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Giardini di Mirò - Sentireascoltare

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<strong>di</strong>gital magazine | aprile 2012 | n. 90<br />

<strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong><br />

<strong>di</strong> <strong>Mirò</strong><br />

Father Murphy<br />

Pan American<br />

SpeciMen a<br />

atoMic drop<br />

Dance music<br />

for open minds<br />

M ward<br />

Misteriose nostalgie, teneri inganni


p. 4<br />

p. 8<br />

p. 14<br />

Direttore: Edoardo Bridda<br />

Recensioni p. 50<br />

VHS Grindhouse » 97<br />

Gimme some inches » 98<br />

Direttore responsabile: Antonello Comunale<br />

Ufficio stampa: Teresa Greco, Alberto Lepri<br />

coorDinamento: Gaspare Caliri<br />

progetto grafico e impaginazione: Nicolas Campagnari<br />

reDazione: Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino,<br />

Gaspare Caliri, Marco Braggion, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco<br />

staff: Nino Ciglio, Carlo Affatigato, Marco Boscolo, Viola Barbieri, Fabrizio Gelmini, Antonio<br />

Laudazi, Simone Caronno, Diego Ballani, Antonio Cuccu, Giulia Antelli, Federico Pevere<br />

copertina: M Ward<br />

Turn On<br />

Dan Sartain, Porcelain Raft,<br />

Tune-In<br />

Father Murphy, Pan American,<br />

Drop Out<br />

gUiDa spiritUale: Adriano Trauber (1966-2004)<br />

ReviewMirror » 100<br />

Campi magnetici » 106<br />

Classic album » 107<br />

aprile N.90<br />

M Ward, <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> Di <strong>Mirò</strong>, Dance music for open minds, Specimen A, Atomic Drop<br />

SentireAscoltare online music magazine<br />

Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05<br />

E<strong>di</strong>tore: Edoardo Bridda<br />

Direttore responsabile: Antonello Comunale<br />

Provider NGI S.p.A.<br />

Copyright © 2009 Edoardo Bridda.<br />

Tutti i <strong>di</strong>ritti riservati. La riproduzione totale o parziale,<br />

in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo,<br />

è proibita senza autorizzazione scritta <strong>di</strong> SentireAscoltare


Dan Sartain<br />

—Searching<br />

the perfect hook—<br />

Due chiacchiere veloci con Dan Sartain<br />

a proposito del nuovo album, Too tough<br />

to live, tutto punk rock Settanta e<br />

Ramones. La morale? Nessuna <strong>di</strong> quelle<br />

canzoni doveva essere sincera...<br />

Turn-On.<br />

Ha avuto una carriera alquanto movimentata Dan Sartain.<br />

Nato musicalmente nell’in<strong>di</strong>e americano sotto l’ala<br />

<strong>di</strong> John Reis (Rocket From The Crypt, Drive Like Jehu,<br />

Hot Snakes) e la sua Swami Records, il nostro si fa le<br />

ossa girovagando in su e giù per l’America a supporto<br />

dei Hot Snakes. Lui vive <strong>di</strong> lo-fi rockabilly, gli altri sparano<br />

un garage-hardcore tra i migliori all’inizio dei 2000. Poi,<br />

<strong>di</strong> punto in bianco, l’approdo dall’altra parte dell’Atlantico<br />

sponda One Little In<strong>di</strong>an, quella <strong>di</strong> Björk e Sinead<br />

O’Connor tanto per capirsi.<br />

Ne escono una manciata <strong>di</strong> <strong>di</strong>schi <strong>di</strong> cui Join Dan Sar-<br />

tain rappresenta la pietra angolare: un po’ perché ha i<br />

brani migliori (Drama Queen, Young Girls, Replacement<br />

Man), un po’ perché il mix musicale contenuto, tra country<br />

ballad, rockabilly alla Tav Falco e suoni western/mariachi<br />

culminanti nella cover <strong>di</strong> Besame Mucho, è forse il<br />

miglior biglietto da vista del nostro. Oggi, sempre per<br />

One Little In<strong>di</strong>an, arriva Too Tough To Live, sesto <strong>di</strong>sco<br />

del nostro che si cimenta <strong>di</strong>chiaratamente nel punk old<br />

school dei ‘70.<br />

Partiamo iniziando dal tuo ultimo lavoro, Too Tough<br />

To Live. Sembra venire <strong>di</strong>rettamente dal punk rock<br />

‘70 dei Ramones. Cosa ti ispirava <strong>di</strong> quel suono?<br />

Volevo fare un <strong>di</strong>sco con tutti down strokes, ma era<br />

<strong>di</strong>fficile senza rubare agli Hot Snakes. Così ho rubato<br />

a qualcun’altro. Volevo che nessuna <strong>di</strong> queste canzoni<br />

fosse sincera.<br />

Hai un approccio molto <strong>di</strong>retto in questo album, essenziale.<br />

Quale era l’idea nel concepimento del <strong>di</strong>sco?<br />

Volevo usare strumenti e tecniche <strong>di</strong> registrazione che<br />

fossero comuni e facilmente rintracciabili. Ho usato una<br />

batteria con pelli chiare. Nel mio precedente <strong>di</strong>sco non<br />

avrei mai usato queste pelli chiare stupide a vedersi. E<br />

credo che siano ancore stupide a vedersi, ma se suonano<br />

ok le uso. Ho usato anche amplificatori Marshall. Anche<br />

questi amplificatori sono stupi<strong>di</strong>, ma ho trovato quello<br />

per cui sono buoni, ho capito perché la gente li usa.<br />

Nei testi <strong>di</strong> Too Tough To Live tratti anche aspetti politici<br />

dei ‘70, Nam Vet è solo il primo esempio in tracklist.<br />

Qual’era il tuo scopo nello scrivere i testi?<br />

Pensavo fossero <strong>di</strong>vertenti.<br />

Nella tua <strong>di</strong>scografia <strong>di</strong>fficilmente sei partito due volte<br />

dallo stesse premesse. Sempre piccoli cambiamenti<br />

dal rockabilly fino a sonorità western, messicane,<br />

rock, adesso punk. Qual è il punto comune?<br />

Per fortuna ho sempre dei nuovi motivi. Voglio semplicemente<br />

che ogni canzone raggiunga la stessa qualità<br />

(se ne hanno mai avuta una). Credo che più le cose cambiano,<br />

più rimangono invariate. Non mi sono allontanato<br />

poi tanto dal centro del percorso.<br />

La tua opinione su questa tendenza alla retromania?<br />

Per esempio nella scena garage, spesso sentiamo<br />

gruppi con un’idea vaga del sound ‘60 e ‘70. Basta<br />

avere un approccio lo-fi, qualche tema surfin’n’roll ed<br />

il gioco è fatto. Alla fine questo può essere limitativo:<br />

per<strong>di</strong>amo le <strong>di</strong>fferenze che c’erano al quel tempo, e<br />

adesso tutto suona più o meno uguale.<br />

Alcune cose sono cool dal vivo, è bello vedere questo<br />

tipo <strong>di</strong> show portare qualcosa <strong>di</strong> nuovo rispetto alla sale<br />

d’incisione, ma sono inutili da registrare. Devi aggiungere<br />

qualcosa <strong>di</strong> nuovo o <strong>di</strong> non sentito per rimanere<br />

valido. Ritorna tutto sul questione <strong>di</strong> avere dei buoni<br />

motivi. Ma cosa ne so.<br />

Cha artisti ti piacciono? Ho letto da qualche parte che<br />

sei un grande fan dei Beatles e ho pensato, hey, ecco<br />

perché fa dei ritornelli così fighi.<br />

Chi era la George’s band prima dei Traveling Wilburys?<br />

Dicci qualcosa sui tuoi concerti. Su Youtube girano<br />

parecchie performance in cui ti esibisci da solo, altre<br />

con un batterista, altre ancora in cui si aggiungono<br />

altri elementi. Qual è la tua scelta preferita sul palco?<br />

Voglio fare tutto quello che è necessario per fare andare<br />

avanti al meglio lo show. Mi piace suonare con più musicisti,<br />

ragazzi e ragazze che posso!<br />

Trovi <strong>di</strong>fferenze tra musicisti europei e americani?<br />

Forse siete voi più teatrali?<br />

E’ <strong>di</strong>vertente vedere tutti questi ragazzi che si vestono<br />

come Elvis. Allo stesso tempo sono cresciuto con gruppo<br />

<strong>di</strong> ragazzi qui in Alabama che volevano suonare e<br />

apparire esattamente come i Cure. Sono <strong>di</strong>vertenti allo<br />

stesso modo.<br />

Ultima domanda. Vieni da Birmingham in Alabama,<br />

non ci sono mai stato ma nella mia mente non è proprio<br />

il centro del mondo. Noi qui in Italia abbiamo<br />

molti progetti sia musicali che artistici che vengono<br />

“dalla provincia”. Lì che sta succedendo? Cose eccitanti<br />

o calma piatta?<br />

Non vengo “dalla provincia”. Nemmeno un po’. Ma buona<br />

fortuna nel trovare il centro del mondo che hai in mente.<br />

Stefano Gaz<br />

4 5


Porcelain<br />

Raft<br />

—Non si esce vivi dagli<br />

anni Ottanta—<br />

Mauro Remid<strong>di</strong> porta il suo Strange<br />

Weekend in Italia (21 marzo a Padova,<br />

il 22 a Roma, il 23 a Carpi. Lo abbiamo<br />

raggiunto al telefono per farci<br />

raccontare <strong>di</strong> fughe, 80s, band e lavoro<br />

solista...<br />

Turn-On.<br />

La prima volta è sempre un shock. Gli USA colpiscono<br />

così, perché la sensazione che sia tutto possibile non è<br />

così forte in nessun posto al mondo. Tutto sembra facile,<br />

a portata <strong>di</strong> mano e se sei un musicista è facile rimanere<br />

colpito da un’atmosfera rilassata che altrove non c’è. Vuoi<br />

per l’hype machine che massacra le migliori aspirazioni<br />

<strong>di</strong> qualunque band UK, vuoi per la mancanza <strong>di</strong> uno spa-<br />

zio vero dove inserirsi in un’asfittica scena italica (sempre<br />

che ci sia). “Quando sono arrivato per la prima volta negli<br />

Stati Uniti mi ha colpito la leggereza, l’atmosfera <strong>di</strong> gioco<br />

che pervade la musica: qualcosa che in Europa non si<br />

respira così facilmente. Era qualcosa che volevo e che<br />

mi mancava”. Così racconta al telefono Mauro Remid<strong>di</strong><br />

da Londra, mentre è in tour con gli M83, un progetto<br />

musicale con il quale il suo Porcelain Raft con<strong>di</strong>vide una<br />

forte attrazione per gli anni Ottanta.<br />

“Però io non li sopporto gli anni Ottanta! Sarà perché<br />

sono cresciuto con la musica <strong>di</strong> quel periodo, quando<br />

ero ragazzo, ma non è che proprio non riesca a vivere<br />

senza: tutt’altro”. Eppure nell’album <strong>di</strong> esor<strong>di</strong>o con la<br />

nuova ragione sociale, dopo aver passato anni a girovagare<br />

per il mondo in cerca <strong>di</strong> un approdo artistico,<br />

Mauro Remid<strong>di</strong> sciorina tutto il repertorio Eighties: synth<br />

pop, shoegaze, dream pop e tutto il resto. “Deve essere<br />

un processo inconscio che mi fa andare senza volontà<br />

esplicita a quel decennio, a quelle sonorità. Ma non è<br />

che mentre componevo le canzoni <strong>di</strong> Strange Weekend<br />

mi andassi ad ascoltare la musica degli anni Ottanta”.<br />

Anzi, mentre componeva e anche oggi, in tour, lontano<br />

dall’immersione totale nella propria musica, Remid<strong>di</strong><br />

ascolta solamente quello che produce lui stesso, in una<br />

infinita ripetizione ossessiva del proprio gesto artistico.<br />

“Ci sono talmente dentro che non ascolto altro. Ma la<br />

musica, magari anche quella che in<strong>di</strong>rettamente finisce<br />

dentro ai miei pezzi, mi arriva in<strong>di</strong>rettamente: è il sottofondo<br />

a una pubblicità, in un negozio. Tutto si porta <strong>di</strong>etro<br />

un mondo sonoro ben preciso che, probabilmente,<br />

riaffiora inconsciamente in quello che scrivo”.<br />

E com’è l’Italia vista da lì? E’ ancora quel posto soffocante<br />

da cui è meglio andarsene? “Me ne sono andato perché<br />

mi sentivo in gabbia”. Una colonna sonora per un corto<br />

molto apprezzato, ma la produzione lo taglia fuori<br />

perché c’è un compositore amico <strong>di</strong>... che bisogna far<br />

lavorare, magari perché “è un nome più grosso”. L’Italia<br />

come un posto “dove tutto deve essere benedetto dal<br />

Papa”, altrimenti non si può fare. E allora gli USA <strong>di</strong>ventano<br />

un’oasi <strong>di</strong> aria fresca, anche e soprattutto per la libertà<br />

e la leggerezza con cui si “gioca” con la musica: “io mi<br />

voglio <strong>di</strong>vertire”.<br />

Rimpianti, nostalgia, magari per la <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> band<br />

che ci si è lasciati alle spalle? “Assolutamente no: sono<br />

troppo contento adesso. Credo <strong>di</strong> aver trovato un equilibrio<br />

stabile”. Eppure con i meticci Sunny Day Sets Fire<br />

nei primi anni zero, Mauro Remid<strong>di</strong> aveva colpito più<br />

<strong>di</strong> qualcuno. “Per un musicista è importante passare un<br />

periodo all’interno <strong>di</strong> una band: è formativo”. Ora, però, è<br />

il momento <strong>di</strong> stare da solo, per avere un controllo totale<br />

del proprio materiale sonoro e rifuggire <strong>di</strong>namiche inevitabili<br />

all’interno <strong>di</strong> un gruppo. “Voglio poter decidere <strong>di</strong><br />

suonare ogni sera in modo <strong>di</strong>verso, stasera magari parto<br />

con Drifting In And Out o con Backwords, perché sono le<br />

mia canzoni preferite <strong>di</strong> questo momento. Magari domani<br />

scelgo Put Me To Sleep o The Way In. Da solo, non solo<br />

per il live, posso decidere senza dover passare per un<br />

processo collettivo quale spazio musicale espandere e<br />

quale invece contrarre. Stare in una band è come vivere<br />

in un grande party: è bello, ma a un certo punto vuoi<br />

anche altro”. Insomma, complice anche la burocrazia<br />

(“una cosa noiosa”), meglio correre da solo, lontano dalle<br />

gabbie italiche, in una <strong>di</strong>mensione postmoderna che<br />

sta mutando senza che ce ne ricor<strong>di</strong>amo troppo spesso<br />

il panorama musicale <strong>di</strong> questi anni.<br />

Marco BoScolo<br />

6 7


Tune-In.<br />

Testo: Fabrizio Zampighi<br />

Father Murphy<br />

—Globalizzazioni in salsa avant—<br />

In contemporanea con la pubblicazione dell’ottimo Anyway Your Children Will Deny<br />

It non ci siamo fatti sfuggire l’occasione <strong>di</strong> intervistare i Father Murphy<br />

I Father Murphy li seguiamo dal 2005. Li intervistammo<br />

quando uscì Six Musicians Getting Unknown, ne abbiamo<br />

ricostruito rinascite e conversioni in occasione della<br />

pubblicazione <strong>di</strong> ...And He Told Us To Turn To The Sun,<br />

abbiamo scandagliato l’intera <strong>di</strong>scografia del gruppo.<br />

Tanto per <strong>di</strong>re che l’ennesima intervista alla formazione<br />

veneta ci stava un po’ come i cavoli a merenda. Eppure<br />

non si poteva prescindere da un <strong>di</strong>sco importante<br />

come l’ultimo Anyway Your Children Will Deny It con la<br />

scusa dell’anzianità <strong>di</strong> servizio e nemmeno tralasciare<br />

la cre<strong>di</strong>bilità che si è guadagnata all’estero la band <strong>di</strong><br />

recente. Un piccolo patrimonio, quest’ultimo, costruito<br />

concerto dopo concerto con<strong>di</strong>videndo il palco con<br />

musicisti <strong>di</strong> primo piano come Deerhoff, Xiu Xiu, Evangelista,<br />

Michael Gira e molti altri.Ecco allora delinearsi<br />

senza forzature la chiave <strong>di</strong> lettura: <strong>di</strong>scutere del <strong>di</strong>sco e<br />

del percorso della band, ma soprattutto sfruttare il punto<br />

<strong>di</strong> vista privilegiato <strong>di</strong> Federico Zanatta dei FM per aprire<br />

una piccola finestra su una scena internazionale <strong>di</strong> cui si<br />

parla sempre e talvolta a sproposito. Un mondo con le<br />

sue regole, le sue virtù e i dazi da pagare.<br />

Anyway Your Children Will Deny It è forse il <strong>di</strong>sco più<br />

maturo, coeso e al tempo stesso coraggioso dei Fa-<br />

ther Murphy. Nel vostro caso, più che in altri, sembra<br />

che l’ultimo episo<strong>di</strong>o rappresenti davvero il compiersi<br />

<strong>di</strong> un percorso. Un maturità che parte con ...And<br />

He Told Us To Turn To The Sun e, capovolgendo ogni<br />

possibile certezza formale, si esplicita soprattutto<br />

qui. Vi va <strong>di</strong> spendere due parole per fare un piccolo<br />

bilancio su quelle che sono state le esperienze che<br />

più hanno influito sul vostro percorso e, quin<strong>di</strong>, su<br />

questo <strong>di</strong>sco?<br />

A partire da ...And He Told Us To Turn To The Sun mi<br />

piace pensare che abbiamo iniziato ad avere piu coscienza<br />

<strong>di</strong> quanto stavamo facendo e <strong>di</strong> quanto potevamo<br />

realizzare. Abbiamo cominciato a partire in tour più<br />

spesso, non soltanto durante le ferie o i permessi dal<br />

lavoro, e tutto questo ci ha portato <strong>di</strong> li a poco alla scelta<br />

<strong>di</strong> abbandonare qualsiasi occupazione fissa. Abbiamo<br />

iniziato a fare date all’estero con regolarità, arrivando, nel<br />

giro <strong>di</strong> tre anni, a poter lavorare con agenzie <strong>di</strong> booking<br />

<strong>di</strong>verse con zone <strong>di</strong> competenza ben delimitate. Abbiamo<br />

avuto la fortuna <strong>di</strong> incontrare e con<strong>di</strong>videre il palco<br />

con artisti eccezionali che si sono <strong>di</strong>mostrati, per prima<br />

cosa, persone. Abbiamo avuto sempre meno tempo per<br />

sederci e riflettere su quanto stavamo facendo, quin<strong>di</strong> si<br />

8 9


è lasciato libero sfogo a urgenza e coincidenze. E poi si è<br />

anche imparato a delegare (ve<strong>di</strong> l’affidare il mixaggio a<br />

scatola chiusa a Saunier) e quando serviva, a fare quadrato<br />

noi tre, partendo dal presupposto <strong>di</strong> essere <strong>di</strong>ventati<br />

una famiglia, insieme alle persone che ci accompagnano<br />

in questa avventura.<br />

L’impressione è che questo sia anche il vostro <strong>di</strong>sco<br />

meno “italiano”, nel senso che rappresenta più <strong>di</strong> altri<br />

un biglietto da visita cre<strong>di</strong>bile per i mercati esteri e<br />

in particolare, per quello americano. Per intenderci,<br />

il corrispettivo <strong>di</strong> un Valende dei Jennifer Gentle...<br />

Le sod<strong>di</strong>sfazioni che abbiamo avuto sino ad ora a livello<br />

<strong>di</strong> “ven<strong>di</strong>te” e “apprezzamenti” sono in parte legate al<br />

fatto che - e mi riferisco soprattutto a Stati Uniti e UK - ci<br />

sia stata riconosciuta una particolarità <strong>di</strong> suono e <strong>di</strong> atmosfere<br />

riconducibile in qualche modo al nostro essere<br />

italiani. In questo senso, penso che le nostre due uscite<br />

precedenti abbiano rappresentato un modo per attirare<br />

l’attenzione su <strong>di</strong> noi con due concept molto rigi<strong>di</strong>,<br />

per poi arrivare a quest’ultimo <strong>di</strong>sco che, pur trattandosi<br />

sempre <strong>di</strong> un concept, è più eterogeneo e meno<br />

ossessivo. Per riattaccarmi al tuo <strong>di</strong>scorso sui Jennifer<br />

Gentle, è come se ...And He Told Us To Turn To The Sun<br />

e No Room For The Weak fossero stati il nostro Valende,<br />

mentre quest’ultimo potrebbe essere il nostro The Midnight<br />

Room. Disco che tra l’altro rimane il mio preferito<br />

della produzione dei Jennifer Gentle.<br />

Che obiettivi vi eravate prefissati in sede <strong>di</strong> scrittura<br />

per Anyway Your Children Will Deny It ?<br />

Poterci de<strong>di</strong>care alla scrittura/stesura/registrazione senza<br />

minimamente pensare allo spettacolo live. Siamo in<br />

tre, non abbiamo basso, non usiamo amplificatori, ci piace<br />

<strong>di</strong> certo un suono ben scarnificato, ma i nostri conti<br />

sulla resa live dei pezzi li abbiamo sempre fatti. Non con<br />

quest’album, in cui credo non si sia mai stati tutti e tre assieme<br />

nella stessa stanza per registrare. Per fissare il materiale<br />

abbiamo impiegato sei mesi, utilizzando i perio<strong>di</strong><br />

in cui non eravamo in tour o i day off. Abbiamo cercato <strong>di</strong><br />

parlare molto tra <strong>di</strong> noi, descrivere le atmosfere che avevamo<br />

in mente, ma senza influenzarci troppo. Il lavoro<br />

a tre è stato soprattutto questo: un confidarci, cercando<br />

<strong>di</strong> essere il più possibile sinceri, per far si che ognuno<br />

potesse riconoscersi nel risultato. Forse sentiamo questo<br />

<strong>di</strong>sco come un passaggio dovuto. Abbiamo la tendenza<br />

ad annoiarci velocemente e quin<strong>di</strong> volevamo riprendere<br />

esattamente da dove eravamo arrivati, ovvero dal testo<br />

che conclude You Got Worry (“Ho premuto la fronte contro<br />

il muro, fino a sfondarla, per provare a me stesso <strong>di</strong> avere<br />

ragione”), ma anche <strong>di</strong> affrontare il nuovo capitolo della<br />

Leggenda (immaginario letterario <strong>di</strong>etro al gruppo, ndr)<br />

e <strong>di</strong> lasciare nuovamente il <strong>di</strong>scorso in sospeso.<br />

Al mixer c’è Greg Saunier dei Deerhoof. In che modo<br />

il suo lavoro ha influenzato i suoni del <strong>di</strong>sco?<br />

Greg ha chiuso il <strong>di</strong>sco, nel senso che ha avuto l’ultima<br />

parola. Non avrei mai pensato che avremmo fatto questa<br />

concessione a qualcuno, anche se lui lo conosciamo da<br />

tempo e ci ha anche fatto da fonico. Ha un gran orecchio<br />

e torneremo presto a collaborare con lui. Gli abbiamo<br />

fatto avere le tracce, un abbozzo <strong>di</strong> premix e una lettera<br />

completa <strong>di</strong> testi che lo introducesse al concept del <strong>di</strong>sco.<br />

Ha deciso lui la pasta da dare al suono e l’amalgama,<br />

anche perchè i singoli brani avevano tutti gli effetti in pre<br />

(ad esempio, se una voce doveva essere riverberata, la<br />

registravamo <strong>di</strong>rettamente con tale effetto senza mettere<br />

niente in post). Tra il nostro lavoro e il suo c’è stato<br />

anche l’importante apporto <strong>di</strong> Emanuele Baratto (bassista<br />

dei meravigliosi Movie Star Junkies) dell’Outside<br />

Inside Stu<strong>di</strong>o, con cui abbiamo passato tutte le tracce<br />

in analogico e registrato alcune voci e l’ultima traccia.<br />

Abbiamo poi chiuso con l’antimastering al Bombanella<br />

Stu<strong>di</strong>o, grazie a cui siamo tornati a lavorare con Davide<br />

Cristiani. L’antimastering non interviene sul suono,<br />

ma sulla composizione fisico-chimica del master, ri<strong>di</strong>stribuendo<br />

e rendendo piu “armoniosi” gli atomi dello<br />

stesso. Sembra fantascienza, ed effettivamente vedere la<br />

macchina in azione fa paura. Lo consiglio a tutti, perchè<br />

non snatura minimamente il lavoro sul suono.<br />

Voi siete uno dei gruppi italiani che più ha lavorato<br />

fuori dall’Italia, entrando in contatto con ambienti<br />

musicali <strong>di</strong> primo piano. Avete fatto tour con Deerhoof,<br />

Gowns, Evangelista, Sic Alps, Xiu Xiu; siete<br />

stati in Europa, Inghilterra, America e Russia; avete<br />

conosciuto Julian Cope, Carla Bozulich, Michael Gira<br />

e molti altri. Che idea vi siete fatti del metodo <strong>di</strong> lavoro<br />

degli artisti con cui avete con<strong>di</strong>viso palchi ed<br />

esperienze?<br />

Parlando in generale, abbiamo trovato molta professionalità<br />

abbinata ad alti dosi <strong>di</strong> concretezza e follia. Follia<br />

nel senso che dai più piccoli ai più gran<strong>di</strong>, tutti questi<br />

gruppi portano avanti un <strong>di</strong>scorso che è tutt’uno con la<br />

loro vita. Per questo poco fa <strong>di</strong>cevo che abbiamo innanzitutto<br />

conosciuto persone, poi dei musicisti. E’ come se<br />

non si curassero <strong>di</strong> non avere il paracadute per i momenti<br />

<strong>di</strong> crisi, per l’impossibilità ovvia <strong>di</strong> non poter non vivere<br />

la propria vita. Abbina a questo una certa pre<strong>di</strong>sposizione<br />

alle contaminazioni musicali e umane, la <strong>di</strong>sponibilità<br />

a collaborare e una grande capacità <strong>di</strong> pianificare tour<br />

continui per poter mantenere una progettualità.<br />

Come viene visto un gruppo italiano negli ambienti<br />

in cui vi siete trovati ad operare?<br />

Ho visto poche volte <strong>di</strong>stinzioni fatte in base alla nazionalità.<br />

Nella maggior parte dei casi guardano a come ti<br />

comporti nel soundcheck o durante il live. A come lavori,<br />

insomma. Come dovrebbe essere, aggiungo. Ricordo un<br />

paio <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> negli Stati Uniti in cui ci hanno chiesto se<br />

i gruppi italiani fossero pigri, riferendosi al fatto che da<br />

quelle parti vedevano in tour poche band italiane (anche<br />

se il trend sta cambiando e ne sono davvero felice). In<br />

Europa invece, non ricordo se nel Regno Unito o altrove,<br />

un paio <strong>di</strong> promoter mi raccontavano che erano stupiti<br />

dall’aver ricevuto proposte <strong>di</strong> gruppi italiani lì sconosciuti<br />

che pretendevano già garanzie, sol<strong>di</strong>, hotel etc. Credo<br />

<strong>di</strong> avergli risposto che, purtroppo, alcune formazioni<br />

sono abituate troppo bene qui da noi e quin<strong>di</strong>, per non<br />

perdere i privilegi a cui sono arrivate, non mettono in<br />

conto <strong>di</strong> dover investire per costruire qualcosa anche al<br />

<strong>di</strong> fuori dall’Italia. Sono scelte, comunque, e le rispetto.<br />

Come varia da paese a paese l’interpretazione <strong>di</strong> concetti<br />

come “cre<strong>di</strong>bilità”, “merito” e “appartenenza” a<br />

una scena? Da questo punto <strong>di</strong> vista che cosa ha insegnato<br />

a tre italiani partiti dalla provincia avere la<br />

possibilità <strong>di</strong> confrontarsi con contesti decisamente<br />

<strong>di</strong>versi dal nostro?<br />

“Cre<strong>di</strong>bilità” e “merito” come punti <strong>di</strong> arrivo, oppure grazie<br />

alla cre<strong>di</strong>bilità che ti conquisti hai il merito <strong>di</strong> poter<br />

fare questo o quello. Sull’appartenenza a una scena invece<br />

non saprei <strong>di</strong>re molto, forse anche perchè noi in<br />

primis non ci sentiamo parte <strong>di</strong> un contesto specifico.<br />

Abbiamo però imparato quanto fondamentale sia il rispetto<br />

per chiunque stia lavorando con te, si tratti <strong>di</strong> un<br />

<strong>di</strong>sco, un live, una promozione, o semplicemente una<br />

notte a casa <strong>di</strong> qualcuno che ti ospita. Chi ti vede come<br />

un professionista e un lavoratore pretende giustamente<br />

il medesimo trattamento da parte tua.<br />

Siete sotto contratto con l’americana Aagoo. Che <strong>di</strong>fferenze<br />

avete riscontrato tra la gestione degli artisti<br />

da parte <strong>di</strong> una label straniera e quanto avviene da<br />

noi?<br />

Prima e contemporaneamente al rapporto con Aagoo<br />

abbiamo lavorato con Boring Machines. Entrambi i boss,<br />

Onga ed Alec, hanno un’incre<strong>di</strong>bile passione per quello<br />

che fanno e un cuore gigantesco. Cambia il bacino <strong>di</strong><br />

utenti, cambiano i gusti musicali, ma ho visto che collaborando<br />

per le nostre due uscite, si sono trovati completamente<br />

in sintonia. Credo sinceramente che Boring<br />

Machines sia la migliore etichetta che potessimo trovare<br />

in Italia per quello che siamo noi e Aagoo la migliore nel<br />

panorama internazionale. Si tratta quasi <strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong><br />

famiglia, dove gli interessi <strong>di</strong>ventano comuni cercando<br />

<strong>di</strong> evitare la “fuffa”. Persone che, per un periodo <strong>di</strong> tempo,<br />

con<strong>di</strong>vidono momenti salienti delle loro vite sapendo<br />

quanto questo sia fondamentale per loro.<br />

Che rapporti avete con la stampa estera? Com’è l’approccio<br />

delle testate giornalistiche straniere nei vostri<br />

confronti?<br />

In generale positivo, pur avendo ricevuto stroncature -<br />

che però fan sempre bene - e recensioni quasi troppo<br />

entuasiastiche. I giornalisti con cui abbiamo avuto modo<br />

<strong>di</strong> parlare ci hanno dato l’impressione <strong>di</strong> essere molto<br />

concreti. In Inghilterra sono forse un pò troppo fissati<br />

con l’idea che noi si sia cresciuti a Dario Argento, Goblin<br />

etc. Ovviamente la cosa ci fa anche sorridere, perchè<br />

effettivamente, ovunque c’è bisogno <strong>di</strong> identificare/etichettare/ricondurre<br />

ogni cosa ad un qualcosa d’altro <strong>di</strong><br />

conosciuto, in modo da poterla meglio capire.<br />

Simon Reynolds sul suo blog cita Mattioli e Ciarletta<br />

<strong>di</strong> Blow Up, riportando la riflessione che i due fanno<br />

a proposito <strong>di</strong> un’ipotetica hauntology/witch house<br />

all’italiana che unisce folk, cattolicesimo, esoterismo,<br />

ma anche una certa “violenza” mutuata da un’Italia<br />

del passato lontana dalle cartoline per turisti. Vi ci<br />

ritrovate?<br />

La risposta potrebbe essere si come no. Le riflessioni a<br />

cui ti riferisci, ovviamente, non ci sono del tutto estranee,<br />

ma contemporaneamente sono limitate dalla necessità<br />

giornalistica <strong>di</strong> dover cercare <strong>di</strong> capire/ricondurre/analizzare.<br />

Nessun problema in questo senso. Solo che è un<br />

ragionamento che non ci appartiene.<br />

10 11


Tune-In.<br />

12<br />

Pan American<br />

Testo: Edoardo Bridda<br />

—La voce umana al centro <strong>di</strong> tutto—<br />

A pochi giorni dall’arrivo in Italia. Intervista all’ex Labradford ora Pan American,<br />

Mark Nelson a proposito <strong>di</strong> ambienti e voci, Brian Eno e Badalamenti e molto altro<br />

Mark Nelson non ha certo bisogno <strong>di</strong> presentazioni, né da<br />

parte <strong>di</strong> SA né da parte <strong>di</strong> altre riviste <strong>di</strong> settore. Lo osserviamo,<br />

incantati, da quando è iniziata la nostra avventura<br />

e<strong>di</strong>toriale e molti <strong>di</strong> noi, come il sottoscritto, ne seguono le<br />

gesta dalla splen<strong>di</strong>da epopea nei Labradford, ancor prima<br />

che sotto il moniker personale Pan American.<br />

Lungo il continuum delle contaminazioni dei 90s/00s per<br />

le quali sarebbe riduttivo parlare <strong>di</strong> post-rock, Labradford e<br />

Pan American sono state realtà ambientali imprescin<strong>di</strong>bili,<br />

ambientali nel senso più onnicomprensivo e sfaccettato del<br />

termine, imprescin<strong>di</strong>bili in quanto sunti maturi <strong>di</strong> un sentire<br />

e <strong>di</strong> traiettorie soniche tra le più intense della musica del<br />

tardo Novecento. I tre benemeriti dell’etichetta Kranky si<br />

sono infatti cimentati con la cosmica tedesca, la psichedelia<br />

inglese degli 80s, il folk apocalittico, le atmosfere morriconiane<br />

e le scorie post-industrial, percorso che Nelson ha<br />

continuato in solo innestando, a sua volta, altri generi e<br />

filoni quali dub e techno, musica concreta e chamber, per<br />

ritrovare in proprio una sua corale essenzialità con l’aiuto<br />

<strong>di</strong> fidati collaboratori e amici. Partendo da un’umoralità<br />

balearic-dub in un omonimo tutt’altro che trascurabile, Pan<br />

American, all’altezza <strong>di</strong> Quiet City, <strong>di</strong>venta sinonimo <strong>di</strong> una<br />

classicità che culmina nell’ultimo White Bird Release: un<br />

Mark Nelson, come del resto il più giovane Christian Fennesz,<br />

metafora <strong>di</strong> un suono a lui ascrivibile, autore <strong>di</strong> musica<br />

d’ambienti con propri mo<strong>di</strong> e linguaggi in lenta evoluzione,<br />

in tempi che si allungano così come le apparizioni live.<br />

L’occasione <strong>di</strong> riparlare <strong>di</strong> lui riguarda proprio queste ultime:<br />

una piccola tournée italiana in tre date/location<br />

d’eccezione: la prima all’Almagià, all’interno del Festival<br />

Transmissions <strong>di</strong> Ravenna (Venerdì 16 marzo), la seconda<br />

al Riot Stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Napoli (Palazzo Marigliano, sabato 17<br />

marzo), all’evento d’apertura della rassegna “A Casa” curata<br />

da Wakeupandream, la terza presso la Chiesa Evangelica<br />

Meto<strong>di</strong>sta <strong>di</strong> Roma per il capitolo finale della rassegna C(H)<br />

ORDE (Giovedì 22 marzo), manifestazione che chiude in<br />

bellezza dopo i fortunati episo<strong>di</strong> con Fink, A Hawk And A<br />

Hawksaw e Ben Frost.<br />

Poi ci sono un’intervista che ci ha regalato non poche sod<strong>di</strong>sfazioni<br />

e un aneddoto: gli organizzatori <strong>di</strong> Transmissions<br />

avevano già invitato Nelson l’anno precedente. Con la proverbiale<br />

calma il chitarrista ha risposto poco tempo fa, a un<br />

anno <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza, accettando l’offerta.<br />

Mark Nelson - La voce umana al centro <strong>di</strong> tutto<br />

Non vorremmo sbilanciarci ma il mutato atteggiamento<br />

nei confronti della stampa e degli addetti ai lavori da parte<br />

dell’uomo <strong>di</strong> bronzo Mark Nelson ci pare legato a una<br />

nuova e personale consapevolezza riguardo al mestiere <strong>di</strong><br />

musicista. Ce ne accorgiamo domandandogli a bruciapelo<br />

se ha mai ritenuto Pan American come un progetto duratu-<br />

13


o o se invece è uno <strong>di</strong> quei muscisti che considerano ogni<br />

<strong>di</strong>sco come l’ultimo. Lui parteggia senza indugio per la seconda<br />

ipotesi, aggiungendo tuttavia <strong>di</strong> aver recentemente<br />

accettato una <strong>di</strong>mensione più continuativa del lavoro. Una<br />

scelta non priva <strong>di</strong> conseguenze, ci confida, che psicologicamente<br />

porta altri problemi, come il dover considerare<br />

le scadenze prossime per un nuovo album con più serietà<br />

e il “rimanere veramente impigliati con tutte le cose in cui<br />

non si è bravi affatto”.<br />

Umile e umano: il Mark Nelson con l’ansia da prestazione<br />

dopo praticamente vent’anni <strong>di</strong> carriera fa una certa tenerezza.<br />

E allora è bello chiedergli <strong>di</strong> Waiting For Crashing,<br />

<strong>di</strong> cui sappiamo già vicissitu<strong>di</strong>ni e genesi. “E’ stato inciso<br />

durante i primi sei mesi <strong>di</strong> gravidanza <strong>di</strong> mia moglie”, rimarca<br />

pacato, “Aspettavamo il nostro primo figlio e volevo<br />

comporre una memoria dell’esperienza per me e fare un<br />

regalo a lui. Chiunque abbia vissuto quest’esperienza conosce<br />

il misto <strong>di</strong> caos, felicità e paure che questa porta con sé”.<br />

La metafora della nascita è perfetta per chiedergli quando<br />

uscirà un nuovo <strong>di</strong>sco. Sono passati tre anni da quell’album<br />

all’ultimo White Bird Release e altrettanti da White<br />

Bird Release ad oggi. Che sia l’anno buono per un nuovo<br />

lavoro <strong>di</strong> Pan American? Mark dà una risposta delle sue. Ha<br />

bisogno <strong>di</strong> tempo. Rimarca che ci lavorerà sicuramente in<br />

questi mesi, che dovrà occuparsene molto più intensamente<br />

rispetto a quanto non abbia fatto nel recente passato, ma<br />

che non sarà pronto prima dell’inizio del 2013.<br />

Di sicuro la nuova prova rientrerà in un percorso intrapreso<br />

a partire da Quiet City, un modus operan<strong>di</strong> che il musicista<br />

definisce “con un suono più da live band e un approccio<br />

più song oriented”. I Labradford si riuniranno mai? “Non so<br />

se suoneremo ancora assieme. Ci vorranno le giuste circostanze.<br />

Forse la lezione è: ‘è ok che qualcosa finisca’ anche se<br />

l’amicizia tra <strong>di</strong> noi rimane molto forte. Di sicuro se faremo<br />

un’altro <strong>di</strong>sco non sarà qualcosa per la quale sentirci tristi.<br />

Sarebbe bello suonare ancora assieme però penso che nessuno<br />

<strong>di</strong> noi ne abbia attualmente bisogno”.<br />

Una delle cose più limpide che emergono dall’intervista è<br />

che Mark sembra aver chiaro ciò <strong>di</strong> cui ha e non ha bisogno,<br />

anche quando compone: “cerco <strong>di</strong> incorporare <strong>di</strong>fferenti<br />

elementi nella mia musica”, afferma risoluto, “possono essere<br />

<strong>di</strong>fferenti voci <strong>di</strong> strumenti o <strong>di</strong>fferenti collaboratori,<br />

ma alla fine quel che rimane è la mia musica e la mia voce”.<br />

La ragione per la quale ci sono più somiglianze che <strong>di</strong>fferenze<br />

nell’opera omnia Labradford/Pan American, risiede in<br />

questo. L’ideale, secondo il chitarrista, potrebbe essere una<br />

musica che rappresenti la continuità della voce umana che<br />

cambia con l’esperienza e il tempo, pur rimanendo sempre<br />

figlia della medesima voce. Gli chie<strong>di</strong>amo del valore della<br />

Techno. Musica e pensiero “never stands alone”, non sono<br />

mai slegate l’una dall’altra, “anche se sai tutto <strong>di</strong> un genere,<br />

sai da dove è venuto o cosa ha influenzato e cosa a sua<br />

volta lo ha influenzato. Quando hai un’idea perfetta, allora<br />

deve appartenere a tutti”.<br />

Dovendo tenere il conto: questa è la seconda lezione che<br />

Mark appunta per se stesso e ci svela. Non lo facevamo<br />

pensatore <strong>di</strong> musica ed è naturale che la prossima domanda<br />

riguar<strong>di</strong> Brian Eno. “Ah lo amo. La sua musica è sempre<br />

facile da capire e se anche ci può essere qualche concetto<br />

sperimentale o idea particolare alla base, il suono è sempre<br />

un invito a unirsi a lei in un modo semplice”. C’è gentilezza<br />

in quest’approccio ed è un aspetto che al musicista piace<br />

molto, a prescindere dai tag <strong>di</strong> middleclassismo che la gente<br />

può affibbiargli. Importante, inoltre, dare il giusto peso<br />

delle sue parole “I always really liked the way his records<br />

feel”. Il preciso significato che deve avere la musica <strong>di</strong> Pan<br />

American nel momento in cui la si ascolta è proprio questo.<br />

L’album preferito <strong>di</strong> Eno? Evening Star, nato dalla collaborazione<br />

con Robert Fripp. Un in<strong>di</strong>zio probabile: qualche passaggio<br />

<strong>di</strong> White Bird Release. E continuamo coi musicisti:<br />

emergono più cose per raffronto <strong>di</strong> quante non ne impareremmo<br />

con domande <strong>di</strong>rette. Per esempio, ho citato spesso<br />

Badalamenti e Lynch descrivendo i brani dei Labradford: è il<br />

momento <strong>di</strong> chiedergli che cosa ne pensa. “Mi è piaciuto il<br />

lavoro <strong>di</strong> Angelo Badalamenti ma quella non è musica che<br />

sento ‘personal’. Penso <strong>di</strong> non avere i suoi <strong>di</strong>schi o <strong>di</strong> non<br />

averli sentiti da anni. Mi piace <strong>di</strong> più quando è bello soltanto<br />

per essere ‘beatiful’ e mi piace meno quando si nasconde<br />

nel kitch o nel post-moderno”. E i <strong>di</strong>schi che lo ossessionano?<br />

What’s Going On <strong>di</strong> Marvin Gaye, la colonna sonora<br />

Man And A Woman <strong>di</strong> Francis Lai e Africa Brass <strong>di</strong> John<br />

Coltrane. Sono quelli che ascolto tra trent’anni e che amo.<br />

Nuova musica? (e questa domanda se la fa da solo ancor<br />

prima che gliela formuliamo): Teen Dream dei Beach House<br />

(che è quasi perfetto, <strong>di</strong>ce), Chiaroscuro <strong>di</strong> Arve Henrickson<br />

(Rune Grammofon, 2004), First Floor <strong>di</strong> Theo Parrish e la colonna<br />

sonora The Proposition <strong>di</strong> Nick Cave e Warren Ellis. La<br />

lista potrebbe continuare. Mark ascolta parecchia musica. E’<br />

un ascoltatore e la musica è un concetto democratico che<br />

non esclude nessuno. La lezione numero tre è servita, farina<br />

del nostro sacco, e non ci rimane che raccontarvi del live.<br />

Sul palco: chitarra, laptop e mixer <strong>di</strong> Mark Nelson più batteria,<br />

synth o sampler per mano <strong>di</strong> Steven Hess, compositore<br />

e sperimentatore che abbiamo già avvistato nell’ultimo<br />

Fennesz Seven Stars, ma anche con Locrian, Sylvain<br />

Chauveau, David Daniell e molti altri. Ricalcando la recente<br />

produzione <strong>di</strong>scografica, il live set sovrapporrà elementi<br />

sintetici e acustici, creando tensione e rilascio. La specialità,<br />

naturalmente, è tenerla sottopelle tra le increspature del<br />

suono e il suo spazio.<br />

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14 15


m warD<br />

Misteriose nostalgie, teneri inganni<br />

Drop out<br />

È tra i più raffinati e luci<strong>di</strong><br />

testimoni <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione<br />

che non scorda <strong>di</strong> passare alla<br />

cassa della modernità. Il ritorno<br />

<strong>di</strong> M Ward è l’occasione per<br />

intervistarlo e abbozzare un<br />

bilancio.<br />

Testo: Marco Boscolo<br />

Stefano Solventi<br />

“Quando scrivo cerco <strong>di</strong> lasciare che l’ispirazione lavori liberamente.<br />

Ogni mio sforzo è de<strong>di</strong>cato a cercare <strong>di</strong> rimettermi in<br />

quello state of mind che avevo quando ho avuto l’idea per un<br />

giro <strong>di</strong> chitarra, per una delle storie che racconto nei testi... Però<br />

non saprei spiegarlo: si tratta <strong>di</strong> un qualcosa che ha che fare con<br />

il mistero, e voglio che rimanga il più possibile così”.<br />

Matthew Stephen Ward, chitarrista da Portland, stato<br />

dell’Oregon. Anni trentasei. Autore <strong>di</strong> malferme ipotesi folkblues.<br />

Non proprio un esempio d’imme<strong>di</strong>atezza cristallina,<br />

eppure te ne puoi innamorare all’istante, con quell’aria terrena<br />

e sospesa che ti rimanda al miglior Kris Kristofferson,<br />

ma anche sghembo e clau<strong>di</strong>cante come certo Neil Young o<br />

de<strong>di</strong>to ad uno spaesamento sublime che rammenta l’ineffabile<br />

Skip Spence, senza scordare la modernità indolenzita<br />

d’un Mark Linkous. Il tutto alla luce <strong>di</strong> un fingerpicking <strong>di</strong><br />

buon livello, poeticamente rintanato tra una spigliatezza sciropposa<br />

Roy Orbison e le grafie sospese John Fahey. Un<br />

pantheon decisamente “guitarcentric”, che attraverso la cornetta<br />

lo stesso Ward provvede ad arricchire: “se proprio devo<br />

fare qualche nome tra i chitarristi che più mi hanno ispirato,<br />

<strong>di</strong>rei senza ombra <strong>di</strong> dubbio Chet Atkins, Ry Cooder e George<br />

Harrison, però mi piace moltissimo anche il suono che hanno<br />

sviluppato i Sonic Youth, il loro lavoro sulle chitarre, oppure<br />

anche il modo <strong>di</strong> scrivere musica <strong>di</strong> Joni Mitchell. Come ve<strong>di</strong><br />

sono un gruppo <strong>di</strong> musicisti variegato, proprio perché credo che<br />

con la chitarra tu possa fare davvero tutto quello che vuoi”.<br />

Al <strong>di</strong> là dei nomi in ballo, tutti molto pesanti, la calligrafia del<br />

16 17


uon Matt deve molto al vissuto familiare, nel quale la musica è stata sempre<br />

presente e varia: colta e gospel, rock classico ed elettronico, infine - ovviamente<br />

- country. Con particolare nota <strong>di</strong> merito per il grande Johnny Cash.<br />

“Un personaggio come Cash è talmente importante che mi ha cambiato la vita.<br />

Non fosse perché fino a quando non ho sentito le sue canzoni e le sue interpretazioni<br />

o<strong>di</strong>avo il country! Poi ho sentito la sua voce e me ne sono innamorato: è<br />

stata la mia iniziazione al country americano. E credo che si stata molto importante<br />

anche la sua ultima parte <strong>di</strong> carriera, quella degli American Recor<strong>di</strong>ngs,<br />

che hanno fatto conoscere il country a una nuova generazione e hanno aiutato<br />

a farlo conoscere anche all’estero. Cash è una figura imprescin<strong>di</strong>bile”.<br />

Frequenze, misteri e innocenze<br />

Più che <strong>di</strong> messaggio fu però questione <strong>di</strong> me<strong>di</strong>um, ovvero la ra<strong>di</strong>o, con<br />

tutta la fenomenologia che da sempre la circonda. La sua presenza come<br />

finestra su un orizzonte mutevole e potenzialmente infinito. La suggestione<br />

<strong>di</strong> un sibilo che insegue la sintonia. Mezzo fragile ma potente che ha saputo<br />

restare a galla malgrado i rivolgimenti tecnologici, adattandosi con duttilità<br />

tenace e leggera, tanto che oggi assistiamo ad un suo formidabile rifiorire<br />

grazie alle app che rendono ogni smartphone un potenziale transistor globale.<br />

Ra<strong>di</strong>o cui Ward guarda come me<strong>di</strong>um-feticcio, il vaso <strong>di</strong> Pandora da<br />

cui escono incantesimi fatti <strong>di</strong> suono. “La ra<strong>di</strong>o è stata la mia iniziazione alla<br />

musica. E’ attraverso le stazioni ra<strong>di</strong>o che trasmettevano musica che ho conosciuto<br />

molte delle canzoni e degli artisti che amo. E poi credo che la ra<strong>di</strong>o sia una<br />

grande compagnia. Prova a immaginare <strong>di</strong> esserti alzato e avere una terribile<br />

mattinata: accen<strong>di</strong> la ra<strong>di</strong>o e senti una canzone che può cambiarti l’umore e<br />

migliorare la tua giornata. E’ un potere straor<strong>di</strong>nario, perché la ra<strong>di</strong>o ti porta la<br />

musica, e la musica ti rende migliore la vita”.<br />

Ra<strong>di</strong>o da cui escono frequenze intrecciate in un or<strong>di</strong>to che tocca il cuore<br />

d’America, opponendo candore misterioso e miraggi struggenti alla per<strong>di</strong>ta<br />

dell’innocenza. Una sorta <strong>di</strong> morbi<strong>di</strong>ssima <strong>di</strong>stopia che agli allarmi apocalittici<br />

preferisce un gioco <strong>di</strong> reminiscenze, <strong>di</strong> allucinazioni quiete e schegge <strong>di</strong><br />

memoria. Suono ra<strong>di</strong>ofonico per eccellenza, quello della chitarra è tra i più<br />

evocativi, simbolo <strong>di</strong> peripezia itinerante, <strong>di</strong> intimo altrove. “La prima cosa<br />

è la chitarra. Sono convinto che sviluppando la tecnica e la conoscenza dello<br />

strumento, chiunque suoni la chitarra sa che è in grado <strong>di</strong> produrre qualsiasi tipo<br />

<strong>di</strong> suono, <strong>di</strong> atmosfera, <strong>di</strong> mood. Anche quando compongo, non solo quando mi<br />

occupo degli arrangiamenti, è sempre la chitarra a venire per prima. Anche le<br />

linee melo<strong>di</strong>che vocali le scrivo improvvisando <strong>di</strong>rettamente alla chitarra. Sono<br />

talmente un maniaco del suono della chitarra che quando ascolto la ra<strong>di</strong>o, se la<br />

canzone è bella ma il suono della chitarra non mi piace, cambio subito stazione<br />

alla ricerca <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> migliore”.<br />

Per anni Matt è stato la chitarra dei Rodriguez, band <strong>di</strong> San Luis Obispo - più<br />

o meno tra San Francisco e Los Angeles - il cui primo album (Swing Like A<br />

Metronome) fu prodotto da quel Jason Lytle che più avanti coi suoi Grandaddy<br />

- anno 1996, più o meno - saprà conquistarsi le simpatie <strong>di</strong> Howe<br />

Gelb. Proprio l’ex-Giant Sand qualche tempo più tar<strong>di</strong> riceverà una cassetta<br />

dalle mani <strong>di</strong> Ward. Accadde una sera del 1999, a Seattle, in occasione <strong>di</strong> una<br />

tappa del tour della compagine Op8. Per Howe fu incanto al primo ascolto,<br />

tanto che decise <strong>di</strong> pubblicare quel demo - Duets For guitar #2 - tramite la<br />

propria etichetta Ow Om.<br />

una quieta, irresistibile ascesa<br />

Da allora è passato più <strong>di</strong> un decennio, un pugno <strong>di</strong> <strong>di</strong>schi e svariate partecipazioni/collaborazioni.<br />

Il co<strong>di</strong>ce espressivo <strong>di</strong> M Ward si è raffinato titolo<br />

dopo titolo senza mai rinnegarsi, introducendo fantasmi gracchianti già<br />

nell’eccellente sophomore End Of Amnesia (Future Farmer, luglio 2001) e<br />

speziando la portata <strong>di</strong> languori esotici e vapori soul in un Transfiguration Of<br />

Vincent (Matador, marzo 2003) che tra gioielli trasluci<strong>di</strong> come Undertaker e<br />

Outta Of My Head, cala a sorpresa una rilettura acustica della bowieana Let’s<br />

Dance. Quasi ovvio che a quel punto qualcuno inizi ad accorgersi <strong>di</strong> lui, ad<br />

esempio Chan Marshall, meglio nota come Cat Power, nei cui live già figura<br />

la toccante Sad Sad Song. Una falsariga che non sarà <strong>di</strong>sattesa da Transistor<br />

Ra<strong>di</strong>o (Matador, febbraio 2005), lavoro che non spicca rispetto al predecessore<br />

ma si fa ricordare almeno per la cover <strong>di</strong> You Still Believe in Me dei Beach<br />

Boys, per la presenza ai cori dell’amico Vic Chesnutt (nel boogie ruspante<br />

<strong>di</strong> Big Boat) e per l’idea balzana ma emblematica <strong>di</strong> chiudere il programma<br />

con una versione per organo e chitarra del Well-Tempered Clavier firmata J.S.<br />

Bach nientemeno.<br />

Al successivo Post War (4AD, settembre 2006) sarà affidata una sensibile<br />

svolta in <strong>di</strong>rezione leggerezza, una specie <strong>di</strong> gioco accattivante sotto il cielo<br />

<strong>di</strong> piombo, ferma restando la tavolozza a base <strong>di</strong> folk-blues, gospel e country<br />

ma come sclerotizzata <strong>di</strong> pagliuzze Fifties, grazie anche al prezioso intervento<br />

della mesmerica voce <strong>di</strong> Neko Case. C’è anche una cover <strong>di</strong> Daniel<br />

Johnston utilizzata poi per intitolare il To Go Home EP (4AD, febbraio 2007),<br />

prodotto sì interlocutorio per tenere caldo quel pizzico <strong>di</strong> hype accumulato<br />

nel frattempo (il curriculum si era arricchito <strong>di</strong> una partecipazione a Not<br />

18 19


Too Late, terzo album <strong>di</strong> Norah Jones), tuttavia importante per aggiungere<br />

all’accolita degli amici Nels Cline dei Wilco e Jim James dei My Morning Jacket.<br />

Con quest’ultimo più Conor Oberst e Mike Mogis dei Bright Eyes, Matt<br />

aveva messo in pie<strong>di</strong> già da qualche anno (almeno dal 2004) i Monsters<br />

Of Folk, formazione che uscirà con un album omonimo licenziato da Rought<br />

Trade nel settembre 2009 ottenendo ragguardevoli riscontri <strong>di</strong> critica<br />

e botteghino.<br />

Ma la vera svolta in termini <strong>di</strong> successo accade però grazie al regista Martin<br />

Hynes, che dopo aver visto Matt aprire per il concerto <strong>di</strong> Bright Eyes, decide<br />

<strong>di</strong> affidargli la soundtrack <strong>di</strong> The Go-Getter, pellicola nella quale recita la<br />

rampante Zooey Deschanel. La briosa attrice losangelina rivela ottime doti<br />

canore che impressionano Matt, tanto che i due iniziano a covare a <strong>di</strong>stanza<br />

il progetto She And Him, il cui Volume One (Domino, luglio 2008) saprà farsi<br />

largo nella top ten delle classifiche in<strong>di</strong>e e il Volume Two (Domino, aprile<br />

2010) si arrampicherà invece fino al sesto posto delle charts generaliste.<br />

Giocose, trepide alchimie<br />

Che il retro pop scafato della coppia rappresenti la meritata nemesi (in termini<br />

<strong>di</strong> celebrità) del cantautore <strong>di</strong> Portland è para<strong>di</strong>gma agrodolce e in<br />

fondo banale. Tuttavia, per Matt questo non rappresenta affatto un problema:<br />

“Rispetto al successo degli She And Him non mi sento per niente frustrato<br />

o altro. Quello che a me piace più <strong>di</strong> tutto, quello che mi fa sentire più <strong>di</strong> tutto<br />

felice, è suonare la chitarra e cavare fuori dalle sue corde il mood, l’atmosfera,<br />

il suono che voglio. Questo è quello che per me conta più <strong>di</strong> tutto. Per cui non<br />

mi sento a <strong>di</strong>sagio nel se<strong>di</strong>le del passeggero, soprattutto se alla guida c’è una<br />

persona dodata <strong>di</strong> sensibilità musicale e talento come Zooey. Con She And Him<br />

mi posso concentrare sugli arrangiamenti e metterli al servizio <strong>di</strong> belle melo<strong>di</strong>e<br />

senza tempo. E’ una cosa che mi dà sod<strong>di</strong>sfazione e non mi fa sentire meno<br />

importante: il risultato <strong>di</strong>pende dal lavoro <strong>di</strong> entrambi”.<br />

Proprio così. E se questo significa far girare il motore a mille, tanto meglio. In<br />

altre parole, se la conseguenza è un altro capolavoro come Hold Time (4AD,<br />

febbraio 2009), come lagnarsene? Scortato da due muse così <strong>di</strong>verse come<br />

la Deschanel stessa e Lucinda Williams, in questo <strong>di</strong>sco Matt ha saputo<br />

calibrare gli elementi del proprio immaginario come un alchimista giocoso<br />

<strong>di</strong>sposto all’incanto e alla mestizia, <strong>di</strong>stricandosi tra ugge acidule Big Star ed<br />

il fantasma sferragliante dell’amato Cash, chiamando a collaborare l’antico<br />

sodale Jason Lytle per suggellare il rinnovato - e mai tanto a fuoco - estro<br />

pop psych à la Brian Wilson.<br />

Ora, la grandezza <strong>di</strong> un musicista si misura anche nella capacità <strong>di</strong> ignorare il<br />

richiamo della facilità. Sarebbe stato lecito cioè - e comprensibile - attendersi<br />

un album che raccogliesse i frutti <strong>di</strong> una semina tanto accattivante. Invece<br />

il nuovo A Wasteland Companion (4AD, marzo 2012) è come una morbida<br />

implosione che si concede appena un paio <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> più scollacciati e - ebbene<br />

sì - ra<strong>di</strong>ofonici. Ma che per il resto conferma la statura e la densità <strong>di</strong><br />

un artista defilato, intenso, generoso, fragrante. Capace <strong>di</strong> produrre un suono<br />

dalla polpa antica senza pagare dazio alla contemporaneità. “Per quanto<br />

riguarda la registrazione, l’unico supporto che riesco a concepire davvero è il<br />

nastro. Da questo punto <strong>di</strong> vista sono un uomo analogico, perché credo che sia<br />

lo strumento più fedele a <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> un musicista. Però non sono contrario<br />

alla tecnologia in assoluto. Il computer e i software credo che siano molto utili<br />

per prendere appunti, per realizzare sketch <strong>di</strong> quello che poi realizzerai con<br />

veri musicisti in stu<strong>di</strong>o o live. Credo che siano aiuti importanti ma temporanei:<br />

ti permettono <strong>di</strong> avere un’idea <strong>di</strong> come potrebbe realizzarsi qualcosa che hai<br />

pensato, ma poi io non li userei per qualcosa che finisce su <strong>di</strong>sco”.<br />

Un artista capace <strong>di</strong> scrivere canzoni che sembrano girare attorno ad un’America<br />

(tra)sognata, che non s’arrende alla nostalgia ma vive il rimpianto come<br />

una splen<strong>di</strong>da illusione. Un abbraccio così stretto tra poetica ed estetica<br />

che può permettersi <strong>di</strong> restare in<strong>di</strong>fferente alle strategie promozionali, alla<br />

loro pressione banalizzante: “la casa <strong>di</strong>scografica ha scelto Primitive Girl come<br />

singolo e per The First Time I Run Away abbiamo fatto un bellissimo video. Di<br />

solito lascio che sia l’etichetta a scegliere: io non credo che sarei un buon giu<strong>di</strong>ce<br />

del mio stesso lavoro. Sono loro che hanno la sensibilità per cogliere la canzone<br />

che può funzionare meglio come singolo”.<br />

Alla luce <strong>di</strong> tutti questi fatti, <strong>di</strong> tutti questi titoli che non hanno mai deluso e<br />

non hanno mai mancato <strong>di</strong> portare in dote calore, leggerezza e profon<strong>di</strong>tà,<br />

ci sono buoni motivi per considerare M Ward uno dei più importanti autori<br />

e interpreti statunitensi contemporanei.<br />

20 21


GiarDini<br />

Di mirò<br />

La compiuta leggerezza<br />

dell’in<strong>di</strong>e periferico<br />

Drop out<br />

Il settimo <strong>di</strong>sco dell’ex Moldy<br />

Peaches è il più maturo e riuscito.<br />

Ripercorriamo un percorso solista<br />

oramai <strong>di</strong>ventato importante per<br />

analizzare la costruzione <strong>di</strong> una<br />

poetica infantile, ma profonda<br />

Testo: Stefano Solventi<br />

Intervista: Andrea Forti<br />

Sono passati giusto <strong>di</strong>eci anni da quando, nel febbraio del<br />

2002, vi<strong>di</strong> i Godspeed You Black Emperor! (all’epoca l’esclamativo<br />

stava ancora in coda) al Link <strong>di</strong> Bologna. Nel ruolo<br />

<strong>di</strong> opener c’era la band italiana più - come <strong>di</strong>re? - adeguata<br />

alla circostanza: i <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> <strong>di</strong> <strong>Mirò</strong>, freschi del considerevole<br />

successo ottenuto da Rise And Fall Of Academic Drifting<br />

(Homesleep, 2001). Ricordo benissimo con quali sensazioni<br />

uscii da quella serata: i <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> si resero protagonisti <strong>di</strong> un<br />

set molto piacevole, ma sembravano come sfalsati rispetto al<br />

contesto. Il sound e la calligrafia reclamava ambiti <strong>di</strong>versi, più<br />

contenuti e - ebbene sì - ovattati. Il loro pop-rock da camera<br />

imbevuto d’inquietu<strong>di</strong>ni in<strong>di</strong>e annaspava tar le pareti grigie,<br />

in quell’atmosfera da minimi termini post-industriali. I canadesi,<br />

invece, travolsero tutto. Imposero la loro apocalissi. Alla<br />

fine furono monumentali, nel senso <strong>di</strong> un travolgente peana<br />

al post-rock ormai esausto. I <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> <strong>di</strong> <strong>Mirò</strong> sembrarono il<br />

mazzo <strong>di</strong> fiori su quel monumento.<br />

Non era solo una questione <strong>di</strong> abilità, <strong>di</strong> talento, <strong>di</strong> amplificatori.<br />

