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Fake Edizioni - Macchina dei Sogni

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Titolo originale dell’opera:<br />

“<strong>Fake</strong> <strong>Edizioni</strong>.<br />

Nuovo catalogo aggiornato di romanzi eventuali”<br />

MACCHINA DEI SOGNI<br />

associazione culturale<br />

cinema&scrittura<br />

È un motore alimentato dal propellente della creatività<br />

e messo in moto dalla comunità solidale di tutti<br />

gli ingegni impazienti.<br />

Genera conoscenza connessioni incontri, alimenta passioni,<br />

traduce sogni in scintille e non danneggia l’ozono.<br />

www.macchina<strong>dei</strong>sogni.org<br />

info@macchina<strong>dei</strong>sogni.org<br />

collana<br />

LIBRI della MACCHINA DEI SOGNI<br />

volume 15<br />

© 2011 by MACCHINA DEI SOGNI<br />

Corso MANUALE D’AUTORE progettare il romanzo<br />

Edizione 2001<br />

Condotto da Matteo B. Bianchi<br />

EDIZIONI AUTOPRODOTTE<br />

traduzioni previste in tutte le lingue richieste<br />

Progetto MACCHINA DEI SOGNI<br />

Art director: Jasmina von Büren – www.xsdsign.ch<br />

Coordinamento del progetto: chicca profumo<br />

Redazione: Loretta Patrini


<strong>Fake</strong> <strong>Edizioni</strong><br />

Nuovo catalogo aggiornato di romanzi eventuali


Un catalogo immaginario per un'immaginaria casa editrice, che però illustra romanzi<br />

possibili. I libri che troverete in queste pagine non esistono, o per meglio dire, non<br />

esistono ancora: sono i progetti che i frequentatori del corso "Manuale d'autore"<br />

stanno portando avanti. Durante gli incontri ne abbiamo discusso le trame, analizzati<br />

i personaggi, verificato i dialoghi... Tra qualche mese alcuni di questi romanzi saranno<br />

terminati, ma a noi, per gioco e anche per incoraggiamento, piace presentarli qui come se lo<br />

fossero già tutti.<br />

Matteo B. Bianchi


Emma è cresciuta “dalla parte giusta”, ma ora si sente l'unica nel proprio<br />

mondo a non trovare più conforto in un patrimonio condiviso di certezze,<br />

preferenze, riferimenti culturali. A partire da una spregiudicata scelta lavorativa,<br />

intraprende un percorso di ribellione segreta che apre sempre<br />

di più la crepa invisibile che la separa dalla famiglia e dal compagno. Le<br />

ricadute saranno più ampie di quanto si possa immaginare, perché Emma<br />

lavora come ghostwriter e le sue parole danno voce a esponenti di primo<br />

piano sulla scena politica nazionale.<br />

Fuori tema è la storia di una donna e il ritratto ironico e spietato di un<br />

Paese in cui il privato è pubblico e il pubblico è privato.<br />

Francesca Pampinella è nata a Belluno nel 1970. Negli ultimi vent'anni<br />

ha cambiato spesso dimora e un paio di volte carriera. È stata un cervello<br />

in fuga, poi rientrato, mai rassegnato.<br />

Questo è il suo primo romanzo.<br />

6


Fuori tema, Francesca Pampinella.<br />

Scrivo da trent'anni lo stesso discorso. Noi siamo migliori di voi.<br />

Alle elementari voi eravate i barbari, i dominatori austro-ungarici, Napoleone che<br />

si porta via le opere d'arte, gli assassini <strong>dei</strong> partigiani. Noi, io e mio fratello in gita<br />

al sacrario di Bastia Mondovì, in fila indiana dietro nostro padre. Eravate ormai<br />

lontani e sconfitti.<br />

Al liceo eravate i corruttori, quelli che se n’erano approfittati troppo a lungo, quelli<br />

della strategia della tensione, i nani e le ballerine. Umiliati, esiliati, finiti. Noi, l'insalata<br />

di riso di mia madre davanti al tg e i tram sull'asfalto rovente fuori dal tribunale.<br />

Adesso siete quelli che non danno valore alla cultura, che non riconoscono le regole,<br />

quelli delle hostess nelle prime file, delle convention, <strong>dei</strong> tabloid all'italiana,<br />

gli avvocati difensori, gli evasori e i piazzisti. Adesso siete in mezzo a noi e avete<br />

vinto.<br />

Ho scritto che siamo migliori di voi nelle recensioni cinematografiche per una rivista<br />

studentesca, nei primi esperimenti con un corso di scrittura creativa, nel forum<br />

“Cieli puliti per Milano”, dove ho conosciuto Luca. Ce lo siamo detti insieme che<br />

siamo migliori di voi, nelle passeggiate dopo il cinema, nei negozi equo-solidali,<br />

alle presentazioni <strong>dei</strong> libri e nelle serate antisanremo. Forti del nostro amore che<br />

cresceva dalla parte giusta. Ho scritto che siamo migliori di voi persino nei commenti<br />

di un blog dedicato alla cucina a chilometro zero.<br />

Scrivo da trent'anni lo stesso discorso, ora lo scrivo più o meno ogni giorno per<br />

una senatrice del PD e mi pagano per farlo.<br />

La strada più sicura è indubbiamente quella di continuare a credere che noi siamo<br />

migliori di voi, se non fosse che a forza di scriverlo non sono più così certa di sapere<br />

chi siate voi né a cosa abbia portato tutto questo essere migliori.<br />

1<br />

«Non passa giorno senza che io mi domandi dove sia finito il paese che in tante<br />

abbiamo sognato per le nostre figlie.»<br />

Qui il suo sguardo si rivolge dritto in camera. All'improvviso. Niente esitazioni, niente<br />

“vede”, basta togliere quel “vede” all'inizio e non sembra più una lezione. Gli occhi<br />

sobriamente truccati fermi su di noi che siamo qui a raccogliere le briciole dalla<br />

tovaglia, e dallo schermo il suo quasi quotidiano appello alle nostre coscienze.<br />

Scuotiamo la testa mentre ammonticchiamo le bucce di mandarino. Nella metà<br />

delle case italiane altre famiglie correttamente ammonticchiano bucce e compiaciuta<br />

disapprovazione, e pendono da quelle labbra rosa pallido al giusto grado di<br />

carnosità. Esattamente equidistanti dalla maestrina invidiosa e dalla cinquantacinquenne<br />

che non si arrende.<br />

In questa cucina invece l'attenzione è coagulata sulla mia bocca ancora un po'<br />

macchiata di cacao. Aspettano che onori il nostro gioco. E io, incorniciata in un<br />

copione ormai fasullo quanto il teatrino di cartone dove da bambina facevo ballare<br />

le marionette, pronuncerò una frase scelta con cura e osserverò l'onda <strong>dei</strong> loro<br />

7


sguardi infrangersi contro il televisore e poi di nuovo rimbalzare su di me. Sorridenti,<br />

fieri. Come se ancora riuscissero a rivivere la sorpresa di quando scoprirono<br />

che quelle parole così importanti le avevo scritte io.<br />

Era la prima domenica che mio padre e mia madre venivano a pranzo a casa nostra.<br />

Un modo di dichiarare a se stessi che con la partenza di Enzo il loro cessava<br />

di essere il baricentro della famiglia. Il figlio piccolo era uscito di casa e restavamo<br />

noi, due coppie di diversa età a scambiarsi le feste e qualche cena infrasettimanale.<br />

Del mio ultimo avanzamento di grado nella schiera <strong>dei</strong> parolai di partito avevo raccontato<br />

a mio fratello mentre lo accompagnavo in aeroporto. Non mi aveva ferito<br />

né stupito l'indifferenza con cui aveva accolto quella notizia. Definirla indifferenza<br />

sarebbe inesatto, ma allora non avevo alcuno strumento per decifrare quella sua<br />

visione del mondo, ciò che per noi era solo un “chiamarsi fuori”, lasciare, appunto,<br />

andarsene.<br />

Per la preparazione di quel pranzo io e Luca iniziammo da vere e proprie riforme<br />

infrastrutturali, che prevedevano l'affissione di quadri ancora appoggiati per terra<br />

da quasi cinque anni, l'omologazione stilistica di piatti e bicchieri e la sostituzione<br />

della consunta pallina di gomma del meccanismo che blocca lo scarico del WC.<br />

Ciò gli impose l'iniziazione al mondo <strong>dei</strong> negozi di ferramenta e una definitiva resa<br />

al ruolo di maschio che gestisce le piccole riparazioni, una mia personale conquista<br />

nell'impostazione della nostra convivenza.<br />

L'ideazione del menù ci vide lavorare fianco a fianco come un dream ticket nella<br />

costruzione del programma elettorale. Ci apprestavamo a intaccare il nostro patrimonio<br />

di gourmand della domenica, pazientemente accumulato nei saloni del<br />

gusto e alle fiere <strong>dei</strong> prodotti D.O.P. nei borghi medievali. Tutto di qualità rigorosamente<br />

certificata, i prodotti, i produttori e, se possibile, anche i borghi medievali. Il<br />

sabato mattina battemmo palmo a palmo il Farmers Market di via Ripamonti, il pomeriggio<br />

lo passammo in cucina.<br />

Era il nostro debutto ufficiale. Le festicciole di compleanno, le cene con gli amici,<br />

nemmeno il fatto che due o tre volte l'anno ospitavamo la riunione del gruppo di<br />

acquisto solidale di cui Luca era uno <strong>dei</strong> promotori, contavano davvero. Ci vuole<br />

una famiglia per certificarne un'altra e questa era la nostra prima e unica occasione.<br />

La madre di Luca probabilmente non verrà mai a Milano, figuriamoci nel nostro<br />

appartamento. Questo nella sua famiglia non è vissuto come una mancanza o un<br />

qualcosa per cui cercare una giustificazione. Anche se non ne abbiamo mai parlato,<br />

siamo certi che nel loro universo non esista il concetto di “Emma e Luca”<br />

come nucleo familiare. Noi siamo “i ragazzi”, quelli che li raggiungono per Natale<br />

nella casa di Terni, dove sua madre è arbitro e giudice supremo in un'eterna competizione<br />

in cui sorelle e cognate si sfidano per il titolo di famiglia modello. Noi due<br />

siamo fuori concorso, a prescindere, e alla fine delle vacanze ce ne torniamo in<br />

quella nozione vaga e indefinita che è per loro la nostra dimora milanese, con<br />

l'auto stipata di pietanze da congelare in contenitori monoporzione. Il massimo<br />

della considerazione l'abbiamo raggiunto a Pasqua dell'anno scorso, quando abbiamo<br />

impastato e infornato le focacce per tutti quanti. L'aver rimesso in funzione<br />

8


il forno a legna, inattivo dalla scomparsa del padre, ci ha fatto guadagnare i nostri<br />

cinque minuti di popolarità come unità in grado di contribuire al sostentamento<br />

della tribù con un qualsiasi genere di produzione. Un po' come vincere nella sezione<br />

Un certain regard.<br />

Quando arrivò la domenica, la tensione da debutto si mescolò all'anticipazione,<br />

tanto che, nell'accogliere i miei sulla porta, nemmeno notai gli strass che tempestavano<br />

i jeans di mia madre, né detti troppo retta al roteare di pupille con cui mio<br />

padre sollecitava un mio solidale commento di disapprovazione. Avevano ciascuno<br />

il proprio lutto da elaborare, mi dissi, lei la perdita dell'amato bamboccione e lui la<br />

fuga di quello che non poteva nemmeno vantare come “cervello”, perlomeno non<br />

in base ai canoni attuali. Confidavo nel fatto che il mio annuncio li avrebbe distolti<br />

da questo nadir della loro parabola genitoriale.<br />

Dopo qualche convenevole papà accettò con grazia l'invito a scegliere e stappare<br />

la bottiglia di vino, e il pranzo ebbe inizio.<br />

Tra una portata e l'altra lievitava la bolla d'intesa dentro la quale io e Luca ci scambiavamo<br />

sorrisi ebeti. Davanti al soufflé di cioccolato, la complicità con cui mia<br />

madre ci chiese cosa avevamo da nascondere sgonfiò il nostro programma in un<br />

colpo solo.<br />

Un nuovo baricentro per la nostra famiglia, con il sistema più classico e sostanziale,<br />

questo si aspettavano da noi.<br />

«Mi hanno chiesto di scrivere per la Pocchiola.» Avrei potuto dirlo così, a bruciapelo,<br />

per evitare che nello spazio di un “devo dirvi che” o “ho una novità da raccontare”,<br />

mio padre avesse già mentalmente messo in sicurezza il nostro<br />

appartamento e applicato i tappi anti-dita-di-bimbo a tutte le prese.<br />

Risposi che eravamo solo molto contenti di aver finalmente risolto l'annosa questione<br />

della pallina del WC e fugai ogni dubbio con una risata, mentre percepivo<br />

lo sguardo perplesso di Luca e mi rifiutavo di incrociarlo.<br />

Non volevo che i miei pensassero che il pranzo fosse stato organizzato per quello.<br />

Sapevo che sarebbero stati contenti per me e anche fieri, ma avevamo messo in<br />

piedi una liturgia da lieto evento. Improvvisamente ci guardavo con i loro occhi e<br />

non mi piaceva quella sensazione. Non dico come se gli avessimo annunciato che<br />

intendevamo prenderci un cane, ma quasi. Soprattutto non volevo condividere<br />

questi pensieri con Luca.<br />

La sera, a letto, quando sapevo di non poter più sfuggire alla spiegazione per quel<br />

mio estemporaneo dissociarmi dal nostro lavoro d'équipe, me la cavai con la storia<br />

che mi era venuto in mente solo all'ultimo quel modo molto più spettacolare di svelare<br />

la sorpresa. La creatività mi va a mille quando sono sotto stress.<br />

Come ogni domenica il caffè del dopopranzo lo prendemmo davanti alla trasmissione<br />

della Annunziata. Ospite proprio quel giorno, Anna Pocchiola, da poco eletta<br />

al senato e già una delle voci più autorevoli dell'opposizione. Il programma si sarebbe<br />

aperto con il filmato di un suo recente intervento a Palazzo Madama, il primo<br />

scritto da me. Il primo di molti che avrei ricordato a memoria, tanto da poter anticipare<br />

lo schermo. Scegliere una frase qualunque e pronunciarla qualche secondo<br />

prima che le stesse identiche parole siano diffuse dal televisore come un'eco. Così<br />

feci quella domenica e così farò adesso per l'ultima volta.<br />

9


Al ritorno dalle ferie dovrò aver trovato un modo per convincerli che questo gioco<br />

ha fatto il suo tempo. Inizialmente avevo pensato di raccontare che avevo chiuso<br />

con il ghostwriting per fare altro ma, a parte questa, nessuna delle attività a cui mi<br />

sia dedicata finora era almeno vagamente remunerativa. E qui invece i soldi continueranno<br />

ad arrivare. Anzi, adesso ancora di più. Perché domani, io, passo dall'altra<br />

parte.<br />

2<br />

L'assistente di volo illustra, ignorata, le procedure di evacuazione dell'aeromobile.<br />

Puntuale mi visita lo stesso pensiero di ogni decollo e mi immagino nell'attimo<br />

estremo di rimpiangere la mia reiterata noncuranza delle procedure. I miei che entrano<br />

in casa. La mia eredità è un bagno con il caos senza pudore di un qualsiasi<br />

mercoledì senza visite annunciate. Improbabile che ci sia un cadavere da rivestire<br />

e al limite gli abiti li potrebbe procurare Luca, ma lui in queste visioni non c'è mai,<br />

e non solo perché in molti casi è ovviamente deceduto al mio fianco. È un immaginario<br />

nato prima della nostra relazione e ancora non si è aggiornato con la sua<br />

presenza.<br />

Nel pc c'è tutta la corrispondenza di queste settimane, inclusa questa lettera che<br />

mi porterò in grembo fino alla fine. Speriamo almeno che a metterci le mani sia<br />

mio fratello, anche se forse per rintracciarlo ci metterebbero qualche giorno.<br />

Rileggo per la centesima volta la mail di Vizzeri per cercare di capire come affronterò<br />

l'incontro. È piena di espressioni convolute come “in un certo qual modo”,<br />

“sondare la sua disponibilità”, “sforzandoci di perseguire un superamento di quella<br />

cesura cartesiana” e “volendo inquadrare il tutto in una prospettiva più ampia che<br />

trascenda la contingenza delle contrapposizioni correnti”. Se inserissi questo testo<br />

nel software che genera le tagcloud il prodotto sarebbe un arabesco.<br />

Elaborato quanto la trama <strong>dei</strong> tendaggi ai lati della finestra del suo studio romano,<br />

davanti alla quale mi parla qualche ora più tardi. È in piedi esattamente al centro<br />

della luce che filtra tra i suoi capelli crespi e rossicci, come la raffigurazione di un<br />

santo illuminato dallo spirito divino.<br />

«Signorina Benedetti, capisce bene che con questa impostazione il materiale che<br />

ci serve è molto più... come posso dire... denso.»<br />

«Denso?»<br />

«Senza le consuete interruzioni, l'impasse <strong>dei</strong> diverbi» l'iPad bianco nelle sue mani<br />

affusolate sembra un messale, «ecco, il peso, il peso specifico <strong>dei</strong> testi.» Termina<br />

la frase a metà allargando le braccia e sorridendomi con le labbra strette.<br />

Per una frazione di secondo ho quasi la certezza che stia per impartirmi una benedizione.<br />

Istintivamente mi aggiusto meglio la gonna sulle ginocchia e cerco di<br />

sedermi ancora più dritta sulla poltrona marrone di velluto consunto. Di tutti gli stereotipi<br />

che mi stanno stretti, quello che attribuisce al centrodestra la povertà del<br />

linguaggio e lo sfarzo degli arredi avrei sinceramente preferito conservarlo.<br />

Del resto Vizzeri è una figura che va sicuramente “inquadrata in una prospettiva<br />

più ampia che trascenda la contingenza delle contrapposizioni correnti”.<br />

Qui dentro si respira quell'aria ministeriale tra il solenne e l'ammuffito che nel mio<br />

immaginario appartiene alla Prima Repubblica, quando non la si considerava an-<br />

10


cora una versione destinata a essere soppiantata dalle successive. Il palazzo si<br />

porta abbastanza dignitosamente i suoi due o tre secoli, i mobili dello studio hanno<br />

l'aria di essere diventati di colpo obsoleti, passata l'infatuazione per la combinazione<br />

legno-formica (ammesso che sia mai esistita), e Vizzeri ha un'età indefinita<br />

tra i sessanta e i duemila anni.<br />

«In altre parole prevedete più spazio per i contenuti? Una bella novità» sorrido e<br />

mi appoggio allo schienale. Lui ignora l'ironia della battuta, intento a scorrere un<br />

menù dall'iPad. Lo sguardo è calamitato sulla tavoletta, il profilo sfuggente contro<br />

la luce che si è fatta più ambrata, forse anche i vespri li pubblicano in versione tablet.<br />

«Ad ogni modo ho capito cosa vi serve e mi farò un'idea più chiara guardando la<br />

trasmissione.»<br />

«Molto bene. La diffusione è ancora locale, ma non si sa mai» si avvia verso la<br />

porta e capisco che devo seguirlo. «Del resto per noi è molto importante l'azione<br />

sul territorio.» Questa parola la pronuncia come se fosse un termine esotico che<br />

ha imparato ieri e non è ancora del tutto sicuro che glielo abbiano insegnato correttamente.<br />

Mi fa uscire da una porta diversa da quella da cui sono entrata, verso un salottino<br />

in stile anni Trenta perfettamente conservato, ed evidentemente utilizzato solo<br />

come luogo di passaggio.<br />

Fa per aprire il portoncino, ma poi lo richiude come in preda a un ripensamento e<br />

vi si appoggia con la schiena frapponendosi fra me e l'uscita. Presa alla sprovvista,<br />

mi fermo a circa dieci centimetri dal suo naso e indietreggio come presa da una<br />

scossa. Sono certa di aver involontariamente invaso il suo spazio vitale, ma lui<br />

con molto savoir faire non lo dà a vedere.<br />

«Poi, signorina Benedetti, un giorno, se non le dispiace, mi racconterà che cosa<br />

l'abbia spinta ad accettare.»<br />

Mi congeda senza nemmeno lasciarmi il tempo dell'imbarazzo, la risposta che gli<br />

darei ora non lo incuriosisce per niente, come se sapesse che io stessa sono ancora<br />

molto lontana dall'averlo capito.<br />

Giù in strada il traffico è meno rumoroso rispetto a quando sono arrivata, le luminarie<br />

di Natale sono ancora appese e spente. L'aria è pungente, ma ha comunque<br />

quell'odore di stagione nuova che mi colpisce sempre arrivando da Milano. Carico<br />

su un taxi il mio bagaglio di dubbi e perplessità. So già che prima di atterrare avrò<br />

deciso di mollare tutto e tornare indietro, e mi sarò anche recuperata da sola, almeno<br />

un paio di volte. Ora non posso contare sui familiari meccanismi di salvataggio.<br />

Tornando a casa da Linate Luca vorrà sentire un nuovo aneddoto sulla<br />

segreteria del PD e su chi sono questa settimana i cospiratori che affossano la<br />

Pocchiola. Su questo ho un repertorio che mi consente un'autonomia di almeno<br />

un annetto. Poi si vedrà.<br />

C'è poca gente in aeroporto, scivolo nell'atmosfera sonnacchiosa da serata di<br />

bassa stagione e procedo in automatico verso il gate con la più alta concentrazione<br />

di uomini d'affari sopra i sessanta. Verifico il numero sulla carta d'imbarco e sul<br />

monitor, il volo partirà con trenta minuti di ritardo. Mezz'ora in più di questo tempo<br />

che ufficialmente non esiste.<br />

11


Grata per l'imprevista dilatazione dell'intercapedine tra la mia vita e l'embrione di<br />

un universo parallelo, mi cerco un posto tranquillo per aspettare.<br />

Venti minuti più tardi sollevo la testa dai documenti che mi hanno consegnato<br />

prima del colloquio, cinque pagine di clausole di riservatezza e una scheda della<br />

trasmissione “Lasciamoli parlare”, in diretta il venerdì sera su Emittente Veneta.<br />

