si traduce<br />
in un restringimento del medesimo tanto per il<br />
bianco quanto per gli altri colori elementari. La Moledda<br />
era affetta da un forte restringimento del campo<br />
visivo in entrambi gli occhi, più spiccatamente a destra<br />
che a sinistra, tanto per il bianco come per i colori; il<br />
campo visivo dei colori in lei non era fisiologico: anziché<br />
avere campi visivi dei colori concentrici l’uno all’altro,<br />
come fisiologicamente dovrebbero risultare,<br />
questi tendevano ad incrociarsi e alcuni ad essere con-<br />
41
centrici ad altri che avrebbero dovuto avere il campo<br />
più vasto. – Ora Puligheddu si divertiva.<br />
– Il principio è chiaro, professore, – tagliai. – Ma<br />
quello che volevo sapere da lei è un’altra cosa: è possibile<br />
parlare di isterismo per un maschio?<br />
Il professor Puligheddu buttò giù un’altra sorsata<br />
del suo latte di mandorle. Prima di rispondere fece<br />
un lungo accenno col capo. – Certo può sembrare<br />
strano il parlare di isterismo in un uomo e certo l’etimologia<br />
della parola è in contraddizione quando si riferisce<br />
questa malattia ad un uomo, ma… la mia risposta<br />
è sì. Senza dubbio: qualunque sia la parola con<br />
cui viene designata una data forma morbosa è un fatto<br />
che isterici e affetti da isterismo sono anche i maschi,<br />
come Charcot dimostrò per primo… Tanto più<br />
che, dopo di lui, la letteratura è ricca di casi di isterismo<br />
studiati sull’uomo.<br />
Trangugiai tutto il mio latte di mandorle per riconoscenza.<br />
– Lei mi è stato molto utile, professore. Davvero<br />
utile, – dissi con entusiasmo sollevandomi <strong>dal</strong>la sedia<br />
e cercando il paracqua senza voltarmi per guadagnare<br />
l’uscita più presto possibile.<br />
Il professor Puligheddu si sistemò gli occhiali sul naso.<br />
– Approfitterei di questa occasione che ci ha fatto<br />
incontrare, se la cosa non le è di tedio, per sottoporle<br />
un’operina di poco conto: bagatelle, memorie cliniche<br />
in versi scritte alla maniera del Cavallotti: tengo alla<br />
sua opinione, – disse con voce sottilissima, porgendo-<br />
42<br />
mi un librino titolato Clinocefalìe che si era materializzato<br />
<strong>dal</strong>la tasca del suo pastrano.<br />
Quello che temevo. Allungai la mano per afferrare il<br />
librino come se fosse la notifica di un sequestro cautelare.<br />
– Lo leggerò con curiosità e… molto piacere, –<br />
stentai.<br />
– Resta sotto inteso che mi aspetto un cenno di commento,<br />
quando sarà riuscito a dare un’occhiata a questa<br />
mia fatica, qualche riga… ci tengo.<br />
– Lo farò senza dubbio, – mentii.<br />
Raggiungere il ristorante San Giovanni significava<br />
attraversare un fiume controcorrente. M’inerpicai<br />
usando il paracqua come un soldato romano teneva lo<br />
scudo quando si disponeva per la testuggine. L’acqua<br />
arrivava a bordate discontinue prima sulle ginocchia,<br />
poi sui polpacci. Camminavo rasente i muri per proteggermi<br />
il fianco. Il trabocco delle grondaie esplodeva<br />
sulla cerata del mio paracqua.<br />
Ero un grosso salmone che guizzava verso la cima del<br />
torrente. Qualche eroico passante avanzava inclinato<br />
come se volesse affrontare il getto imitandolo, adeguandosi<br />
a esso.<br />
I lastroni del corso in salita brillavano come marmi<br />
rigati da linee di pioggia trasparente.<br />
Tutto il piano stra<strong>dal</strong>e vibrava a scatti quasi che fosse<br />
febbricitante di malaria.<br />
43
Entrai nel ristorante con lo stesso sollievo di un naufrago<br />
che venisse tratto in salvo dopo una tempesta<br />
che aveva distrutto la sua barca.<br />
C’era caldo. Caldo <strong>dal</strong>le cucine. Caldo <strong>dal</strong>la pesante<br />
stufa di terracotta che andava a tutto regime nel centro<br />
della sala da pranzo.<br />
Tzia Mena preparò il tavolo alla buona. – Aspetto<br />
una persona, – dissi vedendo che assettava un solo coperto.<br />
– Dovrebbe arrivare a momenti anche l’avvocato<br />
Marongiu. Oh, tzia Mè, guardate di non farglielo<br />
nemmeno vedere il conto, poi ci arrangiamo noi, cumpresu?<br />
– S’abbocà, come vi va bene a voi. Capito: il conto ve<br />
lo devo portare a voi.<br />
– Proprio così. Anche se lui insiste per pagare.<br />
– Eja, eja: capito così.<br />
– Vino buono cosa c’avete?<br />
– Jerzu, Mandrolisai, ma c’ho anche il vino nuovo di<br />
Marreri che non ce n’è altro come quello.<br />
– E vada per il Marreri allora, è di quello di Chicchitto<br />
Secchi?<br />
– È di quello. Quest’anno è venuto una meraviglia.<br />
Giovannino Marongiu entrò in quel momento nel<br />
locale. – Maledetta pioggia, – sibilò. – Dovevo andare<br />
a Orune stamattina, ma non c’è stato verso di passare,<br />
– aggiunse togliendosi il cappello. – Sei andato alla festa<br />
di benvenuto? – mi domandò cavandosi il pastrano<br />
e cercando un posto per appoggiarlo.<br />
44<br />
– Per carità che benvenuto! Lasciamo perdere! Tante<br />
ne abbiamo già viste di queste cose.<br />
– Mh, sembra uno di polso… – commentò riferendosi<br />
al neoinsediato procuratore.<br />
– Ma quale polso e polso: ne ha fatte di più lui a Tempio<br />
che Carlo in Francia, – m’infervorai mentre Marongiu<br />
si metteva a sedere. – Dice che si è messo a fare<br />
pulizia: mi smobilita tutto l’ufficio della Pubblica Accusa,<br />
tutto compromesso; si lamenta se i difensori tentano<br />
accordi, si servono di informatori, accedono agli<br />
atti collaterali… E si fa carico della indispensabile<br />
obiettività favorendo l’ingresso dei continentali nei<br />
posti chiave. Insomma, non ha capito un accidente…<br />
– Beh, niente di nuovo…<br />
– Dai Giovannì, lo sai che non è così; lo sai che il fine<br />
ultimo di tutta questa operazione è condannare, fare<br />
opera di facciata e chi ci finisce in mezzo ci finisce in<br />
mezzo. Non è che questi continentali abbiano portato<br />
delle novità: le assoluzioni sono sempre di chi se le può<br />
pagare. Solo non conoscono l’ambiente in cui lavorano<br />
e ragionano come se un posto valesse l’altro.<br />
– Non ti facevo così sardista Bustià!<br />
– Ma no! Cosa c’entra, che cos’hai capito? Mica ce<br />
l’ho con i continentali! Ma penso che tutta questa<br />
manfrina finisca solo per assodare il concetto che i nostri<br />
difesi siano colpevoli comunque! Questo volevo<br />
dire: almeno con i colleghi del posto è possibile parlare<br />
la stessa lingua: insomma abbiamo peculiarità che van-<br />
45
no considerate! Che cosa siamo diventati: una colonia<br />
da civilizzare?…<br />
Tzia Mena venne a interromperci. – Oggi c’abbiamo<br />
maccarrones de busa o il minestrone, se lo volete, e<br />
cinghiale in umido e sartitza arrosto, – disse appoggiando<br />
sul tavolo mezze lune di pane carasau.<br />
Maccarrones de busa e cinghiale per tutti e due. La<br />
vecchia si ritirò con un gesto di approvazione: il locale<br />
cominciava a riempirsi un po’ troppo e questo la metteva<br />
in ambasce.<br />
– L’Italia è una nazione ancora troppo giovane: deve<br />
passare il suo tempo prima che riusciamo a parlare la<br />
stessa lingua. E non mi riferisco al linguaggio in se stesso,<br />
mi riferisco a quella cultura che, nel bene o nel male,<br />
è un nostro patrimonio comune. Non avevamo mica<br />
l’anello al naso quando l’hanno fatta quest’Italia!<br />
Questo dico: ci lascino il tempo di stabilire come vogliamo<br />
starci in questa nazione. Penso che saremmo<br />
italiani migliori se ci fosse permesso di entrarci da Sardi<br />
in questa nazione.<br />
– Sì, ma non possiamo pretendere leggi speciali o un<br />
ordinamento particolare solo perché noi non siamo<br />
pronti…<br />
– Questo non lo accetto! Non ne hanno fatte abbastanza<br />
di leggi speciali? Altroché se ne hanno fatte!<br />
Tutte per noi le hanno fatte! E tutte per punire! Le<br />
abbiamo viste lo scorso maggio in azione le leggi speciali!<br />
Arresti in massa. Quanti erano gli arrestati?<br />
46<br />
Quattrocento? Perquisizioni arbitrarie; bambini e<br />
persino donne incinte tirati giù <strong>dal</strong> letto, ammassati<br />
sul sagrato! Tutti delinquenti, tutti colpevoli! Molto,<br />
molto speciali queste leggi! Ma queste cose le conosci<br />
benissimo!<br />
– Certo che le conosco e sarei d’accordo con te se la<br />
maggior parte dei miei assistiti non fosse stata colpevole!<br />
Il nuovo procuratore ci prova come può: è possibile<br />
che veramente un gruppo di avvocati meno compromessi<br />
con la cultura del luogo riesca a lavorare con più<br />
obiettività…<br />
– Non discuto il principio. Non dico che non dovrà<br />
essere così. Dico che ci vuole il suo tempo e che ci vuole<br />
rispetto. L’unico risultato del nostro procuratore è<br />
che a Tempio non hanno mai avuto tanti latitanti e il<br />
tribunale è paralizzato da una sfilza di domande di trasferimento<br />
per il continente dell’intero gruppo di questi<br />
meno compromessi… E la gente se poco ci credeva<br />
nella Giustizia… Lasciamo perdere… Era un posto<br />
tranquillo… E ora ce lo ciucciamo noi, il pulitore! –<br />
conclusi guardando Giovannino Marongiu negli occhi.<br />
– Comunque non è di questo che volevo parlarti…<br />
– … Filippo Tanchis, – completò Marongiu.<br />
Accennai di sì.<br />
– Com’è che ci tieni tanto a questo caso?<br />
– Ci tengo perché non è colpevole.<br />
– Guarda Bustianu, ti sorprenderò, ma se te lo prendi<br />
a mano questo caso mi fai solo un favore: l’ho incon-<br />
47
trato quattro volte in galera, questo ragazzo, e non sono<br />
riuscito a tirargli fuori nemmeno una parola.<br />
– Bisognava impostare la difesa sull’infermità mentale,<br />
scusa se mi permetto… Non voglio criticare il tuo<br />
operato.<br />
– Figurati Bustià… – Tzia Mena carica di piatti fumanti<br />
come una divinità indù ci interruppe nuovamente.<br />
– Ce le avete le favette? – chiese all’improvviso<br />
Giovannino Marongiu. Tzia Mena abbassò il capo per<br />
dire che sì, che ce le avevano le favette. – Bustià? – mi<br />
chiese.<br />
– Perché no? – risposi con un’alzata di spalle.<br />
– Allora col cinghiale anche le favette, – concluse<br />
Marongiu.<br />
Tzia Mena lo guardò senza entusiasmo prima di ritornare<br />
verso la cucina.<br />
– Davvero non pensare che sono qui a insegnarti il<br />
tuo mestiere, – ripresi sommessamente appena inghiottito<br />
il primo boccone di maccarrones.<br />
– Figurati Bustià, – ripeté lui guardando il suo piatto.<br />
– Davvero, te lo ripeto, fatti firmare la delega e l’assistito<br />
è tuo. Ma non sono rose e fiori: guarda che quel ragazzo<br />
lì non è farina da far ostie e la famiglia non collabora.<br />
– Eh, appunto: che cosa mi dici della famiglia? – domandai<br />
mentre Marongiu trangugiava la pasta aiutandosi<br />
col cucchiaio.<br />
– Mh, tre fratelli: Filippo è il più giovane, poi c’è<br />
48<br />
quello di mezzo: Ruggero, e il più grande: Elias. Hanno<br />
perso i genitori tre anni fa. Vivono con due zie, le sorelle<br />
della madre: Pattusi Francesca, chi paret un’istrìa, e<br />
Pattusi Clorinda che è un bocciolo, non più giovanissima,<br />
ma cosa ’e bìere. Elias lavora al pubblico macello;<br />
Ruggero, che si sta per sposare, è massaio dei Sanna<br />
Contu a Predas Arbas e poi Filippo, su minor’e dommo.<br />
Per lui grandi progetti: studi regolari, magari un<br />
bel posto in un ufficio. Sennonché non riesce a superare<br />
nemmeno la terza elementare e sì che i genitori prima,<br />
le zie poi, si sono dannati l’anima per lui. Ma lui<br />
niente: vuol fare il soldato e non vede nient’altro. Dalla<br />
visita lo scartano per insufficienza toracica, ma lui non<br />
si dà per vinto: è convinto che se paga qualcuno lo arruoleranno.<br />
Fine. Ha fatto quello che ha fatto per procurarsi<br />
i soldi.<br />
– Quindi avrebbe ucciso il Solinas per derubarlo.<br />
– E gli ha trovato addosso solo un orologio, nemmeno<br />
d’oro.<br />
– Mh, bella storia non c’è che dire. Comunque se è<br />
riuscito ad avere la meglio su un uomo grosso il doppio<br />
di lui a mani nude tanto insufficiente non doveva<br />
essere.<br />
– Che cosa vuol dire? Il buio, l’effetto sorpresa…<br />
L’ha aggredito all’improvviso e magari il Solinas era<br />
uno che quando gli capitava si prendeva le sue cochére<br />
coi fiocchi.<br />
– Beveva molto?<br />
49
– E che ne so. Insomma sarà stato come tutti, uno<br />
che un bicchierino di vino o di abbardente in compagnia<br />
non lo rifiutava.<br />
– Quindi la sera in cui è stato ucciso era sbronzo?<br />
– E che ne so Bustià! Non mi sono mica messo a fare<br />
il giro dei tzilleri per domandare se e quanto aveva bevuto<br />
Bobore Solinas la sera in cui è stato ucciso. Dicevo<br />
per dire, per fare congetture.<br />
– Appunto per fare congetture: non è detto che fosse<br />
sbronzo, – dissi aiutando tzia Mena a fare spazio per il<br />
cinghiale e le favette.<br />
50<br />
Quella notte bisaju Gungui si fece tre o quattro giri<br />
di ballu tundu sul mio letto seguendo il duru duru della<br />
pioggia sulle tegole. Il fico e l’olivastro nella corte di<br />
casa chiacchieravano fitto: cose di piante che sbirciano<br />
oltre il muro di cinta verso la strada.<br />
Quella notte stormi di furfurajos mi vietavano il <strong>cielo</strong><br />
facendo strappi secchi con le ali come una cappa vibrante.<br />
Favette maledette.<br />
Il letto era di fango: un alveo argilloso. Le lenzuola<br />
fraziche mi inghiottivano in una voragine lattiginosa. E<br />
Bobore Solinas bevuto, fattu che a Santu Lazaru, giocava<br />
a sa murra sulla mia schiena.<br />
Il mio petto come il tamburo del banditore batteva i<br />
minuti e i secondi. Ed ecco Puligheddu al mio capezzale:<br />
tutto bianco, tutto luminoso di scienza che sprigionava<br />
<strong>dal</strong>le dita l’intera gamma di colori elementari<br />
nella mia stanza.<br />
Le assi del pavimento scrocchiavano all’unisono in<br />
un requiem di tarme.<br />
51
Quella notte al sonno si sostituì una specie di lento<br />
delirio, con la coscienza vigile e il corpo amorfo. Con<br />
le braccia impotenti e le tempie risucchiate da un gorgo<br />
di immagini.<br />
È solo pioggia che martoria la superficie esausta della<br />
terra e affetta le rocce con la pazienza di un coramaio<br />
che fa strisce di cuoio.<br />
Ora pare calata, ma è solo illusione che si è fatta sottile,<br />
e durissima, come il filo metallico che seziona il cubo<br />
di marmo alle cave. E suona la raganella nella notte<br />
di vischio.<br />
Non c’è pace. È solo pioggia. Il vento, da par suo,<br />
l’aiuta a raggiungere l’irraggiungibile, come se il progetto<br />
fosse di inzuppare ogni lembo, di irrorare ogni semente<br />
fino ad affogarla d’affetto.<br />
Quella notte mi stava attaccata ai reni come una<br />
chintorja stretta. Come l’abbraccio del lottatore alla<br />
strumpa.<br />
Non c’è pace.<br />
Troppo facile sarebbe riprendere il controllo se non<br />
ci fosse questo continuo gocciolare, questo continuo<br />
scolare di corpi madidi, questo infinito ticchettare.<br />
– Smetterà prima o poi, – dice mia madre che ha con<br />
gli elementi una confidenza passiva.<br />
52<br />
Anch’io l’ho detto qualche volta, senza convinzione:<br />
smetterà prima o poi, maledetta!<br />
E il cerchio della mia resistenza si spezza in un tumbare<br />
del cuore che mi carambola nella gabbia delle<br />
costole.<br />
Ecco il silenzio, ma è solo fingere, perché a stringere<br />
le palpebre anche le ciglia fanno rumore.<br />
Altre volte sarebbe bastato ricordare che faccio il<br />
Poeta. Che la Poesia mi ha salvato molte volte. Ma<br />
neanche la Poesia può servire nell’ultima notte del<br />
mondo.<br />
E forse questo penare, questo lasciarsi andare nella<br />
polla gurturja di questa parvenza di sonno si chiama<br />
solitudine.<br />
Non c’è pace. Ma ci sarebbe a condividere questo<br />
morire al buio e rinascere alla luce. Ci sarebbe con la<br />
testimonianza di un respiro al tuo fianco.<br />
Questo penso. Che ho trentadue anni, che mi faccio<br />
vecchio, che i giorni mi passano scivolando via come<br />
la pioggia, che la vita è un soffio, che la strada è in salita,<br />
che il corpo cede il passo, che anche le illusioni<br />
abbandonano la nave e i tempi belli sono solo scialuppe<br />
con le carene bucate, che non c’è più tempo, che<br />
domani è lo stesso e dopodomani anche… Che piove.<br />
Malaitta!<br />
* * *<br />
Zenobi entrò nel mio studio col bonette in mano. Il<br />
53
matrimonio gli aveva fatto bene: era in carne e pieno di<br />
vita. I capelli biondi gli incorniciavano la testa come<br />
un covone di grano. I suoi occhi azzurri esprimevano<br />
la riconoscenza dello scampato alla morte. – S’abbocà,<br />
– mi disse con apprensione. – Non state bene?<br />
– Niente di grave: ho passato una notte metzana, ma<br />
sto bene.<br />
– Con tutto il rispetto avete una faccia che non mi<br />
piace. Fatevi vedere <strong>dal</strong> dottore.<br />
– Sto bene, sto bene.<br />
– Mi avete fatto chiamare…<br />
– Ho bisogno di un favore…<br />
– Comandate s’abbocà, lo sapete: quello che vi serve…<br />
dovete solo dirlo: tutto quello che si fa per voi non<br />
è mai abbastanza. – Si illuminò. Ogni occasione gli<br />
sembrava giusta per suggellare la sua riconoscenza. –<br />
Quello che avete fatto per me, quando pensavo di essere<br />
un uomo finito, non si può ripagare.<br />
– Sisinnia come sta? – domandai tentando un sorriso.<br />
– È al terzo mese, s’abbocà: se è un maschio lo chiamiamo<br />
Sebastiano.<br />
– Sarà un maschio allora! – celiai. – Zenò, ascoltami<br />
bene, perché quello che sto per chiederti è una faccenda<br />
delicata, mi serve per un caso che sto seguendo… –<br />
Zenobi si accostò per permettermi di abbassare la voce.<br />
– C’è un certo Bobore Solinas, che è stato ucciso tre<br />
mesi fa a Istiritta…<br />
Zenobi assentì. – Ne ho sentito… – disse.<br />
54<br />
– Bene, il favore che mi devi fare è questo: voglio sapere<br />
dove è stato il giorno in cui è stato ucciso, il 4 settembre<br />
scorso. Fatti un giretto per i tzilleri perché dice<br />
che era uno che gli piaceva di bersi qualche bicchierino<br />
in compagnia. E forse quel giorno se ne è bevuto<br />
qualcuno di troppo… Cumpresu?<br />
– Non tema s’abbocà, a costo di alzare lui medesimo<br />
<strong>dal</strong>la tomba per chiedergli dove è stato. Tutto quello<br />
che si può sapere di questo Solinas io lo chiedo in giro…<br />
State tranquillo e riposate perché stamattina, con<br />
rispetto parlando, avete una grista di uno che ha visto<br />
il dimonio.<br />
– Vai Zenò e sappimi dire al più presto e grazie per<br />
ora…<br />
Zenobi si rabbuiò un poco. – Mì s’abbocà che grazie<br />
da voi non lo voglio nemmeno sentire: voi comandate<br />
e basta…<br />
La mattinata era trascorsa senza niente che valga la<br />
pena di riportare.<br />
Il pomeriggio fu inghiottito da una notte precipitosa.<br />
Guardai la mia padella, non erano ancora le cinque anche<br />