C’era come una <strong>di</strong>versità culturale e poetica, uno spread<br />

espressivo. I <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> erano figli perfetti del tempo e del luogo<br />

in cui fecero la loro comparsa. Il “miracolo” del <strong>di</strong>sco d’esor<strong>di</strong>o<br />

consisteva nel cogliere i palpiti finali d’un post-rock già<br />

post-se stesso - impegnato a ricostruirsi un viatico melo<strong>di</strong>co<br />

dopo aver calpestato le macerie della forma canzone - mestando<br />

però nel pentolone dei Novanta che ancora borbottava<br />

l’estremo ribollire. Già, perché l’Italia rockettara a cavallo<br />

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del nuovo secolo-millennio stava metabolizzando le spinte estetiche dei 90’s<br />

col consueto, fisiologico delay, finendo col definire una <strong>di</strong>mensione in<strong>di</strong>e<br />

ibrida, riferita ad un impasto gelatinoso <strong>di</strong> istanze lo-fi, brit-psych, (post)<br />

hardcore, trip-hop e appunto post-(post)-rock. Che inevitabilmente andavano<br />

a sovrapporsi ed accordarsi con le nuove correnti, principalmente il<br />

NAM e la folktronica.<br />

Emblematico il caso degli Yuppie Flu, forse la band in<strong>di</strong>pendente italiana<br />

più quotata all’epoca, che iniziò il percorso in scia Pavement per poi strutturare<br />

la proposta in progressivi aggiustamenti psych, pop ed electro nel quale<br />

potevi avvertire sparse influenze Notwist, Oasis, Mercury Rev, Sparklehorse<br />

e dEUS. Un “in<strong>di</strong>e” omnicomprensivo che se ottenne gran<strong>di</strong>ssimo cre<strong>di</strong>to<br />

e seguito in tutta europa (nel 2001 firmarono per Rough Trade, nel 2003<br />

stavano per accordarsi con XL...), d’altro canto non riuscì mai a consolidarsi<br />

e decollare davvero. Il problema è che sembravano <strong>di</strong> tutto senza sembrare<br />

nulla <strong>di</strong> definitivo. Non capivi dove iniziavano veramente loro. I <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong><br />

debuttarono con premesse simili e molti punti <strong>di</strong> contatto con la band marchigiana<br />

(Matteo Agostinelli, cantante degli Yuppie Flu, prestò la voce in Pet<br />

Life Saver, mentre alla produzione fu chiamato Giacomo Fiorenza, fondatore<br />

assieme ad Agostinelli e Daniele Rumori della Homesleep), ma rispetto a loro<br />

ebbero l’intuizione <strong>di</strong> circoscrivere l’ambito estetico e la fortuna <strong>di</strong> farlo nel<br />

momento più opportuno. Aggiungete l’intensa freschezza <strong>di</strong> quelle composizioni,<br />

che non si vergognavano <strong>di</strong> farsi permeare da languori morriconiani,<br />

ed ecco spiegato più o meno perché fu uno dei <strong>di</strong>schi più amati degli Anni<br />

Zero prima che <strong>di</strong>ventassero gli Anni Zero.<br />

Fin da subito però si pose loro il problema <strong>di</strong> cosa essere e fare nell’episo<strong>di</strong>o<br />

successivo. Il risultato fu Punk... Not Diet! (Homesleep, 2003), <strong>di</strong>sco che introduceva<br />

sussulti in<strong>di</strong>e ed electro (dai Notwist ai Mùm passando dai Piano<br />

Magic, e non senza una strizzatina d’occhio agli onnipresenti Ra<strong>di</strong>ohead)<br />

sconfessando gran parte della calligrafia precedente, tanto da indurre qualche<br />

anno più tar<strong>di</strong> Daniele Rumori a chiosare “...ascoltandolo la prima volta<br />

pensai che i <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> dovevano essere dei pazzi o dei geni per fare uscire un <strong>di</strong>sco<br />

così.” Col senno <strong>di</strong> poi, possiamo <strong>di</strong>re che Rumori non aveva colto il punto. Né<br />

pazzi né geni, i ragazzi <strong>di</strong> Cavriago rappresentavano fedelmente una generazioni<br />

<strong>di</strong> musicisti stilisticamente apoli<strong>di</strong>, cresciuti nella stagione che vedeva<br />

spegnersi le ultime gran<strong>di</strong> scene e si apprestava non senza smarrimento ad<br />

affrontare la mappa scoor<strong>di</strong>nata del nuovo secolo. Col merito non da poco <strong>di</strong><br />

sviluppare e consolidare un approccio internazionale, la <strong>di</strong>sposizione cioè a<br />

proiettarsi come proposta <strong>di</strong>scografica e concertistica in un ambito (almeno)<br />

europeo, non tanto in ottica commerciale - pur sempre <strong>di</strong> circuiti secondari<br />

si tratta - ma come “collocazione”, come respiro espressivo.<br />

Con Punk... Not Diet! in effetti recitarono la parte dei profeti in patria, godendo<br />

<strong>di</strong> un ragguardevole successo in Francia e Germania. L’ep North Atlantic<br />

Treaty Of Love (Homesleep, 2006) ed il successivo Divi<strong>di</strong>ng Opinions<br />

(Homesleep, 2007) furono due ulteriori tentativi <strong>di</strong> smarcarsi che sfociarono<br />

in variazioni interessanti sul tema in<strong>di</strong>etronica, il cui merito maggiore tuttavia<br />

stava ancora nel contrasto col “<strong>di</strong>fetto d’origine”, lo sbocciare anomalo sul<br />

tar<strong>di</strong>vo riflusso post-rock. Che con Il fuoco (Unhip, 2009) - sonorizzazione<br />

del celebre film muto del 1915 - conobbe un riflusso emblematico ma - alla<br />

luce dell’ultimo Good Luck - ingannevole.<br />

Se è lecito tracciare un bilancio <strong>di</strong> questo decennio abbondante trascorso<br />

dal loro debutto <strong>di</strong>scografico, <strong>di</strong>remmo che la vibrazione costante è stata<br />

un’autorevolezza naturale, figlia della genuinità dell’approccio, della determinazione<br />

a cogliere un punto <strong>di</strong> equilibrio tra movimenti internazionali<br />

e ra<strong>di</strong>ci nostrane (la cedevolezza melo<strong>di</strong>osa, lo sguardo cinematico...). Ma<br />

tirando le somme va detto che non sono riusciti a produrre un linguaggio<br />

davvero peculiare, forse perché sopraffatti dalla consueta litania dei deficit<br />

italiani (esiguità dei margini <strong>di</strong> manovra, ristrettezza del mercato, inadeguatezza<br />

delle strutture, mentalità, cultura...) oppure - peggio - per una sorta <strong>di</strong><br />

“paura <strong>di</strong> volare” che soffoca nella culla le ambizioni interpretandole come<br />

velleità. Come se per esprimere tutto l’esprimibile non bastasse padroneggiare<br />

il linguaggio (acquisito con perizia tuttavia pur sempre acquisito) ma<br />

occorresse possederne il co<strong>di</strong>ce profondo, con l’agilità <strong>di</strong> un madrelingua,<br />

“pensarlo” quin<strong>di</strong> e non “tradurlo”.<br />

In questo senso, la vicenda dei <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> <strong>di</strong> <strong>Mirò</strong> è il para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong> tanto in<strong>di</strong>e<br />

rock italiano, sempre più competente eppure come incapace <strong>di</strong> oltrepassare<br />

la soglia della compiutezza, <strong>di</strong> squarciare il <strong>di</strong>aframma tra la forma e<br />

l’espressione.<br />

intervista<br />

Sembra ci sia una rapporto molto forte per i <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> <strong>di</strong> <strong>Mirò</strong> con la storia<br />

e il territorio in cui vivono, ne sono esempi il recente viaggio intrapreso<br />

in treno dal campo <strong>di</strong> concentramento <strong>di</strong> Fossoli verso Auschwitz<br />

oltre alla nota copertina <strong>di</strong> Divi<strong>di</strong>ng Opinions riferita agli socntri tra<br />

polizia e operai in sciopero a Reggio Emilia nel 1960: ce ne vuoi parlare?<br />

Abbiamo un gran<strong>di</strong>ssimo legame col nostro territorio, è quell’attaccamento<br />

che le persone a volte (ma non sempre) hanno col luogo in cui sono vissuti.<br />

I motivi sono riconducibili alla storia politica, culturale ma soprattutto familiare<br />

che abbiamo avuto e che ha creato questo legame forte per le vicende<br />

e gli eventi <strong>di</strong> queste zona, a partire dai tempi che possiamo definire “<strong>di</strong><br />

splendore” in cui si era l’avanguar<strong>di</strong>a politico-culturale rispetto al resto del<br />

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paese fino ad arrivare al presente dove invece c’è un po’ più omologazione.<br />

Noi veniamo da qui ed è probabilmente per merito <strong>di</strong> questo legame che<br />

non abbiamo mai sentito il peso della nostra provenienza, anzi l’essere <strong>di</strong><br />

provincia è stato un modo per lavorare molto tranquillamente con un sacco<br />

<strong>di</strong> opportunità a nostra <strong>di</strong>sposizione a partire dalle sale prova gestite dal comune<br />

o comunque a prezzi molto ragionevoli fino ad arrivare all’opportunità<br />

<strong>di</strong> suonare, possibilità che c’erano allora come oggi; in più, c’è stata l’occasione<br />

<strong>di</strong> vedere tantissimi concerti anche <strong>di</strong> artisti internazionali. Tutto ciò ci<br />

ha permesso <strong>di</strong> fare la nostra vita <strong>di</strong> provincia ma forti culturalmente <strong>di</strong> tutte<br />

queste esperienze, per arrivare a crearti la tua cosa. Allo stesso tempo siamo<br />

un gruppo che ha guardato molto fuori, prima come gruppo strumentale<br />

poi cantando in inglese, pensando sempre all’Europa, arrivando a creare la<br />

base con cui provare a vivere il proprio sogno: quello <strong>di</strong> essere non solo un<br />

gruppo italiano, <strong>di</strong> Reggio Emilia o emiliano ma uno che fa la sua musica e<br />

vuole girare, sia in Italia che all’estero.<br />

Good Luck è stato registrato all’Igloo Au<strong>di</strong>o Factory <strong>di</strong> San Prospero<br />

<strong>di</strong> Correggio, il luogo dove recentemente sono nati <strong>di</strong>schi <strong>di</strong> artisti<br />

musicalmente opposti al vostro sound (Fine Before You Came, Gazebo<br />

Penguins, Ornaments per citarne alcuni) e vede alla produzione e missaggio<br />

lo stesso Andrea Sologni dei Gazebo: è stata solo una scelta <strong>di</strong><br />

territorialità oppure c’è stato anche l’intento <strong>di</strong> mutare il vostro sound<br />

precedente?<br />

No, non è stata assolutamente una questione <strong>di</strong> sonorità, quando è partita<br />

la produzione <strong>di</strong> questo <strong>di</strong>sco non abbiamo pensato al sound finale nel<br />

senso che abbiamo pensato più a scrivere le canzoni, a <strong>di</strong>fferenza de Il Fuoco<br />

dove la parte <strong>di</strong> gestione dei suoni è stata molto più curata, più ragionata.<br />

Inizialmente doveva svolgere tutto il lavoro Francesco ‘Burro’ Donatello, noi<br />

avevamo semplicemente bisogno <strong>di</strong> un posto dove poter lavorare insieme<br />

con tranquillità. C’è stata questa grande opportunità <strong>di</strong> lavorare a casa <strong>di</strong> uno<br />

<strong>di</strong> noi, perché ormai Andrea ‘Sollo’ Sologni lo consideriamo uno del gruppo:<br />

ci segue da tanti anni, ha suonato con noi per due tour in Germania perché<br />

il nostro bassista non poteva venire, ha fatto anche qualche data italiana<br />

con noi. In realtà non è soltanto un nostro fonico, è uno del gruppo. È stato<br />

dunque naturale per noi nella ricerca <strong>di</strong> uno stu<strong>di</strong>o dove andare scegliere<br />

quello <strong>di</strong> uno dei <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong>. Il fatto che esistano altri gruppi che conosciamo e<br />

seguiamo è perfetto e va benissimo, che ci sia questa comunità <strong>di</strong> musicisti<br />

che intendono la musica in un certo modo, che suona negli stessi posti con<br />

la possibilità <strong>di</strong> scambiarsi esperienze e ascoltare qualche pezzo dell’altro<br />

ancora non registrato è comunque <strong>di</strong>vertente e molto positivo.<br />

Nella mia domanda precedente abbiamo parlato <strong>di</strong> un paio <strong>di</strong> band locali<br />

che hanno avuto <strong>di</strong>schi <strong>di</strong> successo nel 2011: in questi anni <strong>di</strong> vostra<br />

assenza dalle scene hai notato qualche artista delle tue zone fare uscite<br />

interessanti, artisti che vorresti consigliare o semplicemente amici che<br />

han fatto <strong>di</strong>schi da te apprezzati?<br />

Sai, noi siamo <strong>di</strong>ventati un po’ vecchi, guar<strong>di</strong>amo meno concerti e frequentiamo<br />

meno i locali e quin<strong>di</strong> ve<strong>di</strong>amo pochi gruppi giovani. Ho l’impressione<br />

che la scena locale non stia passando un momento <strong>di</strong> massimo splendore e<br />

vitalità, non c’è un fermento particolare e la cosa mi preoccupa, ci sono dei<br />

gruppi che hanno lavorato bene: penso per esempio ai ragazzi <strong>di</strong> Correggio,<br />

ai Gazebo Penguins <strong>di</strong> Sollo che comunque sono <strong>di</strong> fatto un gruppo ‘nuovo’<br />

perché rispetto a quanto pubblicato da loro precedentemente a livello<br />

sonoro stanno segnando un bel percorso, che ha un suo senso e funzione<br />

e sono contento che sia un amico ad aver fatto tutto questo. Ci sono poi i<br />

Valerian Swing che conoscevamo già ma è un gruppo molto interessante,<br />

non sono molto affini a noi come genere ma m’interessa molto il loro<br />

tipo <strong>di</strong> approccio e il modo in cui si sono relazionarti con le registrazioni<br />

(sono andati a registrare negli Stati Uniti), girano molto in Europa e sono<br />

molto bravi dal vivo. Per il resto dove fare un elenco dei gruppi locali che<br />

conoscono un po’ tutti, ho un affetto particolare per gli Offlaga Disco Pax e<br />

Julie’s Haircut come per gli A Classic Education. Con Jonatan Clancy c’è un<br />

rapporto <strong>di</strong> collaborazione perchè è il nostro revisore dell’inglese, per me è<br />

un riferimento molto importante.<br />

Hai parlato degli Offlaga Disco Pax <strong>di</strong> Max Collini, anche loro in uscita<br />

col nuovo <strong>di</strong>sco; quando lo hai conosciuto e quand’è stata la prima volta<br />

che hai ascoltato un pezzo degli Offlaga?<br />

Io e i <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> conosciamo bene Enrico Fontanelli ed abbiamo conosciuto<br />

gli Offlaga attraverso lui, è venuto con noi anche in una trasferta tedesca<br />

a metà degli anni ‘90 quando eravamo ancora un progetto un po’ informe<br />

che si stava costruendo: era il ’98, noi suonavamo già strumentale e ci ha<br />

accompagnato per questi due concerti in Germania. Poi sai, gli appassionati<br />

<strong>di</strong> musica in un modo o nell’altro si conoscono. Li abbiamo visti per la prima<br />

volta nel loro primo concerto in assoluto: noi stavamo facendo le prove<br />

durante un concorso a cui loro stavano partecipando. Mi ricordo benissimo<br />

l’episo<strong>di</strong>o alla fine del concerto, che a me personalmente - e lo sanno - non<br />

era piaciuto, ma davvero la loro era completamente una cosa in <strong>di</strong>venire<br />

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appena formata. Max a fine concerto arriva da me e mi chiede: “Ma come<br />

si scrive esattamente il tuo nome?”. E io gli rispondo “Non mi trattare come<br />

quell’altro musicista là!” (quello del *bip* nel brano degli ODP Tono Metallico<br />

Standard, n.d.a.)<br />

Parliamo del nuovo <strong>di</strong>sco, Good Luck. Quest’espressione è usata solitamente<br />

o prima <strong>di</strong> un esame importante o per un saluto dal sapore <strong>di</strong><br />

ad<strong>di</strong>o. Questo <strong>di</strong>sco lo si può descrivere più come fine <strong>di</strong> una fase (che<br />

potrebbe essere quella con Francesco Donadello alla batteria e produzione)<br />

o l’inizio <strong>di</strong> una nuova?<br />

Sembrerà una cosa detta tanto per <strong>di</strong>re ma il titolo era già lì prima che andassimo<br />

a registrare il <strong>di</strong>sco e prima ancora che Francesco ci desse la notizia<br />

che sarebbe andato ad abitare a Berlino e quin<strong>di</strong> sarebbe stato <strong>di</strong>fficile<br />

continuare a suonare assieme. È sicuramente rivolto a noi perché è sempre<br />

più <strong>di</strong>fficile continuare dopo tanti anni a suonare come stiamo facendo noi<br />

conducendo nel frattempo un’altra vita avendone <strong>di</strong> fatto due <strong>di</strong>stinte e<br />

parallele lavorando la settimana e suonando nei weekend, quando la si vede<br />

cambiare e <strong>di</strong>ventare improvvisamente fantastica. Soprattutto mi sembrava<br />

potesse essere davvero un augurio per tutti quanti per continuare a guardare<br />

avanti senza farsi poi troppe domande, facendosi guidare dalle cose. In quel<br />

momento avevamo bisogno <strong>di</strong> un po’ <strong>di</strong> fortuna perché suonare a vent’anni<br />

con il mondo e la vita davanti è un conto, noi però che ora partiamo dai 35<br />

anni in su abbiamo qualche impegno in più che si è frapposto fra <strong>di</strong> noi e la<br />

musica, e bisogna che le cose vadano bene un po’ a tutti per permetterci <strong>di</strong><br />

continuare a vivere la musica in questo modo. Infine è anche un riferimento<br />

per il momento storico attuale che ha visto per molti - compreso qualcuno<br />

del gruppo - cadere ogni tipo <strong>di</strong> speranza per un tipo <strong>di</strong> mondo e <strong>di</strong> vivere<br />

<strong>di</strong>verso, mi riferisco anche alla situazione politica. Non ci rimane dunque<br />

altro che sperare che tutto vada bene, è un ‘buona fortuna’ un po’ beffardo<br />

perché in realtà al <strong>di</strong> là dell’in bocca al lupo si vede che il lupo è davvero<br />

lì che sta aspettando quin<strong>di</strong> devi trovare il modo <strong>di</strong> aggirarlo, consapevoli<br />

che da qualche parte si rischia <strong>di</strong> schiantarsi. È un augurio amaro perché<br />

sai che c’è qualcosa che non sta funzionando e comunque devi cercare <strong>di</strong><br />

sopravvivere a quella roba lì.<br />

Riprendendo in mano il booklet <strong>di</strong> Divi<strong>di</strong>ng Opinions guardando le frasi<br />

associate ad ogni titolo ho trovato molta rassegnazione nei testi, (leggasi<br />

ad esempio per Divi<strong>di</strong>ng Opinions “<strong>di</strong>vi<strong>di</strong>ng opinions are all we<br />

are”, per Spectral Woman “as christians had their church, you have your<br />

heart”, per Broken By “the dearest bliss can’t open your mind”. Guardando<br />

invece quelli <strong>di</strong> Good Luck emergono altre tematiche come la nostalgia<br />

per il tempo che passa, ciò che ci ‘cura’ e ciò che ci fa cambiare, cosa<br />

si perde se si decide <strong>di</strong> voler cambiare, insomma l’attenzione è più sui<br />

sentimenti che più propriamente sulle tematiche sociali...<br />

Divi<strong>di</strong>ng Opinions era per noi un album <strong>di</strong> riscossa, una grande sfida e un<br />

fatto personale che può sembrare meno importante rispetto alle immagini<br />

della copertina dove la gente ha lasciato la pelle combattendo per un’idea <strong>di</strong><br />

giustizia sociale e <strong>di</strong> un mondo migliore; in realtà nei testi parlavamo anche<br />

<strong>di</strong> altre cose, era una riscossa nei nostri confronti e per la storia del gruppo<br />

perché provenivamo dal ‘successo’ <strong>di</strong> Punk Not Diet! che è stata una cosa<br />

sconvolgente: abbiamo suonato veramente tantissimo, è un <strong>di</strong>sco che aveva<br />

venduto, era andato molto bene anche in Germania sia in termini <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>te<br />

che <strong>di</strong> riscontro live, e quin<strong>di</strong> è stato un album che ci aveva però anche<br />

messo <strong>di</strong> fronte a delle domande sul ‘cosa volevamo fare da gran<strong>di</strong>’ e tutto<br />

quanto. Oltre a questo la formazione aveva perso il cantante acquistato<br />

per quel <strong>di</strong>sco, noi volevamo andare avanti e in quel momento davvero le<br />

opinioni ci hanno <strong>di</strong>viso fino a condurci ad intraprendere una strada comunque<br />

è stata una scommessa e una nostra riscossa. Siamo usciti con un<br />

album <strong>di</strong> cui siamo fierissimi <strong>di</strong> averlo fatto perché quando abbiamo iniziato<br />

non sapevamo come sarebbe uscito, e anche l’impresa <strong>di</strong> me e Corrado <strong>di</strong><br />

mettersi a cantare non è stato un passaggio così semplice e scontato. Siamo<br />

arrivati a cantare per la prima volta in stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> registrazione e anche questa<br />

è stata un’ulteriore scommessa. Nel caso <strong>di</strong> Good Luck è passato tanto tempo<br />

e sono intercorse tante esperienze compresa quella de Il Fuoco che ha<br />

cambiato il nostro modo <strong>di</strong> pensare ai concerti come la sfida <strong>di</strong> portare per<br />

intero nei club l’intero <strong>di</strong>sco, un po’ <strong>di</strong>fferente dall’esperienza live solita in<br />

un club. Quest’anno ci siamo concentrati su <strong>di</strong> noi perché negli ultimi tempi<br />

abbiamo davvero avuto tutto il tempo per pensare un po’ <strong>di</strong> più a noi, la<br />

scelta su cosa fare nella vita si è fatta sentire <strong>di</strong> più perché negli anni sono<br />

successe un po’ <strong>di</strong> cose a tutti i componenti del gruppo che hanno cambiato<br />

il nostro orizzonte. Infine il <strong>di</strong>sco è imperniato su noi stessi anche perché se<br />

guardo al <strong>di</strong> fuori mi sento un po’ sconfitto, purtroppo questo momento è<br />

davvero una trage<strong>di</strong>a.<br />

Secondo te, cosa ha fatto sì che Punk... Not Diet! abbia avuto maggior<br />

successo rispetto a Rise And Fall Of Academic Drifting? Forse il progressivo<br />

incanalarsi verso altri li<strong>di</strong> estranei ai tipici canoni post-rock, come<br />

l’aggiunta della voce?<br />

Sicuramente il cantato ci ha aiutato a veicolare meglio la nostra musica, l’ha<br />

aiutata a raggiungere orecchie abituate alle canzoni cantate e non a canzoni<br />

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strumentali. Perché le nostre son sempre state canzoni e non composizioni,<br />

non abbiamo mai avuto queste pretese. Rise And Fall Of Academic Drifting<br />

è il <strong>di</strong>sco che ha più venduto nel nostro percorso <strong>di</strong>scografico (<strong>di</strong>ecimila copie<br />

tra Italia ed Europa) e sicuramente ha aiutato le altre uscite ed il gruppo<br />

a farsi conoscere.<br />

In una intervista passata descrivevi Divi<strong>di</strong>ng Opinions come un album<br />

nato in maniera antitetica rispetto a Punk Not Diet!, negli intenti e<br />

nell’attitu<strong>di</strong>ne. Questa <strong>di</strong>cotomia è in qualche modo riscontrabile anche<br />

con Good Luck e il penultimo Il Fuoco?<br />

Mah, forse il <strong>di</strong>scorso è un po’ <strong>di</strong>fferente ora anche perché siamo cresciuti<br />

nel saper gestire i suoni e i desideri della band, nel senso che probabilmente<br />

quando avevamo fatto Punk Not Diet! volevamo semplicemente lasciare il<br />

segno, che secondo me è una giusta ambizione. Questo (Il Fuoco, n.d.a.) è<br />

stato un episo<strong>di</strong>o completamente <strong>di</strong>verso perché non abbiamo scelto noi <strong>di</strong><br />

farlo, non è stato deciso tavolino. È stata una proposta che ci hanno richiesto<br />

e nella quale ci siamo approcciati nel modo più limpido possibile alla<br />

musica, probabilmente come non facevamo da anni. È vero che c’era questo<br />

bisogno <strong>di</strong> collegarsi ai tempi stretti <strong>di</strong> un film per sonorizzare la pellicola,<br />

ma siamo stati veramente liberi <strong>di</strong> mettere dentro tanti elementi che molto<br />

probabilmente nel modo normale non avremmo messo, come inserire degli<br />

effetti sonori che magari qualcuno <strong>di</strong> noi aveva provato da solo, riproposti<br />

con gruppo che li ha lavorati, uscendo un po’ della <strong>di</strong>namica normale della<br />

scrittura dei pezzi tra<strong>di</strong>zionale dei <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong>. È inoltre stato un album realizzato<br />

in modo molto veloce: sono 50 minuti <strong>di</strong> musica che avevamo scritto<br />

in due settimane e realizzato in altrettante per cui davvero si parla <strong>di</strong> tempi<br />

molto stretti, è molto ‘<strong>di</strong> getto’ anche se è realtà è quello più composto tra<br />

i nostri <strong>di</strong>schi. Quel <strong>di</strong>sco ha cambiato un po’ l’idea <strong>di</strong> suono che avevamo<br />

grazie ad una esperienza che non avevamo voluto fare subito, ma è capitata<br />

e ci ha portato ad un tipo <strong>di</strong> suono a quello <strong>di</strong> Divi<strong>di</strong>ng Opinions. Sono due<br />

passaggi <strong>di</strong>versi che hanno lasciato il segno e che ci hanno portato a questo<br />

<strong>di</strong>sco che non sarebbe arrivato senza entrambi. Abbiamo avuto molti dubbi<br />

come gruppo se continuare con la strada del Fuoco - non <strong>di</strong>co propriamente<br />

strumentale ma comunque più rarefatta con spazi più <strong>di</strong>lungati - oppure<br />

tornare alla canzone, il dubbio ci ha messo in <strong>di</strong>fficoltà, abbiamo avuto molto<br />

bisogno <strong>di</strong> ragionare su queste cose; dopo<strong>di</strong>ché ci sono state 10 cessioni in<br />

sala prove che hanno deciso come doveva essere il <strong>di</strong>sco, perché in realtà<br />

dopo quando hai gli strumenti in mano sono loro che ci <strong>di</strong>cono come si deve<br />

fare e come si evolverà il <strong>di</strong>sco.<br />

Avete preso l’ispirazione del momento...<br />

No in realtà non è stata solo questione d’ispirazione. Già due anni fa abbiamo<br />

avuto un momento <strong>di</strong> produzione, avevamo registrato cinque pezzi e ne<br />

sarebbero bastati altri tre prezzi per averne uno completo. Alla fine però non<br />

è andata così, l’abbiamo fermato perché non ci rappresentava in quel momento<br />

e non avendo l’obbligo <strong>di</strong> far uscire qualcosa a tutti i costi abbiamo<br />

aspettato <strong>di</strong> fare qualcosa che ci potesse piacere. Abbiamo dunque atteso<br />

fino a prendere esattamente ciò che ne è venuto fuori avendo inquadrato la<br />

<strong>di</strong>rezione musicale che volevamo intraprendere. Il risultato l’abbiamo visto<br />

nascere così, semplicemente ce ne siamo accorti. Quando ti accorgi che c’è<br />

un suono vuol <strong>di</strong>re che stai chiudendo un <strong>di</strong>sco.<br />

A questo album seguirà un tour estensivo? Cosa bolle in pentola?<br />

Beh intanto stiamo già pensando alle uscite che ci saranno prossimamente.<br />

Ci sono alcuni progetti in <strong>di</strong>venire che non anticipiamo subito perché si deve<br />

ancora sistemare tutto quanto, però siamo già guardando avanti. Dopo<strong>di</strong>ché<br />

chi aspetta un tour breve, compatibilmente con gli impegni <strong>di</strong> vita. Ci sarà<br />

sicuramente questa prima parte della primavera un tour che non potrà essere<br />

intensivo perchè tra Pasqua, le feste comandate e i locali che chiudono<br />

a fine maggio c’è la possibilità <strong>di</strong> suonare per un mese e mezzo massimo e<br />

poi ci sarà l’estate. Ci sarà ancora voglia <strong>di</strong> suonare dopo l’estate in modo<br />

abbastanza intensivo sia in Italia che all’estero.<br />

Ancora Germania nel futuro...<br />

Sì perché oramai si è creato un seguito che ci siamo costruiti già dall’inizio<br />

del decennio scorso, è una cosa che vogliamo sempre fare e ci interessa dato<br />

anche il riscontro che troviamo quin<strong>di</strong> vale la pena <strong>di</strong> andare, anche perché<br />

come accennato prima è la <strong>di</strong>mensione che abbiamo sempre voluto: un<br />

gruppo italiano che parte da qua ma che vuole andare a suonare dappertutto.<br />

Non c’interessa <strong>di</strong>ventare gli eroi italiani ma semplicemente andare a<br />

suonare in giro, vedere posti nuovi e altre scene, confrontarci.<br />

Questa è un po’ l’ambizione che i <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> hanno ora, dunque<br />

Sì, l’ambizione è questa. E’ suonare, vedere gente, stare sul palco, proporre la<br />

nostra musica in Italia e fuori. Non c’è nessun altro tipo <strong>di</strong> ambizione, siamo<br />

musicisti vogliamo fare quello.<br />

Dopo la chiusura della vostra etichetta storica Homesleep e il progetto<br />

Il Fuocouscito su Unhip, il nuovo album su Santeria. Come è nata la<br />

scelta <strong>di</strong> affidarvi a loro?<br />

Noi stavamo realizzando il <strong>di</strong>sco ed abbiamo iniziato a mandare in giro un<br />

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po’ <strong>di</strong> provini per vedere chi poteva essere interessato o meno. Devo <strong>di</strong>re<br />

che ho avuto <strong>di</strong>verse risposte - che abbiamo ringraziato - ma la proposta <strong>di</strong><br />

Santeria è stata per la prima volta formalizzata in modo molto professionale.<br />

Tutto è molto chiaro, non c’è nessuno che racconta delle balle, non si hanno<br />

ambizioni <strong>di</strong> conquistare il mondo. Ci siamo parlati, ci siamo detti le cose da<br />

fare in un quadro <strong>di</strong> realismo giusto e naturale senza esagerazioni né in tono<br />

minore né in tono maggiore. Ho anche avuto alcuni concitta<strong>di</strong>ni che hanno<br />

lavorato con la stessa etichetta e ne hanno sempre parlato bene, per questo<br />

abbiamo deciso <strong>di</strong> cambiare e <strong>di</strong> provare con loro. È sempre molto importante<br />

inoltre poter lavorare con un <strong>di</strong>stributore e non solo con un’etichetta,<br />

Santeria ha la fortuna <strong>di</strong> essere sia etichetta che <strong>di</strong>stributore ed avere un<br />

rapporto <strong>di</strong>retto con la <strong>di</strong>stribuzione è un passaggio fondamentale: molti<br />

artisti oggi pubblicano e si fanno loro etichetta fittizia ma in realtà operano<br />

<strong>di</strong>rettamente con un <strong>di</strong>stributore che fa tutto lui. Noi non abbiamo il tempo<br />

<strong>di</strong> seguire il processo <strong>di</strong> realizzazione del <strong>di</strong>sco dalla a alla zeta e quin<strong>di</strong> la<br />

soluzione Santeria ci sembrava davvero la più seria. Non per ultimo abbiamo<br />

notato un entusiasmo che non vedevamo da tanto tempo, ci siamo tuffati<br />

dentro l’entusiasmo dell’etichetta.<br />

Questa prima parte <strong>di</strong> 2012 è stata caratterizzata da alcuni screzi tra<br />

quella che viene definita comunemente “stampa specializzata” e gli artisti<br />

che <strong>di</strong> fatto subiscono giu<strong>di</strong>zi da parte <strong>di</strong> persone che non sono a<br />

conoscenza del percorso e delle scelte effettuate dai musicisti: ne sono<br />

un caso emplematico le critiche ricevute qui su <strong>Sentireascoltare</strong> da Pierpaolo<br />

Capovilla, oppure la serie <strong>di</strong> Tweet <strong>di</strong> Bugo contro le recensioni a<br />

suo <strong>di</strong>re approssimative, in ultimo il brano de Lo Stato Sociale dal titolo<br />

Mi Sono Rotto Il Cazzo nel quale <strong>di</strong>cono (cito testualmente) “Mi sono<br />

rotto il cazzo della critica musicale non siete Lester Bangs non siete<br />

Carlo Emilio Gadda si fa fatica a capire cosa scrivete e bontà <strong>di</strong> <strong>di</strong>o avete<br />

dei gusti <strong>di</strong> merda”.I <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> considerano le recensioni una “pressione”<br />

al loro lavoro oppure vivono tranquillamente questa fase <strong>di</strong> feedback?<br />

E’ sempre stato così durante tutta la carriera oppure col tempo avete<br />

cambiato atteggiamenti?<br />

Un musicista sa che i suoi lavori saranno prima o poi giu<strong>di</strong>cati da stampa<br />

e pubblico. Non mi fido troppo <strong>di</strong> chi <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> non curarsi del giu<strong>di</strong>zio degli<br />

altri, non credo che sia umanamente possibile, questo non vuol <strong>di</strong>re scrivere<br />

musica accomodante le idee altrui, per piacere a tutti i costi. Però quando<br />

si è giu<strong>di</strong>cati in un qualche modo la cosa la si sente ed è chiaro che un parere<br />

negativo, una brutta recensione, una sala concerti vuoti possa lasciare<br />

un segno anche doloroso.E’ una cosa che i musicisti sanno e mettono nel<br />

conto. Aspetto con ansia le recensioni dei critici ed i pareri dei fan (li faccio<br />

andare assieme): se queste reazioni sono positive il numero <strong>di</strong> concerti<br />

aumenta, l’interesse cresce ed il gruppo vive e suona. Elementare, Watson.<br />

In ultimo, una riflessione prendendo come spunto una serie <strong>di</strong> filmati<br />

realizzati qualche anno fa per Pronti Al Peggio, che vedeva tra i protagonisti<br />

tu e Max Collini all’interno delle abituali situazioni lavorative<br />

all’infuori da quelle musicali, che hai spesso citato come necessarie per<br />

poter affrontare la vita <strong>di</strong> tutti i giorni: al giorno d’oggi ritieni che ci<br />

siano possibilità per riuscire a mantenersi de<strong>di</strong>candosi esclusivamente<br />

a fare musica senza guardare esclusivamente al lato delle ven<strong>di</strong>te,<br />

concentrandosi solo sull’aspetto qualitativo?<br />

Ripenso all’intervista e noto davvero che sono passati un po’ <strong>di</strong> anni Ad es-<br />

sere serio devo <strong>di</strong>re che musicisti anche in giro per il mondo che fanno solo<br />

quello <strong>di</strong> mestiere non sono poi tantissimi. Bisogna inoltre vedere le storie<br />

dei gruppi che ci piacciono e ci hanno più appassionato, è tutta gente che<br />

per un po’ ha fatto i musicisti ma poi sono andati a fare una normale vita <strong>di</strong><br />

lavoratori. Da una parte o dall’altra sono tornati alle loro professioni solite<br />

ma magari noi non lo sappiamo perché siamo concentrati a guardare solo<br />

le loro vicende <strong>di</strong> musicisti. È anche vero che forse rispetto a qualche altro<br />

collega europeo non abbiamo molti aiuti dallo Stato come avviene magari<br />

nel nord Europa. Detto questo anche in passato probabilmente non si riusciva<br />

a vivere <strong>di</strong> musica se non si aveva qualcosa da <strong>di</strong>re, un po’ <strong>di</strong> fortuna o<br />

un po’ <strong>di</strong> applicazione per cercare le occasioni e l’intelligenza nel gestire la<br />

propria carriera. Quello che posso <strong>di</strong>re è che personalmente riesco a lavorare<br />

tantissimo con la musica, non solo coi <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong>. Ho fatto tante altre cose: ho<br />

l’opportunità <strong>di</strong> lavorare nella pubblicità, registro colonne sonore, ho più<br />

gruppi, tutto ciò mi permette <strong>di</strong> lavorare solo la mattina e pomeriggio <strong>di</strong><br />

fare il musicista o <strong>di</strong> oziare. Che è un bel lusso! (ride)<br />

32 33


Dance<br />

music<br />

for open<br />

minDs<br />

Drop out<br />

La panoramica ad ampio raggio<br />

sulle attuali tendenze dance<br />

alternative, da quelle easy<br />

listening alle più psichiche, tra<br />

protagonisti <strong>di</strong> oggi, riferimenti<br />

<strong>di</strong> ieri e definizioni <strong>di</strong> varia<br />

natura.<br />

Testo: Carlo Affatigato,<br />

Primo ad arrivare quest’anno l’hypatissimo John Talabot,<br />

con quella sua house <strong>di</strong>smessa, sottotono, che vuol generare<br />

movimento dance ma solo a livello cerebrale, come sensazione<br />

indotta. E ti fermi a riflettere su originalità e stimoli della<br />

proposta. Poi ci pensi, t’accorgi che è lo stesso metodo che<br />

Nicolas Jaar sta perfezionando con risultati eccellenti nei<br />

suoi live, e ne conclu<strong>di</strong> che un filo conduttore è quantomeno<br />

possibile. A stretto giro ci si aggiungono Ital e Blondes e inizi<br />

a convincerti che una tendenza alternativa stia prendendo<br />

piede. E quando per ultimi compaiono Voices From The<br />

Lake e Alex Under, che sul metodo cerebrale han concepito<br />

gli album più riusciti, compren<strong>di</strong> che sta succedendo qualcosa.<br />

Una piega uber-intelligente che si posiziona a debita<br />

<strong>di</strong>stanza dal club ma che in nessun modo ha intenzione <strong>di</strong><br />

demonizzarlo: al contrario finisce per rivalutarne l’importanza<br />

anche in contesti estranei, adottandone gli stessi meccanismi<br />

ad un livello <strong>di</strong> comunicazione <strong>di</strong>fferente, più sottile sì ma<br />

senza ambizioni <strong>di</strong> superiorità.<br />

Vent’anni quasi esatti dal robot <strong>di</strong>steso in poltrona <strong>di</strong> Artificial<br />

Intelligence e in generale dall’ondata IDM che ha marcato a<br />

fuoco gli anni ‘90, e non è strano pensare che si tratti <strong>di</strong> un<br />

nuovo ricorso della storia, un secondo bisogno d’astrazione<br />

e affinità al listening me<strong>di</strong>tativo. Quasi fosse una reazione<br />

al massimalismo elettronico del decennio appena trascorso,<br />

all’estetica degli eccessi che dall’electroclash sfocia nel nu<br />

rave e nella fidget sotto una costante electro house sempre<br />

più aggressiva. E allora ecco che la house torna morbida, sen-<br />

34 35


suale, avvolgente, come quella deep che sta vedendo in tempi recenti una<br />

nuova fioritura, tra Deniz Kurtel, Art Department, Frivolous e l’ultimissima<br />

Nina Kraviz. O forse, più semplicemente, la chill-out ha perso oggi la propria<br />

ragion d’essere, le classiche camere <strong>di</strong> decompressione non esistono più (per<br />

ragioni economiche o sociologiche che siano) e lo smaltimento delle scorie<br />

adesso possono offrirtelo solo il momento pre-serale (l’aperitivo) e la carica<br />

new age e lounge che si porta <strong>di</strong>etro, componente sempre più preponderante<br />

<strong>di</strong> un certo filone ambient house moderno (ve<strong>di</strong> Voices From The Lake<br />

o Prommer & Barck, ma per certi versi anche BNJMN, Caribou e Arandel).<br />

Domande simili ce le facevamo già qualche anno fa, quando nel 2008 ragionavamo<br />

sull’ondata <strong>di</strong> casi ambient/IDM <strong>di</strong> ritorno che coinvolgeva tra<br />

gli altri Autechre, Black Dog, Tom Middleton e Scuba. E anche allora tutto<br />

sembrava formare un <strong>di</strong>segno preciso e appariva energica la rivalsa delle<br />

nuove generazioni sulle precedenti, sempre nel segno <strong>di</strong> una maggiore intensità<br />

emotiva. Ancora una volta siam <strong>di</strong> fronte a una costellazione regolare<br />

e ben definita, che sta esplorando sotto vari fronti le possibilità comunicative<br />

della dance music d’ascolto, da quelle easy alle più psichiche. Il materiale è<br />

ormai abbondante e a unire i puntini ne emerge uno scenario variegatissimo<br />

e con interessanti punti <strong>di</strong> contatto.<br />

naturalismo e new aGe<br />

Tra le sensazioni più frequenti che fan scattare la scintilla, ieri come oggi,<br />

c’è un naturalismo armonioso e aperto, fatto <strong>di</strong> una semplicità che evoca<br />

suggestione tornando su un sentire meno futuristico e più umanamente<br />

spontaneo. Può arrivare al tribalismo, oppure semplicemente fermarsi su<br />

composizioni sonore che rifiutano le forme meccaniche, l’importante è<br />

mettere in atto un’affinità percettiva volta al benessere. Se c’è un esempio<br />

che cristallizza tutto questo per gli attori dei giorni nostri questo è Nathan<br />

Fake, che con l’esor<strong>di</strong>o del 2006 Drowning In A Sea Of Love esplodeva negli<br />

ambienti dell’elettronica intelligente moderna. Lì tutto <strong>di</strong>venta una costola<br />

dell’ambient, una tela libera sulla quale la <strong>di</strong>stensione si esplicita: ascolti You<br />

Are Here o The Sky Was Pink e senti che il gioco elettronico dance oriented<br />

c’è, ma è estremamente rilassato e ammorbi<strong>di</strong>to, rallentato ad hoc per far sì<br />

che l’induzione avvenga dall’interno, tutt’uno con le sensazioni provocate.<br />

Tutto mischiato sovente a un ottimismo <strong>di</strong>ffuso che in Grandfathered e Charlie’s<br />

House <strong>di</strong>venta limpido e incorruttibile. Questo il risvolto intellettuale <strong>di</strong><br />

un lavoro che, in fondo, avrebbe potuto essere soltanto un perfetto album<br />

downtempo, ma che invece possiede la capacità <strong>di</strong> comunicare tra le righe<br />

i suoi contenuti nascosti.<br />

A <strong>di</strong>rla tutta c’era già stato qualcun altro che aveva reso il gioco delle parti<br />

psych/dance più esplicito: l’anno prima Matias Aguayo usciva con Are You<br />

Really Lost, altro <strong>di</strong>sco che, come quello <strong>di</strong> Nathan Fake, verrà successivamente<br />

inserito da molti tra le migliori produzioni elettroniche del decennio.<br />

In quel caso la tech-house era un elemento ben esposto, ma quando incontrava<br />

certo sor<strong>di</strong>do downtempo venivano fuori tracce come De Papel o New<br />

Life, inviti alla danza seminascosti da trip <strong>di</strong> bassi, ritmiche mascherate e sezioni<br />

cantate sommerse, tutto molto vicino a un misterioso rito <strong>di</strong> coinvolgimento<br />

inconscio. Un travestimento della materia dance che verrà promosso<br />

a vero e proprio gioco <strong>di</strong> prestigio nel 2009 con Ay Ay Ay, un <strong>di</strong>sco-esperimento<br />

interamente prodotto da suoni ottenuti dalla voce umana, groove<br />

e ritmi compresi. Naturalismo (o meglio umanismo) all’ennesima potenza<br />

dunque, un travestimento spiazzante che eppure sottendeva un’attitu<strong>di</strong>ne<br />

dance ben marcata. Pren<strong>di</strong> Menta Latte: nella struttura è praticamente techhouse<br />

se non fosse che delle drum machine non c’è neanche l’ombra e che<br />

il cantato è psichedelia malata che tende al tribalismo folk. Ancora meglio<br />

Rollerskate, dove il ballo è più quello <strong>di</strong> una tribù in<strong>di</strong>gena e la componente<br />

esotica (<strong>di</strong>ffusissima su tutto il <strong>di</strong>sco) <strong>di</strong>venta anti-occidentale, riportando<br />

in superficie la parte primor<strong>di</strong>ale della reazione umana.<br />

Si può trasudare dance rimanendo sotto la luce del sole, sollecitando quei<br />

riflessi incon<strong>di</strong>zionati che sanno muoverti da dentro. Più la consistenza <strong>di</strong>venta<br />

minimale e lascia spazio al non detto, più <strong>di</strong>venta una pagina bianca<br />

in cui è l’ascoltatore a mettere i contenuti. Nel 2010 su Infiné vien fuori dal<br />

nulla un personaggio misterioso che nasconde il proprio volto <strong>di</strong>etro una<br />

maschera <strong>di</strong> legno grezzo e stoffa scarna, quasi fosse frutto <strong>di</strong>retto della<br />

foresta: Arandel fa il botto con In D, album dal <strong>di</strong>segno essenziale che ragiona<br />

secondo una visione new age, capace <strong>di</strong> prestarsi a circonvoluzioni<br />

spaziali e introversioni <strong>di</strong> vuoto mistico. Eppure c’è una certa cassa insistente<br />

e decisa che vien chiamata in causa senza troppa parsimonia, e se ascolti In<br />

D#7 o In D#3 non siam nemmeno troppo <strong>di</strong>stanti dalla microhouse, seppur<br />

<strong>di</strong>stesa su una ambient astrale che ne moltiplica l’assorbimento. Vogliamo<br />

trovargli a tutti i costi un antenato? Torniamo per un attimo al Murcof <strong>di</strong><br />

Remembranza, anno 2005, ripren<strong>di</strong>amo la meccanica del silenzio <strong>di</strong> brani<br />

come Reflejo o Rostro e abbiamo un altro splen<strong>di</strong>do esempio <strong>di</strong> non-dance<br />

indotta in trasparenza che molto ha trasmesso ad Arandel.<br />

NathaN Fake<br />

36 37


araNdel<br />

Nathan Fake, Arandel, il naturalismo e la ambient house. Tutto questo ha<br />

dato da poco un frutto particolarmente appariscente: si chiama BNJMN,<br />

viene dai sobborghi fuori Londra e nel 2011 è salito agli onori <strong>di</strong> cronaca<br />

per la release <strong>di</strong> non uno, ma ben due album <strong>di</strong> vali<strong>di</strong>ssima house emotiva<br />

e raffinata, spopolando peraltro anche nella nostra classifica <strong>di</strong> fine anno.<br />

Plastic World e Black Square <strong>di</strong>segnano un percorso fondato su una cassa in<br />

quattro che sa ritirarsi al momento giusto in favore <strong>di</strong> <strong>di</strong>segni ambientali e<br />

suggestioni cosmiche, realizzando una musica che affascina prima <strong>di</strong> tutto<br />

per lo spessore che comunica, e solo in un secondo momento coinvolge<br />

per attitu<strong>di</strong>ne dance. Il ragazzo sa fare il misterioso con un pezzo pieno <strong>di</strong><br />

sfumature e mutazioni lente come Arose, ma è bravo anche a complicare<br />

l’architettura al punto giusto, forzando lungo il canale intelligent (Primal<br />

Pathways) e ragionando secondo una malinconia laterale e turbata (Wisdom<br />

Of Uncertanty). I momenti migliori si scoprono proprio quando l’attitu<strong>di</strong>ne<br />

house viene zittita e l’esperienza gioca sui contenuti sottintesi. Come per<br />

certe illusioni ottiche, gli effetti <strong>di</strong> questa musica si subiscono involontariamente,<br />

per poi ritrovarsi impegnati a ricondurli a una spiegazione razionale.<br />

nomi (im)probabili<br />

Col senno <strong>di</strong> poi ci si accorge che i primi a voler dare un nome a questo<br />

fenomeno son stati gli stessi artisti protagonisti. Nel 2011 venne fuori un<br />

gran bel <strong>di</strong>sco frutto del connubbio tra due personaggi <strong>di</strong> una certa statura,<br />

il Christian Prommer autore delle Drumlessons e Alex Barck fondatore dei<br />

Jazzanova: Alex And The Grizzly realizzò una armoniosa miscela <strong>di</strong> calore nu<br />

jazz, freddezza norvegese e sfumature dance che sapeva trasmettere energia<br />

e relax fin dal primo ascolto in cuffia. La componente techno lì emergeva<br />

a volte in maniera netta, ma nei pezzi più affascinanti, Picture Of The Sea e<br />

Submarine Bells, i ritmi si ammorbi<strong>di</strong>vano trasformandosi in dolce accom-<br />

pagnamento mentale per panorami assolati e canti liberatori, con tanto <strong>di</strong><br />

inserti naturalistici esotici (il canto dei gabbiani). In un’intervista i due la<br />

chiamarono “earthboogie dance”, a sottolineare la riscoperta <strong>di</strong> un sentire<br />

dance primitivo, libero dal progresso e fedele all’istinto innato dell’uomo.<br />

La natura torna ad essere il mezzo principale per raggiungere una <strong>di</strong>versa<br />

ballabilità, che agisce in maniera maggiormente empatica rispetto ai meccanismi<br />

del club, e questo peraltro ne amplia la fruzione a tutti coloro che<br />

non si sentono a proprio agio con le severità house e techno (target questo<br />

a cui gli stessi Jazzanova han sempre puntato).<br />

L’aura del club affascina anche chi non può <strong>di</strong>rsi un classico frequentatore,<br />

e questo vale anche per quegli artisti che dance non lo sono ma che verso<br />

quel mondo sentono una certa attrazione. Un caso significativo si era visto<br />

giusto l’anno prima con Caribou: lui proveniva da un percorso fondamentalmente<br />

in<strong>di</strong>etronico, ma con Swim nel 2010 compie una virata che lo porta<br />

vicinissimo al club. Senza però oltrepassarne la soglia: in un’intervista a<br />

Pitchfork lo stesso Daniel Snaith approfon<strong>di</strong>sce il concetto <strong>di</strong> “liquid dance<br />

music”, intendendolo come un rendering fluido e ovattato dove dance, trance<br />

e folk si <strong>di</strong>luiscono vicendevolmente. In Found Out, Bowls o Leave House<br />

la ballabilità è più una sensazione trasmessa che un’intenzione sposata con<br />

convinzione, ma la cosa più affascinante è che mentalmente non c’è quasi<br />

<strong>di</strong>fferenza: i neuroni ballano e del contesto se ne fregano.<br />

A un certo punto sembrò che a questo gioco partecipasse anche il glo-fi:<br />

un’estetica che ha l’easy listening nel midollo ma che, in quanto <strong>di</strong>scendente<br />

dal synth-pop della plastic decade, non è mai stato troppo estraneo<br />

all’apparire danceable. L’anno scorso, per l’uscita dell’LP <strong>di</strong> Washed Out ci<br />

ritrovammo tutti a parlare <strong>di</strong> glo-house: la piccola novità <strong>di</strong> Within And Without<br />

(e nello stesso tempo la caratteristica che lo rende il <strong>di</strong>sco più maturo<br />

ed esteticamente solido dell’intero filone) era stata infatti l’introduzione in<br />

brani come Echoes e Soft <strong>di</strong> una riconoscibile soft house, funzionale a dar<br />

spessore al corpo pop che comunque rimaneva matrice dominante. Non<br />

eravamo vicini al club eppure i 4/4 non lasciavano scampo, facendo sì che<br />

il sound sbocciasse su un’inequivocabile drittezza ritmica. Non solo: ritorna<br />

l’idea <strong>di</strong> una dance autoctona che è più vicina a una danza tribale propiziatoria,<br />

e in Before appare preponderante il lato world-lounge della faccenda.<br />

Non esattamente un concept <strong>di</strong> dance cerebrale, ok, ma in quel caso la curva<br />

glo-fi ha confermato lo spazio che il dancing si stava guadagnando negli<br />

ambiti musicali più propriamente d’ascolto.<br />

Il termine che negli ultimi tempi ha preso maggiormente piede nella critica<br />

specializzata è però un altro: hipster house. Così nel 2011 la critica inizia a<br />

chiamare un certo tipo <strong>di</strong> dance music alternativa, riferendosi soprattutto<br />

alle uscite della 100% Silk, la sublabel della Not Not Fun. Tecnicamente si<br />

tratta <strong>di</strong> musica house fatta con mezzi estranei, più vicini all’in<strong>di</strong>e e al rock,<br />

ma in maniera più ampia si intende un modo <strong>di</strong> fare dance con l’intenzione<br />

precisa <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziarsi da un’immagine clubbing particolarmente massificata.<br />

La si realizza con una manciata <strong>di</strong> armi tagliate ad hoc: un citazionismo<br />

elettronico focalizzato perlopiù su sonorità <strong>di</strong> pubblico dominio (anni ‘80,<br />

<strong>di</strong>sco, balearica, magari electropop scan<strong>di</strong>navo o french touch), mood leggero<br />

che tira senza forzare la mano e una fondamentale autoironia.<br />

Tra gli esempi più compiuti, gli eppì Ital’s Theme e Only For Tonight <strong>di</strong> Ital aka<br />

Daniel McCormick, l’artista <strong>di</strong>etro Mi Ami e Sex Worker che a partire da un<br />

background originario post-punk è finito oggi per cimentarsi sempre più<br />

38 39


Nicolas Jaar<br />

spesso con elettronica e 4/4. L’album uscito su Planet Mu, Hive Mind, porta<br />

all’estremo la sperimentazione, con pezzi come Doesn’t Matter e Flori<strong>di</strong>an<br />

Void a trasmettere una arty house farcita <strong>di</strong> campioni vocali, sonorità psych<br />

à la Not Not Fun e ambientazioni space. Un lavoro che appare fortemente<br />

sperimentale e meno efficace <strong>di</strong> quanto potrebbe, con brani come First Wave<br />

e Israel che capovolgono l’approccio: se vogliamo usare una metafora, stavolta<br />

non è il vigore dance che esce fuori dal club e conquista i palcoscenici<br />

borghesi, ma al contrario, sono gli elementi esterni propri dell’impalcatura<br />

da rocker ad oltrepassarne la soglia, alterandone gli equilibri. L’efficacia<br />

dance ne esce intenzionalmente inibita, quasi fosse un’esecuzione stonata,<br />

musica suonata al pubblico giusto ma nel posto sbagliato. Una percezione<br />

possibile <strong>di</strong> un sound sperimentale come quello <strong>di</strong> Ital, che probabilmente<br />

troverà in futuro la quadratura più opportuna tra le forze opposte che spingono<br />

nel suo universo sonoro.<br />

dance-non-dance<br />

A questo punto il leitmotiv è chiaro. Qualsiasi sia la modalità e l’ambito <strong>di</strong><br />

ricerca, la materia dance viene sottoposta a un gioco <strong>di</strong> specchi che la maschera<br />

con connotati <strong>di</strong>versi, un’elaborazione <strong>di</strong> immagini e rifrazioni che<br />

sembra ma non è, che è ma non sembra esattamente dancing. Se dobbiamo<br />

identificare il più abile a inscenare questo trucco da prestigiatore, quello è<br />

Nicolas Jaar, il producer newyorkese incoronato leader della nuova elettronica<br />

emozionale dopo Space Is Only Noise <strong>di</strong> inizio 2011. Quel lavoro era<br />

fondamentalmente basato sull’introspezione blues, sulla chiusura emotiva in<br />

sé stessi, con la sola <strong>di</strong>fferenza che i vuoti interiori venivano espressi tramite<br />

le suggestioni elettroniche <strong>di</strong> una Colomb o Too Many Kids Fin<strong>di</strong>ng Rain In The<br />

Dust. Poi però arriva un pezzo da amore a prima vista come Keep Me There<br />

e quel pulsare house lo senti vivido e sanguinante, per nulla artificioso e<br />

ri<strong>di</strong>segnato perchè sbocci solo una volta ra<strong>di</strong>cato nella psiche.<br />

Quello che nell’album era un’intuizione genuina raggiunge in realtà la perfezione<br />

formale nei live che Jaar ha successivamente elaborato. Chi ha avuto<br />

modo <strong>di</strong> vederlo dal vivo avrà notato la doppia natura della sua musica: al<br />

MIT 2011 ad esempio Jaar si presenta in formazione acustica, accompagnato<br />

da una mini-orchestra che si sistema tutt’intorno a lui, nella sala-teatro<br />

dell’Au<strong>di</strong>torium. Quella suonata è tutto tranne che house: è sentimento,<br />

lounge, musica da camera, world, opera per platea. Eppure viene resa come<br />

fosse stu<strong>di</strong>ata per il dancing, anche verso coloro che assistono seduti in<br />

poltrona, alternando <strong>di</strong>stensioni e climax come farebbe il più navigato dei<br />

dj house. Gioca sul coinvolgimento fisico oltre che mentale, segue l’esigenza<br />

naturale della situazione d’ascolto e <strong>di</strong>venta una rara esperienza <strong>di</strong> evasione<br />

e catarsi.<br />

Oggi possiamo <strong>di</strong>re senza troppo azzardo che il valore dell’opera <strong>di</strong> Jaar sta<br />

restando più a lungo della semplice coda <strong>di</strong> apprezzamento del suo album,<br />

e non è folle pensare che alla lunga il ragazzo potrà sfoggiare una autorità<br />

anche più solida <strong>di</strong> rivali come James Blake. Il post album vede il producer<br />

newyorkese esplicitare con più convinzione articolazioni dance (Don’t Break<br />

My Love) e movimenti originari propri del suo sound (Why Didn’t You Save<br />

Me), tirando nuovamente fuori un colpo da maestro come And I Say, dov’è la<br />

voce felina <strong>di</strong> Scout Larue a invadere la psiche <strong>di</strong> un trip emotivo senza fiato.<br />

Discendenti <strong>di</strong>retti dell’opera <strong>di</strong> Nicolas Jaar sono proprio John Talabot e<br />

il suo album &fnof;in, il primo colpo grosso (non)dance <strong>di</strong> quest’anno, <strong>di</strong>sco<br />

accolto da pareri positivi quasi ovunque (noi compresi). Talabot si era già<br />

fatto conoscere per la versatilità con la quale era in grado <strong>di</strong> passare dall’easy<br />

listening prossimo al glo al defluire dance, dalle collaborazioni con Glasser<br />

alla hit planetaria Sunshine e alle affinità afro del My Old School EP. Ma è<br />

proprio ricordando l’organicità del Jaar live che l’album fa il passo avanti:<br />

Depak Ine è praticamente perfetta, cassa morbida ma senza esitazioni, profon<strong>di</strong>tà<br />

<strong>di</strong> basso a sintonizzare il mood e ancora una volta la componente<br />

in<strong>di</strong>gena che domina tutto il groove, praticamente la earthboogie dance <strong>di</strong><br />

Prommer & Barck riproposta su tessuto house. Lungo il resto del lavoro il<br />

gioco continua e riaffiorano a sprazzi proprio Caribou (Last Land), Washed<br />

Out (Oro Y Sangre) e un’attitu<strong>di</strong>ne pop che non ha timore <strong>di</strong> farsi speziare<br />

dalla vivacità house.<br />

Percorso <strong>di</strong>verso, e per certi versi inverso, quello che interessa i Blondes.<br />

Duo maschile della stessa New York <strong>di</strong> Jaar, loro avevano già prodotto un<br />

eccellente eppi, Touched, aprendo ad una house ambientale ariosissima, a<br />

tratti onirica, che esprimeva al meglio tutti i tratteggi <strong>di</strong> cui abbiamo parlato:<br />

l’evasione esotico-balearica <strong>di</strong> Virgin Pacific, la cassa in quattro dolce sotto il<br />

fiorire in<strong>di</strong>etronico <strong>di</strong> Para<strong>di</strong>se City, il reflusso nostalgico ‘90s <strong>di</strong> You Mean So<br />

Much To Me, tutto lasciava intendere una cura particolare per quei dettagli<br />

decisivi nella fase d’ascolto. Dopo il successo <strong>di</strong> quelle cinque tracce i ragazzi<br />

son <strong>di</strong>ventati sempre più richiesti negli ambienti clubbing e questo ha fatto<br />

scattare in loro una molla <strong>di</strong>fferente: singoli più recenti come Lover e Pleasure<br />

rappresentano house vera e propria, taglio classico e inserti sintetici d’or<strong>di</strong>nanza<br />

che sembrano glo ma non possono <strong>di</strong>rsi tali, mentre altrove (ve<strong>di</strong><br />

40 41


Business) il passo veloce continua a flirtare con le aperture ambient. Wine, per<br />

<strong>di</strong>re, è la più vicina al sound del Touched EP, solo più determinata nei tempi,<br />

e quin<strong>di</strong> meno mascherata. L’album omonimo, uscito <strong>di</strong> recente, si limita a<br />

raccogliere i singoli pubblicati l’anno precedente senza aggiungere molto,<br />

<strong>di</strong>ventando la vetrina d’esposizione del momento <strong>di</strong> transizione dei Blondes<br />

verso il club, il ritratto <strong>di</strong> un sound in corso d’opera che ha ora bisogno <strong>di</strong><br />

trovare il giusto canale comunicativo.<br />

contatti psichici<br />

Il top si ottiene quando la cura maniacale del suono si spinge verso un minimalismo<br />

essenziale, che lascia liberi gli spazi e rimane evocativo a livello<br />

subliminale, senza comunicare nessun contenuto particolare se non proprio<br />

l’assenza del messaggio, lasciando la tavolozza completamente a <strong>di</strong>sposizione<br />

dell’ascoltatore perché sia lui a metterci dentro la propria immagine<br />

interiore. A febbraio sono due producers nostrani dalle spalle larghe, Donato<br />

Dozzy e Neel, a produrre il <strong>di</strong>sco migliore della nostra <strong>di</strong>samina: Voices From<br />

The Lake è accolto con un raro 5 pieno da ResidentAdvisor e si mostra abilissimo<br />

a stabilire la connessione sinaptica, premurandosi <strong>di</strong> giocare su effetti<br />

tipici da ascolto prolungato e rimanendo rarefatto, rassicurante e avvolgente.<br />