Oltre la vetrata vedo solo il bianco dell'aereo attaccato al finger e la mia immagine<br />

riflessa contro il buio pesto. Dal cappottino afflosciato come un pupazzo sgonfio<br />

su un sedile alla borsa aperta in bilico, sul punto di riversare tutto il contenuto sul<br />

pavimento, ho occupato lo spazio di quattro posti. La stanchezza mi fa espandere<br />

gradualmente come un gelato mezzo sciolto. Ripenso alla domanda di Vizzeri, è<br />

evidentemente sicuro del fatto che a muovermi non sia il denaro. Forse ne è ancora<br />

più certo di me.<br />

Una misconosciuta giornalista padovana si è inventata un nuovo format per l'approfondimento<br />

politico: a ogni puntata invita solo persone dello stesso partito. Gli<br />

ospiti non perdono tempo a interrompersi e a rinfacciarsi le reciproche interruzioni<br />

e hanno ben cinquanta minuti per parlare effettivamente di qualcosa. La trasmissione<br />

è in diretta e il tema lo comunica lei, la sera prima. Gli esponenti del PDL<br />

veneto non hanno ancora accettato l'invito e la cosa inizia a farsi notare.<br />

«Ci serve la vostra... pluralità di punti di vista. In questo caso, però, si dovrà giungere<br />

a una sintesi, ovviamente.»<br />

Ovviamente. Mentre scendo dalla scaletta bagnata dal nevischio di una gelida<br />

notte milanese, mi colpisce, a posteriori, la sensazione della vicinanza fisica con<br />

il funzionario romano. Una pneumatica assenza di odore.<br />

12


Anna e Marco sono molto sposati, in una Milano degli anni Dieci. Anna<br />

vive in bilico tra un’esistenza borghese ben disegnata, un lavoro all’avanguardia<br />

e sogni bohémien. Marco è un dirigente di successo e ha il dono<br />

di prendersi cura di tutto: di lei, delle piante, del gatto Sciòn. Sanno ancora<br />

ridere insieme, tutte le tessere sono andate a posto, perché mai ricominciare<br />

a spostarle?<br />

Cri e Massimo sono la coppia amica, quella con cui festeggiare i compleanni,<br />

scappare nel week end, gustarsi un concerto di nu jazz scandinavo.<br />

Natalie e Daniele sono una coppia creativa dalla carriera<br />

disordinatamente internazionale, che incrocia il quartetto così ben affiatato,<br />

movimentando la scena.<br />

Quando Anna riconosce in Daniele una soul mate e intravede tra loro un<br />

legame misterioso, la faccenda si complica. Gli equilibri instabili saltano,<br />

secondo un effetto domino che avrà conseguenze per tutti.<br />

Le vite <strong>dei</strong> sei personaggi si ingarbugliano in luoghi surreali che sembrano<br />

avere una loro voce nella storia, dalle architetture post-industriali dell’-<br />

Hangar Bicocca, al calore stridente del quartiere Isola, alla natura imperfetta<br />

di Framura.<br />

Elena Ghiretti viviseziona la coppia e i meccanismi della seduzione con<br />

uno sguardo che oscilla tra perfidia ed empatia, intessendo una ragnatela<br />

di piccole manie quotidiane, sogni romantici fuori tempo, episodi grotteschi,<br />

da cui emergono tre figure femminili emblematiche, donne sull’orlo<br />

di una mutazione antropologica in un’Italia alla deriva.<br />

Elena Ghiretti è architetto, si occupa di innovazione, e ha messo insieme<br />

una carriera improbabile. È stata prospective marketing manager in multinazionali<br />

chimiche svizzere, ha fatto ricerca blue sky su scenari tecnologici<br />

futuri e ha gestito licenze profumate. Oggi si occupa di strategia di<br />

marca e trend forecast per marchi del Made in Italy. Ha esordito nel 1999<br />

con un racconto pubblicato da MarieClaire, poi per anni non ha trovato il<br />

tempo per la scrittura. Oggi il tempo l’ha ritrovato e tiene tre blog: donnealpha.blogspot.com,<br />

lostinstyle.splinder.com e mia-mi.it. Questo è il suo<br />

primo romanzo.<br />

14


Duepertre, Elena Ghiretti.<br />

½<br />

BLUE<br />

Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone.<br />

#<br />

«A che ora dobbiamo essere là?»<br />

«Alle nove.»<br />

«Nove in punto? Te la fai o no la doccia? Guarda che io tra un quarto d’ora sono<br />

pronta.»<br />

«Io ci metto dieci minuti.»<br />

«Figurati.»<br />

«Vedrai.»<br />

#<br />

Anna è in piedi nella cabina armadio. Le mani sui fianchi, il piede destro appoggiato<br />

al polpaccio sinistro in una versione fiacca dell’Albero, fissa il groviglio di abiti<br />

giacche bluse pantaloni gonne gilet camicette.<br />

Aspetta. Sa che magicamente, come sempre, si manifesterà l’outfit perfetto per la<br />

serata. Deve solo scegliere il primo pezzo, poi gli altri seguiranno per catena semiotica.<br />

Allunga una mano, sfiora rasi di seta fredda, ruvidi crêpe di lana, viscose sottili,<br />

maglie di cashmere impalpabili come nuvole. Si ferma per un attimo su un abito<br />

nero in lino drappeggiato. Diana alla caccia? Troppo esplicito.<br />

Qualcosa di più cerebralmente sensuale.<br />

Si blocca su un paio di pantaloni a sigaretta in cotone pettinato color malva. Con<br />

il kaftano di seta acquerellata? Glielo hanno già visto. Mette a fuoco un gilet nero.<br />

Chiude gli occhi. Sì. Questa sera sarà una Annie Hall.<br />

#<br />

Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone, al loro tavolo per sei<br />

in seconda fila, visibilità discreta.<br />

#<br />

Marco accende la doccia, si toglie la camicia e la getta nel cesto ricolmo. Questa<br />

settimana non è ingrassato. Ma non è nemmeno dimagrito. Deve riprendere il tennis,<br />

la partitella a calcetto del mercoledì non è sufficiente. Poi ormai sono tutti un<br />

po’ acciaccati, vanno a rilento, non si corre più come quando avevano trent’anni.<br />

15


Rimane a lessare nel vapore davanti allo specchio, analizzandosi di tre quarti, poi<br />

ruotando il busto di profilo, fino a quando la propria immagine non si dissolve nella<br />

nebbia.<br />

Rimane fermo con gli occhi chiusi sotto il getto caldo, cercando di lavare via il<br />

senso di allerta per la serata che l’ha accompagnato tutto il pomeriggio.<br />

Non è sicuro di volersi fare la barba. L’ha tagliata stamattina. Forse è meglio non<br />

avere un aspetto troppo studiatamente curato. Lasciare un grado di approssimazione<br />

disinvolta.<br />

Il fatto è che non ha un quadro preciso del pericolo. Sa solo che deve stare in<br />

guardia.<br />

#<br />

Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone, al loro tavolo per sei<br />

in seconda fila, visibilità discreta. Sorseggiano un balloon di vino rosso e cercano<br />

di colmare lo spazio lasciato dai posti vuoti con arie da connoisseur.<br />

#<br />

La sala del Blue Note è immersa in una penombra serica. C’è quasi tutto: i tavoli<br />

rotondi, il palco, la balconata, il chiacchiericcio di fondo, il ghiaccio nei drink,<br />

l’aspettativa da pre-concerto. Potremmo essere davvero a New York o dentro Mo’<br />

Better Blues. Ma siamo a Milano, è novembre e fuori c’è l’Isola sotto la pioggia.<br />

«Prova a richiamare Massimo, manca poco» Anna ovatta la voce.<br />

«Stanno arrivando, piantala di agitarti. Al limite perdono l’inizio, che c’è?» e, dopo<br />

un secondo, «Hai chiuso la porta della cucina?» Se ne frega di abbassare il tono,<br />

per ora.<br />

Riprende a studiare il menù. Mazzetto di asparagi con uova di quaglia, veli di suprema<br />

d’anatra leggermente affumicata, salsa spumosa all’orientale. Spumosa.<br />

Rieccoci. Spume ovunque, pure al Blue Note, tutta colpa di Adrià.<br />

«Ordiniamo?» dice Marco mentre sta già studiando i dessert, meglio portarsi<br />

avanti.<br />

«Ma non possiamo ordinare solo per noi, non è carino.»<br />

«Lo sai che odio mangiare in faccia ai musicisti. E poi Cri e Massimo prendono<br />

solo una portata, noi possiamo iniziare con un antipasto. Gli altri non so.»<br />

«Gli altri? Intendi The Others?»<br />

Anna imposta sopracciglia sarcastiche, posa il bicchiere al rallentatore. È tentata<br />

di intavolare una discussione, ma si censura. Si rifiuta di creare tensioni, ha solo<br />

voglia di crogiolarsi in quel buio vellutato, pregustarsi la serata.<br />

«Aspettiamo ancora cinque minuti.»<br />

«Anna, il concerto sta per iniziare.» (Tentativo di tono autorevole).<br />

Anna fa la sfinge. Tiene lo sguardo fisso sul palco. Le si stanno già gonfiando i<br />

piedi, c’è troppo caldo. Sbircia furtiva sotto il tavolo e scopre che la tovaglia bianca<br />

arriva fino a terra, un sipario sicuro se volesse sfilarsi le scarpe più tardi. Certo<br />

che le stringate non si prestano all’operazione.<br />

16


Si aggiusta una ciocca lasciata volutamente libera dallo chignon lento, si guarda<br />

attorno e prende atto di non essere osservata. Rimane sempre un po’ delusa. È<br />

difficile accettare di non essere più la più bella della situazione, anche se si difende<br />

piuttosto bene. Mantiene in media una terza o quarta posizione, a seconda degli<br />

ambienti. Certo in un party di ventenni ormai scompare, risucchiata in una palude<br />

invisibile. Dipende anche dalle giornate e dalle cure preparatorie. Per questa sera<br />

si è regalata un Oxygen, niente di invasivo, solo ossigeno spruzzato sul viso con<br />

un aerografo. Un po’ di freschezza, tre anni in meno per qualche giorno. Ma la<br />

notte scorsa non ha dormito e gli occhi non sono luminosi come vorrebbe. Per fortuna<br />

il buio aiuta, sempre.<br />

Marco vorrebbe sparire dalla scena. Sbriciolarsi e ricomporsi in Malesia, su una<br />

spiaggia oceanica, a contare paguri. I paguri sì che sanno vivere. Se si mette male,<br />

basta ritrarsi nella propria conchiglia. E quando la conchiglia è troppo stretta, se<br />

ne cerca una più adatta a sé e ci si trasferisce, senza tanti patemi. La società <strong>dei</strong><br />

paguri questo lo accetta. Una bella vita monotona. A fare e disfare ricami di sabbia,<br />

pronti a essere schiacciati da piedi umani e code di rettile. Un po’ frustrante, ok,<br />

ma semplice, lineare, senza casini emotivi, al massimo qualche ansia da riproduzione.<br />

Ma i paguri sono ermafroditi come le lumache? Si guarda furtivo attorno,<br />

estrae il blackberry dalla tasca della giacca di Piombo, lo tiene in pugno sotto il tavolo,<br />

vigile. Tenendo il mento alzato con aria estremamente disinvolta, riesce a digitare<br />

sessa paguro sulla mini tastiera. Forse intendevi sesso paguro? Sì,<br />

intendevo sesso paguro. Risultati della ricerca: ottocento pagine di sesso paguro.<br />

Un sacco di ristoranti Il Paguro. Tutti al Paguro per orge romane? Nel forum di<br />

Animali nel mondo punto com Lepre e Acciuga disquisiscono sui loro terrari domestici.<br />

In Pescare a Messina punto com si affronta la difficile pratica di innescare<br />

il paguro. Innescare il paguro? Paguro come bomba? O come esca? Che orrore.<br />

Marco sente gli occhiacci di Anna sulla guancia. Gli occhiacci di Anna potrebbero<br />

sterminare un esercito di paguri in un solo istante.<br />

«Stai usando il blackberry?»<br />

Il tono non è amorevole. Meglio sospendere la ricerca zoologica.<br />

Mentre Marco fa sgusciare la propria protesi tecnologica dentro la tasca <strong>dei</strong> pantaloni<br />

del sarto, i musicisti fanno la loro entrata sul palco finalmente illuminato, accolti<br />

da applausi milanesi, un po’ diffidenti. Come ogni altra cosa in questa città,<br />

anche gli applausi devi sudarteli, non si regala consenso a priori, a meno che la<br />

tua fama non sia planetaria da almeno due generazioni, il che non vale per l’ensemble<br />

di nu-jazz scandinavo di scena questa sera.<br />

Anna e Marco spariscono nel buio della sala, il tavolo troppo grande nasconde il<br />

proprio imbarazzo confondendosi tra pieni e vuoti senza più contorno.<br />

Sui primi accordi strumentali, ecco comparire Massimo. Si muove tra i tavoli col<br />

suo passo molleggiato, cercando di limitare il disturbo, costernato. Scusate. Scusate.<br />

Li ha individuati, ha strizzato gli occhi miopi e ha puntato su di loro. Cri non<br />

si vede ancora, si sarà attardata al guardaroba con gli altri. No, eccola che spunta,<br />

il musetto da topo biondo fa capolino da dietro la giacca dell’eterno fidanzato.<br />

«Scusateci, non si trovava un taxi.» (Squittio al silenziatore).<br />

«Siete soli?» (Bisbiglio soffocato dagli applausi fiacchi).<br />

17


«Natalie non sta bene, alla fine non sono usciti. Gli abbiamo rivenduto i biglietti.<br />

Avete già ordinato?»<br />

I loro sussurri si intrecciano agli accordi, lamenti di un gatto idrofobo. I musicisti<br />

sono tutti biondi. Tutto può ancora succedere, sul palco.<br />

Anna si sforza di non mostrare delusione, la tiene bloccata dentro, ma sente la<br />

faccia che le scivola giù. Si aggrappa al menù fingendosi concentrata, ma sa di<br />

essere un’attrice mediocre.<br />

Marco ha un’espressione da cessato allarme, trattiene l’ultimo sorso di Shiraz tra<br />

il palato e la lingua, si lascia sprofondare nella poltroncina, trasportato dalle prime<br />

note del concerto.<br />

1<br />

BLUES<br />

Com’era, prima? C’è stato un prima? Quanto tempo è passato da quella sera al<br />

Light? Sei mesi? Un anno? E tra il primo e il secondo incontro, al compleanno di<br />

Cri? Anna si sta attorcigliando su se stessa e vorrebbe srotolarsi, è scomodo stare<br />

così. Non riesce a mettere in sequenza esatta gli eventi e a collocarli nel suo calendario<br />

mentale.<br />

Sciòn la guarda, raggomitolato sui suoi piedi, con gli occhi tondi un po’ ebeti e le<br />

vibrisse tese. Si sta sforzando di capire quello che le passa per la testa. Ha una<br />

faccia ottusa, con l’iPad sulle ginocchia e lo sguardo perso nella parete di fronte.<br />

Forse vuole cambiare di nuovo la disposizione <strong>dei</strong> quadri. Forse vuole rimetterli a<br />

terra, come piacevano di più a lui, che ci si poteva rifugiare dietro quando arrivava<br />

la donna con l’aspirapolvere. Era anche un buon nascondiglio per il topopeloso.<br />

Spera solo che questo suo stato catatonico non ritardi il secondo round di pappa,<br />

all’alba il tonnetto con i gamberi faceva schifo e ne ha mangiato solo metà, sforzandosi<br />

per farle piacere.<br />

Anna sistema il cuscino in memory foam dietro la schiena. Eppure – pensa – il<br />

tempo nella sua testa è in ordine, scandito da cinque giorni lavorativi e due festivi,<br />

e si addensa attorno a eventi-cardine annuali imposti dal calendario Corporate-<br />

Cattolico-Locale: gennaio-marzo lavoro intenso, Pasqua, ponte del 25 aprile, ponte<br />

del 1 maggio, maggio-giugno lavoro intenso, luglio e agosto spina staccata, settembre-dicembre<br />

lavoro intenso, ponte di sant’Ambrogio, Natale, 20 dicembre-6<br />

gennaio spina staccata. Anno dopo anno, da quando è rientrata in Italia.<br />

Non c’è possibilità di tregua, non è ammessa flessibilità, o vie di fuga.<br />

Anche ora che potrebbe svincolarsene, lavorando in proprio – di cosa ti occupi?<br />

Consulo – e potendo gestirsi le giornate come le pare, rimane ancorata a questo<br />

imprinting atavico.<br />

Possibile che sia finita imbrigliata in uno schema mnestico, proprio lei che come<br />

titolo in LinkedIn ha Visionary? Deve essere l’ascendente Vergine che avanza.<br />

Se un martedì si trova ad avere la mattinata libera, mica riesce ad andare in giro<br />

a fare cose da sabato pomeriggio. Sente la città che corre, l’energia che solleva<br />

l’asfalto, lo smog che vibra, i telefoni fissi che urlano, i cellulari untuosi appiccicati<br />

18


alle guance, gli ingorghi auto-indotti, la nevrosi che scorre nelle strette di mano.<br />

Come può cazzeggiare quando tutti attorno a lei lavorano, o fingono molto bene<br />

di essere impegnatissimi? Si rende conto che a volte prende appuntamento dal<br />

parrucchiere in pausa pranzo, quando potrebbe benissimo andarci alle tre del pomeriggio.<br />

Ma come ci si può presentare da Di Luca alle tre del pomeriggio di un<br />

mercoledì? Sarebbe come ammettere di essere diventata una qualunque Giacomazzi<br />

del Centro-Ovest, di quelle con il giusto punto di biondo e la messa in piega<br />

vaporosa.<br />

Lei non è così, oh no. Lei viene da molto lontano. E porta ancora i capelli da ventenne.<br />

Così continua a muoversi a gincana in un’agenda immaginaria, evitando<br />

ostacoli inesistenti. Entra da Di Luca finto-trafelata, sempre un po’ in ritardo, come<br />

se arrivasse da un pranzo di lavoro al ristorante piacentino all’angolo, anche se in<br />

realtà fino a cinque minuti prima era stesa a gambe in su con una maschera in<br />

tessuto-non-tessuto sul viso.<br />

Ha voluto rallentare. È che forse ha rallentato troppo.<br />

Sciòn è costretto a cambiare ancora posizione, visto che lei non sta ferma con i<br />

piedi. Stende le zampe e ci mette il muso in mezzo, soluzione precaria. Oggi è fastidiosissima.<br />

E non dà segni di alzarsi per andare in cucina. Se ne sta lì da un’ora<br />

a non fare niente. Prima è suonato il telefono fisso e lei niente.<br />

Se tutto è continuato a fluire secondo le regole – intanto continua a rimuginare<br />

Anna – come può non ricordare il prima? Il tempo è diventato pastoso, sotto la superficie<br />

liscia delle cose. Lì sotto è successo qualcosa.<br />

La delusione le è rimasta incrostata addosso dalla sera precedente, al Blue Note,<br />

e non per colpa del concerto surreale. Non è servito farsi lo scrub ai cristalli di zenzero,<br />

mettersi biancheria pulita Grazia‘Lliani e spruzzarsi l’eau parfumée au té<br />

blanc sui capelli e sui polsi. Di solito così recupera comfort ed equilibrio. Oggi no.<br />

Un’altra occasione mancata. Questa volta sembrava tutto a posto.<br />

Non va bene, così. Ricominciano nausea e languore insieme. Deve esserci ancora<br />

una mela cotta nel forno.<br />

Ha bisogno di rimettere in fila i fatti. Forse così scoprirà il punto in cui si è ingarbugliato<br />

tutto. C’è stato forse un momento in cui la realtà avrebbe potuto prendere<br />

una piega diversa, alla Sliding Doors.<br />

Anna si alza e si avvia verso la cucina. Sciòn segue ogni suo gesto con grande<br />

attenzione. Finalmente si è ricordata di lui, e che cavolo. Scende dal divano, si<br />

stira sulle zampe inarcando la schiena concavo-convessa, zampetta fiducioso<br />

verso il corridoio già pregustando il pranzo. Speriamo che sia manzo, speriamo<br />

che sia manzo, speriamo che sia manzo. È solo a metà strada quando la vede<br />

tornare indietro come sonnambula, superarlo indifferente e tornare in sala. Lo sta<br />

prendendo per il culo?<br />

Anna torna a sedersi, una gamba piegata di lato come di gomma, e affonda i denti<br />

nella mela spappolata caramellosa.<br />

Il Light. Di chi era la festa? Forse di Sergio. Sì, di Sergio, l’amico cretino di Massimo.<br />

Chi vuoi che organizzi ancora una festa al Light, se non lui. Faceva freddo,<br />

doveva essere febbraio, perché lei indossava l’abito nero di Michael Kors con<br />

sopra il cardigan ampio di lana e gli stivali lunghi scamosciati. Un anno fa, allora.<br />

19


Gli avevano comprato last minute quel vaso di gomma di Italian Independent. Il<br />

vaso di Lapo. Che vergogna. A pensarci ora, perfetto per Sergio. Sembrava più<br />

un pallone da rugby sgonfio.<br />

Quindi, il Light. Cri e Massimo erano già lì. Cri era ancora un personaggio dai contorni<br />

sfumati, un profilo da Nefertiti albina, lei e Massimo si stavano frequentando<br />

solo da pochi mesi. Che strano, ora sono il loro orizzonte, uno status quo.<br />

Glielo aveva presentato lei, era venuto – solo – con loro due. Aveva una giacca di<br />

velluto a coste nera ed era molto più alto di lei, che significa essere almeno un<br />

metro e ottantacinque. Di cosa avevano parlato? Possibile che in quel momento<br />

non avesse attivato tutti i dispositivi di registrazione live, assorbendo ogni parola<br />

e gesto?<br />

Ha sporcato il bracciolo del divano con un pezzo di mela cotta, le mani sono tutte<br />

appiccicose, butta il torsolo molle con i semi nel piattino, si lecca le dita, non si<br />

muove di lì.<br />

Si sta sforzando di mettere a fuoco la scena, ma i pezzi rimangono staccati e l’insieme<br />