se la pendola nel corridoio la pensava diversamente.<br />
Aveva sempre fretta anche lei. Raimonda entrò in<br />
studio per accendere le lampade.<br />
– C’è quella lì, – disse non appena la stanza fu invasa<br />
da una luce cerea come spuntando da un quadro di La<br />
Tour.<br />
Alzai lo sguardo dai miei incartamenti rendendomi<br />
55
conto che fino a quel momento avevo letto e scritto<br />
quasi al buio. – E che cosa vi devo dire? Fatela entrare!<br />
Franceschina Pattusi avanzò con l’aria compunta di<br />
chi aspetta una condanna con dignità. – Sedete, sedete,<br />
– dissi con un certo entusiasmo. – Ho parlato con<br />
l’avvocato Marongiu… – Gli occhi della donna si fecero<br />
febbrili. – Ha detto che per lui va bene: firmiamo<br />
una carta e vostro nipote diventa un mio assistito.<br />
Il volto della donna si sciolse in un sorriso. – Dove<br />
devo firmare? – chiese solamente.<br />
– Ho preparato un documentino, devo averlo qui da<br />
qualche parte… Sedete, sedete, – dissi frugando nel<br />
caos della mia scrivania. – Il ragazzo è ancora minorenne<br />
e voi siete la tutrice legale, – presi tempo.<br />
Intanto la donna, che si era messa a sedere in quel suo<br />
solito modo un po’ rigido, si limitava ad assentire senza<br />
smettere di seguire ogni mio gesto con lo sguardo.<br />
Finalmente il foglio uscì a campu. – Ecco qua. Una<br />
firma bella chiara, – dissi indicando col dito lo spazio<br />
deputato.<br />
Franceschina Pattusi firmò protendendosi verso la<br />
mia scrivania senza alzarsi <strong>dal</strong>la sedia. Una firma stentata,<br />
ma bella chiara, con lettere larghe e distanti: Pattusi<br />
Francesca Emilia.<br />
– Buone notizie! – attaccai disponendo il documento<br />
appena firmato in un’apposita cartella. – Tentiamo con<br />
l’infermità mentale!<br />
56<br />
Alla donna si spense il sorriso <strong>dal</strong>le labbra.<br />
– Più che un tentativo, – incalzai constatando la delusione<br />
dei suoi occhi. – Ho parlato col professor Puligheddu,<br />
lui è disponibile a studiare il nostro caso!<br />
Le mani di Franceschina Pattusi presero a sfregare<br />
un panno invisibile sulle sue ginocchia.<br />
– L’estraneità è fuori discussione! – arrancai. – L’orologio<br />
del Solinas è stato trovato in tasca a vostro nipote.<br />
Se la cava con un ricovero. Volete la forca? – esagerai.<br />
Stavo perdendo la pazienza.<br />
Franceschina Pattusi trattenne un singhiozzo. – No,<br />
– disse semplicemente.<br />
– No? – feci eco come se non avessi capito.<br />
– No! – ripeté lei dopo essersi schiarita la gola. – Meglio<br />
morto che in manicomio.<br />
– Ma vi rendete conto? – mi sgolai. – Vi rendete conto<br />
di quello che state dicendo? Abbiamo l’assoluzione<br />
a portata di mano.<br />
Franceschina Pattusi continuava a scuotere la testa.<br />
– Guardate che così non risolviamo niente, – provai<br />
calmandomi un poco. – Bisogna che lavoriamo con<br />
quello che abbiamo. L’ho studiato bene questo caso:<br />
non ci sono alternative: vostro nipote se la può cavare<br />
solo in… quel modo.<br />
– E che vita gli prepariamo, s’abbocà? Una vita sulla<br />
bocca di tutti ca est unu maccu? A farsi ridere dietro<br />
dai ragazzini?<br />
– Voi lo sapevate! – Lo dissi all’improvviso nel mo-<br />
57
mento stesso in cui mi fu chiaro. – Lo sapevate! Era già<br />
successo?<br />
La donna si inumidì le labbra con la punta della lingua.<br />
– Non così… – si limitò a dire.<br />
– Non così cosa?<br />
– Insomma, non così grave… Che vita che abbiamo<br />
passato s’abbocà… Gli abbiamo detto che nell’esercito<br />
non l’hanno preso per insufficienza toracica, ma<br />
non era per quello…<br />
– Allora?<br />
– Allora era… così, fin da ragazzino! A un certo<br />
punto non era più lo stesso… mì che era affettuoso,<br />
dolce dolce, una femminuccia… Poi, un giorno, si è<br />
attaccato con un compagno di scuola, avrà avuto sì e<br />
no otto anni, e ha voluto il <strong>cielo</strong> che siamo riusciti a<br />
toglierglielo <strong>dal</strong>le mani! Quell’altro era un pitzinnone<br />
più grande, uno semplice abituato a stare in campagna<br />
e lui un’arrangadedda… Eppure… L’abbiamo<br />
dovuto ritirare da scuola: non c’era più pace. Solo armi<br />
e soldati: non vedeva altro… Ma non è sempre così,<br />
no… è tranquillo alle volte e risponde a tono, sembra<br />
la persona più buona del mondo, che quasi viene<br />
di pensare che… Boh… A volte sta zitto per giorni,<br />
anche settimane, che non è possibile costringerlo a<br />
parlare… Ojahi… Che cosa volete che vi dica… Pro<br />
sa zente…<br />
Scossi la testa per togliermi <strong>dal</strong>la faccia l’espressione<br />
di stupore che aveva commentato ogni singola parola<br />
58<br />
della donna. – E che cosa volete fare allora? – domandai<br />
strofinandomi le palpebre.<br />
– Tiratelo fuori <strong>dal</strong>la galera, che quello mi muore<br />
s’abbocà… Poi al resto ci penso io. O i fratelli.<br />
– Ci pensate voi? Come ci avete pensato la sera di tre<br />
mesi fa a Istiritta? – Nessuna risposta. Mutismo totale.<br />
Ero fuori di me. – E voi, sapendo tutto questo, tentate<br />
di portargli una leppa in galera? – rincarai.<br />
– Non mi era mai capitato prima: è stata una distrazione…<br />
Ohi, s’abbocà… Non ci fa niente con i coltelli…<br />
È che lui è fissato con la faccenda dei soldati e delle<br />
armi, ma poi non ci fa niente… Sennò lo pugnalava<br />
quel Solinas, no?<br />
– Se lo dite voi! Comunque è un rischio…<br />
– Io lo conosco! Io ho fatto un giuramento a mia sorella<br />
in punto di morte: Filippo in manicomio non ci finisce.<br />
– E se, puta caso, finisse per aggredire anche voi?<br />
– A me non mi aggredisce s’abbocà, non mi fa niente<br />
a me putacaso!<br />
– Tzia mea è una responsabilità che non vi potete<br />
prendere! Magari è una cosa che si può curare…<br />
– Ho giurato…<br />
Da solo, nel mio ufficio ero infuriato. Maledetta<br />
ignoranza. Mi faceva imbestialire il pensiero che tutto<br />
quanto era spacciato per affetto non era nient’altro<br />
59
che bieco egoismo. Sa zente. Quello che dice la gente.<br />
Quello che pensa la gente. Ero infuriato: un malato rischiava<br />
il massimo della pena perché la gente non sapesse<br />
che era malato. Per questo. Che a ripetermelo mi<br />
faceva salire il sangue al cervello.<br />
Franceschina Pattusi era stata chiara. Disse che era<br />
un marchio che si sarebbero portati tutti, come un segno<br />
a fuoco sulla fronte: Pattusi sos maccos. Anche i<br />
fratelli sani: Elias e Ruggero, che avevano diritto a una<br />
vita in mezzo agli altri, senza vergogna. Che la malattia<br />
è roba da custodire dentro casa, non roba da esporre a<br />
tutti. E Clorinda? Sua sorella minore, che marito<br />
avrebbe trovato con un matto in famiglia? Così andava,<br />
non era mica semplice affrontare gli sguardi della<br />
gente! Franceschina Pattusi disse che parlavo bene io,<br />
che problemi non ne avevo grazie a Dio; che non dovevo<br />
vergognarmi di niente grazie a Dio.<br />
E poi aveva giurato, Franceschina Pattusi, aveva giurato<br />
alla sorella…<br />
E se n’era andata: era uscita <strong>dal</strong> mio ufficio senza<br />
neanche lasciarmi finire di parlare. Che non ci mancano<br />
avvocati, a Nùoro!<br />
Ero furioso.<br />
Ero furioso quando mi rimisi a sedere guardando la<br />
sedia vuota davanti alla mia scrivania. Ero talmente furioso<br />
che avrei dato non so che cosa in quel momento<br />
60<br />
per non trovarmi in quella situazione. Accesi un sigaro.<br />
Lo spensi dopo due tirate spappolandolo nel posacenere.<br />
Mi alzai per fare qualcosa che mi passò di mente<br />
una frazione di secondo dopo che mi ero alzato.<br />
Così decisi di uscire <strong>dal</strong>lo studio. Rimasi qualche secondo<br />
immobile nel corridoio tra la scala che portava<br />
al piano superiore e la cucina. Decisi per la cucina.<br />
E feci l’errore della vita mia.<br />
Entrai senza dire una parola. Rovistai nella credenza<br />
alla ricerca di un bicchiere, giusto per dare un senso alla<br />
mia presenza.<br />
Mia madre non alzò nemmeno lo sguardo <strong>dal</strong>la camicia<br />
che stava rammendando. I suoi occhi non avevano<br />
bisogno di vedere per percepire la burrasca.<br />
Tutto andò bene finché la stanza fu come risucchiata<br />
in un silenzio tesissimo.<br />
Tutto andò bene finché Raimonda non decise di<br />
romperlo quel silenzio.<br />
E fece l’errore della vita sua.<br />
– È arrivato questo, – disse porgendomi una busta<br />
senza sollevare la testa. La sua mano e la busta brancolavano<br />
nel vuoto, come se chi la porgeva non sapesse<br />
esattamente in quale punto della stanza mi trovassi.<br />
La lasciai col braccio teso per qualche secondo, urlando<br />
a me stesso che dovevo stare calmo.<br />
Poi afferrai la busta cercando di tenere la stizza sotto<br />
controllo. Che c’entrava lei in fondo con le mie questioni<br />
professionali? Se fossi stato in grado di aggioga-<br />
61
e il caratteraccio che mi trovavo sarei stato una persona<br />
molto più felice. Ma questo lo sapeva anche lei, e sapeva<br />
che bastava lasciarmi stare… Ma lei no! Lo sapeva<br />
che quando mi trovavo in queste situazioni bastava<br />
un nonnulla… Insomma il risultato fu che le strappai<br />
la lettera di mano. Poi me ne pentii e tentai di recuperare.<br />
Lottai contro la busta che non voleva saperne di<br />
aprirsi. Finalmente estrassi un cartoncino. – È un invito<br />
per uno spettacolo, – farfugliai leggendo a voce alta<br />
tentando il tono più tranquillo di questo mondo.<br />
– Che cosa c’hai? – chiese lei concentrandosi in un<br />
punto particolarmente complesso del suo lavoro di cucito<br />
per non sollevare la testa.<br />
– Uno spettacolo di ipnosi… – glissai a denti stretti.<br />
– Che cosa c’hai? – ripeté alzando la voce, ma senza<br />
cambiare inflessione rispetto alla domanda precedente.<br />
Presi un respiro profondissimo, come prima di un<br />
salto. Lasciando cadere il cartoncino sul piano del tavolo<br />
arrancai verso il bicchiere che avevo abbandonato<br />
poco prima. Mi guardai intorno in cerca della brocca.<br />
E fu a quel punto che lei mi guardò. Smise di cucire.<br />
Posò entrambe le mani, inerti, sul suo grembo e sollevò<br />
la testa. Aveva sempre la stessa domanda negli occhi.<br />
Abbandonai la ricerca. Stetti a fissarla per una frazione<br />
di secondo. – Niente! Che cosa c’ho! Niente c’ho!<br />
Va bene? – sbottai, e tutta la rabbia che avevo in corpo<br />
mi uscì <strong>dal</strong>la gola con una specie di ruggito.<br />
62<br />
– Se va bene per te… – ironizzò mia madre ritornando<br />
al cucito. Facendo il muso.<br />
Avevo rotto gli argini. – Giornata storta, va bene? Sta<br />
piovendo da chissà quanto e dormo male e… E… Va<br />
bene? – Il muso di mia madre cresceva. Un sospiro<br />
scettico. – Sono sfinito… Non cominciate col muso! –<br />
Faccia da idolo ittita. – Scusatemi… Va bene? Sono irritabile:<br />
è la pioggia, lo sapete no? – Ghiaccio polare. –<br />
E dai ajò… Lo sapete!… Dai che vi porto a vedere lo<br />
spettacolo, – implorai a un certo punto afferrando il<br />
cartoncino <strong>dal</strong> tavolo. Paresi totale del volto. – E dai,<br />
venite qui guardate, dai che ci andiamo: un fachiro, un<br />
vero fachiro indiano… – Paresi totale del corpo. – Fate<br />
come volete! Io vado a prepararmi!<br />
Occorsero minuti di silenzio grave prima che il paiolo<br />
sul fuoco cominciasse a far fumare l’acqua per la<br />
toeletta. Me ne stetti a guardare la superficie trasparente<br />
saggiandola con un dito di tanto in tanto: ancora<br />
fredda, tiepida… Raimonda continuò a fare il suo lavoro<br />
di cucito con un fervore da sposina che si prepara<br />
il corredo. Io le davo le spalle accucciato davanti al camino,<br />
poi, a un certo punto, decisi che poteva bastare,<br />
che calda o non calda quella situazione d’attesa non<br />
poteva durare. Portai il paiolo fumante in camera mia.<br />
Versai l’acqua sul catino, vi immersi il viso. Mi sollevai<br />
dopo un tempo infinito di silenzio perfetto. Lo specchio<br />
rimandò una faccia stanca…<br />
Raimonda non si era ancora mossa quando, dopo<br />
63
un’ora buona, ritornai in cucina, barbivattu e impomatato.<br />
Né disse una parola quando mi vide indossare<br />
il soprabito all’inglese sull’abito scuro, quello elegante.<br />
Niente di niente nemmeno quando afferrai il paracqua<br />
e spalancai l’uscio di casa… per uscire.<br />
Ero furioso.<br />
Il… Più grande spettacolo del mondo si teneva nell’Aula<br />
Pubblica Municipale straordinariamente addobbata<br />
per la bisogna… Proprio di fronte all’ingresso, dove<br />
due valletti, in un costume che doveva sembrare indiano,<br />
accoglievano lo scelto pubblico, c’era un goffo<br />
piano rialzato bordato di drappi rossi che doveva fungere<br />
da palcoscenico. Il fon<strong>dal</strong>e era una visione di<br />
Bombay al tramonto. Per lo meno così mi parve. Ma<br />
non ci giurerei. Molta gente che conoscevo come al solito:<br />
salutai questo e quell’altro, feci i complimenti di rito<br />
a questa e quell’altra signora, feci un cenno al mio<br />
amico Poli che si pavoneggiava con due signorine in<br />
blu, esponendo le sue lucidissime mostrine da maresciallo…<br />
Vagai come un’anima in pena, nell’ultimo posto<br />
dove avrei voluto essere: odiavo i fachiri, odiavo la<br />
pioggia e quella sera odiavo anche me stesso.<br />
Lei stava in piedi. Era bella. Si guardava attorno imbarazzata.<br />
Aspettava qualcuno. Ero deliziato <strong>dal</strong>la gof-<br />
64<br />
faggine del suo vestito che pareva malricucito sulla sua<br />
persona snella e del suo cappello di paglia, con una<br />
ghirlanda di fiori secchi.<br />
Mi avvicinai a pochi passi da lei. – È occupato? –<br />
chiesi indicando una sedia alla sua sinistra.<br />
Abbassò la testa. Fece segno di no. Mi sedetti, non<br />
prima di averla invitata a fare lo stesso. Ma lei scosse la<br />
testa, riguadagnò lo spazio centrale in mezzo alla platea<br />
e si diresse verso l’uscita.<br />
La vidi ritornare proprio quando uno dei valletti faceva<br />
tintinnare la seconda campanella.<br />
Mi rialzai, per aiutarla a sentirsi a suo agio. Ora che<br />
mi era così vicina potevo aspirare l’odore di mughetto<br />
che emanava la sua nuca. Proprio nel punto da cui si<br />
originava una massa di capelli neri come ali di corvo<br />
raccolti in una crocchia sotto al cappello.<br />
Suonò la terza campanella.<br />
– Sieda, – azzardai vedendo che la sedia alla sua destra<br />
restava vuota.<br />
Scosse la testa. – Io non la conosco, – sussurrò con<br />
più orgoglio che vergogna.<br />
Mi presentai affilando il mento e porgendo la mano<br />
senza il guanto.<br />
Lei restò a guardarmi con sconcerto. Gli occhi nella<br />
nebbia della veletta le erano diventati grandissimi per<br />
la sorpresa. – Pattusi… Clorinda, – disse d’un soffio.<br />
Da quella prospettiva il suo cappello di paglia, inghirlandato<br />
di fiori secchi, inadeguato alla serata piovosa,<br />
65
faceva l’effetto di una coroncina funeraria. Di quelle<br />
che le orfanelle portano alle esequie dei morti importanti.<br />
La mia faccia era sgomento puro. Altro che sconcerto.<br />
Tuttavia, con un autocontrollo che non mi conoscevo,<br />
sfiorai la punta della mano di lei nel gesto consueto<br />
di chi suggella un incontro e, facendo questo, con un<br />
dito saggiai la sericità del guanto che la avvolgeva.<br />
– Coincidenza meravigliosa! – si affrettò a constatare<br />
fingendo di aver afferrato il mio nome solo in quel momento,<br />
dopo aver tirato indietro la mano come se l’avesse<br />
posata su un piano incandescente. – Proprio stamattina<br />
ho parlato di voi con mia sorella, – concluse<br />
vedendo che il Salone cominciava a riempirsi di gente.<br />
Fu a questo punto che Clorinda ebbe un leggero moto<br />
d’imbarazzo.<br />
– Aspettate qualcuno? – domandai dando un’occhiata<br />
fugace e inquieta alla sedia vuota nel suo lato<br />
destro.<br />
Fece segno di sì. – Un’amica, – chiarì finalmente. –<br />
L’ho aspettata fino al terzo campanello… Un contrattempo,<br />
non sarà riuscita a venire. Non sapevo se entrare<br />
o meno… Se lo sapesse mia sorella che sono entrata<br />
da sola…<br />
– Sono felice che abbia deciso di entrare. – La mia<br />
voce esprimeva un entusiasmo sincero. Il primo della<br />
giornata. Il primo da qualche tempo, a dire il vero. Me-<br />
66<br />
raviglie della genetica: Clorinda Pattusi non assomigliava<br />
in nulla alla sorella: era bella esattamente nella<br />
misura esatta in cui quell’altra era brutta. “La mia piccola<br />
regina bizantina,” questo pensai guardandola. Da<br />
subito come deve accadere a un poeta: che sa. Non sa<br />
perché, ma sa. E questo bastava persino a farmi dimenticare<br />
la pioggia. – Mi consideri fin d’ora il suo cavaliere.<br />
Sono solo anch’io: salviamo le convenienze.<br />
Clorinda mi squadrò a lungo: ero alto, avevo un viso<br />
largo non privo di fascino. Perché fingere, perché essere<br />
modesti in questi frangenti? Avevo labbra carnose<br />
incorniciate da una peluria corvina la cui cura avrebbe<br />
potuto richiedere ore di applicazione, per quanto ne<br />
sapeva lei. I miei occhi erano tizzoni di un nero profondo.<br />
Le mani erano di un pallore trasparente, lunghe e<br />
affusolate. Io so che Clorinda guardandole pensò: “mani<br />
da pianista, mani da scienziato,” o, più semplicemente,<br />
“mani da avvocato”. E invece no: mani da Poeta…<br />
Fissavo il palcoscenico di fortuna con lo sguardo di<br />
lei attaccato al lato destro del viso. Decisi che non mi<br />
sarei voltato.<br />
– Il bello è che è stata lei, la mia amica, a convincermi<br />
a venire! E poi non arriva all’appuntamento… – commentò<br />
Clorinda spostandosi la veletta <strong>dal</strong>la bocca. –<br />
Non ero nemmeno sicura di volerlo vedere questo<br />
spettacolo. Sono in apprensione, dicono che sia impressionante.<br />
67
La guardai abbozzando un sorriso. I baffi impomatati<br />
mi scattarono verso l’alto. – Si tratta solo di jongleries,<br />
mia cara, – dissi, cercando di dare a quel mia cara<br />
un tono paterno.<br />
A quel punto le luci si spensero. La sedia rimasta<br />
vuota affianco alla mia regina fu ben presto occupata<br />
da un giovanotto restato in piedi fino all’attacco dell’orchestra.<br />
Il fachiro Amhed Bessaui, reduce dai successi riportati<br />
nei più famosi teatri del nuovo e del vecchio mondo,<br />
era un uomo corpulento, scuro di carnagione. Si<br />
posizionò al centro del palcoscenico invitando alla concentrazione<br />
e al silenzio. Cominciò a parlare con voce<br />
profonda. Un ometto in bombetta, apparso in proscenio,<br />
traduceva simultaneamente <strong>dal</strong> suo curioso linguaggio.<br />
– Quelli che state per vedere sono i risultati<br />
della concentrazione di un uomo considerato santo.<br />
Credono i sufi che l’incontro col Divino renda il corpo<br />
puro involucro e l’anima corazza potente. Dolore e piacere<br />