Da Circe in poi le suggestioni del <strong>di</strong>sco decollano, <strong>di</strong>ventano immersione<br />

psichica in un mondo dove ritroviamo minimal, ambient, cosmic e tribal. I<br />

silenzi densi <strong>di</strong> significato <strong>di</strong> In Giova ti proiettano ora nello spazio ora nella<br />

foresta, Manuvex riprende il naturalismo silente <strong>di</strong> Arandel e Meikyu le sottrazioni<br />

<strong>di</strong> Murcof, e alla fine Hgs cancella definitivamente la <strong>di</strong>mensione<br />

temporale, rendendo il <strong>di</strong>sco fuori da ogni coor<strong>di</strong>nata. Con l’ascolto allenato<br />

emergono i lenti mutamenti dei dettagli impercettibili, tra le righe del non<br />

detto, ma il quadro complessivo è una vertigine <strong>di</strong> atemporalità e immutabilità.<br />

Eppure la cassa è sempre lì, continua a battere il tempo e sembra che<br />

qualcosa dentro la stia seguendo, entrando misteriosamente in simbiosi.<br />

Quando arrivi a chiederti se la suggestione è nella musica o appartiene alla<br />

tua natura, scopri che in fondo è in<strong>di</strong>fferente.<br />

Se tutto gira per il verso giusto si finisce per <strong>di</strong>ventare involontariamente<br />

esoterici. È il gioco <strong>di</strong> spazi a fare quest’effetto, tanto più forte quanto più si<br />

dà fiducia all’artista affidandogli il controllo del gioco. L’anno scorso la svolta<br />

brain-oriented l’aveva avuta Andy Stott che, rispetto alle impalcature più<br />

definite del precedente Merciless, trovava la quadratura techno-dub in due<br />

vali<strong>di</strong> ep, We Stay Together e Passed Me By. Se ci trovi la sintonia necessaria,<br />

brani come New Ground, Intermittent ma anche Bad Wires e Cracked<br />

sanno metterti nel trip giusto isolandoti da tutto, sebbene la veste sia bella<br />

tenebrosa e a venir fuori sono i turbamenti e i <strong>di</strong>sagi del sentire introspettivo.<br />

Più aguzzo e macchinoso We Stay Together, mentre l’altro Passed Me By<br />

si configura come la vera prova cerebrale del producer <strong>di</strong> Manchester. Chi<br />

trova sod<strong>di</strong>sfazione nel dub astratto e minimale non può non rimanerne<br />

affascinato.<br />

Chi invece nel minimalismo ci cola a picco senza via d’uscita è l’ultimo arrivato,<br />

Alex Under con la sua Máquina de Bolas. Se nel primo album, Dispositivos<br />

De Mi Granja, il producer basco si tuffava nel minimal clubbing duro e puro<br />

<strong>di</strong> Villalobos e Plastikman, senza provar nemmeno a mascherare la cosa,<br />

con le bugie o<strong>di</strong>erne invece si impegna a spostare le induzioni <strong>di</strong> quella<br />

minimal sul piano mentale, allungandone la profon<strong>di</strong>tà. Ritmi lenti e tempi<br />

lunghi per facilitarne l’assorbimento, il club c’è ma rimane sullo sfondo, atti-<br />

tu<strong>di</strong>ne innata che si piega alle esigenze d’ascolto: Bola5 rende il vuoto denso<br />

e enigmatico trascinando l’ascoltatore nel fondale <strong>di</strong> un ecosistema dark/<br />

space, circondandolo in maniera minacciosa e inquieta, mentre Bola2 suona<br />

più tranquilla, rassicurante e positiva, ipnotizzandoti con arpeggi acquatici<br />

in crescendo che trovano piena espressione solo dopo che otto minuti <strong>di</strong><br />

movimento lento ti han già reso iperreattivo. Un album complesso ma meno<br />

tecnico <strong>di</strong> quel che può sembrare, capace <strong>di</strong> attrarre anche gli orecchi meno<br />

allenati evitando l’accartocciamento che molti accusano quando si ha a che<br />

fare con il sound minimal.<br />

Questo solo un <strong>di</strong>segno dell’as is, senza voler essere esaustivi, giacché il<br />

quadro complessivo ha l’aria <strong>di</strong> non essere ancora completo. Fatto sta che<br />

questo 2012 sembra esser partito a tavoletta verso un canale <strong>di</strong> comunicazione<br />

ambivalente e introverso più o meno quanto il 2011 era decollato<br />

in fretta su traiettorie soul sfumate a piacimento. Esplicito e implicito continuano<br />

a darsi il cambio ognuno in cerca <strong>di</strong> rivalsa verso l’altro, e quella a<br />

cui stiamo assistendo sembra una fase intellettuale che ha ancora alcune<br />

cartucce da sparare. In ogni caso, se questa dance implicita è il perno portante<br />

del momento musicale corrente significa che alcune resistenze son<br />

venute meno e il valore <strong>di</strong> certi meccanismi finora relegati esclusivamente<br />

al mondo dance possono ora esser riconosciuti da un pubblico più ampio.<br />

Quasi come se la netta <strong>di</strong>cotomia tra rave e IDM <strong>di</strong> un ventennio fa si stesse<br />

risolvendo soltanto adesso, così che ogni parte riesca ad ammettere i pregi<br />

<strong>di</strong> quella avversa e farne tesoro. Almeno fino alla prossima rottura.<br />

Discografia <strong>di</strong> riferimento<br />

Murcof - Remembranza (2005): 7.5 / 10<br />

Matias Aguayo - Are You Really Lost (2005): 7.2 / 10<br />

Nathan Fake - Drowning In A Sea Of Love (2006): 7.4 / 10<br />

Matias Aguayo - Ay Ay Ay (2009): 7.3 / 10<br />

Caribou - Swim (2010): 7.2 / 10<br />

Arandel - In D (2010): 7.5 / 10<br />

Blondes - Touched EP (2010): 7.2 / 10<br />

Nicolas Jaar - Space Is Only Noise (2011): 7.1 / 10<br />

Prommer & Barck - Alex And The Grizzly (2011): 7.3 / 10<br />

Andy Stott - Passed Me By EP (2011): 7.1 / 10<br />

Washed Out - Within And Without (2011): 7.0 / 10<br />

BNJMN - Black Square (2011): 7.4 / 10<br />

Andy Stott - We Stay Together EP (2011): 6.8 / 10<br />

John Talabot - &fnof;in (2012): 7.1 / 10<br />

Blondes - Blondes (2012): 5.9 / 10<br />

Ital - Hive Mind (2012): 6.4 / 10<br />

Voices From The Lake - Voices From The Lake (2012): 7.6 / 10<br />

Alex Under - La Máquina de Bolas (2012): 7.3 / 10<br />

42 43


specimen a<br />

atomic Drop<br />

In Da Club #9<br />

atomic drop<br />

specimeN a<br />

Drop out<br />

An<strong>di</strong>amo a fondo nella cultura<br />

dei drops lato 4/4 con l’intervista<br />

doppia a Specimen A e Atomic<br />

Drop. Un punto <strong>di</strong> vista interno<br />

sul nuovo volto del futurismo<br />

clubbing.<br />

Testo: Carlo Affatigato<br />

Ok, mettiamo da parte per un attimo Skrillex e l’acceso <strong>di</strong>battito<br />

scaturito dal nostro e<strong>di</strong>toriale, e affrontiamo la questione<br />

in maniera un po’ più laterale: la cultura filth, con la<br />

sua smania per l’eccesso e la centralità del drop, non è una<br />

prerogativa esclusiva dei nuovi fronti dubstep, ma in realtà<br />

rappresenta da <strong>di</strong>verso tempo una spinta costante del mondo<br />

clubbing. Questo va scolpito nella pietra e vale per tutti,<br />

compresi quelli che oggi buttan dentro l’inflazionatissima associazione<br />

dubstep ogni volta che sentono un synth <strong>di</strong>sturbato:<br />

“non è tutto dubstep ciò che ha drop”, verrebbe da <strong>di</strong>re<br />

e questo anche a supporto <strong>di</strong> chi, per precisione o voglia <strong>di</strong><br />

prender le <strong>di</strong>stanze, ci tiene a <strong>di</strong>scettare sullo Skrillex sound<br />

separando ciò che è dubstep da ciò che non lo è.<br />

La storia del filth d’altronde l’abbiamo già ripercorsa insieme<br />

a Jakes e ne abbiamo rintracciato la nascita nei ‘90 dei rave<br />

e dell’accelerazione incontrollabile dell’acid sound: se ci pensate<br />

la jungle aveva già in sé il carattere originario <strong>di</strong> questo<br />

suono, inteso appunto come il decollo dell’acid nello spazio<br />

intergalattico, e nei suoi ardori synth non è <strong>di</strong>fficile vedere gli<br />

antenati degli spasmi electro dei giorni nostri. Da allora ad<br />

oggi ci son <strong>di</strong> mezzo vent’anni <strong>di</strong> spinta futuristica costante,<br />

passata tra drum’n’bass, trance, big beat, nu rave ed electro<br />

house, con densità sonora, varietà ritmiche, in<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> vivacità<br />

e gioiosità che sono andati altalenando nel tempo ma<br />

sempre con valanghe <strong>di</strong> electro a tener saldo lo scettro della<br />

club culture. E come vedrete tra un po’, gente come i Pro<strong>di</strong>gy<br />

continuano ad essere un riferimento fisso e un anello <strong>di</strong><br />

44 45


congiunzione con quanto ribolliva in quegli anni, come se dagli Altern 8 a<br />

Deadmau5 passando per ADULT. e Boys Noize si potessero semplicemente<br />

unire i puntini in linea retta.<br />

Specimen A e Atomic Drop, entrambi da Brighton, rappresentano una<br />

nuova occasione per toccare con mano l’evoluzione del lato più ‘ardkore<br />

del clubbing. I primi si formano a fine anni ‘90 coi pie<strong>di</strong> ben piantati nella<br />

drum’n’bass, e da allora hanno sempre tenuto il passo dei tempi risintonizzando<br />

l’adrenalina club prima sui breaks (intorno al 2006 con gran<strong>di</strong> successi<br />

come Headcase, Contamination e Sol<strong>di</strong>ers At War realizzati insieme ai Far Too<br />

Loud), poi sull’electro house (a partire dalla serie Hazardous Material del<br />

2008, ve<strong>di</strong> pezzi come Algorithm o Hard Times) e adesso stanno puntando<br />

con convinzione il sound filth e, sebbene i 4/4 rimangano ancora protagonisti,<br />

si inizia a intravedere una certa apertura a ritmiche più appuntite (ve<strong>di</strong><br />

brani recenti come Jaws, Jaguar Paw e Chasing Shadows, sempre più vicini<br />

a metriche halfstep e irritazioni wobble). I secon<strong>di</strong> sono emersi più recentemente,<br />

immersi nel volto più hard della electro house da alcuni anni, e<br />

hanno già con<strong>di</strong>viso il palco con nomi come Underworld, Faithless e Booka<br />

Shade. Al loro attivo alcuni recenti EP, ma come ci hanno preannunciato<br />

sono in procinto <strong>di</strong> pubblicare il loro primo album.<br />

Siamo riusciti a contattarli approfittando delle loro date italiane (saranno<br />

entrambi il 9 marzo a Torino, mentre il 10 marzo a Imperia replicano gli<br />

Specimen A, qui tutti i dettagli) e ci siam fatti raccontare la loro visione<br />

sull’evolversi del clubbing, su filth e drops, sulle esigenze del grande pubblico<br />

e anche su Skrillex. Le loro parole le trovate a seguire (ci ha risposto Phil<br />

Jones per gli Specimen A e James Anthony per gli AD), ma vi <strong>di</strong>amo giusto<br />

una anticipazione: se state pensando <strong>di</strong> esserci, preparate quantomeno i caschi<br />

aerospaziali dei Daft Punk. Pare che qualcuno vi voglia conciati ad hoc.<br />

Ciao ragazzi. Dite “ciao” all’Italia!<br />

Specimen A: Ciao Italia!<br />

Atomic Drop: Ciao!<br />

Anticipiamo qualcosa al pubblico italiano. Cosa possono aspettarsi dal<br />

vostro dj-set? Descrivetevi.<br />

SA: Il pubblico può aspettarsi <strong>di</strong> rimanere stupito. Se non lo saranno, significa<br />

che abbiamo fallito. Il nostro intento è <strong>di</strong> mantenere sempre alta la<br />

loro adrenalina, senza che sappiano mai cosa sta per succedere. Abbiamo<br />

intenzione <strong>di</strong> catturare la loro completa attenzione e mantenerli su <strong>di</strong> giri<br />

fino all’ultimo <strong>di</strong>sco.<br />

AD: n/a<br />

Mi interessa affrontare le <strong>di</strong>fferenze tra il vostro dj-set e le produzioni<br />

in stu<strong>di</strong>o, tra l’ebbrezza del club e la musica prodotta per il <strong>di</strong>sco. Come<br />

gestite questi due aspetti? Quali sono le loro <strong>di</strong>verse ambizioni?<br />

SA: Tutta la musica prodotta come Specimen A è rivolta al club notturno. La<br />

dance ha alcune regole che devi rispettare, se non lo fai rischi che nessuno<br />

ti venga <strong>di</strong>etro. Le nostre produzioni migliori sono sempre state quelle davvero<br />

efficaci in pista. Quando abbiam fatto musica più densa <strong>di</strong> contenuti<br />

e introspettiva non è mai stata particolarmente adatta al club, anche se<br />

probabilmente è stato qualcosa per noi più importante. Penso che queste<br />

siano le tracce che ci esprimano meglio, dando all’ascoltatore uno spaccato<br />

<strong>di</strong> ciò che siamo.<br />

Immagino che i nostri lavori migliori siano quelli che riescano su entrambi<br />

i fronti. Ad esempio Forgot about Breaks: una delle nostre hit <strong>di</strong> maggior<br />

successo, molto adatta alla pista ma che fa anche passare un messaggio<br />

importante e riflette la nostra personalità.<br />

AD: Beh, la vera <strong>di</strong>fferenza piuttosto è tra i nostri dj-set e i nostri live... tutta<br />

la musica che scriviamo in stu<strong>di</strong>o è sicuramente fatta per i club, i festival e i<br />

grossi impianti au<strong>di</strong>o, il dancefloor è tutto! Per noi tutto ruota intorno al filth.<br />

Voi rappresentate uno dei volti più estremi e “filth” del clubbing dance<br />

al momento. Trovate che sia la nuova moda nei club?<br />

SA: Beh, sinceramente non vedo molte <strong>di</strong>fferenze col passato. Non credo<br />

sia davvero una nuova moda, la gente ha sempre voluto suoni estremi, no?<br />

AD: Non sono sicuro sia davero una cosa nuova - noi stessi stiamo maturando<br />

questo stile da 4-5 anni... ormai questa electro house mo<strong>di</strong>ficata e<br />

il dubstep nerboruto <strong>di</strong> Skrillex hanno preso definitivamente piede negli<br />

ultimi due anni. È la moda del momento, e viene anche trasmessa in tv e<br />

su Ra<strong>di</strong>o 1 :)<br />

Siam passati dai rave alla d’n’b, alla trance, alla electro house e ora questo<br />

nuovo tipo <strong>di</strong> chiamiamolo “clubbing futuristico”. Come percepite<br />

questa sorta <strong>di</strong> evoluzione?<br />

SA: Clubbing futuristico? Penso sia il pubblico psych-trance che voglia sempre<br />

vivere nel futuro. Quello più il fatto che esagerano con le droghe. Non<br />

percepisco veri grossi cambiamenti nel tempo negli ambienti club. Vedo<br />

invece che la tecnologia a <strong>di</strong>sposizione del dj è molto più futuristica. Dobbiamo<br />

aspettarci gente vestita da robot e alieni quando ci esibiamo? Se fosse<br />

così, sarebbe spettacolare.<br />

AD: La musica è in continua evoluzione, soprattutto l’elettronica. Umori, stili,<br />

generi, culture, tutto fuso nel canale musicale, grazie anche alle tecnologie<br />

<strong>di</strong> produzione che adesso sono più accessibili. Questo lo si percepisce nettamente,<br />

in tutti i sottogeneri che vengono fuori continuamente :) però la<br />

46 47


drum’n’bass, la trance e l’electro house hanno ancora il loro grosso spazio!<br />

Mentre tutto intorno le cose si evolvono sempre, e questa è una gran cosa.<br />

Vi sentite a vostro agio con questo sound, o pensate che sarà solo una<br />

fase che possa cambiare velocemente? Secondo voi quale sarà il prossimo<br />

passo, nella vostra musica o nel clubbing in generale?<br />

SA: Penso che la scena dance si stia evolvendo oggi molto più velocemente<br />

che in passato. La bass music sembra stia conquistando molta più gente<br />

che in passato, più che ogni altro genere. Penso che oggi la musica abbia<br />

più rispetto per i suoi ascoltatori, e questo sta aprendo nuovi orizzonti. È un<br />

momento eccitante, perché gli artisti stanno <strong>di</strong>ventando sempre più eclettici<br />

nelle loro produzioni.<br />

AD: Ogni evoluzione non è mai così veloce. Noi abbiamo maturato il nostro<br />

suono nel corso degli anni e ora è piuttosto elaborato. È stata la <strong>di</strong>rezione<br />

naturale per noi anche prima che <strong>di</strong>ventasse trendy.<br />

Adesso ad esempio ci stiamo concentrando sul nostro album, che sarà ben<br />

<strong>di</strong>verso e attraverserà generi <strong>di</strong>fferenti. Sebbene nei concerti continuiamo<br />

con la nostra electro house filthy e talvolta con un po’ del nostro materiale<br />

dubstep, l’album avrà una maggiore <strong>di</strong>versità: schegge <strong>di</strong> drumstep, glitchhop,<br />

basslines dub...<br />

Qual’è il live più elettrizzante a cui abbiate mai assistito?<br />

SA: Il miglior live in assoluto è per forza quello dei Pro<strong>di</strong>gy.<br />

AD: n/a.<br />

Ultimamente tra i lettori si è scatenata una <strong>di</strong>scussione accanita su<br />

Skrillex. La gente è spaccata tra chi lo o<strong>di</strong>a (“musica <strong>di</strong> merda”, “lo svilimento<br />

del dubstep”, “solo una sequenza <strong>di</strong> drops”) e chi lo apprezza (“la<br />

musica più adatta per club e concerti”, “l’unica vera strada per aprire il<br />

dubstep al successo globale”). Cosa pensate <strong>di</strong> lui, e <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong><br />

“nu-’ardkore”?<br />

SA: Penso che Skrillex abbia molto talento. Chi non ama la sua musica,<br />

semplicemente eviti <strong>di</strong> ascoltarlo. Sinceramente mi sembra che la gente lo<br />

o<strong>di</strong> più come fenomeno, non per la sua musica. Se stesse davvero facendo<br />

brutta musica non sarebbe arrivato dov’è ora. Mi piacerebbe che tornasse<br />

a fare <strong>di</strong> nuovo qualcosa electro house. Rock n Roll dal suo primo EP mi era<br />

piaciuta molto. In generale, lo rispetto molto. Sicuramente non sono tra<br />

quelli che lo o<strong>di</strong>ano.<br />

E poi, lasciami <strong>di</strong>re, il dubstep era già enorme e consolidato prima <strong>di</strong> Skrillex.<br />

Non vedo come lui possa svilirlo, secondo me lui fa uno dei migliori dubstep<br />

che puoi trovare in giro.<br />

AD: Non è tanto importante cosa pensano <strong>di</strong> lui, i detrattori ci saranno sempre.<br />

Ma una cosa è certa, quel ragazzo ha vinto 3 grammy! Che ti piaccia o<br />

no, che la sua musica ti piaccia o no, questo è un fatto, ed è un traguardo<br />

eccezionale, un grande giorno per la musica elettronica e per i producer <strong>di</strong><br />

tutto il mondo.<br />

C’è un <strong>di</strong>segno superiore, e il futuro è roseo per la dance :)<br />

Preferite esibirvi live, nei dj-set o lavorare in stu<strong>di</strong>o?<br />

SA: Beh non puoi andare in stu<strong>di</strong>o senza i concerti e viceversa, non è facile<br />

rispondere. Se facessimo solo concerti senza mai andare in stu<strong>di</strong>o non sarebbe<br />

sod<strong>di</strong>sfacente. E all’opposto, se lavorassimo solo in stu<strong>di</strong>o si perderebbe<br />

il senso genuino della nostra musica.<br />

Come <strong>di</strong>co sempre ai miei studenti <strong>di</strong> piano: “Non serve a nulla essere un<br />

musicista straor<strong>di</strong>nario se nessuno ti ascolta”.<br />

AD: Adoriamo far concerti e con<strong>di</strong>videre il materiale che facciamo in stu<strong>di</strong>o<br />

con la gente, ma la passione e la creatività entrano in gioco quando scrivi in<br />

stu<strong>di</strong>o. È lì che tutto ha inizio. Ma ovviamente è una gran bella sensazione<br />

con<strong>di</strong>viderlo live.<br />

Vi aspettate qualcosa in particolare per le date italiane? Avete qualche<br />

idea specifica da mettere in pratica?<br />

SA: Dopo questa intervista spero <strong>di</strong> trovare un sacco <strong>di</strong> gente vestita da<br />

robot e alieni!<br />

AD: Non ve<strong>di</strong>amo l’ora <strong>di</strong> arrivare e suonare a Torino, ci piacerebbe fare altre<br />

date in Italia e in giro per l’Europa. I concerti sono tutto, stiamo arrivando!<br />

atomic drop<br />

48 49


— cd&lp<br />

Recensioni<br />

aprile<br />

alexander tucker - third Mouth (thrill<br />

Jockey, aprile 2012)<br />

Genere: psych-ambient-folk<br />

L’uomo del Kent, Inghilterra, non è sicuramente un<br />

uomo facile da incasellare. Ne abbiamo avuto la prova<br />

anche sulle pagine <strong>di</strong> <strong>Sentireascoltare</strong>, con giu<strong>di</strong>zi ora<br />

nettamente positivi, ora più sospettosi. Perché mescolare<br />

drone, psych-folk, ambient, field recor<strong>di</strong>ng e creare<br />

atmosfere è un talento che sicuramente Alexander Tucker<br />

ha sempre avuto, in<strong>di</strong>pendentemente dal segno<br />

che si è voluto attribuire ai suoi singoli album. Il suono<br />

è evocativo, basato su loop ipnotici <strong>di</strong> chitarra, spesso<br />

adagiati su sussulti d’archi e percussioni avvolgenti. Su<br />

tutto si affastellano affreschi vocali fatti <strong>di</strong> riverberi e da<br />

una roton<strong>di</strong>tà che ha un sicuro fascino.<br />

Tutto questo mondo musicale, sonoro ma anche immaginario<br />

si concretizza in un <strong>di</strong>sco dal taglio mesmerico (A<br />

Dried Seahorse), ipnotico (Rh.) e crepuscolare (The Golden<br />

Axe) che si incastra perfettamente in un filone consolidatissimo<br />

e dal nutrito nucleo <strong>di</strong> seguaci. Da questo punto<br />

<strong>di</strong> vista, Third Mouth funziona perfettamente e si inserisce<br />

tra i migliori lavori <strong>di</strong> Tucker per l’indubbio talento,<br />

la sicura calligrafia <strong>di</strong> bucoliche passeggiate nel bosco<br />

all’imbrunire, <strong>di</strong> giga estatiche e - talvolta - metafisiche.<br />

La nostra critica, semmai, si rivolge al tentativo <strong>di</strong> voler<br />

a tutti i costi incasellare la sua musica nel pop (tenta <strong>di</strong><br />

farlo la stessa label). Ecco, se cercate qualcosa che pur<br />

rimanendo nell’ambito dell’avant abbia la melo<strong>di</strong>a appiccicosa,<br />

il motivetto appiccicoso, lo sbuzzo che rimanga<br />

oltre il genere e che sappia quin<strong>di</strong> parlare anche a<br />

chi non frequenta abitualmente il mondo <strong>di</strong> riferimento<br />

<strong>di</strong> Tucker, potreste rimanere delusi. Da questo punto <strong>di</strong><br />

vista il midollo delle composizioni è sempre laddove si<br />

sono abbeverati Comus, Pentangle o dove si sono riportati<br />

anche gli ottimi Erland And The Carnival dello<br />

scorso anno, ma piuttosto che prendere una via popular,<br />

preferisce approfon<strong>di</strong>re quella atmosferica.<br />

Tutti questi antipatici <strong>di</strong>stinguo noiosamente saccenti<br />

per <strong>di</strong>re che non c’è nulla <strong>di</strong> male nel voler rimanere dentro<br />

i confini della ricerca sonora e psichedelica, ma che<br />

le cose vanno chiamate con il loro nome. Per cui Third<br />

Mouth accontenta le man<strong>di</strong>bole allenate (e forse anche<br />

qualche altro curioso), ma potenzialmente delude chi<br />

lo va a sentire in forza dell’etichetta pop che gli viene<br />

appiccicata artificiosamente. Ognuno decida se si tratta<br />

della proprio cup of tea o meno.<br />

(6.5/10)<br />

Marco BoScolo<br />

andrea Belfi - WeGe (rooM40, feBBraio<br />

2012)<br />

Genere: elettroacustica<br />

Andrea Belfi cita Steve Reich e la sua Pendulum Music<br />

del ’68 quando racconta, nelle note del <strong>di</strong>sco, <strong>di</strong> aver<br />

adoperato e messo a punto un sistema <strong>di</strong> trattamento<br />

del suono con cui mettere in circolazione le onde raccolte<br />

generate o articolate da tamburi, microfono a contatto<br />

che va dritto al synth, speaker che punta al tamburo stesso<br />

e così via. Un loop che descrive benissimo il mood, il<br />

retroterra e gli spunti analitici <strong>di</strong> Wege, sua quarta prova.<br />

E una volta <strong>di</strong> più ci dà l’occasione <strong>di</strong> sottolineare quanto<br />

Reich sia fondamentale punto <strong>di</strong> riferimento per capire<br />

l’universo dell’impro elettroacustica contemporanea - o<br />

almeno il suo Drumming, non solo per evidenti attinenze<br />

con il percussionista Belfi, ma anche per l’attenzione alla<br />

timbrica come aspetto compositivo, per esempio.<br />

Tutto nasce dalle pelli. Del resto la quintessenza del ritmo<br />

è un’onda, un’oscillazione, che esplicita la pasta della<br />

sua frequenza, e Belfi, tra gli altri, ha introiettato questa<br />

intuizione e ne ha fatta strategia e poetica, <strong>di</strong> fatto una<br />

peculiarità estremamente caratterizzante dell’elettroacustica<br />

o<strong>di</strong>erna. Epperò lo spettro degli strumenti <strong>di</strong><br />

Wege è più ampio, o meglio, le percussioni sono meno<br />

protagoniste delle uscite precedenti <strong>di</strong> Andrea; sicuramente<br />

sono la sua interfaccia operativa, ma non quella<br />

percepita. In tutto questo la ricerca sulle timbriche<br />

percussive (l’output vero e proprio forse dei quattro atti<br />

<strong>di</strong> Wege, tedesco per sentiero) arriva, nella lunga suite<br />

iniziale, a lambire tratti molto scelsiani; mentre risuona<br />

il minimalismo <strong>di</strong> Tony Conrad nel tappeto <strong>di</strong> violino<br />

(Stefano Riveda) e violoncello (Greg Haines) <strong>di</strong> B.<br />

Le prime due tracce sono lunghe suite sperimentali. Toccano<br />

l’orecchio con toni accattivanti e non repulsivi. La<br />

seconda parte (tracce C e D) è meno ricca <strong>di</strong> minutaggio<br />

e <strong>di</strong> collaborazioni (solo Manuel Giannini che parla<br />

e Attila Favarelli alle prese con lo speaker rotante in C,<br />

ad<strong>di</strong>Son Groove - tranSiStor rhythM (50 WeaponS, Marzo 2012)<br />

Genere: footwork bass<br />

Tu puoi credere <strong>di</strong> sapere tutto <strong>di</strong> Antony Williams, puoi conoscerne a mena<strong>di</strong>to ogni<br />

possibile espressione, la sua prossima uscita ti lascerà comunque spiazzato. Ci eravamo<br />

già cascati nel 2008 quando ancora era solo Headhunter e, dopo la serie strepitosa <strong>di</strong><br />

12’’ su Tempa, il suo dubstep scuro e intransigente faceva con l’album Nomad un passo<br />

in<strong>di</strong>etro verso un volto più quadrato e indefinito. Succede <strong>di</strong> nuovo oggi, dopo che i<br />

singoli pubblicati finora come Ad<strong>di</strong>son Groove e gli esplosivi dj-set a base <strong>di</strong> juketechno<br />

ci avevano fatto credere che l’album in arrivo sarebbe stato la consacrazione<br />

definitva del footwork nella sua accezione clubbing.<br />

Transistor Rhythm invece gioca in maniera più sottile. L’attitu<strong>di</strong>ne club è resa per estrapolazione,<br />

spogliandola dei massimalismi obbligatori per le notti e sposando gli umori più circospetti della bass<br />

music. Il sound è essenziale, lontano dagli eccessi, fatto <strong>di</strong> stimoli meno espliciti: non è il footwork pirotecnico<br />

<strong>di</strong> Room(s) ma una versione più ragionata, se vogliamo più nobile, che si apre lentamente durante gli ascolti. Le<br />

prime due tracce rendono bene la natura sfuggente del <strong>di</strong>sco: Savage Henry è bass music drogata e <strong>di</strong>sarticolata,<br />

fuori il vibrato e dentro ritmo e vocal grooves, intenzionalmente sottotono, trattenuta; Bad Things è irrintracciabile,<br />

lussuriosamente funk ma <strong>di</strong> una freddezza meccanica che cammina <strong>di</strong>ffidente. Non si balla e non si sta fermi. Ci si<br />

contorce affamati.<br />

L’energia footwork vien fuori comunque, ma sempre attenta a non scoppiare in modo convulso. Il Chicago juke <strong>di</strong><br />

Beeps è quello che farebbe Machinedrum se invece della jungle scoprisse la passione per il wonky: vale a <strong>di</strong>re grintoso<br />

ma geloso del proprio spessore. Anche quando si avvicina a certi estremi (ve<strong>di</strong> le scorie fidget dei Crookers<br />

in Sooperlooper o la rigi<strong>di</strong>tà techno <strong>di</strong> Starluck) lo fa con ironia, in maniera caricaturale, tenendosi stretta la torre<br />

d’avorio che si è scelta per <strong>di</strong>mora. E poi magari torna a rifarsi il trucco su una cassa in quattro più consona alle<br />

buone maniere (Energy Flash Back).<br />

È la demolizione controllata del volto live <strong>di</strong> Ad<strong>di</strong>son Groove, intellettualizzata per l’ascolto consapevole. Il <strong>di</strong>sco<br />

funziona bene, sfoggia una varietà <strong>di</strong> soluzioni impressionante e non si ferma mai più <strong>di</strong> trenta secon<strong>di</strong> sullo stesso<br />

schema. C’è un solo appunto da fare, ed è lo stesso che si poteva muovere a Nomad: per la seconda volta l’album<br />

<strong>di</strong> sir Williams ti nega la potenza <strong>di</strong> fuoco che l’artista è capace <strong>di</strong> tirar fuori live e su EP, facendone una questione<br />

<strong>di</strong> gusto per palati sopraffini. In altre parole, ti toglie la potenzialità più importante, quella che non ha mancato <strong>di</strong><br />

conquistare gli ascoltatori fino ad un attimo prima. Ci fosse anche questa sarebbe un capolavoro, così invece è il<br />

<strong>di</strong>sco ottimo <strong>di</strong> un talento come pochi.<br />

(7.2/10)<br />

carlo affatiGato<br />

la chitarra <strong>di</strong> Machinefabriek in D), rispetto al novero <strong>di</strong><br />

ospiti complessivo del <strong>di</strong>sco: da Pilia a Tricoli, Stefano<br />

Tedesco, Massimo Carozzi, Andrea Faccioli, tra gli altri,<br />

e il mastering e co-mixing del solito (e impeccabile)<br />

Giuseppe Ielasi. Un network timbrico-tecnico-musicale<br />

(nel concept) e una rete <strong>di</strong> persone (che sono, ognuna<br />

<strong>di</strong> esse, no<strong>di</strong>) attorno al progetto del singolo, che si presterà<br />

a fare altrettanto per ognuno <strong>di</strong> loro alla prossima<br />

occasione. Ci viene da <strong>di</strong>re l’intelligenza collettiva realizzata,<br />

<strong>di</strong> questa “scena” o ambiente <strong>di</strong> elettroacustici. Ma<br />

ci torneremo sopra.<br />

(7.3/10)<br />

GaSpare caliri<br />

anelli Soli - MaloModo (SeahorSe<br />

recor<strong>di</strong>nGS, Marzo 2012)<br />

Genere: folk freak<br />

Un trio siciliano - i fratelli Luca e Marco Anello più Antonio<br />

Stella - all’esor<strong>di</strong>o lungo sotto il segno del folkpsych<br />

fricchettone, arty e resinoso, con<strong>di</strong>to con sprazzi<br />

<strong>di</strong> blasfemia febbrile e suggestioni tra<strong>di</strong>tional. Intriganti,<br />

certo, però inten<strong>di</strong>amoci: gli Anelli soli non sono esenti<br />

da <strong>di</strong>fetti, primo fra tutti il ricorso un po’ gratuito a<br />

certa effettistica nevrastenica (ve<strong>di</strong> l’acidume dEUS tra<br />

spasmi Minutemen <strong>di</strong> Santaresa, oppure la febbricola<br />

Marta Sui Tubi tra vampe lisergiche Jennifer Gentle <strong>di</strong><br />

Canzone per persone buone) col retrogusto più del farci<br />

che dell’esserci, oltre all’elusività a tratti forzosa dei testi<br />

50 51


come fossero dei cuginastri balzani dei Verdena (Il cane<br />

stanco, Il mio piede).<br />

Non mancano comunque intuizioni e situazioni interessanti,<br />

da una La classica scena in cui muoio - un Caparezza<br />

contagiato taranta col vibrione X-Mary - a quella<br />

Youppi Du per bambole (oh papà) dove sembrano i Flaming<br />

Lips inebriati <strong>di</strong> macchia me<strong>di</strong>terranea, e ancora<br />

dai Marlene Kuntz tra malinconia e nonsense <strong>di</strong> Vagobendaggio<br />

ad una Ina Ina che impasta reminiscenze<br />

Branduar<strong>di</strong> nella verve beffarda Manuel Agnelli. Un<br />

buon debutto insomma, che lascia irrisolto qualche<br />

dubbio: se son geniali o genialoi<strong>di</strong>, se seguono il pulsare<br />

della vena o incrociano coor<strong>di</strong>nate per imboccare<br />

un sentiero red<strong>di</strong>tizio (quello tra le ra<strong>di</strong>ci sulfuree Pan<br />

Del Diavolo e la sacrosanta irriverenza Zen Circus, così<br />

a spanna). Al sophomore (forse) l’ardua sentenza.<br />

(6.4/10)<br />

Stefano Solventi<br />

attilio novellino - throuGh GlaSS (valeot,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: ambient-drone-scapes<br />

Non nuovo al panorama musicale (Un Vortice Di Bassa<br />

Pressione l’incarnazione precedente), ma presentandosi<br />

per la prima volta col proprio nome e cognome,<br />

il trentenne calabrese Attilio Novellino concepisce un<br />

album evocativo e struggente. Proprio come attraverso<br />

un vetro o uno specchio, l’universo <strong>di</strong> Novellino è<br />

cangiante e sfilacciato, sfocato senza essere fuori fase e<br />

stratificato senza risultare ammontinato.L’armamentario<br />

è quello classico del sound-artist del terzo millennio -<br />

chitarre, field recor<strong>di</strong>ngs, effettistica varia - così come<br />

l’approccio ad una musica che <strong>di</strong>remmo ambient se il<br />

termine non risultasse limitativo nell’inquadrare quello<br />

che è un continuo flusso <strong>di</strong> coscienza oscillante tra<br />

melo<strong>di</strong>a e rumore, estasi e stasi, volute oniriche e soundscapes<br />

in saturazione.<br />

Tanti e tali sono i riferimenti e le prospettive che l’ascolto<br />

<strong>di</strong> Through Glass evoca, che tra architetture Heckeriane<br />

e glitch ambientale (After You’ve Had A Life), rievocazioni<br />

Fennesz e ipotesi <strong>di</strong> Fuck Buttons estatici con pulviscolo<br />

<strong>di</strong> suono kosmische (Sirens), stratificazione droning<br />

alla Fabio Orsi - guarda caso, altro uomo dell’estremo<br />

sud italiano - e slanci kosmische/post-rock/isolazionisti,<br />

è sinceramente <strong>di</strong>fficile rimanere in<strong>di</strong>fferenti.<br />

Non solo, ovviamente, per la costellazione <strong>di</strong> nomi, generi,<br />

sensazioni con cui Novellino traffica in scioltezza,<br />

quanto per la capacità indubbia nel toccare certe corde<br />

dell’animo <strong>di</strong> chi ascolta che è forse il miglior pregio per<br />

questo tipo <strong>di</strong> musica. Mai algida o <strong>di</strong>stante, ma piuttosto<br />

terribilmente “umana”, la musica <strong>di</strong> Through Glass<br />

colpisce al cuore con la sua visionarietà e un approccio<br />

realmente sincero e appassionato. Doti che, siamo sicuri,<br />

permetterà <strong>di</strong> ricavarsi il giusto pertugio in una sezione<br />

piuttosto inflazionata nell’ultimo periodo.<br />

(7.4/10)<br />

Stefano pifferi<br />

au - Both liGhtS (leaf, aprile 2012)<br />

Genere: coral-folkpop<br />

Luke Wayland e Dana Valatka vanno avanti per la loro<br />

strada. Non sembrano spaventati dal passaggio degli<br />

anni, e dalla chiusura sostanziale della via collettiva<br />

all’in<strong>di</strong>e, e del suo travaso nel pop e nel folk-pop, al<strong>di</strong>là<br />

della ra<strong>di</strong>ce psichedelica.<br />

Both Light è un <strong>di</strong>sco che inizia con un crescendo euforico<br />

ma <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ce canadese (A Silver Mt. Zion), quin<strong>di</strong><br />

con l’ossatura melodrammatica, e su questo registro<br />

mantiene la <strong>di</strong>rezione. La scuola d’oltre confine nordamericano<br />

è ben presente, e dopo il giro <strong>di</strong> boa del<br />

decennio si sostituisce ad animalismi collettivi nell’universo<br />

<strong>di</strong> riferimento dei portlan<strong>di</strong>ni Au, ora orientato al<br />

“corale” solo per alcune scelte vocali (Get Alive). Se Verbs<br />

chiudeva la decade ’00, questo Both Lights riparte da<br />

un terreno che in realtà è perfettamente coerente con<br />

l’ambiente che l’ha generato - Portland, appunto, con gli<br />

eccessi enfatici e il desiderio <strong>di</strong> tornare a canzoni fatte<br />

per coinvolgere e per spostare la questione da un <strong>di</strong>scorso<br />

<strong>di</strong> progressione infinita della musica - il folk pop<br />

“collettivo viene da questo a quello e andrà in quella<br />

<strong>di</strong>rezione” - verso la “sensibilità” della persona che scrive.<br />

Non c’è nemmeno paura dell’eccesso, della sovrascrizione<br />

<strong>di</strong> un layer <strong>di</strong> strumenti, <strong>di</strong> un tema con l’altro,<br />

della sovraesposizione <strong>di</strong> note e cose suonate. Non rinunciano<br />

mai a nulla in un arrangiamento, Luke e Dana,<br />

tranne forse in qualche caso (il pianoforte <strong>di</strong> The Veil). Di<br />

fatto, come ci fa sapere Wayland, è la biografia in musica<br />

che supera le preoccupazioni <strong>di</strong> genere musicale. Il<br />

lavoro che ha generato Both Light è <strong>di</strong> accumulo, non<br />

<strong>di</strong> sottrazione dal pieno. È una summa <strong>di</strong> riferimenti e<br />

<strong>di</strong> tutto quello che compete all’immaginario dell’autore.<br />

Delle due una: o questo immaginario si sovrappone a<br />

quello dell’ascoltatore (nel caso <strong>di</strong> chi scrive, succede<br />

con Today / Tonight), oppure quest’ultimo rischia <strong>di</strong> farsi<br />

prendere dalla filosofia del rasoio <strong>di</strong> Ockham e <strong>di</strong> non<br />

accettare le con<strong>di</strong>zioni. Tutto questo, fatta salva la capacità<br />

degli Au <strong>di</strong> mantenere le posizioni e <strong>di</strong> garantire<br />

qualità e grande energia (Why I Must) nelle produzioni<br />

che licenziano.<br />

(6.9/10)<br />

GaSpare caliri<br />

alex under - la Máquina de BolaS (SoMa recordS, Marzo 2012)<br />

Genere: minimal<br />

Hai voglia a considerare clinicamente morta la minimal dei vari Villalobos e Luciano,<br />

se poi ogni tanto vengono fuori <strong>di</strong>schi d’eccezione come il primo <strong>di</strong> Alex Under: Dispositivos<br />

De Mi Granja, anno 2005, è stata la perfetta triangolazione tra cinismo minimal,<br />

sensualità deep e freschezza tribal e l’ha reso uno dei producer più richiesti e acclamati<br />

della scena madrilegna. Da allora Alex ha maturato sette lunghi anni <strong>di</strong> adattamento<br />

al club e il sophomore <strong>di</strong> adesso ha un obiettivo <strong>di</strong>verso e sposta i meccanismi della<br />

notte al servizio <strong>di</strong> una minimal estremamente cerebrale, ipnotica, quasi psichedelica.<br />

La Máquina De Bolas gioca giustamente su tempi lunghissimi (una me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> 10 minuti<br />

a traccia), lasciando all’ascoltatore tutto il tempo <strong>di</strong> assorbire lentamente ogni sfumatura<br />

<strong>di</strong> crescita e descrescita dei singoli brani. La più lunga, Bola2, è un trip mentale infinito che parte pizzico<br />

impercettibile, cresce lenta sui suoi bassi incandescenti e libera i suoi arpeggi acquatici solo al suo ottavo minuto,<br />

quando ti ha già reso iperreattivo al minimo cambio <strong>di</strong> mood. Questo il riconoscibilissimo tocco del maestro, supportato<br />

da tessuti sonori più <strong>di</strong>fferenti <strong>di</strong> quanto sembri in prima istanza (Bola5 ha un passo dark/space che è quasi<br />

Goblin, Bola7 è il ghiaccio nero <strong>di</strong> Bruno Pronsato, Bola3 e Bola4 vanno <strong>di</strong> tribalismo <strong>di</strong>smesso con la circolarità<br />

geometrica <strong>di</strong> un visionario).<br />

Nessuno spazio per astrattismi senza forma, la cassa in quattro è attutita ma sempre presente. Rispetto al primo<br />

album però la velocità è notevolmente rallentata, passando dai 140 bpm <strong>di</strong> allora ai 90 <strong>di</strong> adesso, segno che il club<br />

c’è sì, ma rimane sullo sfondo, come un’attitu<strong>di</strong>ne innata che si inchina verso una più aristocratica attenzione alla<br />

suggestione d’ascolto. L’ermetismo minimal passa così dalla durezza intransigente della sua forma da clubbing<br />

alle sottrazioni introverse della cuffia, guadagnandoci sicuramente in spessore. Più che le nuove teorie techno <strong>di</strong><br />

Byetone e Sendai le bugie <strong>di</strong> Alex Under sono la trasposizione del minimalismo su una tela slow house prossima<br />

ai Voices From The Lake, dunque perfetta per la comunicazione mentale.<br />

Nei tempi o<strong>di</strong>erni del massimalismo <strong>di</strong> Flying Lotus e Rustie, il suono minimal è arte <strong>di</strong> rottura, <strong>di</strong> protesta, <strong>di</strong><br />

anacronismo riflessivo e isolazionista. È prendersi il tempo <strong>di</strong> andare a fondo nelle cose con tutta calma e senza<br />

<strong>di</strong>strazioni, per trovare la massima profon<strong>di</strong>tà. Del suono, del contenuto o della nostra stessa capacità d’ascolto.<br />

La minimal è la vera musica controcorrente <strong>di</strong> oggi, e Under sa ancora esprimerne i suoi valori più nobili eludendo<br />

quel rischio <strong>di</strong> rimanere insoluto proprio <strong>di</strong> questi territori (o peggio ancora <strong>di</strong> sconfinare nel cattivo gusto <strong>di</strong> un<br />

Rebolledo a caso). Non solo roba da cultori, ma materiale che può far scattare la scintilla anche a chi non ha mai<br />

amato il genere. Lo ascolti a notte fonda, buio totale e silenzio <strong>di</strong> tomba, ed è quasi un’esperienza surreale.<br />

(7.3/10)<br />

carlo affatiGato<br />

Black Banana - Sonic death Monkey (il<br />

verSo del cinGhiale, Gennaio 2012)<br />

Genere: rock<br />

Stilando un ipotetico decalogo che ogni rock band<br />

dovrebbe seguire, certamente i milanesi Black Banana<br />

sod<strong>di</strong>sferebbero quasi alla perfezione le regole sulla potenza<br />

e l’aggressività.<br />

Peccato però che se l’aspirazione è suonare rock’n’roll,<br />

seguire un qualche decalogo avrà l’effetto <strong>di</strong> una <strong>di</strong>scutibile<br />

pantomina <strong>di</strong> luoghi comuni. Insomma, una certa<br />

cattiveria deve corrodere le vene per poterla purificare<br />

e sputare fuori.<br />

Sonic Death Monkey, album <strong>di</strong> debutto dei Black Banana<br />

(quasi omonimia con un gruppo che su cattiveria<br />

e vene corrose ha parecchio da insegnare) è un concentrato<br />

<strong>di</strong> hard rock <strong>di</strong> matrice scan<strong>di</strong>nava <strong>di</strong> penultima<br />

generazione (Hellacopters et similia), tiri alla Motorhead,<br />

scie stoner sgrezzate e un certo appiglio mainstream<br />

tipico del rock da classifica pre anni ’00, ma ha il grande<br />

limite <strong>di</strong> un’inventiva quasi nulla.<br />

Con riff <strong>di</strong> chitarra e rullate <strong>di</strong> batteria che rimandano a<br />

troppe canzoni e una voce che soccombe spesso al muro<br />

<strong>di</strong> suono che la band sputa fuori, Sonic Death Monkey<br />

ci ritrae la schiavitù legata a un’idea <strong>di</strong> sonorità ridondante<br />

e conforme a standard fin troppo abusati. Possiamo<br />

definirla una pecca da principianti? It’s up to you.<br />

Con una maggiore originalità e cercando una genuinità<br />

che si <strong>di</strong>stacchi dagli impostati para<strong>di</strong>gmi sonori nor<strong>di</strong>ci,<br />

52 53


i Black Banana potrebbero regalarci un comeback altamente<br />

corrosivo.<br />

(5/10)<br />

crizia GianSalvo<br />

Black <strong>di</strong>ce - Mr iMpoSSiBle (riBBon MuSic,<br />

aprile 2012)<br />

Genere: technoise<br />

Raccoglie evidentemente l’ere<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> Repo, il Mr Impossible<br />

<strong>di</strong> Black Dice. E lo fa lasciando dei pezzi per<br />

strada. Passaggi come quelli impressi su Whirligig o La<br />

Cucaracha - due brani dal <strong>di</strong>sco del 2009 - erano non<br />

solo interessanti, ma testimoni <strong>di</strong> un parentame sul tema<br />

d’oscillazione d’anche impensato. Avete mai sentito questi<br />

pezzi e pensato contemporaneamente a Madlib? Non<br />

sentirete nessuno sconcerto, nessun effetto straniante,<br />

perché le vicinanze c’erano eccome, raccontavano <strong>di</strong> un<br />

approccio al ritmo che va al culto del frammento ma<br />

guarda all’insieme, che prima <strong>di</strong> tutto deve essere <strong>di</strong>vertente.<br />

Materia colorata per la materia grigia, ma anche<br />

per il corpo. E giustamente se ne parlò da queste parti<br />

citando sia Renaldo che Miles Davis.<br />

Fatta questa lunga premessa, Mr Impossible non raggiunge<br />

la freschezza del precedente, piuttosto calca la<br />

mano su una dance sfacciata e meno spastica. Se non<br />

dritta (Outer Body Drifter) quasi. Rispunta la mano calda<br />

della California <strong>di</strong> Madlib, l’inelligenza certosina, qui<br />

con le sembianze <strong>di</strong> Flying Lotus nientemeno (Spy Vs.<br />

Spy) e dell’LA-touch. Come dei Cabaret Voltaire virati<br />

al positivo (Rodriguez, Pigs), ancora una volta i Black<br />

Dice <strong>di</strong>mostrano che il loro coloratissimo rumore vive <strong>di</strong><br />

una progressione <strong>di</strong> forme potenzialmente infinita (The<br />

Jacker). Eppure, all’altro capo della bilancia, ci vogliono<br />

le idee, tantissime e non in conflitto le une con le altre.<br />

Manfredo Tafuri, storico e critico dell’architettura, a proposito<br />

del Monumento continuo e della No Stop City del<br />

gruppo ra<strong>di</strong>cale fiorentino Archizoom parla <strong>di</strong> “un’ironia<br />

che non fa ridere”. I Black <strong>di</strong>ce parlano <strong>di</strong> una colonna<br />

sonora <strong>di</strong> uno show <strong>di</strong> teenager strafatti <strong>di</strong> sostanze in<br />

uno scantinato su marte. E se sul pianeta terra i Black<br />

Dice facessero una dance che non fa ballare? Che stiano<br />

ancora scaldando per quel salto definitivo?<br />

(6.8/10)<br />

GaSpare caliri<br />

Breton - other people’S proBleMS (fat cat,<br />

aprile 2012)<br />

Genere: post dance-punk<br />

Scegliere un nome come tributo al padre del surrealismo,<br />

Andre Breton, può sembrare leggermente pretenzioso,<br />

ma negli ultimi anni il progetto/collettivo multime<strong>di</strong>ale<br />

- <strong>di</strong> derivazione squat alla Wu Lyf - Breton (già Breton-<br />

LABS) ha <strong>di</strong>mostrato che oltre all’aura da intelettualoi<strong>di</strong><br />

e artistoi<strong>di</strong> c’è <strong>di</strong> più, tramite la realizzazione <strong>di</strong> videoclip,<br />

visual e remix (Temper Trap, Chapel Club, Local<br />

Natives e DID).<br />

Discograficamente parlando sono già tre gli EP usciti a<br />

nome Breton: Practical EP, Counter Balance EP e Sharing<br />

Notes EP, forse non baciati dall’hype estremo solitamente<br />

riservato in Inghilterra a questo tipo <strong>di</strong> band ma<br />

comunque in grado creare grosse aspettative verso l’album<br />

<strong>di</strong> debutto Other People’s Problems, registrato in<br />

Islanda al Sundlaugin Stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> proprietà dei Sigur Rós.<br />

La musica proposta dai lon<strong>di</strong>nesi sembra uscire da un<br />

grande laboratorio chimico <strong>di</strong> qualche grigio cantiere<br />

industriale, nel quale ci si <strong>di</strong>verte a sperimentare varie<br />

formule unendo <strong>di</strong> volta in volta “elementi” <strong>di</strong>versi, con<br />

una certa pre<strong>di</strong>lizione per la scena dance-punk <strong>di</strong> moda<br />

a metà degli anni zero.<br />

Ci sono i Klaxons misti Late Of The Pier (Wood and Plastic)<br />

quando non semplicemente i Foals (Jostle), ma ai<br />

Breton piace anche utilizzare battute pseudo hip-hop e<br />

piazzarci sopra una melo<strong>di</strong>a stonata e indolente (il concetto<br />

è simile, ma i These New Puritans non sono più<br />

vicini della vecchia scena grebo o <strong>di</strong> certe cose trip-hop).<br />

Nella strofa <strong>di</strong> Edward The Confessor sono gli Strokes in<br />

versione marcio-sintetica prima <strong>di</strong> prendere la tangente<br />

dei Test Icicles, mentre a ripulire un po’ le asperità<br />

pensano i suoni ton<strong>di</strong> <strong>di</strong> Governing Correctly e la smooth<br />

black music stoppata <strong>di</strong> 2 Years.<br />

Colpisce il lato arty/DIY e l’utilizzo <strong>di</strong> orchestrazioni (violini<br />

sugli scu<strong>di</strong>) - <strong>di</strong>fficili da trovare in proposte vicine al<br />

Breton-sound - lungo queste un<strong>di</strong>ci tracce che delineano<br />

bene la pulsante ricerca musicale della band senza<br />

mai stancare, nonostante l’assenza <strong>di</strong> particolari agganci<br />

catchy. Forse ancora leggermente acerbo, Other People’s<br />

Problems è uno <strong>di</strong> quei <strong>di</strong>schi da scoprire pian piano<br />

e l’impressione è che il meglio debba ancora arrivare.<br />

(7/10)<br />

riccardo zaGaGlia<br />

Bruce SprinGSteen - WreckinG Ball<br />

(coluMBia recordS, Marzo 2012)<br />

Genere: rock<br />

In ambito musicale poche cose sono più noiose <strong>di</strong> una<br />

nuova recensione <strong>di</strong> un nuovo noioso album <strong>di</strong> Bruce<br />

Springsteen. O almeno credo. Perché, malgrado tutto,<br />

il personaggio merita immutato rispetto, quin<strong>di</strong> non è<br />

liquidabile in poche righe così come questo Wrecking<br />

Ball - ahinoi - meriterebbe. Riferiamo quin<strong>di</strong> le parole<br />

dello stesso Boss, secondo il quale queste canzoni sono<br />

sbocciate da premesse simili a quelle delle Seeger Ses-<br />

daMien Jurado - Maraqopa (Secretly cana<strong>di</strong>an, feBBraio 2012)<br />

Genere: folk psych<br />

A proposito del precedente Saint Bartlett, un paio <strong>di</strong> anni orsono scrivevo che era sì un buon <strong>di</strong>sco ma che - come<br />

al suo autore - sembrava mancargli qualcosa. Nel frattempo l’intesa fra Richard Swift e Damien Jurado sembra<br />

aver messo a punto paletti e coor<strong>di</strong>nate, orientando la barra con decisione verso un<br />

folk variamente psichedelico, marezzato <strong>di</strong> umori soul e lirismo jazzy. Una densità<br />

frastagliata e vibrante in cui la personalità elusiva <strong>di</strong> Jurado sembra galleggiare come<br />

una lanterna nella nebbia, raggiungendo gra<strong>di</strong> <strong>di</strong> suggestione e intensità espressiva<br />

tra i più alti in carriera. E’ una collaborazione e un <strong>di</strong>sco in cui Jurado crede parecchio,<br />

tanto da inventarsi questa storia su una città abitata da due soli abitanti - lui e Swift<br />

ovviamente - il cui nome è il titolo del lavoro, Maraqopa. La sua personalissima Macondo,<br />

un luogo in cui ritrovarsi, per ripartire, per decollare.<br />

Certo, visti i trascorsi da <strong>di</strong>scepolo <strong>di</strong> Nick Drake ed Elliott Smith, probabile che i<br />

fan della prima ora possano sentirsi tra<strong>di</strong>ti, un po’ come successe quando Jason Molina deviò dal solco spettrale<br />

Songs:Ohia verso il folk-rock ad alta densità dei Magnolia Electric Co. Proprio come in quel caso, mi piace vedere<br />

questo “tra<strong>di</strong>mento” come uno sbocco naturale nel tentativo <strong>di</strong> risalire le ra<strong>di</strong>ci dell’ispirazione, <strong>di</strong> esplorare assieme<br />

agli antichi amori tutte le conseguenze e le escrescenze lasciate finora a sonnecchiare. Tanto meglio quin<strong>di</strong><br />

se modelli del calibro <strong>di</strong> Van Morrison, Tim Buckley, Neil Young o John Martyn trovano nuova collocazione nel<br />

presente abitando brani che sembrano fantasmi spersi e irrequieti. Ad esempio, la febbricitante Nothing Is The<br />

News in apertura <strong>di</strong> programma sembra una jam ipotetica avvenuta durante le sessioni <strong>di</strong> On The Beach, Bless The<br />

Weather e T.B. Sheets, mentre Working Titles si aggira trepida come una chiacchierata tra Paul Simon e Scott Walker.<br />

Stiamo parlando tuttavia d’un lavoro deliziosamente scentrato e umbratile, per nulla nostalgico anzi fieramente<br />

contemporaneo col suo svicolare allucinato tra <strong>di</strong>verse situazioni stilistiche e spaziotemporali, si prenda quella<br />

Reel To Reel che sprimaccia ugge 50s con abbandono squinternato Magnetic Fields, o ancora una title track come<br />

potrebbe il giovane Crosby sul punto <strong>di</strong> cadere narcolettico, mentre This Time Next Year sembra Will Oldham colto<br />

da agrodolce struggimento bossa. Ancora più sorprendente poi è la tenera palpitazione pop <strong>di</strong> Museum Of Flight,<br />

giusto grado <strong>di</strong> garbo e penombra come una equivoca mestizia Pretenders. Il tutto unificato dalla sensibilità <strong>di</strong>versamente<br />

audace <strong>di</strong> Damien Jurado, che pare proprio aver trovato ciò che gli mancava.<br />

(7.4/10)<br />

Stefano Solventi<br />

sions. Folk tra revivalistico e tra<strong>di</strong>zionale quin<strong>di</strong>, che<br />

però in corso d’opera - e nel giogo energizzante della<br />

E Street Band - è andato ad ibridarsi <strong>di</strong> estro elettrico<br />

e persino sintetico (con parsimonia non sufficiente ad<br />

evitare un senso <strong>di</strong> impacciata artificiosità, ve<strong>di</strong> le balbettanti<br />

perturbazioni in This Depression). Il risultato è<br />

un quid sonoro abbastanza strabico, uno sventolare <strong>di</strong><br />

gonfaloni stilistici che assieme alla scrittura sempre più<br />

<strong>di</strong>dascalica combinano situazioni immancabilmente in<br />

bilico tra il tronfio ed il retorico.<br />

Spiace soprattutto perché l’uomo sembra ancora nel<br />

pieno delle forze, la voce è potente e l’età le ha conferito<br />

una cavernosità che ben si presterebbe a scavare<br />

in chiaroscuro. Invece ci tocca assistere al carosello <strong>di</strong><br />

queste ballatine che se in fondo fanno la solita cosa <strong>di</strong><br />

sempre - una appassionata esortazione allo Spirito Americano<br />

- questa volta, come del resto da circa tre lustri a<br />

questa parte, sembrano mosse più da uno strisciante opportunismo<br />

che da un senso <strong>di</strong> reale necessità. Ciò che<br />

era potentemente, appassionatamente popolare, oggi<br />

ha completato la metamorfosi populista. Non a caso il<br />

pezzo più efficace è proprio quella title track composta<br />

per la demolizione del vecchio Giant Sta<strong>di</strong>um, apoteosi<br />

nostalgica vicina al cuore della gente sì ma proiettata<br />

ad alta risoluzione tra un commercial televisivo e l’altro.<br />

Quanto al resto, tra una Rocky Ground che sembra<br />

aggiornare Philadelphia in chiave gospel-soul (con intervento<br />

rappante della vocalist Michelle Moore) e una<br />

Death To My Hometown che impasta Irlanda, Appalachi e<br />

Africa, si consumano forse i momenti migliori della scaletta,<br />

nulla comunque degno <strong>di</strong> meritare menzione nel<br />

formidabile canzoniere springsteeniano.<br />

Impossibile poi non citare l’ospitata <strong>di</strong> Tom Morello in<br />

un paio <strong>di</strong> pezzi (ma giusto perché è un nome <strong>di</strong> spic-<br />

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co tra i cre<strong>di</strong>ts) e soprattutto la peraltro arcinota The<br />

Land Of Hope And Dreams per l’ultimo, stentoreo assolo<br />

dell’in<strong>di</strong>menticabile Clarence “Big Man” Clemons.<br />

Tristezza che si aggiunge all’amarezza per il crepuscolo<br />

insipido <strong>di</strong> un artista che sembra aver deciso d’invecchiare<br />

all’ombra del proprio stesso monumento.<br />

(4.5/10)<br />

Stefano Solventi<br />

callMekat - Where the river turnS Black<br />

(, aprile 2012)<br />

Genere: pop<br />

Se ti chiami Katrine Ottosen e vieni dalla Danimarca,<br />

trovare un nome d’arte d’impatto <strong>di</strong>venta fondamentale<br />

per riuscire ad emergere. Quale scelta migliore del banale<br />

e allo stesso tempo geniale CALLmeKAT?Le prime - e<br />

fino ad oggi ultime - uscite <strong>di</strong>scografiche <strong>di</strong> CALLme-<br />