è un magma fluttuante con dentro qualche Kir Royal, tende bianche, molti<br />

mojito, musica lounge datata, facce di spugna vagamente familiari, palloni da<br />

rugby sgonfi, profili di Nefertiti, giacche di velluto a coste.<br />

Sciòn si guarda bene dal tornare a scaldarle i piedi. Si arrampica su un altro divano<br />

vuoto, piantando con perizia le unghie nella trama del tessuto, gira a ciambella un<br />

paio di volte e si adagia, voltandole le spalle, sdegnato.<br />

Quello che Anna ricorda con più chiarezza è la reazione di Marco.<br />

Mentre stava chiacchierando con lui – avevano parlato <strong>dei</strong> propri lavori, adesso il<br />

file si ricompone, e avevano scoperto di avere frequentato la stessa università, e<br />

lì doveva avere pensato ma guarda che coincidenza – si era accorta che Marco li<br />

stava fissando, da un gruppetto ridacchiante all’angolo opposto della sala. Era durato<br />

giusto uno scambio di occhiate.<br />

Piripì piripì piripì piripì – il suono odioso dell’asciugatrice la avverte che le lenzuola<br />

sono pronte – piripì piripì piripì piripì – si alza e corre nel bagno di servizio – piripì<br />

piripì piripì piripì – si fionda sul pulsante arancio e lo stoppa – pì. Torna ad accoccolarsi<br />

sul divano con le ginocchia in grembo, allunga un braccio per accendere<br />

la sua lampada da lettura-value-for-money-di-designer-emergente. Che schifo di<br />

tempo, anche oggi.<br />

C’è stata quella frazione di secondo in cui ha sentito gli occhi di Marco su di loro.<br />

Ora le piacerebbe infilarsi in quella scena e sgusciare dentro Marco come in Ghost<br />

per osservare quei due comportarsi come vecchi amici che non si vedono da anni,<br />

ma che in realtà non si sono mai incontrati prima.<br />

Lei sembra disinvolta, gesticola per spiegare meglio qualcosa, ha le spalle nude.<br />

Lui è un po’ chino su di lei per sentirla nel frastuono che li avvolge, ha le mani in<br />

tasca e sorride.<br />

Sono perfetti. Sembrano stati progettati per essere lì insieme a parlare dentro quel<br />

locale con le luci sexy e le tende bianche, arrivano da due traiettorie lontane che<br />

finalmente si sono incrociate, dopo alcuni inspiegabili depistaggi.<br />

Peccato che lei sia sua moglie.<br />

«Hai parlato tutta la sera con quello là.»<br />

20


«Tutta la sera, che esagerato. Due parole! Viene dalla mia scuola, non conosco<br />

nessuno qui che abbia studiato a Venezia!»<br />

«Ci ha provato.»<br />

«Macché provato, me l’ha presentato Cri, ti pare? È un suo amico.»<br />

«È alto. Avete parlato per ore. Chiedi a Massimo.»<br />

«Togli quelle scarpe dal tappeto?»<br />

Anche standosene acquattata sotto la pelle di Marco non riesce ad afferrare la<br />

sua gelosia proattiva, senza precedenti. Continua a sembrarle irreale e fuori luogo.<br />

Marco non era mai stato geloso. Disonesta e ipocrita fino all’osso. (Chi ha parlato?)<br />

Lei che possiede dalla nascita il Cromosoma Gelosia, sospettosa e diffidente nei<br />

confronti di qualsiasi novità femminile appaia nella vita di Marco: product manager<br />

dalla pelle di alabastro e la dolcezza di un rottweiler, brand manager con i seni a<br />

punta, segretarie di direzione travestite da Valentina, direttori creativi borderline<br />

di agenzie di comunicazione across-the-line, PR biondo miele, avvocatesse anoressiche.<br />

Sospetto a priori. Gelosia preventiva a tappeto, altro che proattiva. (Chi<br />

ha parlato?)<br />

C’è uno strano silenzio oggi, fuori. Dove sono finiti i trapani e le martellate del cantiere<br />

all’angolo? La rilassavano.<br />

Di quella sera una cosa le era rimasta, di certo: il suo cellulare. Glielo aveva chiesto<br />

lei, sull’onda dell’entusiasmo da compagni-di-università-mancati. Questo a<br />

Marco non lo aveva detto, ammette. E per un lungo periodo si era persino scordata<br />

di avercelo, quel numero.<br />

La macchia sul divano le dà un fastidio tremendo. Ha provato a non farci caso,<br />

ma ora sta diventando insostenibile. Si alza di nuovo, con fitta lombare, e va a<br />

prendere un panno inumidito con cui cerca di pulire via i residui di mela. Sfrega<br />

piano, per non far scolorire l’azzurro e il rosso. Un alone beige si allarga attorno<br />

al peccato originario.<br />

Sciòn le sta ancora girando le spalle. Monitorizza i suoi movimenti con l’udito e<br />

l’olfatto, standosene stravaccato lì, occhi chiusi. Non lo frega più, con le sue finte<br />

mosse.<br />

L’iPhone vibra sul tavolo, poco distante. Anna molla lo straccio e va a vedere chi<br />

è.<br />

La faccia di Marco la guarda da una foto di cinque anni prima.<br />

«Hello?»Anna si accorge che la batteria è quasi scarica.<br />

«Hellooooh, che fai oggi?»<br />

«Devo andare in Campari, per Londra.»<br />

«Avete già fissato la data?»<br />

«Circa. Fanno casino con le agende, non so se ne usciremo. Tu? A che ora arrivi,<br />

caaaro?»<br />

«Pensavo di andare in palestra, prima.»<br />

«Uuuh, i Buoni Propositi reggono ancora!»<br />

«…Hai portato la Smart a far revisionare?»<br />

«No.»<br />

21


«Cosa aspetti? Che si rompa? Non hai cura delle cose.»<br />

«Io ho cura delle cose, fin troppa. Ti ricordi di passare a pagare la tintoria? Sono<br />

due settimane.»<br />

«Arrivo alle nove.»<br />

«Ok, preparo per le dieci. Mao.»<br />

«Guarda che io arrivo davvero alle nove.»<br />

«Sì, sì, mao.»<br />

«Mao.»<br />

Marco riattacca e prende in mano una cartella bianca in formato A3, la apre e ne<br />

estrae una tavola con la prima proposta della nuova campagna, la osserva dubbioso,<br />

poi tira fuori la seconda. Le dispone sulla scrivania. Passa lo sguardo da<br />

una all’altra, mentre risponde a un sms di John Cass che lo invita a pranzo alla<br />

trattoria pugliese e allo stesso tempo scrolla le email del mattino, solo cinquantasette,<br />

fino a trovare quella di Timo della Publicis. Dal corridoio si sentono le voci<br />

<strong>dei</strong> colleghi vicino al distributore di junk food. Suona il fisso.<br />

«Adesso no.»<br />

«Quello delle sette da Linate va bene.»<br />

«Pensaci tu, grazie.»<br />

Bussano alla porta e non fa in tempo a dire no che Manuela si affaccia dentro con<br />

aria tapina, lo guarda supplichevole, occhioni da vitello.<br />

«Alle dieci.»<br />

«Ma abbiamo bisogno adesso, CAPO.»<br />

«Ci vediamo in sala Jupiter alle dieci, ce la puoi fare.»<br />

La porta si richiude, stizzita.<br />

Marco ruota verso la finestra, afferra l’annaffiatoio d’acciaio e versa un po’ di acqua<br />

nella terra degli otto vasi che compongono la sua mini-giungla, uno a uno, scivolando<br />

con la poltroncina come un leprotto su un prato, dosandola con precisione.<br />

La sua giungla l’ha seguito di ufficio in ufficio negli ultimi tre incarichi. Con qualche<br />

caduto, certo, e qualche sostituto, non tutte hanno superato il trauma da ambientamento.<br />

Ripone l’annaffiatoio e passa a studiare le foglie della Sanchezia Speciosa,<br />

che si sono un po’ ingiallite. Luce naturale troppo diretta? Dovrebbe spostare<br />

il vaso. Non ora. Passa ad analizzare la Tradescantia, toglie con delicatezza le foglioline<br />

secche. Lei invece ha bisogno di più luce artificiale, quegli idioti delle pulizie<br />

devono avere ripreso a spegnere la lampada la sera, deve ricordarsi di dirlo a<br />

Laura.<br />

Guarda fuori, nebbia. Ieri sera cosa può essere successo? Perché Daniele e Natalie<br />

non si sono presentati? Che lei abbia capito qualcosa e lo abbia costretto a<br />

non andare? C’è davvero qualcosa da capire? Anna è sempre più strana. Si è dimenticata<br />

ancora di portare la Smart a revisionare. No, questo non è strano. Non<br />

gliene frega nulla delle incombenze pratiche, preferisce che siano gli altri a occuparsene.<br />

Ma è strana. Si è messa a leggere Le regole dell’attrazione, l’ha scovato<br />

nella libreria, sepolto tra gli altri Einaudi. Era in seconda fila, per cui deve averlo<br />

proprio cercato. È una lettura da anni Ottanta, non ha senso rileggerla oggi, anche<br />

se è ufficialmente in atto il revival. E martedì ha voluto a tutti i costi rivedere The<br />

22


Kids Are All Right, dove Julienne Moore tradisce Annette Benning – fighissima<br />

anche da lesbica, col capello corto da pulcino arruffato – con Mark Ruffalo, che<br />

sembra uno degli Ewok, gli orsetti di Star Wars. Un po’ bolso, e non altissimo, in<br />

effetti. Sempre di tradimento si tratta, anche con un Ewok sovrappeso.<br />

Si sposta con la sedia di nuovo verso la scrivania, riprende in mano la prima proposta<br />

della campagna, è tutta sbagliata. Non hanno capito il brief, quei coglioni.<br />

Apre l’email di Timo, schiaccia un Reply to All.<br />

Stasera deve assolutamente andare in palestra.<br />

1 ½<br />

VALS<br />

Quel week end.<br />

Stavano insieme da poco, ormone galoppante, coppia non ancora simbiotica.<br />

Erano partiti tardi, da Milano. Al passo del San Bernardino: fuori un metro di neve<br />

ai lati della strada e paesaggio lunare, dentro il primo <strong>dei</strong> Franz Ferdinand. Nessun’altra<br />

auto, solo loro. Aveva ripreso a nevicare.<br />

Anna teneva i piedi sul cruscotto e guardava fuori. Marco, che a chiunque altra<br />

avrebbe fatto pesare la faccenda <strong>dei</strong> piedi sul cruscotto, ogni tanto sbirciava il suo<br />

profilo, estasiato.<br />

Avevano fatto battute sceme sui Grigioni. L’Abominevole Uomo <strong>dei</strong> Grigioni se ne<br />

stava probabilmente nascosto dietro i muri di neve, e loro erano spacciati.<br />

Dopo un’ultima curva a gomito, ecco nel buio bianco il leggendario villaggio di<br />

Vals. Quattro case-baita e quattro case da architetto svizzero razionalista. All’apparenza<br />

vuote.<br />

Erano già le nove quando si erano trovati nel piazzale di fronte all’hotel, illuminato<br />

di blu dall’insegna al neon Therme Vals.<br />

Una receptionist <strong>dei</strong> Grigioni li aveva accolti compunta e gli aveva consegnato le<br />

chiavi di una delle stanze temporanee. Le chiamavano da anni le stanze temporanee,<br />

quelle disegnate da Zumthor, il falegname poeta architetto, che progetta<br />

con la memoria.<br />

Stavano per entrare nell’ascensore, quando la ragazza li aveva raggiunti.<br />

«Stasera le terme sono aperte fino alle undici. Solo il giovedì.»<br />

Le porte si erano richiuse come un sipario metallico. Anna e Marco si erano guardati<br />

nella luce gialla dell’ascensore e a un tratto li aveva colti un’euforia infantile,<br />

una gioia stupida per quella notizia inattesa. Le piscine aperte di notte, e chi lo immaginava.<br />

Ceneremo dopo, oppure non ceneremo affatto. L’avventura.<br />

Erano corsi in camera, gettando i bagagli sul pavimento bianco lucido – tutta la<br />

stanza era un guscio bianco lucido, costellato di pochi pezzi scelti dalla storia del<br />

design del Novecento, eccetto la tenda rosso cangiante e il tappeto afgano – si<br />

erano spogliati inciampando nei jeans e negli stivali buttati in giro, si erano infilati<br />

un costume a caso e, avvolti nell’accappatoio, si erano sparati di nuovo nel corridoio<br />

da Overlook Hotel, in un crescendo di eccitazione. Le terme stavano sotto,<br />

nel basamento. L’albergo sembrava deserto. Solo loro due risucchiati nelle viscere<br />

23


minerali.<br />

Si erano ritrovati, spugna contro spugna, all’inizio di una sala lunga e stretta, l’aria<br />

improvvisamente calda, pareti e pavimento rivestiti di ferro, un primo segno d’acqua<br />

che corrodeva il materiale in una striscia di ruggine. L’acqua si avvicinava a<br />

ogni passo, ora la potevano sentire scorrere lungo la parete, e forse aspettarli giù<br />

in fondo.<br />

Non si immaginavano nulla, alla fine. Era già bello attraversare quello spazio vicini,<br />

toccandosi appena, senza guardarsi.<br />

Sbucati fuori invece erano stati sopraffatti. Un’architettura colossale e minimale,<br />

tutta in ardesia, un labirinto nero sommerso dall’acqua.<br />

Erano rimasti sulla soglia, respirando piano come per non disturbare. Si erano immersi<br />

lentamente nell’acqua calda e densa, sapone vellutato liquido che scivolava<br />

sulla pelle e avvolgeva il corpo. Silenzio assoluto, scandito solo dai getti delle vasche<br />

esterne. Si erano spinti fendendo la superficie a bracciate ampie, uno dietro<br />

l’altra, fino a un varco da dove proveniva una corrente fredda.<br />

Anna stava davanti, la più intrepida. Marco poteva scorgere nella penombra i capelli<br />

bagnati sulla nuca, appiccicati alla pelle ancora ambrata dall’estate lontana.<br />

Avrebbe voluto allungare la mano e toccarli, sfiorarle il collo sottile, invece no.<br />

Di colpo si erano trovati fuori, il corpo coccolato dall’acqua calda, le orecchie nel<br />

vapore gelido. I volumi geometrici proseguivano senza interruzioni, come lava<br />

scura tagliata di netto.<br />

Anna si era spinta fino al centro della grande vasca, attraversando la nebbia che<br />

profumava di quarzo e neve.<br />

Marco l’aveva seguita e si erano trovati con le teste vicine. Non si erano nemmeno<br />

baciati, troppo ovvio. Avevano solo tenuto le tempie a contatto, pulsazioni bagnate,<br />

occhi chiusi. Poi Anna aveva sollevato lo sguardo.<br />

Sopra di loro, oltre il vapore, una stellata limpida <strong>dei</strong> Grigioni che conteneva tutti i<br />

cieli possibili.<br />

«Hai visto?»<br />

Il firmamento al completo in una mezzanotte senza inquinamento luminoso nel<br />

deserto di Ouarzazate dal tetto della Kasbah, dopo avere attraversato l’Atlante su<br />

una Peugeot 205 con centomila km di noleggio (Quanto credi ci metteremo? Bah,<br />

massimo due ore. Stai scherzando, vero?). Una striscia di alba sul mare di Grenada<br />

dalla veranda del cottage, dopo tre cocktail speciali del barman killer (Hai<br />

notato con che precisione affetta il lime?). Un Grande Carro dispiegato IMAX sull’Egeo<br />

dalla terrazza della casetta di Sifnos, prima di una sessione erotica al Meltemi<br />

(Devo confessarti una cosa. Cosa? Io questo vento lo odio, mi piacevano di<br />

più i giorni senza. Ottimo, siamo passati dal collasso alla nevrosi). Un pezzo di<br />

cielo grigio smog dal balcone della loro casa milanese, zeppo di piante asfittiche,<br />

bottiglie oblunghe di vino altoatesino, siciliano, bordolese, cristalli per lettiera, terra<br />

acida, rosmarino alle polveri sottili (Perché non usi il nostro rosmarino per il sugo?<br />

Marco, è tossico).<br />

«Abgeschlossen!» L’inserviente notturno delle Therme Vals, un nibelungo adolescente,<br />

si era materializzato in bianco e nero sul bordo traslucido, mani sui fianchi<br />

nella sua uniforme firmata Zumthor, e li stava fissando professionale.<br />

24


«Dici che dobbiamo andare?» aveva mugolato Anna, sentendo improvvisamente<br />

freddo.<br />

«Linguaggio del corpo inequivocabile» aveva risposto Marco.<br />

2<br />

CANTIERI<br />

Le fette biscottate al kamut integrale sono finite e il trendwalk di Londra rischia di<br />

essere un fallimento. Se Anna riuscisse a concentrarsi su queste due catastrofi la<br />

mattinata potrebbe prendere una piega di normalità. Aggredire il problema e depennarlo<br />

dalla testa. Stare dentro le cose.<br />

Decide di iniziare dalle fette biscottate, per salvare almeno la colazione del mattino<br />

dopo. Aggrapparsi ai rituali quotidiani. Un salto al Centro Botanico potrebbe scuoterla.<br />

Prende le chiavi e se le infila nella tasca del giubbotto. Apre la porta Déco<br />

imbottita di acciaio, se la richiude alle spalle, facendo attenzione che Sciòn non<br />

fugga verso la libertà, guarda la porta. Sciòn è dall’altra parte, fissa il mogano lucido<br />

e non ci trova la soluzione all’enigma. Eppure una ragione ci deve essere, se<br />

oggi l’ha lasciato a stomaco vuoto. Dieta della luna piena?<br />

Dove ho messo le chiavi? Ah. Nella tasca del giubbotto. Per ora non funziona, il<br />

cervello è ancora in standby. Fare le scale di corsa con rischio di scivolare sul<br />

marmo bagnato – ha adocchiato il secchio-con-mocio abbandonato sul pianerottolo<br />

– e sbattere quel che resta della sua coda di primate sullo spigolo dello scalino.<br />

Non sa immaginare nulla di più adrenalinico, al momento. Ci prova. Sbuca in<br />

strada. Nessun ferito.<br />

Traiettoria predefinita, pilota automatico, rotaie di cemento. La gente la scansa,<br />

lei non vede niente. Anestesia totale. Stare dentro le cose. Non funziona. Già è<br />

tornata a galla l’idea. L’idea di tornare a sedurre, abortita. Ha preso corpo in Anna<br />

senza preavviso dall’imbalsamazione del loro ménage certificato.<br />

Imbalsamazione è una parola forte (Chi ha parlato?). Loop, piuttosto. Ecco. È<br />

come se lei e Marco fossero finiti risucchiati dentro un mandala tibetano, a girare<br />

in tondo, ripetendosi sempre le stesse cose, prevedendo con tre secondi di anticipo<br />

le risposte. Succede a tutte le coppie, prima o poi (sicura?). E il loro è un bel<br />

mandala. Disegnato da Ross Lovegrove. Tridimensionale. Climatizzato. E anche<br />

ironico, quasi sempre. Ne sono consapevoli, ci ridono sopra. Le chiamano idiotsincrasie.<br />

Nonostante l’approccio metalinguistico alla crisi <strong>dei</strong> sette anni, l’idea di tornare a<br />

sedurre ha preso corpo in Anna dal loop del loro ménage certificato.<br />

Perché un certificato c’è. Nero su bianco. Il Contratto.<br />

Sono gli unici a essersi sposati, nel loro gruppo di amici. Gli altri convivono da secoli.<br />

Hanno fatto figli, gatti, cani, senza bisogno di sposarsi. Loro invece hanno<br />

convolato verso un sobrio matrimonio laico, senza riprodursi.<br />

Quando Anna l’ha annunciato alla sua famiglia-stretching, riunita un po’ solennemente<br />

nella cornice del Pescatore a Canneto sull’Oglio, tre stelle Michelin, si sono<br />

messi tutti a ridere. Pensavano scherzasse. Anche la zia Poldina ha riso, tenendosi<br />

25


il tovagliolo di mussola appoggiato alle labbra increspate. Anche a Nadia Santin,<br />

lo chef stellato, è scappato un sorriso, di là in cucina. La matrigna Agata ha fatto<br />

una battuta pesante. Il patrigno Sergio ha risposto con una battuta più greve. Il<br />

fratellastro Luca ha rincarato ulteriormente, citando Belushi. Quando hanno capito<br />

che non era uno scherzo, ci sono rimasti male.<br />

«Da Vinci Code?»<br />

Cosa c’entra adesso Dan Brown con Belushi? Sì, l'articolo su Vanity della settimana<br />

scorsa. Sembra che l’autore di best sellers interplanetari stia lavorando a<br />

una trama sorprendente sul più grande complotto della storia: un filo rosso sangue<br />

teso tra le morti <strong>dei</strong> miti pop. Elvis Presley, Marilyn Monroe, Jim Morrison, John<br />

Belushi, Kurt Cobain non sono morti, sarebbero stati tutti sequestrati dalla stessa<br />

setta dell’Arizona e vivrebbero nel bunker dell’isola di Lost.<br />

«Scussi, Da Vinci Code?»<br />

Anna riemerge in superficie mettendo a fuoco due ragazzoni con bermuda kaki, tshirt<br />

verde muschio, camicie a quadrettini sottobosco, guida Footprint sotto braccio,<br />

occhi da Husky. Solo due norvegesi delle foreste potrebbero aggirarsi estivi<br />

in una Milano a cinque gradi Celsius. Viaggiatori del Nord, ruvidi. Spiriti liberi. Spartani<br />

dentro. Unghie sporche e menti nitide. Ne ha sempre invidiato il coraggio. Lei<br />

in viaggio non potrebbe mai fare a meno della trousse di prodotti skin care, della<br />

trousse di prodotti body care, della trousse di prodotti hair care, <strong>dei</strong> due phon –<br />

uno per asciugare, uno per lo styling – degli integratori in scatolotto travel, delle<br />

infradito anti verruca. Con gli anni è migliorata, è riuscita a razionalizzare passando<br />

a taglie mini, ma non potrà mai essere un viaggiatore scandinavo, sebbene li abbia<br />

studiati da vicino.<br />

«You mean Cenacolo?» Anna si toglie gli occhiali da Jackie O, svelando le occhiaie<br />

avute in dono dall’insonnia cronica e li strabuzza contro, in un improvviso moto di<br />

orgoglio nazionale.<br />

I due annuiscono biondi all’unisono, ma non è certa che abbiano capito.<br />

«Ok, you have to go back to that narrow street, then take the first on the left, go<br />

ahead until the little square. The church will be on your left. Capito?» È sempre<br />

una soddisfazione poter sfoggiare il proprio inglese fluorescente, smentendo il pregiudizio<br />

infondato glitalianinonparlanolelingue.<br />

«Yess, grassie. Ciiao.»<br />

Le fanno bye bye con le manone e tornano al loro privato concetto di Italia, intessuto<br />

di bellezza e dolcezza, quello che gli italiani hanno perso per strada.<br />

Ora che la bolla è stata infranta, si rende conto di avere già oltrepassato il Centro<br />