divengono semplici gradienti di debolezza, sintomi<br />
di un incontro mancato, di un falso contatto… Allah<br />
possa dimostrare la sua potenza!<br />
L’oboe attaccò un pezzo avvolgente. I due valletti di<br />
prima, questa volta seminudi, ma col turbante, portarono<br />
in scena un braciere <strong>dal</strong> quale spuntavano barre<br />
incandescenti. Il fachiro serrò le palpebre brancolando<br />
verso le barre. Stringendo le labbra ne afferrò una<br />
proprio nel lato incandescente.<br />
68<br />
Il petto di Clorinda si gonfiò come a trattenere più<br />
aria di quanta sarebbe stata necessaria per respirare.<br />
Un uh secco secco le scaturì <strong>dal</strong>le labbra ad anello. La<br />
sua mano guantata artigliò lo spazio davanti a lei come<br />
a cercare un punto d’appoggio. Distogliendo lo sguardo<br />
<strong>dal</strong> palcoscenico si voltò verso di me: aveva nel viso<br />
un che di infantile come se non potesse fare a meno di<br />
guardare qualcosa che le faceva paura.<br />
– Jongleries, – le ripetei rassicurante.<br />
Intanto <strong>dal</strong> teatro si era alzato un boato sommesso.<br />
Un ohhhh di sgomento generale quando il fachiro aveva<br />
appoggiato il ferro incandescente alla lingua…<br />
– Un cordiale! – ordinai al barista. – Ne avete bisogno,<br />
– le sussurrai.<br />
La condussi a un tavolino aiutandola a sedersi.<br />
Ora che l’avevo di fronte, potevo guardarla con agio.<br />
Era meno giovane di quanto avessi creduto. Ma non<br />
spiacevole. Il naso troppo pronunciato forse, e gli occhi<br />
troppo ravvicinati, di un nero opaco. Qualche ruga<br />
cominciava a segnarle il collo. Nell’insieme faceva<br />
pensare a una donna fragile e tenace allo stesso tempo.<br />
– Uno anche per me! – mi affrettai a dire, solo in<br />
quel momento mi ero accorto che era arrivato un cameriere.<br />
– Non ho l’abitudine di accettare inviti dagli sconosciuti,<br />
– stava dicendo lei. – Ma dopo quello spettacolo,<br />
mio Dio! Cavarsi gli occhi in quel modo! – esclamò<br />
69
ipensando all’esercizio del fachiro che l’aveva fatta<br />
gemere. – È stato peggio del pugnale infilato nella<br />
guancia.<br />
Scossi il capo aspettando che il cameriere, tornato<br />
con le ordinazioni, concludesse il suo rito di apparecchiamento.<br />
– Gli occhi sono muscoli! – dissi fissandola.<br />
– Qualunque fisiologo potrebbe dimostrare che un<br />
esercizio quotidiano, la sollecitazione costante dei nervi<br />
ottici, può produrre un aumento dell’elasticità fino a<br />
far credere che realmente i bulbi oculari schizzino <strong>dal</strong>le<br />
orbite. Ma questo non significa che ciò accada realmente.<br />
Quanto al pugnale nella guancia, la pelle del viso<br />
è assolutamente elastica, non avrete pensato che<br />
quel pugnale fosse davvero in grado di bucare? Esercizio<br />
mia cara, quotidiano esercizio, i giusti movimenti,<br />
una musica affascinante, un linguaggio incomprensibile.<br />
Tutto pensato nei minimi particolari. – Avevo detto<br />
mia cara preparando le labbra a sorbire il cordiale<br />
versato fino all’orlo del bicchierino.<br />
– Volete dire che si trattava solo di trucchi? – domandò<br />
lei con perspicacia prodigiosa.<br />
Affilai il naso. – È quello che voglio dire, mia cara.<br />
– Non posso crederci, sembrava tutto così reale! –<br />
commentò lei senza riuscire a trattenere una risatina<br />
isterica.<br />
Mi permise di accompagnarla verso casa e aveva<br />
70<br />
quasi smesso di piovere. Ora tutto brillava di stelle<br />
trattenute a stento nel paniere a maglie larghe delle nubi.<br />
Ora <strong>dal</strong> <strong>cielo</strong> di opale screziato sulle nostre teste<br />
promanava un effluvio delicato che aspergeva le case<br />
circondandole di un’aura vaporosa e magica. Le luci<br />
allineate dei lampioni erano festoni di sfere luminescenti<br />
che andavano a specchiarsi sulla superficie lustrata<br />
del piano stra<strong>dal</strong>e.<br />
Ora sì. La tempesta sembrava passata, il mio cuore<br />
era improvvisamente calmo e pieno di aspettative come<br />
quello di un neonato che si accuccia fra i seni materni.<br />
Camminavo precedendo Clorinda di poco, per<br />
guidarla, per segnalare ai suoi piedini, calzati da due<br />
polacchine sottilissime, quasi due lame di coltello, ora<br />
una pozzanghera dentro cui annegava una porzione di<br />
luna, ora un lastrone particolarmente scivoloso terso<br />
come la schiena di uno stallone.<br />
Ora la mia testa era un rutilare di immagini soavi che<br />
piroettavano. Sì, dentro al mio corpaccione goffo, le<br />
metafore danzavano una polka sfrenata, i versi si intrecciavano<br />
come i serti delle ninfe dei boschi. Anche<br />
le montagne se la ridevano solleticate <strong>dal</strong>la dolcezza<br />
improvvisa di quella notte.<br />
Oddio che notte fu quella!<br />
La luna sfolgorante che lanciava dardi giallo oro oltre<br />
il tessuto strappato delle nubi.<br />
Clorinda che avanzava a passetti, attenta a non bagnare<br />
l’orlo della gonna.<br />
71
Clorinda, signori miei, e ancora mi vengono le lacrime<br />
agli occhi! Un nome di pura, sfavillante poesia, proprio<br />
come una corazza barocca, istoriata d’ottoni.<br />
Clorinda guerriera, e io Tancredi.<br />
– Fermiamoci qui, – disse a un certo punto. – Sono<br />
quasi arrivata… Così va bene, – disse ancora. – Lei è<br />
stato gentile, – disse ancora. – Le auguro una buona<br />
notte. – Ancora…<br />
Mi porse la manina guantata. L’afferrai saldamente.<br />
– Ecco… – provai. – Posso ardire… – Lei ritirò la mano<br />
e aggrottò le sopracciglia. – Pensavo che magari…<br />
– riprovai. Stava immobile in attesa che riuscissi a finire<br />
una frase. – Buonanotte, – sparai all’improvviso.<br />
– A presto, – disse lei allargandosi in un sorriso.<br />
Un vento stranamente caldo si era alzato. E mi indicava<br />
la strada di casa con buffetti sulla nuca. La pioggia<br />
si era trasformata in una condensa spaporosa di tiepido<br />
umidore.<br />
Mi abbracciai. Strinsi me stesso afferrandomi le spalle<br />
con le mani incrociate. – Andrà tutto bene, – urlai<br />
contro la sottana lisa del <strong>cielo</strong>. – Andrà tutto bene.<br />
72<br />
Il mio incubo peggiore l’ho avuto a cinque anni.<br />
C’era una specie di burrasca nel <strong>cielo</strong>, un vorticare<br />
febbroso di nembi marini, rossi, abbaglianti. C’era una<br />
specie di silenzio pieno di brontolii.<br />
E i brontolii si facevano sempre più vicini. Come se<br />
quelle nubi rosse allungassero le mani e mi stringessero<br />
le tempie. Tutto tremava. Tremava davvero. A colpi<br />
frequenti: l’enorme battito di un enorme cuore sopra<br />
di me. Che trasudava sui miei vestiti, sulle mie mani,<br />
pronto a esplodere. E io avevo cinque anni. Ed ero solo,<br />
a guardare da un orrido tutta quell’esplosione di<br />
sanguinaccio sopra di me. E il mare sotto. Schizzi grassi<br />
mi colpivano il viso e le mani. <strong>Sangue</strong>. <strong>Sangue</strong> <strong>dal</strong><br />
<strong>cielo</strong>.<br />
Proprio in quel momento, senza nemmeno la coscienza<br />
di farlo, stavo avendo l’incubo di un me stesso<br />
che aveva quell’incubo.<br />
La mattina era di piombo.<br />
* * *<br />
73
Lo sguardo di mia madre incrociò il mio appena per<br />
un istante in cucina. Tanto bastava. Tutto normale all’apparenza:<br />
la colazione pronta, il fuoco ravvivato nel<br />
camino. Solo i suoi occhi mantenevano quell’ostilità<br />
implorante che mi metteva in guardia.<br />
– Buongiorno, – bofonchiai mentre mi sedevo per la<br />
colazione.<br />
Rispose con un gesto del mento.<br />
– Ho detto buongiorno, – provocai.<br />
– Eh, buongiorno, buongiorno… – fece lei sbrigativa.<br />
– Guardate che ieri sera vi siete umbrata per niente:<br />
ero stanco, lo sapete come mi capita…<br />
– Cosa vuoi che ti dica, – attaccò. – Vuol dire che stamattina<br />
sono stanca io: sono stanca che mi tratti come<br />
una serva!<br />
– Ma che serva? Cosa state dicendo? E quando mai.<br />
– Senti, – disse lei dopo un lungo sospiro. – Un posto<br />
da tuo fratello è sempre libero, quando vuoi stare per<br />
conto tuo basta dirlo… Io levo il disturbo.<br />
– Ma cosa state dicendo? Che cosa ho fatto? – Avevo<br />
il tono di un bambino scoperto a rubare.<br />
– Se non lo sai tu! – rintuzzò lei.<br />
– Sentite, oggi è una bella giornata, vedete: ha smesso<br />
di piovere…<br />
– E… ieri sera… ti sei divertito? – domandò centellinando<br />
le parole. Poi stette a guardarmi.<br />
– Vi hanno già informata! Complimenti! Ah, mi sono<br />
74<br />
divertito, altroché! – esagerai. – E allora? Sono grande<br />
abbastanza!<br />
– Sì, ma… di cervello, evidentemente, sei rimasto<br />
piccolo. – Il fendente arrivò forte e chiaro.<br />
Silenzio.<br />
Mi si chiuse lo stomaco. Ero furioso: solo mia madre<br />
riusciva a farmi raggiungere quei livelli. Provai a inghiottire<br />
una cucchiaiata del mio latte. – Che cos’è che<br />
vi rode? Quale tarlo c’avete? – urlai quasi.<br />
– Se proprio lo vuoi sapere te lo dico, – scandì mettendosi<br />
a sedere di fronte a me.<br />
Silenzio.<br />
– Quella Pattusi è una chiacchierata, – sillabò a un<br />
certo punto.<br />
– Ah, è questo… – constatai.<br />
– Io non ce la voglio a casa mia. Io lo sapevo. Altroché<br />
se lo sapevo, me l’ero visto in bisione che finiva<br />
così! – Ora provava la corda patetica.<br />
– Ma di cosa vi andate preoccupando? – domandai e,<br />
in quel momento, ero sincero. – Quello è lavoro! Recattu!<br />
Il pane che mangiamo! Eh, ieri sera l’ho incontrata<br />
per caso, non è stata bene, l’ho accompagnata verso casa,<br />
allora? A trentadue anni devo dare spiegazioni?<br />
– Il caso, figlio mio, ce lo facciamo noi. Quella con<br />
l’aiuto di quella maghjarja della sorella grande ti ha<br />
messo gli occhi addosso e Dio ne scampi!<br />
– State dicendo cose che non esistono! Che non stanno<br />
né in <strong>cielo</strong> né in terra!<br />
75
– Eja eja: vedrai quello che ti sto dicendo! Comunque<br />
finché sono viva io… Dio ne scampi.<br />
Era la pietra tombale sulla discussione.<br />
Provai a finire la colazione, ma non c’era verso: gola<br />
serrata. Mi alzai. – Vado a fare quattro passi, – sussurrai.<br />
Non avevo ancora finito di indossare il soprabito che<br />
bussarono alla porta.<br />
Guardai ancora una volta il maresciallo Poli con un<br />
misto di apprensione e sospetto. – Morto? – domandai<br />
per l’ennesima volta.<br />
– Stanotte, – mi ripeté lui paziente. – Si è tagliato le<br />
vene. L’hanno trovato al cambio di turno.<br />
– Come sarebbe? Suicidato! – Non sapevo dire altro.<br />
– Il referto del medico non lascia dubbi.<br />
– Medico? Chi sarebbe questo medico?<br />
– Avvocà, Orrù: il medico del carcere!<br />
– Ah sì, Orrù, Orrù… I familiari sono stati avvertiti?<br />
– Un’ora fa… Sono venuto di persona ad avvertirvi<br />
perché la zia del morto vi ha indicato come legale incaricato…<br />
– Siete stato gentile.<br />
– State bene?<br />
– Sì, sì, sto bene, sto bene: è solo che non riesco a capire…<br />
Come ha fatto?<br />
– Coltello, l’abbiamo trovato affianco alla vittima incastrato<br />
in una crepa del pavimento.<br />
76<br />
– Ma come ha fatto a procurarselo?<br />
– Stiamo indagando… A questo proposito, proprio<br />
la zia, tempo fa, aveva cercato di fargliene avere uno…<br />
L’ipotesi è che ci sia riuscita…<br />
– Non siamo assurdi, maresciallo! State dicendo che<br />
Filippo Tanchis è stato spinto a suicidarsi?<br />
– È la conclusione più logica. Mancavano tre settimane<br />
al processo.<br />
– Non diciamo fesserie, maresciallo, quella donna si<br />
sarebbe fatta massacrare per il nipote! Voleva farlo<br />
scarcerare a tutti i costi.<br />
– Eh, ha detto bene: a tutti i costi.<br />
Restai un minuto buono in piedi in silenzio. Natalino<br />
Orrù mi dava le spalle. Ordinava flaconi in una specie<br />
di armadio con ante a vetri. La porta del suo ambulatorio<br />
era spalancata. Non avevo dovuto bussare. Mi ero<br />
limitato a fare qualche passo all’interno e ad aspettare<br />
in piedi che si accorgesse di me.<br />
– Natalì… – sussurrai per farmi notare senza spaventarlo.<br />
– Oh, Bustià, da queste parti? – disse semplicemente<br />
senza nemmeno voltarsi.<br />
– Dai dai che te la aspettavi una mia visita.<br />
– Sì, me l’aspettavo… È per il suicidio di quel Tanchis?<br />
– completò indirizzandomi una risatina complice.<br />
77
Accennai di sì. – Come l’avete trovato?<br />
– Non lo so, quando sono arrivato l’avevano già<br />
spostato: c’erano orme di sangue dappertutto: era difficile<br />
camminare senza pestare il sangue e si scivolava<br />
come al mattatoio. L’unica cosa chiara è che si è sgarrato<br />
i polsi da seduto, ha lasciato che il sangue colasse<br />
sul pavimento. Poi ha perso i sensi, cadendo ha battuto<br />
la nuca al bordo del tavolaccio.<br />
– Seduto?<br />
– Sì, la camicia era completamente zuppa nella<br />
schiena e perfettamente pulita sul davanti e sulle spalle.<br />
Segno che si è imbibita dopo la caduta. Inoltre la<br />
porzione del pavimento sotto ai calzoni era pulita:<br />
non si è seduto sul sangue, il sangue è colato dopo.<br />
Solo se il Tanchis si fosse seduto… dopo essersi sgarrato<br />
i polsi avrebbe avuto il fondo dei calzoni imbrattato.<br />
Mi spiego? Il sangue coagula, all’aria si raddensa<br />
in pochi minuti… Se i tagli sono fatti con decisione<br />
c’è una fuoriuscita abbondante e costante. Ma ci vogliono<br />
più o meno dieci minuti a perdere i sensi…<br />
Non ci sono dubbi.<br />
Non ci sono dubbi. A volte mi piacerebbe riuscire a<br />
pronunciare questa frase senza l’amaro in bocca. Mi<br />
piacerebbe anche una verità pulita e semplice come<br />
una buona tazza di latte… Natalino Orrù è una bravissima<br />
persona, ma ha la tendenza a farla troppo facile,<br />
come quella volta che diagnosticò un’indigestione per<br />
78<br />
un caso di peritonite che portò il malato quasi alla<br />
tomba. Semplice mal di pancia, sentenziò. Sennonché<br />
il malato era il figlio di una persona potente che non<br />
aveva gradito la svista. Così si rivolse a me. Ci volle del<br />
bello e del brutto per farlo rinunciare a procedere, ma<br />
alla fine ci accordammo per una strigliata. Così dovetti<br />
andare da Natalino Orrù in ambulatorio. Gli dissi che<br />
si era scampato una denuncia per negligenza solo perché<br />
il ragazzo grazziaddio si era salvato e il padre aveva<br />
rinunciato a procedere, ma non a mandargli tramite<br />
me un avvertimento per il futuro. Sarà stato tre o quattro<br />
anni fa.<br />
Lui mi guardò con l’espressione più incredula che<br />
avesse a disposizione e mi disse che errore non ce n’era<br />
stato: peritonite o indigestione sempre di mal di pancia<br />
si trattava, non c’era dubbio…<br />
Insomma, la verità. Un giovane che si toglie la vita in<br />
carcere e non ci sono dubbi. A volte mi scopro a pensare<br />
che per non avere dubbi bisognerebbe conoscere<br />
cose che neanche una vita basterebbe a conoscere.<br />
E io non sono così sicuro di esserne capace.<br />
Per questo dovevo vedere Carrus, la guardia carceraria.<br />
Lo cercai alla Rotonda, mi dissero che aveva fatto il<br />
turno di notte. Mi dissero che sarebbe stato in turno<br />
solo nel pomeriggio. E io non potevo aspettare.<br />
Non volevo aspettare. Bustià unu raju chi ti falete:<br />
dubbioso e impaziente!<br />
79
Così chiesi il suo indirizzo fidando sul fatto che ci<br />
eravamo visti qualche volta.<br />
Attesi qualche secondo davanti alla sua porta prima<br />
di bussare. Poi bussai. Venne ad aprirmi lui.<br />
– Venite s’abbocà! Come mai da queste parti? – Carmelo<br />
Carrus aveva la voce impastata di chi si era appena<br />
svegliato nonostante fosse quasi mezzogiorno.<br />
– Disturbo?<br />
– Ma che disturbo! Entrate! Nerì offri qualcosa all’avvocato.<br />
– No grazie, niente… Come ricevuto… Non mi trattengo,<br />
ti disturbo solo per chiederti una cosa e poi ti lascio<br />
riposare, dice che hai fatto il turno di notte…<br />
– Eh, s’abbocà, dopo quindici anni ci si abitua a dormire<br />
poco: col mestiere che faccio a volte mi chiedo se<br />
non sia io il carcerato e loro dietro le sbarre i miei carcerieri…<br />
– Ero venuto per la questione di quel Tanchis che hai<br />
trovato morto in cella…<br />
– Me l’avevano detto che eravate voi che vi occupavate<br />
della causa. Che cosa volete che vi dica: gli ho dato<br />
la sveglia e lui era morto. Unu pore ’e sambene s’abbocà.<br />
Guardate che di morti ne ho visti in vita mia. Ma<br />
tanto sangue così…<br />
– Com’era esattamente?<br />
– Com’era il morto?… Tranquillo sembrava, s’abbocà…<br />
80<br />
– Non ci siamo capiti, intendo: com’era, come era<br />
messo quando l’hai trovato?<br />
– Per terra, s’abbocà, con le braccia un po’ aperte: così…<br />
E poi c’era tutto il sangue: due macchie tonde come<br />
quando versi l’olio sul pavimento. Però lui sembrava<br />
contento. E poi quella camicia bianca come il latte<br />
che non si era nemmeno sporcata. Quella faceva effetto,<br />
s’abbocà…<br />
– Scusa se insisto… lo so che può sembrare strano:<br />
fammelo vedere…<br />
– S’abbocà, volete dire, per terra?<br />
– Eh, sì, disteso per terra: fammi vedere com’era…<br />
Non pioveva più. Il silenzio cominciava a diventare<br />
unu báttile che pesava sul petto. L’aria odorava di<br />
piante gravide e tramortite.<br />
La Barbagia si era trasformata nello sgabuzzino dello<br />
Speziale.<br />
L’Africo soffiava dai piedi alla testa, scaturiva <strong>dal</strong><br />
ventre stesso della terra, <strong>dal</strong> mare profondo.<br />
Un che di incompiuto restava sospeso in quella bruma<br />
di sciroppo, quasi l’annuncio di qualcosa che non<br />
aveva ancora trovato la sua piena espressione. Perché<br />
la temperatura si era alzata e le vecchie giuravano che<br />
non era una cosa buona: a inoche b’at carchi cosa…<br />
sospendevano anch’esse.<br />
Il fenomeno africano, lo chiamavano gli scienziati<br />
81
meteorologi. Una specie di estate fulminante, nel bel<br />
mezzo dell’inverno incipiente, rossa, densa e pesante<br />
come inchiostro.<br />
Risalivo da Séuna per arrivare al corso.<br />
È durante questi tragitti che scrivo. Scrivo come dico<br />
io. Spianando il cervello come un foglio immacolato su<br />
cui pensieri e immagini si tramutano in segni e misure.<br />
Una voce, che mi accompagna sempre, me li legge: è severa,<br />
non si lascia abbindolare da soluzioni comuni. Mi<br />
ripete quanto ho scritto e mi fa il verso, nel senso che mi<br />
prende in giro, quando non trovo le parole, quando un<br />
odore, un sapore, una pianta, un <strong>cielo</strong> mattutino, non si<br />
tramutano in musica d’immagini. Qualcuno potrebbe<br />
dire che si tratta della mia voce interiore. Io dico solo<br />
che c’è, e che forse si tratta dell’unica persona che non<br />
mi ha abbandonato mai. La maledizione dei poeti, che<br />
non smettono mai di scrivere. E l’ultima cosa di cui<br />