KAT risalgono al 2008, quando fece uscire prima l’EP I’m<br />

in a Polaroid, Where Are You? e poi l’album <strong>di</strong> debutto<br />

Fall Down che conteneva anche una versione pseudojazzata<br />

<strong>di</strong> Toxic <strong>di</strong> Britney Spears.<br />

Quattro anni dopo, la oggi trentenne Katrine ci riprova<br />

- grazie anche al finanziamento dei fan sul sito Pledge<br />

Music - con Where the River Turns Black, avvalendosi<br />

delle collaborazioni <strong>di</strong> Joe Magistro, Sara Lee (Gang Of<br />

Four, The B-52’s e In<strong>di</strong>go Girls), Erika Spring (Au Revoir<br />

Simone) e Helgi Jonsson (Sigur Ros).<br />

Le origini nor<strong>di</strong>che non vengono nascoste nell’iniziale<br />

- algida e notturna - Somewhere ma i ritmi si fanno<br />

maggiormente sostenuti e spensierati fin dalla successiva<br />

titletrack, sia quando ricorda vagamente la vicina<br />

collega Lykke Li, sia quando gioca con gli ormai abusati<br />

atteggiamenti retrò (Tiger Head).<br />

Sfrutta meglio le sue carte quando la butta sul malinconico<br />

(Going Home) o quando rincorre a cavallo la Feist<br />

meno sofisticata (Heart Full Of Soul) anche se purtroppo,<br />

rispetto ai lavori targati 2008, si assiste ad una decisa<br />

<strong>di</strong>minuzione delle componenti elettroniche e art-folk<br />

che ben caratterizzavano gli esor<strong>di</strong>.<br />

Sempre piuttosto interessante il modo in cui vengono<br />

utilizzate le tastiere vintage (Somewhere, The Haze e<br />

Broken House, dove entrano in scena anche i fiati), ma<br />

manca ancora quel valore aggiunto in grado <strong>di</strong> fare realmente<br />

la <strong>di</strong>fferenza: in Where the River Turns Black<br />

non c’è nulla che faccia storcere particolarmente il naso<br />

ma non c’è neanche nessun ingre<strong>di</strong>ente che possa far<br />

primeggiare Kat all’interno <strong>di</strong> una scena - quella dell’artpop<br />

al femminile - vicina alla saturazione.<br />

(6.3/10)<br />

riccardo zaGaGlia<br />

caScao & lady Maru - GonG! (iM SinGle<br />

recordS, Gennaio 2012)<br />

Genere: electro-piGneto<br />

Se pensate che dalla Borgata Boredom escano solo garage<br />

storto, psychedelia sfatta, marciume noise e frattaglie<br />

sonore semi-impressioniste, sbagliate <strong>di</strong> grosso.<br />

Non stiamo qui a celebrare il già celebrato, ma a rendere<br />

giustizia ad una “scena” geograficamente delocalizzata<br />

nelle periferie assurte a quartieri neo-arty <strong>di</strong> Roma Est<br />

ma con orecchie, cuore e synthetizzatori puntati ben<br />

oltre i ruvi<strong>di</strong> confini <strong>di</strong> quartiere.<br />

Cascao & Lady Maru, ad esempio. Protagonisti della<br />

(ehm) scena locale a vario titolo - lui prevalentemente<br />

coi Nastro, lei prevalentemente col duo Trouble Vs<br />

Glue, ma in realtà attivissimi a vario titolo (producer,<br />

djs, ballerini, agitatori) - uniscono le forze e celebrano<br />

l’insana unione con Gong!, album che forse più <strong>di</strong> molti<br />

altri getta luce sull’essenza ultima del quartiere <strong>di</strong> casa.<br />

Un ethno-punk-electropop, autodefinizione piuttosto<br />

calzante che da M.I.A. (l’esotismo vs freakedelia <strong>di</strong> Burudance)<br />

muove verso le frizioni interetniche del Pigneto,<br />

da Kid Creole sotto acido arriva alle reminiscenze<br />

Stu<strong>di</strong>o 84 dub per sottrazione come nella Londra (electro)post-punk<br />

(Toxic Satellite), dal mix <strong>di</strong> tropicalismo e<br />

sampietrini arriva al banghra meets p-funk cabaret-pop<br />

sperimentale e autoironico, ballabile e complesso come<br />

potevano intenderlo certe esperienze ante-litteram<br />

italiane, Gronge su tutti, (Bad Might) o a certe svisate<br />

dell’undeground più in fissa col melting-pot e il dancehall<br />

(ve<strong>di</strong> alla voce Maria Minerva per fare un nome). Tirando<br />

in ballo techno e vocoder, french touch e autismo<br />

(Pink Strobe Delight), robotiche visioni post-dancehall e<br />

miscele incen<strong>di</strong>arie per mostrare come la via al mondo<br />

passi spesso per le strade del proprio quartiere, se il<br />

quartiere si chiama mondo.<br />

(7.1/10)<br />

Stefano pifferi<br />

cereMony - zoo (Matador, Marzo 2012)<br />

Genere: bay punk<br />

L’hardcore del terzo millennio si configura sempre più<br />

come un ibrido che perde la sua fierezza incompromissoria,<br />

straight-forward, iconoclasta e furiosa per ripensarsi<br />

e ri<strong>di</strong>segnarsi su traiettorie trasversali. La lezione<br />

degli anni a cavallo tra i millenni - ve<strong>di</strong> alla voce International<br />

Noise Conspiracy, ma non solo - è ormai introiettata<br />

da una serie <strong>di</strong> band che uniscono cieca irruenza<br />

retaggio del passato old-school del genere ad una serie<br />

<strong>di</strong> sfaccettature e <strong>di</strong> sfumature che ne propongono<br />

una versione insieme riconoscibile e paradossalmente<br />

nuova.<br />

daniel roSSen - Silent hour / Golden Mile (Warp recordS, aprile 2012)<br />

Genere: pop<br />

Dopo Dreams Come True <strong>di</strong> CANT, esor<strong>di</strong>o sotto moniker del bassista Chris Taylor, abbiamo un altro Grizzly Bear ad<br />

esor<strong>di</strong>re solista, almeno nominalmente. Daniel Rossen è il ragazzo introverso entrato nella band <strong>di</strong> Ed Droste con<br />

una manciata <strong>di</strong> canzoni che contribuirono non poco al successo del sophomore Yellow House, oltre che il songwriter<br />

<strong>di</strong>etro alla sigla Department Of Eagles (titolare dell’ottimo In Ear Park) riesumata assieme al vecchio amico<br />

Fred Nicolau e uno dei protagonisti delle session a “gestione democratica” dell’ultimo<br />

album dei Bear Veckatimest.<br />

Le canzoni <strong>di</strong> questo <strong>di</strong>sco, assimilabili per spirito e scrittura a quelle dell’ultima prova<br />

della band madre, avrebbero dovuto far parte proprio delle session <strong>di</strong> un nuovo album<br />

dei Bear, per poi finire, invece, in un progetto a cui Rossen ha dato vita per riappropriarsi<br />

<strong>di</strong> un’identità artistica compromessa da mesi <strong>di</strong> tour. Senza Droste e gli eccessivi<br />

svolazzi <strong>di</strong> Veckatimest, il ragazzo si ritrova songwriter e arrangiatore in pieno controllo<br />

dei propri mezzi e in perfetto equilibrio tra testi e scenografie.<br />

Il piano e l’orchestra invisibile <strong>di</strong> Saint Nothing dall’eleganza mccartneyiana, lo spen<strong>di</strong>do<br />

country folk à la CSNY meets Mercury Rev <strong>di</strong> Silent Song dal tocco impalpabile e<br />

quel gusto elettronico sotto pelle (con l’intervento killer alla lap steel <strong>di</strong> Scott Hirsch), gli archi soffusi in combutta<br />

col riff country <strong>di</strong> Up On High (dai vaghi richiami floy<strong>di</strong>ani altezza Meddle), la serenata conclusiva Golden Mile dai<br />

nervosi innesti <strong>di</strong> acustica e batteria per mano del Dr. Dog Eric Slick, il gusto cinematico e i richiami Brian Wilson /<br />

Bealtes sparsi un po’ ovunque: tutte soluzioni che sommano delicatezza e piglio deciso, dando vita alla prova più<br />

matura <strong>di</strong> sempre.<br />

A questo punto non ci stupirebbe uno split dei Grizzly o uno spostamento a favore <strong>di</strong> Rossen negli equilibri della<br />

band. Al contrario delle <strong>di</strong>fficili gestazioni tipiche dei Grizzly Bear, queste canzoni trovano un modo spontaneo<br />

<strong>di</strong> aprirsi alle complessità, cosa che è mancata all’ultimo album del gruppo. Un peccato non aver avuto un ellepì<br />

intero sul quale valutarlo.<br />

(7.3/10)<br />

edoardo Bridda<br />

Quello che succede coi cari Fucked Up, insomma, succede<br />

anche con questo quintetto californiano, Rohnert<br />

Park, zona San Francisco, per l’esattezza. Gente in grado<br />

<strong>di</strong> mischiare il grezzume della Bay Area con input vari e<br />

anche lontani dall’integrità un tempo obbligatoria. Una<br />

tripletta <strong>di</strong> album lunghi rigorosamente ogni due anni<br />

più una serie smisurata <strong>di</strong> pezzi piccoli preparano il terreno<br />

a questo Zoo, luogo della mente in cui confluiscono<br />

bestie deformi e aggressive, altre più o meno rassicuranti,<br />

qualcuna ad<strong>di</strong>rittura dolce.<br />

Ecco così che alle tipiche sfuriate in modalità hc più chitarre<br />

stratificate uguale wall of sound (l’iniziale Hysteria,<br />

World Blue, Or<strong>di</strong>nary People), assalti punkish da zero compromessi<br />

figli dei Dead Kennedys (i due minuti netti <strong>di</strong><br />

Citizen), tensione sospesa e reiterata (Brace Yourself) o<br />

da urlare a squarciagola (Adult) si aggiungono variazioni<br />

sul tema. Momenti più riflessivi e pacati (Repeating The<br />

Circle) se non doomy (Nosebleed), qualche stralcio bluesy<br />

alla maniera dei Gun Club (Hotel), scazzo post-Fall<br />

(Quarantine) <strong>di</strong>mostrano come non perdendo in potenza<br />

e aggressività si possa mutare il canone hc. Tutto quasi<br />

sempre intorno ai 2, massimo 3 minuti per un lavoro<br />

gustoso ed energico non troppo lontano dai mai troppo<br />

osannati Fucked Up.<br />

(6.8/10)<br />

Stefano pifferi<br />

clark - iradelphic (Warp recordS, aprile<br />

2012)<br />

Genere: elettro<br />

Con la fissa per la tecnologia povera - 8bit, electro al<br />

limite del noise, videogiochi - prima che la scena Wonky<br />

la ri-sdoganasse per i 00s, Clark sforna musica elettronica<br />

avant come retrò da ben un<strong>di</strong>ci anni e sempre animato<br />

dalla necessità <strong>di</strong> non ripetersi. Lo avevamo lasciato<br />

tre anni fa dopo un muscolare e funambolico lavoro sui<br />

circuiti - Totems Flare - e lo troviamo ora alle prese con<br />

un <strong>di</strong>sco folk-psych vignettista che non <strong>di</strong>mentica certe<br />

contaminazioni laptop primi Duemila e il dettaglio<br />

concreto.<br />

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father John MiSty - fear fun (Bella union, aprile 2012)<br />

Genere: laurel canyon sound<br />

Dopo il Jonathan Wilson dello scorso anno, torna a far capolino nella scena alt.country/folk americana la subculture<br />

del Laurel Canyon. L’ex Fleet Foxes Josh Tillman che si getta nella nuova avventura Father John Misty, nel<br />

canyon ci è anche andato a vivere e con Wilson ha un’amicizia, non solo musicale, che li lega da tempo. Fear Fun,<br />

titolo più ossimorico degli ultimi anni, è il frutto <strong>di</strong> un periodo <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà coinciso<br />

con la scrittura <strong>di</strong> un romanzo. A detta dello stesso Tillman, la depressione che lo ha<br />

portato all’uso della scrittura come psicanalisi è qui <strong>di</strong>stillata in una musica tanto debitrice<br />

verso gli intrecci vocali dei Fleet Foxes quanto nei confronti degli anni Sessanta<br />

e Settanta del cantautorato country americano (Waylon Jennings, Harry Nilsson) e<br />

delle sperimentazioni <strong>di</strong> Arthur Russell, dei Led Zeppelin e del George Harrison <strong>di</strong> All<br />

Things Must Pass.<br />

Quello che non <strong>di</strong>ce la nota stampa è che non si tratta affatto <strong>di</strong> un <strong>di</strong>sco depresso,<br />

quanto piuttosto solare, colorato da afflati quasi soul che impreziosiscono la scrittura,<br />

già <strong>di</strong> per sè su buonissimi livelli. La voce <strong>di</strong> Josh Tillman appare espressiva e duttile fin dall’iniziale Funtime In<br />

Babylon, il ritmo si alza con I’m Writing A Novel che col suo piano sfrenato è uno degli episo<strong>di</strong> più movimentati. Su<br />

tutto aleggia quella particolare atmosfera crepuscolare che caratterizza il Laurel Canyon (si ascoltino Only Son Of The<br />

La<strong>di</strong>esman o O I Long To Feel Your Arms Around Me), il rock americano (Hollywood Forever Cemetery Sings) e una psichedelia<br />

soffusa (Nancy From Now On, Misty Nightmares 1 & 2) che rimescola in maniera personale il canone classico.<br />

Sarebbe da <strong>di</strong>re ancora dei giochi <strong>di</strong> parole nei testi, dei riferimenti letterari, perché Fear Fun è album da leggere<br />

su più livelli, lontano dai facili riferimenti tipici del genere e, soprattutto, dotato <strong>di</strong> una scrittura solida per una voce<br />

espressiva e sicura. Due cose che <strong>di</strong>fficilmente passano inosservate.<br />

(7.4/10)<br />

Marco BoScolo<br />

La seicorde dell’opener Handerson Wrench, imparata a<br />

suonare da poco durante frequenti viaggi tra Inghilterra<br />

ed Europa, lo avvicina alle contaminazioni raga folk<br />

torrenziali <strong>di</strong> Six Organs Of Admittance; i synth altezza<br />

Kraftwerk pre-Autobahn <strong>di</strong> Com Touch lo portano su<br />

acquerelli 70s, magari incrociati con certe cose <strong>di</strong> Bibio<br />

(amico del Nostro dai tempi <strong>di</strong> Willenhall/Basterville<br />

Grinch EP&rlm;, ha anche partecipato alla realizzazione<br />

<strong>di</strong> questo <strong>di</strong>sco). Brani, entrambi, che con Tooth Moves<br />

e il suo live drumming rappresentano un po’ il riscaldamento<br />

dell’album. La tracklist prende poi forma e organicità<br />

nei trittici Open, Secret (ospite Martina Topley Bird<br />

al canto), Ghosted e The Pining pt .1,2,3: due momenti<br />

complementari animati l’uno da una sensibilità à la Investigate<br />

Witch Cults Of The Ra<strong>di</strong>o Age e l’altro da una<br />

colorata e lucente folktronica non lontanta dal Four Tet<br />

prima maniera.<br />

Da sempre il filo rosso che accompagna Chris Clark è<br />

la vena narrativo/melo<strong>di</strong>ca dell’idm (emblematica qui<br />

Skyward Bruise/Descent tra overture e slanci space): aver<br />

portato quest’ultima su territori “suonati” garantisce alla<br />

musica una <strong>di</strong>screta dose <strong>di</strong> freschezza e un entusiasmo<br />

palpabile, ma non tutto è a fuoco come dovrebbe. Una<br />

serie <strong>di</strong> ep avrebbero sicuramente fatto più gioco.<br />

(6.8/10)<br />

edoardo Bridda<br />

cleo t - SonGS of Gold and ShadoW (Macaco<br />

recordS, Marzo 2012)<br />

Genere: folk-sonGwritinG<br />

Chissà cosa penserebbe Nick Cave della francese Cleo<br />

T e del suo esor<strong>di</strong>o Songs Of Gold And Shadows. Lui<br />

che <strong>di</strong> gotico/romantico se ne intende (ve<strong>di</strong> alla voce<br />

Murder Ballads), apprezzerebbe forse un <strong>di</strong>sco (e una<br />

copertina) <strong>di</strong> barche e salici piangenti, laghi e bianco<br />

e nero in controluce. O magari potrebbe affezionarsi a<br />

una voce che dall’ultima PJ Harvey raccoglie l’ere<strong>di</strong>tà<br />

più folk (autoharp compresa), pur me<strong>di</strong>andola con le<br />

vette commoventi <strong>di</strong> una Josephine Foster. Di certo<br />

esalterebbe il lavoro del John Parish produttore del<br />

<strong>di</strong>sco, abile nel rimarcare un suono che tra pianoforte,<br />

ottoni, chitarre, contrabbasso, violoncello, theremin riesce<br />

a costruire un immaginario obliquamente bucolico<br />

e inquieto.<br />

Il <strong>di</strong>sco vive <strong>di</strong> ballads languide come l’iniziale I Love Me<br />

I Love Me Not e <strong>di</strong> certe We All figlie <strong>di</strong> Let England Sha-<br />

ke, <strong>di</strong> una Columbine che recupera Tori Amos e <strong>di</strong> una<br />

Song To The Moon che lascia spazio a un valzer sbracato<br />

da cabaret, <strong>di</strong> una Trista Stella stentata nell’italiano ma<br />

estremamente poetica nei toni e <strong>di</strong> una Little Girl Lost<br />

che col suo gospel per voce/clapping hands rimanda al<br />

classico John The Revelator. Momenti da cui scaturisce<br />

una <strong>di</strong>mensione melo<strong>di</strong>ca atemporale, malinconica e<br />

arrangiata, non troppo <strong>di</strong>stante dall’Antony più trasognato<br />

ma anche imparentata con la poetica decadente<br />

dei Tindersticks.<br />

Troppo? Cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> no, anche perchè non v’è traccia <strong>di</strong><br />

retorica negli spartiti e il trasporto è genuino. Tanto che<br />

ci viene da pensare che il qui presente esor<strong>di</strong>o - uscito<br />

in Francia nel 2011 e da noi solo ora grazie a Macaco<br />

Records - sia solo il primo passo <strong>di</strong> una parabola artistica<br />

potenzialmente in crescita.<br />

(7.2/10)<br />

faBrizio zaMpiGhi<br />

cryBaBy - cryBaBy (cooperative MuSic,<br />

aprile 2012)<br />

Genere: pop 50s<br />

Casualità vuole che abbia infilato nel lettore il cd <strong>di</strong><br />

Crybaby appena terminato <strong>di</strong> leggere il capitolo <strong>di</strong> Retromania<br />

de<strong>di</strong>cato all’infinito recupero dei 50s. Il fatto<br />

è che, concetrati come siamo stati su un revival degli<br />

80s che non accenna a perdere <strong>di</strong> intensità, abbiamo<br />

trascurato la subdola e pervasiva carica <strong>di</strong> quell’immaginario<br />

naif a base <strong>di</strong> voci singhiozzanti, twang affilati e<br />

chiome impomatate.<br />

Spesso ci è stato proposto sotto fogge mutevoli (pensate<br />

al lo-fi noir <strong>di</strong> Dirty Beaches, all’Elvis cibernetico<br />

<strong>di</strong> Bosco Del Rey o alla sceneggiata kitch in stile John<br />

Waters <strong>di</strong> Hunx and His Punks). Adesso però arriva uno<br />

che quando fa il crooner non ride sotto i baffi, non opera<br />

ingegnosi ma sterili slittamenti semantici.<br />

Quello <strong>di</strong> Danny Coughlan è un immaginario tutt’altro<br />

che ostentato: niente maledettismo rock’n’roll, ribelli in<br />

brillantina e auto a pinne <strong>di</strong> squalo. Lui viene da Bristol e<br />

a vederlo, stretto in quell’impermeabile, con la lucente<br />

pelata e il pizzetto, gli si attribuirebbe un minimalismo<br />

d’avanguar<strong>di</strong>a, più che un crooning affettato alla Roy<br />

Orbison. E invece è proprio lì che pesca questa sontuoso<br />

esor<strong>di</strong>o.<br />

Attinge alle rock ballads più sdolcinate, al doo wop e<br />

al blue eyed soul e li rinfresca con un modernità per<br />

nulla artefatta e quell’approccio apocrifo che dona alle<br />

melo<strong>di</strong>e una profon<strong>di</strong>tà ine<strong>di</strong>ta. Viene in mente il Morrissey<br />

innamorato <strong>di</strong> Dusty Springfield, per il languore<br />

e l’uggia britannica che imperla i brani.<br />

Gli arrangiamenti, poi, sono appena percettibili, anche<br />

nei misuratissimi interventi <strong>di</strong> organo e archi o nei riverberi<br />

spectoriani delle percussioni. Persino quando le<br />

atmosfere virano verso il western cinematico in odor <strong>di</strong><br />

Scott Walker. Niente ritocchi vintage, solo la naturale<br />

prosecuzione <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione melo<strong>di</strong>ca che così pura<br />

e cristallina si faticava a ricordare.<br />

(7.2/10)<br />

<strong>di</strong>eGo Ballani<br />

deM<strong>di</strong>ke Stare - eleMental (Modern love,<br />

feBBraio 2012)<br />

Genere: dark soundscape<br />

I Dem<strong>di</strong>ke Stare (i mancuniani Miles Whittaker e Sean<br />

Canty, rispettivamente produttore già attivo sotto <strong>di</strong>versi<br />

nomi e nel duo Pendle Coven e <strong>di</strong>gger ossessivo ex<br />

<strong>di</strong>pendente della Finders Creepers) sono stati bravi - anzi<br />

bravissimi - a costituirsi come act <strong>di</strong> culto (e <strong>di</strong> un culto<br />

in continua espansione). Hanno trovato la loro formula<br />

musicale (soundscape oscuri - potremmo <strong>di</strong>re anche<br />

dark ambient - che mettono assieme dub postatomico,<br />

residui techno e musica concreta, il tutto in un’ottica<br />

etnica, ma meglio ancora tribale e ritualistica, a tratti<br />

palpabilmente morbosa) e il modo migliore per comunicarla,<br />

con una gestione oculata della propria immagine<br />

(pescando a piene mani - fin dal nome, una strega inglese<br />

del Seicento, e dai titoli dei brani - nel misterioso<br />

e nell’esoterico) e delle proprie uscite <strong>di</strong>scografiche (EP<br />

limitati a poche centinaia <strong>di</strong> copie poi raccolti su cd, tutti<br />

introdotti dai raffinati arabeschi in toni <strong>di</strong> grigio delle<br />

copertine <strong>di</strong> Andy Votel). Il fatto che Piero (Scaruffi) li<br />

segua da vicino (mentre per molta parte della “scena<br />

elettronica” i suoi tempi <strong>di</strong> assimilazione rimangono biblici)<br />

e abbia marchiato il loro precendete confanetto<br />

riepilogativo - Tryptych - con un rarissimo 7,5 basta da<br />

solo a inquadrarne posizionamento e ricezione. Venendo<br />

a noi, a SA, i Dem<strong>di</strong>ke sono capaci <strong>di</strong> mettere d’accordo<br />

il nostro electrojunkie Marco Braggion e il nostro<br />

esotericofilo per antonomasia Antonello Comunale.<br />

In questo secondo set <strong>di</strong> cd riepilogativi (i quattro EP<br />

Chrysanthe e Violetta, Rose e Iris, più alt take e ine<strong>di</strong>ti),<br />

ritroviamo il loro lessico (pulsazioni <strong>di</strong> base pauperistiche;<br />

vento polveroso da scenario de-umanizzato o al<br />

massimo proto-umanizzato; frequenze da contatore<br />

Geiger che fanno scappare il gatto <strong>di</strong> casa sotto i mobili)<br />

e la loro sintassi tipo (tra l’elettroacustico, l’OST orrorifica<br />

fortemente descrittiva e un dub industriale da “pensiero<br />

debole”, sbrindellato, miniaturizzato), ormai co<strong>di</strong>ficati,<br />

ma sempre efficaci, condotti con stile e - come si <strong>di</strong>ce -<br />

tocco. Con quelle ripetizioni <strong>di</strong> troppo per cui, in parallelo<br />

al piacere <strong>di</strong> trovare una cifra forte, affiorano anche le<br />

marche <strong>di</strong> certa avant/impro un po’ fuffa. E quin<strong>di</strong> un po’<br />

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hanne hukkelBerG - featherBrain (propeller recor<strong>di</strong>nGS, Marzo 2012)<br />

Genere: avant folk<br />

Influenzata da nuovi ascendenti - Pj Harvey - e assimilabile a un continuum art-folk/in<strong>di</strong>e delle fila pre-war dei 00s<br />

-, Hanne Hukkelberg, nel 2009, ci aveva consegnato Blood For A Stone, un <strong>di</strong>sco che all’intimità e gli incant(esim)i<br />

del passato (leggi Nina Simone, Bjork e Kate Bush) opponeva un presente <strong>di</strong> maggiore compattezza rock.<br />

Dopo un meraviglioso Little Things, pubblicato dall’allora lanciatissima Leaf, perfettamente<br />

nei suoi early 00s tra raffinato modernariato, suoni concreti, orchestrazioni<br />

fai-da-te in delicata infusione tropical-jazz, e un altrettanto significativo Rykestrasse 68<br />

che ne amplificava la vena cinematica e i sapori mitteleuropei (via lieder che ameremo<br />

in Soap & Skin), la norvegese era entrata in una fase <strong>di</strong> contaminazione e misurata<br />

amplificazione. Un percorso speso tra <strong>di</strong>ssonanze e chiaroscuri wave, spigoli rock e<br />

arrotondamenti pop (ve<strong>di</strong> gli applausi al Tramp <strong>di</strong> Sharon Van Etten), ma tutto sommato<br />

lineare e con <strong>di</strong>verse possibilità per il futuro. Avremmo potuto immaginarcela<br />

nei panni blues <strong>di</strong> una Thalia Zedek (o Carla Buzolich) o magari persa in un ritorno alle<br />

origini dominato dal candore islandese e dal dettaglio sonico a cui ci aveva abituati, e invece Featherbrain spiazza<br />

andando oltre gli steccati e i facili riferimenti. E’ un album importante, figlio <strong>di</strong> una maturità che non è il solito tag<br />

tappabuchi da affibbiare alla raccolta <strong>di</strong> canzoni ben prodotte figlie <strong>di</strong> un percorso <strong>di</strong> fragilità in<strong>di</strong>pendenti.Il quarto<br />

lavoro <strong>di</strong> Hanne Hukkelberg affonda in un <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> rock evoluto nel senso più genuino e 70s del termine. Robert<br />

Wyatt non è la prima volta che viene citato in una sua recensione - la formazione jazz è cruciale per entrambi - ma<br />

qui l’accostamento con il maestro afferma una precisa scelta tra umanesimo e avanguar<strong>di</strong>a artistica.<br />

Nulla si crea e nulla si <strong>di</strong>strugge, <strong>di</strong>rebbe il canterburiano: in Too Good To Be Good e The Devils emergono gli scambi<br />

secchi tra ritmo e melo<strong>di</strong>a nor<strong>di</strong>ca che abbiamo già incontrato nei Wildbirds & Peacedrums, in The Bigger Me c’è<br />

evidente la Bjork etno-sensuale <strong>di</strong> Vespertine, eppure niente è fuori dal quadro, dal momento che il segreto non sta<br />

nell’essere impermeabili verso l’esterno ma nel plasmare i mon<strong>di</strong>, passati e presente, che ci circondano.<br />

Rispetto a Little Things, Hanne non fa più dell’eccentricità un vezzo estetico ma un modo per andare a fondo nel<br />

proprio sentire senza tralasciare i giusti arrangiamenti. Da qui una forbice larghissima che comprende le brumosità<br />

e gli arcani tape loop della scuderia Constellation (via Mari Kvien Brunvoll), la psichedelia prog tedesca dei 70s (Can,<br />

Popul Vuh) e i lieder <strong>di</strong> germanicissima memoria (Erik, un duetto con l’ottantenne maestro norvegese Erik Vister),<br />

soprattutto l’esecuzione: quella maestosa della sinfonia aliena The Time And I And What We Make o quella algida e<br />

altissima <strong>di</strong> Noah che nulla ha da invi<strong>di</strong>are alla varie Joanna Newsom, My Brightest Diamond e Josephine Foster.<br />

Featherbrain è folk rock che non conforta, non ammicca e tiene l’ascoltatore a debita <strong>di</strong>stanza. In una parola, opera<br />

d’arte.<br />

(7.4/10)<br />

edoardo Bridda<br />

<strong>di</strong> noia. Ma la pulsazione car<strong>di</strong>aca amniotica e sincopata<br />

<strong>di</strong> New Use for Old Circuits (un titolo che è un manifesto),<br />

la “panoramica su villaggio devastato” (con tamburo e<br />

<strong>di</strong>dgeridoo, strumento quest’ultimo che marca tanti pezzi<br />

dei Dem<strong>di</strong>ke) <strong>di</strong> Mephisto’s Lament, l’industrial scassato<br />

<strong>di</strong> Kommunion e Erosion of Me<strong>di</strong>ocrity, i droni miniaturizzati<br />

<strong>di</strong> Flood Staiwell e Sunrise, il basement come sentito<br />

da fuori - dalla strada - <strong>di</strong> Metamorphosis, la chamber<br />

music (archi severi + sirene caracollanti) <strong>di</strong> Dauerline, i<br />

tre pezzi più “quadrati” e dubsteppie (cigolante e me<strong>di</strong>orientale<br />

Mnemosyne, droning e legnoso Ishmael’s Intent,<br />

quadratissimo, pur nei suoi giochi <strong>di</strong> accento, We<br />

Have Already Died) sono semplicemente suggestivi, oltre<br />

che tecnicamente impeccabili, costruiti con un orecchio<br />

che è soprattutto un occhio cinematografico.<br />

I Dem<strong>di</strong>ke sono oggi la perfetta visione laterale - da insider<br />

che si comportano da outsider (in questo <strong>di</strong>versi dal<br />

pure accostabile, per provenienza geografica e spettro<br />

sonoro, Richard A. Ingram) - sullo Zeitgeist techno-dub<br />

che ha portato al dubstep e meglio ancora a certe atmosfere<br />

dubstep, ricollegandosi in fondo proprio a quella<br />

visione originale che metteva assieme dub e industrial<br />

in ottica soundscape che fu <strong>di</strong> Kevin Martin/The Bug e<br />

del suo Tapping the Conversation.<br />

(7.2/10)<br />

GaBriele Marino<br />

dr. doG - Be the void (anti-, Marzo 2012)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e, rock<br />

A parere <strong>di</strong> chi scrive, Fate (2008) aveva rappresentato<br />

una delle sorprese più gra<strong>di</strong>te che l’in<strong>di</strong>e americano<br />

potesse (ancora?) riservare; questi Dr. Dog - nome da<br />

cibo per cani, come restare insensibili a cotanta cazzonaggine?<br />

- si ponevano idealmente tra l’orgoglio rootsy<br />

<strong>di</strong> Wilco e l’epos accorato <strong>di</strong> My Morning Jacket,<br />

mettendoci <strong>di</strong> loro quel quintale <strong>di</strong> ’60 (Beatles / Kinks<br />

/ Dylan) ripassato nello slack’90 <strong>di</strong>Pavement e compagnia.<br />

Quel gusto per la melo<strong>di</strong>a a presa rapida e per<br />

arrangiamenti che sanno stuzzicare anche il palato più<br />

esigente resta ancora adesso la loro caratteristica più<br />

amabile, anche dopo quello Shame Shame(2010) che<br />

doveva rappresentare il balzo definitivo nell’empireo<br />

del mainstr-in<strong>di</strong>e (in consolle c’era anche Rob Schnapf,<br />

già cospiratore del miglior Elliott Smith) e si invece era<br />

rivelato una mezza delusione.<br />

Be The Void mette definitivamente le cose in chiaro, nel<br />

bene e nel male: la band <strong>di</strong> Toby Leaman e Scott Mc-<br />

Micken fa dannatamente bene quelle due o tre cosine,<br />

e non c’è tanto altro da chiedere o da aspettarsi. Warrior<br />

Man prende i fratelli Davies più sornioni (dalle parti<br />

<strong>di</strong> Apeman o giù <strong>di</strong> lì) e li rimesta in salsa psych; Lonesome<br />

caracolla alla Beck con uno <strong>di</strong> quei ritornelli che non<br />

ti si staccano più dalla testa dopo il primo ascolto; Vampire<br />

ha quell’incedere nevrotico e solenne <strong>di</strong> Dylan & The<br />

Hawks dal vivo nel 1966 (esageriamo, <strong>di</strong>te? Ascoltare<br />

per credere), e in genere ogni episo<strong>di</strong>o ha gli ingre<strong>di</strong>enti<br />

giusti per farsi gustare. Ma l’impressione generale è<br />

quella <strong>di</strong> trovarsi <strong>di</strong> fronte a qualcuno come - ve<strong>di</strong>amo<br />

- gli Spoon, qualcuno a cui tuttavia manca quella scintilla<br />

per arrivare beh, voi sapete dove. Di questi tempi<br />

tocca accontentarsi, <strong>di</strong>te? Più che altro, è come andare<br />

alla bottega <strong>di</strong> fiducia, quella che ancora ha il pane fatto<br />

in casa: certamente <strong>di</strong>verso da quello che compri al<br />

supermercato, e sufficientemente somigliante a quello<br />

della nonna (anche se non ha proprio quel sapore). Dr.<br />

Dog: lo slow food dell’in<strong>di</strong>e pop-rock. Non male come<br />

slogan, eh?<br />

(6.5/10)<br />

antonio puGlia<br />

dry the river - ShalloW Bed (rca, Marzo<br />

2012)<br />

Genere: sta<strong>di</strong>um folk rock<br />

Inglesi ma musicalmente americani, i lon<strong>di</strong>nesi Dry The<br />

River sono il risultato <strong>di</strong> un trend “in<strong>di</strong>e into mainstream”<br />

che ha regalato ai Kings Of Leon un successo clamoroso,<br />

a Band Of Horses, The National e Fleet Foxes<br />

le prime posizioni delle charts e ad Arcade Fire e Bon<br />

Iver i Grammy Awards.<br />

I Dry The River saltano i passaggi e si impongono fin da<br />

subito come possibile definitiva folk-rock (o più generalmente<br />

pop-rock) band per le masse, sulla scia <strong>di</strong> quanto<br />

fatto dai Mumford & Sons: look da fare invi<strong>di</strong>a ai fratelli<br />

Followill e canzoni che sembrano realizzate apposta per<br />

la <strong>di</strong>mensione sta<strong>di</strong>o.<br />

Shallow Bed, prodotto da Peter Katis (Interpol, The<br />

National, The Swell Season...), esce dopo un paio <strong>di</strong><br />

interessanti EP in grado <strong>di</strong> proiettarli <strong>di</strong>rettamente all’interno<br />

della famosa e <strong>di</strong>scussa lista della BBC Sound of<br />

2012. Caratterizzato da una copertina che per quanto<br />

pittorica potrebbe appartenere a qualsiasi temibile modern<br />

rock band americana, Shallow Bed può far leva<br />

su <strong>di</strong> un paio <strong>di</strong> ottimi brani - i già pubblicati Weights &<br />

Measures e No Rest - che sintetizzano in modo chiaro le<br />

peculiarità della band, ovvero crescendo melo<strong>di</strong>ci pieni<br />

<strong>di</strong> pathos - quasi melodrammatici nei toni - che incitano<br />

al canto corale.<br />

La voce <strong>di</strong> Peter Liddle, sempre modulata tra gospel,<br />

wannabe-Jeff Buckley e Hayden Thorpe (Wild Beasts),<br />

è il vero traino del <strong>di</strong>sco, ma viene lasciato grande spazio<br />

anche ai - tanti - strumenti ben stratificati ed inseriti<br />

come se si volesse sempre enfatizzare il lato emozionale.<br />

Ne è un esempio Lion’s Dens, che sul finale esplode in<br />

una apoteosi incen<strong>di</strong>aria <strong>di</strong> assoli chitarristici, archi, fiati<br />

e possente drumming. Laddove i toni si fanno invece<br />

maggiormente acustici (Shaker Hymns, Shield Your Eyes,<br />

History Book e in parecchi fraseggi pre-climax ) aleggia<br />

lo spettro arpeggiante dei Fleet Foxes e dei tornati attuali<br />

Crosby, Stills, Nash & Young.<br />

Fino ad oggi, Shallow Bed compreso - nonostante il<br />

gran<strong>di</strong>ssimo potenziale sia espresso solo a tratti - i Dry<br />

The River hanno astutamente seguito passo per passo<br />

il manuale per arrivare al grande successo. Ora la palla<br />

passa al pubblico.<br />

(7/10)<br />

riccardo zaGaGlia<br />

eBo taylor - appia kWa BridGe (Strut<br />

recordS, aprile 2012)<br />

Genere: afrobeat<br />

Per la sua terza uscita “internazionale” dopo il Life and<br />

Death della scoperta e la retrospettiva Life Stories, la<br />

76enne leggenda dell’afrobeat ghanese Ebo Taylor <strong>di</strong>chiara<br />

<strong>di</strong> voler mantenere “a highlife feeling”, dove l’highlife<br />

è l’altro suo genere <strong>di</strong> riferimento.<br />

L’affermazione non implica grosse rivoluzioni nel suono<br />

che lo ha reso celebre: questo feeling si esplicita solo<br />

nei due pezzi chitarra e voce, il vivace standard Yaa Amponsah<br />

e la toccante, conclusiva Barrima de<strong>di</strong>cata alla<br />

60 61


moglie scomparsa.<br />

Per il resto, sempre con la complicità dell’ormai rodatissima<br />

Afrobeat Academy e con l’ospitata <strong>di</strong> Tony Allen,<br />

il <strong>di</strong>sco ripropone i groove sudati e irresistibili cui ci ha<br />

abituato il nostro, quella variante <strong>di</strong> afrobeat con la chitarra<br />

al centro che potrebbe erroneamente indurre a<br />

pensare che Fear Of Music venisse da qui e non da Fela<br />

Kuti: tra rielaborazioni <strong>di</strong> canti per bambini (la nursery<br />

rhyme Kruman Dey già incisa decenni fa), originali<br />

(Abonsam, la title-track) e vecchie canzoni della tra<strong>di</strong>zione<br />

Fante (o Fanti, l’etnia che vive sulla costa ghanese e<br />

che ha espresso anche Kofi Annan) come Ayesama, proveniente<br />

dalle sessioni del <strong>di</strong>sco scorso, Taylor continua<br />

a inglobare le tra<strong>di</strong>zioni in un suono la cui freschezza<br />

nasconde la sua pluridecennale età. Che in pratica è<br />

quello che succede per l’autore.<br />

(7.3/10)<br />

Giulio paSquali<br />

eStelle - all of Me (Warner MuSic Group,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: r’n’b, nu-soul<br />

Se hai al tuo attivo un megasuccesso come American<br />

Boy, fatto insieme a una macchina dell’hype come Kanye<br />

West, ve<strong>di</strong> tutto sotto una luce <strong>di</strong>versa: un grammy<br />

per miglior canzone rap/cantata, una nomina per miglior<br />

pezzo dell’anno, inserita tra i 500 brani del decennio<br />

da Pitchfork e trasmessa su ogni ra<strong>di</strong>o del pianeta,<br />

insomma uno <strong>di</strong> quei colpi che ti capitano una sola volta<br />

nella vita (a meno che non ti chiami Michael Jackson o<br />

Madonna). Poche ipocrisie, quell’estate del 2008 è stata<br />

per Estelle la migliore delle polizze assicurative contro<br />

gli insuccessi a venire. Da allora sarebbe bastato ripetere<br />

quella stessa formula mainstream festosa per avere ogni<br />

strada spianata, e dopo la One Love con David Guetta<br />

(che era stata pensata proprio come singolo <strong>di</strong> punta<br />

dell’album successivo) il futuro della cantante <strong>di</strong> origini<br />

lon<strong>di</strong>nesi sembrava già scritto.<br />

E invece no. One Love rimane una release secondaria,<br />

come anche Freak e la Fall In Love fatta insieme alla vecchia<br />

conoscenza John Legend, e All Of Me ci ripresenta<br />

una Estelle che mette da parte le paillette e torna ad<br />

essere la signora r’n’b che era prima, con un <strong>di</strong>sco morbido<br />

e leggero che vuol soprattutto essere piacevole<br />

all’ascolto invece che esplosivo. L’album ha più <strong>di</strong> un<br />

pregio e riesce a rappresentare le <strong>di</strong>verse potenzialità<br />

black&white della ragazza, aprendo con due tracce decise<br />

come The Life (più Missy Elliott che Mary J. Blige)<br />

e International (quella sullo sfondo è piena aggressività<br />

dub) e chiudendo nel segno del pop con l’estivissima<br />

Back To Love (Lady Gaga sì ma senza trucco), Speak Ya<br />

Mind (<strong>di</strong> nuovo Freak Like Me, stavolta su un rap a due<br />

velocità) e la funkissima Do My Thing con l’altra peperina<br />

Janelle Monáe.<br />

Bastava questo piglio frizzante e sbarazzino a far <strong>di</strong> All Of<br />

Me un <strong>di</strong>sco più che valido, ma non basta: il bello dell’album<br />

è una parte centrale dal mood vellutato, con tanto<br />

soul-nu-soul e una certa aria da rilassamento acid-jazz<br />

preserale. Saranno anche meno pop (e non è neanche<br />

vero, ve<strong>di</strong> Love The Way We Used To) ma i colpi migliori<br />

son proprio quelli, Cold Crush e la sua anima r’n’b nera,<br />

Break My Heart, Rick Ross e la <strong>di</strong>cotomia soul-rap classica<br />

ma sempre efficace, il tramonto malinconico <strong>di</strong> Thank<br />

You e il risveglio assolato <strong>di</strong> Wonderful Life. E allora significa<br />

che Estelle è tornata alla sostanza e non vuole<br />

essere solo l’ennesima faccia fugace del baraccone Mtv.<br />

C’è chi al mainstream cede e chi ne prende le <strong>di</strong>stanze<br />

nonostante ce l’avrebbe ai pie<strong>di</strong>. Il carattere vale più <strong>di</strong><br />

sol<strong>di</strong> e successo.<br />

(7.1/10)<br />

carlo affatiGato<br />

flaShGunS - paSSionS of a <strong>di</strong>fferent kind<br />

(huMMinG recordS, Marzo 2012)<br />

Genere: pop-rock<br />

Per tutti gli orfani dei primi The Killers (il singolo Passions<br />

of A Different Kind) e dell’in<strong>di</strong>e più sincero - quello<br />

<strong>di</strong> gruppi obliqui e formidabili come Desaparecidos e<br />

Jim Yoshii Pile-Up -, ma anche il <strong>di</strong>sco che avrebbero<br />

fatto i Kane con meno pianoforte e più ispirazione. Un<br />

esor<strong>di</strong>o fresco, pieno <strong>di</strong> melo<strong>di</strong>e intense e solari, a <strong>di</strong>mostrazione<br />

<strong>di</strong> come anche le tendenze più inflazionate<br />

siano in grado <strong>di</strong> rinascere dalle proprie ceneri, se chi<br />

ci rimette le mani ha l’intelligenza e la personalità per<br />

estrapolare l’oggetto d’arte dal proprio contesto storicosocial-culturale.<br />

Comunque, il giovane trio lon<strong>di</strong>nese padroneggia chitarre<br />

e forma canzone e impila <strong>di</strong>eci pezzi da bere tutti<br />

<strong>di</strong> un fiato, per poi ripartire con un secondo giro. In<strong>di</strong>e<br />

bello e buono, se vi piace pensarla così, oppure semplicemente<br />

pop-rock dopo il punk, con un occhio agli<br />

ottanta inglesi, e un piede nella West Coast. A caratterizzarne<br />

il suono sono <strong>di</strong>storsioni lisce e scivolose come<br />

ceramica, armonie aperte e una produzione che trova<br />

nella spazialità la chiave <strong>di</strong> volta per fare musica da classifica<br />

senza darlo a troppo a vedere (No Point Hanging<br />

Around). E poi quella capacità molto british (ve<strong>di</strong> Maximo<br />

Park) <strong>di</strong> virare atmosfera, passando nel giro <strong>di</strong> un<br />

riff dalla coolness ritmata e un po’ scazzata <strong>di</strong> una strofa,<br />

alla estrema melo<strong>di</strong>osità dell’inciso che segue.<br />

(7.1/10)<br />

antonio laudazi<br />

Julia holter - ekStaSiS (rvnG intl., Marzo 2012)<br />

Genere: avant-pop<br />

Che cos’è l’estasi, quel sentimento religioso che ha caratterizzato la ricerca spirituale <strong>di</strong> migliaia <strong>di</strong> monaci me<strong>di</strong>evali?<br />

A sentire la conclusiva This Is Ekstasis, la risposta <strong>di</strong> Julia Holter sembra essere un trasporto rituale che si<br />

incastra tra l’ambient, l’avant cameristico, il drone psichedelico, la new age, il free form e un uso isolazionista della<br />

tecnologia. Ma il risultato è ben lungi dall’essere un credo inaccessibile. Tutt’altro: il lato<br />

più efficace della seconda prova sulla lunga <strong>di</strong>stanza per la compositrice californiana<br />

è il suo essere perennemento in bilico tra alto e basso, tra fuga in avanti e capacità <strong>di</strong><br />

essere sempre decifrabile.<br />

Ispirato da oscuri e non meglio precisati manoscritti me<strong>di</strong>evali, Ekstasis è un’indagine<br />

senza confini nell’atmosfera e nell’evocazione, in gioco <strong>di</strong> specchi che fa sembrare tutto<br />

<strong>di</strong>verso ma uguale. Prendete l’intreccio <strong>di</strong> linee vocali <strong>di</strong> Marienband: un attimo sembra<br />

<strong>di</strong> sentire Enya, ma ad ascoltare meglio ci si trova dentro una Laurie Anderson meno<br />

cerebrale, ma anche una Nico appena un po’ meno ieratica. Altrove intreccia droni con<br />

bozzetti camerisitici (Für Felix) o altere percussioni Eighties con field recor<strong>di</strong>ng e un coro angelico (Our Sorrows,<br />

con in coda un omaggio mascherato ai Kraftwerk). L’incedere clau<strong>di</strong>cante <strong>di</strong> Moni Mon Amie è un viaggio in un<br />

folk reso sintetico, come <strong>di</strong> un bosco <strong>di</strong> bit e Fender Rhodes. In The Same Room sembra un outtake da un qualsiasi<br />

<strong>di</strong>sco synth <strong>di</strong> fine Ottanta, ma è carica <strong>di</strong> riman<strong>di</strong> a Robert Wyatt. Non v’è mai un approdo definitivo e Julia Holter<br />

preferisce svicolare dalla struttura strofa-ritornello-strofa, ma nonostante i continui scarti, ogni brano ha più che<br />

abbondante personalità per rimanere impressi, più che nella mente, nella sfera del sentimento.<br />

A <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Julianna Barwick, altra indagatrice contemporanea <strong>di</strong> suoni sintetici e atmosfere magiche, la forza<br />

romatica ed espressionista della Holter la pone al riparo da ari<strong>di</strong> inviluppi cerebrali e si <strong>di</strong>spiega in <strong>di</strong>eci affreschi<br />

senza tempo.<br />

(7.4/10)<br />

Marco BoScolo<br />

fnu ronnieS - Saddle up (load recordS,<br />

feBBraio 2012)<br />

Genere: noise punk<br />

I FNU Ronnies sono stati un gruppo minore <strong>di</strong> quella<br />

che ormai tre anni fa fu la cosiddetta scena shit-gaze/<br />

weird-punk; minore più per l’offerta <strong>di</strong>scografica che<br />

per meriti musicali (le coor<strong>di</strong>nate <strong>di</strong> sotto-sotto-genere<br />

c’erano tutte). Davvero risicate infatti le pubblicazioni<br />

del trio statunitense: un paio <strong>di</strong> tapes, un 7 pollici e l’ottimo,<br />

<strong>di</strong>sturbante 12 one-sided Golem Smoke.<br />

Oggi che, a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> più <strong>di</strong> due anni, la moda ultra<br />

lo-fi è scemata, ecco i nostri scriteriati amici degnarsi <strong>di</strong><br />

pubblicare il primo full, e niente meno che con la rumorosissima<br />

Load <strong>di</strong> Providence. E non poteva che essere<br />

l’etichetta artefice <strong>di</strong> uno dei sound più urticanti delle<br />

ultime deca<strong>di</strong> ad assumersi l’onere <strong>di</strong> promuovere un<br />

gruppo così dannatamente loser. Perdente perché fuori<br />

tempo massimo rispetto alle effimere mode dell’underground.<br />

Destinati all’oblio perché provvisti del nome<br />

più improbabile e arduo da ricordare e perché saturi <strong>di</strong><br />

cattivo gusto e <strong>di</strong> quella ultra sporcizia sonora che, se<br />

non supportata dall’hype <strong>di</strong> stagione, rende tutto più<br />

ostico e claustrofobico.<br />

E così è la musica - se il termine non vi offende - <strong>di</strong> Saddle<br />

Up: volgare e sboccata, cacofonica e <strong>di</strong>ssonante, <strong>di</strong>storta<br />

e fasti<strong>di</strong>osa. Come dei Chrome reci<strong>di</strong>vi dopo anni<br />

<strong>di</strong> scorribande o degli Human Eye senza perizia tecnica<br />

e gusto accademico. Roba pericolosa insomma, che se<br />

mancherà il suo obiettivo, cioè procurarvi un sano conato<br />

<strong>di</strong> rigetto, è solo perché con tutta probabilità passerà<br />

sottotraccia, oscurata dai <strong>di</strong>schi <strong>di</strong> più morigerate e<br />

convenzionali band alternative. Per il resto, meglio tar<strong>di</strong><br />

che mai.<br />

(6.9/10)<br />

andrea napoli<br />

funk police - hot We are, funk We play<br />

(avant!, Gennaio 2012)<br />

Genere: funk bianco<br />

Se la polizia avesse il suono <strong>di</strong> questi tre squilibrati francesi,<br />

sarebbe sicuramente più simpatica a molti. Coi<br />

Funk Police succede, infatti, un po’ quello che è successo<br />

con gli Extra Classic o con gli Swahili Blonde <strong>di</strong> Psycho<br />

Tropical Ballet Pink, ossia la riesumazione del post-punk<br />

62 63


77ino inglese, solo che se lì a venire messa in evidenza<br />

era la parte nera e dub, qui a venire esaltata è l’anima<br />

bianca, sghemba e dancehall oriented. Se lì si andava<br />

<strong>di</strong> bassi, dub e melo<strong>di</strong>e vocali sfatte, insomma, qui si<br />

procede <strong>di</strong> chitarre, no-wave e ritmiche insistite.<br />

Un po’ alla maniera dell’effimera stagione del p-funk, ma<br />

con una certa attitu<strong>di</strong>ne demistificatoria, assatanata e<br />

isterica, Guillaume (AH Kraken, Feeling of Love), Nafi<br />

(The Anals, The Dreams, Scorpion Violente) e Thierry<br />

(Flowers Of Darmstadt, Dust Breeders) - tutti membri<br />

<strong>di</strong> quell’accolita <strong>di</strong> folli che va sotto il nome <strong>di</strong> Grande<br />

Triple Alliance Internationale De L’Est - buttano sangue e<br />

sudore in un vorticoso full-length tanto groovey quanto<br />

tagliente.<br />

Le reiterazioni <strong>di</strong> Red Blood Black Boobs <strong>di</strong>cono <strong>di</strong> certe<br />

tendenze a sporcarsi col noise newyorchese d’inizi ’90<br />

così come quelle <strong>di</strong> You Always Win e Back Inside You <strong>di</strong><br />

una certa affinità con l’ossessività paranoide del whitefunk<br />

inglese, con le chitarre sempre lì, pronte a incidere<br />

il corpo danzante affilate come stiletti. Il tropicalismo<br />

funkettone <strong>di</strong> Sugar, quello poliritmico <strong>di</strong> Sorry Angel e<br />

quello orgiastico semi-voodoo <strong>di</strong> Coco Dance, dell’amore<br />

per il continente nero, mentre l’aggressività palese <strong>di</strong><br />

Why Do I Always Have To Live denuncia la provenienza<br />

noise-garageosa meglio <strong>di</strong> una cartina <strong>di</strong> tornasole. Mischiando<br />

il tutto, isteria e groove da urlo, chitarre lancinanti<br />

e vocalità paranoide, flash forward tra un passato<br />

reale (Talking Heads, Contortions, Pop Group e compagnia<br />

suonante), uno fittizio (i revivalismi p-funk) e un<br />

presente grigio e irresistibile: quello dei Funk Police.<br />

(7/10)<br />

Stefano pifferi<br />

future of the left - polyMerS are forever<br />

(xtra Mile recor<strong>di</strong>nGS, noveMBre 2011)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e<br />

Poche ma sostanziali novità in questo mini-lp per i Future<br />

Of The Left. La band degli ex McLusky Andy Falkous e<br />

Jack Egglestone ritorna sui luoghi dei delitti precedenti,<br />

ossia a quel rock <strong>di</strong>storto, tondo, pronto allo sberleffo<br />

e al sudore con 6 tracce che caratterizzava Curses e<br />

Travels With Myself And Another con una uscita che ora<br />

anticipa il nuovo lavoro The Plot Against Common Sense.<br />

I gallesi masticano bene il genere ma non <strong>di</strong>sdegnano<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>segnare traiettorie se non ine<strong>di</strong>te, per lo meno in<br />

grado <strong>di</strong> assestare verve e linfa nuova al già sostanzioso<br />

suono. Gli stop’n’go specialità della casa si mischiano al<br />

synth nell’iniziale title track mentre il cantato è insieme<br />

anthemico e scazzato; l’irascibilità noise-rock cresce<br />

dopo esser stata trattenuta in tensione quasi pneumatica<br />

(Dry Hate); la voglia <strong>di</strong> non prendersi sul serio pur<br />

essendoci si manifesta in una My Wife Is Unhappy ricalcata<br />

sulla California Uber Alles dei Dead Kennedys ma<br />

trasformata in una ipnotica bassa battuta inquietante e<br />

scanzonata; l’eclettismo contamina destroywhithchurch.<br />

com (che avranno contro il quartiere della natia Car<strong>di</strong>ff<br />

non è dato sapere), una specie <strong>di</strong> suite in 6 minuti che<br />

dall’aggro-punk iniziale passa per un crescendo noiserock<br />

acido e rancoroso e giunge ad una versione minimal<br />

del suono <strong>di</strong> Louisville. Completano il pacchetto<br />

la naiveté cabarettistica <strong>di</strong> New Adventures e la solita<br />

schizofrenia punk-noise con una New Apologies To Emily<br />

Pankhurst che trasuda ossessione e catchyness.<br />

Roba che, non si sa bene per quale esatto motivo, fa<br />

pensare ai Future Of The Left come ai più degni epigoni<br />

dei Kennedy morti del periodo migliore, pur se privi<br />

della caustica lingua <strong>di</strong> Biafra.<br />

(7/10)<br />

Stefano pifferi<br />

GarBo - la Moda (<strong>di</strong>Scipline, feBBraio<br />

2012)<br />

Genere: wave-cantautorato<br />

La “moda” come metafora dell’omologazione, confine<br />

entro il quale tutto rimane preve<strong>di</strong>bile e standar<strong>di</strong>zzato.<br />

A cui contrapporre, magari, una parabola artistica lunga<br />

e articolata, trent’anni <strong>di</strong> carriera - quelli <strong>di</strong> Renato Abate<br />

in arte Garbo - passati zigzagando tra premi della critica<br />

a Sanremo e la new wave come primo amore, ipotetici<br />

alter ego degli amati anni Ottanta (un tempo Franco<br />

Battiato e Antonella Ruggiero, ora Morgan, Lele Battista,<br />

i Soerba) e percorsi cantautorali sui generis. Senza<br />

<strong>di</strong>menticare il lavoro come <strong>di</strong>scografico per la Discipline,<br />

etichetta autogestita in con<strong>di</strong>visione con Alberto Styloo<br />

e il Luca Urbani qui co-autore nonché co-produttore.<br />

Se il precedente Come il vetro concludeva la trilogia<br />

cromatica avviata con Blu e portata avanti con Gialloelettrico,<br />

il qui presente La moda rappresenta un po’ il<br />

fare il punto della situazione per un artista ormai maturo<br />

e perfettamente a suo agio. Temi e stili che ritornano<br />

come gli inevitabili Depeche Mode (Quando cammino<br />

02), ma anche un’attitu<strong>di</strong>ne cantautorale che pur<br />

nell’autocitazione infinita <strong>di</strong> new wave (La moda) ed<br />

Eightes al sintetizzatore, riesce a produrre musica ancora<br />

interessante e non lontana dal concetto <strong>di</strong> pop.<br />

A sdoganare presso il grande pubblico certe vocalità<br />

profonde e blasé à la David Bowie hanno pensato recentemente<br />

i Baustelle, eppure Garbo non esita a dare<br />

una propria lettura della materia (Sexy), tra sax eccitati,<br />

testi seriosi e chitarre elettriche senza sbavature. Per poi<br />

cedere in <strong>di</strong>rittura d’arrivo a un programming languido<br />

(Metà cielo) e a rea<strong>di</strong>ng vicini all’ambient (Architettura<br />

luca venitucci - interStizio (BriGa<strong>di</strong>Sco recordS, Marzo 2012)<br />

Genere: avant-folk<br />

Per certi versi affine all’osannato lavoro dell’americano Colin Stetson New History Warfare, Interstizio <strong>di</strong> Luca<br />

Venitucci non solo sembra possederne lo spirito avanguar<strong>di</strong>stico, iconoclasta e <strong>di</strong> rottura, ma ad<strong>di</strong>rittura ne supera<br />

in “weirdness” la <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> ricerca. Un po’ alla maniera del Bill Orcutt in solo apprezzato negli ultimi lavori A<br />

New Way To Pay Old Debts e How The Things Sings, con gli ovvi <strong>di</strong>stinguo legati<br />

alle <strong>di</strong>verse provenienze e background, il musicista italiano già Ossatura, Ardecore e<br />

quant’altro, porta allo stremo il proprio strumento.<br />

In questo caso, uno strumento molto poco “rock” come può essere la fisarmonica,<br />

viene da Venitucci trasfigurato in una <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> alterità ra<strong>di</strong>cale. È un mondo<br />

sonoro totalmente altro quello che fuoriesce dai tasti dello strumento. Dotato <strong>di</strong> una<br />

sensibilità interiore notevole e <strong>di</strong> capacità <strong>di</strong> sintesi tra mon<strong>di</strong> in apparenza lontani,<br />

lo sperimentalismo più avant e la tra<strong>di</strong>zione che <strong>di</strong>remmo folk, Venitucci inanella una<br />

serie <strong>di</strong> piccoli gioielli che spaziano tra circensi malinconie Felliniane passate al setaccio<br />

dalla Amelie <strong>di</strong> Tiersen (La Ruota) a struggenti evoluzioni quasi noisy (Rivolo), revisioni “tanguere” (Bramborak) e<br />

percussivismo materico virato ancestralità (Bite), <strong>di</strong>stensioni ambient-avanguar<strong>di</strong>stiche estatiche e quasi droning<br />

(Primo Barlume, Sups And Silence) e malinconie da ballo alla festa <strong>di</strong> paese (Frottoir) e molto altro ancora. Perché<br />

il senso profondo <strong>di</strong> Interstizio è proprio in ciò che in<strong>di</strong>ca il suo titolo. Spazio tra canoni, impercettibile ai più ma<br />

evidente e coeso. Luogo minimo <strong>di</strong> separazione tra universi, tra corpi e sensibilità, tra un fuori evidente e un dentro<br />

indefinibile. Tra linguaggi comuni e intelligibili e applicazione trasfigurata dall’interiorità <strong>di</strong> ognuno. È folk, è<br />

tra<strong>di</strong>zione, è mutamento. Chapeau.<br />

(7.7/10)<br />

Stefano pifferi<br />

Mig). Ha la soli<strong>di</strong>tà dell’esperienza, questo La moda. Un<br />

<strong>di</strong>sco razionale, a suo modo rassicurante e volontariamente<br />

fuori dal tempo. Con tutti i pro e i contro del caso.<br />

(6.6/10)<br />

faBrizio zaMpiGhi<br />

GentleSS3/la Moncada - in the kennel vol.<br />

1 (GoatMan, Marzo 2012)<br />

Genere: post blues rock<br />

L’etichetta piemontese GoatMan Records ha avuto l’idea<br />

<strong>di</strong> organizzare una serie <strong>di</strong> “incontri in stu<strong>di</strong>o” con lo scopo<br />

<strong>di</strong> pubblicare cinque split album entro il 2012 per<br />

una serie denominata In The Kennel (se volete una sorta<br />

<strong>di</strong> versione nostrana dei celebri In The Fishtank della<br />

Konkurrent). Stretta perciò partnership con la siracusana<br />

Barbie Noja, al Blue Rec Stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Mondovì si sono<br />

dati appuntamento i cuneesi La Moncada ed i siciliani<br />

Gentless3, protagonisti <strong>di</strong> un ep che li vede coverizzarsi<br />

reciprocamente nonché dare vita a due pezzi ine<strong>di</strong>ti.<br />

Buoni i risultati in entrambe le situazioni: se Rabbia Killer<br />

viene condotta dalla band <strong>di</strong> Carlo Natoli tra scorie For<br />

Carnation, cantautorato cinematico Benvegnù e tremori<br />

scuri Nick Cave, tra le mani <strong>di</strong> Mattia Calvo e soci On<br />

Busting The Sound Barrier s’avvampa <strong>di</strong> febbre noir dEUS,<br />

apprensione adrenalinica Slint e ugge melò Black Heart<br />

Procession.<br />

I pezzi nuovi si aggirano a latitu<strong>di</strong>ni sfalsate su territori<br />

blues psych così <strong>di</strong>versi così affini, dalla psicosi arty <strong>di</strong><br />

Murmur (doppia coppia chitarre e batterie, hammond<br />

sfrigolante e il basso come un pendolo, cori sparsi da<br />

pirati fantasma) a quella I numeri che si permette critica<br />

socioeconomica senza retorica tra asprezze battenti<br />

Cesare Basile e bava acida che strizza in un abbraccio<br />

solo Unwound, John Martyn e persino i Doors. Atmosfera<br />

d’intensità nutritiva, i musicisti decisi ad andare fino<br />

al cuore della faccenda senza pose né ansia d’inau<strong>di</strong>to.<br />

Buona, molto buona la prima.<br />

(7.2/10)<br />

Stefano Solventi<br />

GrinderMan - GrinderMan 2 rMx (Mute,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: roots & remixes<br />