Botanico. Cercando di dissimulare l’imbarazzo (e chi la guarda?) fa dietrofront e<br />

torna sui suoi passi freddi.<br />

Varca la soglia a scomparsa e si ritrova in un bellissimo mondo bio.<br />

Se non pensiamo all'immortalità ma all'evoluzione naturale<br />

e alla diversità, rischiamo la felicità. Campeggia arancio – scritto quando era ancora<br />

il colore dell’innovazione, tardi Novanta – sopra gi scaffali del pane e derivati.<br />

Ci si aspetta che lei ne tragga insegnamento?<br />

Afferra un carrello giallo bio e si lascia scivolare lungo un perimetro di rigenerante<br />

fiducia in un futuro migliore. La nebbia triste in cui era avvolta si dipana di fronte<br />

26


a questi packaging sorridenti, che riverberano di luce a risparmio energetico, lontani<br />

dal marketing di massa, pensati per pochi, fortunati, eletti. Per chi sa pensare<br />

green e può permettersi di pensare green.<br />

Hanno spostato i medaglioni di seitan. Dove sono i medaglioni di seitan? Io ne ho<br />

bisogno! Panico panico panico. Fino a quanto tempo fa una scoperta del genere<br />

non l’avrebbe gettata nello sconforto? Sono segnali da non sottovalutare. Era abituata<br />

a trovarli nel banco frigo tra le bistecche al tofu e il Camembert caprino. Eccoli,<br />

sono finiti oltre l’area latte vegetale. Menomale.<br />

Mentre stringe tra le mani il suo tesoro sottovuoto, le parte di nuovo il link a tornareasedurre.edu,<br />

sezione primipassi.<br />

Dopo secoli senza flirt, in principio un po’ di gioco le era sembrato salutare. Risveglio<br />

<strong>dei</strong> sensi, pizzicore primaverile, leggerezza ritrovata. E poi una nuova energia,<br />

di quelle rinnovabili e pulite, che le ha regalato uno sguardo nuovo sulle cose<br />

di sempre. Non aveva calcolato la sua predisposizione al dramma sentimentale e<br />

al sogno, e nemmeno la natura di questo nuovo oggetto del desiderio.<br />

È il tè Bancha o il Sencha che manca? Anna fissa lessa i due sacchettini quasi<br />

identici, cercando di ricordare quale nuance di verde abbia buttato nella raccolta<br />

differenziata il giorno prima. Facciamo Bancha.<br />

Aveva sentito parlare di DanieleNatalie in qualche occasione, prima del Light.<br />

Amici di Cri dalla sua vita precedente, erano rientrati da NYC – dopo una tappa<br />

precedente ad Amsterdam – dove avevano vissuto in un mondo fatto di loft di<br />

Brooklyn, colazioni al MoMa, teatri off off, negozi vintage di Nolita, vernissage sulla<br />

Bowery, crogiolandosi nel ruolo di creativi emergenti dalla carriera disordinatamente<br />

internazionale. Antipaticissimi anche solo raccontati. Cri sembrava così orgogliosa<br />

di appartenere al loro passato ed eccitata all’idea di riaverli a Milano,<br />

mmmh, così vicini.<br />

Non c’erano ancora state occasioni comuni, fino a quando la nuova amica-perproprietà-transitiva,<br />

dall’energia inesauribile e sempre avvolta in una nuvola di glamour,<br />

aveva deciso di festeggiare il suo compleanno nel cantiere della casa che<br />

stava costruendo con Massimo. Era arrivata una mail d’invito corale, tono effervescente,<br />

sottocategorie di conoscenti stranamente shakerate, per una attenta al<br />

lato diplomatico dell’esistenza.<br />

Quella sera tutto sembrava casuale e perfetto, anche mentre succedeva, non solo<br />

nel ricordo. Contrariamente al Light, Anna ne conserva una fotografia a fuoco e<br />

fiamme.<br />

Sul pavimento di cemento polveroso si accanivano tacchi funambolici e platform<br />

improbabili, mentre l’aria, satura di profumi di nicchia e calce viva, teneva insieme<br />

commenti e battute stranianti. Anna si era trovata catapultata in una scenografia<br />

così consapevolmente shabby chic, animata da personaggi vagamente appartenenti<br />

all’élite creativa di una città che aveva dato il suo meglio vent’anni prima,<br />

senza riuscire a rinnovarsi. Visi ben disegnati, pensieri originali. E tutti così disinvolti<br />

e fringe. Si era spesso affacciata su questo universo osservandolo con occhio<br />

clinico, attingendone l’essenza per trasformarla in beni di consumo per le masse.<br />

L’aveva usato a fini di marketing, sempre con un retrogusto d’invidia, bloccata dentro<br />

la sua gabbia borghese costruita pezzo per pezzo insieme a Marco.<br />

27


Nella loro vita tutto era al posto giusto, come i cuscini in tinta sul divano di Moroso,<br />

mentre lei di notte sognava un’esistenza da Charlotte Gainsbourg: accovacciata<br />

in un angolo, la cenere della sigaretta sui piedi scalzi (mai fumato), i capelli scarmigliati<br />

sulle spalle nude. Meno certezze e più disinvoltura.<br />

Ora, da dentro, capiva di non appartenere né a un mondo né all’altro, di essere<br />

sempre fuori luogo, ma – anche grazie a un fisico da modella un po’ fané e al collo<br />

da biscotto mangiami – di riuscire sempre a mantenere uno sguardo a volo d’uccello,<br />

proprio sopra le loro teste.<br />

Le vibra la quarta tasca.<br />

«Buongiorno. Bene, tu? Come, c’è un ferito? Cos’è successo? Non ci credo! Ma<br />

tu stai bene? Ah. La spesina. No. No. Sì. No. Stasera? Ma era domani sera. Ah,<br />

è oggi giovedì. Merda. Mi scusi, signora. Niente, niente, una Giacomazzi bio. Ma<br />

sei sicuro? Merda. Mi scusi. Allora prepariamo tutti insieme una pasta, io sono indietro<br />

con Londra. Sì. Ok. Ma proprio The Road? No, così, non allegrissimo. È di<br />

qualità? Così. E ci sono i sottotitoli per Massimo? Ok, ok. Proprio tu devi andarci?<br />

Ok. Mao.»<br />

Bene. L'aspetta una delle loro serate a quattro. Deve riuscire a estorcere informazioni<br />

senza esporsi troppo. Afferra il vasetto da 250 ml di yogurt ai cereali tostati,<br />

che si rovescia dentro il cantiere. Seduta su un’asse di legno da impalcatura, attenta<br />

a non sporcarsi troppo la mise simil-Alexander Wang immaginata per la serata,<br />

stava osservando con interesse da antropologo un gruppetto di ballerini<br />

scalmanati da una posizione sicura, sorseggiando un miscuglio letale di vodka e<br />

altri ingredienti a caso, quando uno <strong>dei</strong> più scomposti e sudati si era staccato ed<br />

era venuto verso di lei, sorridendo di un bianco perossido di carbamide. Era Daniele,<br />

l’uomo con la giacca di velluto. Senza giacca, stavolta. Si era presentato.<br />

Ancora.<br />

Fa finta di non riconoscermi per darsi un tono, è rincoglionito o proprio non si ricorda<br />

di me?<br />

L’ultima ipotesi non reggeva, chi mai poteva non ricordarsi di lei? O erano convinzioni<br />

stantie, retaggio dell’epoca in cui era ancora sul mercato, roba da soffitta?<br />

(Chi ha parlato?)<br />

Deglutita la mezza delusione, aveva raggirato l’ostacolo con un Ma noi ci conosciamo!<br />

Tanto la musica era altissima. Stretta di mano bis, ed era ripreso il dialogo<br />

interrotto. Le si era seduto accanto. L’asse di legno aveva traballato. Aveva le basette<br />

più lunghe, da Lupin III, suo sogno erotico della quinta elementare, dopo Terence.<br />

Anche Marco le porta, brizzolate. Gli accentuano la linea della mascella.<br />

Queste erano basette sconosciute, esotiche. Teneva le gambe accavallate strette<br />

nelle mani intrecciate, come in un talk show. Forse era un’intervista della Bignardi.<br />

Chi era la Bignardi <strong>dei</strong> due? Anna parlava con sottotesto, sospesa su un ponte<br />

elastico verso il Light. Daniele era lì e ora.<br />

Il problema è: cambiare o non cambiare marca di fette biscottate al kamut? Quelle<br />

che ha finito non erano fragrantissime. A lei piacciono tostate-tostate, l'ideale sarebbe<br />

bruciate. Sceglie quelle meno pallide.<br />

L’intimità non si crea, non si distrugge, ma si trasforma, attraversando i corpi? C’è<br />

già in potenza, quando incontri una persona? È lì che cova tra le sopracciglia?<br />

28


Anna non è timida. Su questo sono tutti d’accordo. È risultata per tre anni consecutivi<br />

una Extrovert Intuitive Thinking Perceiving nel test Junghiano della Personalità,<br />

quando lavorava su al Nord. Alla ventisettesima affermazione – You<br />

frequently and easily express your feelings and emotions – ha sempre cliccato<br />

yess. Alle trentottesima – You enjoy being at the center of events in which other<br />

people are directly involved – yesss. Alla cinquantaduesima – You usually place<br />

yourself nearer to the side than in the center of the room – noh.<br />

Ma è anche molto, molto, molto selettiva. Raramente trova le persone interessanti.<br />

Dimmi qualcosa che non so, dimmi qualcosa che mi affascini. Lo spera sempre.<br />

Rimane delusa. Sei noioso, sei saccente, sei banale, parli male, non so di che<br />

parli.<br />

Anna invece ora se ne stava con Daniele dentro una sceneggiatura di Aaron Sorkin,<br />

dialoghi serrati, dritti nel cuore della storia. O era un doppio monologo? Perché<br />

aveva l'impressione che stessero esprimendo uno i pensieri dell'altra, in simultanea.<br />

Forse non si ascoltavano nemmeno. Non stavano nemmeno emettendo<br />

suoni. Uno formulava una frase, l'altro la completava, vasi comunicanti. La musica<br />

era diventata dance, qualcuno aveva attivato una vecchia strobo, attorno la boom<br />

<strong>dei</strong> quarantenni tuonava, e loro in un silenzio biposto. Chissà che ruolo avevano i<br />

ferormoni in questo quadro. Che succede, qui?<br />

Anna era riuscita a schiacciare pausa. Distanza tra i nasi inferiore ai dieci centimetri,<br />

fianchi a contatto, piedi che fanno amicizia. Ground control to Major Tom.<br />

Pipì tattica. Si era alzata adducendo scusa un po' più elegante e si era allontanata<br />

facendosi largo tra abiti a fiori e giubbotti di pelle sudati. Nella traiettoria aveva intercettato<br />

Cri.<br />

«Ti presento Natalie!»<br />

Natalie di DanieleNatalie. La legittima proprietaria delle basette esotiche appena<br />

lasciate a svaporare sulla panca. Bella Natalie. Bel tipo, piuttosto. Sguardo deciso.<br />

Sorriso largo. Elegante. Avranno un accordo da flirt libero? (domanda scorretta).<br />

«Finalmente ci si conosce...»<br />

«Codice?»<br />

Quale codice? Ancora Da Vinci? Anna torna alla terza dimensione e sente gli occhi<br />

addosso della cassiera bio che la sta interrogando. È sempre la stessa, e ha sempre<br />

la stessa aria depressa, a volte puzza di minestra. Oggi no. Il codice non lo<br />

sa, non ha studiato.<br />

«Numero della tessera?» quella insiste.<br />

«2142…» azzarda.<br />

Batte i tastini nervosi, è giusto, deve averlo ripescato chissà da quale scatola.<br />

«Hai visto il regalo di Anna?» la voce di Cri le rimbomba dal dietro le quinte.<br />

Si erano trovate in tre aggrappate a uno chemin de table che Anna aveva scovato<br />

in un negozietto di Berlino Mitte – nell’atelier di Rossana Orlandi sarebbe costato<br />

il doppio, e questa era una gran soddisfazione – a contemplare scaglie di betulla<br />

intrappolate in un rettangolo di lattice trasparente.<br />

«Carino. È legno?» aveva chiesto Natalie col naso appiccicato al suo lembo trasparente,<br />

in un italiano tutto consonanti.<br />

«Credo di sì, sì» le aveva sorriso Anna, studiandole il profilo. È Ingrid Bergman.<br />

29


Non la Rossellini. Proprio l'originale, non il clone. Quindi avrà anche la corporatura<br />

robusta da istitutrice austriaca e le caviglie grosse. Invecchierà bene di faccia,<br />

male di culo. Anna è convinta che esistano tipologie fisiche precise, che dettano<br />

tutti i pezzi e le fasi di un corpo.<br />

«L’hai preso a Milano?» l’aveva incalzata Ingrid-Natalie, mentre Cri si allontanava<br />

di un metro per farsi fotografare Lomo con due tipi alla Mad Men.<br />

«No, ormai non riesco più a comprare a Milano, sono tutti pazzi. Solo all’Isola, al<br />

limite.»<br />

«È vero, ma qualcosa a Milano c’è, se cerchi bene. L’Isola, ma anche Tortona e<br />

Corso Genova» aveva continuato Notorius con aria davvero sicura, per una appena<br />

arrivata in città. Invasione di territorio. La Visionary è lei.<br />

«Di cosa ti occupi?» le aveva chiesto Anna, cercando di suonare genuinamente<br />

interessata e per nulla acida.<br />

«Art Direction» Ingrid aveva piegato la tovaglietta viscida su un mobile improvvisato<br />

con i pallet di legno, mani lunghe lunghe, e le aveva piantato negli occhi due<br />

iridi che potevano essere verde vetro.<br />

«Ah.»<br />

«Tu?» le aveva chiesto a sua volta, senza distogliere lo sguardo indagatore.<br />

Chissà se l’aveva beccata fare la gatta in estro col fidanzato, giusto sette minuti<br />

fa.<br />

«Trend Forecast.»<br />

«Ah.»<br />

Ecco, mettiamo le cose in chiaro.<br />

«Venite a darmi una mano con la torta?» le aveva riacciuffate Cri per la collottola,<br />

con la voce da sbronza felice.<br />

«Marco dove l’hai lasciato?» era riuscita a chiederle Cri mentre una mano pelosa<br />

la agguantava alla vita da Barbie.<br />

Marco? Marco mio marito? Anna si era sentita improvvisamente molto Emma Bovary,<br />

i pallet si erano tramutati intorno a lei in trumeau ottocenteschi, il cemento<br />

sotto i suoi piedi si era sciolto in un lucido pavimento alla veneziana e alle pareti<br />

erano apparse cornici dorate, che le cantavano in coro: Marco dov’èèè?<br />

Aveva aguzzato gli occhi a fatica, passando in scansione quel tugurio degno di<br />

un set di Vogue Italia. E Marco si era materializzato laggiù in fondo, a confabulare<br />

placido con Massimo e altri tre omuncoli del loro gruppo storico, un insano ibrido<br />

culturale tra la trilogia della fuga di Salvatores e tutti gli Amici Miei. Marco era normale.<br />

Mentre se ne stava lì, metà Anna e metà Emma, qualcuno o qualcosa l’aveva<br />

presa per mano e l’aveva trascinata in mezzo a un groviglio di braccia e visi ondeggianti<br />

al ritmo di revival anni Settanta, tracce scelte a turno da dj improvvisati<br />

dietro un vecchio computer appoggiato su una pila di casse di Lambrusco piacentino,<br />

tra i bicchieri di plastica abbandonati. Era Daniele e anche questo era normale,<br />

no? (Chi ha parlato?)<br />

Aveva ballato, a una distanza variabile da lui ma sempre nel suo raggio, mescolata<br />

al gruppo, le braccia in alto intrecciate a molte altre braccia sconosciute. Si erano<br />

sfiorati per caso, poi erano stati allontanati dal magma saltellante ed era stata tra-<br />

30


sportata in una zona neutra, dove Marco le stava porgendo la giacca per andarsene.<br />

Aveva cercato di ritrovare quella figura dinoccolata, ma senza troppo impegno.<br />

Così lei e Marco se n’erano andati a metà festa, come sempre, per far ritorno<br />

alla sicurezza del nido candido.<br />

In questo supermercato devono avere spento il riscaldamento. Anna guarda a<br />

terra e vede i propri piedi galleggiare sul marciapiede, illuminati snob dalla vetrina<br />

di Curatolo, il commerciante più astuto del quartiere. Quel volpone dal gusto sublime<br />

negli anni le ha spillato una percentuale crescente di reddito. Mentre gioca<br />

alla bilancia con i sacchetti della spesa biodegradabili cercando di calcolare<br />

quanto può avergli regalato, due cartelli appesi all’ingresso della boutique le si infilano<br />

a tradimento nella visuale. Il primo è un annuncio funebre stampato in casa<br />

su carta riciclata. Dice che Curatolo è morto. Il secondo è un grande foglio di carta<br />

verde, dove Curatolo morente ha tracciato in pennarello i suoi ultimi pensieri. Molla<br />

i due sacchetti. Rumore di vetro rotto. Anche il succo di agave è morto. Inizia a<br />

leggere, come un automa, ma subito si ferma, per pudore. Scrittura infantile, lingua<br />

involuta, azione di guerrilla marketing postuma. Fastidio. Commozione. Fastidio.<br />

Commozione. Quel Signor Bonaventura bonsai con la montatura da primo Allen,<br />

sul letto di morte ha preso un pennarello nero di quelli dell’asilo e ha dato l’addio<br />

ai propri clienti, augurando a tutti di godersela. Perché tra tutte le morti quotidiane<br />

proprio questa qui la colpisce? Una morte di quartiere, in una città senza quartieri.<br />

Raccoglie le sporte inzuppate, si ricompone, punta dritta verso casa. La ciotola<br />

vuota di Scìon le si è manifestata in 3D.<br />

3<br />

LANCI<br />

Il cielo è incollato sulla spianata d’asfalto che vorrebbe essere una piazza. Attorno<br />

pulsa il centro commerciale della prima periferia. Giornata fiacca, per un non<br />

luogo.<br />

Marco ha parcheggiato lontano, apposta. Si è dato l’obiettivo di fare tremila passi<br />

al giorno. Cinquemila sarebbe meglio, come dicono gli americani, ma anche tremila<br />

è già un inizio. Tiene le mani in tasca, in una stringe il contapassi digitale,<br />

che se ne sta rannicchiato al calduccio a fare il proprio dovere. Ogni tanto lo tira<br />

fuori e controlla se la lucina è ancora rossa o se è già diventata verde. Non si sa mai.<br />

Si affretta, è in ritardo, come sempre. Il ritardo ce l’ha nel sangue. E lo coltiva con<br />

dedizione.<br />

Manuela ha le braccia incrociate sul petto baldanzoso. È stufa di aspettare, lo si<br />

capisce dall’espressione più scazzata del solito. Odia questo posto, la gente che<br />

lo frequenta, l’azienda che la obbliga a queste faticate per uno stipendio da fame,<br />

il capo che la tratta come un’ebete e se ne frega di lasciarla lì da sola a controllare<br />

i preparativi dell’evento. Hanno sbagliato il blu delle transenne che delimitano la<br />

fila, e sì che lei gli ha dato il riferimento Pantone. Quando Marco lo vedrà la cazzierà,<br />

sicuro.<br />

«Tutto a posto?» Marco le bofonchia in un sorriso tirato senza nemmeno un buon-<br />

31


giorno, mentre a testa china legge un messaggio a cui è vitale rispondere entro i<br />

prossimi cinque minuti, o l’universo intero verrà risucchiato dentro una media station<br />

dal prezzo al pubblico sbagliato.<br />

«Be’, sì. No. In realtà il colore delle transenne…» Manuela gli trotterella a fianco<br />

e lo guida verso lo spiazzo davanti alle porte del negozio, già pronto per l’inizio<br />

della competizione. Un Pippo Baudo trentenne col riporto precoce color faraona<br />

sta facendo le prove microfono per la conduzione della gara, pronto-pronto-provaprova-uno-due-tre-ciao-ragazzi-siete<br />

– prontiiii-siete-caldiiii, gli grida dentro già<br />

compreso nella parte del bravo presentatore da mall. I primi ragazzini si stanno<br />

avvicinando alla pedana di lancio, curiosi, cavallo basso. Un sottofondo musicale<br />

di vecchie hit riempie già da ore ogni interstizio di plastica e cemento. Nell’aria c’è<br />

odore di fritto.<br />

Manuela osserva Marco di sottecchi. C’è qualcosa che non va. Non le ha ancora<br />

fatto lo shampoo per la faccenda del blu. Che stia male? Gli sbircia le mani paffutelle.<br />

Non tremano. Prova ad analizzargli il bianco degli occhi, sembra tutto sommato<br />

bianco. Forse un leggero tic alla palpebra. Occhio che trema, stress emotivo.<br />

Non è proprio il momento per chiedergli il permesso per lunedì, e ogni ora che<br />

passa il prezzo del volo Easy Jet aumenta. Giocarsela ora potrebbe essere controproducente.<br />