hanno bisogno è di un foglio e di una penna…<br />
Ma, quella mattina, la mia voce cumpanza non leggeva<br />
versi. Mi regalò una tregua di congetture. Congetture<br />
che a pensarci bene erano poetare esse stesse. Erano<br />
affrontare i fatti come nemici, trascinarli per i capelli<br />
<strong>dal</strong> certo all’incerto, metterli in crisi, costringerli al<br />
punto critico per saggiarne la resistenza.<br />
E intanto la strada si consumava sotto ai miei piedi, e<br />
i miei occhi vedevano senza guardare…<br />
82<br />
Suicidio, ripeteva la mia voce. Che solo a dirlo sembra<br />
definitivo. Ineluttabile. E allora bisognava affrontarlo<br />
questo suicidio. Puntare su di lui come se si trattasse<br />
del vostro peggior nemico. Non dargli tregua.<br />
La mia voce mi indicò l’insegna di Malgaroli scritta<br />
in rosso come la croce di uno scudo templare.<br />
La cartoleria di Giulio Malgaroli era una stanzetta<br />
stipata di risme bianche e quaderni. Dal bancone a cassetti<br />
promanava uno strano odore di mine e dolciumi.<br />
– Inchiostro rosso, – domandai.<br />
Il Malgaroli, continentale, era un uomo di una cinquantina<br />
d’anni sempre in camicia e parapolsi come<br />
quelli degli impiegati postali, chissà forse oltremare…<br />
– Ne abbiamo in flaconi piccoli e grandi, – disse con<br />
quella parlata a metà fra la dolcezza toscana e la durezza<br />
barbaricina.<br />
– Due flaconi grandi…<br />
Tornai a casa. Arrivai alla mia stanza senza passare<br />
<strong>dal</strong>la cucina. Raimonda era intenta a preparare papassini.<br />
Per qualche secondo pensai di lasciar perdere. –<br />
Dai Bustià approfittane, – mi dissi, – per farti un sempre<br />
caro che oggi la giornata è buona per camminare,<br />
non vedevi l’ora che smettesse di piovere, e adesso? –<br />
Una bella passeggiata a Sant’Onofrio, per riprendermi,<br />
mettere la testa a posto. Ora che la pioggia era cessata.<br />
Ma non lo feci.<br />
83
Mi diressi verso l’armadio nell’andito, presi tre o<br />
quattro camicie bianche linde di soda. Una volta entrato<br />
nella mia camera indossai la prima. Mi misi seduto<br />
sul pavimento. Avevo un flacone d’inchiostro<br />
nella mano destra. Ne versai abbondantemente sul<br />
polso sinistro, poi passai il flacone nella mano sinistra<br />
e feci lo stesso di prima sul polso destro. Provai e riprovai.<br />
Non c’era verso: non riuscivo a non macchiarmi.<br />
Per due volte, nel passaggio da un polso all’altro,<br />
mi imbrattai la camicia all’altezza della pancia, così<br />
mi dissi che dovevo fare il mio esperimento tenendo<br />
le mani più scostate possibile <strong>dal</strong> busto, bene: la camicia<br />
rimase pulita, ma i calzoni mi si macchiarono<br />
all’altezza delle ginocchia.<br />
Mia madre entrò in camera in quel momento. L’urlo<br />
che fece non lo dimenticherò mai, né mai dimenticherò<br />
la sua faccia mentre tentavo di alzarmi per spiegarle<br />
tutto.<br />
Poli mi accolse con un sorriso. – Chissà perché, ma<br />
ci avrei scommesso che ci saremmo visti presto… Che<br />
ha fatto alle mani?<br />
– Oh, roba da nulla: inchiostro… – glissai. – Filippo<br />
Tanchis non si è ammazzato, – sparai.<br />
La faccia di Poli, non appena ebbe il tempo di elaborare<br />
quanto gli avevo comunicato, sarebbe stata di<br />
grande interesse per il professor Puligheddu, in quan-<br />
84<br />
to a scale cromatiche intendo. Sostituì lo stupore con<br />
una risatina scettica. – E gli asini volano, – disse.<br />
– Ho chiesto di vedere i vestiti che Filippo Tanchis<br />
portava quando si sarebbe ucciso: pantaloni puliti sulle<br />
ginocchia, sulle cosce e sugli stinchi, insomma nemmeno<br />
una goccia di sangue sul davanti. E camicia pulita…<br />
questo ritorna. Ma i pantaloni no, quelli no che<br />
non ritornano…<br />
– E dove sono andati, avvocà? Si sono spaventati anche<br />
loro quando l’hanno sentita delirare?<br />
Restai in silenzio per un secondo. – È una cosa seria.<br />
C’è poco da ridere.<br />
– Quello che temevo, – si lamentò Poli.<br />
– Ho provato, ho simulato il suicidio, non c’è stato<br />
verso: per mantenere pulita la camicia dovevo sporcare<br />
i pantaloni. È impossibile sgarrarsi i polsi senza<br />
sporcarsi il davanti della camicia o dei pantaloni. Ci<br />
provi!<br />
– Qui? – chiese Poli alzandosi <strong>dal</strong>la sua sedia.<br />
– Eh, qui: io ho provato nella mia stanza. Seduto per<br />
terra. Il posto non è influente. È influente il metodo.<br />
Avanti, faccia conto di tagliarsi i polsi: come si comporta?<br />
Poli mi guardò perplesso, ma si mise a sedere per terra<br />
davanti alla sua scrivania. – Che cosa mi fa fare! –<br />
commentò a un certo punto facendo per alzarsi.<br />
– Avanti, – lo incoraggiai. – Se ho torto non mi faccio<br />
vedere per un mese.<br />
85
– È troppo allettante. Cosa devo fare?<br />
– Ha un coltello nella mano sinistra…<br />
– Porto il coltello al polso destro e taglio, – mimò<br />
portando avanti le braccia.<br />
– Bene, tenga conto che la fuoriuscita di sangue è abbondante,<br />
schizza dappertutto. Ora cosa fa?<br />
– Passo il coltello nella mano destra…<br />
– Alt! – gridai. Il maresciallo si bloccò come un tableau<br />
vivent. – I suoi calzoni sono già imbrattati a questo<br />
punto: il sangue sgorga <strong>dal</strong> polso…<br />
Poli provò in tutti i modi, in tutte le posizioni: niente<br />
da fare. Lo sapevo. – Diavolo d’un uomo! – si stizzì,<br />
balzando in piedi. – E allora?<br />
– Allora non si è ucciso: pantaloni puliti, niente suicidio,<br />
– scandii. – Filippo Tanchis è stato tramortito con<br />
un colpo alla nuca, poi è stato suicidato.<br />
86<br />
Le montagne avevano indossato la porpora quaresimale.<br />
Annegate nel vino novello del <strong>cielo</strong>. Dal mio<br />
colle, seduto sul mio sedile di roccia salutavo la terra:<br />
Sa ’e Mureddu, Sa ’e Ledda, Terra Ruja, Molimentu,<br />
che brillavano di gelatina e opale.<br />
Un filtro cremisi aveva ridotto tutta la varietà coloristica<br />
al monocromo. Era l’aria, spessa come il soffio<br />
della locomotiva, vibrante di rubino. Era la spennellata<br />
maniacale di un pittore ossessivo.<br />
Che dovunque si posasse il mio occhio, <strong>dal</strong>l’Ortobene<br />
a Cucullìo, non vedeva nient’altro che uniforme<br />
compattezza di variazioni: arancio cupo e viola e poi,<br />
via via scendendo, rosa antico, fino al rosso pieno delle<br />
valli.<br />
A guardarlo da lassù il territorio dava l’impressione<br />
di un secchio pieno delle budella di una pecora macellata<br />
per la festa, pronta da bollire con le patate.<br />
Le nuvole febbricitanti facevano vortici sulla mia testa,<br />
come cuori palpitanti.<br />
La pioggia mi sorprese mentre fuggivo.<br />
87
Grosse gocce filamentose di sangue e catarro, aggrumate<br />
di sabbia desertica, si spappolavano sul sentiero<br />
di campagna, e sulle foglie esauste.<br />
La membrana del <strong>cielo</strong> non aveva tenuto e ora tutto<br />
quel rosso ci cadeva addosso.<br />
Ora lo scorrere in pendenza dell’acqua era lento ed<br />
esasperante, cremoso d’argilla e sabbia.<br />
Il fenomeno africano: il deserto che ci piove addosso.<br />
Il respiro grosso di un vento asmatico muoveva la<br />
mota al suolo con le volute della colobra, saturando<br />
gli spazi con lentezza efficiente. Sollecito a segnalare<br />
vicoli e cortili e orti e piazzette. Pronto a indicare spazi<br />
su spazi.<br />
Nùoro sussultava sotto una membrana flegmatica.<br />
Si faticava a respirare. Si ansimava come sulla graticola<br />
di luglio. Gli abiti zuppi emanavano umori d’erba cipollina<br />
e origano.<br />
Una cosa del genere si era già vista, la raccontava bisaju<br />
Gungui che non avevo ancora dieci anni e lui più<br />
di settanta.<br />
Alla fine di ottobre del 1820, dopo nove giorni e nove<br />
notti di pioggia da annegare il cristiano e le talpe<br />
sotto terra, da sud si era fatto largo a furia di spinte un<br />
alito unticcio e caldissimo, si era aperto un corridoio<br />
rotolando verso le Barbagie. E le montagne cominciarono<br />
a sudare sangue.<br />
Che quella era terra amorosa e ospitale: così la spira<br />
aveva deciso di abbracciarla.<br />
88<br />
Che quella era terra truce e vendicativa: così le vette<br />
acuminate avevano ferito quella femmina africana sino<br />
a farla stillare al suolo.<br />
Non si poteva guardare verso l’alto, che le sue mammelle<br />
pesanti opprimevano come un basto colmo di<br />
pietre sulla groppa di un asino.<br />
Era già accaduto.<br />
Proprio nell’ottobre del ’20. L’anno dell’Editto sulla<br />
chiusura delle terre comuni. Che allora pareva un segnale<br />
chiaro dell’ira della povera gente.<br />
La zaffata micidiale arrivò con i banditori del re che<br />
annunciavano i muri a secco.<br />
L’editto arrivò accompagnato da un fetore ferruginoso<br />
di acqua stagnante. E intrise valli e montagne di<br />
sangue. La ricchezza non era l’oro, e nemmanco il pane,<br />
ma pietre su pietre per cingere i terreni e braccia<br />
per costruirli: questo diceva l’editto. E al sangue <strong>dal</strong><br />
<strong>cielo</strong> si unì il sangue degli uomini, il massacro delle<br />
tanche. Che se giravi il <strong>cielo</strong> con la terra era lo stesso:<br />
gli uomini e le nuvole lottavano allo stesso modo. E sarebbe<br />
stato uguale persino non essere nati mai in quella<br />
terra dove l’alto e il basso si confondevano…<br />
– Tutto! – risposi secco.<br />
– S’abbocà, ma tutto quello che c’era da dire… oramai,<br />
– tentò di schivare Franceschina Pattusi.<br />
– La questione non è ancora chiusa! Non finché mi<br />
89
imane il dubbio che mi abbiate preso in giro. Ca a<br />
inoche b’at imbolicu, cumpresu?<br />
– Che cosa volete sapere ancora? – Era stramazzata<br />
sulla sedia della sua cucina. Ora il volto della donna<br />
aveva assorbito la sorpresa di vedermi arrivare in casa<br />
sua senza preavviso.<br />
– Per esempio che cosa è successo la sera in cui Solinas<br />
è stato ucciso. Com’è che Filippo vi è scappato di<br />
casa?<br />
– Siamo andate a olive a Funtanedda, io e mia sorella.<br />
Filippo è rimasto con Ruggero che era tornato per<br />
due giorni, aveva bisogno di tutto: roba pulita, un po’<br />
di provviste.<br />
– E poi che cosa è successo?<br />
– Niente è successo! Che Ruggero si è addormentato<br />
è successo! E Filippo se n’è uscito, poi boh, cosa volete<br />
che vi dica. Chissà chi ha incontrato, magari l’hanno<br />
fatto bere, magari l’hanno preso in giro. Chi lo sa?<br />
– E Ruggero?<br />
– Ruggero non l’ha trovato in casa quando si è svegliato.<br />
È uscito per cercarlo. E allora l’ha trovato… A<br />
Istiritta… Ha fatto appena in tempo a vedere che lo<br />
stavano portando via. Non era la prima volta, che stava<br />
a casa con un fratello, non era mai successo niente…<br />
Non faceva male a nessuno… Non gli avrei mai permesso<br />
di tenere un coltello sennò…<br />
– È stato un bell’azzardo…<br />
Franceschina Pattusi si alzò con fatica, col dorso delle<br />
90<br />
mani si asciugò gli occhi. – C’è qualcosa che dovete vedere<br />
se volete seguirmi, – disse precedendomi di qualche<br />
passo verso una porta chiusa.<br />
Mi fece entrare in una stanzetta linda. Quasi la cella<br />
di un monaco. Un alto letto <strong>dal</strong> materasso bugnoloso<br />
era appoggiato alla parete di fronte. Una finestrella faceva<br />
penetrare una luce snervata da un cortiletto straripante<br />
di edera sempreverde e alberelli di nespolo.<br />
Quella luce viaggiava a regime ridotto fra le pareti fino<br />
ad abbracciare una scrivania nella parete di fronte al<br />
letto.<br />
E sulla scrivania…<br />
– Ecco come usava il coltello, – sussurrò Franceschina<br />
Pattusi.<br />
Soldatini. Ussari e Ulani. Con ghette, colbacchi e alamari.<br />
Uniformi smaltate di blu, di rosso, di verde, istoriate<br />
di bronzina nei cordami, nei bottoni, nelle spalline.<br />
Un minuscolo esercito di bosso: la fanteria sul davanti,<br />
la cavalleria arretrata. Precedevano i tamburini,<br />
poco più che bambini. Cavalli baj e pezzati, bestie arabo-sarde<br />
con i colli frementi e le criniere come agitate<br />
da un vento leggero.<br />
La luce purpurea dell’esterno accarezzava con delicatezza<br />
quei capolavori di minuta precisione, giocava<br />
con loro mettendone in evidenza chiaroscuri di vuoti e<br />
pieni morbidi, frutto di un lavoro lungo, ostinato, quotidiano.<br />
– Sono bellissimi… – Riuscii a dire solo questo.<br />
91
Franceschina Pattusi rispose con un singulto prolungato.<br />
Un lamento di madre annientata <strong>dal</strong> dolore. –<br />
Questo faceva s’abbocà, – disse dopo una serie di respiri<br />
profondi sfiorando con le dita il pennacchio di un<br />
microscopico tenente colonnello.<br />
– Ma è stato un azzardo, tzia mé… È stato un azzardo<br />
portargli quel coltello in carcere.<br />
Franceschina Pattusi sbarrò gli occhi.<br />
– Io sono stata! – La voce di Clorinda Pattusi mi afferrò<br />
ai lombi. – Io, – ripeté guardando la sorella mentre<br />
ci raggiungeva nella camera.<br />
Quest’ultima le fece segno di non proseguire, ma<br />
Clorinda allargò le braccia. Era talmente bella che mi<br />
faceva male guardarla, così decisi di non voltarmi, non<br />
subito. – Piangeva, mi pregava, mi promise che non se<br />
ne sarebbe fatto accorgere; mi scongiurava… diceva<br />
che sarebbe… morto, – continuò lei correndo ad abbracciare<br />
sua sorella. – Gli facevano qualche cosa in<br />
galera, s’abbocà, – singhiozzò all’improvviso rivolgendomisi<br />
direttamente. – Filippo era come un bambino,<br />
non sapeva mentire. Dovevamo negargli anche l’unica<br />
cosa che era importante per lui? Questo dovevamo fare?<br />
Abbandonarlo?<br />
– Ora basta! – concluse Franceschina interpretando<br />
il mio silenzio come un rimprovero. – A lei resta l’amaro<br />
in bocca, ma l’amaro che c’abbiamo noi, lei non lo<br />
può nemmeno immaginare. Che la colpa, s’abbocà, è<br />
come il fele nella gola.<br />
92<br />
La colpa. Che brutta parola…<br />
Uscii da quella casa col petto che mi doleva. In cerca<br />
d’aria. Ma quale aria! L’esterno mi accolse circondandomi<br />
come una placenta giallastra screziata da un reticolo<br />
di vene rosso cupo. Guardai il colle alla mia destra,<br />
poco distante, a un soffio, un salto appena.<br />
Cominciai a dibattermi per conquistare l’altura. E<br />
frantumai l’ultimo tratto in salita vedendomi scorrere<br />
di fianco la grande caserma dell’arma dei carabinieri.<br />
Tra poco starai meglio, mi dissi, senza rendermi conto<br />
che stavo parlando a voce alta. Cominciando a capire<br />
che una parte di quel dolore al petto non era nient’altro<br />
che panico. Per Clorinda forse, per come era giunta<br />
inaspettata alle mie spalle. O forse perché era apparsa<br />
proprio nel momento preciso in cui mi chiedevo<br />
quale fosse il vero motivo della mia visita, senza preavviso,<br />
a casa sua.<br />
Ora che tutto cominciava a chiarirsi le certezze si affievolivano<br />
e mentre mi addentravo in quella selva<br />
esausta, cerosa e traslucida, anche i pensieri si assopivano.<br />
… Colpa. Che brutta parola. Quanto distante <strong>dal</strong><br />
comprendere ogni sfumatura. La colpa è un’acquaforte,<br />
è un’accozzaglia di linee che stabiliscono segno e<br />
profondità. Proprio come il reticolo regolare d’orti e<br />
vigne che rompevano l’incerto di lecci e olivastri nella<br />
valle sotto di me. Nero su bianco la colpa. E forse è<br />
amara davvero. Tanti ne ho visti di colpevoli, che ora<br />
93
mi pare persino più dolce quel termine. E mi fa meno<br />
paura. La colpa <strong>dal</strong>le labbra di Clorinda era come qualcosa<br />
di impensabile, impronunciabile, persino lieve…<br />
Gli facevano qualche cosa in galera. Che cosa? Lo prendevano<br />
in giro, gli rovinavano ogni giornata santa, perché<br />
loro erano normali e lui no. Era questo? Era questo<br />
che faceva quella colpa così incolpevole? O si trattava<br />
di me? Di quel fremito che mi saliva <strong>dal</strong>le viscere al viso<br />
tutte le volte che Clorinda parlava, mi guardava… Clorinda,<br />
la mia regina bizantina. Che colpa? È colpa amare?<br />
Forse…<br />
– Non vi tiene a casa nemmeno la pioggia. Lo sapevo<br />
che vi trovavo quassù! – Il maresciallo Poli interruppe<br />
il mio delirio mettendomi una mano sulla spalla.<br />
– Questa non è pioggia! – dissi stendendo un braccio<br />
verso la valle. – Comunque non gliel’ho detto.<br />
– Non ha informato le zie del Tanchis del fatto che<br />
non si è trattato di suicidio?<br />
– No. Non l’ho fatto.<br />
– Mh, avrà le sue ragioni.<br />
Certo che avevo le mie ragioni. Anche se non erano<br />
ragioni che potevo spiegare al maresciallo. Perché per<br />
spiegare quella mia reticenza ci sarebbe voluta più coscienza<br />
di quanta ne possedessi in quel momento. Ciò a<br />
dire che, per l’appunto, magari senza saperlo, ma rendendomene<br />
conto con chiarezza solo in quel preciso<br />
istante, volevo punire Clorinda e non volevo che avesse<br />
la consolazione di pensare che non era stata fra le cau-<br />
94<br />
se, involontariamente beninteso, della morte del nipote.<br />
Ero offeso. Dal fatto che lei me l’aveva fatta sotto al<br />
naso, aveva introdotto un coltello in galera. E poi mi feriva<br />
il sospetto che mia madre potesse avere ragione a<br />
proposito delle sorelle Pattusi: che erano persone poco<br />
serie; che in quella casa giravano troppi uomini; che<br />
Clorinda, proprio lei, era stata fidanzata con uno di Irgoli<br />
per molti anni, e poi, chissà perché, il matrimonio<br />
non c’era stato. Insomma la notizia del suicidio l’aveva<br />
prostrata, non volevo che si consolasse pensando che<br />
di suicidio non si era trattato.<br />
– Comunque il dottor Orrù non sa niente di più di<br />
quello che ha già detto. È arrivato quando era tutto finito…<br />
– Il maresciallo Poli tentava di rianimare la nostra<br />
discussione.<br />
– Lo so, l’ho incontrato.<br />
– E Carrus, la guardia carceraria?<br />
– Ho… già incontrato anche lui. Gli ho chiesto di<br />
farmi vedere precisamente come aveva trovato Filippo<br />
Tanchis.<br />
– E lui?<br />
– E lui me l’ha fatto vedere.<br />
– Avete messo a sedere per terra anche lui?<br />
Accennai di sì col capo, mi scappava da ridere.<br />
– Lei è la persona più ostinata che conosca.<br />
Lo presi come un complimento. Ma stavo male.<br />
Quella storia di Clorinda e del coltello non mi andava<br />
giù. Magari avrei fatto bene a parlarne con Poli.<br />
95
– Comunque ho bisogno lo stesso di Carrus, mi deve<br />
spiegare la questione del coltello in possesso del<br />
Tanchis. Anzi ci vado proprio adesso, vuol venire? –<br />
mi domandò Poli come leggendomi nel pensiero.<br />
– Un attimo, – dissi aspirando in profondità. – Un<br />
attimo solo e andiamo.<br />
– È bello quassù, – sussurrò Poli.<br />
– No s’abbocà! Se mi fossi accorto di una cosa del<br />
genere non glielo avrei fatto tenere il coltello. Eh,<br />