Col passare degli anni, entrando nell’età adulta, si impara<br />

molto: si impara a <strong>di</strong>ffidare degli estranei, a non<br />

pre-or<strong>di</strong>nare vinili, ad evitare le reunion, a <strong>di</strong>ffidare degli<br />

adattamenti sia cinematografici che videolu<strong>di</strong>ci e<br />

soprattutto a non deporre troppe speranze nei remix<br />

64 65


album. Naturalmente esistono le dovute eccezioni ma<br />

Grinderman 2 RMX non è tra queste. Col senno <strong>di</strong> poi<br />

non ci si poteva aspettare molto. Alla fine Grinderman<br />

è sempre sembrata una band che se l’è giocata tutta sui<br />

nomi-del-padre, con quel Nick Cave che prometteva<br />

allo stesso tempo un passo avanti ed uno in<strong>di</strong>etro verso<br />

le ra<strong>di</strong>ci. Un rifarsi al rock che è Il Rock con le maiuscole,<br />

con wah wah e shreddate, che non è nemmeno nostalgia<br />

o retromania, ma semplice astrazione, quel rock che<br />

esiste solo nelle air-band o Wayne’s World.<br />

Ci sarebbe anche da domandarsi, ancora una volta, il<br />

senso <strong>di</strong> un album <strong>di</strong> remix rock, del volerlo unire con<br />

l’elettronica proprio dopo il decennio in cui questa si è<br />

liberata del suo stato <strong>di</strong> minorità e non è più in cerca <strong>di</strong><br />

legittimazioni (tutte le mie ragazze ascoltano techno)<br />

o nel momento in cui le nuove generazioni che bussano<br />

alla porta, cresciute a screamo e hardcore, iniziano<br />

a cercare la musica dei loro vent’anni tra generi ben più<br />

estremi. Con queste premesse i risultati non possono<br />

che essere datati. La formula è quella dell’incontro a<br />

metà strada tra il rimbombo della big beat e l’esotismo<br />

<strong>di</strong> sample oscuri su cui incollare, alternando, o la voce<br />

<strong>di</strong> Nick Cave o alcuni dei suoi riff. L’unica nota <strong>di</strong> merito<br />

va ai SixToes che si <strong>di</strong>stinguono per quella che è la<br />

vera gemma del <strong>di</strong>sco, una complessa ballata <strong>di</strong> archi<br />

ed arabismi che sottilmente si muove verso un folk melanconico<br />

e scuro. Ma oltre a qualche sorpresa qua e là,<br />

l’intero album potrebbe benissimo essere una collezione<br />

dei peggiori b-side dei Chemical Brothers, ai tempi<br />

Surrender, e Dj Shadow.<br />

Quello che resta sono nomi, tanti nomi, nomi eccellenti<br />

come Fripp, UNKLE, Nick Zinner and A Place to Bury<br />

Strangers, nomi che faranno battere il cuore a qualche<br />

rockist ma che ai più scafati puzzeranno solo <strong>di</strong> zolfo e<br />

<strong>di</strong>partimento marketing.<br />

(5.5/10)<br />

antonio cuccu<br />

Guano padano - 2 (treMoloa, Marzo 2012)<br />

Genere: Guano padano<br />

La buona notizia è che 2 riprende il <strong>di</strong>scorso - stilistico,<br />

d’approccio formale e tecnico - <strong>di</strong> Guano Padano (Important,<br />

2009), l’album con il quale Alessandro Stefana,<br />

Zeno De Rossi e Danilo Gallo avevano stupito e<br />

aggregato in un coro un’anime pubblico e critica, avvinti<br />

dalla suggestiva naturalezza con cui sapevano aggirarsi<br />

tra landscapes (post) morriconiani e balcanismi inafferrabili<br />

Capossela. Spazio dunque alla loro miscela <strong>di</strong><br />

profumi, tanto riconoscibili le essenze quanto peculiare<br />

la calligrafia. La loro forza è nella cementificazione, nel<br />

modo <strong>di</strong> operare libero da schematismi e preconcetti<br />

che sviluppa trame <strong>di</strong>sinvolte, tese al raggiungimento <strong>di</strong><br />

connotati emozionali dal sapore agrodolce, in equilibrio<br />

tra tensione e rilascio.<br />

Siamo in terra <strong>di</strong> confini facilmente travalicabili, dal momento<br />

che ci si sposta dalle calde atmosfere western <strong>di</strong><br />

Zebulon - riba<strong>di</strong>te a più riprese, come nei torri<strong>di</strong> tramonti<br />

descritti in El Coyote - agli inneschi pulpfictioniani <strong>di</strong><br />

Gran Bazaar, fino a raggiungere un oriente inaspettato<br />

e tradotto in maniera ispirata in Miss Chan, dalla quale<br />

arrivano le rasoiate fulminee <strong>di</strong> Marc Ribot. In tutto<br />

questo c’è del jazz - inteso come stato <strong>di</strong> formale libertà<br />

creativa - e delle venature bluesy che a tratti si fanno più<br />

evidenti, come in Nashville.<br />

Che non si trascuri la virata nelle acque melmose <strong>di</strong><br />

Lynch, brano che rimanda agli andamenti cari ai Portishead<br />

e a tutto quello li circonda, e si presti la giusta<br />

attenzione agli inferi vocali <strong>di</strong> Mike Patton nella spigolosa<br />

Prairie Fire, passaggio obbligato per arrivare a comprendere<br />

una modalità operativa capace <strong>di</strong> prendersi<br />

tutti i rischi possibili, senza sconti né scorciatoie. Come<br />

può permettersi chi possiede la giusta quota <strong>di</strong> talento<br />

e sensibilità. Ancora una volta, bravi.<br />

(7.2/10)<br />

roBerto paviGlianiti<br />

hiS clancyneSS - alWayS MiSt reviSited<br />

(Secret furry hole, Marzo 2012)<br />

Genere: dream pop<br />

Jonathan Clancy prima degli A Classic Education era<br />

già Sua Clancytà, ex chitarrista dei Settlefish nonché<br />

autore <strong>di</strong> tracce sparse, <strong>di</strong>ffuse nelle due modalità <strong>di</strong>stributive<br />

più antitetiche possibile in questo frangente<br />

storico, au<strong>di</strong>ocassette da un lato e free download<br />

dall’altro. Un paio d’anni fa decise <strong>di</strong> raccogliere in un<br />

nastrino tutte queste derive, lo intitolò Always Mist e gli<br />

de<strong>di</strong>cammo adeguata recensione. Oggi, irrobustita con<br />

tutti i meriti del caso l’autorevolezza del personaggio<br />

quale riferimento dell’in<strong>di</strong>e alternativo più raffinato ed<br />

open-minded, il felsineo canadese decide <strong>di</strong> ripubblicare<br />

in formato espanso (“revisited”, tanto per ribattere<br />

sul tasto dylaniano) quella palpitante cassettina. I pezzi<br />

<strong>di</strong>ventano se<strong>di</strong>ci e svariano tra languori dreamy e ugge<br />

post-wave con la sagacia trepida ed elusiva che abbiamo<br />

imparato a conoscere.<br />

Al <strong>di</strong> là dell’immaginario Sarah Records oriented - le<br />

caligini smerigliate, le vampe sonnacchiose, il tumulto<br />

madreperla - s’intravedono in filigrana gli affluenti stilisistici<br />

che strutturano la calligrafia, ve<strong>di</strong> i Beach Boys<br />

stampati su un foglio accartocciato in Vampire Summer,<br />

il Brian Eno trasognato Hidden Cameras <strong>di</strong> Sight Prayer<br />

o le Ronettes in ammollo nell’acquario amniotico M<br />

M Ward - a WaSteland coMpanion (MerGe, aprile 2012)<br />

Genere: folk blues<br />

Lo shobiz ci riserva spesso ironie <strong>di</strong> questo genere. Del tipo: musicista <strong>di</strong> vaglia con alle spalle un repertorio <strong>di</strong> prima<br />

categoria ottiene il meritato successo grazie ad un piacionesco progetto laterale. Infatti Volume Two degli She And<br />

Him - duo allestito da M Ward assieme all’attrice, modella e cantante Zooey Deschanel - ha saputo arrampicarsi<br />

fino ad una ragguardevole sesta posizione nelle charts USA, che significa un bel po’ <strong>di</strong><br />

sol<strong>di</strong> e notorietà. Ora, massimo rispetto per il pop retrò della coppia, un mix davvero<br />

azzeccato <strong>di</strong> imme<strong>di</strong>atezza, entusiasmo e cura quasi filologica del dettaglio vintage,<br />

ma da solista il buon Matthew Stephen Ward ha fatto ben altro, e che ve lo <strong>di</strong>co a fare.<br />

Mai un album meno che buono dal ‘99 ad oggi, uno ogni biennio circa, con picchi <strong>di</strong><br />

eccellenza come Transfiguration Of Vincent (2003) ed il penultimo Hold Time (2009).<br />

Trend puntualmente confermato dal qui presente A Wasteland Companion, che a<br />

ben vedere compie l’ennesimo piccolo miracolo <strong>di</strong> reiterare la calligrafia senza sembrare<br />

ripetitivo, anche perché adempie il compito alzando <strong>di</strong> un’altra tacca il livello <strong>di</strong><br />

raffinatezza, senza con ciò rinunciare al gusto dell’imme<strong>di</strong>atezza ruspante e un po’ grossolana. Ve<strong>di</strong> Primitive Girl,<br />

boogie impastato <strong>di</strong> flemma amarognola e fracassona, come un teatrino liberatorio e poco alcolico o se preferite<br />

una versione sgranata dei New Pornographers, un po’ la stessa aria che si respira nel siparietto onirico fifties - un<br />

Roy Orbison strattonato Plastic Ono Band - <strong>di</strong> Sweetheart, con la sodale Zooey a fare un po’ la Neko Case della<br />

situazione. Pezzi che sembrano sgomitare per farsi largo attraverso le strade invisibili della <strong>di</strong>ffusione ra<strong>di</strong>ofonica,<br />

essendo come è noto la ra<strong>di</strong>o elemento centrale del co<strong>di</strong>ce Ward, il quale sembra quasi progettare <strong>di</strong>schi immaginandoli<br />

nel momento esatto in cui sbocciano dall’airplay nelle case. Regalando un brivido, una vibrazione, una<br />

<strong>di</strong>strazione, il soffio <strong>di</strong> una magia incomprensibile che ti resta addosso come un’ombra buona.<br />

Ed ecco spiegato questo carosello <strong>di</strong> canzoni, delicate e baldanzose, ciondolanti e accorate, dal cipiglio acidulo<br />

Giant Sand <strong>di</strong> Watch The Show all’acquerello gospel <strong>di</strong> Pure Joy, dalla malinconicamente waitsiana Crawl After You<br />

alla scanzonata I Get Ideas, dall’irrequieta Me And My Shadow (un up tempo con<strong>di</strong>to <strong>di</strong> frenesia quasi Dream Syn<strong>di</strong>cate)<br />

al languore asprigno della stupenda Clean Slate, colonna sonora perfetta <strong>di</strong> una lacrima che scende su una<br />

fotografia. L’attualità <strong>di</strong> questo crooner <strong>di</strong>screto e stropicciato sta nella capacità <strong>di</strong> stemperare ricerca, profon<strong>di</strong>tà<br />

e devozione in un linguaggio a pronta presa che non indulge in nostalgie, ma con morbida impudenza mostra<br />

l’adeguatezza della tra<strong>di</strong>zione folk rock come forma narrativa del presente.<br />

(7.2/10)<br />

Stefano Solventi<br />

Ward <strong>di</strong> How It’s Done In Italy. Quest’ultima è una delle<br />

tre cover in scaletta (l’originale è delle danesi Bubba &<br />

Mi), essendo le altre Memories Are Made Of This degli<br />

Everly Brothers e una vellutatissima Can’t Hear My Eyes<br />

targata Ariel Pink. Va detto che spesso la scrittura sembra<br />

assopirsi appena riesce a farsi pretesto per allestire<br />

la scenografia, e che i pezzi migliori restano quelli già<br />

noti, ovvero una Misinterpret My Words che sciorina sogni<br />

glassati a me<strong>di</strong>a fedeltà, quella Just Like Monday che<br />

sboccia tra mitologie marcettistiche Brian Wilson e la<br />

opener Mistify The Ocean che potrebbe essere il sogno<br />

50’s <strong>di</strong> Mike Kozelek.<br />

(6.9/10)<br />

Stefano Solventi<br />

huSh arBorS/arBouretuM - aureola<br />

(thrill Jockey, Marzo 2012)<br />

Genere: proG-folk/psych-rock<br />

Girano insieme da qualche tempo Keith Wood a.k.a.<br />

Hush Arbors e i quattro <strong>di</strong> Baltimora. A con<strong>di</strong>videre<br />

non solo palchi o ra<strong>di</strong>ci dei nomi, quanto anche una<br />

sensibilità “folkish” comune e una stima reciproca che li<br />

ha portati ad Aureola. Split album in cui i due progetti<br />

mettono in gioco il meglio <strong>di</strong> sé, legando le ovvie <strong>di</strong>fferenze<br />

<strong>di</strong> background in nome <strong>di</strong> una musica etimologicamente<br />

folk. Spazi ampi, dunque, orizzonti sconfinati,<br />

profumo <strong>di</strong> terra e polvere, ma anche la lunghissima ed<br />

eterogenea tra<strong>di</strong>zione americana.<br />

Il lato A vede protagonista Hush Arbors con 5 tracce <strong>di</strong><br />

folk progressivo che abbandona quasi del tutto i miasmi<br />

psych e weird che caratterizzavano le prime uscite<br />

66 67


- memorabili quelle per 267 Lattajjaa e Digitalis - per<br />

un suono ripulito e in punta <strong>di</strong> plettro, educato ma<br />

pur sempre estremamente evocativo. Un bardo delle<br />

provincie piatte che ama l’acustica e le melo<strong>di</strong>e vocali<br />

intarsiate (Lowly Ghost, Up Yr Coast), ballads dalle risoluzioni<br />

introspettive (The Sleeper) e improvvise puntate<br />

verso certo rock che <strong>di</strong>remmo quasi velvettiano (Prayer<br />

Of Forgetfulness, People & Places). Diverso il <strong>di</strong>scorso<br />

per gli Arboretum, molto più corposi nel sound rock<br />

psichedelico che album come The Gathering hanno<br />

contribuito a cristallizzare ma sempre “tra<strong>di</strong>zionali”. Tre<br />

lunghe tracce ipnotiche in cui il blues delle origini vira<br />

verso <strong>di</strong>latazioni da droghe pesanti (la melo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> New<br />

Scarab) trasfigurata in un raga concentrico da urlo), momenti<br />

più lisergici e desertici (The Black Sun) e deflagranti<br />

concentrati <strong>di</strong> southerness americana d’ogni latitu<strong>di</strong>ne<br />

(St. Anthony’s Fire), con la chitarra <strong>di</strong> Dave Heumann<br />

a tirare le fila come al solito.<br />

Uno split go<strong>di</strong>bilissimo che è l’ennesima <strong>di</strong>mostrazione<br />

<strong>di</strong> come animi e modalità in apparenza <strong>di</strong>stanti, provengano<br />

da un humus comune.<br />

(6.8/10)<br />

Stefano pifferi<br />

i coSi - canti BellicoSi (Warner MuSic<br />

Group, aprile 2012)<br />

Genere: pop, 60s<br />

Di ritorni e revival, <strong>di</strong> suoni e afflati vintage, in Italia ne<br />

abbiamo così tanti da rischiare <strong>di</strong> confondere le bieche<br />

operazioni commerciali con i progetti che invece hanno<br />

la capacità <strong>di</strong> muoversi filologicamente in un’epoca, supportati<br />

da ispirazione e ottime capacità. I Cosi <strong>di</strong> Marco<br />

Carusino appartengono per fortuna alla seconda categoria,<br />

visto il lavoro che il gruppo porta avanti da tempo<br />

sui suoni dell’Italia anni ‘60.<br />

Canti bellicosi arriva a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> quattro anni dal precedente<br />

- riuscitissimo ma poco fortunato - Accadrà e<br />

ne sviluppa le trame e i <strong>di</strong>scorsi, mantenendo le promesse<br />

<strong>di</strong> quel sorprendente esor<strong>di</strong>o. Celentano che in questo<br />

lavoro incontra un Morricone da annali come quello<br />

<strong>di</strong> Metti una sera a cena (Se non) ma anche un rock sul<br />

filo <strong>di</strong> Sergio Endrigo che gioca col country, si riallaccia<br />

al pop <strong>di</strong> Scott Walker e recupera I Giganti. Ne I Così c’è<br />

tutto quello che una band dovrebbe conoscere volendo<br />

lavorare sul sound italiano anni ‘60: la canzone d’amore<br />

senza barocchismi, il mood essenziale ma non svuotato<br />

<strong>di</strong> senso, una leggerezza non semplicistica ma archetipica,<br />

da primor<strong>di</strong> della nostra letteratura musicale.<br />

Quegli anni, la band milanese, li riscopre in testi significativi<br />

ma per nulla aulici e in una scrittura che non è<br />

solo omaggio bensì un riprendere le fila del <strong>di</strong>scorso. La<br />

produzione eccellente, l’eterogeneità degli stili e una<br />

capacità rara con lo strumento fanno il resto.<br />

(7.3/10)<br />

Giulia cavaliere<br />

il pan del <strong>di</strong>avolo - pioMBo, polvere e<br />

carBone (la teMpeSta <strong>di</strong>Schi, aprile 2012)<br />

Genere: folk-blues-rock<br />

Tornano i palermitani Alessandro Aloisi e Gianluca Bartolo,<br />

dopo essere <strong>di</strong>ventati uno dei casi <strong>di</strong>scografici del<br />

2010 con un Sono all’osso che conciliava rockabilly e<br />

Violent Femmes, ma anche il blues delle ra<strong>di</strong>ci e un<br />

cantautorato preso in prestito da Rino Gaetano, Fred<br />

Buscaglione e Edoardo Bennato. Concezione musicale<br />

minimale e decisamente fisica, la loro, punk nell’anima<br />

se non nelle forme, compressa tra due chitarre acustiche,<br />

una grancassa e una voce ruvida e tesa. A sperticarsi<br />

in un no future con più <strong>di</strong> un punto <strong>di</strong> contatto con<br />

quello dell’Appino-Zen Circus che nel <strong>di</strong>sco d’esor<strong>di</strong>o<br />

della formazione prestava, per l’appunto, la sua opera.<br />

Nel secondo <strong>di</strong>sco lungo della sua storia il duo non cambia<br />

quasi nulla. O meglio, migliora dal punto <strong>di</strong> vista<br />

formale grazie anche al contributo <strong>di</strong> Diego Sapignoli,<br />

Antonio Gramentieri, Nicola Manzan e del solito Fabio<br />

Rizzo chiamato a produrre, pur non rivoluzionando il<br />

nucleo <strong>di</strong> un suono ormai giustamente riconoscibile.<br />

Si assiste per certi versi a un processo <strong>di</strong> normalizzazione,<br />

in cui alla maggiore raffinatezza strumentale (le<br />

chitarre da frontiera americana <strong>di</strong> Libero, le mezze luci<br />

<strong>di</strong> La <strong>di</strong>fferenza fra essere svegli e dormire) corrisponde un<br />

rallentare i ritmi, un narcotizzare i sincopati irrefrenabili<br />

degli esor<strong>di</strong>, per dare al tutto maggiore respiro. Anche<br />

se poi qualche colpo basso da Gian Burrasca folk-rock i<br />

nostri lo assestano ancora volentieri, nello specifico La<br />

velocità, Piombo polvere e carbone, una Dolce far niente<br />

in puro stile Bo Diddley e una Viliore che ti si pianta in<br />

testa al primo ascolto per rimanere.<br />

Il resto è un comprensibile fare i conti con una notorietà<br />

e un seguito che li ha portati in finale al Tenco, oltre<br />

che tra le braccia <strong>di</strong> una La tempesta che si appresta<br />

ad incassare l’ennesima sod<strong>di</strong>sfazione <strong>di</strong>scografica. Un<br />

po’ come accaduto a quel Vasco Bron<strong>di</strong> che, pur con<br />

le dovute <strong>di</strong>fferenze stilistiche, de Il pan del <strong>di</strong>avolo<br />

rappresenta in qualche maniera l’alter ego: stessi limiti<br />

formali autoimposti, stessa scelta <strong>di</strong> riconfermare una<br />

formula che per sua natura forse non permette grossi<br />

stravolgimenti. Se il livello del materiale registrato è<br />

questo, però, si puo’ ancora gioire.<br />

(6.9/10)<br />

faBrizio zaMpiGhi<br />

il trianGolo - tutte le canzoni (GhoSt<br />

recordS, Marzo 2012)<br />

Genere: pop<br />

Nessuna pietà per quelli che o<strong>di</strong>ano gli anni ‘60 è il titolo<br />

<strong>di</strong> una canzone ma anche un manifesto chiarissimo del<br />

lavoro de Il triangolo. Tutte le canzoni è infatti un esor<strong>di</strong>o<br />

che brilla <strong>di</strong> spinte 60s, in un mix ben prodotto <strong>di</strong> sonorità<br />

vintage, drammaturgia glam e buon cantutorato.<br />

Arrivano da Varese e si portano <strong>di</strong>etro un carico assai<br />

vario <strong>di</strong> riferimenti e citazioni, tutti nel segno della tra<strong>di</strong>zione<br />

pop italiana. Ad ascoltarli ti immagini la Sandrelli<br />

- in fiore e bellissima - che cammina sul bagnasciuga<br />

con in mano una ra<strong>di</strong>olina oppure sul dancefloor <strong>di</strong> una<br />

<strong>di</strong>scoteca all’aperto, in un’estate degli anni 80, a ballare<br />

Rock’n’roll robot.<br />

Tutte le canzoni ha il taglio <strong>di</strong> un vero e proprio inno a<br />

una giovinezza che sente le costrizioni del proprio tempo<br />

e si rifugia in un passatismo che è un luogo d’amore<br />

antico e ormai perso. E così, “tutti cantano Battisti”, comprano<br />

i <strong>di</strong>schi in vinile e sognano letti <strong>di</strong> rose in tempi<br />

<strong>di</strong> spine. Se Battisti, dunque, sembra una hit <strong>di</strong> Alberto<br />

Camerini, Giurami ricorda la sigla <strong>di</strong> un cartone animato<br />

<strong>di</strong> quando eravamo bambini e Nessuna pietà per<br />

quelli che o<strong>di</strong>ano gli anni ‘60 è un singolone irresistibile.<br />

La versione pop <strong>di</strong> quella più <strong>di</strong>messa Canzone per una<br />

ragazza libera uscita forse da un gira<strong>di</strong>schi <strong>di</strong> qualche<br />

festa <strong>di</strong> paese.<br />

Un ironico inno al passato che tra il serio e il faceto consacra<br />

quel che la nostra canzone fu, attraversando anche<br />

non rari momenti più attuali: su tutti spicca, nella<br />

scrittura dei testi e nell’uso della voce, un riferimento<br />

netto e forse anche un po’ canzonatorio ai primi Baustelle,<br />

in fondo passati e perduti anche loro.<br />

(6.9/10)<br />

Giulia cavaliere<br />

iori’S eyeS - douBle Soul (la teMpeSta<br />

international, Marzo 2012)<br />

Genere: minimal electro-soul<br />

I milanesi Iori’s Eyes - gli intercambiabili Clod e Sofia -<br />

arrivano da una gavetta importante, tante date e due<br />

EP - And Everything Fits In The Yellow Whale del 2009 e<br />

Matter of Time del 2010 - <strong>di</strong> synth-driven in<strong>di</strong>e pop.<br />

Prodotto da Federico Dragogna (Ministri), l’album <strong>di</strong><br />

debutto Double Soul è contemporaneamente un punto<br />

d’arrivo e un punto <strong>di</strong> partenza per gli Iori’s Eyes:<br />

il filo conduttore - la caratteristica e particolare voce<br />

<strong>di</strong> Clod - rimane, ma il troncamento con il passato è<br />

evidente fin dalle prime battute. L’uscita per il ramo International<br />

de La Tempesta - come gli Aucan lo scorso<br />

anno, tra l’altro qui presenti in In Love With Your Worst<br />

Side - non è casuale, le sonorità contenute in Double<br />

Soul infatti sono il probabile risultato <strong>di</strong> una metabolizzazione<br />

delle ultime tendenze in voga oltre i confini<br />

nazionali (Inghilterra su tutti).<br />

Il soul minimale ed elettronico <strong>di</strong> James Blake è uno dei<br />

punti <strong>di</strong> riferimento più imme<strong>di</strong>ati - compresi i giochi <strong>di</strong><br />

pause - ma tutto il <strong>di</strong>sco è un caleidoscopio <strong>di</strong> svariate<br />

influenze, prima assimilate e poi trasformate in un concetto<br />

<strong>di</strong> art-pop tanto personale quanto ine<strong>di</strong>to per la<br />

musica made in Italy.<br />

L’atmosfera, intima, smooth e assolutamente notturna,<br />

trova i suoi apici nel simil trip hop - tra Tricky e i fraseggi<br />

sussurrati degli ultimi These New Puritans - <strong>di</strong> Bubblegum<br />

e nel rituale <strong>di</strong> All The People Outside Are Killing My<br />

Feelings. Il lato lo-fi soul esce bene in Winter Olympics -<br />

protagonista vocale anche Sofia - e in Pull Me Down, ma<br />

da apprezzare sono anche le aperture maggiormente<br />

pop della parte centrale del <strong>di</strong>sco (Something’s Comin’<br />

Over Me e Vlad). In The Merging si riprendono gli stilemi<br />

<strong>di</strong> Bubblegum ma viene aggiunto un chorus melo<strong>di</strong>co<br />

decisamente funzionale, mentre le trame crepuscolari<br />

si tramutano in clima clubby nella penultima They Used<br />

To Call It Love.<br />

In Double Soul il pericolo esercizio <strong>di</strong> stile è <strong>di</strong>etro l’angolo,<br />

ma dopotutto stiamo parlando <strong>di</strong> un debutto che<br />

doveva soprattutto plasmare e rendere facilmente riconoscibile<br />

il suono del duo. In questo senso, missione<br />

decisamente compiuta.<br />

(7/10)<br />

riccardo zaGaGlia<br />

it’S a MuSical - for yearS and yearS (Morr<br />

MuSic, Marzo 2012)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e pop<br />

Duo Berlinese alle prese con batteria, cori, organo e “tastierismi”<br />

vari, gli It’s A Musical <strong>di</strong> Ella Blixt (aka Bobby<br />

Blumm) e Robert Kretzschmar escono con un secondo<br />

album <strong>di</strong> in<strong>di</strong>e-pop tardo adolescenziale a metà strada<br />

tra i compagni <strong>di</strong> etichetta Ms. John Soda e gli idoli <strong>di</strong><br />

inizio millennio Death Cab For Cutie, anche se decisamente<br />

più asciutti ed essenziali <strong>di</strong> entrambi. Un prodotto<br />

formalmente ineccepibile, oramai obsoleto per<br />

i pomeriggi assolati passati a cazzeggiare o a parlare<br />

<strong>di</strong> sesso, ma ancora buono per una domenica mattina<br />

sorniona e svogliata. E non c’è niente da capire. Nel senso<br />

che le do<strong>di</strong>ci tracce color pastello <strong>di</strong> For Years And<br />

Years scorrono tutte carine e tutte più o meno uguali,<br />

fatta eccezione per alcuni picchi creativi come le contaminazioni<br />

esotiche e la trombetta <strong>di</strong> Fish Song, la ritmica<br />

circolare e le armonie misteriose <strong>di</strong> Bring It On, o il bel<br />

giro <strong>di</strong> piano e l’incedere emozionale <strong>di</strong> Ljubljana. I cori,<br />

68 69


MirrorrinG - foreiGn Body (kranky, Marzo 2012)<br />

Genere: drone folk<br />

Dopo l’imponente doppio viaggio <strong>di</strong> A I A dello scorso anno, Liz Harris torna alle amate collaborazioni. Dapprima<br />

in coppia con Ilyas Ahmed per il progetto Visitor, poi con Lawrence English per la performance multime<strong>di</strong>ale <strong>di</strong><br />

Slow Walkers, serie <strong>di</strong> videoinstallazioni e live incentrati sullo zombie “as cultural phenomena, waking in 2012...”.<br />

Senza contare l’esperienza <strong>di</strong> Violet Replacement, zibaldone noise/analogico che si<br />

fonda su l’uso e l’abuso <strong>di</strong> nastri ed effetti e che come Grouper sta portando in giro<br />

per l’Europa proprio in questi giorni, non ultima l’Italia con le tre date <strong>di</strong> Milano, Torino<br />

e Ravenna delle scorse settimane. Ma il piatto forte dell’anno è a tutti gli effetti Mirrorring<br />

(con due erre), progetto costruito in coppia con la folk singer <strong>di</strong> Seattle, Jessy<br />

Fortino, meglio nota con il nome d’arte <strong>di</strong> Tiny Vipers. Le due si conoscono tramite<br />

internet, si scambiano <strong>di</strong>schi, si incontrano a più riprese in quel <strong>di</strong> Portland e dopo un<br />

po’ decidono <strong>di</strong> fare insieme alcune session senza troppe aspettative, giusto per vedere<br />

l’effetto che fa. Il risultato finale lievita fino alla durata <strong>di</strong> 45 minuti e produce un intero<br />

album, che ai tipi della Kranky quasi non sembra vero <strong>di</strong> poter licenziare.<br />

Foreign Body è un <strong>di</strong>sco che non nasconde nulla e non regala sorprese. Mirrorring è a tutti gli effetti il risultato <strong>di</strong><br />

un equazione perfetta tra l’afflato aereo e onirico del Grouper sound e la ruvi<strong>di</strong>tà acustica, senza filtri <strong>di</strong> Tiny Vipers.<br />

Mai come in questo caso l’unione dei due elementi viene gestita con un’attenzione maniacale ai dettagli, senza<br />

per questo lasciare da parte la spontaneità della presa live. Fell Sound e Mine sono puro <strong>di</strong>stillato dream pop, sulla<br />

scorta <strong>di</strong> un’effettistica che più riverberata non si può e che altro non è che l’ennesima emozionante filiazione dei<br />

Cocteau Twins più magici <strong>di</strong> Tiny Dynamine e Victorialand. Silent From Above è la classica ballad folk in chiave<br />

minore <strong>di</strong> Tiny Vipers a cui la Harris aggiunge una sentita doppia voce nel finale. Probabilmente il miglior esempio<br />

dell’alchemica unione tra le due è Cliffs, cruda escursione folk in primo piano, su sottofondo nebbioso <strong>di</strong> riverberi<br />

infiniti. Il successo dell’operazione sta nel centrare un proprio percorso riconoscibile in un genere ormai così saturo,<br />

come il drone-folk, lasciando per altro ampie tracce delle referenze in<strong>di</strong>viduali. La musica che ne viene fuori è cupa<br />

e malinconica come si compete a due delle dark la<strong>di</strong>es della scena in<strong>di</strong>e più seguite <strong>di</strong> questi anni.<br />

I Mirrorring idealmente si collocano tra la iper malinconia <strong>di</strong> Windy & Carl, la tristezza infinita dei primi Low e la<br />

psichedelia rurale dei Flying Saucer Attack, andando in qualche modo a fare il paio con un progetto molto simile<br />

a questo come quello dei Clear Horizon, collaborazione tra Jessica Bailiff e David Pearce, anch’ella, a suo tempo,<br />

<strong>di</strong>stribuita da Kranky.<br />

(7.5/10)<br />

antonello coMunale<br />

spesso all’unisono, se da un lato danno spazialità alle<br />

armonie vocali - cifra stilistica dei due - dall’altro rischiano<br />

<strong>di</strong> risultare pedanti; ed è più o meno così per tutti gli<br />

elementi (organetti in primis) che vanno a determinare<br />

un sound sempre in bilico tra piacevolezza assoluta e<br />

lezioncina reiterata all’infinito. Fa pensare, infine, la cover<br />

<strong>di</strong> The Team That Never Wins degli Eleventh Hour,<br />

troppo uguale all’originale del 1996, eppure in un certo<br />

senso meno attuale.<br />

(6.6/10)<br />

antonio laudazi<br />

Jocelyn pulSar - aiuole Spartitraffico<br />

coltivate a Grano (Garrincha <strong>di</strong>Schi,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: pop-cantautorato<br />

Potremmo chiamarlo cantautorato geografico/demografico,<br />

quello <strong>di</strong> Jocelyn Pulsar. Una fotografia un po’<br />

sbia<strong>di</strong>ta in cui ciclicamente tornano le solite tematiche<br />

legate alla Romagna delle spiagge (Cartoline), alle paturnie<br />

adolescenziali da cameretta (“Il porno in internet, è la<br />

migliore forma <strong>di</strong> democrazia, che attualmente, mi viene in<br />

mente” si canta in La soggettiva del frigo), ai ricor<strong>di</strong> scolastici<br />

legati a una scritta su un muro (Vale, Stefy, Cri). Fosse<br />

un libro, sarebbe un Moccia dell’Adriatico con un po’ più<br />

<strong>di</strong> sostanza. Fosse un personaggio <strong>di</strong> un film, sarebbe<br />

Mauro Di Francesco in Sapore <strong>di</strong> mare 2.<br />

Da ciò, pregi e limiti <strong>di</strong> una proposta musicale che si<br />

autoreplica a oltranza: da un lato il surrealismo ironico<br />

e nostalgico <strong>di</strong> un songwriting che parla <strong>di</strong> televisione<br />

d’antan (la Superclassifica Show e le partite <strong>di</strong> calcio<br />

anni Ottanta della lunapoppiana Me lo ricordo), facebook<br />

e rapporti <strong>di</strong> coppia (Sono tre giorni che piove, ma<br />

anche la 25000 anni fa ambientata ai tempi delle caverne);<br />

dall’altro il riflesso con<strong>di</strong>zionato <strong>di</strong> una quoti<strong>di</strong>anità<br />

da loser ormai istituzionalizzata a tutte le latitu<strong>di</strong>ni. In<br />

tempi <strong>di</strong> globalizzazione e contaminazione musicale, Jocelyn<br />

Pulsar continua ad aggrapparsi a un localismo <strong>di</strong><br />

tematiche intimo e ra<strong>di</strong>cato nel passato, perso in un’Italia<br />

che si riscopre sempre più provinciale e stereotipata.<br />

Mentre altri tentano un aggiornamento pur navigando<br />

più o meno nelle stesse acque (ve<strong>di</strong> alla voce E<strong>di</strong>po),<br />

Francesco Pizzinelli colleziona l’ennesimo <strong>di</strong>sco sulla<br />

falsariga dei precedenti. Con in più questa volta, un<br />

sostrato musicale arioso e lavorato (sono della partita<br />

Francesco Brini, Matteo Romagnoli, il violino <strong>di</strong> Nicola<br />

Manzan, il sax <strong>di</strong> Elia Della Casa e un po’ tutta la cricca<br />

Garrincha) che gli permette <strong>di</strong> fare ciò che sa fare ancora<br />

meglio, rispetto al passato.<br />

Certo, una volta tanto il Pizzinelli ci piacerebbe vederlo<br />

schiodarsi e magari anche rischiare qualcosina in più,<br />

senza paura per i possibili passi falsi.<br />

(6.5/10)<br />

faBrizio zaMpiGhi<br />

JuleS not Jude - tueSday? ep (dada <strong>di</strong>Schi,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e pop<br />

I Jules Not Jude hanno oltrepassato il rubicone che<br />

separa i sogni nel cassetto dai progetti concreti, tanto<br />

da aver già programmato per gennaio 2013 il secondo<br />

capitolo lungo. Nel frattempo, dopo l’esor<strong>di</strong>o lungo<br />

All Apples Are Red, Except For Those Which Are Not<br />

Red il quartetto bresciano si è fatto le ossa in giro per<br />

lo Stivale e in Europa, marcando un bel gettone <strong>di</strong> presenza<br />

al prestigioso festival berlinese Ein Hit Ist Ein Hit,<br />

in occasione del quale hanno composto Tuesday?, pezzo<br />

che oltre ad intitolare il qui presente EP (scaricabile in<br />

modalità up to you da qui) segna una possibile svolta in<br />

chiave in<strong>di</strong>e-wave (brio Belle And Sebastian e adrenalina<br />

spigolosa Franz Fer<strong>di</strong>nand) per il loro sound.<br />

Segnali contrad<strong>di</strong>ttori dal resto della scaletta, vista la<br />

verve chitarristica <strong>di</strong> Talk Talk Talk (quasi una <strong>di</strong>dascalia<br />

Grandaddy) e quella J. che rispolvera indolenzimento<br />

pastorale NAM (ospite Andra Abeni degli Annie Hall),<br />

mentre il remix <strong>di</strong> Tuesday? ad opera dei concitta<strong>di</strong>ni<br />

Pink Holy Days strizza l’occhio a certo electroclash<br />

danzereccio con la baldanza del caso. Un segnale <strong>di</strong> vi-<br />

talità interessante che da un lato <strong>di</strong>stribuisce elementi<br />

<strong>di</strong> curiosità per le <strong>di</strong>rezioni future, dall’altro sancisce il<br />

definitivo abbandono dei languori lisergici che ci avevano<br />

incantato ai tempi del Clouds Of Fish EP. C’è <strong>di</strong><br />

che farsene una ragione.<br />

(6.3/10)<br />

Stefano Solventi<br />

Julien dyne - GliMpSe (BBe, Gennaio 2012)<br />

Genere: wonky<br />

Quando nel 2009 era arrivato al primo album Julien<br />

Dyne si godeva le sue sperimentazioni beats a base <strong>di</strong><br />

nu jazz e in Pins & Digits riusciva a raggiungere una bella<br />

freschezza d’ascolto con pezzi come Layer degni dei<br />

meglio Jazzanova se non proprio iniezioni r’n’b-soul<br />

come Fallin’ Down. Il producer <strong>di</strong> origini neozelandesi<br />

però nasce percussionista e deve aver sentito forte<br />

l’attrazione per quelle superfici wonky che oggi hanno<br />

puntati addosso i riflettori dell’hype dalla critica specializzata,<br />

o perlomeno <strong>di</strong> quella porzione maggiormente<br />

amante della novità, per cui deve essergli sembrato naturale<br />

spostare l’attenzione da contenuti ed emozioni a<br />

una più decisa impronta tecnicista, cosa che da un lato<br />

l’avrà reso meno <strong>di</strong>stensivo ma dall’altro sicuramente<br />

più stimolante e ingegnoso.<br />

Se allora quella per i beats sembrava un’affinità congenita<br />

adesso è proprio l’oggetto <strong>di</strong> uno stu<strong>di</strong>o impegnato<br />

che coinvolge tutti i recenti fautori dello spessore<br />

wonky: Masks tra ritmi collosi e groove sardonici mescola<br />

Hudson Mohawke al primo Flying Lotus, Glisten<br />

Up con quella tenuta folkeggiante aggancia Onra, il<br />

gangstabeat gradasso <strong>di</strong> Koln3 viene da Samiyam e gli<br />

enigmi squadrati <strong>di</strong> Rago son materia <strong>di</strong> Lukid. Eppure<br />

c’è un filo logico laterale che rende il viaggio più stravagante<br />

perché dell’estrazione hip-hop chiama in causa<br />

anche il suo profilo più easy listening, nell’accezione<br />

soulful <strong>di</strong> Who Are You insieme alla stella locale La<strong>di</strong>6 o<br />

meglio ancora in So Far, con Mara TK dei connazionali<br />

Electric Wire Hustle a <strong>di</strong>segnare l’eleganza del tessuto<br />

r’n’b. 19 tracce, <strong>di</strong>versi cambi <strong>di</strong> marcia e in mezzo una<br />

ciliegina come Candy Apple, l’apertura ambient pop che<br />

in un <strong>di</strong>sco del genere non ti aspetti. Bando a umori e<br />

ambientazioni, nel wonky la forma è tutto e Glimpse lo<br />

<strong>di</strong>ce senza mezzi termini. Convincendo.<br />

(7/10)<br />

carlo affatiGato<br />

kaSper BJørke - fool (hfn, aprile 2012)<br />

Genere: elettro pop<br />

Le uniche persone che riesco ad immaginare entusiaste<br />

per il nuovo album <strong>di</strong> Kasper Bjørke, Fool, sono PR <strong>di</strong><br />

70 71


<strong>di</strong>scoteche che l’hanno in programmazione e <strong>di</strong>cianovenni<br />

presi nella spasimante ricerca della next big thing.<br />

Nonostante tutta la me<strong>di</strong>ocrità <strong>di</strong> questo LP, sentiremo<br />

parlare <strong>di</strong> Kasper Bjørke almeno per qualche settimana.<br />

Già non ho potuto fare a meno <strong>di</strong> ricevere i retweet<br />

delle foto del suo compleanno allo Standard Hotel con<br />

torta e candeline. Questo perché, per quanto semplici e<br />

piatte, le tracce <strong>di</strong> Bjørke non sono prive <strong>di</strong> appeal. Bjørke,<br />

con una mossa che ricalca il precendente Stan<strong>di</strong>ng<br />

on Top of Utopia, attraversa un larghissimo spettro <strong>di</strong><br />

generi: dall’italo <strong>di</strong>sco all’electroclash, dal dance-punk<br />

al synth-pop, passando per il krautrock. Tutti generi che,<br />

in una certa misura, sono ancora le etichette a cui si<br />

attacca ogni produttore che si voglia considerare glamourous<br />

e trendy senza fare troppa fatica. Per qualsiasi<br />

orecchio attento, però, è subito chiaro come l’eclettismo<br />

<strong>di</strong> Kasper non sia altro che un <strong>di</strong>sperato tentativo <strong>di</strong> essere<br />

rilevante mettendo in mostra i dovuti significanti.<br />

Tutte le canzoni dell’album non sono altro che una<br />

semplicissima base su cui appendere i dovuti stilemi.<br />

Più che tracce vere e proprie ricordano le demo <strong>di</strong> una<br />

tastiera Casio.<br />

E’ un peccato che i brani siano privi <strong>di</strong> qualsiasi spessore<br />

perché, a volte, non mancano <strong>di</strong> charme. Dispiace<br />

In particolare per Jacob Bellens, la cui voce tra noia<br />

ostentata e gender ben<strong>di</strong>ng si sforza <strong>di</strong> dare un minimo<br />

<strong>di</strong> anima agli arpeggi <strong>di</strong> Deep is the Breath evitando<br />

che si trasformino in un esercizio coi preset <strong>di</strong> Fruity Loops.<br />

Deludente anche la collaborazione con i Laid Back<br />

in Bohemian Soul: una cavalcata kraut <strong>di</strong> nove minuti<br />

con basso elettronico e un piccolo tentativo <strong>di</strong> psichedelia.<br />

I Laidback mettono la loro firma sulle vocals ma<br />

non vi è traccia dello humor che ha fatto il successo <strong>di</strong><br />

pezzi storici come White Horse.<br />

Bjørke ha sicuramente talento nello scrivere ritornelli<br />

pop ed orecchiabili, ma questo non è sufficiente a re<strong>di</strong>mere<br />

un album con poche idee ed interamente composto<br />

da pezzi che sembrano work in progress.<br />

(5.8/10)<br />

antonio cuccu<br />

killinG Joke - MMxii (SpinefarM, aprile<br />

2012)<br />

Genere: industrial rock<br />

Prima pionieri e poi alfieri delle varianti più oscure e<br />

ossessive della new wave, negli ultimi anni i Killing Joke<br />

sembrano rinati. Una seconda genesi non troppo <strong>di</strong>ssimile<br />

da quella degli ultimi Dinosaur Jr.<br />

Nel precedente Absolute Dissent, avevamo trovato Jaz<br />

Coleman e compagni - decisamente in forma - alle prese<br />

con una proposta massiccia <strong>di</strong> forte impatto. Due anni<br />

dopo sono nuovamente qui a riven<strong>di</strong>care la propria supremazia<br />

all’interno <strong>di</strong> un genere sempre più lontano<br />

dai riflettori, dopo gli evitabili colpi <strong>di</strong> coda nu metal. Lo<br />

fanno con MMXII, un titolo che è tutto un programma:<br />

l’associazione tra le leggende sulla fine del mondo e le<br />

tipiche sonorità apocalittiche dei Killing Joke è piuttosto<br />

scontata.<br />

I nove minuti <strong>di</strong> Pole Shift sono chiamati ad aprire le danze<br />

- alternando momenti wave un po’ blan<strong>di</strong> e sferzate<br />

industrial rock - per un <strong>di</strong>sco che suona come una cellula<br />

temporalesca colma <strong>di</strong> tensione tra le precipitazioni<br />

che sfociano nel clean del ritornello <strong>di</strong> Colony Collapse -<br />

come dei Fear Factory privi della componente metal - e<br />

i riff hard <strong>di</strong> Corporate Elect che esplodono in un chorus<br />

vagamente Motorhead.<br />

Territori meno impervi a metà <strong>di</strong>sco - nei mid-80s<br />

dell’orecchiabile e apprezzabile singolo In Cytheria e Primobile<br />

- ma per il resto MMXII poteva intitolarsi anche<br />

MCMXCIV (1994), uscire nel periodo in cui band come<br />

Prong, Godflesh ed Helmet plasmavano a modo loro<br />

la precedente lezione dei Killing Joke e fare da colonna<br />

sonora a The Crow. Con MMXII si gioca in <strong>di</strong>fesa, sfruttando<br />

sapientemente esperienza e mestiere risultando<br />

così comunque cre<strong>di</strong>bili nell’imperturbabile avanzata a<br />

testa bassa verso l’estinzione.<br />

(6.6/10)<br />

riccardo zaGaGlia<br />

kindneSS - World, you need a chanGe of<br />

Mind (feMale enerGy, Marzo 2012)<br />

Genere: french-<strong>di</strong>sco-Glo<br />

Coprodotto con Philippe ‘Zdar’ Cerboneschi (vecchia<br />

gloria della house francese con La Funk Mob, insieme<br />

ad Etienne de Crécy nei mitici Motorbass e successivamente<br />

nei Cassius), il <strong>di</strong>sco <strong>di</strong> debutto <strong>di</strong> Adam Bainbridge<br />

rivanga le posizioni glo-<strong>di</strong>sco dei Delorean e le<br />

droga <strong>di</strong> funk e cultura <strong>di</strong>sco newyorchese, tagliando<br />

con spezie f-touch Novanta.<br />

Le striminzite note stampa specificano un’alterità rispetto<br />

alle catalogazioni ontologico-musicali contemporanee,<br />

ormai <strong>di</strong>ventata un must per svicolarsi da <strong>di</strong>fficili<br />

posizioni “<strong>di</strong> genere” (restare definitivamente taggati<br />

come “quelli che fanno quel tale tipo <strong>di</strong> musica” può<br />

essere infatti un pericolo, sia per una se<strong>di</strong>mentazione<br />

su poetiche <strong>di</strong> nicchia, sia per eventuali fan che non<br />

amano le successive ed eventuali innovazioni/mutazioni).<br />

Con la patente <strong>di</strong> omnicomprensività e <strong>di</strong> massimalismo<br />

si viaggia quin<strong>di</strong> sul sicuro, si può spaziare dal<br />

succitato funk (Gee Up) alla ballad cheesy che fa molto<br />

french (Anyone Can Fall In Love omaggio inconsapevole<br />

alle atmosfere dei primi Air e <strong>di</strong> Tellier?), dal momento<br />

Movie Star JunkieS - Son of the duSt (outSide inSide, Marzo 2012)<br />

Genere: blues rock<br />

E’ un’evoluzione naturale quella dei Movie Star Junkies, biologica. Passa il tempo,<br />

le esperienze si <strong>di</strong>versificano tra le tante collaborazioni che i vari membri del gruppo<br />

stanno maturando in altri contesti (tra cui anche l’avventura <strong>di</strong>scografica Outside<br />

Inside Records per la quale esce il <strong>di</strong>sco) e i mezzi <strong>di</strong>ventano sempre più sal<strong>di</strong> grazie<br />

ad un’intensissima attività live. Mettiamoci pure l’influenza <strong>di</strong> Neil Young e Leonard<br />

Cohen, che i nostri <strong>di</strong>cono <strong>di</strong> aver macinato in lungo e in largo durante questi anni, e si<br />

capisce subito come questo Son Of The Dust, terzo episo<strong>di</strong>o della saga, sia un album<br />

più adulto rispetto al precedente A Poison Tree.<br />

La traduzione in musica è una maggiore calma nello scorrere delle <strong>di</strong>eci tracce, con più attenzione negli arrangiamenti<br />

e più blues. Così se da una parte non viene intaccato un sound che è comunque marchio <strong>di</strong> fabbrica e che<br />

si ripresenta in Cold Stone Rose o These Woods Have Ears (chitarre sempre nervose, ritmiche clau<strong>di</strong>canti, e a tratti<br />

quel senso <strong>di</strong> decadenza che permeava A Poison Tree), dall’altra ci sono nuovi elementi che si aggiungono: i cori<br />

per esempio, mai così in primo piano e capaci <strong>di</strong> allargare il respiro <strong>di</strong> A Long Goodbye, a metà strada tra Cave e,<br />

perché no, gli Okkervill River, o della title-track, Son Of The Dust, stupenda ballad <strong>di</strong> spirito faulkneriano. E poi è<br />

più evidente il fascino del rhythm’n’blues stradaiolo (An Autumn Made Of Gold) impastato anche a qualche accenno<br />

funk come in The Damage Is Done, uno dei pezzi migliori del lotto.<br />

Che i Movie Star Junkies abbiano abbandonato la ferocia nera dei Birthday Party per approdare alla varietà blues<br />

dei Bad Seeds, magari in una versione più on the road? Forse per ora, ma vista la sicurezza con cui si muovono<br />

ad ogni uscita c’è da giurare che non mancheranno nemmeno retromarce e sterzate improvvise. Non si potrebbe<br />

chiedere <strong>di</strong> meglio.<br />

(7.4/10)<br />

Stefano Gaz<br />

me<strong>di</strong>tativo-spacey-drone (Gee Wiz) al facile ammiccamento<br />

wonky-funk con coretto Ottanta (That’s Allright)<br />

e al ricordo jazzy dei St Germain (nell’opener SEOD).<br />

Un <strong>di</strong>sco che si situa nella me<strong>di</strong>a delle produzioni house<br />

slo-motion contemporanee, pompando molto bene<br />

quando si sintonizza sull’uptempo funk (e qui la zampa<br />

<strong>di</strong> Zdar si sente tutta) e calando molto quando spinge su<br />

suoni glo, che piacciono <strong>di</strong> più su altre consolle. Lo stile<br />

potrebbe essere ben definito da un miscuglio <strong>di</strong> Francia,<br />

DFA, coretti pastorali à la Fleet Foxes e sfarzo posh Ariel<br />

Pink-iano. Il ragazzo è da seguire, ricordando però che la<br />

storia che passa <strong>di</strong> qua ha origini su un sentire già <strong>di</strong> suo<br />

eclettico e robusto (ve<strong>di</strong> alla voce F-Communications).<br />

(6.8/10)<br />

Marco BraGGion<br />

kinG felix - SprinG ep (liBeration<br />

technoloGieS, Marzo 2012)<br />

Genere: hypna experiments<br />

King Felix è Laurel Halo, o meglio quel che rimane <strong>di</strong><br />

lei dopo che hai tolto l’ipnagogico visionario del King<br />

Felix EP, le astrazioni ambient-droniche della cassetta<br />

Antenna e la man<strong>di</strong> a fondo nel suono sperimentale già<br />

offerto dal precedente Hour Logic, che vedeva la ragazza<br />

presa tra stranezze <strong>di</strong> ogni tipo, siano esse breakbeat o<br />

4/4, glo o hypna, idm o ambient. Ora però la fantasiosa<br />

artista <strong>di</strong> Brooklyn sembra non aver più freni teorici e le<br />

invenzioni <strong>di</strong>ventano particolarmente eteree: Spring è<br />

la primissima uscita della Liberation Technologies, <strong>di</strong>visione<br />

della Mute de<strong>di</strong>cata proprio all’experimenting, con<br />

due pezzi come Spring1 e Spring3, <strong>di</strong>visi tra breakbeat<br />

aguzzi, ambient-glo e tribalismi a loop strettissimo, una<br />

chiusura nei droni inconsistenti <strong>di</strong> Freak e un solo brano<br />

coi pie<strong>di</strong> per terra, Spring2, la house della Chicago bene<br />

che incontra la world music nel segno <strong>di</strong> John Talabot.<br />

Quattro pezzi così, senza filo conduttore, come un’appen<strong>di</strong>ce<br />

particolarmente estroversa <strong>di</strong> quanto fatto<br />

nell’ultimo eppì. Mancano il <strong>di</strong>segno e l’intenzione, due<br />

elementi che han sempre rappresentato il quid caratteriale<br />

in più della sua estetica sonora. Forse è solo l’effetto<br />

<strong>di</strong> una release forzata.<br />

(5.9/10)<br />

carlo affatiGato<br />

72 73


le furie - andrà tutto Bene (iShtar, Marzo<br />

2012)<br />

Genere: rock<br />

Le Furie vengono da Firenze e s’ispirano alla grande<br />

mitologia greca, fra Erinni e giganti, fra vendette e tra<strong>di</strong>menti.<br />

L’esor<strong>di</strong>o su full length si chiama Andrà tutto<br />

bene, ha una produzione sorprendente e un art work<br />

(curato dal buon vecchio Legno) se non altro accattivante.<br />

Schiacciato il tasto play, però, le cose iniziano a<br />

vacillare. Se il singolo Love Affair, che si porta dentro<br />

tratti <strong>di</strong> Luminal e Fine Before You Came, è sulla giusta<br />

lunghezza d’onda, fra chitarre allungate e finte illusioni<br />

vomitate sul microfono, la successiva Banale e soprattutto<br />

Non c’è niente, non tengono alto il livello dell’opera.<br />

Si sente tanto Roberto Dell’Era, tratti, naturalmente, <strong>di</strong><br />

Afterhours, innesti <strong>di</strong> un insolito Edda, ma il tutto non<br />

troppo ben amalgamato, come si sarebbe sperato dalle<br />

ottime premesse.<br />

A pagarne il prezzo sono soprattutto gli arrangiamenti<br />

(a <strong>di</strong>r la verità, eccellenti), che mal sorreggono le sterili<br />

liriche (“Non sono stato mai fedele con il mio ego gigante”)<br />

che par proprio non abbiano nulla da aggiungere né al<br />

versante <strong>di</strong> parolieri metafisici come Benvegnù (avrebbe<br />

potuto scrivere anche lui una tragica storia <strong>di</strong> Mimì<br />

Bluette), né a quello <strong>di</strong> autori realistico-politicheggianti<br />

come Bron<strong>di</strong> o Canali. È ancora possibile aggiustare il<br />

tiro, ma per ora dobbiamo solo rimanere in attesa.<br />

(5.8/10)<br />

nino ciGlio<br />

lee ranaldo - BetWeen the tiMeS and the<br />

tideS (Matador, Marzo 2012)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e, sonGwritinG<br />

Invecchiare bene? È certo possibile, ve<strong>di</strong> alle voci Paul<br />

Weller, J Mascis, Stephen Malkmus e Thurston Moore.<br />

Non era un’ipotesi poi lontanissima questa sortita<br />

da songwriter <strong>di</strong> Lee Ranaldo, e non solo per le attuali<br />

congiunture (la buona prova del compare in Demolished<br />

Thoughts lo avrà certo pungolato, senza contare<br />

le recenti vicissitu<strong>di</strong>ni soniche - per chi vive su Marte,<br />

la coppia Moore / Gordon è scoppiata - ; la parola fine<br />

non è ancora scritta ma ). L’altra metà chitarristica dei<br />

Sonic Youth non ha mai celato spiccate propensioni melo<strong>di</strong>che<br />

- prendete Mote o Wish Fulfillment, per <strong>di</strong>re -,<br />

quin<strong>di</strong> al momento decisivo <strong>di</strong> vuotare i cassetti si è inevitabilmente<br />

trovato in mano questo pugno <strong>di</strong> canzoni<br />

dall’impianto decisamente classico (<strong>di</strong> scuola talmente<br />

beatlesiana - Off The Wall - che a tratti ci è venuto in<br />

mente Noel Gallagher, pensate un po’), emerse da un<br />

calderone sinora non scoperchiato in cui devono aver<br />

bollito, e a lungo, R.E.M., Neil Young, Wilco<br />

E non a caso troviamo la sei corde inconfon<strong>di</strong>bile <strong>di</strong> Nels<br />

Cline a <strong>di</strong>segnare i consueti (e ormai un po’ manieristici,<br />

ahi) ghirigori qua e là, delle armonie femminili che<br />

garantiscono le giuste sfumature West Coast (nei ’70<br />

conclamati <strong>di</strong> Fire Island), laddove la presenza dell’immarcescibile<br />

Steve Shelley <strong>di</strong>etro i tamburi rinsalda<br />

bene le ra<strong>di</strong>ci (Xtina As I Knew Her e Waiting On A Dream<br />

suonano proprio come outtakes dei SY). Una sorpresa<br />

certo gra<strong>di</strong>ta - e, come già detto, in un certo senso attesa<br />

- questo Between The Times And The Tides, seppure<br />

alla prova dell’ascolto emerga un tratto <strong>di</strong> penna inevitabilmente<br />

acerbo e a volte persino naif nel ricalcare<br />

certi insistiti ammiccamenti melo<strong>di</strong>ci, o certe magie<br />

acustiche targate Stipe & Co (Hammer Blows).<br />

L’impressione generale è quella dello sfizio da dopolavoro,<br />

del <strong>di</strong>vertissement dovuto (principalmente a se stesso);<br />

ma non ne facciamo un cruccio al buon Lee perché<br />

si sa, autori non si <strong>di</strong>venta da un giorno all’altro. Si può al<br />

massimo <strong>di</strong>ventare, con un po’ più <strong>di</strong> costanza ed esperienza,<br />

buoni artigiani, e in tal senso cose comeStranded,<br />

Lost e la conclusiva psichedeliaTomorrow Never Comes<br />

mostrano che sì, si può fare. Solo il tempo <strong>di</strong>rà se le sorti<br />

del Ranaldo cantautore proseguiranno <strong>di</strong> per sé, o se<br />

resteranno ancorate alla telenovela Thurston / Kim.<br />

(6.7/10)<br />

antonio puGlia<br />

Madonna - Mdna (univerSal, Marzo 2012)<br />

Genere: dance-pop<br />

Era una che le mode le lanciava Madonna. Negli 80s<br />

rappresentava il modello femminile da seguire se si voleva<br />

avere successo. Nei 90s, con l’esplosione <strong>di</strong> trip hop<br />

e Bjork, era la <strong>di</strong>va post moderna <strong>di</strong> Ray Of Light, ad<br />

oggi probabilmente la sua opera più riuscita. Sul finire<br />

della decade, con le nuove teen-star (Britney Spears,<br />

Christina Aguilera) che invadevano le chart, lei tornava<br />

popstar e ridettava legge con Music.<br />

Nel post-11 Settembre, arriva la moda anti-Bush, il rap<br />

in high-rotation su MTV. Qualcosa non gira più per il<br />

verso giusto. Arriva il me<strong>di</strong>ocre American Life, seguito<br />

da una serie <strong>di</strong> polemiche scacciate solamente dal successivo<br />

Confessions On A Dancefloor, che sfruttò l’onda<br />

dance. Nel 2007 toccò al Timbaland-sound (Justin<br />

Timberlake e Nelly Furtado), l’anno successivo uscì<br />

Hard Candy con risultati decisamente scadenti su tutti<br />

i fronti. E arriviamo al presente, dopo quattro anni <strong>di</strong><br />

tra$h-electro-pop (Lady Gaga, Katy Perry, Kesha), <strong>di</strong><br />

fenomeno M.I.A e, recentemente, della riscoperta della<br />

melo<strong>di</strong>a (Adele, Lana Del Rey). Quale <strong>di</strong>rezione seguire<br />

con MDNA?I brani presentati in pre-release - l’infantile<br />

cheerleader-pop <strong>di</strong> Give Me All Your Luvin’ (con M.I.A.<br />

oren aMBarchi - au<strong>di</strong>ence of one (touch MuSic uk, feBBraio 2012)<br />

Genere: avant<br />

Oren Ambarchi è sicuramente compositore e musicista eclettico, abituato a destreggiarsi tra i generi e gli approcci.<br />

Eppure fino ad ora non aveva mai così implicato nella produzione a suo nome un “<strong>di</strong>sco” così pieno delle sue identità<br />

messe insieme e non sezionate, e quin<strong>di</strong> così tra<strong>di</strong>zionalmente inteso nella musica rock. Oren è un chitarrista che<br />

si è sempre ritratto nel solco <strong>di</strong> Alvin Lucier. Ma la seicorde è sempre stata, per così <strong>di</strong>re, il me<strong>di</strong>um contingente,<br />

il punto <strong>di</strong> partenza, almeno nelle precedenti puntate (due su tutte, che fanno da base all’imme<strong>di</strong>ato presente:<br />

Grapes From The Estate e In The Pendulum’s Embrace, picchi degli ultimi due lustri, e<br />

ricerca coerente sul trattamento <strong>di</strong> strumenti dal vivo nel cesello della composizione/<br />

produzione). A giu<strong>di</strong>care da come si chiude, Au<strong>di</strong>ence Of One la tratta invece anche<br />

come punto <strong>di</strong> arrivo, o forse riscoperta.<br />

Questo stupisce forse più che il fatto che un <strong>di</strong>sco <strong>di</strong> Ambarchi si possa aprire con una<br />

delicatissima “canzone” (Salt) - con la voce caratterizzante <strong>di</strong> Paul Duncan. E semmai<br />

ciò che lascia a bocca aperta <strong>di</strong> Au<strong>di</strong>ence Of One è la mastodontica fuga jam (Knots)<br />

con cui prosegue. Una mezzora <strong>di</strong> sostanza acida e poderosa con incisioni nel timpano<br />

della chitarra <strong>di</strong> Oren e conduzione <strong>di</strong> batteria che <strong>di</strong>rigono la memoria verso i Can <strong>di</strong><br />

Tago Mago. E, <strong>di</strong> seguito, fanno correre la mente verso i nastri dei Neu! è fin troppo facile. Oren e Eyvind Kang (qui<br />

a co-arrangiare) come Michael Rother e Klaus Dinger, in un certo senso. Knots è <strong>di</strong> fatto uno statement importante,<br />

un tentativo <strong>di</strong> costruire un trait d’union che sta già raccogliendo consensi, paragoni più o meno azzeccati, come<br />

le performance e le prime mosse <strong>di</strong> In Zaire, in un certo senso, stanno facendo da queste parti.<br />

Il bilanciamento successivo - e rarefatto così come lo richiede l’orecchio - <strong>di</strong> Passage e richiamando - come suggeriscono<br />

le note stampa - il minimalismo italiano <strong>di</strong> Cacciaapaglia e Giusto Pio. Fractured Mirror chiude il giro dell’album,<br />

e lo fa in uno dei mo<strong>di</strong> più enigmatici possibili: lasciando che un giro <strong>di</strong> chitarra, semplice e interlocutorio,<br />

rimanga se stesso, ripetuto ipnoticamente - ma non ossessivamente - fino alla fine. Un <strong>di</strong>sco che collega mon<strong>di</strong> che<br />

l’abitu<strong>di</strong>ne ci fa qualificare molto spesso come incompossibili. Non è così e Au<strong>di</strong>ence Of One sta qui a <strong>di</strong>mostrarcelo.<br />