«Dove sono i telefonini?» domanda Marco, sempre immerso nel suo ipertesto.<br />

«Nello scatolone, là, vedi?» Manuela fa cenno con la mano, i sei braccialetti d’argento<br />

fanno la ola.<br />

«Mhh. Mostrami il percorso, simula» Marco solleva finalmente lo sguardo.<br />

Simula? Manuela vorrebbe sprofondare. Non vorrà mica farmi fare la prova del<br />

lancio del telefonino da sola davanti a questi energumeni come una polla? Vuole<br />

proprio smantellarmi la dignità. Pensa a lunedì, concentrati su Easy Jet,<br />

Ommmmmhh.<br />

Intanto il pubblico è aumentato, sale il fermento in vista della gara. Già si vedono<br />

arrivare i lanciatori esperti, si sgranchiscono le braccia dandosi arie da agonisti<br />

delle telecomunicazioni, sono quelli che non si perdono una tappa e puntano al<br />

primo premio europeo.<br />

Marco si appoggia al muro, non sa dove sedersi. Deve avvertire Anna della cenetta<br />

con film, Cri e Massimo vorrebbero vedere The Road, la copia è buona. Una<br />

serata tranquilla a quattro, come ai vecchi tempi. Magari si è immaginato tutto.<br />

Non c’è nulla di reale. In fondo sono solo dettagli nebulosi, che lui ha interpretato<br />

come indizi. Se solo lei non fosse così focalizzata. Porta sempre i discorsi lì. Enfasi,<br />

c’è molta enfasi. E un eccesso di impegno a simulare naturalezza, a mettere<br />

le cose sul piatto, parlarne in modo esplicito, come una strategia ingenua per fare<br />

sembrare tutto normale, sotto controllo. E se dipendesse dal fatto che ha smesso<br />

di farla ridere? Ha smesso di farla ridere? Stop. Rischio paranoia molto alto. Si<br />

guarda le Church nuove, sono identiche alle altre sei paia. Estrae meccanicamente<br />

dalla tasca il contapassi, la luce pulsa rosso. Anna direbbe che sono compulsivo,<br />

ma non è mica vero.<br />

Manuela avanza verso la pedana, i pugni stretti. Pippo Baudo Jr. la accoglie calorosamente:<br />

«Ecco qua il primo concorrenteeeeee! Ma che bella signorina, da<br />

32


dove vieni cara?» Manuela lo fulmina e, a denti stretti «Sono io, cretino.» Lui non<br />

fa una piega, deve intrattenere, the show must go on. «Varese? Hai detto Varese?<br />

La nostra prima concorrente è di Vareseeeeee» improvvisa, sudando come il ventitré<br />

luglio. Manuela arranca verso il bidone stracolmo di telefonini, ne afferra uno<br />

a caso, si porta in posizione di lancio. Easy Jet. Easy Jet. Easy Jet.<br />

«…e si appresta a fare il suo primo e unico lancio. Un lancio solo ciascuno! Una<br />

possibilitààààà!»<br />

È proprio necessaria pure tutta la telecronaca? Marco la sta guardando, è un sorriso<br />

sornione quello? O un inizio di paresi? Senso di irrealtà, formicolio agli arti inferiori,<br />

forse sverrà su questa lurida pedana blu sbagliato. Qualcuno deve arrivare<br />

a salvarla da tutto ciò. Si guarda attorno. Un centinaio di occhi sono pronti a godere<br />

della sua figura di merda.<br />

Marco ha fame. Ha sempre fame. Soprattutto di roba dolce. Gelati. Tortine morbide<br />

al cioccolato fondente. Gelati. Brioches ripiene di crema pasticcera con scaglie di<br />

mandorle tostate. Gelati. Sbrisolona piacentina. Gelati. Sbrisolona mantovana intinta<br />

nello Zacapa. Gelati. Biscotti artigianali tutto burro. Gelati. Biscotti industriali<br />

al cacao Batticuori. Acquolina. O forse è perché non la porta in luoghi abbastanza<br />

elitari? – si guarda attorno – Ha questa mania dell’edge. Adesso tutto deve essere<br />

edge. Ma che vuol dire edge? Stare sul bordo di cosa? A stare sul bordo si rischia<br />

di cadere. Il suo lavoro non è più aspirazionale per lei? Lui non è più aspirazionale?<br />

Quelle transenne hanno proprio il Pantone sbagliato, e adesso che ci bada<br />

forse anche la pedana. E il logo non è abbastanza grande, dal fondo della piazza<br />

non si vede di certo. Uccidiamo il brand, ma sì. Un’operazione da novantamila<br />

euro buttata nel cesso. Non può delegare niente, almeno per queste cose dovrebbe<br />

potersi fidare di Manuela, la meno deficiente del team. E invece guardala<br />

lì, come si destreggia sulla rampa di lancio. Imbranata cronica. Dopo tre anni deve<br />

potermi garantire una gestione decente del progetto. Ci saranno ancora brioches<br />

senza marmellata al bar?<br />

Manuela stringe il telefonino nella mano destra, sudaticcia. È pronta. Riuscire a<br />

estraniarsi da questo spazio-tempo è possibile. Chiude gli occhi. Sente l’odore<br />

del mare e la salsedine nei capelli. Li riapre. Punta all’orizzonte, dove acqua e<br />

cielo si incontrano. Inspira. Assume la posizione del Discobolo. Vaghe reminescenze<br />

di prima liceo la aiutano a riprodurre fedelmente la posa plastica. Fidia o<br />

Mirone? Fa sempre casino. Diciamo copia romana. Si bilancia sulla gamba sinistra,<br />

piega il ginocchio destro, allunga il braccio destro all’indietro, in torsione, un<br />

tutt’uno con il Nokia E52, sposta il peso sul piede destro, piega il busto in avanti,<br />

ogni muscolo in tensione, pelle di marmo dell’Attica, attraverso ogni fibra porta<br />

tutta la forza, la rabbia blu, le umiliazioni, il cielo e il mare, l’odore di fritto, Easy<br />

Jet, il sorriso di Marco dentro il braccio fino alla mano, che si carica fino a vibrare,<br />

affondando la carne nel metallo e poi zzzzzzzzzzzooot!, come una scultura futurista<br />

rilascia l’energia nell’aria, il telefonino parte come un dardo infuocato, spezza<br />

l’etere in un sibilo acuto, per poi esplodere in collisione con. Con? Sciolgo le trecce<br />

e i cavalli… corrono… e le tue gambe eleganti… ballano… riporta Manuela sulla<br />

pedana, qui e ora. Mette a fuoco scompiglio tra il pubblico, brusio crescente, Pippo<br />

Baudo non c’è più, Marco non c’è più. Forse è successo qualcosa di brutto.<br />

33


Uno yacht affonda in circostanze misteriose al largo della costa ligure.<br />

Negli stessi giorni, una serie di furti di dipinti occupa le prime pagine <strong>dei</strong><br />

giornali. Gli indizi collegano i fatti a operazioni finanziarie che coinvolgono<br />

alti prelati e una società di affari russa controllata da manager senza scrupoli.<br />

Il capitano <strong>dei</strong> Carabinieri Andrea Manetti indaga. Contro il volere <strong>dei</strong> suoi<br />

stessi superiori segue una pista che penetra le mura della Città del Vaticano<br />

e scala la gerarchia pontificia.<br />

Andrea è gay, convive con un ex tossicodipendente e qualcuno non esita<br />

a usare questi elementi per distruggere la sua credibilità prima che possa<br />

danneggiare gli interessi occulti che collegano Roma, Mosca e lo yacht<br />

misterioso. Le minacce che arrivano da lontano si mescolano a quelle<br />

dell’ambiente machista dell’Arma <strong>dei</strong> Carabinieri quando un’operazione<br />

rocambolesca nel mezzo del Mediterraneo conclude l’ultimo degli inseguimenti.<br />

Stefano Paolo Giussani (1966) è giornalista e autore di documentari.<br />

Lavora alle testate GrandTour e L’Orso. Ha scritto per il Corriere della<br />

Sera e i Viaggi di Repubblica. Ha pubblicato il libro Sentieri di Fede (Bellavite<br />

Editore) e ha curato guide tematiche per Touring Editore e l’Istituto<br />

Geografico De Agostini.<br />

Magellano è il suo secondo romanzo.<br />

35


Magellano, Stefano Paolo Giussani.<br />

Da Roma Today 1 :<br />

18 marzo 2009.<br />

Duecentotrentasette reliquie di santi sono state trafugate dalla diocesi di Porto e<br />

Santa Rufina alla Storta. Tra il materiale portato via anche un frammento di legno<br />

della Santa Croce, le reliquie <strong>dei</strong> santi Ignazio di Loyola e Ippolito e una Madonna<br />

rinascimentale di scuola fiorentina.<br />

Sul furto stanno indagando i Carabinieri del NTPA 2 , coadiuvati dalla Gendarmeria<br />

Vaticana. Le indagini sono a tutto campo.<br />

4 aprile 2009.<br />

Sono state recuperate in un casolare abbandonato nelle campagne tra La Storta<br />

e il comune di Formello le reliquie rubate lo scorso 18 marzo nell'interno della Cattedrale<br />

della Diocesi di Porto e Santa Rufina, in via del Cenacolo a La Storta a<br />

Roma.<br />

Gli inquirenti, coordinati da un nucleo speciale della Gendarmeria Pontificia, hanno<br />

recuperato la refurtiva poco prima che fosse immessa nel mercato clandestino<br />

delle opere d'arte. Le reliquie sono state consegnate nella parrocchia della Beata<br />

Vergine Maria Immacolata Concezione al vescovo monsignor Luigi Conti.<br />

Tra gli oggetti sacri che erano stati rubati ci sono anche la reliquia ex Ossibus di<br />

San Ippolito, patrono della Cattedrale della Diocesi di Porto Santa Rufina, e una<br />

croce di vetro con all'interno un pezzo della Santissima Croce di Gesù. Manca ancora<br />

all’appello una preziosa Madonna di manifattura medievale italiana. Parole<br />

di apprezzamento sull’operazione sono state espresse dal Cardinale Barberini,<br />

delegato responsabile della sicurezza pontificia per le opere d’arte.<br />

Capitolo 1 – Laurin<br />

Bolzano, 10 agosto, ore 23<br />

Ha già allacciato la cintura di sicurezza.<br />

Sta pensando che gira parecchio e le città dall’alto gli sembrano tutte uguali. Tutte<br />

tranne quelle di montagna. Lì le luci si concentrano dove si incrociano le poche<br />

strade, come un gorgo nel mezzo di un oceano scuro.<br />

L’area del piccolo aeroporto è segmentata dalle corsie ordinate delle luci di atterraggio.<br />

Sembrano lucciole disciplinate al margine dell’asfalto, segnano il confine<br />

tra prato e pista. È da quando era piccolo che non vede una lucciola, pensa. La<br />

distesa di erba intorno alla striscia è il proseguimento del buio <strong>dei</strong> boschi sulle<br />

montagne. Non si capisce dove finisca uno spazio e inizi l’altro. Circondata dai rilievi,<br />

Bolzano sembra ancora più piccola di quella che è. Un nugolo di case schiacciate<br />

dalla cappa di umidità estiva. Attorno spuntano solo le montagne, i bordi di<br />

1 Notizie basate su fatti reali tratte da fonti web.<br />

2 Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, il nucleo <strong>dei</strong> Carabinieri specializzato<br />

nelle indagini su furti dʼarte.<br />

36


un catino in cui galleggia la città. Riconosce il Rosengarten a oriente, la luna che<br />

sta per sorgere proietta il suo profilo seghettato nel cielo.<br />

Alle spalle dell’Alfa Romeo 156 <strong>dei</strong> Carabinieri, il quartiere industriale della città è<br />

un insieme di parallelepipedi di cemento appoggiati in ordine sparso e sovrastati<br />

da un fantasma di foschia arancione. La nube iridescente si allunga pigra tra i meandri,<br />

alla confluenza tra i fiumi nella stretta pianura.<br />

Dei due militari, quello più anziano fuma in piedi a fianco all’auto. Fissa il tratto di<br />

pista di fronte a lui. Non gli importa nulla di essere lì. Guarda distrattamente lo<br />

scorrere <strong>dei</strong> fari sull’autostrada che costeggia l’aeroporto. Il traffico scivola senza<br />

ostacoli. Ascolta l’ultimo treno passare, è un merci. Il rumore <strong>dei</strong> carri pesanti riecheggia<br />

tra le pareti della montagna. Tutto è concentrato nei pochi metri della pianura.<br />

Il carabiniere più giovane è seduto in macchina, sfoglia una rivista di moto.<br />

Tiene la portiera aperta. L’alone del cruscotto illumina l’asfalto attorno all’auto.<br />

«Eccolo» dice seccamente il fumatore all’accendersi di un punto nel cielo proveniente<br />

da sud.<br />

L’oggetto diventa un fascio luminoso sempre meglio distinto. È in lento avvicinamento.<br />

Sembra fermo nell’aria. L’unica altra luce nitida verso il cielo è quella della<br />

torre di controllo. C’è solo un uomo dietro la vetrata. Sembra un pesce solitario in<br />

una bolla sospesa su un pilastro.<br />

«Un aereo della presidenza del consiglio. Qui. Oggi… a quest’ora. Chemminchia<br />

ci sarà di così importante?» dice. Butta a terra la sigaretta. La schiaccia con la<br />

scarpa mentre il giovane scende dall’auto e nasconde la rivista nel bagagliaio. Si<br />

sta sistemando camicia e cappello quando l’aereo li sorvola. Per atterrare deve<br />

prima superare l’aeroporto, virare sopra la città e imboccare la corsia di avvicinamento.<br />

Nell’ultimo passaggio transita molto vicino. Le gomme <strong>dei</strong> carrelli stridono<br />

al tocco della pista. Il suono della turbina è un lungo sibilo aspirato che striscia di<br />

fianco a loro. È un disturbo di quelli che non ti aspetteresti nella quiete notturna di<br />

una vallata alpina. All’avvicinarsi dell’aereo in rullata il rumore diventa più fastidioso.<br />

L’apparecchio si ferma con un leggero beccheggio a pochi metri dall’auto. Si accendono<br />

le luci interne. L’apertura del portello squarcia il buio di fronte ai militari.<br />

Disegna il profilo di un uomo affacciarsi dall’interno della carlinga.<br />

«Capitano Manetti?»<br />

«Eccomi, buonasera!»<br />

«Benvenuto in Alto Adige, signore. Abbiamo l’ordine di condurla all’hotel Laurin. Il<br />

colonnello Mazzucchelli ci ha chiesto di accompagnarla là» dice il maresciallo<br />

aprendo la portiera posteriore.<br />

Le dodici lettere di “Mazzucchelli” scorrono veloci nella mente del capitano Manetti.<br />

Dalle orecchie scendono dritte nel fondo della pancia con il fastidio che provi<br />

quando ingoi qualcosa di andato a male. Quelle sensazioni che ti disgustano per<br />

qualche secondo. Poi passa, ma intanto ti lasciano in bocca una sensazione di<br />

acido.<br />

L’ultima volta che ha sentito pronunciare il nome del colonnello Mazzucchelli era<br />

37


a Roma. Si era appena conclusa l’operazione alla Storta, o almeno credeva fosse<br />

così. Giornate serrate di indagini. Ore interminabili in osservazione. Pedinamenti.<br />

Lo studio delle opere trafugate. Un incastro tra gli alibi <strong>dei</strong> sospettati e l’ipotesi di<br />

qualche movente. Il successo e il recupero della refurtiva fino alla telefonata del<br />

superiore.<br />

Di fronte alle reliquie, ancora in mimetica, lo squillo sul cellulare di servizio era<br />

echeggiato all’interno della navata, dove con i suoi uomini stava riconsegnando<br />

le opere. Stavano richiudendo la teca contenente un frammento della Croce del<br />

Cristo. A tutti sembrava un momento solenne. Anche i militari fissavano muti la lastra<br />

di vetro antiproiettile mentre sigillava la custodia blindata. Alcuni uomini in<br />

borghese osservavano la scena dal colonnato.<br />

Gendarmeria Vaticana, aveva pensato Manetti guardandoli. Li aveva riconosciuti<br />

al volo perché hanno uno sguardo strano. Non si capisce se ci sono davvero o<br />

fingono e con la testa sono altrove. Le barzellette dovrebbero raccontarle su di<br />

loro, non sui Carabinieri.<br />

Dal telefono avevano cominciato a uscire delle frasi. Al momento la concentrazione<br />

sulla reliquia le aveva fatte scivolare via. Come l’acqua di un rubinetto aperto<br />

su un oggetto impermeabile.<br />

Chiusa la teca, lo scatto della serratura elettronica aveva avuto l’effetto di infilare<br />

la spina di una connessione che riportava alla realtà.<br />

«…mi ha capito, capitano?»<br />

«Scusi?»<br />

«Qui finisce la sua missione. Il merito sarà della Gendarmeria Vaticana. Nessuna<br />

conferenza stampa per voi. Sono stato chiaro? Ora esca immediatamente da lì<br />

con i suoi uomini e torni a fare rapporto.»<br />

Ma checcazzo sta dicendo, ha pensato. Là fuori è pieno di stampa e tivù. Buttare<br />

nel cesso un’occasione così.<br />

«Signore, fuori è pieno di giornalisti…» ha provato a dire.<br />

«Un’ottima ragione per rientrare subito!»<br />

Dall’altra parte la comunicazione interrotta produceva un suono continuo che lo<br />

ha fatto sentire uno stupido. Uno stupido con un telefono spento appoggiato all’orecchio.<br />

Mazzucchelli è uno di poche parole, e questo lo rende ancora meno<br />

simpatico di quel che è.<br />

Frasi lapidarie per un ordine arrivato direttamente dall’alto. Senza una ragione.<br />

Ha eseguito, ma non ci ha creduto davvero fino ai giornali del giorno dopo.<br />

Monsignor Conti accoglie il ritorno delle reliquie recuperate grazie a un’operazione<br />

di Intelligence in concerto tra la Gendarmeria Vaticana e le forze dell’ordine.<br />

Ma vaffanculo!<br />

Gendarmeria Vaticana? Non agisce fuori dalle mura della Santa Sede. Un generico<br />

“forze dell’ordine”? No, non c’è niente di generico nei Carabinieri! Mille pensieri<br />

battevano i piedi nella sua testa. Loro sono “quelli del nucleo tutela patrimonio<br />

artistico”. “L’élite dell’élite”. “Quelli votati alla protezione del bello di cui il Paese<br />

38


abbonda e che in parecchi minacciano”. “Un braccio investigativo a tutela dell’arte”.<br />

Evvai con tutte quelle cazzate che il pubblico legge sui giornali dopo le operazioni<br />

e con cui li avevano farciti al corso ufficiali. Dove sono finite? Prima in Accademia,<br />

poi le ore con gli studiosi <strong>dei</strong> musei, i pomeriggi nel silenzio delle biblioteche a studiare<br />

le tracce del passato, a farsi raccontare che un’opera d’arte si legge così,<br />

che certi falsi sono quasi indistinguibili dagli originali. Che ognuno in passato dipingeva<br />

sopra le sue vecchie tele e a volte si fa fatica a capire chi abbia fatto cosa,<br />

che due colpi di scalpello su un sasso possono far credere che Modigliani abbia<br />

toccato la pietra che si ha di fronte.<br />

Non siamo un generico “forze dell’ordine”, minchione di un ufficiale impavonato,<br />

avrebbe imprecato volentieri a sentire il nome del colonnello Mazzucchelli.<br />

Intanto però i giornali e i siti avevano battuto la notizia. Il vescovo esprimeva la<br />

soddisfazione per la gioia <strong>dei</strong> fedeli, il ministro per lo svolgimento dell’operazione<br />

e bla, e bla, e bla… è tutto bello quando sei alle giostre. Tuttibravi, tuttofigo. Sorrisoni<br />

ovunque. Tranne che per i suoi Carabinieri rimasti nell’anonimato. E poi mancava<br />

sempre una Madonna. Di questo nessuno ne parlava?<br />

Quella sera aveva preferito andare in sauna a sfogarsi. Gli piace andarci. Lì, solo,<br />

seduto sulla panca, ha iniziato a sudare e a sbollirsi. Un uomo sui trenta è entrato.<br />

Bel fisico. Si sono guardati. Si è tolto l’asciugamano e si è seduto di fronte a lui.<br />

Così da potersi vedere bene. Nudi. Volto contro volto. Corpo contro corpo. La macelleria<br />

era aperta. Sono usciti assieme dalla camera profumata di legno e senza<br />

parlarsi si sono incamminati verso i camerini. Andrea dietro, l’altro davanti. Una<br />

fila di porte in laminato bianco a sinistra, muro a destra. Aveva delle belle spalle.<br />

Anche il culo era fatto bene. Uno di quelli delle statue di Michelangelo. Un piacere<br />

da vedere, ancora di più da toccare. Da dietro una delle porte un gemito indistinto<br />

era ritmato da <strong>dei</strong> colpi.<br />

Sono entrati in uno spazio libero. Una specie di cabina armadio senza il soffitto.<br />

Andrea ha chiuso la porta dietro di lui. Hanno incrociato gli sguardi, fatto scivolare<br />

l’asciugamano sulla panca. I piedi nudi sul pavimento si sono avvicinati. Poi i corpi.<br />

Ora non ricorda neanche che faccia avesse quell’uomo. Solo che si era svuotato.<br />

Che era talmente incazzato da aver rimosso tutto di quei giorni. Tutto tranne i titoli<br />

<strong>dei</strong> giornali e le foto <strong>dei</strong> sovrintendenti del ministero che sorridevano compiaciuti<br />

con quelli della Gendarmeria Vaticana. Sembrava una foto ricordo <strong>dei</strong> tempi di<br />

scuola. Quelle dove tutti hanno facce da ebeti ma alcune facce sono più ebeti di<br />

altre. I vaticani, appunto.<br />

«C’è un monsignore che vuole vederla, capitano» dice il maresciallo dal sedile anteriore.<br />