c’abbiamo un regolamento Signori miei. – Con la divisa<br />
di guardia carceraria Carmelo Carrus sembrava<br />
la comparsa di una filodrammatica.<br />
Il maresciallo Poli intervenne a quel punto. – Quanti<br />
erano di turno quella notte?<br />
Carrus lo guardò di sghimbescio. – A quell’ora… –<br />
prese tempo. – Insomma… E poi non è detto, magari<br />
uno dell’altro braccio… Magari si fa un favore a un<br />
collega: tu gli fai il giro, lui ti cùmbida una tassichedda.<br />
Dai, siamo gente che queste cose le sa, non è che<br />
stiamo qui a dire cose sconosciute…<br />
– In pratica non esiste un ruolino preciso dei turni,<br />
– riassunse Poli.<br />
Carrus si grattò la testa sotto al cappello. – Bisognerebbe<br />
vedere. Io sono arrivato alle cinque e nel braccio<br />
dov’era Tanchis c’erano solo Ruju e Fois.<br />
Segnai quei nomi su un taccuino. – Visite? – domandai<br />
mentre scrivevo.<br />
96<br />
Carrus si illuminò. – Questo è facile! Ci sono i registri.<br />
Non si scappa, all’entrata c’è Liori e cussu est unu<br />
cane ’e isterju. Possiamo andare subito.<br />
Poli mi diede uno sguardo di complicità. – Preferiremmo<br />
dare un’occhiata alla cella prima.<br />
– Come volete, – disse Carrus facendo strada.<br />
Una volta entrati, ci sguinzagliammo ai due capi della<br />
cella come segugi all’inseguimento della preda. Il<br />
pavimento, un getto unico di malta di un grigio polveroso,<br />
era stato ripulito a secchiate d’acqua e acido.<br />
– Bel lavoro, tutto pulito, – commentò Poli.<br />
Carrus <strong>dal</strong>l’ingresso fece un sorriso di soddisfazione.<br />
– Con tutto quel sangue… Saranno delinquenti, ma<br />
sono cristiani anche loro! – considerò riferendosi ai futuri<br />
inquilini della stanza.<br />
– Quasi tutto pulito! – urlai quasi mostrando il dito<br />
indice.<br />
Poli abbandonò la ricerca, Carrus corse all’interno<br />
della cella: – Che cos’è? – chiese l’ufficiale strizzando<br />
gli occhi sul mio dito.<br />
– Legno, – rivelai dopo qualche secondo… Per l’effetto!<br />
– Polvere di legno.<br />
– È importante? – mi chiese Poli mentre attraversavamo<br />
il corridoio che ci avrebbe portato all’entrata,<br />
dove c’erano i registri.<br />
– La sua importanza ce l’ha perché alla famiglia insieme<br />
agli effetti personali del morto non è stato restituito<br />
alcun… Come dire?… Manufatto!<br />
97
– Vuol dire che li hanno fatti sparire perché non si sapesse<br />
che il ragazzo era in possesso da tempo del coltello?<br />
Certo da questa angolazione un suicidio apparirebbe<br />
cosa improbabile… E…<br />
– … E metterebbe sul chi vive… Insomma non quadra:<br />
uno non chiede un coltello per suicidarsi e poi si<br />
mette a fare soldatini, mi spiego?<br />
Carrus interruppe la discussione voltandosi verso di<br />
noi. – Un attimo di pazienza, – disse ed entrò in una<br />
stanzetta laterale. Riapparve dopo qualche secondo. –<br />
Prego, – ci invitò indicandoci il registro delle visite.<br />
C’era la firma di Puligheddu! Su quel registro, associata<br />
al detenuto n. 643789: Tanchis Filippo fu Giuseppe.<br />
– Sì, ci sono stato. – Il professor Puligheddu aveva<br />
un’aria poco accondiscendente.<br />
Lo guardai a lungo aspettando che proseguisse. Non<br />
lo fece. – Non mi aveva detto niente quando ci siamo<br />
incontrati… – provai.<br />
– Avevo capito che era quello il caso a cui si riferiva<br />
tra le righe, ma non ho ritenuto opportuno informarla.<br />
Ci sono questioni professionali…<br />
Silenzio.<br />
– A questo punto credo che il segreto professionale<br />
sia… fuori luogo, – tentò il maresciallo Poli. – Abbiamo<br />
buone ragioni di credere che il ragazzo non si sia<br />
suicidato.<br />
98<br />
Il professor Puligheddu stette un tempo lunghissimo<br />
a guardarsi le mani.<br />
– Era così? Era come avevamo detto? – Avevo un che<br />
di ansioso nella voce che dava fastidio a me per primo.<br />
– Quel ragazzo era un’arma impropria: è così che dite<br />
voi? – chiese Puligheddu rivolgendosi al maresciallo<br />
Poli. – Micidiale e indifeso, – chiarì. – Poteva passare<br />
mesi, persino anni, in uno stato che potrei definire di letargo,<br />
ma a un dato stimolo, si trasformava in una belva.<br />
– L’aveva in cura? – domandai.<br />
– Non esattamente. Fu il fratello a portarmelo qualche<br />
mese fa. Era stato per qualche settimana in campagna,<br />
dopo la visita di leva: voleva fare il soldato, era l’unica<br />
cosa che gli interessasse veramente. Ma la visita<br />
andò male e lui smise di parlare. Per un intero mese<br />
smise di parlare. Così il fratello maggiore decise di<br />
portarlo da me. Voleva un certificato medico per l’ufficio<br />
leva. Lo incontrai altre due volte e… E mi fu subito<br />
chiaro che sì… insomma… quel ragazzo aveva subito<br />
degli… abusi. Mi spiego?<br />
– Ne parlò col fratello?<br />
– Sì, gli dissi che sospettavo qualcosa del genere…<br />
C’erano segnali chiari.<br />
– E lui?<br />
– Lui andò su tutte le furie. All’appuntamento successivo<br />
non si presentarono: e questa fu l’ultima volta<br />
che l’ho visto.<br />
– La penultima, – precisai.<br />
99
– La penultima, – confermò. – Quella visita in carcere<br />
fu una mia iniziativa e fu proprio lei, avvocato, a suggerirmela.<br />
– E che cosa ne desunse?<br />
– Che avevano cercato di chiudere l’ovile quando il<br />
gregge era scappato, se mi passa la metafora. Quel ragazzo<br />
era sull’orlo del baratro… Volete sapere come la<br />
penso in proposito? Ebbene: Filippo Tanchis aveva il<br />
suicidio scritto in fronte!<br />
Non fu facile parlare con le sorelle Pattusi. Dissi tutto,<br />
dei nostri sospetti, del finto suicidio. Non se ne facevano<br />
una ragione. Ignoravano persino che Elias, il fratello<br />
maggiore di Filippo, avesse deciso di portarlo da<br />
un medico. Clorinda confermò quanto detto in precedenza:<br />
il coltello lei l’aveva introdotto in carcere non<br />
più di quattro o cinque giorni prima della morte di Filippo.<br />
Mi sentivo un poco sollevato, ora che avevo visto<br />
una specie di consolazione nei suoi occhi. La consolazione<br />
di chi all’improvviso vede una luce, di chi si sgrava<br />
il petto da un macigno. Le sue guance presero un poco<br />
di colore.<br />
– Non avete colpa, – affermai per rafforzare il concetto.<br />
– Avete fatto male a portargli quel coltello, ma non<br />
avete colpa.<br />
Clorinda strinse le labbra, fece un leggerissimo segno<br />
d’assenso col capo, poi serrò le palpebre…<br />
100<br />
– Il passato è come una carta del <strong>cielo</strong>, – mi disse<br />
quella notte bisaju Gungui.<br />
Era una visita costante ormai. – Sedetevi, – lo invitavo.<br />
– No che non c’è tempo, – diceva lui. E sorrideva allargando<br />
le labbra, ma senza mostrare i denti, che si<br />
vergognava dei canini mancanti. – Questa è una storia<br />
senza uscita, Bustià, come un labirinto. Una storia che<br />
la gente non vuol sentire. Quando ero giovane io la vita<br />
di un uomo valeva meno di quella di una pecora. Ma<br />
ora i tempi sembrano cambiati, ora tutti credono di valere<br />
qualcosa… Di valere di più del <strong>cielo</strong> e della terra…<br />
È questo, solo questo che volevo dire… Non ti disturbo<br />
più ché a sognare i morti si dorme male.<br />
Aprii gli occhi. Mi misi a sedere sul letto. Come sempre.<br />
Ero in piedi ora, andavo verso la finestra.<br />
Aveva ripreso a piovere, a scrosci.<br />
* * *<br />
101
Nel pubblico macello il fetore del sangue afferrava le<br />
narici già <strong>dal</strong>l’androne della pesa. – Elias Tanchis? –<br />
chiesi a un vecchio intento a ripulire un bancone di<br />
marmo, all’interno di una sala che pareva una chiesa<br />
vuota, ostello di santi martiri scuoiati. Il vecchio fece<br />
un gesto con la mano, indicandomi un giovanotto atticciato<br />
che teneva saldamente in mano un secchio da<br />
cui sembravano spuntare dei rami, dei ciocchi sottili di<br />
legna per il fuoco. Si trattava di un uomo che non doveva<br />
avere più di ventisette ventotto anni. Un grembjale<br />
incerato lordo di sangue e materia organica lo copriva<br />
<strong>dal</strong> petto alle caviglie, gocce secche di un rosso scuro<br />
gli puntellavano le mani e la fronte. – Elias Tanchis?<br />
– gli domandai raggiungendolo. L’uomo accennò di sì.<br />
Muggiti e belati risuonavano provenienti da un camerone<br />
adiacente, insieme al suono monotono dello stillicidio<br />
e qualche voce umana che incoraggiava i vitelli<br />
alla morte. Il cigolio delle carrucole si portava dietro<br />
carcasse luminose di muscoli lucidi e ossa smaglianti. –<br />
Sono l’avvocato di suo fratello, – informai alzando la<br />
voce.<br />
– Mio fratello ormai non ha più bisogno di avvocati,<br />
– disse lui senza alzare la sua.<br />
– Ci sono questioni che vanno chiarite, – provai un<br />
tono sicuro, di quelli che non prevedono repliche.<br />
– Lo so cosa pensate. Ho parlato con le zie. E non ho<br />
niente da dire, – tagliò agitando il secchio colmo di<br />
stinchi di vitello non ancora spellati. – E poi c’ho da la-<br />
102<br />
vorare, – concluse voltandomi le spalle, e si diresse<br />
verso destra attraversando una porticina che conduceva<br />
in un androne buio.<br />
Lo seguii per quel corridoio sul quale si camminava<br />
male. Rischiai di scivolare. – E a proposito dei sospetti<br />
del professor Puligheddu? – gli domandai a bruciapelo.<br />
L’uomo si voltò, appoggiò il secchio al suolo. Il suo<br />
volto si era come spianato in uno sforzo febbrile di<br />
mantenere la calma. – Queste sono cose che nessuno<br />
dovrebbe permettersi nemmeno di pensare! – sibilò.<br />
Nella penombra il bianco dei suoi occhi faceva l’effetto<br />
del marmo. – Filippo è morto, lasciamolo riposare<br />
in pace.<br />
– La pace di chi? – incalzai. – La pace di chi? La vostra<br />
o la sua?<br />
– E voi, che cosa ne sapete della nostra pace? – mi<br />
fronteggiò lui. – Voi mettete un sacco di idee macche<br />
nella testa dei poveracci per spillargli quattrini: questo<br />
fate! Medici e Avvocati! Ma noi, lavoriamo come bestie<br />
per campare!<br />
Ero infuriato. – E allora fate come vi pare, tanto questa<br />
morte mette le cose a posto! E se va bene a voi… –<br />
conclusi voltandomi per uscire. La puzza di putrido<br />
cominciava a prendermi lo stomaco.<br />
Una presa violenta mi afferrò il bavero del pastrano.<br />
Mi sentii come risucchiato da un vortice marino. Provai<br />
a liberarmi, ma inutilmente: scivolavo come su un<br />
terreno ghiacciato. Ora Elias Tanchis mi teneva schiac-<br />
103
ciato contro una parete unta, sentivo il freddo del marmo<br />
sulla guancia. – Fatevi i fatti vostri! – mi sussurrò<br />
avvicinando le labbra al mio orecchio. – Che ai nostri<br />
ci pensiamo noi.<br />
Fuori <strong>dal</strong> mattatoio la pioggia che mi scrosciava sulla<br />
tesa del cappello mi sembrò provvidenziale. Allargai le<br />
braccia per farmi investire completamente <strong>dal</strong> getto. E<br />
sollevai il mento aprendo la bocca come facevo da<br />
bambino quando volevo capire che sapore avessero le<br />
nuvole. Era desiderio di purificazione. Come se bastasse<br />
quel desiderio per calmare i battiti galoppanti<br />
del mio cuore. Avevo avuto paura: gli occhi di Elias<br />
Tanchis mi avevano fatto paura, le sue mani tozze mi<br />
avevano fatto paura, e la sua voce e l’odore del sangue.<br />
Tutto questo chiedevo al <strong>cielo</strong>: che calmasse quel<br />
trambusto, che mi facesse ritornare padrone di me<br />
stesso.<br />
Avevo fatto passi verso sa Preda Ballarina, verso la<br />
campagna che si assoggettava inerme ad altra pioggia.<br />
E ancora. E ancora. Fili d’erba turgidi, puntuti come<br />
coltelli affilatissimi, si opponevano alle mie scarpe con<br />
fruscii lamentosi. Potevo mettere radici, e fermarmi finalmente,<br />
fissarmi al terreno come un vecchio albero<br />
senza prospettive se non quella di baciare il <strong>cielo</strong> con le<br />
fronde.<br />
Avevo avuto paura. E questa paura non aveva niente<br />
104<br />
a che fare con quanto avessi mai provato prima. Era<br />
stata una paura umile, come uno sguardo che cerca un<br />
punto di fuga. Era stato capire che il mondo a mia immagine<br />
era qualcosa che non aveva niente a che vedere<br />
con la realtà. Che non si era trattato di uno scontro alla<br />
pari. Era stato entrare in un universo dispari dove non<br />
c’erano accordi, regole, parole.<br />
L’avevo visto questo mondo, ora l’avevo visto e subìto.<br />
Prima l’avevo solo ipotizzato.<br />
Mi sentii improvvisamente debole, impotente.<br />
Se qualcuno avesse guardato verso di me avrebbe visto<br />
un pazzo, un adulto, un uomo corpulento che batteva<br />
la terra con i piedi e urlava contro il <strong>cielo</strong>.<br />
Ma tanto bastò. Zuppo di pioggia, ansimante, mi piegai<br />
in avanti afferrandomi le ginocchia con le mani. Restai<br />
a fissare il punto microscopico di campagna che<br />
avevo davanti ai piedi. Presi aria e pioggia nei polmoni<br />
con la bocca spalancata. E cominciai a star meglio. Come<br />
un naufrago scampato. Come un muflone sfuggito<br />
all’incendio. Come un atleta al traguardo. Come un poeta<br />
nell’Olimpo.<br />
Una vibrazione sottile corse <strong>dal</strong>le viscere della terra,<br />
la mia terra, ai miei piedi <strong>dal</strong>le piante. Come una scarica<br />
di pura elettricità corse alle gambe e agli inguini e<br />
poi ai lombi e allo stomaco sino alle spalle: una risata<br />
malata come il sussulto di un epilettico.<br />
105
Mia madre mi guardò come se vedesse un morto. –<br />
Pro more ’e Deus! Che cosa hai fatto?<br />
– Mi sono bagnato, – risposi semplicemente, cercando<br />
di assumere un’aria tranquilla.<br />
Raimonda alzò gli occhi al <strong>cielo</strong>. – Se non finisce questa<br />
pioggia… – sospese. – Comunque c’è Zenobi che ti<br />
sta aspettando.<br />
– Mi devo togliere queste scarpe prima sennò mi viene<br />
una polmonite.<br />
– Vado a dirgli che sei arrivato.<br />
– Aspettate un attimo, – la bloccai. – Vi è mai capitato<br />
di fare qualcosa anche se questa cosa vi metteva<br />
paura, ma di pensare che dovevate farla a tutti i costi?<br />
Mia madre stette qualche secondo a pensare, sospesa<br />
tra il rispondermi e l’andare. Decise di andare, fece<br />
qualche passo verso il mio studio poi si voltò. – Il giorno<br />
che ti ho messo al mondo, – disse.<br />
Zenobi mi aspettava in piedi. Il suo sorriso nel vedermi<br />
fu, francamente parlando, la prima cosa bella di<br />
quella terribile giornata.<br />
– Allora novità? – domandai indicandogli la sedia.<br />
Zenobi fece segno di sì. – Ho chiesto in giro di quel<br />
Solinas, come mi avete chiesto voi. Bere niente, non<br />
era uno che se la beveva, era malato, aveva passato la<br />
malaria. Ai tzilleri si vedeva solo per una mariglia di<br />
tanto in tanto se trovava qualcuno che volesse giocare<br />
con lui. Non era uno di quelli che hanno molti amici,<br />
mi spiego? Unu ficchiu. Uno che sapeva tutto di tutti.<br />
106<br />
Dice che vendeva informazioni e… prestava a usura.<br />
Un’arga e muntonarju, s’abbocà! Dicono che non sia<br />
estraneo alla cattura, che è finita come è finita, di Salvatorangelo<br />
Dettori il 5 aprile scorso, e anche con<br />
Morgogljai deve averci a che fare…<br />
– Così chi l’ha fatto fuori, ha fatto un servizio pubblico…<br />
A Zenobi scappò da ridere. – Eh, qualcosa del genere…<br />
Comunque mi hanno riferito, gente fidata, che<br />
una diecina di giorni prima che lo morissero quel Solinas<br />
aveva avuto una discussione non tanto per la quale<br />
indovinate con chi? – E si fermò. Non proseguì. Roba<br />
da matti, si aspettava veramente che mi divertissi a giocare<br />
agli indovinelli. Attesi qualche secondo in silenzio<br />
aspettando che parlasse. Niente.<br />
– Non lo so. – Fu l’unica cosa che mi venne da dire.<br />
Zenobi fece la faccia furba. Scosse la testa. – Non ci<br />
arriverete mai! – profetizzò.<br />
E infatti non avevo nessuna voglia di arrivarci. – Me<br />
lo dici con le buone o ti devo dare una stoccata? – provai<br />
a dire sorridendo. Ma non dovette riuscirmi bene,<br />
perché Zenobi si rabbuiò un poco. – Ruggero Tanchis,<br />
– rivelò.<br />
– Ruggero Tanchis? – Ora sembravo il pupazzo di un<br />
ventriloquo.<br />
Zenobi si affrettò a proseguire. – Dice che quel Solinas<br />
stava facendo il gradasso per via del fatto che dice<br />
che sapeva delle cose sulla fidanzata di Tanchis. E allo-<br />
107
a lui dice che si è umbrato malamente e gli ha detto<br />
davanti a tutti che quella lingua gliela staccava e gliela<br />
ficcava nel… con rispetto parlando… buco del culo.<br />
Il maresciallo Poli dovette ammettere che sì, che quel<br />
Solinas si vedeva di tanto in tanto nei corridoi della caserma.<br />
Confermò trattarsi di individuo ambiguo. Un<br />
delatore nato. Uno di quelli tanto esperti che non andava<br />
nemmeno in giro a trovarsi le informazioni: erano le<br />
informazioni che andavano da lui sotto forma di mozziconi<br />
di frasi acchiappate qua e là.<br />
Era un sacerdote il Solinas, un custode di quanto veniva<br />
detto, ma soprattutto di quanto veniva omesso. E<br />
osservatore instancabile: un saluto appena accennato,<br />
un’occhiata particolare, un rossore improvviso, una<br />
battuta divertente. Tutto finiva in quella sua testa sospettosa.<br />
Ci vuole arte anche in questo e ce ne vuole molta in<br />
una società che si nutre di silenzi, di cose non dette, di<br />
minacce oblique.<br />
E Solinas, a suo modo, era un vero artista: gli bastava<br />
trovare un pertugio che ci si infilava dentro come il topo<br />
di campagna e rosicchiava, rosicchiava…<br />
Su una cosa non c’erano dubbi: Filippo Tanchis e<br />
Bobore Solinas non si erano mai visti fino a quella sera<br />
del 4 settembre 1899.<br />
– Ma Ruggero Tanchis e Bobore Solinas avevano avu-<br />
108<br />
to questioni. E Solinas viene ucciso proprio quando<br />
Ruggero è in paese. E Filippo scappa di casa proprio<br />
quando è affidato a lui…<br />
Il maresciallo Poli mi fece un gesto con la mano. –<br />
Che confusione! – disse. – Affidato a chi?<br />
– A Ruggero! – ripresi. – È chiaro? Lo sapevano tutti.<br />
E quella era la scelta che avevano fatto: sacrificare il<br />
fratello matto. Ruggero è tornato per far fuori Solinas<br />
proprio quando le zie sono a olive fuori di casa. Due<br />
più due: quattro.<br />
– Vuol dire che hanno preparato tutto?<br />
– Eh, qualche giorno prima del fattaccio il fratello<br />
grande porta Filippo <strong>dal</strong> dottore, così, se ci fossero<br />
dubbi, risulta chiaro che ha problemi seri di equilibrio<br />
mentale. Ruggero lo porta con sé a Istiritta, succede<br />
quello che sappiamo, Filippo finisce in galera. E tutti<br />
sono contenti…<br />
– Se le cose stanno in questo modo, non sarà facile<br />
dimostrarlo. Specialmente ora che Filippo Tanchis è<br />
stato messo a tacere per sempre.<br />