(7.5/10)<br />

GaSpare caliri<br />

e Nicki Minaj), la banale ringtone-dance <strong>di</strong> Girl Gone<br />

Wild - e il primissimo snippet <strong>di</strong>ffuso in rete (Superstar<br />

e l’agghiacciante chorus “uh la la, you’re my superstar.<br />

Uh la la, love the way that you are” ) delineavano nel<br />

peggiore dei mo<strong>di</strong> un ritorno al pop da intrattenimento<br />

spicciolo, decisamente macchiettistico (come <strong>di</strong>menticare<br />

la Cher <strong>di</strong> Believe?). Tre dei brani più insulsi <strong>di</strong> un<br />

lotto che spinge sulla cassa dritta sia in I’m Ad<strong>di</strong>cted che<br />

in Gang Bang, la prima debitrice dell’house <strong>di</strong> qualche<br />

anno fa, la seconda - più interessante - dal suono maggiormente<br />

marziale ed erotico (e non manca neanche<br />

il break in fake-dubstep).Ancora in compagnia <strong>di</strong> Nicki<br />

Minaj, siamo in zona American Life (quel passaggio “I<br />

tried to be...”) nel pseudorap <strong>di</strong> I Don’t Give A, in zona<br />

Beautiful Stranger in I’m A Sinner, nel dancefloor truzzo in<br />

Turn Up The Ra<strong>di</strong>o (con la mano <strong>di</strong> Martin Solveig a darci<br />

pesante), va meglio con William Orbit al desk: nella ballad<br />

cristallina Falling Free, negli eighties <strong>di</strong> Love Spent e<br />

nella traccia - inclusa nel film W.E. - dal vago sapore anni<br />

‘90, Masterpiece. Le tracce aggiuntive contenute nella<br />

versione deluxe non fanno altro che aumentare la varietà<br />

a <strong>di</strong>mostrazione che MDNA è l’ennesimo album <strong>di</strong><br />

produttori più che <strong>di</strong> musicisti.Un passo avanti rispetto<br />

alla debacle <strong>di</strong> Hard Candy, Madonna 2012 è una star<br />

stagionata che non sa bene dove e a cosa aggrapparsi<br />

per mantenere la pesante quanto fasti<strong>di</strong>osa nomea regina<br />

del pop. Pur d’accontentare il suo pubblico, a costo<br />

<strong>di</strong> annaspare tra frivolezze pop e dozzinale dance, ha<br />

perso la capacità <strong>di</strong> guardare al futuro e d’osservare il<br />

passato nella giusta prospettiva.<br />

(5.2/10)<br />

riccardo zaGaGlia<br />

MaGic caStleS - MaGic caStleS (a., Marzo<br />

2012)<br />

Genere: psych-shoeGaze<br />

Anton Newcombe come Julian Cope? Autori che non<br />

paghi <strong>di</strong> portare avanti, testardamente si <strong>di</strong>rebbe, una<br />

carriera ventennale e più senza compromessi né aggiustamenti<br />

<strong>di</strong> sorta, si mettono a fare i talent scout sco-<br />

74 75


prendo personaggini niente male? La risposta è affermativa<br />

se si prendono questi Magic Castles, all’esor<strong>di</strong>o<br />

“ufficiale” proprio sulla A recs dell’irascibile inglesotto<br />

(sì, è americano ma dentro è inglese fino al midollo),<br />

un po’ come avvenne mesi fa per gli acclamati Dead<br />

Skeletons. La provenienza è meno esotica, Minneapolis<br />

al posto della affascinante e misteriosa Islanda, ma l’interpretazione<br />

lisergica/gaze delle istanze psych è molto<br />

simile, almeno per le affinità elettive. Lì più <strong>di</strong>rompenti e<br />

compatti, qui più evanescenti, (tra)sognanti e deliziosi.<br />

Il duo + n composto da Jason Edmonds e Jeremiah<br />

Doering si pone in scia al suono made in Spacemen<br />

3 privato della consistenza a tratti parossistica del wall<br />

of sound o dei Velvet timi<strong>di</strong> che si guardano le scarpe,<br />

ma spesso, nei passaggi più bucolici e sospesi, ricorda<br />

esperienze fondamentali come Galaxy 500 o minori<br />

come gli Skygreen Leopards <strong>di</strong> Donovan Quinn. Un<br />

tentativo <strong>di</strong> fondere accessibilità “pop” e sperimentalismo<br />

free-form, misto a reminiscenze forest folk <strong>di</strong> matrice<br />

new weird america che trova la sua più compiuta<br />

forma nelle cullanti dolcezze del trittico d’apertura Death<br />

Dreams, Now I’m A Little Cloud e Imaginary Friends<br />

o nelle <strong>di</strong>latazioni paniche <strong>di</strong> Ballad Of The Golden Bird<br />

- irresistibile crescendo shoegaze tra tamburi e chitarre<br />

sixties che riesuma effluvi californiani - e All My Prayers,<br />

in cui ad emergere è l’aspetto da pastorale psych-rock<br />

in elogio della lentezza che fa la fortuna <strong>di</strong> bands come<br />

i Royal Baths.<br />

Altrove le musiche si irrobustiscono e il filone psych/<br />

shoegaze calca le gesta della citata band <strong>di</strong> Jason Pierce<br />

ed epigoni tutti (Mystical Sage Warrior, Emery Memories)<br />

o si coniuga alla reiterazione alla maniera dei Suicide<br />

(Songs Of The Forest) ma rimanendo sempre sulla freakeria<br />

spinta tra percussioni new-age e flautini sparsi. L’immaginario<br />

elaborato dai Magic Castles è trasognante, le<br />

atmosfere cullanti, le sonorità da allucinazioni paniche.<br />

Toccherà dare atto a mr. BJM che come talent scout ha<br />

un gran futuro?<br />

(7.3/10)<br />

Stefano pifferi<br />

Mattia coletti - the land (Bloody Sound<br />

fucktory, Marzo 2012)<br />

Genere: Guitar solo<br />

Disturbi elettrostatici, come <strong>di</strong> falsi contatti, sottesi<br />

all’ormai caratteristico stile chitarristico del marchigiano.<br />

Si apre e si chiude così, con Pitagora e A Time Full Of<br />

Boxes, i pezzi più nervosi ed elettrici dell’intero lotto, il<br />

quarto lavoro in solo <strong>di</strong> Mattia Coletti, ormai affermato<br />

musicista e produttore con un curriculum non in<strong>di</strong>fferente<br />

alle spalle: Se<strong>di</strong>a, Polvere, Christa Pfangen,<br />

Damo Suzuki’s Network, Leg Leg.<br />

Nel mezzo, chitarre (quasi sempre) acustiche che si<br />

specchiano in incedere bluesy, che giocano a rimpiattino<br />

col folk tra<strong>di</strong>zionale (la title track e il suo lullaby acustico<br />

ed estatico) o con ossessioni malinconiche (Wind<br />

Glass) snodandosi tra reiterazioni e oscillazioni in grado<br />

<strong>di</strong> giocarsela alla pari non solo coi classici mostri sacri <strong>di</strong><br />

riferimento ma anche con le nuove leve, come il Mark<br />

McGuire solo delle ultime produzioni. Le elegie acustiche<br />

<strong>di</strong> Greta e Ghost West, vero cuore ideologico dell’album,<br />

col loro strofinio <strong>di</strong> corde sommesso <strong>di</strong>cono <strong>di</strong> un<br />

mondo pacificato, <strong>di</strong> lande aperte, <strong>di</strong> confini smisurati e<br />

comunicazione universale comprensibili a occhi chiusi<br />

e orecchie aperte.<br />

Quelle <strong>di</strong> Coletti sono cifre chitarristiche che si muovono<br />

nell’oceano della ripetizione, quasi sempre uguali a se<br />

stesse, ma che in realtà tendono all’aggregazione come<br />

se si trattasse <strong>di</strong> frattali sonori, sorta <strong>di</strong> dolci haiku <strong>di</strong><br />

suoni come notavamo già in Pantagruele. Corda su corda<br />

in una stratificazione che non è mai sovrabbondanza<br />

o mero accumulo, quanto vibrare <strong>di</strong> dolci, isolati suoni<br />

che ricompongono nel loro insieme il sentire musicale<br />

del marchigiano. Un sentire che è fatto in egual misura<br />

<strong>di</strong> melo<strong>di</strong>a e sperimentazione, ricerca e tra<strong>di</strong>zione,<br />

essenzialità ed eleganza. Da ascoltare in solitu<strong>di</strong>ne e<br />

penombra, ovvio.<br />

(7.2/10)<br />

Stefano pifferi<br />

MelvinS - the BullS & the BeeS (Scion a/v,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: doom-sludGe<br />

E così anche i vecchi Melvins si “modernizzano” emancipandosi<br />

dal supporto fisico. The Bulls & The Bees è infatti<br />

un ep <strong>di</strong>sponibile in download gratuito che fa da ponte<br />

tra The Bride Screamed Murder e il prossimo Freak Puke,<br />

previsto per giugno prossimo.Le premesse, stando a<br />

queste cinque tracce, sono delle migliori. L’ormai stabilizzato<br />

quartetto torna ad un suono più monolitico,<br />

grezzo e possente, fatto del classico rifferama trituratutto,<br />

svisate doom, caracollante sludge e ritmiche pachidermiche,<br />

ma non lesina in weir<strong>di</strong>smi sperimentali.<br />

Se l’iniziale The War On Wisdom (autoironia pungente e<br />

un po’ macabra inclusa, come da video) e la conclusiva<br />

National Hamster sono metallose applicazioni del Melvins-pensiero<br />

- roba da headbanging furibondo e corna<br />

al cielo, per capirsi - e We Are Doomed un macilento<br />

procedere doomy tra assoli e sezione ritmica pesissima,<br />

Friends Before Larry (i cui clangori industriali si sciolgono<br />

in una sorta <strong>di</strong> epic metal) e la chiesastica e straniante<br />

A Really Long Wait ci ricordano come Buzzo & co. non si<br />

siano mai adagiati sul già detto.<br />

Cambiano le strategie, insomma, ma i Melvins non floppano<br />

mai. Quando si <strong>di</strong>ce una sicurezza.<br />

(6.5/10)<br />

Stefano pifferi<br />

Micol Martinez - la teSta dentro<br />

(<strong>di</strong>Scipline, feBBraio 2012)<br />

Genere: folk-cantautorato<br />

A produrre non c’è più Cesare Basile come nell’esor<strong>di</strong>o<br />

del 2010 Copenhagen ma i suoni rimangono essenziali:<br />

chitarra acustica, elettrica, batteria, basso e qualche<br />

altro strumento a fare da contorno. Tutto dosato alla<br />

perfezione, con una misura e una parsimonia che non<br />

solo non appiattisce le nove tracce in scaletta, ma le<br />

esalta, richiamando una sobrietà d’altri tempi. Si parla <strong>di</strong><br />

canzone d’autore e <strong>di</strong> un rock sottotraccia nel secondo<br />

<strong>di</strong>sco <strong>di</strong> Micol Martinez, tra ritmi sincopati, qualche accelerazione<br />

improvvisa e l’ottimo lavoro <strong>di</strong> Luca Recchia<br />

e Guido Andreani sui suoni.<br />

Nancy Sinatra fa capolino ne L’alveare, un Ivano Fossati<br />

in prestito cesella Sarà d’inverno, certi Blonde Redhead<br />

<strong>di</strong> sponda spuntano fuori in 60 secon<strong>di</strong>, con la Cristina<br />

Donà <strong>di</strong> <strong>di</strong>schi come Tregua praticamente onnipresente.<br />

In questo senso, i binari stilistici della seconda fatica<br />

della musicista milanese rimangono più o meno quelli<br />

dell’episo<strong>di</strong>o precedente, anche se il tiro lo si aggiusta<br />

verso <strong>di</strong>rettive più “pop”, abbandonando certe obliquità<br />

<strong>di</strong> arrangiamento tipicamente à la Basile. La femminilità<br />

del folk riguadagnata in un solo istante, insomma,<br />

a scapito <strong>di</strong> un’inquitu<strong>di</strong>ne carnale che sembra ormai<br />

soltanto un ricordo.<br />

Dal punto <strong>di</strong> vista della scrittura, della sostanza e della<br />

cre<strong>di</strong>bilità, La testa dentro è un <strong>di</strong>sco che conferma<br />

le buone cose già ascoltate in precedenza, anche se a<br />

mancare, forse, è l’ultimo scatto in termini <strong>di</strong> personalità.<br />

Per intenderci, ciò che separa l’artista unica dalla<br />

musicista capace.<br />

(7/10)<br />

faBrizio zaMpiGhi<br />

Mondo naif - eSSere Sotterraneo<br />

(autoprodotto, feBBraio 2012)<br />

Genere: post stoner<br />

Ascoltando l’album d’esor<strong>di</strong>o dei Mondo Naif, mi sono<br />

venuti in mente quegli antichi demo su cassettina, più<br />

o meno a metà anni Ottanta, firmati da band già consapevoli<br />

d’essere arrivate fuori tempo massimo e che pure<br />

non rinunciavano a calare sul piatto il lirismo irruento<br />

dei 70s, anzi facendosene un vanto. Ebbene, nella attuale<br />

misticanza proteiforme <strong>di</strong> forme e stili, questo Essere<br />

sotterraneo suona fieramente obsoleto ma del tutto<br />

congruo e plausibile, proprio perché si propone come<br />

particolare angolo <strong>di</strong> incidenza sul frastagliato immaginario<br />

a <strong>di</strong>sposizione del rockofilo contemporaneo.<br />

Un piglio stoner che esala lirismo psych e pose hard,<br />

quin<strong>di</strong>, nobilitato da testi non banali, sanguigni senza<br />

scadere nel cliché, peraltro interpretati col piglio<br />

graffiante del caso. Si passa dal rock’n’roll sgarbato e<br />

acidone (Violenta, Mario) all’hard-blues melmoso con<br />

legittime pretese cantautorali (La terra trema), per bazzicare<br />

ballate acustiche (Boblaito) e glasse ai confini del<br />

noise (Eloise). Particelle Doors e Ten Years After, Refused<br />

e ovviamente Kyuss, ma anche Verdena e Marlene<br />

Kuntz perché non è del tutto vero che i tre da Montebelluna<br />

ascoltano solo le canzoni che ascoltavano i loro<br />

padri, come sostengono in Y Fire, nella quale peraltro<br />

dopo un inizio <strong>di</strong> strattoni blues rock beccheggiano nella<br />

lentezza densa ed evocativa dei Pearl Jam altezza<br />

Presentense.<br />

Al netto <strong>di</strong> qualche ingenuità (l’approccio adolescenziale<br />

<strong>di</strong> Come me, la teatralità fuori luogo del talkin’ in Uno,<br />

l’impressionismo aggratis <strong>di</strong> Città...) è un <strong>di</strong>sco che fa<br />

sospettare sviluppi interessanti per i Mondo Naif, fosse<br />

solo per la convinzione che ci mettono.<br />

(6.4/10)<br />

Stefano Solventi<br />

Monolake - GhoStS (Monolake / iMBalance<br />

coMputer MuSic, feBBraio 2012)<br />

Genere: post-minimal<br />

Sono molti i musicisti elettronici che devono qualcosa a<br />

Robert Henke, soprattutto dal punto <strong>di</strong> vista dell’utilizzo<br />

<strong>di</strong> software. Lo sviluppo sul campo e la popolarità ormai<br />

pervasiva <strong>di</strong> Ableton Live è anche merito suo: da almeno<br />

<strong>di</strong>eci anni il music designer si occupa infatti d’ambienti<br />

sonori e visivi. La sua fissazione è immergere se stesso e<br />

l’ascoltatore nell’esperienza artistica attraverso landscape<br />

ricchi <strong>di</strong> timbriche tattili, accompagnati da elementi<br />

ritmici e figure ripetute o magari da una buona dose <strong>di</strong><br />

isolazionismo dronico. Le sue tournée includono sonorizzazioni<br />

surround e sincronia <strong>di</strong> videoistallazioni e i<br />

suoi stu<strong>di</strong> recenti focalizzano l’attenzione su <strong>di</strong>avolerie<br />

soniche quali wave field synthesis e ambisonics.<br />

Dopo il buon Silence, il nuovo album Ghosts (autopubblicato<br />

e prodotto sulla sua etichetta) affronta maggiormente<br />

la sfida ritmica, applicando osmosi inverse<br />

(minimal, house, 2 step, dubstep) alla luce delle consuete<br />

lezioni <strong>di</strong> Maurizio e dell’art techno dei 00s. Il tutto<br />

subodorando le recenti produzioni down to earth <strong>di</strong><br />

Raster Noton e tagliando con sequenze organic-techy<br />

dell’ultimo e pregevole Amon Tobin.<br />

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oren aMBarchi/keiJi haino/JiM o’rourke - iMikuzuShi (Black truffle, Marzo 2012)<br />

Genere: noise<br />

Terzo capitolo per il trio noise delle meraviglie Keiji Haino, Jim O’Rourke, Oren Ambarchi,<br />

che fa seguito a Tima Formosa (2010) ma anche al secondo capitolo In A Flash<br />

Everything Comes Together As One There Is No Need For A Subject, dell’anno scorso.<br />

E se il primo era contestualizzato felicemente nel gioco <strong>di</strong> intarsi delicati delle maglie<br />

dei due compositori più marchiati dalla contemporanea, il secondo segnava un cambio<br />

repentino. La scelta del rumore. Era la testimonianza <strong>di</strong> una intera performance live al<br />

SuperDeluxe <strong>di</strong> Tokyo, tenutasi il 24 gennaio 2010, e sanciva un cambio <strong>di</strong> para<strong>di</strong>gma:<br />

l’elettroacustica <strong>di</strong> Oren e Jim (che intanto da lì a qualche mese si sarebbero sfogati<br />

su Indeed, tra le altre cose) non aveva posto nella nuova strada intrapresa. E, semmai,<br />

il baricentro appariva sempre più agganciato alla follia manifesta <strong>di</strong> Keiji, il ladro <strong>di</strong> u<strong>di</strong>to che tutti conosciamo.<br />

Imikuzushi (“sospensione del giu<strong>di</strong>zio”, o almeno è la cosa più vicina che un non parlante giapponese può recuperare<br />

con i traduttori a sua <strong>di</strong>sposizione) è il doppio vinile definitivo della squadra, dove ci si libera <strong>di</strong> quello che si<br />

era e si va dritto per un sentiero infuocato dove, “semplicemente”, Haino maltratta corde vocali e chitarra, O’Rourke<br />

suona un basso inarrestabile e Ambarchi sta <strong>di</strong>etro a piatti e tamburi, come migliaia <strong>di</strong> altre occasioni più o meno<br />

stabili <strong>di</strong> trio rock. Gli esiti sono deflagranti, a partire dal quarto d’ora della traccia iniziale (Still Unable to Throw Off<br />

That Teaching a Heart Left Abandoned Unable to Get Inside That Empty Space Nerves Freezing That Unconcealed Sadness<br />

I Am Still Unable to Fully Embrace). Nessuna pausa, non c’è tempo <strong>di</strong> respirare, <strong>di</strong> trovare pace. Il pieno <strong>di</strong>venta vuoto<br />

me<strong>di</strong>tativo, e ci si risveglia solo con la cavalcata psichedelica e krauta nell’animo <strong>di</strong> Invited in Practically Drawn in by<br />

Something Facing the Exit of This Hi<strong>di</strong>ng Place Who Is It? That Went in Coming Around Again the Same as Before Who<br />

Is It?, sviluppata secondo un progre<strong>di</strong>re <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssonanze <strong>di</strong>speranti delle <strong>di</strong>storsioni <strong>di</strong> Haino e dal sodalizio infinito<br />

della sezione ritmica dei due compari. Non c’è prevalenza dell’uno rispetto agli altri, perché hanno scoperto <strong>di</strong> aver<br />

bisogno l’uno dell’altro. Non esisterebbero senza la compresenza reciproca.<br />

E così, nella ricerca del prototipo dell’ipnotica jam illimitata noise estrema, che potrebbe non finire mai, i tre sembrano<br />

aver messo a punto la formula, e funziona in maniera davvero selvaggia: ricorda le mosse primor<strong>di</strong>ali <strong>di</strong> Psy<br />

Free, primissimi Tangerine Dream, Amun Düül I, eppure qui non c’è l’impulso della psichedelia a base blues, ma<br />

la depravazione salvifica del rumore che sposa influenze lontane dalla modale occidentale. È musica ancestrale,<br />

mitologizzante, che unisce Keiji, Jim e Oren al<strong>di</strong>là della base geografica nella parte levantina della Terra. Essi sono<br />

tre colossi ipertrofici, ma soprattutto gran<strong>di</strong> esploratori, che non hanno mai avuto problemi a sconfinare, anche a<br />

perdersi a volte. E oggi hanno trovato un terreno comune. Semplice come bere un bicchiere <strong>di</strong> acido. Un territorio<br />

davvero perturbante, qualcosa che graffia nelle viscere. Abbiamo sempre tanto bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>schi così duri, perché<br />

se e quando ne usciamo ne siamo fortificati.<br />

(7.6/10)<br />

GaSpare caliri<br />

Evita <strong>di</strong> scimmiottare sia il lato più muscolare dei finnici<br />

sia quello più stereotipicamente autistico dei mancuniani,<br />

Henke, catturando l’attenzione nell’intersezione del<br />

sound più industrial delle casate Pan Sonic e Autechre<br />

e in generale nei momenti più <strong>di</strong>retti (i NIN minimal <strong>di</strong><br />

Ghosts, le voragini <strong>di</strong> The Existence Of Time, le pulsazioni<br />

tech <strong>di</strong> Discontinuty, il pulseprogramming con organo<br />

<strong>di</strong> Aligning The Daemon), con optimum negli splen<strong>di</strong><strong>di</strong><br />

innesti junglisti <strong>di</strong> Lilith e cose meno pregevoli sul<br />

lato propriamente fantasmatico, predominante, fondante<br />

della tracklist (Phenomenon, Unstable Matter).<br />

Paragonandolo al recente album/sunto Elemental <strong>di</strong><br />

Dem<strong>di</strong>ke Stare, proprio nelle parti che richiedevano<br />

maggiore visione e sincretismo, Ghosts risulta, in definitiva,<br />

accademico e, a tratti, eccessivamente prolisso<br />

nel dettaglio concreto.<br />

(6.8/10)<br />

edoardo Bridda<br />

Moveonout - here (Self recordS, Marzo<br />

2012)<br />

Genere: pop rock<br />

Le nove tracce contenute in Here sono il risultato <strong>di</strong> un<br />

lungo processo <strong>di</strong> trasformazione che ha portato gli<br />

italiani Moveonout - progetto derivato dai precedenti<br />

RML - dalle trame in chiave acustica <strong>di</strong> qualche anno fa<br />

alle strutture elettriche che ne caratterizzano l’attuale<br />

stile. Attitu<strong>di</strong>ne che si concentra nell’ambito del pop<br />

suonato con decisione, privo <strong>di</strong> abbellimenti <strong>di</strong> facciata<br />

e aggressivo, sempre in equilibrio tra melo<strong>di</strong>e cantabili<br />

e andamenti prossimi a quella sfera solitamente classificata<br />

come art rock.<br />

Al centro dello spettro espressivo dei Moveonout c’è<br />

la voce <strong>di</strong> Marianna, capace <strong>di</strong> ingentilire le movenze<br />

sornione <strong>di</strong> brani come Bubbles and Candles o quelle più<br />

movimentate dell’inizale Drury Lane. In questo lavoro<br />

ci sono le basi sulle quali poter costruire qualcosa <strong>di</strong><br />

più ambizioso, anche se non mancano passaggi a vuoto<br />

che denunciano la poca originalità <strong>di</strong> alcune soluzioni.<br />

Il riferimento è a brani come Stay Behind o Mayo, dove<br />

si avverte netta la voglia <strong>di</strong> rendere le atmosfere “esportabili”,<br />

pronte nell’allinearsi alle sonorità d’oltremanica,<br />

perdendo quin<strong>di</strong> un filo del <strong>di</strong>scorso che, in linea <strong>di</strong> massima,<br />

sembrerebbe invece cre<strong>di</strong>bile.<br />

Peccato, perché nei momenti migliori <strong>di</strong> Here - leggi<br />

Clockwise, ma anche la soave Earl Grey - affiora la capacità<br />

dei Moveonout <strong>di</strong> saper costruire parentesi musicali<br />

<strong>di</strong> ottima qualità.<br />

(6.3/10)<br />

roBerto paviGlianiti<br />

neW aGe StepperS - love forever (on-u<br />

Sound, feBBraio 2012)<br />

Genere: dub, world<br />

Per freschezza e spirito dei tempi, i New Age Steppers<br />

rappresentarono nell’imme<strong>di</strong>ato dopo Slits e Pop<br />

Group, il collettivo ideale nel quale fondere ideologia<br />

comunitaria e sonorità contaminate. La lievitazione <strong>di</strong><br />

tutto il calderone sonico che Adrian Sherwood, Mark<br />

Stewart, Ari Up e tanti altri (Style Scott e George Oban<br />

degli Aswad, il jazzista purosangue Steve Beresford, Viv<br />

Alberatine sempre delle Slits, Vicky Aspinall delle Raincoats,<br />

Charles “Eskimo” Fox, ecc...) avevano sperimentato<br />

sulla priopria pelle. Un misto <strong>di</strong> ribellismo punk e cultura<br />

rastafari via soundsystem, con una buona base <strong>di</strong> dub,<br />

sample concreti e tocco tellurico à la PiL.<br />

Per Ari Up, l’esperienza del collettivo e l’amicizia con<br />

Adrian iniziata nel 1978, fu cruciale. Lo step interme<strong>di</strong>o<br />

prima <strong>di</strong> far sparire le proprie tracce e <strong>di</strong> rifugiarsi<br />

con marito e figli prima in Indonesia e Belize, infine<br />

in Giamaica. Durante tutto questo tempo i due vecchi<br />

amici s’erano ripromessi <strong>di</strong> lavorare assieme a un nuovo<br />

album e così, dopo aver riformato le Slits nel 2004 ed<br />

aver inciso un album solista (Dread More Dan Dead), Ari<br />

incrocia il vecchio amico e incide Conquer, uno <strong>di</strong> quei<br />

pezzi Bhangra con inserti Gypsy, reggae e sapori arabi<br />

da sbattere in faccia a M.I.A e a tutte le <strong>di</strong>ve trans world<br />

da alta classifica.<br />

Vecchia bestia, Ari. E’ tornata com’era e ha energia da<br />

vendere. Eppure il destino ha altri programmi e le recapita<br />

un cancro che se la porterà via in ventiquattro mesi.<br />

Lei, invece <strong>di</strong> fermarsi, accelera. Suona in giro per il mondo<br />

con le Slits e al traballare dell’organico tiene in pie<strong>di</strong><br />

la band, a tutti i costi; affianca Lee Scratch Perry e incide<br />

a New York il 7’’ Hello, Hell is Very Low (probabilmente<br />

l’ultimissima traccia registrata); chiede a Sherwood <strong>di</strong><br />

seguirla in Giamaica per l’album che sarà il suo statement<br />

finale. Love Forever ...Ari: la forza <strong>di</strong> questa donna<br />

morta a quarantotto anni con i dread lunghissimi e le<br />

sneakers ai pie<strong>di</strong> in un <strong>di</strong>sco battagliero, beffardo che<br />

sa anche essere scuro e rassegnato.<br />

Contrariamente ai New Age Steppers originali, il sound<br />

dell’album è incentrato sulla cantante, responsabile<br />

<strong>di</strong> tutto il drum programming e i synth. Ad accompagnarla<br />

Denise Sherwood, N. Coplowe, Skip McDonald,<br />

Dave Wright, Filipe Tavares, Ghetto Priest e Adamski, ma<br />

senza <strong>di</strong> loro il risultato sarebbe stato probabilmente lo<br />

stesso. E’ tutto Ari in prima linea e l’Adrian sound. In My<br />

Nerves canta “infermiera sto peggiorando, sto peggiorando”.<br />

Sotto ci mette un woodoo hardcore e i suoi tipici<br />

ululati in<strong>di</strong>ani. Mici<strong>di</strong>ale. Love Me Nights si butta su una<br />

buona pop song inframezzata da rappato e battuta in<br />

levare. Poi è sempre bello sentirla scherzare nella sua lingua<br />

originale, il tedesco (The Scheisse Song, la canzone<br />

della merda, un simpatico giochino reggae per lallazioni<br />

e gag mittel) o sperimentare su territori sci fi techno<br />

(Wounded Animal) non <strong>di</strong>stanti da VCMG.<br />

Proporio come il <strong>di</strong>sco delle Slits, anche quest’album<br />

cala nella seconda metà, specialmente nei momenti<br />

più me<strong>di</strong>tativi (The Last Times), tuttavia, <strong>di</strong>versamente<br />

da Trapped Animal, il merito sta nella coerenza. Ari non<br />

gioca a fare la Spice. Non vuole <strong>di</strong>mostrare nulla a nessuno.<br />

Questa è la sua musica e la sua casa. Ci mancherai<br />

non poco.<br />

(6.8/10)<br />

edoardo Bridda<br />

nite JeWel - one Second of love (Secretly<br />

cana<strong>di</strong>an, Marzo 2012)<br />

Genere: now-soul<br />

Il secondo <strong>di</strong>sco della Gonzales si stacca dal glo e prova<br />

a suonare più r’n’b. Stavolta la ragazza sembra avere le<br />

palle per entrare nel genere e scontrarsi con il boom<br />

del melo<strong>di</strong>co-mainstream professato in mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi da<br />

Adele e Lana Del Rey o con le pazzie dream <strong>di</strong> Grimes.<br />

Non per niente ha cambiato la sua immagine: da in<strong>di</strong>e<br />

78 79


spettinata a <strong>di</strong>va sud americana d’antan.<br />

L’ambiente losangeliano, influenzato comunque dal relax<br />

e dalle atmosfere desertiche, si mostra onestamente,<br />

senza essere ingabbiato troppo nella moda glo (anche<br />

se riman<strong>di</strong> sono ancora presenti, dato che il marito Cole<br />

M. Greif-Neill ha suonato con Ariel Pink), ammiccando<br />

agli Ottanta del sepia-pop-soul patinato (Sade in Mind<br />

& Eyes, Annie Lennox in This Story) tagliando con certe<br />

spezie che vanno un po’ avanti nel tempo (i Novanta,<br />

per intenderci) ricordando blockbuster del livello delle<br />

TLC o Enya (Clive).<br />

La voce c’è (titletrack e Unhearthly Delights insegnano)<br />

e il progetto si orienta su una strada ben definita, che<br />

ad oggi non ha ancora troppe rivali. Potrebbe crescere<br />

bene con un soul misto elettronica low-fi che in David<br />

Lynch trova l’ultimo capofila (ve<strong>di</strong> i synth sporchi e sognanti<br />

<strong>di</strong> No I Don’t o le soluzioni spacey <strong>di</strong> Sister), lasciando<br />

perdere leziosità e inutili lacrime <strong>di</strong> coccodrillo<br />

(bella in questo senso la sensibilità in<strong>di</strong>e-broadcastiana<br />

<strong>di</strong> Memory Man). Appuntiamola sul taccuino.<br />

(6.9/10)<br />

Marco BraGGion<br />

no theeS no eSS - liGhtS over the lake<br />

(folkWit recordS, Gennaio 2012)<br />

Genere: psichedelia folk<br />

Se siete mai stati in alcuni luoghi ameni della Gran Bretagna,<br />

come per esempio le Highlands scozzesi, oppure<br />

in qualcuno dei villaggi sulla costa oceanica dell’Irlanda,<br />

vi sarete accorti che la musica e in particolare il folk sono<br />

ovunque, con una presenza costante e quoti<strong>di</strong>ana, totale.<br />

Non deve fare eccezione nemmeno il sud del Galles,<br />

dove si sono conosciuti due musicisti (ma da quelle parti<br />

sono tutti musicisti) già introdotti nel mondo del folk<br />

visionario e dell’improvissazione bucolica. Si tratta <strong>di</strong><br />

Andy Fung e Paul Battenbourg, entrambi già attivi con<br />

progetti personali. Nel 2011 si mettono a improvvisare<br />

tunes folk schizzati <strong>di</strong> elettronica, field recor<strong>di</strong>ngs, psichedelia<br />

e briciole <strong>di</strong> pop sporcate <strong>di</strong> noise. Il risultato è<br />

un primo EP, seguito a breve da un <strong>di</strong>sco e, infine, questo<br />

terzo lavoro uscito all’inizio del 2012.<br />

Le modalità <strong>di</strong> composizione sono sempre le stesse,<br />

basate sull’estro del momento, catturato con attitu<strong>di</strong>ne<br />

lo-fi e un lavoro <strong>di</strong> post produzione tutto volto a stratificare<br />

un suono complesso ed evocativo. Vi ritroviamo<br />

spinte space/cosmiche (Space Instrumental), un aci<strong>di</strong>ssimo<br />

intreccio <strong>di</strong> voci surf tanto Pet Sounds (la bella<br />

Distang Song), i più canonici mid-tempo Waiting A King<br />

e Let’s Get Away (quest’ultima che sembra fare il verso<br />

ai conterranei The Thrills) con tutti i loro ipnotici voli<br />

psichedelici, lo spoken-word che sembra preso da un<br />

<strong>di</strong>sco dei Cream (Devasted City).<br />

A colpire è la freschezza senza tempo delle canzoni che<br />

toccano tante <strong>di</strong>verse incarnazioni della psichedelia (un<br />

titolo programmatico su tutti: Flying In Dreams) senza<br />

perdere in qualità. Ci si tuffa nel rock con Reality Miss<br />

tinta <strong>di</strong> effetti sintetici, si passa all’affresco bucolico con<br />

accenti canterburiani (Siamese Fighter). Quin<strong>di</strong> rilssatevi<br />

e godetevi il giro in giostra finché ce n’è (o almeno prima<br />

andatevelo ad ascoltare sul loro bandcamp)<br />

(7.15/10)<br />

Marco BoScolo<br />

orBital - Wonky (acp, aprile 2012)<br />

Genere: emoticon techno<br />

Dopo una parentesi in trascurabili solo project (Paul Hartnoll<br />

ha pubblicato a suo nome The Ideal Con<strong>di</strong>tion per ACP<br />

nel 2007; Phil si è cimentato in duo con Nick Smith nel<br />

progetto Long Range, titolare <strong>di</strong> un Madness and Me del<br />

2007 uscito per la personal Long Range Recor<strong>di</strong>ngs), gli<br />

Orbital, dalla reunion del 2008 ai conseguenti live celebrativi<br />

(e la raccolta 20), hanno <strong>di</strong>mostrato una certa freschezza.<br />

A testimonianza, un singolo techno kitch terra<br />

terra ma efficace come Don’t Stop Me/The Gun is Good del<br />

2010 e il video <strong>di</strong>ario delle session <strong>di</strong> Wonky uscito su You<br />

Tube a quasi <strong>di</strong>eci anni da Blue Album.<br />

Paul ha recentemente <strong>di</strong>chiarato a RA <strong>di</strong> avere scelto le<br />

tracce dello stesso Wonky unicamente in base al metro<br />

dell’emozione, caratteristica che gli Orbital coltivano<br />

da sempre e con alterni risultati, specie nella seconda<br />

metà della carriera.Never è sicuramente il miglior tiro<br />

sotto questo profilo, New France, con una stereotipata<br />

Zola Jesus, un comodo ripiego 80s; eppure, se l’album<br />

ha una forza è nell’impatto. Wonky pare pensato per le<br />

performance live, è musica rave evoluta fatta con macchine<br />

analogiche, senz’altro rockista, ma con i numeri<br />

per far ballare: dall’opener Stright Sun al finale fidgettato<br />

<strong>di</strong> Where’s Is It Going?. In mezzo i britannici rielaborano<br />

mode e tendenze del recente passato, uscendosene<br />

con sufficienti retromanie rave early 90s (Stringy Acid),<br />

buona robotica à la Magnetic Man (Beelzedub, un tour<br />

de force <strong>di</strong> half step, wooble e drum’n’bass pronto per<br />

gli sta<strong>di</strong>), <strong>di</strong>vertenti gattofilie grime sotto speed (Wonky<br />

con Lady Leshurr). Il lato più IDM-elaborato è relegato<br />

a brani come Disctractions (un peccato per il refrain,<br />

l’arrangiamento è ottimo) o all’in<strong>di</strong>etronica <strong>di</strong> One Big<br />

Moment (che svolta presto tra melo<strong>di</strong>a e fidgettismi),<br />

anche qui sempre attenti ai tassi <strong>di</strong> barocchismo.<br />

Wonky non fa il botto <strong>di</strong> Further dei Chemical Brothers,<br />

ma è una <strong>di</strong>screta seconda giovinezza per i fratelli.<br />

(6.8/10)<br />

edoardo Bridda<br />

pontiak - echo ono (thrill Jockey, Marzo 2012)<br />

Genere: psych-rock<br />

Secco, teso, vibrante. Materico e viscerale eppure pronto a spiccare il volo verso lande<br />

cosmiche e psichedeliche racchiuse in una forma-canzone relativamente concentrata<br />

e breve. Questo in sunto l’operato del trio americano giunto al proprio zenith creativo<br />

in virtù <strong>di</strong> una capacità oggigiorno sempre più rara. Essere cioè in grado <strong>di</strong> “misurare”<br />

il proprio lavoro, soppesarlo senza appesantirlo in <strong>di</strong>stanze insopportabili - vero male<br />

del genere -, mostrare potenza senza per forza <strong>di</strong> cose essere ridondanti o parossistici,<br />

trovare infine il giusto equilibrio tra le anime che accendono i tre fratelli Carney sin dagli<br />

esor<strong>di</strong>. In soldoni, pesantezze hard, matrice stoner, influenze desert-rock & americana,<br />

velleità psych-cosmiche. In Echo Ono tutto ciò si ritrova in equilibrio invi<strong>di</strong>abile. Non<br />

un minuto fuori posto, non una nota in più del necessario, mai un eccesso <strong>di</strong> zelo in una musica che, trasporto per<br />

trasporto, abbisognerebbe <strong>di</strong> slanci anche irrazionali e senza misura.<br />

L’hard-rock dell’iniziale Lions Of Least, per intendersi, brucia il suo potente concentrato alchemico nel breve volgere<br />

<strong>di</strong> 2 minuti e poco più con piglio quasi garage, mentre il rock desertico che sa <strong>di</strong> Meat Puppets della successiva The<br />

North Coast ne impiega solo uno in più per trascinarsi tra esplosioni e malinconici ripiegamenti.<br />

L’asciuttezza stilistica, la compiutezza esemplare cui accennavamo in apertura contrad<strong>di</strong>stingue tutto l’album, soprattutto<br />

nel suo cuore, quella parte centrale spesa nella ricerca/tributo ad tra<strong>di</strong>zione americana dei gran<strong>di</strong> spazi<br />

ormai fatta propria. Ipnotici fraseggi in crescendo tra devianze psych e slabbrature stoner da sabbia nei capelli (Left<br />

With Lights), hard bonario (Across The Steppe) al crinale tra melo<strong>di</strong>e vocali e reiterate asperità strumentali, umori<br />

post-Tom Petty virato west coast (The Expan<strong>di</strong>ng Sky), omaggi a Neil Young tra dolci carezze e chiose <strong>di</strong>sturbanti<br />

(Silver Shadow) e elegiaci numeri psych-pop, malinconici e da tasto repeat (Stay Out, What A Sight). Il crescendo<br />

dell’accoppiata finale Royal Colors e Panoptica - la prima più evanescente e haunted, la seconda in un baccanale<br />

<strong>di</strong> spirali soniche - occupa un terzo netto dell’intero lavoro e rimette il trio sulle coor<strong>di</strong>nate che ben si conoscono.<br />

Senza inficiare ciò che si è detto <strong>di</strong> Echo Ono ma, anzi, <strong>di</strong>mostrando per l’ennesima volta la posizione <strong>di</strong> battistrada<br />

occupata dai Pontiak. E non solo nel genere <strong>di</strong> riferimento, quanto nell’intero panorama attuale del rock pesante.<br />

(7.4/10)<br />

Stefano pifferi<br />

orcaS - orcaS (Morr MuSic, aprile 2012)<br />

Genere: ambient pop<br />

Flussi <strong>di</strong> pensiero. Echi. Territori lontani e sfocati. Racconto<br />

moderno e intimità agreste. Le maglie del tempo si allargano<br />

e tutto sembra girare a una velocità più consona,<br />

quella giusta, una lentezza che crea spazio, riflessione.<br />

Gli Orcas sono Thomas Meluch (aka Benoit Pioulard)<br />

e Rafael Anton Irisarri. Sono l’incontro tra la delicatezza<br />

pop-folk del primo - giovane e prolifico autore <strong>di</strong> canzoni<br />

a cavallo tra acustica, elettronica e field recor<strong>di</strong>ngs,<br />

dal 2006 <strong>di</strong> stanza in casa Kranky - e l’acume minimal<br />

del secondo, compositore electro-colto noto ai più per<br />

il progetto techno-gaze The Sight Below. Il tutto, con<br />

una forte idea <strong>di</strong> composizione ad aggiungere sostanza<br />

in un contesto dove spesso è la produzione a determinare<br />

il linguaggio e non il contrario.<br />

Un panorama fuori fuoco, ambiente in costante espansione,<br />

qualcosa che avvolge. Il controluce nel cinema<br />

<strong>di</strong> Malik. L’intelligenza timbrica e l’avanguar<strong>di</strong>smo pop<br />

<strong>di</strong> David Sylvian. Il senso del folk più profondo, nella<br />

contemplazione <strong>di</strong> qualcosa che ha che fare tanto col<br />

cielo e il transitare delle nuvole, quanto che con l’acqua,<br />

la terra e le ra<strong>di</strong>ci che affondano in essa.<br />

Il cosmico (il panteismo conclusivo <strong>di</strong> High Fences) e l’essenziale<br />

sono solo una conseguenza, così come l’elettronica<br />

non è che un mezzo per tradurre l’idea; connessioni<br />

elettriche nella mente umana. L’uomo al centro, con la<br />

sua melo<strong>di</strong>a serena e malinconica, e la natura intorno,<br />

quasi in<strong>di</strong>fferente, tra piccoli battiti <strong>di</strong> cassa, note leggere<br />

<strong>di</strong> piano, chitarre volatili e soffici drone, a creare strati,<br />

geometrie liquefatte, fantasmi <strong>di</strong> strutture. E le assenze,<br />

così preziose prima ancora del suono, e quel finire le<br />

canzoni così, quando la canzone finisce.<br />

(7.2/10)<br />

antonio laudazi<br />

80 81


oWun - le fantôMe de GuStav<br />

(autoprodotto, Marzo 2012)<br />

Genere: post punk<br />

I francesi Owun si sono riuniti nel 2007 dopo un lungo<br />

periodo <strong>di</strong> pausa e oggi danno alle stampe il nuovo Le<br />

fantôme de Gustav, album registrato un paio <strong>di</strong> anni fa e<br />

dove per la prima volta si presentano in quartetto, con<br />

sezione ritmica, doppia chitarra e voce.<br />

Si tratta <strong>di</strong> un<strong>di</strong>ci brani che si collocano nell’area tematica<br />

del post-punk, segnati da un approccio deciso a<br />

una materia musicale che viene scolpita con lentezza,<br />

servendosi <strong>di</strong> frequenze basse e affon<strong>di</strong> chitarristici rugginosi.<br />

Un suono determinato, che non bada agli abbellimenti<br />

<strong>di</strong> facciata, efficacie quando si pone l’obiettivo <strong>di</strong><br />

lasciare un solco profondo nell’ascoltatore - è il caso <strong>di</strong><br />

Persephone - ma meno coinvolgente in episo<strong>di</strong> in cui la<br />

band ricicla una psichedelia d’annata non troppo attraente.<br />

La voce <strong>di</strong> Alexandre Turpin sembra arrivare dal<br />

sottosuolo, tanto è coperta dall’intreccio strumentale<br />

che la band costruisce servendosi <strong>di</strong> sonorità scurissime.<br />

Difficilmente i timbri si aprono a favore <strong>di</strong> una melo<strong>di</strong>a<br />

più commestibile, anche se brani come Berceaux - con<br />

tanto <strong>di</strong> uccellini in sottofondo - o la wave <strong>di</strong> Muralité lasciano<br />

spazio a soluzioni leggermente più colorate.<br />

Probabilmente gli Owun non si smarcheranno mai dal<br />

contesto underground nel quale operano, ma il loro<br />

album merita l’approvazione degli amanti del genere.<br />

Con un “Volume premier” posto sul retro <strong>di</strong> copertina<br />

che lascia aperta la possibilità <strong>di</strong> un intrigante continuo.<br />

Staremo a vedere.<br />

(6.3/10)<br />

roBerto paviGlianiti<br />

papier tiGre - recreation (africantape,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: noise rock<br />

Non convince del tutto la formula stilistica dei francesi<br />

Papier Tigre, band che con Recreation arriva alla terza<br />

fatica sulla lunga <strong>di</strong>stanza a cinque anni da un debutto<br />

omonimo che aveva fatto sperare per il meglio.<br />

I ragazzi continuano a tessere una trama fatta <strong>di</strong> intrecci<br />

chitarristici, break ritmici e tentativi - che vanno spesso<br />

a vuoto - <strong>di</strong> mettere in pie<strong>di</strong> qualche ritornello efficace<br />

senza tuttavia ottenere la necessaria consistenza formale,<br />

ve<strong>di</strong> This and That and More of this and That. In altri<br />

brani come lo sfilacciato The Later Reply e lì dove affiora<br />

qualche barlume <strong>di</strong> concretezza, è evidente il ricongiungimento<br />

a realtà già esistenti nell’ambito noise-rock<br />

europeo. Anche se alla fine <strong>di</strong> Recreation va apprezzata<br />

la voglia <strong>di</strong> costruire una valida alternanza <strong>di</strong> umori da<br />

parte <strong>di</strong> una band probabilmente più portata al live che<br />

al lavoro su <strong>di</strong>sco. Il qui presente CD trova forse in Teenage<br />

Lifetime il passaggio che meglio <strong>di</strong> altri riesce a<br />

coniugare profon<strong>di</strong>tà espressiva e compattezza formale,<br />

unendo l’idea <strong>di</strong> aggressività a un concetto melo<strong>di</strong>co<br />

cre<strong>di</strong>bile, pur nell’ottica <strong>di</strong> un suono che cambia pelle<br />

con buona <strong>di</strong>sinvoltura. L’alternarsi <strong>di</strong> scenari <strong>di</strong>fferenti<br />

all’interno della stessa traccia, è una caratteristica apprezzabile<br />

dei Papier Tigre, anche se a volte l’eccessiva<br />

mutevolezza si rivela un’arma a doppio taglio.<br />

Tre album all’attivo non sono pochi, ci si poteva attendere<br />

qualcosa in più dal punto <strong>di</strong> vista dell’originalità e<br />

della maturità. Peccato.<br />

(6/10)<br />

roBerto paviGlianiti<br />

patrick WatSon - adventureS in your oWn<br />

Backyard (Secret city, aprile 2012)<br />

Genere: cinepiano pop<br />

Quando l’opener Lighthouse vira verso sonorità tex-mex<br />

si passa davvero il segno: troppi gli elementi che si buttano<br />

nella mischia, in un calderone che vuole essere colto,<br />

ma risulta stucchevole. La musica <strong>di</strong> Patrick Watson<br />

soffre delle stesse problematiche <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Ari Picker<br />

aka Lost In The Trees: sapere <strong>di</strong> essere bravi e volerlo<br />

<strong>di</strong>mostrare a ogni piè sospinto. Così ci si ritrova in un<br />

amalgama <strong>di</strong>somogeneo <strong>di</strong> piano pop orchestrale, con<br />

forti influenze <strong>di</strong> classica e una voce, quella dello stesso<br />

Watson, che cerca <strong>di</strong> inseguire chi non si può seguire<br />

(Antony) per risultare la brutta copia <strong>di</strong> chi è meglio non<br />

seguire (The Antlers). Un <strong>di</strong>sco buono per impressionare<br />

il palato sempliciotto <strong>di</strong> qualcuno, ma a conti fatti<br />

inconsistente.<br />

(5.5/10)<br />

Marco BoScolo<br />

paul Weller - Sonik kickS (iSland, Marzo<br />

2012)<br />

Genere: rock<br />

Pochi secon<strong>di</strong> dopo il play già respiri <strong>di</strong> sollievo perché<br />

il vecchio Paul Weller anche stavolta pare aver evitato la<br />

trappola stucchevole del dad-rock. Ma un attimo dopo<br />

già ti chie<strong>di</strong>: ‘cazzo ha combinato il vecchio mod? In effetti,<br />

ascoltando la buriana umorale del singolo That<br />

Dangerous Age - guizzi & turgori Bowie in salsa kinksiana<br />

- viene da pensare che alla base <strong>di</strong> questo un<strong>di</strong>cesimo album<br />

solista ci sia proprio lo scozzarsi scazzato <strong>di</strong> rigurgiti<br />

modernisti nelle ansie della mezza età. Già, Paul il quasi-vecchio<br />

e una botta <strong>di</strong> vita(lità) che dura da un paio<br />

<strong>di</strong> album a questa parte (22 Dreams e Wake Up The<br />

Nation), la voglia <strong>di</strong> sbrigliare l’estro senza porsi limiti<br />

stilistici, anzi <strong>di</strong> esplorarli questi limiti oltre le convenien-<br />

Sharon van etten - traMp (JaGJaGuWar, Gennaio 2012)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e folk<br />

“E’ il tipico cliché dell’artista <strong>di</strong> New York che non è in grado <strong>di</strong> permettersi un affitto tra un tour e l’altro” raccontava la<br />

giovane Sharon, in un’intervista rilascita pochi mesi fa. Un cliché che la Van Etten ha deciso <strong>di</strong> cavalcare fino in<br />

fondo, tanto da intitolare il proprio album Tramp, vagabondo.<br />

Fortuna che ad offrirle un <strong>di</strong>vano su cui dormire c’era Aaron Dessner dei National. Nel suo garage stu<strong>di</strong>o si è addensato<br />

un umore plumbeo ma non rassegnato, che la Van Etten ha sfruttato con una sapiente gestione dei tempi<br />

drammatici e della costruzione del climax.<br />

A <strong>di</strong>spetto del loro suonare terse ma non esili, minimali ma non scarne, le canzoni <strong>di</strong> Tramp vantano un <strong>di</strong>spiegamento<br />

<strong>di</strong> forze da far tremare i polsi e che comprende, fra gli altri, Matt Barrick dei Walkmen, Zach Condon (aka<br />

Beirut), Jenn Wasner dei Wye Oak ed un’altra sirena del folk meno allineato come<br />

Julianna Barwick. Ci si aspetterebbe <strong>di</strong> sentire la matematica somma delle parti e<br />

invece emerge prepotentemente la personalità della cantautrice la cui interpretazione<br />

trasfigurata in frammenti come Give Out e I’m Wrong è capace <strong>di</strong> muovere a compassione<br />

anche l’ascoltatore più impassibile.<br />

La sua capacità <strong>di</strong> maneggiare temi <strong>di</strong> rivalsa e rancore ci era già nota, ma ammantata<br />

dell’asciuttezza evocativa dei nuovi arrangiamenti, assume oggi un nuovo significato.<br />

Ogni canzone è una tela bianca su cui la sua voce ieratica <strong>di</strong>segna arabeschi e modula<br />

sentimenti livi<strong>di</strong>. Fra eteree marce gotiche (In Line), soul funerei in odor <strong>di</strong> Hazelwood/<br />

Sinatra (Magic Chords) e progressioni inarrestabili (All I Can), le sue sono ballate che si caricano <strong>di</strong> una emozionante<br />

solennità, tanto più preziose quanto più rinunciano alla contingenza per restare magicamente sospese fra tra<strong>di</strong>zione<br />

e contemporaneità.<br />

(7.3/10)<br />

<strong>di</strong>eGo Ballani<br />

ze, per dribblare l’ammuffirsi nell’ologramma piacione<br />

costruito dopo lo smantellamento degli Style Council.<br />

I rischi del caso sono evidenti, su tutti quello <strong>di</strong> sembrare<br />

l’ennesimo tardone con fregole da supergiovane.<br />

Ebbene, in qualche modo Sonik Kicks riesce a fermarsi<br />

un attimo prima <strong>di</strong> scivolare sulla buccia <strong>di</strong> banana,<br />

grazie soprattutto ad un <strong>di</strong>ffuso senso <strong>di</strong> happening e<br />

fermo restando il piglio sferzante <strong>di</strong> chi è cresciuto a<br />

pane e The Who. Il risultato è una scaletta composita<br />

e caleidoscopica, un patchwork febbrile al punto da rasentare<br />

l’irriverenza: si passa dal fervore psych umbratile<br />

<strong>di</strong> Drifters, Paperchase e When Your Garden’s Overgrown<br />

alla wave motoristica <strong>di</strong> Green e Around The Lake (non<br />

lontane dai Wire in fregola cibernetica krautrock), per<br />

poi bazzicare miraggi spacey in Dragonfly (ospite Graham<br />

Coxon all’organo Hammond) e polka acida in Kling<br />

I Klang.<br />

Detto <strong>di</strong> due brevi intermezzi strumentali (la onirica Sleep<br />

of the Serene ed il fugace siparietto noise Twilight),<br />

saremmo fin qui ad una briosa sfuriata iper-pop che<br />

se da un lato - come esplicitamente <strong>di</strong>chiarato dall’ex-<br />

Jam - prende ispirazione dalla versatilità mirabolante<br />

degli amati Tame Impala, dall’altro paga pegno a certa<br />

bi<strong>di</strong>mensionalità mestierante alla Lenny Kravitz, più sagacia<br />

e baldanza che altro. Come <strong>di</strong>re, apprezziamo l’impegno<br />

ma è ben altra la tua tazza <strong>di</strong> tè. Poi purtroppo<br />

c’è anche il piacionismo che rientra dalla finestra, come<br />

il folk soul cameristico <strong>di</strong> By The Waters, la jazzytu<strong>di</strong>ne<br />

patinata <strong>di</strong> Study In Blue (cantata assieme alla moglie<br />

Hannah Andrews) e quella The Attic che è pur gradevole<br />

compitino brit con guest star il sodale Noel Gallagher.<br />

Se il sempre caro Paul con questo <strong>di</strong>sco intendeva aumentare<br />

il tasso <strong>di</strong> entropia del suo quid espressivo, ci è<br />

riuscito benissimo. Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> questo, Sonick Kicks può al<br />

massimo ispirare simpatia e a tratti <strong>di</strong>vertire, senza mai<br />

sembrare davvero interessante.<br />

(5.8/10)<br />

Stefano Solventi<br />

pond - Beard, WiveS, deniM (Modular,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: psycho rock<br />

Inutile spiegare ad un giovane freak come Nick Albrook<br />

che una maggiore attenzione da parte dei me<strong>di</strong>a avrebbe<br />

fatto supporre un nuovo lavoro più tondo e lineare,<br />

da parte <strong>di</strong> chi peraltro, aveva già <strong>di</strong>mostrato <strong>di</strong> saper<br />

82 83


confezionare bizzarre ed entusiasmanti pop song.<br />

Beard, Wives, Denim è il frutto <strong>di</strong> pigre settimane passate<br />

in una fattoria-stu<strong>di</strong>o, nell’isolamanto della campagna<br />

australiana. Una situazione che si è rivelata particolarmente<br />

congeniale ai nostri, che hanno dato vita ad<br />

una jam psichedelica in cui è finito un pò <strong>di</strong> tutto, dal<br />

loro amore per i 60s più sci-fi riletti in chiave Flaming<br />

Lips (When It Explodes), allo psycho glam appreso nei<br />

tour con i MGMT (You Broke My Cool), fino a quei groove<br />

funky (Elegant Design) che sono una vecchia passione<br />

del gruppo dai tempi dei Mink Mussel Creek.<br />

Il cazzeggio eretto a proce<strong>di</strong>mento creativo (evidente<br />

anche nelle gustose note scritte sotto l’effetto <strong>di</strong> qualche<br />

sostanza psicotropa) ha prodotto brani in cui la forma<br />

canzone si sbriciola, erosa dal furore revivalistico. La<br />

cosa più <strong>di</strong>fficile deve essere stata sud<strong>di</strong>videre il flusso<br />

sonoro in singole tracce. Il risultato è che non troverete<br />

sull’album una nuova Annie Orangetree, ma questo non<br />

vuol <strong>di</strong>re che i Pond abbiano sacrificato la loro malizia<br />

pop.<br />

E’ solo che, l’addove il precedent Frond la condensava<br />

(quasi sempre) in verse-chorus-verse da tre minuti,<br />

Beard... preferisce <strong>di</strong>luirla sulla tavolozza con break<br />

spaziali, deliqui floy<strong>di</strong>ani e certo kraut rock più spacey.<br />

Ad omogeneizzare il tutto ci pensa una produzione che<br />

ha i contorni ingialliti <strong>di</strong> un film <strong>di</strong> fantascienza girato<br />

in super 8, grazie a cui i Pond riducono il <strong>di</strong>vario che li<br />

separa dai voli pindarici dei Tame Impala.<br />

(7/10)<br />

<strong>di</strong>eGo Ballani<br />

rocket Juice & the Moon - rocket Juice &<br />

the Moon (honeSt Jon’S recordS, Marzo<br />

2012)<br />

Genere: world<br />

Il parterre è ricchissimo. Loro sono Damon Albarn,<br />

Tony Allen e Flea. L’idea <strong>di</strong> mettersi assieme era nata<br />

già nel 2008, a mo’ <strong>di</strong> prosecuzione laterale dell’esperienza<br />

The Good, The Bad, & the Queen, ma solo alla fine<br />

dell’estate 2011 i tre sono riusciti a combinare qualcosa<br />

(con il primo live ufficiale in una apparizione a sorpresa<br />

al Festival <strong>di</strong> Cork, in ottobre). Gli ospiti sull’album, che<br />

esce adesso per la label personale <strong>di</strong> Damon, sono gente<br />

tipo Erykah Badu, il produttore deep Theo Parrish,<br />

l’Hipnotic Brass Ensemble <strong>di</strong> Phil Cohran (tra i fondatori<br />

della AACM e nella Arkestra <strong>di</strong> Sun Ra), Fatoumata Diawara<br />

(nuova stella della World Music, una suadente cantante<br />

del Mali; regione africana della cui musica Damon<br />

è chiaramente innamorato), i rapper ghanesi M.anifest<br />

e M3nsa e il veterano jazz/world Cheick Ti<strong>di</strong>ane Seck<br />

(anche lui proveniente dal Mali e - come Allen - già tra<br />

le file delle band <strong>di</strong> Fela Kuti; in seguito, collaboratore,<br />

tra gli altri, <strong>di</strong> Youssou N’Dour). Il mastering del <strong>di</strong>sco<br />

è stato curato dal co-boss della Basic Channel Mark<br />

Ernestus (che ha anche regalato al progetto uno strumentale<br />

dub, non presente nell’album e reperibile solo<br />

su un 45 giri in e<strong>di</strong>zione limitata). Insomma, tanti nomi<br />

e tantissima carne al fuoco. In teoria.<br />

Damon, grande orchestratore, finora era più o meno riuscito,<br />

pur pensandone cento e facendone mille, a non<br />

inflazionarsi troppo; ma con questo ennesimo progetto<br />

- ed ennesimo progetto world - non l’ha proprio azzeccata.<br />

Troppi nomi, troppe suggestioni e troppe poche<br />

idee. Lui probabilmente voleva cavare fuori da qualche<br />

jam <strong>di</strong> lusso un personale bignamino “soft afro”, mentre<br />

invece il risultato è una raccolta <strong>di</strong> sketch world pop-rock<br />

senza troppo mordente né colore, frizzantini come sappiamo<br />

benissimo che Damon riesce a fare, certo, e con i<br />

marchi dello slappettino funky <strong>di</strong> Flea e della circolarità<br />

della batteria <strong>di</strong> Allen e delle sue legnose ghost notes<br />

(peraltro non in particolare spolvero). Ma niente <strong>di</strong> più.<br />

C’è il vocoder della Badu su Hey, Shooter, c’è qualche<br />

numerino reggae-dub indovinato (Check Out) e Damon<br />

si <strong>di</strong>verte un sacco con le tastierine (Extinguished; l’arabeggiante<br />

Worries; There, coi synth giocattolosi <strong>di</strong> Seck)<br />

e ad aggiornare il tipico melo<strong>di</strong>smo tardo-Blur in salsa<br />

afro-caraibica nella intro <strong>di</strong> Follow-Fashion e Poison. Ma<br />

non si va mai oltre il piacevole <strong>di</strong> strumentali tenuamente<br />

atmosferici, ed è grazie soprattutto a Fatouma e ai<br />

fiati guidati da Cohran.<br />

(5.4/10)<br />

GaBriele Marino<br />

Scratch MaSSive - nuit de rêve (pSchent,<br />

noveMBre 2011)<br />

Genere: french touch<br />

Terzo <strong>di</strong>sco per Maud Geffray e Sebastien Chenaut. Il<br />

duo che ha lavorato con Karl Lagerfeld e Zoe Cassavetes<br />

(il video <strong>di</strong> Like You Said), ed è stato prodotto nel sophomore<br />

Time nientemeno che da Moritz von Oswald,<br />

rivanga gli anni Ottanta. La moda delle spalline è ormai<br />

già acqua passata. Ma i due sanno che si fa presto ad annegare<br />

in cattive acque e tentano (riuscendoci all’80%)<br />

<strong>di</strong> non apparire né troppo presuntuosi né troppo malinconici.<br />

Il risultato è ben prodotto, le collaborazioni <strong>di</strong> rispetto<br />

ci sono: Jimmy Somerville (sì proprio l’ex Bronski Beat)<br />

canta in Take Me There e riporta a galla il fantasma della<br />

sua aura strabordante ricor<strong>di</strong> e nostalgie con acuti che<br />

non risultano leziosi ma che definiscono un synth pop<br />

onesto e ballabile per la generazione glo; c’è poi Daniel<br />

Agust dei GusGus che naviga su atmosfere slow-synth<br />

in fissa con una strana emulazione dei Pet Shop Boys<br />

(Paris) e per finire Chloé che sussurra versi da dark lady<br />

in Closer. Il resto è un macinino retrofiliaco con tastierine<br />

in eco A-ha (Break Away), capziosi misteri da tempo<br />

delle mele (Golden Dreams), innocenti incursioni fintodark<br />

(Nuit De Mes Rêves) e pacchianerie a 8 bit (Secrets).<br />

Senza infamia e senza lode, un <strong>di</strong>sco che si fa ascoltare<br />

e che sta bene fra le compilation Kitsuné e le sfilate <strong>di</strong><br />

moda parigine.<br />

(6/10)<br />

Marco BraGGion<br />

Sea of BeeS - oranGefarBen (heavenly,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: folk pop<br />