Lo chiamano capitano ma per la sua anzianità di servizio dovrebbe già essere un<br />

maggiore. L’essere diverso dai suoi commilitoni ha frenato la carriera. Forse lo<br />

avrebbero già buttato fuori volentieri, pensa. Ma non possono perché lui, i casi, li<br />

risolve. E se non li risolve, ci va molto vicino.<br />

«Un monsignore?»<br />

Non se l’aspettava. No che non se l’aspettava.<br />

39


La macchina percorre il lungo viale deserto. Nessuno sui marciapiedi. Uffici a specchi<br />

e capannoni si susseguono in una sfilata anonima. Qualche murale sulle pareti<br />

più vecchie. Un corridoio lungo e vuoto intervallato dalle luci <strong>dei</strong> lampioni. Accendono<br />

e spengono pozzanghere di asfalto in direzione del centro e dell’appuntamento.<br />

I fanali scorrono sulle strisce della strada. Le periferie sembrano tutte<br />

progettate dalla stessa testa.<br />

Non è un monsignore, pensa l’ufficiale guardando l’auto parcheggiata di fronte all’ingresso<br />

dell’Hotel Laurin. L’Alfa <strong>dei</strong> Carabinieri si accoda. Una Mercedes così è<br />

riservata come minimo a un cardinale. Sul marciapiede l’asfalto è interrotto da cerchi<br />

bianchi in marmo che contengono delle parole. Donano alla superficie un effetto<br />

a pois che non c’entra nulla con l’architettura ottocentesca dell’albergo. Le<br />

lettere non si leggono perché sono poco illuminate. Le bandiere sopra il portone<br />

sudano sgonfie e immobili nell’afa.<br />

È stato convocato in Alto Adige da un pezzo grosso. Gli scatta una lampadina. Sa<br />

che il papa è in vacanza non distante da lì. Bressanone, crede. Può essere qualcuno<br />

del suo staff. Non sa chi, ma per farlo prelevare a quell’ora e mettere su un<br />

volo della presidenza del consiglio, dev’essere qualcuno che conta. Qualcuno che<br />

ha fatto una telefonata a qualcun altro che conta che ha fatto… Una cascata di telefonate<br />

che contano, fino a Mazzucchelli. Si è domandato quanto era lunga la<br />

cascata prima di arrivare al colonnello e a lui.<br />

La merda scende, ma prima o poi si ferma da qualche parte. Lui è il “da qualche<br />

parte”.<br />

Era estate.<br />

Il capitano Andrea Manetti si trovava a Roma fino a un’ora e cinquantacinque minuti<br />

prima. Era in un ufficio alla Legione Carabinieri della capitale. Occupando un<br />

ruolo delicato nell’Arma ha più o meno una scrivania in ogni comando di regione.<br />

Ed è normale per lui rimanerci anche dopo cena. Stava stendendo un rapporto,<br />

quando la chiamata di un ufficiale lo aveva avvertito di un volo a sua disposizione<br />

da Ciampino. Partenza immediata. Sono in pochi a poter muovere un comandante<br />

<strong>dei</strong> Carabinieri a quell’ora verso un aereo. Quei pochi stanno sul colle del Quirinale<br />

o a Palazzo Chigi. Non c’è nessuno di altrettanto potente da questa parte del Tevere…<br />

oppure… oppure oltre il Tevere, qualcuno che vive all’ombra della cupola<br />

di San Pietro. Nel deserto romano di agosto, dove gli uffici sono completamente<br />

vuoti, è molto probabile che la chiamata originaria fosse partita proprio da qualcuno<br />

del Vaticano. Lì non chiudono mai. Dio non va in vacanza. Il papa sì, però. Ecco<br />

perché a Bolzano.<br />

L’hotel Laurin è tra i più vecchi della città. Pur trovandosi a pochi passi da piazza<br />

Duomo è abbastanza defilato da non essere al centro dell’attenzione di paparazzi<br />

e cronisti. È normalmente frequentato anche dagli uomini d’affari. Un incontro lì<br />

non desta troppi sospetti. L’edificio ha ancora quell’austerità di quando Bolzano<br />

era governata dagli Asburgo. In fondo è passato solo un secolo. In parecchi qui<br />

vorrebbero che ci fossero ancora gli austriaci a governare.<br />

40


L’albergo è affacciato sulla strada. Sul lato opposto all’entrata si apre un giardino<br />

con sequoie che forse furono piantate all’inaugurazione.<br />

Entra nella hall. La reception è in fondo al corridoio. Una ragazza lo saluta. Ricambia.<br />

Sulla sinistra si apre il bar. È tutto rivestito da una boiserie in noce. Nello<br />

spazio tra la sua fine e il soffitto, un ciclo di affreschi circonda tutta la sala. Sono<br />

raffigurati cavalieri e scene di corte. Su una parete un frate battezza qualcuno, a<br />

fianco un guerriero brandisce una spada alta quanto il dipinto.<br />

Eccolo. Aveva ragione. È un cardinale. Barberini, addirittura. Il poliziotto del papa.<br />

Fiuta un odore. La cascata di merda è passata da lì. Forse è partita da lì. Lo sta<br />

aspettando. È in piedi da solo tra le poltrone che circondano il grande camino<br />

spento. Un’esile figura con una statura superiore alla media. Torreggia tra le forme<br />

arrotondate <strong>dei</strong> divani. Il cardinale sta guardando gli affreschi. Il camino è così<br />

grande che Manetti ci immagina che qualcuno potrebbe giocarci a calcio e usarlo<br />

come porta. Non lui perché il calcio non lo sopporta.<br />

Dall’operazione alla Storta è la prima volta che vede di persona Barberini. Era in<br />

chiesa, defilato in un angolo buio, ed è una delle persone che farebbe volentieri a<br />

meno di vedere.<br />

«Eminenza» esordisce Manetti senza nessun altro convenevole.<br />

«Capitano, lei mi odia?» risponde il prelato. Nessun saluto, nota il carabiniere.<br />

«Dovrei?»<br />

«Me lo dica lei. Ne avrebbe il motivo. Capirei… le vie del Signore sono infinite,<br />

quello che prende poi dà…» dice con voce e tono da predica. «Intendiamoci: so<br />

bene che il merito alla Storta è stato suo e <strong>dei</strong> suoi uomini. Il problema è un altro.<br />

In Vaticano stiamo attraversando una crisi interna molto grave. Qualcuno sta minacciando<br />

la nostra sicurezza. E lo sta facendo dall’interno delle mura… Si sta<br />

domandando perché le sto dicendo questo?» chiede una frazione di secondo dopo<br />

il prelato.<br />

È esattamente quello che il capitano si sta chiedendo.<br />

«La cinta di San Pietro è molto, molto alta. Quanto più devi proteggere il tuo<br />

gregge, tanto più deve essere alta la protezione… lupi e volpi non devono poterla<br />

saltare. Ma può succedere che la volpe sia più astuta del previsto e riesca a entrare<br />

dalla porta travestendosi da pecora. In questi casi è meglio che l’intruso pensi<br />

che il cane pastore del gregge sia sveglio.»<br />

La parabola del giorno, pensa Manetti.<br />

«Ecco perché abbiamo dovuto far credere che il merito fosse della nostra gendarmeria»<br />

incalza il cardinale, «per far credere che qualcuno <strong>dei</strong> nostri sia vigile. Intendiamoci,<br />

capitano, un piccolo gruppo di uomini non può proteggere da solo un<br />

luogo dove è concentrata gran parte delle opere d’arte dell’umanità. Possiamo investire<br />

in tecnologia, fornire ai nostri uomini mezzi sofisticati, addestrarli a pensare<br />

prevenendo i rischi. Ma non possiamo arrivare a tutto. Provi a immaginare il Vaticano<br />

come un quartiere di Roma, un quartiere dove però sono stipate tutte le firme<br />

della storia dell’arte. Pochi cani pastori per proteggere una grande stalla rivestita<br />

d’oro. Lei crede in Dio, capitano?»<br />

Silenzio.<br />

Il capitano lo guarda. Si chiede se per fare il cardinale devi essere pazzo o lo di-<br />

41


venti dopo, o hai una forma di lucidità che a lui in questo momento sfugge.<br />

«Diciamo che ci sto lavorando, eminenza.»<br />

Sta cercando di stabilire una certa confidenza, pensa il carabiniere.<br />

«Mi permetta di confidarle una cosa» dice il prelato mentre si incammina nel giardino.<br />

Quest’uomo legge nel pensiero? si domanda improvvisamente il militare.<br />

«Non serve saper leggere nel pensiero…»<br />

Sì è risposto. Si accoda a lui. Non è pazzo. Gli fissa la nuca mentre cammina. La<br />

pelle è tirata tra la base del cranio e il colletto della veste. È molto più vecchio di<br />

quanto pensasse.<br />

«…per capire che non tutti in Vaticano sono guidati dallo Spirito Santo o non tutti<br />

credono che un giorno saremo giudicati. Purtroppo alcuni agiscono con la convinzione<br />

che il giudizio non sia neppure di questa terra, allora si muovono non preoccupandosi<br />

di nulla se non del proprio vantaggio.»<br />

«Eminenza, con tutto il rispetto, non capisco dove vuole arrivare.»<br />

«Capitano» fermandosi si gira e lo guarda negli occhi, «siamo di fronte alla più<br />

grave minaccia che lo stato pontificio abbia conosciuto nei tempi recenti. Qualcuno<br />

sta cercando di sottrarre i beni più preziosi del nostro patrimonio. E qualcuno <strong>dei</strong><br />

nostri lo sta aiutando.»<br />

«Con tutto le opere che custodite, come può definire una minaccia la sparizione<br />

di qualche reliquia?»<br />

«Lei è giovane, ma ha esperienza. E sa che fa paura quel che non si conosce.<br />

Noi non conosciamo chi sta minacciandoci.» Sul “non” il cardinale si ferma, lascia<br />

avvertire un’incertezza, la prima dall’inizio della conversazione. Anche lui è un<br />

uomo, allora. «Temiamo che possa essere solo questione di tempo il fatto che la<br />

crepa nella nostra sicurezza si trasformi in una breccia e poi nel crollo di una parte<br />

del sistema» non smette di tenere lo sguardo fisso nel suo, ha le pupille che pungono,<br />

pensa Manetti. «La prossima sparizione potrebbe essere ben più importante<br />

di qualche reliquia.»<br />

«Ma a catechismo ci insegnavate che la chiesa è spirito, eminenza.»<br />

«Sì. È vero» sorride, ed è la prima volta, nota il carabiniere. Lo sguardo si alleggerisce.<br />

«Apprezzo che lei ricordi questo. Ma non è il punto. Senza una certa garanzia<br />

patrimoniale lo spirito da solo, oggi, non può arrivare ovunque. O meglio,<br />

non con la forza necessaria. Pensi alle missioni che manteniamo, pensi alla più<br />

piccola parrocchia nel posto più sperduto…»<br />

…allo sperpero delle cerimonie in Vaticano, alla Mercedes parcheggiata qui fuori…<br />

aggiunge Manetti senza dirlo.<br />

«…siamo anche là. Ma per poterci essere dobbiamo passare da Roma. Non si<br />

faccia ingannare dall’opulenza che a volte dimostriamo. La consideri una “necessità”<br />

che siamo costretti ad affermare attraverso <strong>dei</strong> simboli.»<br />

Nel giardino c’è ancora un piccolo buffet allestito per la cena. Sono rimaste solo<br />

due persone sedute a un tavolo. Un cameriere aspetta di finire il turno. Ruota il<br />

polso spesso per leggere l’ora. Sembra un tic nervoso.<br />

«Abbiamo bisogno di lei, capitano.»<br />

Il cardinale chiede al cameriere un bicchiere di vino.<br />

42


«È l’unico che in questo momento ci può aiutare.» Impugna il calice tenendolo alla<br />

base con la punta delle dita. Annusa il contenuto. Il naso appuntito si ferma appena<br />

oltre il bordo del vetro.<br />

«Perché, eminenza? Sono l’unico che non protesta se quando risolve un caso non<br />

gli si riconosce il merito?»<br />

Il cardinale lo guarda per un attimo in un silenzio senza espressione.<br />

«No, però sono sicuro non si lascerebbe contaminare. Ho capito di che pasta è<br />

lei. So quanta fatica ha fatto per arrivare dove si trova.» Guarda il calice che in<br />

mano: «Questo è Lagrein» lo alza verso un lampione e lo porta in controluce, i riflessi<br />

porpora brillano nel cristallo. Il carabiniere nota che sono dello stesso colore<br />

della fascia della sua tonaca. «È probabilmente uno <strong>dei</strong> migliori vini rossi al mondo.<br />

Cresce tra queste montagne. Le sue vigne resistono al gelo dell’inverno. Chi lo<br />

coltiva deve impegnarsi di più per via <strong>dei</strong> dislivelli e del clima. Il risultato è un nettare<br />

che è costato fatica ma che ha potuto maturare con calma, grazie a qualcuno<br />

che lo ha curato. Qualcuno che dopo il gelo dell’inverno ha permesso al tepore<br />

delle primavere di arieggiare le vigne, che le ha protette mentre crescevano.»<br />

Anche Manetti lo assaggia. Ha ragione. Per quel che ne capisce di vino è davvero<br />

buono, anche se a digiuno gli sta puntando dritto al cervello.<br />

Il gesto del cardinale lascia spuntare l’orologio dal polsino. Rolex Cellini, listino<br />

seimilanovecento euro, più o meno, pensa il capitano. Adeguato alla macchina<br />

qui fuori, “signor” eminenza.<br />

«C’è chi minaccia la nostra vigna e non sappiamo dove si nasconda. Non sono i<br />

soliti corvi. Non basta qualche fucilata in aria o uno spaventapasseri. C’è qualcosa<br />

di invisibile che sale dalle radici. Non posso chiederle di aiutarci se non vuole farlo.<br />

Non posso neanche assicurarle che questa volta le saranno riconosciuti <strong>dei</strong> meriti.<br />

Però posso anticiparle che ho la sensazione che le cose presto peggioreranno e<br />

il gioco si farà più pesante.» Il cardinale alza lo sguardo verso il cielo. È spuntata<br />

la luna. «Ora è tardi. Ci rifletta.»<br />

Il cardinale lo guarda, è un attimo che gli sembra durare parecchio. Accenna a<br />

un’espressione dove ti aspetteresti un sorriso, ma senza sorriso. È il suo saluto.<br />

Si gira e rientra nella hall. Il carabiniere lo guarda allontanarsi.<br />

È stato un piacere averla incontrata di persona e ci scusi ancora per averle infinocchiato<br />

il caso alla Storta, pensa Manetti mentre il prelato sta per scomparire.<br />

Ah! e grazie per essere saltato su un aereo e corso fino a qui per farsi ubriacare<br />

dalle nostre parole, continua.<br />

Fanculo anche a lei, eminenza.<br />

Rimane solo di fronte all’edificio.<br />

Dal giardino l’albergo sembra un grosso castello dove tutto è addormentato. La<br />

facciata interna non ha più nessuna finestra accesa. Un glicine si arrampica fino<br />

ai piani alti. Il suo profumo arriva fino a lì. Torna verso il buffet. Si fa versare un<br />

altro bicchiere di vino. Il cameriere è un ragazzo molto giovane. La barba gli sporca<br />

appena il mento e le guance. La camicia bianca che indossa gli è piccola. È riempita<br />

da un torace ben fatto. L’ultimo bottone del collo è stretto e probabilmente lo<br />

infastidisce. Pensa che glielo slaccerebbe volentieri.<br />

43


Capitolo 2 – Rose<br />

Monza, 14 agosto, ore 1:55<br />

L’abbaino della stanza è affacciato sul roseto della Villa Reale. È stato fortunato a<br />

trovare quei locali vicino al suo comando. Erano gli alloggi di chi lavorava a corte.<br />

Ora sono case comunali e costano poco di affitto. Le pareti hanno qualcosa da<br />

raccontare. Le ha lasciate grezze apposta. Gli piace toccarle. Gli piace vedere le<br />

travi di legno sul soffitto, immaginare le materie che si affiancano combinandosi,<br />

come i colori in un quadro. Una riproduzione del san Sebastiano di Mattia Preti è<br />

appesa all’ingresso, sul muro intonacato senza una tinta. La tela parte dal pavimento<br />

e tocca quasi il soffitto. L’espressione del giovane accasciato di fronte al<br />

tronco prende forma sullo sfondo grigio del cemento.<br />

A distanza di anni continua ad apprezzare il silenzio delle notti d’estate, quando la<br />

luna impallidisce il parco. La luce diafana è riflessa dalle foglie del roseto. Si è appena<br />

spenta l’irrigazione e le piante sembrano un tappeto di gocce immobili nella<br />

pianura estiva. Gli alberi circondano l’edificio. Le loro sagome scure sono come<br />

delle sentinelle sullo stato di quiete. Un argine sul resto del mondo. Gli piace pensare<br />

che è la stessa pace che amava il re quando stava qui. Almeno prima che gli<br />

sparassero. Lo hanno ucciso in fondo al viale, appena fuori dalla riserva dove si<br />

rifugiava con le sue amanti. Si chiede se anche lui prima o poi sarà minacciato<br />

fuori dalla sua riserva.<br />

Andrea si affaccia alla finestra. È tardi. Qualche auto passa ancora sul viale. In<br />

fondo, oltre la pesante cancellata, il traffico sembra un elemento estraneo al suo<br />

mondo. Dalle sue spalle arriva il rumore di un respiro pesante, affaticato. Cesare<br />

sta dormendo. Vuole stargli vicino. Non vuole lasciarlo solo. Lo ha già lasciato solo<br />

troppe volte.<br />

Sente il rintocco delle due arrivare da un campanile del centro. La chiesa non è<br />

distante. Gli vengono in mente il cardinale Barberini e la predica di Bolzano.<br />

Dovranno fare a meno di lui. Ha deciso che non si lascia incantare.<br />

Il mattino è sceso presto in ufficio. La caserma è ancora deserta. Gli piace perché<br />

non sembra affatto una caserma. Si rende conto che è fortunato. Lavora in un<br />

posto che gli piace. Fa un lavoro che gli piace.<br />

Sta indagando su un caso di trafugamento di reperti da una necropoli etrusca.<br />

Hanno sfondato una parete in pietra e portato via tutto quello che c’era dentro.<br />

Nonostante il sopralluogo gli è comunque impossibile capire cos’era conservato<br />

nella tomba. Può solo immaginarlo. Così come immagina che i reperti saranno irrintracciabili,<br />

probabilmente già sulla piazza di qualche mercante.<br />

La scrivania è completamente piena di foto. Se le è stampate tutte. Spera di intuire<br />

qualcosa. Per ora ci vede solo una collina con degli arbusti. Guardandola ricorda<br />

quando era lì. Sente ancora il profumo della campagna romana bagnata dalla<br />

pioggia. Vede un’apertura su un lato, come se tra i cespugli ci fosse una porta per<br />

entrarci. Le pareti interne e la volta sono decorate da scolpiture. C’era un odore<br />

strano dentro. Più simile a un non-odore fatto dall’assenza di odori. Qualcuno ha<br />

44


lavorato più di duemila anni fa per rendere gradevole quell’ingresso. Quella porta<br />

dell’aldilà. Le linee si susseguono combinandosi tra loro fino a perdersi nel buio in<br />

fondo. Sono perfette. Il senso del bello è un linguaggio universale. Forse era la<br />

tomba di un uomo importante. O forse era solo importante per chi lo ha conosciuto<br />

e ha pagato per la sepoltura. Gli etruschi credevano che il defunto avesse un’altra<br />

vita dopo quella terrena.<br />

Poi una foto discosta, l’immagine del foro nella parete. Una serie di martellate ha<br />

squarciato le righe scolpite. Senza nessun rispetto per quel lavoro antico. Senza<br />

nessun rispetto per quella tomba. Chi le ha tirate non si è preoccupato di quel che<br />

stava facendo. In qualsiasi altra parte del mondo civile quel luogo sarebbe stato<br />

protetto. Pensa alla stalla d’oro di Barberini.<br />

Squilla il telefono.<br />

«Manetti» dice meccanicamente alzando il ricevitore, senza smettere di guardare<br />

le immagini sul tavolo.<br />

«Colonnello Mazzucchelli» dall’altra parte.<br />

«Buongiorno, signore» svogliatamente.<br />

Il superiore è al corrente <strong>dei</strong> contenuti dell’incontro di Bolzano. Se lo aspettava.<br />

Gli dice che ci sono certe occasioni che non si possono rifiutare.<br />

Gli risponde che ci sono certe occasioni che non danno stimoli.<br />

Lo chiama a rapporto. Gli ordina di presentarsi al comando regionale.<br />

«Obbedisco, signore.»<br />

Riaggancia il telefono. Rimane a fissare l’apparecchio. Alza lo sguardo. Alla parete<br />

è appesa una copia del Narciso di Tintoretto. Non vale come quella originale conservata<br />

a Roma ma è di buona fattura, probabilmente un allievo del maestro. L’ha<br />

intercettata dal fondo di un camion carico di frutta secca diretto in Francia. In quel<br />

caso una soffiata lo aveva aiutato. Nessuno l’ha reclamata ed era ferma lì da loro.<br />

Capita. E a lui piace che capiti. È come se un po’ dell’arte che aiuta a recuperare<br />

gli rimanesse attaccata addosso.<br />

Domani andrà al comando di Milano. Si alza, prende una birra dal piccolo frigo<br />

alle sue spalle. La sorseggia molto lentamente. Sente la schiuma fermarsi sul labbro.<br />

Mangia un paio di mandorle tostate. Sale da Cesare. Vuole chiudergli la finestra<br />

e accendergli l’aria condizionata. Sarà una giornata calda. Un po’ di fresco gli<br />

darà sollievo.<br />

45


Nina cuce corpetti da attricetta per ricche signore siliconate e tailleur da<br />

romana borghese per tettute ballerine della tv.<br />

Nina non cuce abiti da sposa.<br />

Ama il cibo ma è sempre a dieta, adora dormire ma soffre di insonnia.<br />

È alta con i tacchi, magra con la gonna giusta, e ha gli occhi troppo grandi.<br />