– Ecco, questo è l’unico punto che non mi ritorna:<br />
non credo che Elias e Ruggero avrebbero ucciso il fratello<br />
minore. Non ce n’era motivo.<br />
– Magari lui era stanco di stare in galera, aveva minacciato<br />
di parlare.<br />
Scossi la testa. – No, non mi ritorna, qualunque pubblico<br />
accusatore mi avrebbe inficiato la testimonianza<br />
con una consulenza peritale. Una testimonianza di Fi-<br />
109
lippo Tanchis sarebbe stata uguale a zero. Io per primo<br />
non l’avrei mai fatto testimoniare. Questa morte non<br />
mi ritorna…<br />
– Non faccia quello che sta pensando di fare, – mi<br />
disse all’improvviso il maresciallo Poli. – Non lo faccia,<br />
perché se andrà a parlare con Ruggero Tanchis io<br />
non potrò aiutarla. Mi spiego?<br />
Alzai le spalle. – Sono pur sempre l’avvocato di suo<br />
fratello…<br />
Per il resto era vagare nelle domande: Solinas nemici<br />
ne doveva avere parecchi, magari aveva fatto una spiata<br />
di troppo o aveva prestato soldi a qualcuno che non<br />
aveva trovato altro modo per restituire che ripagarlo<br />
con un caldo abbraccio… Perché se si faceva poco poco<br />
di escludere Filippo e Ruggero Tanchis, oltre a loro<br />
tra i sospettati per l’omicidio ci poteva stare mezza<br />
Nùoro.<br />
E poi quel Solinas a dirla tutta non era nemmeno di<br />
quei collaboratori che stanno cari alla Giustizia: poco<br />
affidabile, poco affidabile per tutti. Al banco in tribunale<br />
più di una volta aveva ritrattato, perché tra l’inchiesta<br />
e il processo si era barattato la testimonianza.<br />
Migliori offerenti avevano bussato all’uscio di casa<br />
sua…<br />
Così si trasformava la Corte d’Assise in un mercato<br />
dove le affermazioni avevano un listino prezzi. E gli individui<br />
come Solinas erano una specie di intermediari<br />
che al momento opportuno facevano pollice verso man-<br />
110<br />
dando a terra le quotazioni dell’intero procedimento.<br />
C’era da perderci il sonno…<br />
Passai quella giornata come una bestia in gabbia.<br />
Avrei dato chissà che cosa per poter uscire, riunirmi alla<br />
mia valle, succhiare il nettare di quella pace come<br />
un’ape sulla corolla. Invece no. Pioggia maledetta.<br />
Quella notte, preparandomi per andare a dormire risi<br />
di me stesso. Sapevo che nella mia personale farsa<br />
notturna, il sibilo di Elias Tanchis, che non cessava di<br />
risuonarmi nel cervello, si sarebbe preso quel poco che<br />
la pioggia aveva lasciato del mio sonno. Così a occhi<br />
sbarrati, senza le ombre che potessero aiutarmi, decisi.<br />
Decisi che non mi sarei lasciato intimorire…<br />
Ero coricato, ascoltavo la sonata di piano e fiati che<br />
passava <strong>dal</strong> moderato al presto sul tetto. Il flagello di<br />
sabbia rossa aveva intorbidato l’aria, costruito una cupola<br />
fetida, risucchiato l’aria respirabile. E in paese la<br />
gente era come uno sciame di insetti che sbattevano<br />
contro le pareti di un bicchiere rovesciato.<br />
Un lamento di corvi spaccava il tutto compatto dello<br />
scroscio e i cani ululavano come lupi. Una luna pesante<br />
e torbida andava a sbattere contro le cime dei monti.<br />
C’era un ordine, una cadenza talmente precisa, in quella<br />
ostinazione, che niente mi parve più impossibile.<br />
Ora la pioggia sembrava lenire il suo sbattere, ora la luna<br />
sembrava una gemma incernierata fra i graniti. Ora<br />
111
il lamento dei cani sembrava un invito ad alzarmi. Bastava<br />
decidersi, bastava non lasciarsi cogliere alla sprovvista<br />
<strong>dal</strong>la paura.<br />
Sapevo cosa c’era da fare: andare a Predas Arbas. E il<br />
fatto di averlo deciso rendeva il pericolo che Ruggero<br />
Tanchis la prendesse male una possibilità fra tante.<br />
Dovevo farlo, nonostante Poli insistesse a dire che<br />
non era prudente, che non si sa mai come reagisce la<br />
gente <strong>dal</strong>le nostre parti.<br />
Che tante se ne dicono e se ne son dette della gente<br />
di queste parti: che colpiscano prima di farti aprire<br />
bocca; che siano muli irragionevoli; che siano bastardi<br />
dimenticati <strong>dal</strong> consesso dei pensanti; che abbiano<br />
pietre al posto del cervello. Ma io non ho mai dovuto<br />
imbracciare un’arma in vita mia e la maggior parte di<br />
quelli che conosco da queste parti sanno usare meglio<br />
la metafora che la carabina o la leppa. O le sanno usare<br />
allo stesso modo. Non sorprenda che da queste parti<br />
la parola conti ancora qualcosa. Quella che si dà.<br />
Quella che si toglie. Da queste parti dire qualcosa significa<br />
anche farla. La scrittura è solo un atto formale<br />
e vale meno di due mani callose che si stringono per<br />
un accordo. La scrittura è un ponte custodito da gabellieri<br />
eruditi che possono scrivere solo di quanto è<br />
già stato espresso. Da queste parti i verba hanno le ali<br />
tarpate e gli scripta sono stilati con l’inchiostro simpa-<br />
112<br />
tico. Semmai qualche concessione ha fatto quest’angolo<br />
di mondo, semmai ha piegato la testa a una logica<br />
estranea, semmai ha dimostrato volontà di contribuire,<br />
l’ha fatto proprio piegandosi alla necessità tutta<br />
estranea di fissare sulla carta quanto era già stato fissato<br />
nelle teste e nei cuori. E pareva un’offesa chiedere<br />
di stilare un contratto, un accordo prematrimoniale,<br />
una donazione.<br />
Attraversare quel ponte è stata la concessione, e magari<br />
illudersi che procedere su un doppio binario, la<br />
parola e la scrittura, fosse un atto indolore. Perché la<br />
scrittura poggia sulla carta, la parola sullo sguardo. La<br />
scrittura necessita di sacerdoti e archivi e apparati; la<br />
parola conta sulla memoria. E magari il rischio vero, su<br />
dolore, è proprio quello di perderla la memoria.<br />
Ho imparato che il cammino della frase <strong>dal</strong>la testa<br />
alla mano è un percorso immensamente lungo, molto<br />
più lungo di quello <strong>dal</strong>la testa alla bocca. Ne so qualcosa.<br />
Non riesco nemmeno a pensarci a tutto quello<br />
che non sono riuscito a scrivere, sono solo riuscito a<br />
raccontarlo fidando nella memoria dei miei ascoltatori.<br />
Ho, tuttavia, un’idea chiarissima di quanto ho<br />
scritto senza chiedere niente in cambio se non un’attenzione<br />
labile corroborata <strong>dal</strong>la certezza dei caratteri<br />
stampati.<br />
Così ho deciso che sono un uomo delle mie parti: e<br />
tutto quello che non mi resta in mente non vale la pena<br />
di essere scritto. Nessun rimpianto: Dio solo sa quanti<br />
113
versi perfetti si sono cubati chissà in quale angolo della<br />
mia testa e non ne sono più usciti. Nessun rimpianto:<br />
non erano perfetti, evidentemente.<br />
Forse il mio compito, e di quelli come me, è proprio<br />
di pensare al modo giusto per attraversare questo ponte,<br />
guardando avanti senza timori, con fiducia. Pensando<br />
al passato, remoto o recente che sia, come a un<br />
apparato in cui vale la pena di discernere quanto ci fortifica<br />
e quanto ci indebolisce. Pensando che anche la<br />
scrittura è ancella della parola, che le parole come le<br />
note di Orfeo possono ammansire le bestie. Quelle<br />
dette.<br />
– Ci vuole un atto ufficiale, – decretò Poli. – Ci facciamo<br />
firmare un mandato e a Predas… Arbas ci andiamo<br />
insieme.<br />
Mi venne da ridere. Poli mi guardò con disappunto.<br />
– Stavo pensando a Cristoforo Colombo… – provai<br />
a scusarmi. – A una frase che mi ha sempre fatto ridere.<br />
Anche se in fondo è triste. L’ha scritta al re di Spagna<br />
<strong>dal</strong>le Indie o America che fosse. – Poli mi guardò<br />
come si guarda un malato di mente. – Riguarda il parlare,<br />
– dissi seguendo un discorso tutto mio. – Il potere<br />
del linguaggio. E la dice lunga su come si comportano<br />
le culture di conquista. Vuole sentirla? – domandai come<br />
rendendomi conto solo in quell’istante che non stavo<br />
parlando da solo.<br />
Poli non sapeva cosa rispondere e io del resto non gli<br />
lasciai il tempo di rispondere.<br />
114<br />
– Aveva trovato gli indigeni, – attaccai. – E pensò bene<br />
che valeva la pena di caricarli su una caravella in<br />
partenza per la Spagna per farli vedere al re. Sicché cominciò<br />
ad avere dei dubbi perché gli indigeni in questione<br />
non sapevano una parola di spagnolo e questo<br />
poteva risultare offensivo non solo nei riguardi del sovrano,<br />
ma di tutta la cultura, l’unica cultura che esso<br />
incarnava. I tempi erano stretti e Colombo si rese conto<br />
ben presto che non sarebbe riuscito a insegnare nulla<br />
a quei selvaggi. Così si mise allo scrittoio e spedì una<br />
missiva che diceva pressappoco così: A Nostro Signore<br />
piacendo, al momento della partenza io porterò sei di<br />
questi uomini alle Vostre Altezze, così che possano imparare<br />
a parlare. – Risi di gusto.<br />
Il maresciallo Poli aggrottò le sopracciglia. Poi tentò<br />
un sorriso.<br />
– Capisce? – incalzai. – Non ha detto: così che possano<br />
imparare a parlare lo spagnolo; ha detto così: che<br />
possano imparare a parlare.<br />
– E questo cosa vorrebbe dire esattamente? – mi<br />
freddò il maresciallo.<br />
– Niente, niente… – mi arresi.<br />
Che siamo uomini su questa terra. Volevo dire esattamente.<br />
Che <strong>dal</strong>le nostre parti ha ragione chi usa le parole<br />
giuste, non chi le grida più forte. Né, tantomeno, chi<br />
le appende ai crocicchi stampate col piombo.<br />
Le parole hanno costruito ogni singolo meccanismo<br />
115
della nostra società: noi con le nostre parole abbiamo<br />
costruito civiltà di pietra levigata e codici universali.<br />
Non a parole. La scrittura è arrivata dopo <strong>dal</strong>le stive<br />
delle navi fenice o romane. Ed era scan<strong>dal</strong>osa. Unica e<br />
scan<strong>dal</strong>osa.<br />
Poli queste cose non poteva saperle, da dove viene<br />
lui chi non sa scrivere è semplicemente un analfabeta.<br />
Da dove viene lui la scrittura ha un valore imperativo.<br />
Ed è garanzia di civiltà. Appunto.<br />
– Ci vuole un atto ufficiale, – mi disse dunque il maresciallo<br />
Poli. – Non faccia quello che sta pensando di<br />
fare. Non lo faccia, perché se andrà a… Predas… Arbas,<br />
– incespicò nel pronunciare quel toponimo, – a<br />
parlare con Ruggero Tanchis, senza una copertura legale,<br />
io non potrò aiutarla. Mi spiego?<br />
Alzai le spalle. – Sono pur sempre l’avvocato di suo<br />
fratello. E poi voglio solo parlargli, non mi occorrono<br />
carte per questo, lo sa lui e lo so io. Non mi succederà<br />
niente.<br />
116<br />
Camminavo curvo come sotto a un fascio di legna. La<br />
campagna fuori <strong>dal</strong> paese mi salutò come poteva tutta<br />
intenta a ingoiare sangue. Il <strong>cielo</strong> mi crollava sulla testa.<br />
Lo sentivo sul cappello in quel pomeriggio di notte<br />
precoce in cui decisi. Non volevo, non potevo abbandonare.<br />
Nonostante le raccomandazioni e i timori del<br />
maresciallo Poli. Sarebbe stato come ammettere che<br />
avevano ragione tutti quelli che pensano che le cose<br />
vanno come debbono andare. E io non l’ho mai pensata<br />
in questo modo. Che ho sempre pensato alla forza<br />
della Ragione come l’unica arma che sapessi maneggiare<br />
con destrezza. E forse è per questo che ho abbracciato<br />
la Musa.<br />
Comunque decisi di proseguire. A tutti i costi.<br />
C’erano questioni importanti che non tornavano. E<br />
questo non potevo sopportarlo. Dovevo capire come<br />
la strada di un delatore, faccendiere, usuraio avesse incrociato<br />
quella di un ragazzo qualunque che non era<br />
quasi mai uscito di casa. Dovevo dare un movente a un<br />
omicidio senza movente. E, per essere completamente<br />
117
franco, non mi interessava nemmeno sapere se Filippo<br />
o Ruggero Tanchis fossero innocenti o no.<br />
L’unica cosa che mi interessava in quel momento era<br />
raggiungere Predas Arbas. Cosa tutt’altro che semplice.<br />
Ché la terra non stava compatta sotto ai piedi, ma<br />
scorreva via e l’erba si era disciolta in un pantano stagnante.<br />
Il podere dei Sanna Contu aveva l’ingresso in un cancello<br />
sorretto da due balaustre come garitte. Per il resto<br />
nessuna recinzione. Solo il cancello abbandonato<br />
dove la collina iniziava a declinare. Quel podere si presentava<br />
così nel primo tratto: come il vecchio letto di<br />
un fiume deviato rinchiuso dai costoni, incipriato di<br />
saggina e cardi. C’era ancora da scarpinare prima di<br />
raggiungere il casotto del massaio e la parte produttiva<br />
del podere. Perché avanzando dove la strada si faceva<br />
più erta, superando un accroccoro di massi stondati si<br />
riprendeva a scendere verso un Eden di frutteti e orti e<br />
oliveti. Lì stava il casotto, quasi nascosto nel rigoglio dei<br />
querceti.<br />
Ora da quel <strong>cielo</strong> che fingeva la notte in pieno pomeriggio<br />
si staccavano lembi di luce accecante. Un cane<br />
cominciò a latrare avanzando fino a restare in piedi<br />
su due zampe, ché una catena lo teneva saldamente<br />
attaccato alla parete della casa. Si spinse a pochi passi<br />
da me, io indietreggiai per frapporre più spazio fra me<br />
e quel demonio ghignante che mi mostrava i denti e<br />
perdeva bava <strong>dal</strong>la bocca.<br />
118<br />
– Muratzà! Bonu! – Il cane indietreggiò senza smettere<br />
di digrignare i denti, la catena finalmente allentata<br />
fece una specie di tonfo cadendo al suolo. Il cane se la<br />
trascinò fino ai piedi del suo padrone. – Bonu, bonu, –<br />
ripeteva lui dandogli manate affettuose sulla testa. Il<br />
cane scivolò in una specie di guaito uggioloso. – Bonu<br />
ca non b’at nudda, – lo rassicurava Ruggero Tanchis.<br />
Mi ero rifugiato sotto un querciolo. – Vi devo parlare,<br />
– urlai per superare lo scrosciare della pioggia. –<br />
Sono…<br />
– Lo so chi siete! – m’interruppe il giovane. – Entrate,<br />
volete star lì a prendere acqua?<br />
– Vi devo parlare, – ripetei.<br />
– Eh, parliamo dentro. Non preoccupatevi, Muratzanu<br />
lo tengo io, – m’incoraggiò lui vedendomi titubante.<br />
– Non state là sotto che c’è pericolo per i fulmini!<br />
Avanzai verso Ruggero e il suo cane, pronto a scattare<br />
in caso di pericolo. Muratzanu ammasettato <strong>dal</strong> padrone<br />
allargò le fauci in un lungo sbadiglio, ma tanto<br />
bastò a farmi saltare.<br />
Al giovane scappò da ridere. – Dai, che non vi fa<br />
niente.<br />
Il casotto era una costruzione elementare, un perimetro<br />
di pareti a secco intonacate a calce. L’interno era intiepidito<br />
da un focolare che consumava grossi ceppi di<br />
quercia ed era sorprendentemente ordinato e lindo.<br />
Ruggero Tanchis, che mi aveva preceduto, mi invitò a<br />
119
sedere. Senza dire una parola andò a frugare all’interno<br />
di un mobile rustico, ne estrasse una bottiglia. – Abbardente!<br />
– disse sollevandola. – Un bicchierino le fa bene<br />
con tutta la pioggia che si ha preso. – Aveva un viso largo,<br />
si poteva definire uno di quegli uomini che ispirano<br />
sicurezza.<br />
Accennai che un bicchierino non ci sarebbe stato<br />
male.<br />
– L’ho fatta io. È buona, è di moscato, – disse colmando<br />
il bicchierino fino all’orlo.<br />
Aveva ragione. Era buona. Mi fece bene. – Ho bisogno<br />
di sapere una cosa, – dissi con la lingua leggermente<br />
impastata.<br />
Intanto Ruggero si era spostato verso un angolo della<br />
stanza ad armeggiare con uno scatolone di legno munito<br />
di una manovella metallica e sormontato da una<br />
cornucopia. – Le piace la musica? – mi chiese.<br />
Risposi che sì, che mi piaceva…<br />
– …Mozart! – annunciò facendomi vedere un rullo<br />
dentato. – L’America… – disse indicandomi la scritta<br />
Edison incisa su una piastra d’ottone nel lato anteriore<br />
della scatola in legno di noce mentre ne faceva girare la<br />
manovella. – Che paese straordinario! – Dalla cornucopia<br />
cominciarono a fluire note gracidanti e sabbiose,<br />
ma sovrastavano il sibilo del vento e le frustate della<br />
pioggia dell’esterno. E si trattava di meraviglia, meraviglia<br />
pura. Tutto il mio corpo fu come sbalzato in un<br />
altrove caldo e avvolgente. Ma forse c’entrava l’acqua-<br />
120<br />
vite. Forse c’entrava l’attrazione ipnotica delle mani<br />
tozze, incallosite, di Ruggero Tanchis, che seguivano la<br />
melodia scivolando nell’aria davanti al suo viso.<br />
– Avete mai sentito niente di più bello? – mi chiese a<br />
un certo punto senza aprire gli occhi e senza smettere<br />
di accarezzare il flusso armonico.<br />
Confessai che no. Ed era la verità. Anzi, verità per<br />
verità: era la prima volta che sentivo un pezzo di Mozart.<br />
Certo mi era capitato di andare all’Opera e assistere<br />
a qualche concerto, a Sassari o a Cagliari, anche a<br />
Bologna durante il periodo della ferma militare.<br />
Ma questo Mozart!<br />
Questo Mozart che mi accarezzava il petto. Questo<br />
Mozart che scappava attraverso le fessure e se ne andava<br />
a giro nella valle, s’insinuava nelle tane delle volpi,<br />
andava a mischiarsi con la pioggia per penetrare nella<br />
terra, in quella terra che mi parve all’improvviso di non<br />
aver mai amato tanto, anche così, affogata nel diluvio,<br />
piegata, schiava degli uomini e degli elementi, quella<br />
era la terra più bella, più dolce, più tutto… – Forse è<br />
meglio che… parliamo del motivo che mi ha portato<br />
fin qui, – dissi d’improvviso, tentando di alzarmi. Mi<br />
stavo lasciando andare e se c’è una cosa che non posso<br />
sopportare sono le persone che si lasciano andare.<br />
Ruggero Tanchis si portò l’indice al naso, poi riunì le<br />
mani davanti alla bocca in un gesto di preghiera. – L’Adagio,<br />
l’Adagio, – m’implorò invitandomi a rimettermi<br />
seduto.<br />
121
Mi rimisi seduto. L’Adagio procedeva, mi afferrava<br />
le intranne passando direttamente <strong>dal</strong>la gola e stringeva<br />
artigliandomi in un dolore dolcissimo come quello<br />
provocato da un verso perfetto. O dagli occhi di Clorinda.<br />
Ruggero Tanchis aveva il viso raggelato in un sorriso<br />
estatico.<br />
– Vi avranno già detto che abbiamo buone ragioni<br />
di pensare che vostro fratello non sia morto per suicidio,<br />
– dissi tutto d’un fiato come risvegliandomi da<br />
una malìa, senza preoccuparmi di scegliere il momento<br />
giusto.<br />
La manona di Ruggero Tanchis afferrò la manovella<br />
interrompendo la musica. – Già me l’hanno detto, –<br />
confermò dopo qualche secondo. Tutta la magia di poco<br />
prima si era trasformata in un silenzio di scrosci. E<br />
anche il viso dell’uomo sembrava diventato improvvisamente<br />
terreno. Attraverso i suoi occhi scuri fece capolino<br />
un’ostilità greve piena di dolore. – E che cosa vi<br />
siete immaginato? Che l’abbiamo ucciso noi? – questo<br />
disse, con la semplicità di chi non è abituato a girare<br />
intorno alle cose.<br />