Non che col precedente Crossbill ci avesse prospettato<br />

chissà quali meraviglie, però almeno barlumi <strong>di</strong> talento<br />

s’intravedevano tra i quadretti madreperla e la vibrazione<br />

retrofuturista. Un patrimonio magro ma pur sempre<br />

qualcosa, che tuttavia il qui presente Orangefarben -<br />

secondo capitolo targato Sea Of Bees, solo project <strong>di</strong><br />

Julie Ann Baenziger - <strong>di</strong>ssipa senza appello. L’estro è<br />

più o meno lo stesso, pungolo folk messo a bagno tra<br />

caligini dreamy e pop-wave fiabesca, però stavolta la<br />

californiana non azzecca il giusto dosaggio. Ci si avvicina<br />

quando tenta <strong>di</strong> ricollocare il piglio 80s d’una Stevie<br />

Nicks tra capricci vaporosi Kate Bush (come in Teeth e<br />

Alien), oppure quando rilegge Leaving On A Jet Plane <strong>di</strong><br />

John Denver (qui ribattezzata semplicemente Leaving,<br />

perché è stato stabilito che i titoli debbano essere d’una<br />

sola parola) uscendone con uno strano intruglio <strong>di</strong> ingenuità<br />

Fifties e cromatismi sovraesposti Beach House.<br />

Il resto però è canzonettismo melenso e senza alibi pomo<br />

(graziad<strong>di</strong>o), che ti lascia con la spiacevole sensazione<br />

<strong>di</strong> me<strong>di</strong>ocrità ad ogni livello (scrittura, arrangiamento,<br />

interpretazione). Prova scialba che ti fa venire<br />

la tentazione <strong>di</strong> archiviare definitivamente il file Sea of<br />

Bees.<br />

(5/10)<br />

Stefano Solventi<br />

Sendai - Geotope (tiMe to expreSS, Marzo<br />

2012)<br />

Genere: minimal<br />

Metti insieme due teste calde del panorama sperimentale<br />

o<strong>di</strong>erno, attivi da tempo anche in ambienti come la<br />

danza e il teatro, aggiungici un pizzico <strong>di</strong> genialità e la<br />

follia che a volte può far perdere <strong>di</strong> vista l’obiettivo, e il<br />

gioco è fatto. Ecco Geotope, il primo Lp <strong>di</strong> Yves De Mey<br />

e Peter Van Hoesen sotto il progetto Sendai (nome che<br />

già la <strong>di</strong>ce lunga sulle atmosfere vagamente spirituali<br />

del <strong>di</strong>sco), a tentare l’arduo compito <strong>di</strong> sperimentare<br />

sì, ma in pista. Impresa possibile (pensiamo al Byetone<br />

che l’anno scorso ci ha fatto ballare con Symeta), basta<br />

solo essere decisi sulla via da seguire e non smarrirla.<br />

Artefici <strong>di</strong> una minimal astratta e concettuale degna dei<br />

migliori Pan Sonic, da anni ormai <strong>di</strong>ventata appannaggio<br />

dei più a suon <strong>di</strong> esasperazioni, i Sendai vogliono<br />

darci prova <strong>di</strong> saper andare incontro alle esigenze del<br />

dancefloor, sperimentando un sound più concreto e<br />

meno rarefatto, ammiccante a certi capisal<strong>di</strong> del passato<br />

(Plastikman, ma anche il primo Alex Under). Minimal<br />

meets club, dunque? Sì e no. Il tentativo si avverte ma<br />

sempre fin troppo velatamente, e il <strong>di</strong>sco rimane in bilico,<br />

concedendoci solo a sprazzi qualche barlume <strong>di</strong><br />

originalità e pragmatismo. Le tracce più celebrali sono<br />

tecnicamente impeccabili e non deludono le aspettative:<br />

se con Terminal Silver Box ci tuffiamo nell’ovatta claustrofobica<br />

<strong>di</strong> droni classici schizzati su sottofondo sognante<br />

e apocalittico (sembra <strong>di</strong> sentire l’ultimo Cyclo),<br />

in Refusal Celebrate Statistical Probability, un glitch ossessivo<br />

interviene a rendere l’insieme più industrialmente<br />

agonizzante.<br />

Fin qui nulla <strong>di</strong> nuovo, ma tutto ottimamente confezionato.<br />

In Win Trepsit/Brief Delay sette minuti <strong>di</strong> atmosfera<br />

pura ci lasciano navigare in un nulla quantomai accogliente,<br />

mentre Emptiness Of Attention è apoteosi del<br />

silenzio, ovvero come rendere l’idea del vuoto attraverso<br />

un semplice rumore, un unico logorante drone. Una<br />

suggestiva o<strong>di</strong>ssea nell’inconscio dunque, atemporale<br />

e mistica. Ma statica. Le tracce più accese sembrano finalmente<br />

rispondere alle urla dei nostri pie<strong>di</strong>, ma mai<br />

fino in fondo: Following The Constant ci annoia con un<br />

breakbeat <strong>di</strong> due secon<strong>di</strong> ripetuto per ben otto minuti,<br />

mentre Further Vexations, potente e sincopata, omaggia<br />

sì l’Alva Noto più in forma, ma non abbastanza per<br />

rimanere impressa.<br />

Solo due pezzi riescono ad incarnare il compromesso<br />

perfetto tra mente e corpo che si va cercando, per quanto<br />

in modo <strong>di</strong>verso: EP2010-4, che nitida e secca strizza<br />

l’occhio al dubstep, con glitch <strong>di</strong>storti e synth aci<strong>di</strong> ad<br />

affinare ancora più il suono e amplificarlo, e Geotope,<br />

dove i drums scompaiono e si piomba in un tunnel techno<br />

dalla cassa dritta, profondo e viscerale. Ecco il <strong>di</strong>sco<br />

dovrebbe giostrarsi tra equilibri come questi per funzionare<br />

davvero, ma l’eccesso <strong>di</strong> zelo gioca brutti scherzi e il<br />

rischio è quello <strong>di</strong> smarrirsi in una ricerca fine a sé stessa.<br />

Bello ma non balla. Non come avrebbe voluto, almeno.<br />

(6.8/10)<br />

Sarah venturini<br />

84 85


the ShinS - port of MorroW (aural apothecary, Marzo 2012)<br />

Genere: pop<br />

A neanche due anni da Wincing The Night Away, James Mercer aveva rivoluzionato la propria vita. Era <strong>di</strong>ventato<br />

padre e aveva debuttato con una line up completamente rinnovata comprendente membri dei Modest Mouse<br />

e Fruit Bats. Inoltre aveva scelto <strong>di</strong> abbandonare la Sub Pop per mettersi in proprio con un’etichetta personale, la<br />

Aural Apothecary, con la quale pubblicare, grazie all’aiuto <strong>di</strong> un manager e la <strong>di</strong>stribuzione della Columbia, ogni<br />

futuro lavoro a nome The Shins.<br />

Molti dei brani del nuovo Port Of Morrow sono stati a lungo testati dal vivo, mentre il songrwriter e cantante si<br />

godeva alcune partecipazioni da pop star conquistate negli anni. Lo avvistiamo ai<br />

Grammy intervistato da Kermit dei Muppet e al funerale <strong>di</strong> Heat Ledger mentre canta<br />

una cover <strong>di</strong> Neil Young, lo ascoltiamo nei <strong>di</strong>screti ma non imprescin<strong>di</strong>bili Broken<br />

Bells con Danger Mouse e infine lo valutiamo su <strong>di</strong>sco nella prova più pop della sua<br />

carriera, il <strong>di</strong>sco perfetto che Wincing era stato solo nelle intenzioni. Proprio nella consapovolezza<br />

degli errori del recente passato - eccessiva varietà <strong>di</strong> formati, influenze e<br />

arrangiamenti - Mercer fila dritto potando ogni influenza “alternative” (nell’accezione<br />

dei Grammy Awards) nella propria musica, a partire dall’amore per il pop britannico.<br />

Alla stregua <strong>di</strong> ciò che abbiamo ascoltato in ex in<strong>di</strong>e act a stellestrisce come Death<br />

Cab For Cutie o The Decemberists, lo ritroviamo a trafficare con una musica normalizzata, forse eccessivamente<br />

rotonda ma con dalla propria parte una più che solida scrittura e cura per il dettaglio. Arrangiamenti pop-rock<br />

come country pop, brio, tante ballate dolciastre (September) magari con tocchi soul e orchestralità 70s (40 Mark<br />

Strasse, Port Of Morrow), formano un <strong>di</strong>segno funzionale <strong>di</strong> una (one man) band che al netto del proprio passato,<br />

cammina elegantemente nel mainstream.<br />

La zampata Mercer non manca (It’s Only Life), i riferimenti ai Crowded House e la batteria dancey primi Novanta<br />

esaltano il pop coloratissimo <strong>di</strong> No Way Down, il tocco jingle jangle è ripreso nella solare Bait And Switch, la trovata<br />

mortuaria del videoclip del singolo Simple Song accompagna un complesso intreccio sonico con citazioni <strong>di</strong> The<br />

Who, Supertramp e Abba. Gli Shins sono morti. Viva gli Shins.<br />

(7.3/10)<br />

edoardo Bridda<br />

Speech deBelle - freedoM of Speech (BiG<br />

dada recor<strong>di</strong>nGS, feBBraio 2012)<br />

Genere: hip-hop<br />

Secondo album per la ragazza del rap inglese vincitrice<br />

nel 2009 del Mercury Prize. Il <strong>di</strong>sco - anticipato da<br />

una Blaze Up A Fire che raccontava il feeling imme<strong>di</strong>atamente<br />

successivo alle rivolte lon<strong>di</strong>nesi dell’estate 2011-<br />

segna un’evasione dalle teorie teen pur sopra la me<strong>di</strong>a<br />

degli esor<strong>di</strong>. Inseritasi nella crew Big Dada, Speech<br />

ha utilizzato i canali promozionali <strong>di</strong> personaggi culto<br />

come Bonobo e Roots Manuva (che è in featuring con<br />

Realism sulla già citata Blaze Up A Fire) per cercare una<br />

via personale all’UK rap.<br />

La strada è ancora lunga, almeno a giu<strong>di</strong>care alcune cadute<br />

<strong>di</strong> tono come i riempitivi che ammiccano al soul<br />

mainstream <strong>di</strong> Live For The Message, le battute banali <strong>di</strong><br />

I’m With It o gli appiattimenti dell’ispirazione <strong>di</strong> Angel<br />

Wings. Quello che salva il <strong>di</strong>sco è l’attitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> protesta<br />

(da qualcuno contestata perché fin troppo leggera) che<br />

spinge non solo i testi ma anche la produzione, il feeling<br />

che nei suoni trova una costruzione compatta (ve<strong>di</strong> le<br />

ottime ritmiche <strong>di</strong> Stu<strong>di</strong>o Backpack Rap che rimandano<br />

da <strong>di</strong>stante alla stagione grime), la ricerca che si smarca<br />

dalle facili istanze dei preset più bolliti trovando nella<br />

liaison con il produttore Kwes una comunione d’intenti<br />

perfetta (il giovane è noto al pubblico per aver lavorato<br />

con Dels, altra stella nascente sul pianeta hh UK). Gli<br />

archi <strong>di</strong> Elephant, una delle prime canzoni ad essere composte,<br />

o gli arrangiamenti della conclusiva e ispirata Sun<br />

Dog sono un buon esempio <strong>di</strong> questo nuovo corso.<br />

Sono passati ormai <strong>di</strong>eci anni da quando la giovane Corynne<br />

Elliott ha iniziato a buttare giù sul <strong>di</strong>ario idee musicali.<br />

La strada intrapresa non corre incontro alla consacrazione<br />

pop (anche se ci ha sbattuto contro), si mette in<br />

<strong>di</strong>scussione <strong>di</strong> continuo e cerca <strong>di</strong> migliorare ogni giorno<br />

con un sentimento <strong>di</strong> cocciutaggine che ci piace (perché<br />

rimanda ad eroine engagé come la Chapman o la Ndegeocello).<br />

Fuori dai percorsi electro dell’onnipresente<br />

crew <strong>di</strong> M.I.A. (ultimamente affiancatasi pure alla regina<br />

del pop Madonna) e lungo sentieri rispettosi della tra<strong>di</strong>zione<br />

ma votati idealmente ad una consapevolezza che<br />

merita rispetto.<br />

(7.1/10)<br />

Marco BraGGion<br />

Spiritualized - SWeet heart SWeet liGht<br />

(douBle Six, aprile 2012)<br />

Genere: psych<br />

Gli Spiritualized ovvero della psichedelia oggi sulla scorta<br />

<strong>di</strong> uno ieri ancora attualissimo, ringalluzzito un paio<br />

<strong>di</strong> anni orsono dalla ristampa arricchita del capolavoro<br />

La<strong>di</strong>es And Gentlemen We Are Floating In Space.<br />

Quello il <strong>di</strong>sco-car<strong>di</strong>ne nel quale confluivano tutte le ossessioni<br />

antiche e nuove (il gospel) <strong>di</strong> Jason Pierce, aka J.<br />

Spacemen, personaggio tanto schivo quanto ambizioso,<br />

un classe ‘65 che probabilmente avrebbe voluto essere<br />

piovuto sul mondo un paio <strong>di</strong> decenni prima, così da<br />

vivere in prima persona le peregrinazioni spacey della<br />

<strong>di</strong>tta Barrett & Waters oppure (e anche) l’allucinazione<br />

nera dei Velvet Underground. Gli toccò invece scrivere<br />

capitoli fondamentali durante gli 80s coi suoi Spacemen<br />

3, ricavando seminale neo-psichedelia da premesse garage<br />

e post-wave, prima che l’avventura andasse a spegnersi<br />

assieme al decennio edonista.<br />

Spiritualized fu l’imme<strong>di</strong>ato nuovo corso, un ventennio<br />

abbondante <strong>di</strong> esiti artistici piuttosto luminosi <strong>di</strong>stribuiti<br />

in sei <strong>di</strong>schi (col picco summenzionato) e chiaroscuri esistenziali<br />

che hanno portato Pierce alle soglie del <strong>di</strong>sarmo<br />

emotivo, fermo restando però il desiderio <strong>di</strong> eccellenza<br />

espressiva e formale (ve<strong>di</strong> l’esecuzione per orchestra<br />

dell’intero La<strong>di</strong>es And Gentleman alla Royal Albert Hall),<br />

talora al limite della megalomania situazionista (come<br />

il concerto sul famigerato vulcano Eyjafjallajökull). A<br />

quattro anni dal buon Songs In A&E, l’annuncio che<br />

l’atteso nuovo lavoro avrebbe virato con decisione sul<br />

versante pop ha fatto drizzare le orecchie a molti. Alcuni<br />

lanci stampa azzardavano ad<strong>di</strong>rittura ammiccamenti alla<br />

calligrafia del sempre caro Brian Wilson. Ebbene, alla<br />

prova dell’ascolto mi viene da <strong>di</strong>re: cazzate. Pierce sta a<br />

Wilson come gli Oasis ai The Who, così a spanna. Se il<br />

metro è l’inventiva pop, ci fa la figura <strong>di</strong> un venticello <strong>di</strong><br />

tramontana contro un ciclone.<br />

In sostanza, il qui presente opus numero sette Sweet<br />

Heart Sweet Light è un fluviale alternarsi <strong>di</strong> garagepsych<br />

corroborato glam e pop orchestrale con generosi<br />

ad<strong>di</strong>tivi gospel, più qualche <strong>di</strong>versivo folk-rock e inevitabili<br />

esiti soul. La sostanziale preve<strong>di</strong>bilità - per non<br />

<strong>di</strong>re piattezza - delle melo<strong>di</strong>e sembra conseguenza <strong>di</strong><br />

una poetica della pienezza sonora che può contare sì<br />

su arrangiamenti e produzione <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne, ma non<br />

riesce mai ad avvicinarsi ad un climax degno <strong>di</strong> questo<br />

nome. Pren<strong>di</strong> i due pezzoni tirati: il singolo Hey Jane col<br />

suo incalzare beat da Iggy Pop riprocessato Strokes, la<br />

cesura e ripartenza col piglio motoristico, poi Hea<strong>di</strong>n’<br />

For The Top Now col piano boogie e le chitarre scorticate,<br />

languore Marc Bolan e nevrosi Velvet però <strong>di</strong>luiti nella<br />

camomilla Verve, in entrambi i casi messinscena che rassicura<br />

più che scuotere (al contrario del video <strong>di</strong> Hey Jane<br />

che scuote eccome), cartoline acide spe<strong>di</strong>te nella quiete<br />

dei salotti per terapie soniche da dopolavoro.<br />

Va anche peggio quando la mollezza glam assume le<br />

sembianze piacione e le paturnie cool <strong>di</strong> un Lenny Kravitz<br />

(Little Girl, Mary), mentre Too Late e Life is A Problem<br />

abbozzano malinconie caramellose Eels ma senza che<br />

il malanimo del buon Everett ci salvi dal rischio <strong>di</strong>abete.<br />

Non si fa particolarmente onore neanche la collaborazione<br />

con Dr. John, quella I Am What I Am che in pratica<br />

ricicla Inner City Blues <strong>di</strong> Marvin Gaye come farebbero<br />

dei Primal Scream sotto valium. Sprazzi <strong>di</strong> vitalità con<br />

una You Get What You Deserve che sfida la monotonia<br />

con uno sfondo arty <strong>di</strong> tastiere vetrose e archi orientaleggianti,<br />

mentre Freedom e la conclusiva So Long You<br />

Pretty Thing se la cavano scozzando tenerezze e apprensioni<br />

Mojave 3 con particelle floy<strong>di</strong>ane e floscia baldanza<br />

Blur.<br />

Ok, non sarà questo passo falso a farci perdere il rispetto<br />

per l’astronauta albionico, <strong>di</strong>ciamo che l’azzardo pop lo<br />

ha condotto in piena buona fede su un plateau <strong>di</strong> ambizioni<br />

esauste, al punto da suonare per la prima volta<br />

- ebbene sì - velleitario. Anche le astronavi possono fare<br />

retromarcia al bisogno, no?<br />

(5/10)<br />

Stefano Solventi<br />

Suzanne’Silver - deadBand (ra<strong>di</strong>o iS doWn,<br />

Gennaio 2012)<br />

Genere: alt rock<br />

Siracusani ma completamente assimilabili a quella scena<br />

“Catania come Seattle” che tanto ha dato alla musica<br />

italiana anni ad<strong>di</strong>etro (Carmen Consoli, Cesare Basile,<br />

Uzeda senza <strong>di</strong>menticare il contributo spirituale <strong>di</strong> Battiato),<br />

i Suzanne’Silver approdano al terzo <strong>di</strong>sco per la<br />

label americana Ra<strong>di</strong>o is down con un perfetto mix <strong>di</strong><br />

influenze 90s.<br />

Il campo in questione è quello dell’alt-rock nelle sue<br />

varie declinazioni: l’intro blues-grunge <strong>di</strong> Green ocean<br />

breezer, lo strano incrocio <strong>di</strong> Wave a surfer Waits tra Tom<br />

Waits e i Sonic Youth, il post rock <strong>di</strong> N-ice e Lady Carpenter<br />

o ancora il jazz-rock suadente <strong>di</strong> Y. Sono bravi i<br />

Suzanne’silver a non cadere nella retorica del revival,<br />

86 87


estituendo invece una lettura davvero equilibrata e<br />

personale <strong>di</strong> quel sound a cavallo dei primi Novanta.<br />

Immaginate otto tracce centrifugate tra rock sonico e<br />

contaminazioni jazzy, otterrete qualcosa <strong>di</strong> molto vicino<br />

a Deadband.<br />

(7/10)<br />

Stefano Gaz<br />

the churchill outfit - the churchill<br />

outfit (dada <strong>di</strong>Schi, Marzo 2012)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e psych<br />

I bresciani The Churchill Outfit esor<strong>di</strong>scono su lunga<br />

<strong>di</strong>stanza dopo che con l’EP In Dark Times ci avevano<br />

stuzzicato il nervolino dell’aspettativa grazie alla particolare<br />

vena psych, meno fregola ciarliera e più flemma<br />

british pur tenendo alta la temperatura dell’inventiva.<br />

Attitu<strong>di</strong>ne che trova piena conferma in questo omonimo<br />

album, ben prodotto da Fausto Zanardelli (altrimenti<br />

noto per le sue scorribande da balzano cantautore sotto<br />

il moniker E<strong>di</strong>po). Nove tracce che spaziano tra miraggi<br />

desertci sotto vuoto pneumatico e fatamorgane spacey<br />

dentro fotogrammi seppiati, languore dandy e irrequietezza<br />

laminata, trip Sixties nella visione technicolor anni<br />

Novanta.<br />

L’elemento più interessante è la sobrietà ingannevole<br />

della calligrafia, sotto la quale avverti come in filigrana<br />

un bel tumulto <strong>di</strong> ascendenze, dai Gun Club dentro un<br />

sogno Zombies <strong>di</strong> Vegetables ai Beatles impregnati <strong>di</strong><br />

lirismo amniotico Ultimate Spinach in A Thousand Miles<br />

Away, oppure quella Tongue Like A Trigger come i nipotini<br />

accorti dei Primal Scream con in tasca il santino Pretty<br />

Things, il ghigno cosmico King Crimson impastato<br />

d’inquietu<strong>di</strong>ne Ra<strong>di</strong>ohead in Faceless o ancora quella<br />

Love. More. Uh che sembra mandare in loop i Led Zep <strong>di</strong><br />

Baby I’m Gonna Leave You tra scossoni emotivi dEUS. Il<br />

tutto benedetto da una levità d’approccio che li rende<br />

accattivanti come certi sparietti Cake (Calypso) o baldanze<br />

asprigne Verve via Mojave 3 (Kaleidoscopic, Scarlet<br />

Green).<br />

Come spesso capita, la qualità principale della proposta<br />

è anche il suo potenziale <strong>di</strong>fetto: c’è il rischio infatti che<br />

si scambi tanta levigatezza per mansuetu<strong>di</strong>ne salottiera,<br />

null’altro che soundtrack asprigna per lenire il chill-out <strong>di</strong><br />

scavezzacollo virtuali. In questo senso il piglio battente<br />

tra androide e marziale della conclusiva Something To<br />

Hide (con notevole tastierone Talk Talk) sembra in<strong>di</strong>care<br />

la breccia per evitare il cul de sac espressivo. Buona la<br />

prima, in attesa (fiduciosa) <strong>di</strong> sviluppi intriganti.<br />

(6.9/10)<br />

Stefano Solventi<br />

the MarS volta - noctourniquet (Warner<br />

MuSic Group, aprile 2012)<br />

Genere: proG rock<br />

Rieccoli i Mars volta. Il sesto album della serie rappresenta<br />

un’altra occasione per assaggiare un Rodriguez-<br />

Lopez / Bixler Zavala pensiero che, <strong>di</strong>ciamolo subito, ci<br />

ricordavamo più estenuante.<br />

Tenuti a freno gli istinti <strong>di</strong> onnipotenza, e contenuto il<br />

minutaggio della tracklist, Noctourniquet sfodera un incrocio<br />

<strong>di</strong> sonorità 90s (specie nella batteria frenetica del<br />

nuovo arrivato Deantoni Parks), power-prog per chitarroni<br />

e tastiere space/kraut. Tutto ok dunque? Mica tanto,<br />

perchè poi i no<strong>di</strong> vengono al pettine e si scopre <strong>di</strong> avere<br />

per le mani il classico lavoro che il duo ci sta propinando<br />

da troppo tempo: buoni spunti con alcuni brani coinvolgenti<br />

(lo space rock <strong>di</strong> Aegis, il virare reaggae The Malkin<br />

Jewel) versus il solito guazzabuglio barocco senza né<br />

capo né coda (Zed and two naughts, ma anche la ballata<br />

emo-insipida <strong>di</strong> Imago).<br />

Si fa sempre un gran parlare dell’approccio sperimentale<br />

che caratterizza le uscite dei Mars Volta: in certi frangenti<br />

è un puro specchietto per le allodole.<br />

(5.3/10)<br />

Stefano Gaz<br />

the Men - open your heart (Sacred BoneS,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: rock<br />

Un frullatone <strong>di</strong> rock pesante e melo<strong>di</strong>co cacciato fuori<br />

con l’urgenza e l’incoscienza <strong>di</strong> chi porta avanti il suo<br />

<strong>di</strong>scorso senza fronzoli. Questo in sintesi il terzo album<br />

dei The Men, nome chiacchieratissimo e next big thing<br />

sui generis <strong>di</strong> un underground sempre più bisognoso<br />

<strong>di</strong> band nuove da fagocitare e risputare fuori. Dei primi<br />

due lavori - Leave Home dello scorso anno su Sacred<br />

Bones come il presente - pochi in verità si erano accorti,<br />

mentre ora a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> pochi mesi sembra proprio<br />

che non si possa vivere senza le canzoni del quartetto<br />

newyorchese.<br />

Ad ascoltare Open Your Heart si capisce bene il perché.<br />

La band <strong>di</strong> Nick Chiericozzi spinge sull’acceleratore<br />

come al solito ma screzia la propria proposta con molte<br />

sfumature “altre” rispetto al sound della casa, tendendo<br />

un filo <strong>di</strong>retto con la chiosa del precedente Leave Home.<br />

Non più soltanto assalti straight in your face tra Parts<br />

& Labor con la centrifuga accesa (Turn It Around),<br />

punk’n’roll newyorchese da isteria e lustrini (Animal) o<br />

assalti a calci in bocca noise-core (basso caterpillar e Unsane-sound<br />

ipervitaminizzato in Cube) in cui le chitarre<br />

si stratificano e la sezione ritmica pesta come non mai.<br />

Tra le frecce dell’album ci sono infatti lunghe composi-<br />

voiceS froM the lake - voiceS froM the lake (proloGue MuSic, feBBraio 2012)<br />

Genere: hypnotic dance<br />

Un sodalizio che ha inizio nella prima metà del 2011, un primo promettente vagito nel<br />

Silent Drops EP, poi la consacrazione col pubblico nel Labyrinth festival giapponese <strong>di</strong><br />

settembre e adesso l’album, culmine e perfezionamento <strong>di</strong> un percorso in continua<br />

crescita. Voices From The Lake è ora l’ambizioso progetto <strong>di</strong> due producers italiani,<br />

Donato Dozzy e Neel, entrambi sbocciati nella scena romana e da sempre impegnati<br />

in sperimentazioni e raffinamenti elettronici sfumati ambient e techno. Quello attuale<br />

sembra essere il momento dell’apice formale, e la promozione a pieni voti da parte <strong>di</strong> RA<br />

non è altro che un enorme riflettore impossibile da ignorare puntato addosso a loro.<br />

L’entusiasmo trova facile giustificazione perché l’album è curatissimo e capace <strong>di</strong> una<br />

sottile comunicazione cerebrale, tocca contenuti più propri della sfera psichica che strettamente estetici e mira ad<br />

un empatia organica tra ascoltatore e ambientazione. La partenza è nel segno dell’understatement, Lyo si mantiene<br />

astratta e indefinita mentre trascina i Drexciya più gocciolanti su tessuti techno-dub dalle inconsapevoli potenzialità<br />

ritmiche, ma quando poi sfocia sui trattamenti minimal <strong>di</strong> Vega (con quel sentire tribal che fa tanto Villalobos) e le<br />

rarefazioni ambient <strong>di</strong> Manuvex (introversione Arandel senza le sue <strong>di</strong>strazioni esotiche) <strong>di</strong>venta chiaro il <strong>di</strong>segno<br />

complessivo: un’esperienza d’ascolto prolungata e senza interruzioni che scommette tutto sulla <strong>di</strong>latazione estrema<br />

<strong>di</strong> tempi e spazi, <strong>di</strong>ventando immersione in un acquario sonoro isolato da tutto. Quasi fosse la colonna sonora<br />

pensata per profonde riflessioni metafisiche su uomo e natura.<br />

Da Circe in poi il <strong>di</strong>sco decolla, trasformandosi in braindance da capogiro, suggestiva e ad altissima definizione.<br />

Chiamiamola pure ambient house, ma pulsante <strong>di</strong> linfa vitale, un passo oltre anche quel BNJMN che l’anno scorso<br />

aveva già ridefinito le possibilità formali <strong>di</strong> questo suono. E l’ipnosi <strong>di</strong>venta profonda, mentre si passa dai trip cosmici<br />

<strong>di</strong> S.T. Reworked (Jean-Michel Jarre anestetizzato e trascinato nell’assenza <strong>di</strong> gravità) all’ellissi tribal silenziosa <strong>di</strong><br />

Meikyu (ritratto <strong>di</strong> Murcof al buio), con quella cassa quadra morbida che mette il sangue in circolo verso gli spazi<br />

creati dai rullanti e dagli arpeggi sintetici, In Giova e i due Twins In Virgo che chiudono su una space <strong>di</strong>sco in dormiveglia<br />

e i bleeps <strong>di</strong> Mika che riprogrammano il viaggio interstellare.<br />

Alla fine Hgs rende esplicita l’assenza <strong>di</strong> tempo, il <strong>di</strong>venire del particolare che è nello stesso tempo immutabilità<br />

del piano complessivo. Minimal, dub techno e space sound sono gli inserimenti adottati ad arte e sempre nella<br />

giusta misura, tutti tasselli posizionati al proprio posto per dare al suono spessore e <strong>di</strong>namismo senza esagerare<br />

in eccentricità. Sembra esser questa la nuova sfida dell’elettronica house e techno <strong>di</strong> questi giorni, la stimolazione<br />

neurale che ragiona sull’implicito, sull’assorbimento inconscio, eliminando l’immagine <strong>di</strong> facciata volta al dancing.<br />

Un filo conduttore che in mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi lega le ultime esplorazioni dub, ambient, minimal e house abbracciando realtà<br />

anche <strong>di</strong>versissime, da Deepchord a Talabot, da Tim Hecker a Nicolas Jaar e in mezzo i vari Desolate, Andy Stott<br />

e Blondes, tutti accomunati da un taglio dell’esteriorità superflua in favore <strong>di</strong> una magnificazione della sostanza.<br />

Intelligent music al quadrato. Che la “re-decade” sia ormai passata?<br />

(7.6/10)<br />

carlo affatiGato<br />

zioni che prendono sia dal motorik ossessivo spolverato<br />

<strong>di</strong> Oneida (Oscillation) o dai crescendo vorticosi made<br />

in Sonic Youth (Ex-Dreams) che da ambientazioni più<br />

psichedeliche e desertiche (Country Song) se non bucoliche,<br />

sognanti e acide (Presence). Nello stesso modo<br />

l’in<strong>di</strong>e-rock dei 90s sembra essere l’altro asse portante<br />

che scombussola i riferimenti <strong>di</strong> chi ascolta: il trittico<br />

centrale Please Don’t Go Away, Open Your Heart e Candy<br />

mastica con nonchalance riman<strong>di</strong> all’humus che 10 anni<br />

dopo ha portato agli Arcade Fire, il power-pop scazzato<br />

del tempo come può immaginarlo un J Mascis ventenne<br />

d’oggi, la slackerness del rock alternativo che giace in<br />

molti <strong>di</strong>schi impolverati.<br />

Un passo coraggioso, tanto vario quanto appassionato,<br />

che <strong>di</strong>mostra come i The Men siano figli dei propri tempi.<br />

Alla maniera dei Fucked Up, per capirsi, i quattro cercano<br />

vie <strong>di</strong> fuga varie ed eventuali, elaborando un <strong>di</strong>sco<br />

che per attitu<strong>di</strong>ne fa pensare ad una sorta <strong>di</strong> Zen Arcade<br />

targato Sacred Bones. Non eterogenea e pe<strong>di</strong>ssequa<br />

riproposizione <strong>di</strong> generi storicizzati, ma il tentativo gio-<br />

88 89


vane e incosciente <strong>di</strong> superare i confini <strong>di</strong> genere per offrirne<br />

una forma metabolizzata funzionale e funzionante.<br />

Qualche piccolo piccolo dubbio su tanto eclettismo<br />

resta, seppur bilanciato da tante belle speranze sotto<br />

forma <strong>di</strong> canzoni perfettamente messe a fuoco per melo<strong>di</strong>e,<br />

potenza <strong>di</strong> fuoco, catchyness. La <strong>di</strong>rezione intrapresa<br />

sembra essere quella giusta e a noi non resta che aprire i<br />

nostri cuori e lasciar entrare questi omaccioni americani.<br />

(7/10)<br />

Stefano pifferi<br />

the phantoM keyS - the real Sound of...<br />

(ScreaMinG apple, Marzo 2012)<br />

Genere: rock<br />

Sostenere che la Spagna negli ultimi anni abbia dato vita<br />

ai miglior gruppi europei <strong>di</strong> inclinazione sixties è ormai<br />

un mantra per la sottoscritta. La percentuale dei gruppi<br />

che riescono a farti sentire quel brivido lungo la spina<br />

dorsale con il loro anacronismo è altissima e pare non<br />

voler <strong>di</strong>minuire.<br />

Ultimi arrivati i Phantom Keys con l’album <strong>di</strong> debutto<br />

The Real Sound Of , e<strong>di</strong>to per la basilare Screaming Apple<br />

Records. Il quartetto galiziano ha all’attivo un paio <strong>di</strong><br />

singoli - tra cui ha avuto un certo eco Summertime - in<br />

cui professano amore e fede nel garage punk più puro.<br />

Per il primo <strong>di</strong>sco decidono <strong>di</strong> fare un passo in<strong>di</strong>etro e<br />

recuperare la ra<strong>di</strong>ce rhythm’n’blues della ondata middle<br />

sixties, quella più cara a gruppi come i Pretty Things<br />

per intenderci. Ottimi in tal senso sono brani come My<br />

Last Mistake e Don’t Tell Me Lies. Non contenti, i Nostri<br />

risalgono fino al rock’n’roll fifties, prendendone in prestito<br />

la prima progenie del blues, la parte più ruvida e<br />

meno avvezza a brillantine e gonne a ruota (come non<br />

nominare Link Wray già solo leggendo il titolo <strong>di</strong> The<br />

Drunk Chicken Walk?).<br />

Il punto <strong>di</strong> forza e <strong>di</strong> maturità dei Phantom Keys è l’aver<br />

saputo frenare al momento giusto la lineare propulsione<br />

garage inserendo anche ottime ballads come Even If I<br />

Try o la spiccatamente van morrissiana I Was True (But<br />

I Won’t Be More). Il tutto in un <strong>di</strong>sco variegato e curato<br />

nei dettagli.<br />

(7.2/10)<br />

crizia GianSalvo<br />

the villainS - here coMeS the villain<br />

(forearS, Gennaio 2012)<br />

Genere: rock alternativo<br />

Si sono dati un gran da fare i The Villains in questi tre<br />

anni dall’esor<strong>di</strong>o. Metabolizzata la sindrome da eterni<br />

secon<strong>di</strong> ai concorsi per band emergenti e le critiche<br />

in<strong>di</strong>rizzate ai gruppi italiani che cantano in inglese, il<br />

gruppo modenese, forte <strong>di</strong> numerosi live e fortunati<br />

incontri <strong>di</strong>scografici, inizia a raccogliere i primi frutti: la<br />

pubblicazione dell’EP Here Comes The Villain per l’etichetta<br />

Forears e l’imminente collaborazione della cantante<br />

Georgia Minnelli con i <strong>Giar<strong>di</strong>ni</strong> <strong>di</strong> <strong>Mirò</strong>.<br />

Il batterista Riccardo Cocetti descrive i The Villains come<br />

una miscellanea <strong>di</strong> influenze, dal jazz, alla new wave, al<br />

folk, coronata da una base comune <strong>di</strong> ascolti in<strong>di</strong>e rock,<br />

grunge e hard rock anni settanta e da un’indole punkeggiante<br />

con<strong>di</strong>visa. Se la sintesi è stata trovata inizialmente<br />

in una composizione <strong>di</strong> ispirazione in<strong>di</strong>e britannica<br />

come nel singolo Fire In The Ballroom che anticipava l’EP,<br />

Here Comes The Villain esprime anche le anime più scure<br />

del gruppo: dal blues morriconiano della title track,<br />

alle reminiscenze punk <strong>di</strong> The Game Of Catching Sand,<br />

al noise rock <strong>di</strong> The Graduate. Un <strong>di</strong>sco che trae <strong>di</strong>verse<br />

ispirazioni, quin<strong>di</strong>, ma che cerca nel contempo una sua<br />

compattezza, almeno a livello suggestivo, nella rappresentazione<br />

quasi cinematografica dell’eterno scontro tra<br />

le forze del bene e del male.<br />

Fashion victim <strong>di</strong> un’estetica decadente e dandy ma animati<br />

da ruvi<strong>di</strong> furori da mettere in mostra soprattutto<br />

in <strong>di</strong>mensione live, i The Villains cercano una loro <strong>di</strong>rezione<br />

e compagni <strong>di</strong> viaggio per emergere dall’underground<br />

e veicolare un rock alternativo <strong>di</strong> qualità. Le armi<br />

a <strong>di</strong>sposizione, al momento, sono il potente cantato <strong>di</strong><br />

Georgia e un’apprezzabile agilità compositiva che, attingendo<br />

a linguaggi ben noti e sonorità non sempre originali,<br />

permette al gruppo <strong>di</strong> sfornare melo<strong>di</strong>e riconoscibili<br />

e orecchiabili. Una produzione curata unita all’intraprendenza<br />

del gruppo potrebbero spe<strong>di</strong>re questi “cattivi” nel<br />

para<strong>di</strong>so del mainstream.<br />

(6.5/10)<br />

viola BarBieri<br />

the Wave pictureS - lonG Black carS<br />

(MoShi MoShi, aprile 2012)<br />

Genere: in<strong>di</strong>e<br />

Una marea <strong>di</strong> album tra self released e label, tra cui Instant<br />

Coffe Baby, Beer In The Breakers, ora Long Black<br />

Cars ancora su Moshi Moshi, l’ennesimo tassello <strong>di</strong> un<br />

personale continuum newyorchese. Art folk, anti folk,<br />

slaker in<strong>di</strong>e o semplicemene in<strong>di</strong>e-rock: taggateli come<br />

volete. Il loro è un linguaggio scritto nella storia della<br />

wave che prima si chiamava blank (Television), nell’epopea<br />

slaker rock <strong>di</strong> Jonathan Richman con i Modern Lovers,<br />

nei song book dei più giovani Hefner e Jeffrey<br />

Lewis e negli spartiti del vecchio Lou più trad rock. Il<br />

suono <strong>di</strong> New York rivive nel sangue inglese <strong>di</strong> questo<br />

trio britannicissimo con alle spalle una lunga carriera (si<br />

sono formati nel 1998, hanno collaborato con Herman<br />

Düne e John Darnielle dei Mountain Goats) e una missione:<br />

indossare i panni dello slaker con qualche uscita<br />

Mark Knopfler, giusto per <strong>di</strong>stinguersi dalla massa dei<br />

lo-fier a tutti i costi.<br />

Stay Here And Take Care Of The Chickens, Hoops Cut Them<br />

Down In The Passes, e Come Home Tessa Buckman le nuove<br />

gemme, tutte ambientate sotto la Union Jack tra tv<br />

show, gabbiani e spaghetti (l’ennesimo riferimento<br />

all’Italia) con la consueta <strong>di</strong>sinvoltura naif, ispirazione<br />

poetica e or<strong>di</strong>nario quoti<strong>di</strong>ano da broken hearted.<br />

I riempitivi, pieni <strong>di</strong> assoli blues naturalmente, non mancano<br />

e il singolo, Eskimo Kiss, non è la canzone migliore<br />

del lotto. Autosabotaggio? Certo. Ecco un’altra cosa che<br />

ci piace <strong>di</strong> questi ragazzi. Non fanno copia incolla. Sono<br />

NY nell’anima.<br />

(7/10)<br />

edoardo Bridda<br />

truSt - trSt (artS & craftS, Marzo 2012)<br />

Genere: synth pop<br />

Dischi come Trst nascono fortunati. Giungono alla luce<br />

già con uno zoccolo <strong>di</strong> fan in attesa <strong>di</strong> celebrarne l’arrivo.<br />

Hanno gioco facile, vuoi per le carte con cui si presentano,<br />

tutte perfettamente calibrate per vincere, vuoi<br />

perché alle spalle hanno un paio <strong>di</strong> singoli tosti per una<br />

label come Sacred Bones che <strong>di</strong> per sé è un ottimo lasciapassare.<br />

Non stupisce quin<strong>di</strong> che il debutto dei canadesi<br />

Trust si imponga <strong>di</strong> prepotenza tra gli amanti del revival<br />

electro anni ’80.<br />

Formati da Maya Postepski (già Austra) e dall’efebico<br />

Robert Alfons, quando i due wavers attaccano con Shoom<br />

e Dressed For Space è subito tutto chiaro. Electro-pop<br />

pesantemente in<strong>di</strong>rizzato verso l’euro<strong>di</strong>sco, con beat invadenti<br />

e synth dalle impeccabili sonorità d’antan. Arriva<br />

poi Bulbform, super singolo già e<strong>di</strong>to su 12 pollici e provate<br />

a tenere a freno le gambe. Potremmo andare avanti<br />

così anche per Gloryhole, F.T.F e la conclusiva Sulk, tra un<br />

pezzo più minimal e una hit da dancefloor anni ’90, ma<br />

quello che conta è come i nostri abbiano saputo forgiare<br />

un primo album che <strong>di</strong>re catchy è riduttivo.<br />

Una sfilata <strong>di</strong> trucchi luccicanti e un know-how dei meccanismi<br />

dell’underground à la page che <strong>di</strong> gotico ha solo<br />

l’immagine <strong>di</strong> copertina, perché il resto è tutto da ballare.<br />

Facile forse, ma dannatamente efficace.<br />

(6.9/10)<br />

andrea napoli<br />

unSane - Wreck (alternative tentacleS,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: noise-rock<br />

Pochi secon<strong>di</strong>. Pochissimi, nemmeno mezzo minuto.<br />

Tanto basta per far risalire tutto quello che fu e spazzarlo<br />

via imme<strong>di</strong>atamente. Sono tornati gli Unsane, macchina<br />

da guerra primigenia della New York dei 90s. Quelli delle<br />

copertine insanguinate e delle morti per eroina, quelli<br />

rissosi e senza pietà, su <strong>di</strong>sco e nella vita. Quelli che fecero<br />

del noise-rock la più efferata e ripugnante forma<br />

<strong>di</strong> suono nel momento in cui il mondo si esaltava per i<br />

piagnistei esistenziali e revivalisti dei grungers.<br />

Wreck è l’ennesimo grano <strong>di</strong> un rosario <strong>di</strong> sangue e sofferenza<br />

per un gruppo che viaggia ormai per il ventennale,<br />

e si mostra come un turbinio <strong>di</strong> noise-rock primigenio<br />

esposto in modalità power-trio. Violento, esagerato nei<br />

volumi, fasti<strong>di</strong>oso nelle evoluzioni, parossistico nell’applicazione<br />

senza risultare teatrale o caricaturale. L’armamentario<br />

d’or<strong>di</strong>nanza dell’esperienza Unsane c’è tutto:<br />

il blues <strong>di</strong> fondo, l’armonica, la slide, ma come al solito è<br />

soprattutto la violenza a lasciare a bocca aperta. Quella<br />

che ha sempre contrad<strong>di</strong>stinto il trio composto da Chris<br />

Spencer, Vinnie Signorelli e Dave Curran. Violenza strumentale,<br />

fisica e psicologica che non lascia scampo e<br />

non si accontenta <strong>di</strong> giocare sul terreno <strong>di</strong> tante altre<br />

band pesanti d’oggi, ma le surclassa quasi a voler rimettere<br />

i puntini sulle i <strong>di</strong> un suono troppe volte citato a<br />

<strong>di</strong>smisura.<br />

Le chitarre abrasive <strong>di</strong> Pigeon, Metropolis, Ghost, la sezione<br />

ritmica modello carrarmato <strong>di</strong> Rat, No Chance,<br />

Roach, il cantato sempre tra lo schifato e il patologico<br />

<strong>di</strong> Spencer (l’American Psycho pensato da Ellis sembra<br />

ritagliato su <strong>di</strong> lui) <strong>di</strong>cono il già detto: un muro <strong>di</strong> suono<br />

incattivito e urgente, incompromissorio e sanguinario.<br />

La prima pausa, il primo momento in cui si può alzare a<br />

testa e rifiatare dalla gragnola <strong>di</strong> colpi è Stuck, pezzo numero<br />

8 <strong>di</strong> 10. Ma è una mera illusione buttata lì con acido<br />

sarcasmo, come se i tre ci tenessero a farci sapere che<br />

non sono tornati per la nostra gioia ma per farci soffrire.<br />

In chiosa, Ha Ha Ha, cover dei Flipper. Come a <strong>di</strong>re, noi<br />

c’eravamo, ci siamo e ci saremo. E non è una promessa,<br />

quanto una minaccia. Gli Unsane sono tornati decisi a<br />

non fare prigionieri.<br />

(7.5/10)<br />

Stefano pifferi<br />

vcMG - SSSS (Mute, Marzo 2012)<br />

Genere: minimal techno<br />

Ssss è un album senza pretese in ogni sua parte. Il<br />

nome del progetto, VCMG, è semplicemente l’unione<br />

delle iniziali dei due musicisti. L’idea è nata da un remix<br />

realizzato da Vince Clarke per Plastikman nel 2010 e<br />

dal suo conseguente interesse per la minimal techno<br />

vissuto attraverso Beatport. Gore è stato chiamato una<br />

sera, quasi per caso, da Vincent e i due non si sono più<br />

90 91


sentiti fino alla fine del progetto scambiandosi tutti i files<br />

via internet. Pure il titolo dell’album è dovuto a hiss,<br />

nome <strong>di</strong> molti <strong>di</strong> quei file.<br />

Questa modestia concede all’intero progetto un’aria <strong>di</strong><br />

autenticità nonostante i personaggi che vi sono coinvolti:<br />

i due musicisti britannici, con alle spalle un passato<br />

tra il synth pop e l’euro-dance, incontratisi nei Depeche<br />

Mode prima che Clarke decidesse <strong>di</strong> prendere un’altra<br />

strada e formare band quali gli Yazoo, The Assembly e<br />

Erasure, sono gli autori <strong>di</strong> un <strong>di</strong>sco techno <strong>di</strong> stampo teutonico.<br />

Un prodotto alieno, contubante, capace <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>re<br />

ogni aspettativa e mettere in crisi anche gli ascoltatori<br />

più scafati.<br />

Più sorprendente ancora è la capacità <strong>di</strong> Ssss <strong>di</strong> smarcarsi<br />

con facilità da tutte le caratteristiche che segnano i trend<br />

attuali <strong>di</strong> una minimal in cerca <strong>di</strong> vendetta sulla techhouse,<br />

riscoprendo le sue origini con Surgeon e Porter<br />

Ricks. Se oggi sono impresci<strong>di</strong>bili le claustrofobiche e<br />

cupe atmosfere della Sandwell District, perfettamente<br />

espresse dai remix del primo single, Spock, <strong>di</strong> DVS1 e<br />

Regis, Ssss risulta straor<strong>di</strong>nariamente caldo e spazioso,<br />

quasi massimalista nell’esecuzione. In Zaat, electro robotica,<br />

techno pop kraftwerchiana e un saltellante basso<br />

sono premesse a sirene che si sentiranno in lontananza.<br />

Bendy Bass è un susseguirsi <strong>di</strong> suoni subacquei inseguiti<br />

da linee melo<strong>di</strong>che e ritmiche che si intrecciano, si <strong>di</strong>ssolvono<br />

spariscono per poi tornare. Single Blip è cosparsa<br />

<strong>di</strong> ini<strong>di</strong>zi che portano ad una chiusura con stabs epici<br />

e l’ultimo breakdown dai volumi altissimi. L’ascoltatore<br />

attento, lungo tutto il <strong>di</strong>sco, viene ricompensato della<br />

considerevole cura de<strong>di</strong>cata alla costruzione <strong>di</strong> ogni<br />

traccia, dal glitch inatteso al blip che arriva alle spalle, i<br />

richiami all’EBM fino allo sci fi d’annata (Lowly).<br />

Difetti? Uno grosso: vorrebbe sembrare un dj set <strong>di</strong> Sven<br />

Väth del 1996 ma spesso riesce solo a ricordare nomi,<br />

per palati meno rigorosi, quali Westbam e Members<br />

of Mayday. L’ironia però non manca e Ssss qualcosa da<br />

<strong>di</strong>re e da insegnare alla dance <strong>di</strong> oggi lo ha: al contrario<br />

dei lavori melò e retrò dei ragazzi <strong>di</strong> oggi, mette in scena<br />

una bestia antica, dalla memoria profonda, che ha vissuto<br />

e si ricorda tempi in cui si ballava <strong>di</strong>versamente ed<br />

in altri luoghi, in cui le tracce avevano un modo <strong>di</strong>verso<br />

d’approcciare e incalzare l’ascoltatore. Una bestia che<br />

nasce in cattività e morirà in solitu<strong>di</strong>ne senza produrre<br />

alcuna prole.<br />

(7/10)<br />

antonio cuccu<br />

WelcoMe Back SailorS - (love) that’S all<br />

(craSh SyMBolS, Marzo 2012)<br />

Genere: dream pop<br />

Manca un po’ a tutti la sublime sensazione <strong>di</strong> inserire<br />

una musicassetta nel walkman a cuffione o nella panda<br />

bianca, dove le probabilità <strong>di</strong> inceppo erano estremamente<br />

alte. Ebbene, il buon vecchio gusto retrò, com’è<br />

ovvio, ha pensato anche a questo. Ci fanno passare la nostalgia,<br />

infatti, i Welcome Back Sailors, il duo emiliano,<br />

dall’animo electro sognante. Il nuovo Ep, dal titolo epigrammatico<br />

Love (That’s All), uscirà <strong>di</strong>sponibile niente<br />

meno che in cassetta, con tutte le gioie tattili e u<strong>di</strong>tive<br />

che ne derivano.<br />

La formula musicale è quella che ce li ha fatti apprezzare<br />

nel precedente Lp (Yes/Sun). Il nuovo lavoro contiene<br />

due remix degli ine<strong>di</strong>ti del lato A della tape, che risentono<br />

dello zampino <strong>di</strong> gente del calibro <strong>di</strong> Keep Shelly<br />

in Athens e Death in Planins. Entrambi, portano allo<br />

sfinimento etereo le suggestioni sognanti <strong>di</strong> Alessio e<br />

Danilo: i primi, complice forse una Stronger più malleabile,<br />

con piglio più <strong>di</strong>latato, d’atmosfera bristoliana; il<br />

secondo con più sfrontatezza e aggressività da dance<br />

floor. La cover <strong>di</strong> His Clancyness, trait d’union eccellente<br />

fra cultura electro e dream pop “suonato”, regala all’Ep un<br />

oggetto curioso e affascinante, che spezza il ritmo tirato<br />

dei synthoni in stile 4AD.<br />

I tre ine<strong>di</strong>ti dell’A Side confermano l’ottima forma del<br />

duo, sempre appassionato dei suoni da computer e cameretta,<br />

in continuo movimento, alla ricerca <strong>di</strong> sperimentazioni<br />

che leghino sullo stesso filo i Notwist e la<br />

Morr, gli Slow<strong>di</strong>ve e la musica “visiva” dei Japan. Se a<br />

tutto questo aggiungi un respiro intimamente internazionale,<br />

hai una garanzia da non farsi sfuggire.<br />

(6.8/10)<br />

nino ciGlio<br />

White hillS - fryinG on thiS rock (thrill<br />

Jockey, Marzo 2012)<br />

Genere: psych<br />

I due White Hills ci hanno da tempo abituato a uscite regolari<br />

e flussi <strong>di</strong> (in)coscienza sonica. Non desta sorpresa<br />

dunque ritrovarsi a fare i conti coi newyorchesi praticamente<br />

ogni sei mesi o poco più. Di tanto è l’ultima uscita<br />

recensita documentata qui a SA (il pur buono Hp-1)<br />

mentre <strong>di</strong> pochi mesi precedenti era l’omonimo esor<strong>di</strong>o<br />

per Thrill Jockey White Hills. Nel mezzo un quantitativo<br />

smisurato <strong>di</strong> cd-r compilativi (Od<strong>di</strong>ty nei suoi tre volumi),<br />

split album (quello con gli Gnod il migliore del lotto), live<br />

(memorabile quello al Roadburn) a cui sommare quelli<br />

già previsti per i mesi a venire.<br />

Dave W. e Ego Sensation aggiungono però a questo<br />

bailamme <strong>di</strong>scografico una certa luci<strong>di</strong>tà d’intenti, un<br />

percorso che <strong>di</strong> tanto in tanto li sposta dallo space-rock<br />

tra<strong>di</strong>zionale e classico con cui si sono spesso presentati<br />

al mondo, per imbracciare stra<strong>di</strong>ne laterali, ancor più<br />

parossistiche e sperimentali. Frying On This Rock appartiene<br />

a questa categoria <strong>di</strong> album. Mantiene il modus<br />

operan<strong>di</strong> del duo ma ne esagera anche certi tratti. L’essersi<br />

presentati in stu<strong>di</strong>o in quel <strong>di</strong> New York con i pezzi<br />

già pensati se non ad<strong>di</strong>rittura provati in tour, è stato<br />

d’aiuto, quasi quanto l’aver approfittato dell’esperienza<br />

<strong>di</strong> un trafficante <strong>di</strong> rumore <strong>di</strong> ungo corso qual è Martin<br />

Bisi. Una bella <strong>di</strong>fferenza se si pensa a come era stato<br />

concepito White Hills.<br />

Insieme ai collaboratori Antronhy (elettronica, synth) e<br />

al batterista Nick Name hanno messo su un concentrato<br />

<strong>di</strong> space-rock mutante che se nell’iniziale Pads Of Light<br />

reitera il già noto, in You Dream You See vira verso istanze<br />

quasi stoner-metalloso (assolo chitarristico e megagroove<br />

compresi) e Song Of Everything un deliquio cosmico<br />

malevolo e nero, è nei due restanti mammuth che<br />

stanno le cose più egregie. Robot Stomp è nomen omen:<br />

11 minuti <strong>di</strong> motorik stabilizzato e via via stratificato da<br />

scorie rumoriste, slanci industrial e parossismo Sheets Of<br />

Easter come se ne ascolta <strong>di</strong> rado; I Write A Thousand Of<br />

Letters (Pulp On Bone) estremizza il concetto <strong>di</strong>latandosi<br />

verso le profon<strong>di</strong>tà celesti nella maniera più roboticamente<br />

umana possibile.<br />

Non faranno mai un capolavoro i White Hills per una serie<br />

<strong>di</strong> ragioni. Se dovesse capitare probabilmente i prodromi<br />

saranno rintracciabili in questo <strong>di</strong>sco.<br />

(7.2/10)<br />

Stefano pifferi<br />

White raBBitS - Milk faMouS (Mute, Marzo<br />

2012)<br />

Genere: avant pop<br />

In<strong>di</strong>e rock alle chitarre, in<strong>di</strong>e pop al piano. Piano e chitarre<br />

in suplesse. Amanti del linguaggio creativo <strong>di</strong> Shins,<br />

Of Montreal e quin<strong>di</strong> innamorati d’Albione. Gli americani<br />

White Rabbits in tre album hanno provato ad inserirsi<br />

nel segno dei tempi <strong>di</strong> un certo masticare melo<strong>di</strong>e mai<br />

banali e farcirle d’arrangiamenti ricercati, con un bell’aiuto<br />

in sede <strong>di</strong> produzione.<br />

Se per lo scorso album la band s’era fatta dare più <strong>di</strong><br />

una mano da Britt Daniels, leader degli Spoon e idolo<br />

personale, questa volta chiama in causa <strong>di</strong>rettamente il<br />

loro produttore Mike McCarthy, <strong>di</strong>etro al vetro per Gimme<br />

Fiction e soprattutto un Ga Ga Ga Ga Ga a tutt’oggi<br />

il piccolo gioiello della formazione. Moltissime le convergenze<br />

tra il sestetto <strong>di</strong> New York e la band <strong>di</strong> Austin: i<br />

sopracitati riferimenti, ma soprattutto un gusto felpato/<br />

psych che riporta alla grandeur arrangiativa del giro Elepahant<br />

Six. I White Rabbits questa volta hanno provato<br />

davvero a superarsi, stipando ogni sorta <strong>di</strong> trucchi da<br />

stu<strong>di</strong>o anche alla luce delle produzioni <strong>di</strong> Ra<strong>di</strong>ohead<br />

(quelli <strong>di</strong> The Bends in Hold It To The Fire ma soprattutto<br />

la lezione black <strong>di</strong> Hail To The Thief <strong>di</strong> Back For More) e<br />

dEUS (Temporary, Are You Free). La loro è una sofisticata<br />

pop music dal fine incastro elettronico che soltanto in<br />

pochi (leggi, magari, Wilco) sono riusciti a far funzionare<br />

davvero.<br />

Perdendo la freschezza pop <strong>di</strong> It’s Frightening e l’in<strong>di</strong>e<br />

rock dalle reminiscenze Strokes del suo precedente Fort<br />

Nightly, Milk Famous gioca le proprie carte sulla varietà<br />

e l’estro piazzando strofe sui binari <strong>di</strong> un ballabile dritto<br />

dritto dalle chiare reminescenze p-funk e flirtando con<br />

il prog dei Field Music (ma quasi eh, basta ascoltare The<br />

Day You Won The War) a braccetto con gli XTC (I’m not Me,<br />

Everyone Can’t Be Confused). I dettagli più riusciti? I loop<br />

à la Breton nell’opener, una splen<strong>di</strong>da It’s Frightening<br />

immersa in pianismi “a cascata” (e vicina agli MGMT), le<br />

autobahn e i minimalismi a fine scaletta carichi <strong>di</strong> citazioni<br />

60/70 psych alla maniera dei Kula Shaker (Danny<br />

Come Inside, I Had It Comin) e molto molto altro.<br />

I puristi pop non lo ameranno per l’assenza <strong>di</strong> ritornelli,<br />

gli evangelisti in<strong>di</strong>e troveranno gli elementi dance un po’<br />

fred<strong>di</strong>ni. In verità, The devil is in the details...<br />

(7/10)<br />

edoardo Bridda<br />

Wora Wora WaShinGton - ra<strong>di</strong>cal Ben<strong>di</strong>nG<br />

(Shyrec recordS, aprile 2012)<br />

Genere: electro-wave<br />

Mettiamola così: in un’ideale battle of the bands in stile<br />

Beatles vs Rolling Stones, i torinesi Drink To Me potrebbero<br />

essere il corrispettivo del gruppo <strong>di</strong> Lennon-<br />

McCartney e i veneziani Wora Wora Washington quello<br />

della formazione <strong>di</strong> Jagger-Richards. Stessi elementi stilistici<br />

tra loro ma in percentuali <strong>di</strong>verse, insomma, un po’<br />

come accadeva nei Sixties alle due formazioni inglesi col<br />

pop e il blues. Aggiornato al 2012, l’universo colorato e<br />

psichedelico dei primi si contrappone al profondo humus<br />

ritmico dei secon<strong>di</strong>, in un terreno d’azione comune<br />

che è electro-rock sintetico orientato al dancefloor e ricco<br />

<strong>di</strong> sfumature.<br />

Ovviamente si tratta <strong>di</strong> un gioco, anche se un fondo <strong>di</strong><br />

verità c’è quando parliamo dei Wora Wora Washington<br />

come <strong>di</strong> una formazione affezionata al pattern ritmico<br />

solido, glaciale e tesissimo. Un primo <strong>di</strong>sco come Techo<br />

Lovers in cui la band mescolava synth, wave, chitarre<br />

taglienti, battere quasi punk e ora un Ra<strong>di</strong>cal Ben<strong>di</strong>ng in<br />

cui si ripete la formula dell’esor<strong>di</strong>o migliorando interplay<br />

92 93


e scrittura. Con i musicisti interessati a veicolare una musica<br />

anfetaminica e tarata al millesimo (gli automatismi<br />

tribali in stile Liars <strong>di</strong> Love It), imbastar<strong>di</strong>ta da bordoni<br />

massicci <strong>di</strong> sintetizzatore (LN), sorpresa da una wave robotica<br />

e ripetitiva (Flowing Fresh).<br />

Al solito a fuoco e sintonizzata sulle giuste frequenze,<br />

la band veneta mette assieme il classico <strong>di</strong>sco della riconferma.<br />

E la missione ci pare decisamente compiuta.<br />

(6.9/10)<br />

faBrizio zaMpiGhi<br />

x-preSS 2 - the houSe of x-preSS 2 (Skint,<br />

Marzo 2012)<br />

Genere: house<br />

Volete un’idea rapida <strong>di</strong> cosa rappresentano gli X-Press<br />

2 per la house UK? Fate così: prendete prima The Sound,<br />

anno 1996, e assorbitene tutta l’ebbrezza del clubbing<br />

nineties; poi a stretto giro passate su Lazy, 2002, prendetevi<br />

giusto qualche secondo per metabolizzare il salto<br />

e accogliete la sfida, godendovi la splen<strong>di</strong>da giovialità<br />

ironica gentilmente offerta da mr. David Byrne; infine<br />

scorrete su Kill 100, siamo nel 2006, e coglietene la<br />

doppia natura, durezza tech-house eppure dal taglio<br />

perfetto per un pubblico pop. Quella che il trio (oggi<br />

duo) britannico ha realizzato coi due album Muzikizum e<br />

Makeshift Feelgood è stata la classica operazione riuscita<br />

ma rischiosa e facilmente soggetta a critiche dei puristi:<br />

prendere un mondo come la house, col suo carico <strong>di</strong> aficionados<br />

col coltello tra i denti, e smussarne gli spigoli,<br />

ammorbi<strong>di</strong>rne l’estrazione night per offrirlo all’au<strong>di</strong>ence<br />

più ampio possibile e dunque alle classifiche.<br />

Certo non tutte le hit riescono col buco e qualche caduta<br />

<strong>di</strong> stile c’era già nelle prove precedenti. Ma fino a questo<br />

terzo album non eravamo ancora scesi ai livelli <strong>di</strong> tracce<br />

come Time (l’eurodance becera che ti aspetti venir fuori<br />

a volumi altissimi dai finestrini abbassati delle auto<br />

nei lungomari più affollati) o Opulence (altro che aprire<br />

al grande pubblico, qui siam pronti per Ibiza). Non erano<br />

ancora finiti a far pezzi da clubbing modaiolo senza<br />

troppe pretese come Dark Matar o Lost The Feelin’, quella<br />

musica che quando capiti nei clubbetti <strong>di</strong> second’or<strong>di</strong>ne<br />

ve<strong>di</strong> ballare ai ragazzini in camicia sbottonata, col sorriso<br />

ebete e quel fasti<strong>di</strong>osissimo clap <strong>di</strong> mani. Qualcosa da<br />

salvare in The House Of X-Press 2 c’è, certo professionismo<br />

Hercules And Love Affair nella old-fashioned This<br />

Is War, la pop-house graziosa e impertinente stile Booka<br />

Shade del singolo Let Love Decide, i techno flavours <strong>di</strong><br />

The Blast, ma parliamo perlopiù <strong>di</strong> musica fatta per le<br />

feste estive in spiaggia, menu turistico precompilato per<br />

allietare i vacanzieri delle prossime ferie.<br />

Ci sta anche questo, chiaro, ma non da due baroni come<br />

loro con un ventennio <strong>di</strong> carriera alle spalle. Passare dal<br />

like <strong>di</strong> Carl Craig alla riviera non era un salto dei più ambìti,<br />

e non è quel che si aspetta chi alla house chiede<br />

qualcosa in più. Saran contenti i dj pagati un tanto al<br />

chilo, quest’anno materiale <strong>di</strong> prim’or<strong>di</strong>ne...<br />