Ma blu. Che comunque è un bel colore.<br />

Ha due tette discrete e non esce mai senza lo smalto.<br />

Ha la frangia troppo lunga ed è stata tutto, tranne che bionda.<br />

Non è capace di stare zitta. Mai.<br />

Piange solo se è da sola.<br />

Adora i musical, fosse per lei dovrebbero cantare tutti, sempre, anche<br />

nella vita.<br />

Guarda solo film in inglese perché ha paura di svegliarsi un giorno e non<br />

saperlo più parlare.<br />

Sceglie i libri leggendo l’ultima parola.<br />

L’ultima di questo qui è “Fine.”<br />

Lei lo avrebbe letto.<br />

Vivere da donna tra le donne. Una storia che fa ridere anche se si ha il<br />

rossetto sui denti e per cui piangere imbrattandosi la faccia di rimmel,<br />

come ogni femmina che si rispetti. Anche se siete maschi.<br />

Manuela Mazzocchi è una intorno ai trenta, intorno al biondo, intorno al<br />

goffo.<br />

Scrive testi per programmi radiofonici e inventa pubblicità. Quelle che,<br />

quando passano in radio, la gente abbassa il volume. O cambia canale,<br />

e c’è sempre la canzone sbagliata.<br />

Ha anche un lavoro che riesce a spiegare alla sua famiglia: organizza<br />

eventi ed è un addetto stampa.<br />

Ha un blog: achickenthing.blogspot.com<br />

Nina cuce è il suo primo libro, non più nel cassetto.<br />

47


Nina cuce, Manuela Mazzocchi.<br />

1<br />

Sto abbracciando una bara.<br />

Il tappeto di rose schiacciato sulla faccia, le mani che cercano di vincere contro<br />

questa lucida discesa di legno. Lo scuotersi, perpetuo e regolare, delle teste alle<br />

mie spalle scandisce la fine della mia dignità. Sudo incenso e lacrime. Stramaledetti<br />

tacchi. Avrei dovuto accendere un cero alla “Madonna dello Stiletto”. Potrei<br />

fingere un improvviso attaccamento al nonno del mio capo, buttare lì un singhiozzo,<br />

un gemito, un urlo popolano in perfetto stile Magnani. Raddrizzo le ginocchia<br />

e lentamente cerco di staccarmi dalla nuova, laccata, dimora del defunto.<br />

Raccolgo il telefono da terra, mi strappo un petalo dalla guancia e concludo il mio<br />

viaggio verso la prima fila della basilica di Santa Maria in Trastevere: una che saggiamente<br />

portava sandali alla schiava.<br />

L’ultimo lifting ha privato Costanza delle rughe d’espressione, ma il suo sguardo<br />

è piuttosto esaustivo.<br />

Le passo il telefono. Mi volto. Occhi bassi e passo lento, esco dalla chiesa.<br />

Memo: trovare un modo creativo per raggiungere il nonno di Costanza. Entro oggi.<br />

La solita Roma rassicurante che non si accorge di niente mi aspetta fuori.<br />

«Ma la bara si è aperta?»<br />

Mi tolgo le scarpe e finalmente mi passa il mal d’aria.<br />

«Allora? Il ministro? S’è visto?»<br />

Il nonno, era stato ministro.<br />

Vuoi non sdraiarti su un politico, prima o poi?<br />

È il trionfo del racconto all’italiana: scivolo per colpa <strong>dei</strong> tacchi e al terzo passaparola<br />

sono un’estremista che tenta di trafugare la salma dell’ottuagenario, in cambio<br />

della liberazione <strong>dei</strong> prigionieri politici della Papuasia.<br />

«Dice Matteo che t’hanno dovuto sollevare in due perché eri incastrata nella corona<br />

<strong>dei</strong> compagni di partito.»<br />

Attendo fiduciosa almeno un paio di teorie del complotto, e il racconto dettagliato<br />

sull’ingresso in chiesa <strong>dei</strong> Corpi di Pace.<br />

Se lo ricorderà qualcuno il morto? O negli anni l’aneddoto della sconosciuta che<br />

gli è caduta sulla bara offuscherà le sue gloriose gesta?<br />

Devo finire di cucire il corpetto di Cleopatra.<br />

Il mio ago passa diligente e puntuale attraverso l’imbottitura.<br />

«Nina…»<br />

Matteo ha la voce coccola, quella delle brutte notizie date con amore.<br />

«Ti vede subito.»<br />

«Ma è già qui?»<br />

«Sì.»<br />

«E tu?»<br />

«Io cosa?»<br />

«Non hai ancora caricato su youtube la mia performance funebre di oggi?»<br />

48


«Mi sono permesso di aggiungere un tocco di teatralità nel raccontare l’aneddoto,<br />

te lo concedo. L’idea del video l’ho accantonata subito. Ti voglio bene.»<br />

Matteo è l’assistente di Costanza, il mio primo abbraccio in questa città. Gli concedo<br />

tutto, il risotto alla milanese con la soia e l’amatriciana di tofu, Lady Gaga a<br />

tutte le ore e True Color di Cindy Lauper quando deve sputare tristezza.<br />

Oggi potrei strangolarlo ma, spingendolo per raggiungere l’ufficio di Costanza, ho<br />

visto i suoi calzini rosa. La filosofia del rosa è iniziata quando avevo vent’anni.<br />

Amavo uomini che non mi filavano e liquidavo ragazzi gentili, perché sulla loro<br />

fronte lampeggiava costantemente un semaforo rosso, che minacciava di fermare<br />

la mia corsa verso SaDioCosa. Cercavo fortuna. Per vederla meglio le ho dato un<br />

colore.<br />

L’Amore non l’ha cambiato, l’Umore sì. Questione di vocali.<br />

Il giorno del funerale di mia madre, mia zia portava un foulard rosa antico. L’ho<br />

preso e buttato prima di arrivare in chiesa. Quel giorno la fortuna non aveva colore.<br />

Nell’ufficio del mio capo c’è la solita temperatura “Greetings from Aspen”.<br />

«Se esce anche una sola foto del tuo sedere sulla bara di mio nonno sei licenziata!»<br />

Giurerei di aver visto una ruga sulla faccia di questa diciottenne, classe 1951.<br />

«Costanza, sono scivolata. Comunque non credo che il mio sedere su una bara<br />

sia spendibile sulle pagine di cronaca. Forse le tette. Ma le tette non si vedevano.»<br />

«Nina! Prendi la tua risposta pronta e andate dalla Maccapani che deve stringere<br />

l’abito per il Festival!»<br />

«Ma non sarebbe più pratico prendere le misure della Maccapani a liposuzioni terminate?»<br />

«Fuori!»<br />

«Vado.»<br />

2<br />

Non avevo mai guidato una Vespa prima di Roma. Ho sempre provato terrore per<br />

le due ruote, ma qui la vita è incosciente. C’è qualcosa nell’aria. In questa città la<br />

gente mangia e ride. Si tocca.<br />

Domenica sono andata a comprarmi <strong>dei</strong> fiori. Davanti a me c’era un signore, a occhio<br />

i settanta erano passati da un pezzo. Le dita sorde e grassocce della fioraia<br />

litigavano con le spine e il nastro delle rose.<br />

«Lo mette il biglietto?»<br />

«Che?»<br />

«Lo scrive il biglietto?»<br />

«Ma… So’ quarantacinqu’anni de matrimonio. Le parole l’amo già mischiate tutte.»<br />

«Allora niente. Vado dietro a finirle la confezione.»<br />

Siamo rimasti in silenzio un paio di mazzi di fiori, poi il genio: «Signorì, sia brava,<br />

mettemo anche er bietto. Passi qua la penna che je damo na’ rimestata!»<br />

Questa è la Roma che ho scelto io.<br />

49


Casa Maccapani starebbe bene nell’inferno di Dante se ci fosse il girone <strong>dei</strong> rifatti.<br />

Al terzo matrimonio, dopo un notaio e un latitante “re del mattone”, Lucrezia Maccapani<br />

ha scelto di unire l’utile al dilettevole sposando un chirurgo plastico. Potrebbe<br />

avere dai trenta ai quarantacinque anni, e quasi certamente li ha, tutti e<br />

quindici, in una tasca interna delle tette, dove il marito infila la parte crescente di<br />

ogni tiratina. Pensavo che anche per la Maccapani valesse la teoria “Valentino the<br />

Last Emperor”: dopo ogni lifting (rigorosamente non dichiarato) del maestro della<br />

moda, spunta un pechinese nuovo nel suo attico parigino. Ma Ugolino e Ugonotto<br />

non si vedono a Palazzo Maccapani da mesi. La signora dice di averli mandati in<br />

una Spa per cani. Erano stressati. Ci avrà attaccato due maniglie trasformandoli<br />

in borse da viaggio.<br />

Le sto cucendo un abito per la serata inaugurale del Festival del Cinema. È la<br />

terza volta che le strizzo le tette in questo trionfo di lurex.<br />

«Nina cara, che ti devo dire, dimagrisco a vista d’occhio. Ho la stessa silhouette<br />

di quando avevo vent’anni.»<br />

«Letizia, cosa mi dice mai! Lei non ha vent’anni?»<br />

«Tesoro no! Avrò più o meno la tua età!»<br />

Memo: ricordarsi uscendo di prendere il biglietto da visita del Maccapani chirurgo.<br />

Mia nonna era una sarta, vederla cucire mi dava l’idea che tutto potesse essere<br />

sistemato.<br />

Mi diceva: «Se sei brava il rammendo non si vede, sei tu che scegli a chi mostrarlo.<br />

Tutti abbiamo qualche punto qua e là, e non solo sui vestiti.» Rammendava la sua<br />

vita con la stessa cura con cui cuciva gli abiti. Aveva perso un figlio e un marito,<br />

eppure nessuno sapeva dove la sua vita si fosse strappata.<br />

Per questo ho scelto questo mestiere. Per aggiustare tutto il possibile. Per vestire<br />

le persone e coprire le cuciture delle loro vite.<br />

«Gioia, sei sovrappensiero?»<br />

«No, no signora. Un altro punto e abbiamo finito» fino alla prossima liposuzione.<br />

3<br />

NinatipregopuoiandaretipregoaprendereBartolomeoall’asilotipregocheiosonobloccataalcircolotipregotipregoAsianonpuò.<br />

Sveva ha due ottimi polmoni, i messaggi che regala alla mia segreteria telefonica<br />

sono sempre composti da un’unica lunghissima parola e, se non altro, molto educati.<br />

L’asilo è di strada.<br />

«È la mamma del piccolo?»<br />

Nel caso sarei la terza.<br />

«No. Un’amica.»<br />

«Ce l’ha la delega?»<br />

Mostro diligentemente l’sms che Asia mi ha memorizzato sul telefono, il mio certificato<br />

da ausiliaria della maternità.<br />

«Nina, ce l’hai il gelato?»<br />

50


La manina appiccicosa di Bartolomeo si incolla alla mia giacca.<br />

«Amore, adesso lo prendiamo, fammi finire di parlare con la maestra.»<br />

«Coordinatrice didattica.»<br />

Questi occhialini anni Trenta celano un’appassionata delle gerarchie. Nascondo<br />

dietro a tutti i miei denti il disgusto per i collant color carne che indossa.<br />

«Possiamo andare?»<br />

«Ancora una cosa. Potrebbe dare ai genitori questo avviso? Dovrei vederli con<br />

una certa urgenza. Madre e padre possibilmente.»<br />

«Il padre di Bartolomeo vive a Londra.»<br />

«Ma io c’ho due mamme. Anche!»<br />

«Sì, amore. Infatti verranno loro a parlare con la signora.»<br />

«Signorina.»<br />

«Con la signorina coordinatrice didattica. Ma è successo qualcosa?»<br />

«Non sarei autorizzata a parlarne con lei. Ma è una cosa alquanto bizzarra, in effetti.<br />

E poi al momento lei fa le veci della figura genitoriale. Bartolomeo, vai un momento<br />

nella sala ricreativa “colori del mare”, vuoi?»<br />

«Bartolo vai, io finisco qui e arrivo. Poi doppio cioccolato.»<br />

La sua manina si stacca da me come una striscia di ceretta.<br />

«Tripolo!»<br />

«Triplo. Aggiudicato!»<br />

Mentre saltella nel suo cubo blu pieno di giocattoli, realizzo che potrei passare la<br />

vita intera ad accordarmi con esseri umani che hanno meno di sei anni. Sono una<br />

diplomatica <strong>dei</strong> denti da latte.<br />

«Vede signorina. O signora?»<br />

«È uguale.»<br />

Leggo negli occhi della signorina coordinatrice didattica una scossa di terremoto.<br />

Direi secondo grado della scala Mercalli.<br />

«Come preferisce. Signora. Il fatto è che abbiamo un problema con l’espressione<br />

articolata per immagini del bambino.»<br />

«I… disegni?»<br />

«Esattamente.»<br />

«Che tipo di problema?»<br />

«Vengo al punto. Non delinea con sufficiente coscienza la rappresentazione grafica<br />

della… come dire… mascolinità. Mi capisce?»<br />

«Non proprio. Ha qualcosa da mostrarmi per chiarire il concetto?»<br />

Apre la cartellina color topo che usa come scudo da quando sono arrivata, e mi<br />

passa un foglio da disegno.<br />

«Abbiamo chiesto di rappresentare il concetto di Festività Natalizia. Questa è l’elaborazione<br />

di Bartolomeo.»<br />

Ecco. Babbo Natale ha le tette. Oggi andiamo alla grande.<br />

In questa casa ci sono due mamme, un bambino di cinque anni e un padre gay<br />

che vive a Londra e viene a trovarci una volta al mese.<br />

Io nella mia vita ho amato un uomo solo che si fissava le scarpe mentre piangevo,<br />

urlavo, e facevo le valigie per andare lontano da lui. Ogni volta che giro l’angolo,<br />

51


spero di incontrare Quello Giusto. In questo collage di cuori speciali ci sto benissimo.<br />

Potrei imbottigliare l’amore che c’è tra questi muri e venderlo a un sacco di<br />

famiglie in bianco e nero.<br />

Noi siamo rosa, anche se stasera sta per scattare l’allarme rosso.<br />

Ho messo l’avviso della scuola e il disegno di Bartolomeo nel microonde. Lo<br />

usiamo tutti come svuota tasche. Sveva dice che non va usato per cucinare, perché<br />

rende il cibo radioattivo. Ma non lo butta, lo usa come scalpo del nemico.<br />

La “criatura”, come lo chiama la melodrammatica madre di Sveva, è in cameretta<br />

a disegnare.<br />

Asia entra in casa con le sue tre macchine fotografiche ancora al collo. Conto le<br />

crepe sulla sua faccia. L’ennesimo matrimonio coatto con cigni di ghiaccio a grandezza<br />

naturale e sposo con gli stivali da texano, rigorosamente in vernice bianca.<br />

«Com’era?»<br />

«La torta era la bandiera della Roma.»<br />

«Non oso immaginare le… bomboniere.»<br />

«Con la faccia di Totti e Ilary sopra. Me pare ovvio.»<br />

«Tu zitta che sei della Lazio!»<br />

«Te stai a romanizzà?»<br />

«Un tantino. Senti, ci sarebbe una cosa… dalla scuola di Bartolomeo.»<br />

Asia sforna il richiamo e il disegno. Le macchine fotografiche le penzolano ancora<br />

dal collo, dovevo aspettare che si cambiasse, ora passerà la serata con venti chili<br />

di obiettivi addosso. La mutazione in Godzilla è quasi ultimata. Manca solo l’arrivo<br />

di Sveva.<br />

«Non ti vuoi levare quella roba di dosso prima?»<br />

È già in modalità screensaver. Potrei lanciare un fumogeno in mezzo alla cucina<br />

senza farle fare una piega.<br />

«Nina, ma a te pare una cosa grave? È solo un disegno. C’è bisogno di convocare<br />

lo stato maggiore? Lo sapevo io che questa scuola era eccessiva. È Sveva che<br />

ha voluto mandarlo con tutti questi nanetti in divisa. Io con questa giacchetta simil<br />

Londra non lo posso vedere!»<br />

«Magari dovreste parlarci. E spiegargli che Babbo Natale è un vecchio ciccione<br />

che sta in Finlandia a mangiare le renne.»<br />

Sorride e rimette i fogli nel forno come se fosse un fascicolo della CIA.<br />

«Vado a fargli il bagno.»<br />

Io metto su l’acqua della pasta e stacco dal gruppo i miei soliti quindici maccheroni.<br />

Amo il cibo, ma sono sempre a dieta. Con le bolle sale in superficie anche il mio<br />

senso di colpa. E se fossero le mie fiabe?<br />

Ogni sera ne racconto una a Bartolomeo. Diciamo, la mia versione della storia.<br />

Piuttosto fedele all’originale in verità. Solo, senza principi azzurri. Nelle mie, Cenerentola<br />

fa la donna delle pulizie, Biancaneve vive con i nani, La Bella addormentata<br />

è narcolettica. Insomma, sono tutte ferme dove sto io, e aspettano.<br />

Quando gli rimbocco le coperte lui mi chiede: «Ma lo troveranno il Principe?» e io<br />

rispondo: «Spero di sì, ma sono felici anche così.»<br />

Memo: sono una persona orribile.<br />

Adoro dormire, ma soffro d’insonnia.<br />

52


Sveva e Asia hanno discusso fino a tardi. La loro camera è accanto alla mia. Sono<br />

dotata da sempre di una specie di super udito. Le sentivo parlare e agitarsi, la ragione<br />

passava dall’una all’altra rimbalzando come in una finale di Wimbledon.<br />

Le ho sempre ammirate per il loro coraggio. Ho sempre pensato che, per aggiungere<br />

una vita a questo caos, devi avere una specie di dono. Bartolomeo mangia<br />

e dorme in una bolla di amore cosmico, poi esce e le sue guanciotte devono attutire<br />

i colpi del mondo a cui ci siamo abituati.<br />

E per quanto possiamo considerarci progressisti, ci siamo abituati tutti al brutto,<br />

con troppa facilità.<br />

4<br />

Un cappottino rosa attraversa la strada di corsa e mi si staccano i pensieri dalla<br />

testa. Mi vibra la tasca.<br />

PASSA AL PARIOLI A RITIRARE I COSTUMI DEL BALLETTO E POI FAI L’AP-<br />

PUNTAMENTO DAI MARCHESI AL POSTO MIO. IL TUO CULO È A PAGINA 12<br />

DI REPUBBLICA.<br />

La vita è una cosa meravigliosa. Dicunt.<br />

A Roma hanno tutti un nome romano.<br />

Io adoro il mio perché ha solo quattro lettere e perché il suo anagramma è “nani”,<br />

che in milanese è una cosa affettuosa con cui gli anziani chiamano i bambini.<br />

La sartina del Parioli si chiama Cencia. Lavora in questo teatro da vent’anni. È la<br />

mamma di tutti. Gli aghi nelle sue mani sembrano grandi e quando cuce canta.<br />

Le mie prime giornate romane le ho passate con lei, a cucire i costumi delle ballerine<br />

di un programma tv. Gli stessi che ora devo portare via. È lei che ha impostato<br />

il mio orologio sul fuso orario romano. Quello che tra un minuto e l’altro ci<br />

infila la vita.<br />

Mi viene incontro. Per abbracciarla mi piego in due.<br />

«Ho provato a dire di non stare a farti passare. Ci potevo mandare un taxi a portarli!»<br />

«Fa niente Cencina.»<br />

«Bella. Sei consumata. Ma mangi?»<br />

«Sì. Sì. Pure troppo.»<br />

«Non mi pare proprio.»<br />

Memo: passare dalla Cencia ogni volta che mi sento in colpa per aver ingoiato un<br />

piatto di tonnarelli cacio e pepe senza masticare.<br />

«Ni’, ma che è sta storia, che di là stanno a dì che sei su Repubblica?»<br />

«No! Caz… No!»<br />

«Ma che davero?»<br />

«Ma no. No. Niente Cencia. Ora vado che sono di corsa!»<br />

«Ciao amore. Non li sgualcire! E mangia!»<br />

Il sedere su Repubblica non lo voglio vedere.<br />

Il sacchetto con i costumi delle ballerine continua a impigliarsi nel mio cappotto di<br />

finto pelo. A ogni strattone prego che le perline che abbiamo attaccato, una a una,<br />

reggano il loro primo giro in Vespa. Costanza le passerà tutte tra le dita con la pre-<br />

53


cisione maniacale di un serial killer. CSI Sartoria.<br />

Dovrà strapparmi questi costumi dalle mani, come sempre. Mi attacco ossessivamente<br />

a ogni vestito, ogni orlo, ogni bottone che uso. Matteo dice che sono il Dr.<br />

Frankenstein dell’ago e del filo. Quando lavoro fino a tardi, spunta dal buio urlando<br />

SI PUO’ FFAAREEE.<br />

Spesso prendo i lavori che nessuno in showroom vuole fare, mi metto nell’angolo<br />

con Gilda, il mio manichino, e inizio le mie guerre con i “casi difficili”. Provo <strong>dei</strong><br />

sentimenti per tutti gli abiti a cui lavoro, inizio e non riesco più a staccarmene. Potessi,<br />

vivrei in un hangar pieno di manichini con tutti gli abiti che ho fatto, anche<br />

quelli a cui ho solo attaccato un bottone.<br />

«Un cappuccio e un cornetto.»<br />

Mi sono rassegnata. La brioche a Roma non esiste.<br />

Il tizio accanto a me sfoglia Repubblica. Mi giro di scatto per non guardare. Il cornetto<br />

mi esplode in mano. Ho appena rallentato la mia pausa caffè del 300%.<br />

Entro in casa <strong>dei</strong> Marchesi con le mani che sanno di marmellata e sapone<br />

“oceano”. Immagino gli omini del Carrefour che chiedono asilo sulle barche di Greenpeace<br />

per imbottigliare la schiuma di mare da mettere nei loro saponi da 0.99€.<br />

L’ennesimo attico romano, il soffitto alto dove litigano gli affreschi di tre correnti<br />

artistiche differenti, qua e là un mezzobusto di qualche filosofo, che a Roma la diplomazia<br />

non è mai troppa, e tende di broccato.<br />

Memo: pagare il riscatto e liberare la sobrietà <strong>dei</strong> ricchi romani.<br />