Silenzio.<br />
– Io con queste mani? – riprese, dopo aver inteso<br />
chiaramente il mio silenzio come una conferma. Gli occhi<br />
gli si riempirono di lacrime così all’improvviso che<br />
non fece in tempo a voltarsi per nascondersi. – Se l’aveste<br />
conosciuto, se ci vedevate insieme, questo non lo<br />
122<br />
avreste pensato mai, – sussurrò <strong>dal</strong>l’angolo in cui si era<br />
rifugiato.<br />
Ero in difficoltà. – Ma voi a Bobore Solinas l’avete<br />
minacciato! – Fu l’unica cosa che mi venne da dire.<br />
– Bobore Solinas era la peggiore arga da mondezzaio<br />
che avesse mai visto la luce e se non l’avesse fatto Filippo<br />
di tappargli per sempre quella fogna di bocca l’avrei<br />
fatto io molto volentieri. Ma lui ha trovato il coraggio di<br />
farlo e io no. Di questo sono colpevole. Perché Filippo<br />
era uno che non ci pensava due volte. Quando tornai a<br />
casa per il cambio ero furioso, quella… merda… Se la<br />
godeva a irroccare la gente e diceva cose che non doveva<br />
dire! Mi sfogai, sì parlai coi miei fratelli, con chi<br />
sennò? Dissi che lo avrei ammazzato con le mie mani,<br />
questo dissi… Certo che lo dissi. E invece andai a stendermi,<br />
avevo una stanchezza in corpo che non mi reggevo<br />
in piedi. Elias se ne andò a lavorare. Filippo se ne<br />
stava a intagliare i suoi soldatini. Poi quando mi sono<br />
svegliato, giuro che non erano passate due ore, mi sono<br />
trovato da solo in casa… E il resto lo sapete…<br />
– Quindi volete dire che frade brostu si è… come dire?…<br />
Incaricato in vece vostra…<br />
– È che mi conosceva… Sapeva che io non ce l’avrei<br />
mai fatta. Lui era uno di quelli che non conosceva ostacoli.<br />
Quando lo scartarono <strong>dal</strong>la visita di leva io gli dissi<br />
che se ne venisse a stare qui un po’ di tempo e lui era<br />
tranquillo, non era matto s’abbocà, quello era più savio<br />
di tutti noi. Che cosa aveva avuto <strong>dal</strong>la vita? Quello<br />
123
a cui teneva di più al mondo gli era scappato <strong>dal</strong>le mani,<br />
ma lui niente, diceva che lui non si arrendeva, che<br />
gli avevano fatto promesse, che si poteva ritentare. E<br />
finiva che era lui a incoraggiare me… Che brutta cosa<br />
che avete pensato s’abbocà!<br />
– Promesse? Chi? – domandai.<br />
– Il tenente medico che l’aveva visitato per esempio,<br />
il dottor Fantini, Filippo non parlava d’altro, per lui<br />
era un eroe. E chi glielo andava a dire che magari quello<br />
lì gli aveva detto qualcosa tanto per dire, tanto per<br />
non deluderlo troppo. Ma Filippo no, lui insisteva che<br />
quel tenente l’aveva preso a ben volere, che col suo<br />
aiuto avrebbe avuto un’altra possibilità… E io gli dicevo<br />
di non illudersi… Finché una sera che ero tornato<br />
<strong>dal</strong>l’orto un po’ più tardi l’ho trovato seduto lì, per terra<br />
in quell’angolo, e mi sono spaventato… E lui…<br />
– E lui appena mi ha visto è corso ad abbracciarmi,<br />
ha detto che il tenente era andato a trovarlo, che era<br />
andato via non più di mezz’ora prima, che non si muovesse<br />
da lì se non era vero, che gli aveva detto che si era<br />
occupato del suo caso e che con un certificato medico<br />
si sarebbe sistemato tutto. Era pallido, gli occhi rossi<br />
come se avesse pianto, non aveva pace, ma era… sereno.<br />
Costrinse Elias a portarlo da un dottorone importante.<br />
Così, ci dicemmo, male non può fare, è inutile<br />
che stiamo a preoccupare le zie. E così iniziammo il<br />
calvario del dottore…<br />
– Lo so, ho parlato con il professor Puligheddu.<br />
124<br />
– E allora sapete che cose terribili ha tirato fuori, cose<br />
che non stanno da nessuna parte…<br />
– Vi riferite agli… abusi?<br />
Ruggero Tanchis affrontò quella parola come se gli<br />
fosse arrivata tra la nuca e le spalle. – Elias a momenti<br />
gli mette le mani addosso, perché cose del genere non<br />
sono cose da dirsi…<br />
– Lo posso immaginare.<br />
– E allora, se lo potete immaginare, immaginatevi un<br />
ragazzo con le mani d’oro, una persona piena di attenzioni…<br />
– Ho l’impressione che voi abbiate frainteso le parole<br />
del professor Puligheddu… Qualche volta capita di<br />
usare termini magari troppo azzardati… Lui faceva<br />
delle ipotesi… cliniche…<br />
Tutto il corpo di Ruggero Tanchis ebbe uno scatto in<br />
avanti. – Ipotesi state dicendo? – domandò scaraventando<br />
a terra una sedia e avanzando verso di me. Indietreggiai<br />
per mantenermi a distanza. Il viso dell’uomo<br />
era diventato un campo di battaglia. – Queste non sono<br />
cose da dire! Ipotesi da fare! Queste sono cose da<br />
bestie non da uomini! E anche voi… Venite qui a fare<br />
ipotesi, a darmi dell’assassino, che per quella merda di<br />
Solinas non mi interesserebbe, ma per mio… fratello…<br />
– Profondi singhiozzi gli bloccarono la parola e il<br />
respiro.<br />
– Siamo <strong>dal</strong>la stessa parte, – dissi raggiungendolo. –<br />
Non fate così… Non è così che si risolvono le cose…<br />
125
Fu a quel punto che Muratzanu cominciò ad abbaiare<br />
nello spiazzo davanti al casotto. Tanto bastò a costringere<br />
Ruggero Tanchis a riprendere padronanza di<br />
se stesso. Con pochi passi si recò verso l’ingresso, spalancò<br />
la porta. – Chi c’è? – chiese all’oscurità. Quindi<br />
si voltò verso di me. – È arrivata la cavalleria, – disse.<br />
– Cos’è, passava da queste parti? – chiesi al maresciallo<br />
Poli salendo sul calesse con cui mi aveva raggiunto<br />
a Predas Arbas.<br />
– C’è poco da fare gli spiritosi! Ci avrei giurato che<br />
non mi dava retta. Come devo farglielo capire che certi<br />
rischi non si corrono? Per dio! Se ne va così senza dire<br />
niente a casa di uno che potrebbe aver commesso due<br />
omicidi. Lei la deve smettere di fare di testa sua…<br />
Il calesse ballonzolava verso il paese. La pioggia rimbalzava<br />
sulla groppa del cavallo. L’oscurità si era fatta<br />
di gelatina.<br />
– Quali rischi, – commentai. – Ho visto qualcosa che<br />
mi ha sorpreso.<br />
– E sarebbe?<br />
– Ho visto una persona distrutta <strong>dal</strong> dolore. Dolore<br />
vero, maresciallo. È tutto sbagliato. Abbiamo sbagliato<br />
tutto le dico. Bisogna ricominciare.<br />
Il maresciallo Poli sporse la testa <strong>dal</strong>la capote. – Ma<br />
quanto piove? – Ma non era una domanda, piuttosto<br />
una constatazione.<br />
126<br />
– Ruggero Tanchis non ha ucciso nessuno, maresciallo,<br />
– riflettei cercando di riacchiappare il discorso.<br />
– E allora Filippo Tanchis ha ucciso il Solinas e si è<br />
ucciso. E noi stiamo perdendo tempo…<br />
– …No, non si è ucciso. Non è proprio possibile.<br />
Forse noi stiamo considerando collegati due fatti che<br />
sono differenti.<br />
– Non potevo aspettarmi di meglio: la soluzione più<br />
complicata. Insomma, che elementi abbiamo? Un giovanotto<br />
con qualche… problema, si è trovato sul luogo<br />
di un omicidio: per caso?<br />
– Lasciamo perdere la questione Solinas per un attimo,<br />
potrebbe essersi trattato di un pasticcio che si è<br />
aggiunto a una questione precedente…<br />
– E sarebbe?<br />
– Gli abusi ai danni di Filippo Tanchis, marescià! Da<br />
lì parte tutto secondo me. I fratelli dicono di non crederci,<br />
ma il tarlo ce l’hanno eccome…<br />
– Bene, provo a darle retta: da una parte c’è la questione<br />
Solinas, diciamo che il Tanchis si è preso un’ora<br />
di libertà <strong>dal</strong> controllo dei familiari ed è finito in mezzo<br />
a un omicidio… Nel frattempo c’è stata la questione<br />
degli abusi, sempre ammesso che ce ne siano stati…<br />
Come si collega tutto questo con la sua morte in carcere?<br />
Almeno si fosse suicidato, a questo punto!<br />
Non faceva una piega, niente da replicare. Tutto sbagliato.<br />
Il calesse prese a singhiozzare sui carapaci.<br />
– Fermi qui che sono arrivato.<br />
127
– Buonanotte avvocà, dormiamoci sopra che la notte<br />
porta consiglio…<br />
128<br />
Il primo gradino scricchiolava. E lì, nel mio sogno,<br />
stava seduto mio padre: – Troppo presto me ne sono<br />
andato, che quasi non riuscivo a vederti camminare su<br />
due gambe, – diceva, poi abbassava la testa e sollevava<br />
le spalle. – Ma sono contento lo stesso, non c’è cosa di<br />
cui possa rimproverarmi e grazziaddio non vi manca<br />
niente a te e a tuo fratello e a tua madre.<br />
– Niente, non ci manca niente, ma è vero che ve ne<br />
siete andato troppo presto…<br />
Nel mio sogno mio padre si levava il cappello: era ancora<br />
giovane e io ero solo un bambino di cinque anni.<br />
– Dove ve ne siete andato a morire? – chiedevo.<br />
– In mare, – diceva lui. – Proprio davanti al porto di<br />
Livorno. Mare brutto figlio mio. Due giorni di mare<br />
brutto. E pioggia da non vederci a un palmo. Come<br />
ora. – E indicò col dito un punto qualsiasi fuori <strong>dal</strong>la<br />
casa. – Non ci fu niente da fare. Niente di niente. E fu<br />
così. Senza preavviso, solo sentii che il cuore mi esplodeva<br />
nel petto. E caddi. E non c’era un dottore…<br />
Fu il mio grido a svegliarmi.<br />
129
Ed eccomi a respirare a fatica. Le nuvole oltre le assi<br />
del soffitto commentavano con starnuti e borborigmi.<br />
Era come un parlottare di giganti che si giocavano a<br />
dadi il destino di questo pezzo di terra.<br />
La luce fioca di un fiammifero mi aiutò a vedere il<br />
quadrante della sveglia. Erano le tre. Poi vennero le<br />
quattro e i giganti cominciarono a lottare con schiaffi a<br />
mano piena che facevano tremare la casa <strong>dal</strong>le fondamenta.<br />
Sentii mia madre scendere verso la cucina. Quando<br />
la raggiunsi stava ravvivando le braci nel caminetto.<br />
– Neanche voi riuscite a dormire? – chiesi.<br />
– E chi vuoi che dorma stanotte, – disse lei senza smettere<br />
di lavorare.<br />
130<br />
Ora mia madre tace fissando i bagliori rossastri che si<br />
espandono <strong>dal</strong> camino con un sussurro orante. È giovane,<br />
Raimonda: il viso spianato, i capelli neri. Ha occupato<br />
uno sgabellino di férula e se ne sta lì ad aspettare<br />
con le palme tese verso il calore. La veglia le striglia<br />
la schiena con brividori improvvisi. Là fuori l’acquazzone<br />
è un’orgia immensa di baccanti con sistri e<br />
nàcchere. Raimonda si è fatta piccolissima: un bòzzolo<br />
scuro e lucidato <strong>dal</strong>le fiamme come una gemma di<br />
ossidiana.<br />
Io dormo a occhi spalancati seduto come ad aspettare<br />
la colazione. Ho cinque anni. Non parliamo, io e<br />
mia madre, il nostro silenzio fa da contrappunto al fragore<br />
assordante dell’esterno. Ascolto quel silenzio triste<br />
e concentrato.<br />
Mio fratello dorme, il temporale non lo ha svegliato.<br />
Mio padre scende in cucina vestito alla continentale<br />
col panciotto. Ha il soprabito piegato sull’avambraccio.<br />
Tutto è pronto per il viaggio: in carrozza fino a Terra-<br />
131
nova e poi sul bastimento, oltre il mare, verso Livorno.<br />
Tutto è pronto: una valigia di cuoio più grande per i<br />
cambi, una più piccola per gli incartamenti. E un pacchetto<br />
con qualcosa da mangiare.<br />
Raimonda si alza in piedi e va verso di lui solo quando<br />
mio padre indossa il soprabito. – Bae chin Deus, –<br />
gli sussurra posandogli una mano calda sul viso. Poi<br />
mio padre afferra la valigia, quella grande, e si dirige<br />
verso l’uscita pronto a farsi inghiottire <strong>dal</strong>la pioggia.<br />
Mia madre lo segue con la valigia piccola e il pacchetto.<br />
Sono a due passi <strong>dal</strong>l’uscio quando lui abbandona<br />
il bagaglio e viene verso di me. Mi raggiunge da dietro,<br />
immerge la sua mano fra i miei capelli, poi mi bacia<br />
la nuca. – Bustià vattene a dormire che è presto, –<br />
mi dice.<br />
Ho capito in quel preciso istante che non sarebbe<br />
più tornato.<br />
La porta si chiude alle sue spalle. Raimonda ritorna<br />
a sedere. Tira su col naso per trattenere qualche lacrima.<br />
Chissà se ha capito anche lei. – Hai sentito tuo padre?<br />
– sussurra all’improvviso. – Vattene a dormire<br />
che hai ancora due orette di sonno.<br />
Tornai a letto. E caddi in un sonno rapitore… Sognai…<br />
Tutto tremava. Tremava davvero. A colpi frequenti:<br />
l’enorme battito di un enorme cuore sopra di<br />
me. Che trasudava sui miei vestiti, sulle mie mani,<br />
pronto a esplodere. E io avevo cinque anni. Ed ero solo,<br />
a guardare da un orrido tutta quell’esplosione di<br />
132<br />
sanguinaccio sopra di me. E il mare sotto. Schizzi grassi<br />
mi colpivano il viso e le mani. <strong>Sangue</strong>. <strong>Sangue</strong> <strong>dal</strong><br />
<strong>cielo</strong>…<br />
133
Il procuratore del re mi guardò come si guarda un<br />
pazzo furioso. – Riesumazione? – domandò di nuovo.<br />
– Ho deciso di rivolgermi direttamente a lei per evitare<br />
la trafila. Un suo permesso eviterebbe altre perdite<br />
di tempo.<br />
– Quindi se ho capito bene dovrei permettere la riapertura<br />
di un caso chiuso, siglando la richiesta di riesumazione<br />
e dell’esame tanatologico delle salme di Solinas<br />
Salvatore e Tanchis Filippo? Lavorate così da queste<br />
parti? Non ci sono abbastanza casi di cui occuparsi?<br />
– La mia richiesta parte proprio <strong>dal</strong> presupposto che<br />
i casi in questione non siano affatto chiusi. Ho qui le<br />
deposizioni firmate del professor Puligheddu e della<br />
guardia carceraria Carrus, senza contare le indagini da<br />
me fatte svolgere personalmente, rispetto alla condotta<br />
e alle abitudini del Solinas e la chiara, incontrovertibile,<br />
dimostrabile prova che Filippo Tanchis non si<br />
può essere ucciso.<br />
– Mi avevano detto che lei è un osso duro, – constatò<br />
il procuratore dopo qualche secondo di silenzio. – E<br />
135
mi hanno detto che lei è persona di cultura influente<br />
da queste parti. Mi hanno detto che lei scrive sui giornali.<br />
Accennai di sì.<br />
– Orbene, come lei avrà capito io mi trovo in una posizione<br />
molto delicata. Ho bisogno di tutto il sostegno<br />
possibile. Non sono tempi facili questi e una buona<br />
parola conta. Vale oro, caro avvocato. Non voglio girare<br />
intorno alla faccenda: se lei sta <strong>dal</strong>la mia parte è possibile<br />
che i giornali smetteranno di flagellarmi.<br />
– Lei mi sopravvaluta, – tentai. – Voglio essere chiaro<br />
almeno quanto lei: non mi rimane molta scelta se questo<br />
è il prezzo della sua firma.<br />
Il procuratore sorrise. – Non parliamo di compravendite,<br />
avvocato. Lo consideri piuttosto un accordo<br />
tra due persone che perseguono lo stesso fine. Io ho<br />
bisogno di lei, lei ha bisogno di me…<br />
– Come c’è riuscito? – domandò il maresciallo Poli<br />
mentre attendevamo il responso del tanatologo.<br />
– Abbiamo fatto un accordo, – risposi semplicemente.<br />
– Questo pomeriggio incontro una delle guardie<br />
carcerarie che erano di turno la notte in cui Tanchis è<br />
morto. Mi sono segnato il nome, – disse frugandosi le<br />
tasche. – Ecco: Ruju, Cosimo Ruju, – specificò. – Ci è<br />
voluto un bel po’ di tempo per convincerlo ad accet-<br />
136<br />
tare un colloquio, e lei sa bene che non potevo costringerlo.<br />
Ho dovuto minacciare, – mi informò il maresciallo.<br />
– E l’altro? – domandai.<br />
– L’altro? – domandò a sua volta il maresciallo.<br />
– Sì, l’altra guardia carceraria che era in turno quella<br />
notte come si chiamava?<br />
– Dice Fois?<br />
– Eh, così si chiamava?<br />
– Oh… quello! esclamò Poli rimettendo in ordine<br />
le idee. – Quello era di turno in spirito, col corpo era<br />
in magazzino a dormire. Roba da matti.<br />
Il dottor Camboni, tanatologo del tribunale, ci interruppe<br />
uscendo come una furia da una stanza in fondo<br />
al corridoio. – Chi ha firmato il certificato di morte di<br />
questo Solinas? – domandò senza nemmeno aspettare<br />
di averci raggiunto. Sventolava nervosamente il certificato<br />
incriminato. – Un pazzo l’ha firmato! – sbraitava.<br />
Attesi che ci arrivasse a due passi per rivolgergli un<br />
cenno di domanda. – Chi è questo Fantini? – chiese indicandomi<br />
uno scarabocchio in calce al certificato.<br />
Il maresciallo Poli sgranò gli occhi. – Il tenente medico?<br />
– mi chiese sottovoce.<br />
Feci un veloce gesto di assenso. – Si spieghi meglio, –<br />
dissi rivolto al dottor Camboni.<br />
– C’è poco da spiegare: una morte per infarto e una<br />
morte per strangolamento sono cose affatto differenti!<br />
– Vuol dire?… – accennò il maresciallo Poli.<br />
137
– Benedetto uomo! Voglio dire che Solinas Salvatore<br />
non è morto per strangolamento come si evince da<br />
questa perizia! – tagliò bruscamente Camboni.<br />
– E… per l’altro? – intervenni.<br />
Camboni guardò a terra. – Il Tanchis presenta lacerazioni<br />
di natura sospetta nell’area perineale, non posso<br />
dirlo con assoluta certezza, ma quello che sospetta a<br />
proposito di pratiche… Insomma è assolutamente probabile.<br />
Quanto alle cause della morte pochi dubbi: il<br />
polso destro è lacerato trasversalmente, quello sinistro<br />
longitudinalmente lungo il percorso delle vene. Ha<br />
perso più sangue da destra che da sinistra.<br />
Il maresciallo Poli si batté una coscia con la mano<br />
aperta. – Maledetto! – sibilò. – Gliela faccio pagare…<br />
– Bisogna calmarsi, – dissi una volta giunti in caserma.<br />
– Calmarsi? – urlò il maresciallo. – Ma si rende conto?<br />
– Mi rendo conto: abbiamo forrocato un nido di vipere.<br />
E ora è fondamentale fare tutto per bene e tenere<br />
fuori da tutto la famiglia di Filippo Tanchis, per il momento.<br />
Non è indispensabile che siano informati di<br />
tutti gli sviluppi. Non trova?<br />
– Sono d’accordo, – assentì il maresciallo Poli provando<br />
a calmarsi. – Cosa consiglia di fare?<br />
– È semplice, – dissi. – I programmi non cambiano:<br />
138<br />
senta la guardia carceraria, questo Ruju, e si faccia dire<br />
se il dottor Fantini andava in carcere a trovare Filippo<br />
Tanchis. Lui non era di quelli che hanno l’obbligo della<br />
firma: era un pubblico ufficiale.<br />
Questa constatazione fece digrignare i denti del maresciallo<br />
Poli. – E lei? – mi chiese.<br />
– Io per parte mia voglio arrivare preparato all’incontro<br />
col nostro tenente…<br />
All’Ufficio del Telegrafo lavorava un mio cugino. Aveva<br />
imparato sotto le armi ad armeggiare quel picchio<br />
metallico che segnava righe e punti su una strisciolina<br />
di carta.<br />
Ero sui carboni ardenti.<br />
Mio cugino mi guardava con una specie di sorriso<br />
d’attesa stampato sulla faccia. – Ci vuole il suo tempo<br />
per la risposta, questi di Roma se la prendono con calma…<br />
Quando gli pare a loro, – disse per riempire il<br />
tempo.<br />
Forse passò un’ora ma alla fine il picchio cominciò a<br />
beccare la fettuccia.<br />
Mio cugino che leggeva in tempo reale aggrottò le sopracciglia.<br />