(5.5/10)<br />

carlo affatiGato<br />

yeS daddy yeS - Senza reliGione (urtovox,<br />

feBBraio 2012)<br />

Genere: rock<br />

Ascoltando l’esor<strong>di</strong>o dei campani Yes Daddy Yes ci si<br />

fa l’idea che i ragazzi si siano trovati nel posto giusto<br />

con le persone giuste. Nello specifico, un’etichetta come<br />

la Urtovox con tutto il suo apparato promozionale alle<br />

spalle e l’Enzo Moretto degli A Toys Orchestra qui chiamato<br />

a produrre: «Senza Religione ha una struttura e un<br />

aspetto sonoro più curato, soprattutto grazie alla presenza<br />

e ai consigli <strong>di</strong> Enzo. Lui ci ha in<strong>di</strong>rizzati, anche nelle singole<br />

canzoni, e ha organizzato tutte le sessioni <strong>di</strong> registrazione»<br />

<strong>di</strong>chiara la band a Rockol.<br />

Nessuno mette in dubbio le capacità dei musicisti. Eppure<br />

è innegabile che in Senza Religione uno scarto tra<br />

la brillantezza degli arrangiamenti e il peso specifico<br />

dei brani lo si coglie. Come traspare anche la voglia <strong>di</strong><br />

rendere il materiale riconoscibile prima che personale,<br />

battezzandolo con una voce à la Cristiano Godano e certi<br />

riferimenti stilistici più o meno consapevoli. Ecco allora<br />

gli Zen Circus <strong>di</strong> Chirurgo o l’accoppiata Marlene Kuntz/<br />

Black Crowes <strong>di</strong> Farsi il Karate, gli A Toys Orchestra dello<br />

strumentale Kyselec e il southern/country rock <strong>di</strong> My<br />

Memory (unico brano in inglese del lotto), i Jet in sbornia<br />

ACDC della title track e i Verdena <strong>di</strong> In Esilio.<br />

La scusa è un chitarrismo <strong>di</strong> derivazione noise, ma poi<br />

in gioco entra tutto quello che sul momento sembra<br />

utile per aumentare il pathos (una Seppellisci il mio osso<br />

che rimanda vagamente ai Queens Of The Stone Age,<br />

il pianoforte iniziale de Il testimone che replica il giro <strong>di</strong><br />

Sweet Jane) e ammiccare al campionario <strong>di</strong> qualche fratello<br />

maggiore.<br />

Alla fine dei giochi il <strong>di</strong>sco si riduce a certi testi non molto<br />

elaborati, qualche stop&go apprezzabile, gli arrangiamenti<br />

<strong>di</strong> cui si <strong>di</strong>ceva poche righe più su e in generale un<br />

suono <strong>di</strong> cui godere senza farsi troppe domande.<br />

(6.3/10)<br />

faBrizio zaMpiGhi<br />

yeti lane - the echo ShoW (clappinG MuSic,<br />

aprile 2012)<br />

Genere: pop elettronico<br />

Il trio francese Yeti Lane aveva dato alle stampe l’omo-<br />

nimo debutto nel 2010 - tra l’altro con buoni apprezzamenti<br />

da parte della critica specializzata - e oggi torna<br />

come un duo composto dai polistrumentisti Ben Pleng<br />

e Charlie B.<br />

Il loro The Echo Show, preceduto dall’EP Twice, ricorda<br />

nell’artwork <strong>di</strong> copertina Trans Europe Express dei Kraftwerk<br />

ma è in realtà un lavoro molto meno rigido sotto<br />

l’aspetto espressivo. L’album è composto da tre<strong>di</strong>ci<br />

passaggi - quattro dei quali sono dei brevi frammenti<br />

strumentali - che si sviluppano servendosi della classica<br />

forma canzone (<strong>di</strong>latata e arricchita <strong>di</strong> spazi interme<strong>di</strong>).<br />

A volte il sound si sposta verso le solari sponde pop <strong>di</strong><br />

Warning Sensations o le trame più intricate <strong>di</strong> Logic Winds,<br />

fino al songwriting <strong>di</strong> Alba, brano che più <strong>di</strong> altri si<br />

allontana dal concetto elettronico che sembra il cibo<br />

primario della <strong>di</strong>eta degli Yeti Lane. Anche Sparkling<br />

Sunbeam - ospite alla voce, David Ivar Herman Dune - è<br />

un pezzo meritevole <strong>di</strong> sottolineatura, per il buon gusto<br />

nella melo<strong>di</strong>a e un ostinato ritmico che con l’andare dei<br />

minuti si traforma in un tappeto dall’intreccio post rock.<br />

Più scura e pensosa Faded Spectrum, traccia che esprime<br />

al meglio la parte sotterranea e paranoica del carattere<br />

del duo.<br />

The Echo Show è un album curato nei dettagli e che si<br />

lascia ascoltare nella sua interezza proprio perché portatore<br />

sano <strong>di</strong> consistenza emozionale e buone idee - applicate<br />

con intelligente alternanza -, oltre che il risultato<br />

del lavoro <strong>di</strong> una realtà capace <strong>di</strong> ritagliarsi un posto<br />

nell’underground transalpino e non.<br />

(6.5/10)<br />

roBerto paviGlianiti<br />

zaMMuto - zaMMuto (teMporary<br />

reSidence, aprile 2012)<br />

Genere: art pop<br />

Nicholas Willscher Zammuto saluta (definitivamente,<br />

come abbiamo a suo tempo segnalato) il vecchio compagno<br />

d’avventure Paul De Jong e i The Books con<br />

questa nuova avventura più affabile e zuzzurellona. Una<br />

botta <strong>di</strong> leggerezza ferme restando l’attitu<strong>di</strong>ne versatile,<br />

la competenza caleidoscopica e la fregola indagatrice.<br />

Qualcosa come un Frankenstein giocoso che <strong>di</strong>sseziona<br />

e ricombina strutture e forme soniche, oppure se preferite<br />

un fisico nucleare che si <strong>di</strong>verte facendo esplodere<br />

petar<strong>di</strong> al neutrino. Il progetto Zammuto non è una novità:<br />

con tale ragione sociale il newyorkese esordì con<br />

Willscher (Apartment B, 2000) e ribadì il concetto con<br />

Solutiore Of Stareau (Infraction, 2001), all’insegna <strong>di</strong><br />

un’elettronica sperimentale che resta parecchio sullo<br />

sfondo nella proposta del presente quartetto (assieme<br />

a Nick ci sono il fratello Mikey al basso, Sean Dixon alla<br />

batteria ed il polistrumentista Gene Back).<br />

Un<strong>di</strong>ci tracce che bruciano la miccia da nerd visionari e<br />

goliar<strong>di</strong>ci, un cazzeggio che manipola le particelle elementari<br />

del quoti<strong>di</strong>ano au<strong>di</strong>tivo ricavandone mostriciattoli<br />

che non sai <strong>di</strong>re bene se illuminanti o ridanciani. Si<br />

parte con la folktronica schizoide <strong>di</strong> Yay (i Mùm colti da<br />

frenesia ingegneristica) e si finisce nel trasporto inafferrabile<br />

<strong>di</strong> Full Fa<strong>di</strong>ng (fremiti da simbionti Sigur Ròs). Nel<br />

mezzo, <strong>di</strong> tutto <strong>di</strong> più: dalla psych cibernetica marezzata<br />

<strong>di</strong> nostalgie spacey (F U C-3PO) all’andamento lento Notwist<br />

nell’ipnosi cerebrale Tortoise (I<strong>di</strong>om Wind, notare<br />

il calmebour dylaniano), dagli spasmi gommosi Herbie<br />

Hancock sparati in un crescendo art-rock (Zebra Butt) a<br />

certo funkettino brioso svaporato gospel (Groan Man,<br />

Don’t Cry), e ancora dai Boards Of Canada con variante<br />

genetica Daft Punk <strong>di</strong> Too Late To Apologize ad una Harlequin<br />

che ricalca Oh Sweet Nuthin dei VU con ineffabile<br />

calligrafia quasi Laurie Anderson.<br />

E’ un <strong>di</strong>sco <strong>di</strong>vertente e curioso che pecca nel sembrare<br />

più che altro una rappresentazione del “metodo Zammuto”,<br />

pagando perciò lo scotto ad una certa sterilità<br />

da laboratorio. Manca cioè il senso <strong>di</strong> missione che foderava<br />

d’intensità e persino <strong>di</strong> dramma la proposta dei<br />

The Books: se quelli riuscivano a sembrare una specie<br />

<strong>di</strong> arguta e per molti versi necessaria coscienza critica<br />

del presente, questo pare un’effervescenza genialoide<br />

capace <strong>di</strong> solleticarti giusto per il tempo che trova. The<br />

show must go on, con un po’ <strong>di</strong> rammarico.<br />

(6.7/10)<br />

Stefano Solventi<br />

94 95


sentireascoltare.com<br />

horror puppet<br />

david schmoeller (u.s.a., 1979)<br />

C’è un gruppo <strong>di</strong> ragazzi che sta andando in gita da qualche<br />

parte nella campagna americana. Si buca una ruota<br />

e uno <strong>di</strong> loro è costretto ad andare in cerca <strong>di</strong> qualcuno<br />

che li aiuti. Vede una casa, nel mezzo degli alberi. Decide<br />

<strong>di</strong> andare a chiedere. La porta è aperta e non sembra esserci<br />

nessuno. C’è una strana atmosfera. E’ l’incipit giusto.<br />

Proprio quello <strong>di</strong> uno slasher anni ’70. Il ragazzo è entrato<br />

nella casa abbandonata e noi sappiamo benissimo<br />

che adesso arriverà il maniaco che ce lo farà a fettine<br />

sotto gli occhi. E invece no. Perché Horror Puppet ovvero<br />

Tourist Trap è un film che vive dentro le regole del<br />

genere sapendo destreggiarsi a sufficienza tra i clichè e<br />

arrivando anche ad essere sufficientemente originale.<br />

Tutto ruota attorno al personaggio <strong>di</strong> Mr. Slausen che<br />

è un campagnolo dall’aria solare nelle sembianze ultra<br />

yankee <strong>di</strong> Chuck Connors. Il Nostro amico se ne sta tutto<br />

da solo nel mezzo del bosco americano, con un negozietto<br />

<strong>di</strong> souvenir chiamato “Mr. Slausen Lost Oasis” (la<br />

trappola per turisti del titolo ) che è pieno <strong>di</strong> manichini e<br />

automi vari, <strong>di</strong> quelli che ve<strong>di</strong> nei musei delle cere e nei<br />

parchi a tema. Il tipo ha l’aria ok, ma non è tutto come<br />

sembra e nella casa a<strong>di</strong>acente al negozietto vive il fratello,<br />

che sembra avere qualche problema <strong>di</strong> troppo con<br />

i manichini. Si sa, la curiosità è femmina e per scoprire<br />

l’arcano le sciacquette in gita ci rimetteranno la pelle<br />

una ad una.<br />

Horror Puppet è una delle prime produzioni, se non<br />

proprio la prima, <strong>di</strong> Charles Band. Uno che nel corso<br />

degli anni ha <strong>di</strong>mostrato <strong>di</strong> avere una certa tendenza ossessiva<br />

vero i pupazzi e bambole. Qui prende la sceneggiatura<br />

scritta da David Schmoeller insieme a J. Larry<br />

Carroll e affida al primo l’incarico <strong>di</strong> <strong>di</strong>rigere con pochi<br />

mezzi e tanta fantasia questo strano horror a base <strong>di</strong> manichini<br />

e pupazzi. Il risultato finale è un piccolo classico<br />

pieno <strong>di</strong> inventiva, che per uno strano scherzo del destino<br />

fa fiasco al botteghino salvo poi <strong>di</strong>ventare, nel corso<br />

degli anni, un oggetto <strong>di</strong> culto per i giovani spettatori<br />

televisivi che se lo trovano programmato a tutte le ore,<br />

anche <strong>di</strong> pomeriggio, forte del fatto che la commissione<br />

censura lo valutò con un PG-13, salvo poi, molto tempo<br />

dopo, passarlo ad un Rated-R. E che il film facesse paura<br />

ai piccoli spettatori dell’epoca ci sono pochi dubbi, visto<br />

che ancora oggi sa regalare brivi<strong>di</strong> e tensioni.<br />

Merito soprattutto del reparto trucchi e in primis dei<br />

magnifici e macabri manichini che affollano tutte le inquadrature<br />

o quasi del film. Il responsabile numero uno<br />

del loro design è Robert A. Burns, un piccolo e attivo<br />

art <strong>di</strong>rector del settore, che qualche anno fa si è suicidato<br />

avvelenandosi. A lui si deve anche l’aspetto este-<br />

riore del maniaco, che da un lato ricorda Leatherface e<br />

dall’altro Michael Myers. Una sorta <strong>di</strong> ibrido, che dà la<br />

giusta inquietu<strong>di</strong>ne, salvo poi perdere gran parte della<br />

propria cre<strong>di</strong>bilità per colpa dell’assurda voce (sia in originale<br />

che doppiato in italiano) che restituisce più che<br />

altro, una certa apparenza grottesca al tutto. Del resto<br />

sono passati un bel po’ <strong>di</strong> anni e non si può reprimere il<br />

sopracciglio destro dall’incurvarsi al cospetto della sequenza<br />

<strong>di</strong> mummificazione con gesso, quando il nostro<br />

maniaco ricopre la faccia della ragazza <strong>di</strong> materia gelatinosa<br />

biancastra e recita la descrizione dell’abominio:<br />

“La cosa strana del gesso è che quando comincia a seccare<br />

<strong>di</strong>venta così caldo che quasi brucia la pelle. Il panico verrà<br />

quando ti sigillerò la bocca. E ora gli occhi. La tua pelle sta<br />

bruciando, vero? E’ il gesso che comincia a tirare; ora sei in<br />

un mondo <strong>di</strong> tenebre e non vedrai mai più la luce”. E cosi<br />

sia! Va comunque dato atto a Schmoeller <strong>di</strong> sapersi muovere<br />

con la giusta dose <strong>di</strong> verve in mezzo ad una foresta<br />

<strong>di</strong> riman<strong>di</strong> e suggestioni.<br />

Che il maniaco richiami Lethearface non è un mistero,<br />

tanto più che tutto il film respira un’evidente aria da primo<br />

Tobe Hooper. E poi ovviamente ci sono riman<strong>di</strong> a La<br />

Maschera <strong>di</strong> Cera, a Psycho, a Carrie. L’atmosfera poi<br />

è stranissima, a tratti molto inquietante, a tratti molto<br />

simile ad un telefilm americano dell’epoca. La prima sequenza<br />

che gioca con il ragazzo come il gatto con il topo<br />

fa il suo effetto ancora oggi, e anche il finale ha un colpo<br />

<strong>di</strong> scena notevole e un final shot <strong>di</strong> quelli inquietanti ed<br />

intelligenti. Per il resto è un b-movie datato 1979 che<br />

presenta tutti i pregi e i <strong>di</strong>fetti dell’epoca, con un gruppo<br />

<strong>di</strong> attori da sufficienza sindacale. Attorno ad un bravo<br />

Chuck Connors si muovono gli assai più amatoriali Jon<br />

Van Ness, Robin Sherwood, Dawn Jeffory e una Tanya<br />

Roberts, pre Charlie’s Angels, già notevole nel suo<br />

abitino azzurro, stretto stretto. A musicare il tutto Pino<br />

Donaggio che qui si mantiene sul classico, ma ottiene<br />

uno score moscio e anonimo.<br />

antonello coMunale<br />

96 97<br />

— vhs Grindhouse


Gimme Some<br />

Inches #26<br />

Si presenta con un lavoro a nome<br />

Umberto la Black Moss, nuova label<br />

del sottobosco italiano. Una<br />

lunghissima traccia che riproduce la<br />

sensazione near death experience attuata<br />

in Final Exit, è un buon viatico<br />

ideologico per la neonata etichetta<br />

e l’immaginario <strong>di</strong> riferimento: non<br />

il suono Goblin-oriented apprezzato<br />

nelle uscite targate Not Not Fun,<br />

quanto un lungo excursus <strong>di</strong> matrice<br />

dark-ambient che è una letterale<br />

soundtrack d’accompagno nell’ultimo<br />

viaggio. Non c’è b-side proprio<br />

perché dopo morti, chi girerebbe il<br />

<strong>di</strong>sco?<br />

Per una morte simulata, una fine<br />

reale. La serie Phonometak che<br />

tante volte abbiamo incontrato in<br />

questa rubrica giunge al capolinea<br />

con il vol.10, appannaggio <strong>di</strong><br />

Paolo Cantù e del padrone <strong>di</strong> casa<br />

Xabier Iriondo. La fine come inizio<br />

se si considera che, seppur storici<br />

chitarristi dell’area impro-rock italica<br />

(SMWM, A Short Apnea, Uncode<br />

Duello per citare solo quelli<br />

accasati alla Wallace), i due giungono<br />

all’esor<strong>di</strong>o in solo proprio<br />

con questo pezzo <strong>di</strong> vinile. Da un<br />

lato quattro pezzi <strong>di</strong> Cantù che tra<br />

evanescenze spettrali (Huljajpole)<br />

quasi etno-folk, frattali <strong>di</strong> suoni in<br />

libertà (The Big Bounce), <strong>di</strong>latazioni<br />

haunted (Cosmetic Cosmic City) e<br />

esotico jazz isolazionista (Ityop’iya)<br />

si mostra in ine<strong>di</strong>te forme. Dall’altro<br />

Iriondo che lascia da parte i soliti<br />

strumenti auto costruiti, per offrire<br />

due lunghe tracce da “riscopritore<br />

antro-musicologo”: nastri, vecchi<br />

vinili, voce lontane, frattaglie sonore<br />

stratificate e maltrattate è ciò<br />

che troverete in The 78RPM Legacy e<br />

Elektraphone Eta Euskaldunen Pilota<br />

Jokoa, con quest’ultima fantastica in<br />

certi momenti quasi Naked City.<br />

Altro 10” vinilico da segnalare è la<br />

terza uscita della Aluminium Series.<br />

Protagonisti del pesante e straor<strong>di</strong>nario<br />

manufatto targato Macina-<br />

Dischi, gli A Flower Kollapsed e<br />

la scelta non poteva essere migliore.<br />

Per il terzo album, i trevigiani<br />

s’accoppiano alla perfezione alla<br />

materia che ricopre il 10” (al solito,<br />

alluminio punzonato a mano d0alta<br />

scuola artigianale) tanta e tale è<br />

la durezza del post-math-core dei<br />

quattro: mai un momento <strong>di</strong> pausa,<br />

mai un uce che filtri dal plumbeo<br />

orizzonte <strong>di</strong>segnato a suon <strong>di</strong> basto-<br />

nate noise-core tra i denti (All Nature<br />

Is My Nature), contorte evoluzioni<br />

math (Mud), drammatici stop’n’go<br />

da r’n’r inaci<strong>di</strong>to (Hollow Men). In<br />

realtà un momento <strong>di</strong> pausa c’è, ma<br />

è affidato al cd che accompagna l’album:<br />

Poisoned Tissue, sostituta della<br />

Menarè presente sul 10”, è un lungo<br />

frattale sonoro nero pece che se limita<br />

la violenza cieca, lo fa solo per<br />

trasformarla in <strong>di</strong>sagio e devasto interiore.<br />

Scream(o) baby, scream(o).<br />

Infine per il vinile piccolo, una rapida<br />

segnalazione per i Meteor, duo<br />

bresciano il cui 7” Anemici rischia <strong>di</strong><br />

essere più breve della nostra rece.<br />

Perciò an<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> iper-sintesi: 4<br />

micro-spastic-composizioni in 4 minuti<br />

<strong>di</strong> chitarra-batteria tra MoHa!,<br />

gli immancabili Lightning Bolt,<br />

aggressività Locust e certe svisate<br />

prog non banali per un rinfrescante<br />

assalto sonico. Breve ma intenso.<br />

Mese particolarmente gustoso anche<br />

per gli amanti delle sonorità più<br />

tetre ed oscure. Apriamo in bellezza<br />

con il ritorno dei giovanissimi e teutonicissimi<br />

Die Selektion che dopo<br />

l’ottimo album <strong>di</strong> debutto tornano<br />

a farci ballare nella loro dark room<br />

immaginaria con Cla<strong>di</strong>s, singoletto<br />

appena pubblicato dalla svizzera<br />

E<strong>di</strong>tion Gris. Nei solci del piccolo<br />

vinile colorato gi amanti dell’EBM<br />

più scura, non<strong>di</strong>meno in<strong>di</strong>rizzata<br />

verso li<strong>di</strong> quasi techno d’annata,<br />

troveranno <strong>di</strong> che leccarsi baffi con<br />

un pezzo come Triumph. Cinque<br />

minuti <strong>di</strong> musica elettro-meccanica<br />

con cui i tre giovani crucchi perfezionano<br />

un stile personale che era<br />

già evidente nel <strong>di</strong>sco omonimo.<br />

Cassa dritta, voce scan<strong>di</strong>ta in lingua<br />

madre, la tromba/marchio <strong>di</strong> fabbrica<br />

a sottolineare le azzeccatissime<br />

linee melo<strong>di</strong>che del gruppo. Il pezzo<br />

dark ambient che copre il lato<br />

B lascia giusto il tempo riprendere<br />

fiato. Ancora una volta, complimenti<br />

vivissimi.<br />

Un secondo comeback <strong>di</strong> cui non<br />

potremmo essere più lieti vede il ritorno<br />

su vinile breve degli australiani<br />

Lakes, già segnalati ai più attenti<br />

<strong>di</strong> voi su queste pagine grazie al precedente<br />

Winter’s Blade. Il trio capitanato<br />

da Sean Bailey ha affinato negli<br />

ultimi tempi una mici<strong>di</strong>ale quanto<br />

personale mistura <strong>di</strong> dark-punk o<br />

neo-folk con percussioni marziali,<br />

solenni chitarre semi-acustiche e<br />

grevi invocazioni baritonali. Ovve-<br />

ro come mettere definitivamente<br />

d’accordo Current 93 e Killing Joke,<br />

Death In June e Bauhaus. Con Crossed<br />

With Leaves i nostri rilanciano<br />

la male<strong>di</strong>zione, dando vita a due<br />

scurissime gemme <strong>di</strong> incre<strong>di</strong>bile<br />

fattura. Valga quanto appena detto,<br />

sia per l’omonima traccia che per il<br />

B-side Night Lark, il che dovrebbe<br />

bastare per in<strong>di</strong>rizzarvi <strong>di</strong> corsa alla<br />

scoperta <strong>di</strong> questo gruppo, nel caso<br />

non abbiate già provveduto.<br />

Chiu<strong>di</strong>amo in bellezza con Vatican<br />

Shadow, il nuovissimo progetto <strong>di</strong><br />

Dominick Fernow alias Mr. Prurient<br />

e synth-player nei blasonati Cold<br />

Cave. Attivo già da un annetto con<br />

una lunga serie <strong>di</strong> cassettine, la nuova<br />

creazione dell’artista rumoroso<br />

americano ha da poco raggiunto<br />

la soglia della pubblicazione su vinile.<br />

Del full-length Kneel Before<br />

Religious Icons leggerete a breve<br />

su queste pagine, mentre oggi vi<br />

segnaliamo l’uscita su 12’’ <strong>di</strong> Iraqi<br />

Praetorian Guard. Maxi singolo in<br />

uscita per la britannica e lungimirante<br />

Blackest Ever Black (già casa<br />

<strong>di</strong> Regis, Raime e Tropic of Cancer), il<br />

<strong>di</strong>sco in questione annovera due dei<br />

primissimi brani del progetto più un<br />

remix proprio a cura del producer<br />

techno-industrial Regis. Per chi <strong>di</strong><br />

voi è ancora a <strong>di</strong>giuno occorrerà<br />

<strong>di</strong>re che Vatican Shadow propone<br />

una musica elettronica industriale<br />

con basi vagamente dance, imperniata<br />

attorno ad una ciclica ripetitività<br />

e ad atmosfere <strong>di</strong>sturbanti<br />

e al contempo oniriche. Come un<br />

giovane Maurizio Bianchi ai tempi<br />

<strong>di</strong> Symphony For A Genocide.<br />

Presto comunque de<strong>di</strong>cheremo un<br />

meritato articolo al nuovo mostro<br />

partorito da Fernow, per prendete<br />

nota perché ci sarà <strong>di</strong> che gioire!<br />

Stefano pifferi,<br />

98 99


R e a r v i e w M i r r o r<br />

— s p e c i a l e 1981-2011. Ovvero, trent’anni non sono noccioline.<br />

L’elezione <strong>di</strong> Reagan per il primo mandato, l’arresto del<br />

terrorista nero Giusva Fioravanti e <strong>di</strong> quello rosso Mario<br />

Moretti, la scoperta della loggia massonica P2. E ancora<br />

la morte <strong>di</strong> Bobby Sands, quella <strong>di</strong> Rino Gaetano, lo<br />

switch off su un modo <strong>di</strong> fare tv con la trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Alfre<strong>di</strong>no<br />

Rampi tele<strong>di</strong>retta, il lancio del primo pc (il 5150 <strong>di</strong><br />

IBM), Carlo e Diana si sposano mentre Mumia Abu-Jamal<br />

viene arrestato per omici<strong>di</strong>o.<br />

Flying Nun Records<br />

e il Dune<strong>di</strong>n sound<br />

The Clean, The Bats,<br />

The Chills, Chris Knox<br />

Testo: Stefano Pifferi<br />

Diego Ballani<br />

Non c’era ancora il cd e la musica viaggiava su vinile e<br />

cassetta, per ra<strong>di</strong>o e fanzine. I Metallica erano sul punto<br />

<strong>di</strong> formarsi, Bruce Dickinson saliva per la prima volta sul<br />

palco con gli Iron Maiden mentre Simon & Garfunkel<br />

facevano il pienone al Central Park; gli EN pubblicavano<br />

Kollaps, Brian Eno il seminale My Life In The Bush Of<br />

Ghosts e i Throbbing Gristle mettevano la (prima) parola<br />

fine alla loro esperienza.<br />

Questa breve e non esaustiva carrellata, completabile<br />

a piacere presso un wikipe<strong>di</strong>a qualsiasi, è lì a ricordarci<br />

quanto tempo sia passato e come il mondo (musicale,<br />

ma non solo) sia cambiato da quando Roger Shepherd<br />

decise <strong>di</strong> dare una forma compiuta alla sua voglia <strong>di</strong><br />

documentare la nascente scena <strong>di</strong> Christchurch. Seconda<br />

città più importante della Nuova Zelanda e prima<br />

dell’isola più meri<strong>di</strong>onale, Christchurch è un agglomerato<br />

urbano <strong>di</strong> non più <strong>di</strong> 400mila anime che poco o nulla<br />

<strong>di</strong>rà a chiunque, ma che acquista una certa importanza<br />

per le sorti della musica in<strong>di</strong>pendente mon<strong>di</strong>ale. Ben<br />

presto infatti la città natale del boss Shepherd si gemellerà<br />

idealmente con quella che <strong>di</strong> lì a poco avrebbe unito<br />

il proprio nome a quello <strong>di</strong> un intero sound e che fu il<br />

luogo in cui avvenne il fattaccio: Dune<strong>di</strong>n.<br />

Fu lì infatti che, folgorato da un live della band <strong>di</strong> Chris<br />

Knox, gli Enemy, ma soprattutto dalla band che ne apriva<br />

il concerto, i Clean, Roger decise che era il caso <strong>di</strong><br />

spingere oltre la propria passione per la musica, allora<br />

limitata al lavoretto pomeri<strong>di</strong>ano in un negozio <strong>di</strong> <strong>di</strong>schi,<br />

e passare al <strong>di</strong> là della barricata. La Flying Nun - nome<br />

ispirato all’omonima fiction americana <strong>di</strong> fine ’60 - era<br />

nata. L’estetica del suono della label, così come dell’intero<br />

“kiwi-pop”, era ancora lontana dal formarsi, ma i primi<br />

passi furono, in questo senso, decisivi.<br />

Come spesso accade, infatti, la prima release effettiva<br />

non passa alla storia, ma cede il passo a quella che entrerà<br />

<strong>di</strong>rettamente nella leggenda. Il 7” Ambivalence dei The<br />

Pin Group (capitanati da un insospettabile e giovanissimo<br />

Roy Montgomery!) reca il numero 001 nel catalogo<br />

della Flying Nun, ma rimane la prima uscita soltanto sulla<br />

carta o per i co<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> catalogazione. Il <strong>di</strong>schetto a 45 giri<br />

che segnerà invece l’ingresso della label nel mito è Tally<br />

Ho! dei The Clean, forse in assoluto - e <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, insieme<br />

alle varie incarnazioni assunte da Chris Knox - il vero asse<br />

portante della Flying Nun. L’aver scalato le classifiche nazionali<br />

fino al numero 19, grazie anche ad un amatoriale<br />

video girato proprio da Knox, fu decisamente un grosso<br />

aiuto allo sdoganamento della Flying Nun. Nello stesso<br />

modo, l’ep split a quattro voci in un insolito formato in<br />

doppio 12” dall’eloquente titolo The Dune<strong>di</strong>n Double EP,<br />

inanellando tre<strong>di</strong>ci perle <strong>di</strong> quattro seminali formazioni<br />

dell’isola sud della Nuova Zelanda (Chills, Sneaky Fingers,<br />

Stones e Verlaines), lo fu per la coesione interna del fermento<br />

in<strong>di</strong>e nazionale. Cementando cioè quella scena<br />

inter-citta<strong>di</strong>na che <strong>di</strong> lì a poco avrebbe attirato i riflettori<br />

con varie definizioni: kiwi-rock, kiwi-sound e Dune<strong>di</strong>n<br />

sound le più note, pur nella (inutile) onnicomprensività.<br />

Soprattutto quest’ultima ha goduto - e gode tutt’ora -<br />

della stima incon<strong>di</strong>zionata <strong>di</strong> critica e musicisti d’oltreoceano,<br />

se gente del calibro dei Pavement ha rimarcato<br />

spesso l’influenza del Dune<strong>di</strong>n sound sul proprio in<strong>di</strong>epop<br />

o se riviste titolate come Uncut, non più tar<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

un paio <strong>di</strong> anni fa, affermavano che, nell’era pre-mp3,<br />

i tre assi portanti dell’universo in<strong>di</strong>e-pop underground<br />

fossero la Olympia della K Records, la Glasgow del giro<br />

C-86 e proprio Dune<strong>di</strong>n. E sono gran belle sod<strong>di</strong>sfazioni.<br />

Ma cos’è il Dune<strong>di</strong>n sound? Quali le sue origini, il suo<br />

fascino, la sua apparente eternità? Immaginate un suono<br />

chitarristico jangle-pop oriented, pieno <strong>di</strong> melo<strong>di</strong>e insieme<br />

appiccicose e <strong>di</strong>ssonanti, irregolare, instabile, umorale<br />

e ovviamente lo-fi, imparentato tanto col garage-rock<br />

dei 60s quanto con le ascendenze psych e velvettiane,<br />

ma condensato in una forma-canzone che <strong>di</strong> rado supera<br />

i tre minuti. Più che un suono, le cui coor<strong>di</strong>nate <strong>di</strong><br />

base abbiamo vagamente descritto qui sopra, è però<br />

una suggestione quella finita sotto quel cappello onnicomprensivo.<br />

Un atteggiamento ribellistico, fieramente<br />

do it yourself, entusiastico ed eccitato come solo l’età<br />

dell’innocenza in musica sa essere. Figlio dell’urgenza <strong>di</strong><br />

una generazione <strong>di</strong> ragazzetti from down under pronti a<br />

crearsi in casa ciò che la geografia aveva loro negato, relegandoli<br />

a <strong>di</strong>stanze siderali dai centri nevralgici del rock.<br />

Una sfilza <strong>di</strong> nomi secchi e <strong>di</strong>retti (Chills, Clean, Bats,<br />

Tall Dwarfs, Verlaines, ecc.), spesso se non sempre imparentati<br />

tra <strong>di</strong> loro, a <strong>di</strong>mostrazione <strong>di</strong> una scena insieme<br />

coesa e quantitativamente limitata, ma capace <strong>di</strong><br />

tenere alto il vessillo dell’undeground neozelandese ben<br />

oltre i confini nazionali e <strong>di</strong> superare la prova del tempo.<br />

Questo nonostante (o forse proprio grazie a) una produzione<br />

frammentata e <strong>di</strong>sseminata in una serie infinita <strong>di</strong><br />

pezzi piccoli, tra 7” e 12”. Non è un caso che Chills e Bats<br />

siano arrivati al full-length solo nel 1987, mentre Clean<br />

e Tall Dwarfs ad<strong>di</strong>rittura nel 1990, tutti dopo una serie<br />

sterminata <strong>di</strong> vinili piccoli e cassette.<br />

100 101


A chiudere il cerchio, l’attualità. Per festeggiare degnamente<br />

il trentennale, la label neozelandese - da poco<br />

ritornata in possesso del fondatore Sheperd, dopo una<br />

parentesi che la vide ceduta nei primi 90s alla Mushroom<br />

Recs per poi passare sotto il controllo della Warner - ha<br />

organizzato il proprio (auto)tributo: il Nunvember. Trenta<br />

concerti per trenta giorni <strong>di</strong> festeggiamenti <strong>di</strong> qua e<br />

<strong>di</strong> là dall’oceano in cui vecchie glorie e giovani virgulti<br />

invaghiti del Dune<strong>di</strong>n sound sono saliti sul palco per rinver<strong>di</strong>rne<br />

la leggenda e mostrarne l’attualità.<br />

Nello stesso modo, una serie <strong>di</strong> recuperi e ristampe (i<br />

3D’s <strong>di</strong> Early Recor<strong>di</strong>ngs, Daddy’s Highway dei Bats e<br />

molte altre ancora) e un paio <strong>di</strong> ottime compilation sono<br />

in uscita per rinfrescare la memoria ai meno attenti. Time<br />

To Go: Southern Psychedelic Music 1981-86, innanzitutto.<br />

Una compilation curata niente meno che da Bruce Russell<br />

dei Dead C e pronta a mostrarci come le propaggini<br />

del kiwi-pop potessero anche accendersi <strong>di</strong> svarionate<br />

psych. Del lotto, una serie <strong>di</strong> misconosciute formazioni<br />

intente a trafficare con soluzioni texane (Six Down dei<br />

Playthings), post-punk (Jim dei Pin Group), sixties (Russian<br />

Rug dei The Builders ricorda i B52’s sotto dopamina),<br />

dark-weird-wave (I Just Can’t Stop dei The Gordons),<br />

ossessivamente noisy (i The Chills <strong>di</strong> Flamethrower) e<br />

via via tutto quello che c’è nel mezzo, per venti titoli che<br />

sod<strong>di</strong>sferanno più <strong>di</strong> un curioso.<br />

Tally Ho! Flying Nun’s Greatest Bits, invece, già dal titolo<br />

chiude la parentesi iniziata trent’anni fa con un doppio<br />

cd in cui il versate più pop del catalogo - i soliti Clean,<br />

Bats, Chills, Verlaines ecc. nel primo <strong>di</strong>sco - e quello più<br />

noisy - Tall Dwarves, 3D’s, Dead C, Shocking Pinks - mostrano<br />

forse lo spaccato più esaustivo del suono della<br />

label neozelandese e del Dune<strong>di</strong>n sound tutto, esaltandone<br />

la trasversalità e la “sfaccettata sfacciataggine”.<br />

Scaviamo un po’ più nello specifico le coor<strong>di</strong>nate basilari<br />

per orizzontarsi in un mondo così (poco) lontano. (SP)<br />

Dune<strong>di</strong>n sound sounds great. Quattro punti car<strong>di</strong>nali per<br />

orizzontarsi meglio<br />

the clean<br />

Non è un caso che la compilation che celebra i trent’anni<br />

<strong>di</strong> casa Flying Nun prenda il nome dal primo singolo dei<br />

Clean. Tally Ho! è uno <strong>di</strong> quei brani capaci <strong>di</strong> generare<br />

un culto, <strong>di</strong> definire un’estetica. Un uovo <strong>di</strong> Colombo la<br />

cui genialità non è certo da ricercarsi nell’esecuzione,<br />

quanto piuttosto nell’attitu<strong>di</strong>ne e nella capacità <strong>di</strong> far<br />

the cleaN<br />

<strong>di</strong> necessità virtù. Nel senso che se i tuoi mezzi tecnici<br />

sono ridotti al lumicino e la sensibilità non ti consente<br />

<strong>di</strong> abbandonarti alle efferatezze del punk, tanto vale<br />

esprimersi come meglio si può. Ecco allora la melo<strong>di</strong>a da<br />

scuola materna <strong>di</strong> Tally Ho!, con la sua naiveté e quello<br />

spirito da “buona la prima” che è l’essenza stessa del ‘77.<br />

Difficile pensare a tutto questo senza la rivoluzione<br />

copernicana del punk: fino ad allora in Nuova Zelanda<br />

non era nemmeno mai esistita una scena musicale autoctona.<br />

I fratelli Kilgour sanno appena imbracciare gli<br />

strumenti ma, travolti da quell’onda anomala che aveva<br />

destato dal torpore la sonnolenta Christchurch, sentono<br />

che questo non può costituire un limite alla loro creatività.<br />

Reclutato il chitarrista Peter Gutteridge, iniziano<br />

la loro avventura smozzicando canzoni sulla scia degli<br />

Enemy <strong>di</strong> Chris Knox, la cosa più vicina a una punk band<br />

che giri dalle parte della Nuova Zelanda. E’ qui che il giovane<br />

Roger Shepherd <strong>di</strong>venta il loro fan più accanito,<br />

tanto da decidere <strong>di</strong> dar vita alla minuscola Flying Nun<br />

per fissare su <strong>di</strong>sco la loro musica e, più in generale, un<br />

fermento che pare minato da un senso <strong>di</strong> precarietà.<br />

Tally Ho! esce nel 1981, quando i Clean hanno già perso<br />

l’apporto <strong>di</strong> Gutteridge e acquistato, al basso, l’ex Electric<br />

Blood, Robert Scott. Grazie al suo appeal selvaggio, il<br />

singolo raggiunge la posizione numero <strong>di</strong>ciannove delle<br />

chart neozelandesi, accendendo i riflettori sull’etichetta<br />

che da quel momento catalizzerà la “meglio gioventù”<br />

sonica dell’arcipelago. Intanto, sempre nell’81, i Clean<br />

danno alle stampe l’ep Boodle Boodle Boodle, registrato<br />

con un quattro tracce a casa <strong>di</strong> Chris Knox: cinque brani<br />

che svelano un’istintiva vena pop e una beata indolenza<br />

stemperata nella cantilena barrettiana <strong>di</strong> Anything Could<br />

Happen e nel post punk accidentato e <strong>di</strong>ssonante <strong>di</strong> Billy<br />

Two. Le cronache narrano <strong>di</strong> concerti infuocati, muraglie<br />

<strong>di</strong> feedback ed elettricità satura, ma su <strong>di</strong>sco la povertà<br />

dei mezzi esalta il lato più eccentrico della band. Le loro<br />

sono canzoni sfilacciate e senza nerbo, <strong>di</strong>vise fra scossoni<br />

convulsi e una slackness primitiva.<br />

Un oscuro mantra velvetiano (Fish) e la stridula isteria<br />

<strong>di</strong> una Tally Ho! appena meno infettiva (Beatnik) sono le<br />

perle dell’ep Great Sounds Great, che la band pubblica<br />

1982. C’è ancora tempo per il singolo Getting Older, dal<br />

chitarrismo bruciante e deviato, quello che più si avvicina<br />

alla roboante matassa sonora della band e che fungerà<br />

da calco per tutta la prima produzione dei Pavement,<br />

prima che David Kilgour accantoni il monicker per de<strong>di</strong>carsi<br />

ai molteplici progetti che lo vedranno attivissimo<br />

per tutti gli anni 80.Si chiude così la parabola dei primi<br />

Clean. Appena una manciata <strong>di</strong> brani (successivamente<br />

raccolti nell’album Compilation) e un’ere<strong>di</strong>tà pesantissima<br />

che risulterà talmente evidente sul finire degli 80s<br />

da convincere Kilgour a trovare il tempo per ricostituire<br />

la band e pubblicare il primo vero album, Vehicle, nel<br />

1990. Il suono si è fatto più pulito e professionale. Tutta<br />

la scena è cresciuta insieme ai suoi protagonisti. Il folk<br />

pop della band ora splende <strong>di</strong> luce propria, anche senza<br />

quella sbilenca armonia che lo rendeva così irresistibile.<br />

Non<strong>di</strong>meno i Clean alterneranno album belli ad altri<br />

bellissimi, realizzati nella totale noncuranza <strong>di</strong> ritmi e logiche<br />

commerciali. Non solo: dal loro ceppo sarebbero<br />

cresciuti alcuni dei germogli più rigogliosi del Dune<strong>di</strong>n<br />

Sound.<br />

the bats<br />

Un esempio? Dopo il primo scioglimento dei Clean, Robert<br />

Scott, passato alla sei corde, arruola l’ex bassista dei<br />

Toy Love, Paul Keanin, il batterista Malcom Grant e la<br />

chitarrista Kaye Woodward per dar vita ai Bats, il gruppo<br />

che negli anni 80 svolgerà un ruolo capitale all’interno<br />

della scena. Con l’ep By Night (1984) mettono i paletti <strong>di</strong><br />

un in<strong>di</strong>e pop che viaggia spe<strong>di</strong>to su propulsioni ritmiche<br />

inarrestabili e un isterico schitarrare elettroacustico. Una<br />

sorta <strong>di</strong> corrispettivo neozelandese <strong>di</strong> Orange Juice e<br />

Joseph K, caratterizzato però da un’assenza endemica<br />

<strong>di</strong> coolness. Basta guardarli, in quei video girati per le<br />

strade <strong>di</strong> Christchurch, fra risolini ed espressioni smarrite.<br />

Il sound, poi, che caracolla e incespica su melo<strong>di</strong>ose<br />

strutture folk, ha un senso <strong>di</strong> precarietà che li rende irresistibili.<br />

Bisognerà far passare altri due anni e altrettanti<br />

ep (And Here Is The Music For The Fireside! e Made Up In<br />

Blue) prima <strong>di</strong> poter ascoltare il loro esor<strong>di</strong>o sulla lunga<br />

<strong>di</strong>stanza. Daddy’s Highway è il <strong>di</strong>sco che fa dei Bats<br />

l’avanguar<strong>di</strong>a pop del nuovissimo continente; un lavoro<br />

che riascoltato oggi non perde un grammo della sua<br />

freschezza e in cui la band viene elegantemente a patti<br />

con proprie debolezze. Le effervescenti trame elettriche<br />

si fanno più sofisticate e le nevrosi si <strong>di</strong>stendono in un<br />

contesto folk pop ammaliante, cui il violino dell’ospite<br />

Alastair Galbraith dona una <strong>di</strong>mensione bucolica e<br />

atemporale. In Nuova Zelanda il successo è istantaneo,<br />

mentre per la stampa <strong>di</strong> tutto il mondo, che ne coglierà<br />

il delicato sottotesto psichedelico, il paragone con i REM<br />

sarà all’or<strong>di</strong>ne del giorno.<br />

Peccato che l’anno successivo Robert Scott decida <strong>di</strong><br />

mettere il gruppo in stand by per prendere parte alla<br />

prima <strong>di</strong> tante reunion dei Clean. Bisognerà attendere<br />

il 1990 per vedere sugli scaffali il nuovo album dei<br />

pipistrelli. The Law Of Things, è per molti un <strong>di</strong>stillato<br />

purissimo del songwriting dell’occhialuto chitarrista;<br />

<strong>di</strong> certo è quello che più <strong>di</strong> ogni altro definisce i colori<br />

cangianti del kiwi pop, nello sfumare dai brillanti jingle<br />

jangle all’opalescenza del post punk e con ampi spazi fra<br />

102 103


the Bats<br />

gli strumenti che accentuano il languore delle melo<strong>di</strong>e.<br />

Rimarranno un segreto per pochi da questa parte del<br />

mondo che proprio non saprà che farsene <strong>di</strong> un gruppo<br />

dall’immagine così poco accattivante; la cosa però non<br />

impe<strong>di</strong>rà loro <strong>di</strong> realizzare altri cinque album in cui le<br />

<strong>di</strong>fferenze si misureranno col centimetro.<br />

Nel ’95, dopo l’uscita <strong>di</strong> Couchmaster, un Robert Scott<br />

sempre più impegnato fra continue reunion con i Clean,<br />

il nuovo progetto Magik Heads e il tentativo <strong>di</strong> far decollare<br />

una carriera solista, mette la band in ibernazione.<br />

Quando 2005 At The National Grid riporta alle cronache<br />

il nome dei Bats, il sound è inevitabilmente upgradato,<br />

ma non per questo meno affascinante. La registrazione<br />

e la tecnica della band si sono fatte più sicure e professionali,<br />

senza che vengano meno le melo<strong>di</strong>e evocative<br />

e quell’afflato nostalgico che ne fa i pala<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> un’altra<br />

epoca e <strong>di</strong> un’altra sensibilità.<br />

Sembra una rimpatriata occasionale, invece è l’inizio<br />

<strong>di</strong> una nuova stagione per i neozelandesi, che bissano<br />

nel 2009 con The Guilty Office e due anni dopo con<br />

l’incantevole Free All Monsters, <strong>di</strong>mostrando, a 30 anni<br />

dall’esor<strong>di</strong>o, <strong>di</strong> saper confezionare ad arte quelle felpate<br />

carezze folk pop che solo dall’altra parte del globo sanno<br />

<strong>di</strong>spensare in modo così sincero.<br />

the chills<br />

A proposito <strong>di</strong> filiazioni: Peter Gutteridge, appena uscito<br />

dai Clean, finiva nell’orbita <strong>di</strong> Martin Phillips. Phillips<br />

(oltre ad essere colui che suonava il Farfisa su Tally Ho!)<br />

è una sorta <strong>di</strong> Paul McCartney agli antipo<strong>di</strong>, cresciuto<br />

col punk al posto del rock’n’roll. Autore <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong><br />

canzoni, aveva iniziato la propria carriera a 15 anni con<br />

i Same, una punk band nata sulle orme degli Enemy e<br />

degli stessi Clean. Il suo è uno dei talenti pop più spiccati<br />

dell’arcipelago. Non a caso i Chills vengono spesso considerati<br />

i REM della Nuova Zelanda, nel senso che con loro<br />

il kiwi pop assurge alla sua forma più classica, compiuta<br />

e rassicurante, arrotondando le forme e trovando l’equilibrio<br />

fra il folk pop naif e l’epica del garage Australiano.<br />

La prima incarnazione, che oltre a Gutteridge e Phillips,<br />

vede la sorella <strong>di</strong> quest’ultimo alle tastiere, Jane Dodd<br />

al basso e Alan Heigh alla batteria, durerà appena pochi<br />

mesi e darà il via ad un succedersi <strong>di</strong> line-up che, in<br />

pratica, farà dei Chills il progetto solista <strong>di</strong> Phillips. Al<br />

momento dello scioglimento (circa ‘93) si conteranno<br />

quattor<strong>di</strong>ci <strong>di</strong>verse formazioni, all’interno delle quali, ad<br />

un certo punto, entrerà a far parte anche David Kilgour<br />

(Phillips dal canto suo renderà il favore accompagnando<br />

temporaneamente i Clean in una delle numerose reunion).<br />

Di certo le prime registrazioni <strong>di</strong> cui si ha traccia<br />

risalgono al Dune<strong>di</strong>n Double Ep del 1982, il sampler con<br />

cui la Flying Nun presentava i gioielli <strong>di</strong> famiglia e a cui<br />

i Chills prestavano tre canzoni. Su tutte, Kaleidoscope<br />

World è quella che, nella sua gioiosa amalgama <strong>di</strong> folk<br />

umorale e melo<strong>di</strong>e bubblegum, definiva le coor<strong>di</strong>nate<br />

del progetto. Dal 1982 al 1986 i Chills, pubblicheranno<br />

per l’etichetta <strong>di</strong> Shepherd numerosi singoli e due ep<br />

(poi raccolti nell’album Kaleidoscope World, uscito nel<br />

1986 per Creation Records) che contribuiranno ad accrescerne<br />

l’influenza su tutto l’arcipelago. Il capolavoro lo<br />

sigleranno con Pink Frost: un mantra chitarristico notturno,<br />

una catarsi glaciale ispirata a Phillips dal sogno (per<br />

fortuna mai avveratosi) della morte della fidanzata. Una<br />

goccia psichedelica che riverbera tutti i colori del nero e<br />

lascia il gelo nelle ossa. Paradossalmente il loro brano più<br />

noto e coverizzato è una mosca bianca all’interno <strong>di</strong> una<br />

produzione caratterizzata per lo più gioiose filastrocche<br />

elettroacustiche (Doledrums, I Love My Leather Jacket) e<br />

scorribande garage pop (Bite).<br />

Bisogna attendere il 1987 per il primo e vero album,<br />

Brave Words che pur potendo vantare la produzione <strong>di</strong><br />

un guru dell’avanguar<strong>di</strong>a rock come Mayo Thompson,<br />

delude chi aveva ancora nelle orecchie la freschezza<br />

spensierata e un pò surreale dei primi singoli.<br />

Passeranno altri tre anni prima che Phillips <strong>di</strong>a alle stampe<br />

il suo lavoro più compiuto ed omogeneo. Su Submarine<br />

Bell (1990) l’afflato pop è potente e magniloquente,<br />

la produzione adamantina, il tratto netto e deciso. Il perfetto<br />

blend fra rock, folk ed exploit melo<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> Heavenly<br />

Pop Hits, con quell’organo da fiera paesana e la melo<strong>di</strong>a<br />

che si scioglie in cori tardo Beach Boys, <strong>di</strong>venta il manifesto<br />

del <strong>di</strong>sco e dell’intera carriera della band, roba da<br />

iperuranio del pop chitarristico. Al contrario, la cavalcata<br />

elettroacustica <strong>di</strong> Oncoming Day furoreggia dando sfogo<br />

agli istinti più <strong>di</strong>namici <strong>di</strong> Phillips e soci.<br />

Nel 1992, Soft Bomb verrà registrato negli USA da una<br />

formazione parzialmente americana. Phillips vorrebbe<br />

farne il suo Pet Sounds e allestisce una produzione sontuosa,<br />

che vede ad<strong>di</strong>rittura Van Dyke Parks agli arrangiamenti<br />

per la sinfonica Water Wolves. Manca forse la<br />

coincisione del precedente lavoro, ma è un dettaglio.<br />

Purtroppo la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> tenere le re<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> un progetto<br />

<strong>di</strong>viso fra le due sponde dell’oceano Pacifico pone Phillips<br />

<strong>di</strong> fronte al <strong>di</strong>lemma se effettuare l’ennesimo cambio<br />

<strong>di</strong> line up, o consegnare il moniker alla storia. Sceglierà<br />

quest’ultima, salvo concedersi estemporanee rimpatriate<br />

con Sunburnt (uscito nel ’96 a nome Martin Phillips &<br />

The Chills) e l’ep Stand By (2004).<br />

chris Knox<br />

C’è un nome rimasto sullo sfondo delle precedenti vicende:<br />

è quello <strong>di</strong> Chris Knox, la cui carriera si intreccia<br />

inestricabilmente con quella <strong>di</strong> Clean, Bats e Chills. Chris<br />

è il demiurgo del kiwi pop grazie alla band che fonda<br />

insieme al chitarrista Alex Bathgate, gli Enemy, e alla ferrea<br />

etica DIY che negli anni farà proseliti e costituirà il<br />

marchio <strong>di</strong> fabbrica del Dune<strong>di</strong>n Sound. Gli Enemy sono<br />

i primi interpreti delle nuove sonorità. Chris li forma nel<br />

‘77 dopo essere stato folgorato sulla via <strong>di</strong> Damasco dai<br />

Sex Pistols. Del punk gli Enemy recuperano l’urgenza e<br />

lo spirito movimentista. L’ispirazione, decisamente più<br />

melo<strong>di</strong>ca rispetto a quella delle formazioni inglesi del<br />

periodo, <strong>di</strong>venta ancora più evidente quando la band si<br />

trasferisce ad Auckland e cambia il nome in Toy Love. E’<br />

in questo periodo che Knox, acquistato il primo quattro<br />

piste, inizia la collaborazione con Flying Nun, coltivando<br />

campioni <strong>di</strong> pop in<strong>di</strong>pendente come Clean e Bats.<br />

Frattanto i suoi Toy Love suonano come una versione<br />

appena più arrabbiata dei Television Personalities: stesse<br />

<strong>di</strong>namiche sgangherate, stessa ritmica essenziale. Le<br />

chitarre, più che bruciare, pennellano melo<strong>di</strong>e 60s come<br />

quelle dei singoli Rebel e Don’t Ask Me. Durano appena il<br />

tempo per registrare un mini album, dal titolo Tall Dwarfs,<br />

sigla che adotteranno come moniker per il successivo<br />

progetto. Con i Tall Dwarfs, Knox e Bathgate porteranno<br />

alle estreme conseguenze la stilizzazione della loro<br />

musica.<br />

Nelle loro canzoni non c’è neppure una batteria, i due vi<br />

sopperiscono con battiti <strong>di</strong> mano e percuotendo oggetti<br />

<strong>di</strong> varia natura. Più spesso costruiscono madrigali <strong>di</strong>storti<br />

<strong>di</strong> folk elettrico che pur nella povertà dei mezzi e nell’imperizia<br />

dell’esecuzione, mettono a frutto tutto il talento<br />

melo<strong>di</strong>co <strong>di</strong> Knox. Il manifesto, Nothing’s Going To Happen,<br />

presente sull’ep d’esor<strong>di</strong>o Three Songs, lo vede nelle<br />

vesti <strong>di</strong> figlioccio <strong>di</strong> Lou Reed, fra chitarre acustiche che<br />

graffiano come unghie sulla lavagna e brogliacci elettrici<br />

<strong>di</strong> sottofondo. Ci vorranno ben sette ep prima che<br />

i due si decidano a pubblicare un vero e proprio album<br />

(Weeville, nel 1990), e ancora <strong>di</strong> più prima che Chris Knox<br />

entri in un vero e proprio stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> registrazione (accadrà<br />

solo nel 2006 con il suo album solista Chris Knox And<br />

The Nothing). Nel frattempo i Tall Dwarfs <strong>di</strong>venteranno<br />

leggenda: pionieri del più integerrimo pop “fai da te”,<br />

riusciranno persino a piazzare una hit (la cantilena velvetiana<br />

<strong>di</strong> The Brain That Wouldn’t Die) nella Nuova Zelanda<br />

<strong>di</strong> quegli anni. Un luogo e un tempo in cui poteva<br />

accadere <strong>di</strong> tutto: persino che idee e creatività valessero<br />

più che immagine e hype. E che si realizzasse in sor<strong>di</strong>na<br />

quell’utopia fieramente in<strong>di</strong>pendente che il punk inglese<br />

aveva solo vagheggiato. (DB)<br />

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CAMPI MAGNETICI #13<br />

Flavio Giurato Blur<br />

il tuffatore (cGd, GiuGno 1982)<br />

Solo in Italia poteva sgusciar via dalle mani - e dalle<br />

stampe - un concept album su una storia d’amore nata<br />

sui campi da tennis. Flavio Giurato è uno <strong>di</strong> quei cantautori<br />

italiani messi in un angolo dalle evoluzioni della<br />

nostra storia musicale, una scheggia impazzita e libera<br />

che come Pelosi, Fanigliulo o Carella.<br />

All’interno <strong>di</strong> un percorso compositivo tanto vario<br />

quanto <strong>di</strong>scontinuo, Il tuffatore è un gioiello prezioso<br />

e romantico costruito su un fil rouge <strong>di</strong> parlato e postprog<br />

senza scampo che ancora oggi regge con <strong>di</strong>gnità.<br />

Siamo nel 1982, anni <strong>di</strong> delicato passaggio dal prog al<br />

nascente afflato new wave. Lontano da Le Orme e dai<br />

CCCP, Giurato si astrae intraprendendo un <strong>di</strong>scorso musicale<br />

capace <strong>di</strong> unire all’intreccio amoroso tipicamente<br />

60s il melodramma addolorato dei Settanta e la leggerezza<br />

ironica nascente dei primi Ottanta. Abbandonato<br />

un italiano che si mischiava volentieri con un romanesco<br />

intransigente - il precedente Per futili motivi del 1978 -,<br />

ne Il tuffatore la commistione è tra italiano e inglese,<br />

in un vortice <strong>di</strong> brani che si susseguono senza pause e<br />

si legano gli uni agli altri, riprendendo linee melo<strong>di</strong>che<br />

ma anche versi dei testi.<br />

Almeno tre i capolavori <strong>di</strong> questo <strong>di</strong>scorso amoroso:<br />

una Orbetello dove si esplicita la trama del concept e<br />

che va a legarsi con la successiva Orbetello ali e nomi<br />

per precipitare gran<strong>di</strong>osa in una coda afro prog in<strong>di</strong>menticabile;<br />

una title track mezza in inglese e mezza<br />

in italiano, semplice e veloce come un haiku, dalla concretezza<br />

lieve e svettante; una Valterchiari che, come<br />

molti brani del <strong>di</strong>sco, è costruita in gran parte su un matrimonio<br />

voce e piano, salvo poi rintanarsi in un sax <strong>di</strong><br />

106<br />

compagnia. Quest’ultima una storia d’amore imperfetta<br />

in una vita imperfetta, focalizzata sull’immagine <strong>di</strong> un<br />

eroe romantico come Walter Chiari. Tanto per sottolineare<br />

ancora una volta che l’amore è palco e costruzione,<br />

chiamando in causa l’ultima figura antica e nobile<br />

dell’uomo <strong>di</strong> spettacolo<br />

Non c’è un brano che si salvi dalla forza <strong>di</strong>rompente <strong>di</strong><br />

contenuti alti, <strong>di</strong> frasi ad effetto, destinate a rimanere<br />

nell’immaginario <strong>di</strong> chi ascolta: “le delusioni sono unite<br />

dalla ferrovia “,”una donna alta non è mai banale sarà per<br />

lo sguardo necessariamente superiore”, “per quanto ti ho<br />

visto e per quanto ti ho sentito, tu sei una giornata <strong>di</strong> riposo<br />

dove si comprano i giornali”.<br />

Giurato è artisticamente vivo e vegeto, il suo ultimo<br />

<strong>di</strong>sco risale al 2007. Se siete fortunati potete anche<br />

ascoltarlo live.<br />

Giulia cavaliere<br />

classic album<br />

leiSure (parlophone, Gennaio 1991)<br />

Nel 1991, Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James<br />

e Dave Rowntree erano quattro ventenni <strong>di</strong> Colchester<br />

che da un paio d’anni avevano messo in pie<strong>di</strong> una<br />

band. All’inizio si chiamavano Seymour, poi cambiano<br />

ragione sociale in Blur: con questa sigla arriva Leisure,<br />

il primo vagito, un classico miscuglio <strong>di</strong> inconsapevolezza<br />

e ingenuità comune a tanti esor<strong>di</strong> piazzato giusto<br />

in mezzo a uno dei crocevia più rappresentativi della<br />

musica inglese, il cavallo 80s/90s.<br />

Spremuta <strong>di</strong> molte tendenze dell’in<strong>di</strong>e britannico del<br />

periodo, in particolare Madchester e shoegaze, Leisure<br />

è perciò un misto <strong>di</strong> trovate e prestiti, freschezza acerba<br />

e compromessi con le case <strong>di</strong>scografiche (Food e Parlophone),<br />

pronte a chiamare una schiera <strong>di</strong> produttori<br />

ad avvicendarsi in regia, tra cui quel Sthepen Street reduce<br />

dai successi targati Smiths che <strong>di</strong>venterà il futuro<br />

punto <strong>di</strong> riferimento per la band.<br />

I successi <strong>di</strong> Happy Mondays e Stone Roses non più<br />

vecchi <strong>di</strong> due anni ma si sentono chiari, sia per ispirazione<br />

sia a livello scenico/sonico in brani come High<br />

Cool, o i singoli There’s no Other way e Bang; la lezione<br />

<strong>di</strong> Jesus & Mary Chain e My bloody Valentine torna<br />

alla ribalta nella psichedelia in feedback <strong>di</strong> Sing o nella<br />

soffusa Birthday. I Blur poi ci mettono già quel gusto<br />

per il vocalizzo melo<strong>di</strong>co che farà la fortuna loro e del<br />

brit pop tutto. She’s so high è la prima ban<strong>di</strong>era piantata<br />

su un dream pop nato dall’incrocio con lo shoegaze, la<br />

baggy Repetition macina già ritornelli che ritroveremo<br />

Parklife. Insomma il futuro della band è già scritto in<br />

Leisure e così pure la costellazione <strong>di</strong> band che domi-<br />

neranno i 90s del Regno: Suede, Pulp e Oasis, ovvero<br />

i più accre<strong>di</strong>tati concorrenti della “battle of the bands”.<br />

Imperfezioni e qualche brano non all’altezza (Come togheter,<br />

Ware me down, Bad day) relegheranno il <strong>di</strong>sco in<br />

secondo piano rispetto a Parklife o all’omonimo Blur<br />

del 1997, eppure quattro hit minori (Sing, She’s so High,<br />

There’s no other way, Repetition) saranno capaci <strong>di</strong> raccontare<br />

meglio <strong>di</strong> tante altre le trasformazioni che la<br />

terra d’Albione stava vivendo.<br />

Stefano Gaz<br />

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