– Dice il colonnello Prevosti che ti saluta e ti<br />
ricorda la promessa di andare a Roma. Dice che sarai<br />
suo ospite. A proposito del tenente medico Fantini<br />
Riccardo, dice essere stato trasferito d’ufficio <strong>dal</strong> Comando<br />
di Torino al Comando di Sassari con sede speci-<br />
139
fica a Nùoro per fatti coperti da omissis. Dice che è uno<br />
che ha appoggi molto in alto e che avrebbe scansato la<br />
Corte Marziale per l’intervento del generale Manunzio.<br />
Ti saluta. Ripete che ti aspetta a Roma. C’hai capito<br />
qualcosa? – mi chiese arrotolandosi la striscia di carta<br />
intorno al palmo della mano.<br />
Accennai di sì. – Ho capito che siamo poco poco meglio<br />
del carcere militare.<br />
Mio cugino fece finta che quella risposta bastasse.<br />
Riccardo Fantini era un uomo qualunque. La testa<br />
forse un po’ troppo grossa per le sue spalle strette. I capelli<br />
di un anonimo castano andavano diradandosi<br />
precocemente sulla sua fronte.<br />
Mi accolse nel suo studio-ambulatorio all’interno dei<br />
locali dell’ufficio distaccato del Distretto Militare.<br />
– Vengo al punto, – lo azzannai. – In qualità di legale<br />
rappresentante di Tanchis Filippo, accusato di omicidio<br />
ai danni di Solinas Salvatore, noto Bobore, e come<br />
certo saprà deceduto in carcere la settimana scorsa…<br />
– Credevo si trattasse di un caso archiviato, – mi tenne<br />
testa.<br />
– Il procuratore del re ha ritenuto di dover prorogare<br />
l’archiviazione e di permettermi la riesumazione e<br />
l’analisi tanatologica del defunto Solinas. È a questo<br />
proposito che mi sono permesso di disturbarla… – sospesi.<br />
140<br />
Il tenente Fantini fece un sorrisetto incredulo. – Non<br />
capisco… – Prese tempo.<br />
– È facilissimo, – accentai. – Lei risulta essere il medico<br />
che ha licenziato la morte del Solinas come causata<br />
da strangolamento.<br />
– Sì, è stato un caso, mi trovavo a passare proprio sul<br />
luogo del delitto qualche minuto dopo il fatto, quel ragazzo<br />
si trovava in piedi, l’altro era a terra, ho ritenuto<br />
mio dovere prestare soccorso, sono un medico, ho fatto<br />
il giuramento di Ippocrate, ma non c’era più niente<br />
da fare per l’uomo a terra: era cianotico e il ragazzo badava<br />
a ripetere che l’aveva ucciso. La conclusione è stata<br />
conseguente, – calcò come se non ci fosse nient’altro<br />
da aggiungere.<br />
– Già, se non che <strong>dal</strong>l’analisi tanatologica è risultato<br />
che Solinas è morto d’infarto, – sparai.<br />
– La cosa mi risulta assolutamente plausibile; non vedo<br />
però, nonostante questo, il motivo della sua visita.<br />
– I motivi sono vari. Certo lei ha ragione: ha ritenuto<br />
in buona fede di dover concludere che il Solinas era<br />
stato strangolato, erano gli inquirenti preposti che dovevano<br />
occuparsi di accertarsene senza ombra di dubbio.<br />
Mi concederà tuttavia che il parere di un medico<br />
dell’esercito ha il suo peso in fatti come questo.<br />
– Non sono responsabile di questa presunzione, avvocato.<br />
Avrebbero dovuto controllare…<br />
– Dicevo che i motivi sono vari. Uno in particolare è<br />
bizzarro: il giovane in questione, il presunto assassino<br />
141
lei lo conosceva, anche se mi pare di aver inteso che ne<br />
parla come di uno sconosciuto.<br />
Il viso del tenente si fece improvvisamente purpureo.<br />
– Che cosa vuol dire con questo? – urlò quasi. – Si<br />
trattava di un paziente e persona <strong>dal</strong>la psiche piuttosto<br />
alterata, se mi è permesso. Quello semmai è stato un<br />
elemento in più a convincermi di un omicidio! E comunque<br />
non ho l’abitudine di discutere dei miei pazienti!<br />
– Neanche di quelli morti?<br />
– Neanche di quelli.<br />
– A me basta sapere se lei aveva per così dire intrattenuto<br />
dei contatti col mio assistito anche dopo la visita<br />
in cui fu scartato. Fu lei a scartarlo per l’esercito, non è<br />
vero?<br />
– È vero. Era ai limiti dei requisiti e presentava forme<br />
evidenti di disturbo psichico. Per il resto la risposta è<br />
no. Non l’avevo più rivisto dopo la visita se non qualche<br />
mese fa davanti a quel cadavere.<br />
– Mai più? – domandai guardando una serie di quattro<br />
Ulàni, uno dei quali solo sbozzato, non ancora colorati,<br />
esposti in bella mostra in una vetrina per medicinali.<br />
– Dove vuole arrivare? – Il tenente era diventato afono.<br />
– Voglio arrivare a una cella della Rotonda dove è rinchiuso<br />
un ragazzo disperato che non ha fatto nulla che<br />
giustifichi la sua detenzione; disturbato certo, come di-<br />
142<br />
ce lei… Un ragazzo che ha ricevuto promesse che non<br />
sono state mantenute… E… attenzioni a cui non ha<br />
potuto opporsi. E che poi è stato ucciso da qualcuno<br />
che poteva entrare in carcere senza firmare il registro<br />
delle visite.<br />
– Ucciso? – Ora il tenente si era fatto piccolo piccolo.<br />
– Lei è pazzo! Mi rivolgerò in alto, molto in alto!<br />
– Faccia pure, correrò il rischio, ma non è detto che<br />
il generale Manunzio possa fare ancora qualcosa per<br />
lei.<br />
Il tenente si lasciò andare su una sedia come un sacco<br />
vuoto. – Va bene! Gli ho portato un coltello in cella e<br />
del legno perché facesse i suoi soldatini, mi aveva promesso<br />
che avrebbe lavorato di notte. Certo mi faceva<br />
pena, era un caso che mi aveva colpito.<br />
– Colpito… – ripetei. – E così lo andava a visitare in<br />
carcere.<br />
– Non ho detto questo! Ci andai quella volta per il<br />
coltello.<br />
– E non ci andò diciamo la sera prima che Filippo<br />
Tanchis morisse?<br />
– No! Non ci sono più andato ho detto!<br />
– E a Predas Arbas? Prima dell’omicidio non andò a<br />
Predas Arbas? Il fratello è disposto a testimoniare che<br />
ci andò…<br />
Il tenente affrontò la grandine di domande tappandosi<br />
le orecchie.<br />
– Che cosa accadde a Predas Arbas? – Dovevo far te-<br />
143
soro del vantaggio. – Forse la stessa cosa che ha causato<br />
il suo allontanamento da Torino? Avevo scordato di<br />
dirle che anche un’altra analisi tanatologica mi è stata<br />
concessa…<br />
Riccardo Fantini capì. Perfettamente. E smise di fare<br />
resistenza. Ora pareva improvvisamente calmo, persino<br />
sorridente. Con un movimento repentino della mano<br />
afferrò la sua pistola d’ordinanza. Me la puntò contro.<br />
– Non è così che risolverà le cose. – Gli parlai come<br />
avrei parlato a Filippo se l’avessi conosciuto.<br />
Fantini mi sorrise ancora una volta. Poi, scaraventandosi<br />
contro di me, mi strattonò per guadagnare la porta<br />
d’ingresso. Lo vidi uscire con la coda dell’occhio. Lo<br />
seguii. Aveva imboccato uno scalone che portava ai<br />
piani superiori. Dopo pochi passi di corsa ansimavo<br />
già.<br />
Aveva una rampa di vantaggio su di me. Si fermò per<br />
controllare se gli stessi correndo dietro, ma non c’era<br />
quel pericolo oltre i dieci metri di corsa divento un<br />
mantice. E poi quell’inseguimento non aveva senso,<br />
anche per questo, assagadau, mi fermai. Fantini si voltò,<br />
stavo dicendo, per controllare se gli fossi ancora dietro<br />
e mi vide impegnato ad ansimare sotto di lui. Il suo volto,<br />
quello mi accompagnerà tutte le notti: era attraversato<br />
da un rictus spaventoso come quello di un gatto tenuto<br />
appeso per il collo. L’azzurro cipria alle pareti dello<br />
scalone faceva intorno a noi come una specie di <strong>cielo</strong><br />
144<br />
da presepe. Fantini mi voltò di nuovo le spalle, pensai<br />
che stesse riprendendo la sua fuga e comunque avevo<br />
già deciso di lasciarlo andare…<br />
* * *<br />
…Ma sentii lo sparo, poi vidi l’esplosione, poi un<br />
getto di sangue e materia cerebrale mi investì, feci appena<br />
in tempo a schermarmi il volto con le mani.<br />
Urlai come quella notte di molti anni prima quando<br />
ero solo un bambino. Quando avevo cinque anni.<br />
Ero di nuovo io, con tutti i miei trentadue anni,<br />
quando mi risvegliai. Questo lo capii all’istante.<br />
Il viso di Clorinda occupò tutto lo spazio davanti ai<br />
miei occhi socchiusi e a pensarci bene avevo la certezza<br />
che per tutto il tempo in cui avevo attraversato la<br />
mia vita come nella parabola dell’annegato, lei era stata<br />
lì a tenermi la mano. Tentai di dire qualcosa, ma le<br />
mie labbra, appiccicate, non riuscirono a organizzare<br />
niente. Mi dissi che, con uno sforzo, sarei riuscito a<br />
spalancare le palpebre. Lo feci nel momento preciso<br />
in cui il viso di Clorinda si stemperava nell’aria come<br />
qualcosa di talmente impalpabile che solo quel movimento<br />
impercettibile potesse farlo sparire. E infatti<br />
sparì.<br />
– Bustià… – Mia madre aveva il volto terreo di chi<br />
145
ha guardato la morte. – Sei stato male, – mi spiegò appena<br />
si rese conto che stavo riprendendo contatto con<br />
la realtà.<br />
Cercai di sedermi, solo allora mi resi conto che ero<br />
nella mia stanza.<br />
Orrù senza camice impostò un sorriso. – Tutto bene,<br />
– mi incoraggiò. – Si è trattato solo di un brutto spavento.<br />
– Un brutto spavento ce lo siamo preso noi! – disse il<br />
maresciallo Poli facendo capolino <strong>dal</strong>la porta. – Avvocà,<br />
mi avete fatto venire i capelli bianchi!<br />
Mi portai le mani al viso. La pelle era secca, detersa<br />
con alcol etilico, ma pulita. Mi guardai le mani: erano<br />
di un biancore abbacinante, molto più luminose delle<br />
lenzuola.<br />
– Ora posso andare, – disse Orrù. Poi si rivolse direttamente<br />
a mia madre. – Lascio qui l’assenzio se dovesse<br />
agitarsi durante la notte, ma non esagerate. Non più<br />
di un cucchiaino da caffè con molto zucchero, mi raccomando.<br />
È passato qualche tempo ormai e quel caso inesistente,<br />
quell’omicidio che non c’è stato, ha preso qualche<br />
forma.<br />
Mentre incontravo Riccardo Fantini, il maresciallo<br />
Poli aveva parlato con Cosimo Ruju, la guardia carceraria<br />
di turno la notte della morte di Filippo Tanchis.<br />
146<br />
Non fu facile farlo parlare. Poli fu costretto a prospettargli<br />
la galera per negligenza.<br />
Solo allora Ruju tirò fuori tutto: fu lui stesso che consegnò<br />
al tenente medico uno dei coltelli trovati nella<br />
cella e le statuine non ancora concluse, sottraendo quelle<br />
prove agli inquirenti. Ruju disse che gliel’aveva chiesto<br />
espressamente il ragazzo qualche ora prima che lo<br />
trovassero morto. Che gli aveva mostrato il coltello che<br />
doveva riportare al dottor Fantini. Disse che in altre<br />
circostanze non ci avrebbe pensato due volte a sequestrare<br />
il coltello, ma visto che era stato proprio il medico<br />
militare a consegnarglielo, aveva pensato che il Tanchis<br />
fosse strano, ma non pericoloso. E infatti, disse, se<br />
male ha fatto ne ha fatto solo a se stesso. Così Filippo<br />
quel pomeriggio gli aveva chiesto di restituire il coltello<br />
nel caso fosse morto. E Ruju aveva fatto di sì con la testa<br />
come si fa con i matti. E gli aveva detto di stare attento a<br />
quello che ci faceva con quel coltello, che lui non voleva<br />
guai e che se il dottor Fantini si prendeva le sue responsabilità<br />
per lui era uguale, ma di coltelli non voleva<br />
saperne niente. Io non l’ho nemmeno mai visto quel<br />
coltello, disse. Ma Filippo insisteva, chiedeva un giuramento.<br />
Il maresciallo Poli trasecolò. Il pericolo di suicidio,<br />
urlò. Ma parlare di suicidio con Ruju era come parlare<br />
al vento, che lui quella parola non l’aveva mai nemmeno<br />
pronunciata in vita sua. Che di morti ammazzati in<br />
carcere ne aveva visti molti e non pochi, ma che una<br />
147
persona potesse decidere di togliersi la vita era una<br />
questione fuori <strong>dal</strong>la sua portata.<br />
Il maresciallo Poli si trovò a pensare che semmai c’era<br />
una persona giusta a cui affidare quel compito assurdo<br />
della restituzione post-mortem, quella persona<br />
era proprio la guardia carceraria Ruju. Diavolo di un<br />
Tanchis, si trovò a pensare.<br />
Insomma quel giuramento fatto a un matto, tanto per<br />
farlo star buono, si era trasformato in un legame indissolubile.<br />
Che dovevo fare? chiedeva Ruju. Aveva giurato.<br />
Aveva dato la sua parola. E <strong>dal</strong>le nostre parti il desiderio<br />
di un morto è legge. Il giuramento fatto a un moribondo<br />
vale più di un marchio a fuoco. Che da morto<br />
vali qualcosa anche se da vivo sei solo un povero sfortunato.<br />
Così Ruju aveva eseguito: ché non voleva trovarsi<br />
a lottare contro la propria coscienza e preferiva dormire<br />
bene, mantenere buoni rapporti con la propria coscienza<br />
elementare e salda, anche a costo di trasgredire<br />
al regolamento carcerario o al codice penale. Anche a<br />
costo di favorire un male peggiore.<br />
E Poli non riusciva a credere a quello che aveva sentito<br />
con le sue orecchie. Ruju gli stava di fronte e non<br />
aveva la minima idea del pasticcio in cui si era cacciato.<br />
Nessuna alternativa disse Poli: o le dimissioni immediate<br />
o la galera. Ruju non senza un moto di incredulità<br />
segnò una croce in calce a un foglio bianco che il<br />
maresciallo si era impegnato a compilare adeguatamente.<br />
148<br />
– Ha fatto bene, – approvai interrompendo il suo resoconto.<br />
– La galera in una situazione di questo tipo,<br />
per una persona come Ruju, poteva generare più problemi<br />
di quanti ne risolvesse. Questa è una faccenda in<br />
cui ci sono questioni sulle quali non vale la pena essere<br />
troppo fiscali, – dissi rendendomi conto che anche io<br />
avevo taciuto a Poli la circostanza del coltello portato<br />
in carcere da Clorinda. – Comunque la chiave di tutto<br />
sta nel fatto che Filippo Tanchis poteva contare sul possesso<br />
di due coltelli.<br />
– Ecco il secondo coltello non riesco a spiegarmelo…<br />
– …Non ha più molta importanza a questo punto. –<br />
Minimizzai per fare anch’io un favore alla mia coscienza.<br />
Due coltelli dunque: quello che fu trovato accanto al<br />
cadavere, portato in carcere da Clorinda; quello trafugato<br />
da Ruju, portato in carcere da Fantini. Ora gli<br />
omicidi inesistenti erano due. Quello del Solinas morto<br />
d’infarto, quello di Filippo Tanchis suicida. Una<br />
storia talmente lineare da sembrare inestricabile.<br />
Filippo Tanchis si era ucciso con due coltelli. Uno per<br />
polso: il primo l’aveva incastrato a una crepa nel pavimento,<br />
il secondo l’aveva usato regolarmente. E aveva<br />
fatto le cose per bene. Si era sgarrato il polso destro con<br />
la mano sinistra, poi si era conficcato l’altro coltello,<br />
149
quello incastrato per il manico al pavimento, nel polso<br />
sinistro. Niente macchie sui pantaloni dunque. Niente<br />
macchie sulla camicia. Niente di niente.<br />
Ma per il maresciallo Poli questa storia ordinaria di<br />
distrazioni, approssimazioni e superstizioni manteneva<br />
il sapore di un macchiavello inestricabile.<br />
Tutto si concluse con la constatazione che Filippo Tanchis<br />
aveva deciso di togliersi la vita quando aveva stabilito,<br />
senza ombra di dubbio, che non avrebbe mai raggiunto<br />
l’unica cosa per cui gli sembrava valesse la pena<br />
vivere. Per cui aveva sopportato le condizioni del tenente<br />
medico. Dopo la visita, le attenzioni di Fantini si<br />
erano fatte pressanti e lui si rivelò presto al ragazzo per<br />
quello che era: uno che prendeva ma non aveva intenzione<br />
di dare. La morte di Solinas quella sera, in quel posto,<br />
era stato solo l’ennesimo sberleffo della sorte, che<br />
si era divertita a complicare l’infinitamente semplice.<br />
Il resto è stato rimettere a posto un mazzo di carte scombinate.<br />
Sottovalutare il ragazzo era stato l’errore, lui aveva stabilito<br />
ogni cosa con precisione millimetrica, scegliendo<br />
le persone giuste e il momento giusto, e aveva organizzato<br />
un suicidio impossibile e ci aveva portato dove voleva<br />
che arrivassimo… Un colpevole che si era giustiziato<br />
da solo parve un risarcimento bastante e anche Poli<br />
convenne che le carte non sarebbero state sufficienti a<br />
spiegare l’inspiegabile.<br />
– Chiudiamola qui, – disse. – Chiudiamola in questo<br />
150<br />
modo. Non vorrà che mi metta a insegnare lo spagnolo<br />
agli indigeni!<br />
Restai a guardarlo. Mi lasciò senza parole.<br />
151
Ha smesso di piovere.<br />
L’aria è carica di un’elettricità che non mi dà requie.<br />
La terra è tutta un sommovimento di lumache e un<br />
esplodere di prataioli. Sono a casa sulla cima del mio<br />
colle. Aspiro l’acidulo della miliacra e accarezzo la<br />
mia inquietudine come qualcosa che vada ammasettata.<br />
Ho la testa talmente piena di versi e so che davanti<br />
al foglio bianco verrò colto da una furia impotente, come<br />
mi succedeva da bambino quando il cervello mi si<br />
riempiva a tal punto di parole da dire che l’unica cosa<br />
che riuscivo a fare era stare in silenzio. E che silenzio era<br />
quel silenzio affollato di parole non dette!<br />
Come la campagna febbricitante e placida sotto al<br />
mio sguardo.<br />
Non c’è nulla che possiamo dirci io e lei. Nessun messaggio<br />
dai monti, <strong>dal</strong>le valli.<br />
Solo qualche giorno fa il bosco e la macchia erano tutto<br />
uno sgolarsi di richieste d’aiuto. Solo qualche giorno<br />
fa l’aria era un immenso platano carico di stormi. Ma<br />
ora il <strong>cielo</strong> è talmente limpido che pare debba scivolarmi<br />
addosso da un momento all’altro.<br />
153
È una pace di piante satolle e uccelli intenti ad asciugarsi<br />
le penne e talpe impegnate a ricostruire cunicoli<br />
asciutti.<br />
È una pace orizzontale che l’azzurro all’orizzonte<br />
sembra una traccia di gessetto nel nulla. E anche le nuvole<br />
hanno cambiato paesaggio. I colori sono colori e le<br />
foglie fanno l’appello sui rami, si chiamano per nome e<br />
si rispondono: presente, come soldatini di primo pelo<br />
che non sanno da cosa sono scampati, ma sanno di essere<br />
scampati.<br />
Pace. Per chi resta e per chi se n’è andato. Che vivere<br />
non è altro che tentare di fermarsi, che prepararsi con<br />
furia alla stasi.<br />
Allora mi alzo in piedi, offro il sacrificio della mia pena<br />
a quel silenzio.<br />
Offro il mio silenzio all’ipotesi di un amore. Clorinda<br />
è il mio segreto. Per lei il mio silenzio. Clorinda che<br />
crede il suo nipote ucciso e questo la fa dormire. E forse<br />
le fa sognare me.<br />
Tornando a casa passerò sotto alle sue finestre. In silenzio.<br />
Nùoro, luglio 1989 - Bologna, gennaio 1999.<br />
154<br />
INDICE
INDICE<br />
<strong>Sangue</strong> <strong>dal</strong> <strong>cielo</strong><br />
7 Natura e delitto di Manuel Vázquez Montalbán<br />
13 <strong>Sangue</strong> <strong>dal</strong> <strong>cielo</strong>
Finito di stampare<br />
nel mese di aprile 2005<br />
<strong>dal</strong>la Tipolitografia ME.CA. - Recco (GE)