Mi viene incontro una biondina tutta occhi.<br />

«Costanza! Che piacere!»<br />

«Sono Nina, lavoro con Costanza. Purtroppo ha avuto un imprevisto. Ha mandato<br />

me.»<br />

«Lei è quella con il sedere sulla bara a pagina 12 di Repubblica?»<br />

Le labbra di Tuttaocchi sono sigillate. Chi parla?<br />

«Dico, è lei o no?»<br />

Dubito sia ventriloqua. Mi giro pronta a rispondere al mezzobusto di Marco Aurelio.<br />

Una donna esile, con il collo da giraffa segnato da un filo di perle, sta guardando<br />

fuori dalla finestra dandomi le spalle.<br />

«Non credo, signora.»<br />

«Matilde, vogliamo affidare il tuo abito da sposa a una che non riconosce il suo<br />

stesso sedere?»<br />

«Lo riconosco piuttosto bene, in verità. Andiamo d’accordo. Certo, come tutte le<br />

coppie che si rispettino, litighiamo un pochino quando gli chiedo se sono ingrassata<br />

e lui non risponde. Ma capita, no?»<br />

Abito da sposa.<br />

«Vieni Nina, posso darti del tu? Ti faccio vedere le foto che ho preso dai giornali.<br />

Nonna, tu vieni?»<br />

Abito da sposa.<br />

«Non credo, Matilde. Andate avanti voi.»<br />

Abito da sposa.<br />

«Gina, sta dimenticando la borsa. Le misure le prende a spanne?»<br />

54


Abito da sposa.<br />

«Nina, mi chiamo… Nina» il sangue raggiunge finalmente il mio cervello. «Chiedo<br />

scusa, ma deve esserci un errore, io non faccio abiti da sposa.»<br />

«Ma Costanza farà il mio abito da sposa, siamo in parola da mesi!»<br />

Tuttaocchi mi dispiace, se potessi ti abbraccerei per non guardare la tua faccina<br />

da cammeo trasfigurare in questa smorfia di dolore. Ma non ho tempo. Devo uscire<br />

da qui.<br />

«L’abbiamo anche già pagato, a dire il vero. Cara Gina.»<br />

«…Nina» dico con un filo di voce mentre raccolgo borsa cappotto di pelo e sacchettone<br />

contenente le micro mutande in perline delle ballerine del Parioli.<br />

Poi chiudo gli occhi. E sono già seduta sulla Vespa con Costanza che mi vibra<br />

nella tasca. Resto immobile, infilata in una strada chiusa con le gambe rigide e il<br />

casco slacciato.<br />

Ho fatto in una notte l’abito di mio padre per il funerale di mamma. Tutto quello<br />

che avevo da dire a quell’uomo improvvisamente vecchio, piccolo e pentito, l’ho<br />

cucito in quel vestito. Nella tasca interna della giacca ho sigillato il mio sogno di<br />

bambina: camminare verso l’altare aggrappata al suo braccio, vederlo piangere<br />

con la coda dell’occhio e incontrare lo sguardo di mia madre che ride e piange<br />

come si fa nei giorni veramente felici.<br />

Io non faccio abiti da sposa. Non li guardo nelle vetrine, abbasso gli occhi ai matrimoni<br />

delle mie amiche, e non dirò sì davanti a Dio. Dio ha preso mia madre. E<br />

se mi vede da lassù, di certo non mi vedrà vestita di bianco.<br />

Non sopporto le complicazioni, cambio canale quando la gente litiga in tv o quando<br />

le cose per il protagonista della storia si mettono male.<br />

Costanza continua a vibrare nella mia tasca e non c’è nessun telecomando che<br />

possa salvarmi da questa giornata.<br />

«Confido che al nostro prossimo appuntamento non agirà da perfetta squilibrata.»<br />

La voce pacata di Collodagiraffa gira nella mia testa come un mantra. Non si è<br />

nemmeno voltata. Sottile, affusolata e immobile, con gli occhi fissi sul chiasso romano,<br />

mentre una povera sudamericana, vestita come la governante in un giallo<br />

di Agatha Christie, mi apre la porta.<br />

5<br />

«Fammi capire, ci hai sbattuto la testa oltre al culo su quella bara?»<br />

«Era per un abito da sposa. Io non li faccio.»<br />

«Nina, te lo ripeto l’ultima volta, piano, così capisci bene: L O D E V I F A R E O T<br />

E N E V A I!»<br />

Esco dal suo ufficio senza aprire bocca, lenta come le sue parole.<br />

Matteo è nel mio angolo, accarezza il raso da ragazza per bene che avvolge Gilda.<br />

Mi rimetto il rossetto con l’automatismo di un cyborg.<br />

«Cosa facciamo? Ci votiamo al silenzio sigillando le labbra con il gloss di Chanel?»<br />

Ho gli occhi grandi. Quando mi viene da piangere mi si allargano come se Dio<br />

usasse lo zoom.<br />

55


«Dai, finisci le tue cose qui, che stasera ti porto fuori.»<br />

Mi siedo, appoggio la mia scatola <strong>dei</strong> bottoni sulle ginocchia e li mescolo con le<br />

dita.<br />

«Passo da te alle nove.»<br />

Metto i bottoni rosa in fila sul legno lucido del mio tavolo da lavoro.<br />

«Mettiti bene che facciamo serata. Carciofi alla Giudia da Gigetto, mi voglio rovinare.<br />

Stasera mangio anche il pane!»<br />

Gli occhi mi tornano a grandezza naturale. Matteo mi bacia sulla fronte e scompare<br />

tra il rumore della macchina da cucire e il clacson del furgone <strong>dei</strong> tessuti. Gli suona<br />

da dieci minuti, fermo sul passo carraio, per principio, mica perché non c’è parcheggio.<br />

Esco per ultima, spengo le luci, respiro la stoffa. Carico Gilda sul taxi insieme alla<br />

scatola con le mie cose. Resta il mio post-it sulla scrivania di Costanza.<br />

ERA PER UN ABITO DA SPOSA. IO NON LI FACCIO.<br />

«Ce lo facciamo un tiramisù in due?»<br />

«Ma hai già mangiato il pane…»<br />

«Fanculo! Due tiramisù, grazie.»<br />

Le dita di Matteo tamburellano sul tavolo e le briciole saltano, isteriche come lui.<br />

«Lunedì torni in ufficio, le parli, ti fai un gin tonic, e vai a coprire di tulle quella culona<br />

romana!»<br />

«Veramente è magra come un chiodo.»<br />

«Meglio ancora! Meno stoffa.»<br />

«Era per un abito da sposa. Io non li faccio.»<br />

«Se me lo ripeti un’altra volta mi faccio portare un barile pieno di cioccolata, mi ci<br />

butto dentro, tipo Houdini, e ci annego dentro grazie ai sensi di colpa che non mi<br />

permetteranno mai di finirla.»<br />

«Però è così.»<br />

«Nella tua testa, e credimi sono certo che lì dentro, stipata tra un’introvabile etero<br />

in calzamaglia blu e cavallo bianco e la pace nel mondo, avrà anche un inattaccabile<br />

filo logico. Ma qui fuori è una puttanata!»<br />

Infilo il mio cucchiaio nel suo piatto e spappolo il suo dolce.<br />

«Credi che non lo mangerò? Solo per quella mia fobia da cibo mischiato?»<br />

Nessuno <strong>dei</strong> due abbassa lo sguardo. È la versione schizofrenica di un duello alla<br />

Sergio Leone.<br />

«Se lo mangio, tu fai il vestito la sposa.»<br />

«Bene. Mangia.»<br />

La mano gli trema, solleva con la forchetta un atomo di torta e cerca di avvicinarlo<br />

alla bocca. Non ce la farà mai. Misura i tramezzini con il righello, leva la sottiletta<br />

che esce dall’area <strong>dei</strong> toast, l’unico gelato che mangia è il Mottarello. La geometria<br />

è il paracadute della sua vita.<br />

La forchetta è a un centimetro dalla sua bocca. Chiusa.<br />

«Ti odio!» lascia ricadere la forchetta nel piatto.<br />

Sono brava nel mio lavoro. Ho lavorato per anni nella sartoria di un teatro mila-<br />

56


nese, quando vivevo in una vecchia casa di ringhiera e mi prendevo il lusso di non<br />

fare programmi.<br />

Poi mi è stato presentato il conto di qualcosa che pensavo mi spettasse di diritto:<br />

mia madre è morta. Ho fatto le valigie e sono partita per Roma. Faccio abiti. Non<br />

ho mai pensato di fare altro.<br />

Entro lunedì è bene che mi faccia venire un’idea, però.<br />

Sono alta con i tacchi e magra con la gonna giusta, dubito di riuscire a riciclarmi<br />

come top model. Magari un call center. No. Un call center no.<br />

Tra Hollywood e Centocelle c’è tutto un mondo di opportunità. Tanto per cominciare<br />

domani cambio colore.<br />

«Houston, ci sei? Cosa bevi?»<br />

«Una piccola chiara.»<br />

«Due gin tonic, grazie.»<br />

«Ma allora perché me lo chiedi?»<br />

«Credo nei miracoli. A ore dodici, polo blu, faccia da inglesotto.»<br />

Mi giro a caso.<br />

«Nina! Ore dodici!»<br />

Riprovo. Mezzo giro in più.<br />

«Santo Dio! Ma l’Afghanistan lo bombardavi tu?»<br />

Mi gira la faccia ignorando l’esistenza del collo e delle sue leggi motorie.<br />

«Carino… Ma non è roba tua?»<br />

«Uno che mette la maglia della salute sotto la polo?»<br />

L’inglesotto, intenerito dal mio sguardo o più realisticamente impietosito dal fatto<br />

che Matteo mi tenga ancora la testa e me la giri come se fossi Barbie Occhio di<br />

Vetro, alza il bicchiere e sorride.<br />

«Dai, vai!»<br />

Due strattoni dopo sono di fronte al principe Henry del Contestaccio.<br />

«…Ciao» credo. La musica è assordante.<br />

«Ciao» dico. E ho finito gli argomenti.<br />

«Il tuo amico non si unisce a noi?»<br />

Questa la sento benissimo.<br />

«…Sì, certo. È solo un po’ timido.»<br />

Mi si incolla all’orecchio.<br />

«Gli… facilito la cosa» e va a ripescare Matteo al bar. Io vado a cercare il mio orgoglio<br />

di donna nel fondo del lavandino del bagno e decido che domani mi faccio<br />

nera. Il rosso non va.<br />

Memo: la maglia della salute non è più un’esclusiva etero.<br />

6<br />

Sono stata praticamente di tutti i colori: rossa, nocciola, cannella, ma bionda mai.<br />

Non sono io.<br />

La tinta nera cola nel lavandino e spero che non lasci segni, o Sveva me li farà levare<br />

con la lingua. La frangia mi va negli occhi ma non la taglio. I capelli ormai mi<br />

arrivano sotto le spalle. Mi piace il nero, gli occhi sembrano più blu e meno grandi.<br />

57


Solo una femmina può formulare un pensiero del genere.<br />

«Bella nera! Mi piace!»<br />

Asia entra in bagno con Bartolomeo e le paperelle. Il mio tempo è scaduto.<br />

«Biancaneve!» dice Bartolomeo puntandomi contro il ditino cicciotto.<br />

Poteva andarmi peggio.<br />

Esco dal bagno e mi metto sul terrazzino sperando che i capelli si asciughino, che<br />

il nero non evapori e che nella pagina degli annunci di lavoro che ho strappato ci<br />

sia qualcosa che si possa fare con un ago.<br />

Sveva penzola da una specie di cesto indiano appeso molto fiduciosamente con<br />

una corda al soffitto.<br />

«Sicura che ti regge?»<br />

«Se mi libero <strong>dei</strong> pensieri pesanti, sì.»<br />

Memo: mai sedersi nel cesto indiano.<br />

Oggi sembra estate. Roma è così, mischia le stagioni e a differenza della mia vecchia<br />

Milano sa usare il sole. Chiudo gli occhi e respiro il tempo.<br />

Asia e Bartolomeo riemergono dal set di Waterworld che hanno allestito in bagno.<br />

«Ni’, ma perché non lavori con me questa settimana? Ho quattro servizi per Signorini<br />

e posso infilarti come stylist.»<br />

«Assolutamente sì!» risponde Sveva.<br />

«Dite? No perché qui secondo me trovo qualcosa, così non vi rompo.»<br />

«Ah be’, se vuoi riprovare il call center…»<br />

«Sono tutta tua!»<br />

La mia esperienza al call center è una delle leggende metropolitane preferite dai<br />

miei amici. La usano per rimorchiare, alle cene con i parenti, ai colloqui di lavoro.<br />

È un evergreen.<br />

Prima di trovare lavoro all’Elfo, i teatri milanesi e le tv mi usavano solo part time,<br />

e per arrivare a fine mese serviva un altro lavoro. Dovevo vendere polizze assicurative.<br />

Una cosa per gente in difficoltà. Sei povero? No problem, accettiamo pagamenti<br />

in debiti. Odiavo il meccanismo, il posto, e il microfonino in stile “Non è la<br />

rai”, in cui dovevo infilare tutte quelle bugie.<br />

La mia prima telefonata è stata alla famiglia Marchioni.<br />

Luisa Marchioni è vedova, ha tre figli tra i sette e i quindici anni. Lavora part time<br />

per un’impresa di pulizie. Invece di venderle la polizza/debito le faccio di tasca<br />

mia un bonifico di trecento euro per mandare i figli in gita con la scuola.<br />

In due settimane al call center non vendo nulla ma faccio bonifici ai potenziali<br />

clienti per un totale di mille euro. Dopo Luisa Marchioni mando duecentocinquanta<br />

euro a Nilla Verecondi, che deve curarsi una brutta infezione ai polmoni e ha ottant’anni<br />

ma è single, nessuno la può aiutare; quattrocento euro a una ragazza<br />

madre della provincia di Bari; e do cinquanta euro a una mia collega divorziata<br />

con due figli per comprare il costume di carnevale al piccolo Duccio.<br />

Sono stata salvata da una serpe che ascoltava le mie telefonate e mi ha fatto licenziare.<br />

La Marchioni mi manda ancora gli auguri di Natale. Nilla Verecondi è morta l’estate<br />

scorsa. Ovviamente le ho mandato <strong>dei</strong> fiori.<br />

58


7<br />

Quanto poco so del mondo.<br />

Le foto che Asia scatta per Signorini sono <strong>dei</strong> finti scatti rubati. Abbiamo appuntamento<br />

a casa di Miss Italia alle nove del mattino. Io la aiuto a scegliere i vestiti, le<br />

do un paio di punti così la camicia cade meglio, le stringo i jeans e la passo alla<br />

truccatrice che la dipinge. E finalmente la riconosco.<br />

Poi scendiamo, Asia si apposta come concordato con la miss fuori dal portone e<br />

scatta.<br />

Il titolo dell’articolo sarà una cosa tipo “Foto rubate. Ecco una Miss acqua e sapone”.<br />

Mentre la guardo, penso che se facessero una cosa del genere a me, senza ritocco,<br />

la domenica mattina quando porto Bartolomeo al parco così le ragazze possono<br />

dormire un po’ di più, i lettori chiederebbero gli occhiali 3D pensando di<br />

vedere l’immagine sfuocata.<br />

Rispondo a Matteo una volta ogni cinque, altrimenti minaccia di mandarmi un’ambulanza<br />

a casa. Dice che Costanza non ha toccato il post-it, che oggi hanno un<br />

appuntamento con Collodagiraffa e Tuttaocchi. Dice che gliela pago. Prima o poi.<br />

Non ero a casa alle quattro del pomeriggio da anni. Le ragazze sono fuori e non<br />

devo prendere Bartolomeo. Mi metto sul terrazzo con il computer sulle ginocchia.<br />

Vediamo cosa fanno quelli che hanno il tempo. Ho trenta mail da leggere. Venti<br />

sono di mio padre. Do un’occhiata alle dieci che leggerò veramente. Costanza,<br />

senza oggetto. Concita di Gregorio: Grazie per aver firmato la nostra petizione.<br />

Matteo: Ti ammazzo. Oracolo.com: Trova la tua anima tra gli astri. Matteo: Ti ammazzo<br />

davvero. Banca Popolare di Milano: Estratto conto on line. Matteo: Oh! Sei<br />

morta? Sveva: Bollette del gas o ci tagliano i fili. Iloveshopping.it: Le tue Jimmy<br />

Choo al 30% in meno. Asia: Ho scordato le bollette non dirlo a S.<br />

Cancello la mail dove troneggiano le Jimmy Choo che ho preso il mese scorso,<br />

chiaramente a prezzo pieno, facendo i debiti.<br />

Quelli che hanno il tempo lo sprecano. Mi unisco al gruppo.<br />

Rubo un'altra confezione di Plasmon dalla credenza. Per smettere mi ci vorrà un<br />

gruppo di sostegno tipo reduci del Vietnam.<br />

Sul tavolo c’è una busta per me. La mia prima lettera. Scritta a mano. Su una carta<br />

presumibilmente rubata dal cassetto della Principessa Sissi, imperatrice d’Austria.<br />

Gentile Signorina Cerruti,<br />

ho avuto il suo recapito da Costanza Cascavilla, che mi ha assicurata di essere<br />

autorizzata a divulgarlo a chiunque.<br />

Mi scuso per il poco preavviso, La invito a raggiungermi mercoledì alle ore 11 alla<br />

Sala da tè Babington’s in PIAZZA DI SPAGNA 23.<br />

Le spiegherò il motivo del nostro colloquio vis à vis.<br />

RingraziandoLa anticipatamente,<br />

Violante Marchesi<br />

Collodagiraffa. Domani alle undici. Lo scrivo su un post-it, come fossi in trance, e<br />

59


lo incollo al pc.<br />

Matteo si è attaccato al citofono dieci minuti fa. Apro per evitare che i due settantenni<br />

della portineria lo finiscano a colpi di tosse. Lo sento ansimare sulle scale. Mi sporgo<br />

per vederlo fare stretching tra il terzo e il quarto piano. Arriva al sesto in dieci minuti<br />

netti.<br />

«Ascensore rotto!» dice usando solo le consonanti.<br />

«No. C’è il cartello ma funziona. Si dimenticano di levarlo.»<br />

Sento l’odore della paura.<br />

«Come mai sei passato?»<br />

«Per ammazzarti. Ma non ne ho la forza.»<br />

«Che dice Costanza?»<br />

«Niente.»<br />

«Meglio.»<br />

«E insisti un po’! Torturami! Vabbe’, ho capito. Il tuo post-it non l’ha nemmeno staccato<br />

dalla scrivania. Lo ignora. Noi passiamo e lo veneriamo. Tipo una moderna Sindone.<br />

Siamo stati dai Marchesi oggi. Madonna com’è secca la sposina. Potevi farle l’abito<br />

da sposa usando un pacchetto di kleenex senza fare tutto ’sto casino! La matriarca<br />

ha fatto come se niente fosse. Costanza prendeva le misure e lei “a questo pensiamo<br />

la prossima volta con Gina… Quello lo vediamo poi con… Gina.»<br />

Rido. Ma il mio stomaco fa bungee jumping. Prendo la lettera e la passo a Matteo.<br />

«Da Babington’s! Fanno delle pastarelle da urlo!»<br />

«Ci vado per quello.»<br />

«Ci vai?»<br />

«Sì.»<br />

«Ah be’, certo! Non fa una… piega» intanto fa il mimo suicida. Questa volta ride<br />

anche il mio stomaco.<br />

60


Marcello ha smesso di vivere nel 1970, ora semplicemente esiste.<br />

Un'icona del cinema italiano che per timore del lento affievolirsi della luce<br />

che ha scaldato il suo successo per quasi vent'anni ha scelto di uscire di<br />

scena. Funerali di stato e lacrime da cinema salutano il passaggio di una<br />

bara vuota.<br />

Il grande attore porta il suo segreto lontano dal set e cerca di invecchiare<br />

serenamente nella sua nuova vita, amaro sequel della sua morte. Una<br />

storia che nessuno vuole raccontare, un personaggio che nessuno può<br />

interpretare, una pellicola che nessuno vuole girare lo catapulteranno, insieme<br />

al suo orgoglio e alla sua insicurezza, nel panorama del cinema<br />

chiassoso e improvvisato di un'Italia banale e frenetica, che sembra non<br />

avere tempo per la sua resurrezione.<br />

Giulio G. D'Antona debutta con un romanzo che ha il sapore del vecchio<br />

cinema. Racconta il consumarsi di un talento unico e spaventato, tra ipocondria<br />

e compulsione, che torna a reclamare il suo posto sulla scena.<br />

Una storia unica e commovente che segue con la delicatezza di un dolly<br />

la parabola discendente del viale del tramonto.<br />

Giulio G. D'Antona è nato a Milano nel 1984, dove vive e lavora come<br />

copywriter, pubblicista e illustratore. Ha pubblicato racconti sulla rivista<br />

Out Of The Blue e sull'antologia La Pagina Bianca, edita da Giulio Perrone.<br />

Scrive sul blog www.grandefreddo.wordpress.com.<br />

62


Ogni giorno che Dio manda in terra,<br />

Giulio G. D’Antona.<br />

Parte Prima<br />

AZIONE<br />

Il muscolo corrugatore destro agisce in perfetta armonia con il muscolo oculare<br />

suo compagno, mentre il sinistro scende volubile a incrinare leggermente il temporale,<br />

che si ritira lasciando che siano altri a compiere il lavoro. Una linea immaginaria,<br />

che va dall'estremità del sopracciglio sinistro al centro della fronte, disegna<br />

l'inalienabile solco espressivo, noto alle riviste come agli schermi, che si infrange<br />

in un fuoco artificiale di piccole pieghe al bordo dell'occhio aperto, ma non spalancato.<br />

È la curva sinuosa, che sembra fatta apposta per incoronare l'occhio destro,<br />

a prendersi tutti i meriti. Due parti perfettamente complementari.<br />

Se immaginaste di staccare dall'adipe sopracciglio e palpebra per incollarli tra loro,<br />

trovereste le loro curve armoniosamente identiche, la superiore solo leggermente<br />

più arcuata dell'inferiore per concedere il miracolo di un incastro perfetto.<br />

Il procero s’increspa leggermente sotto la spinta <strong>dei</strong> muscoli del setto, sfiorando i<br />

frontali che ne subiscono la delicata prepotenza. La parte trasversa del muscolo<br />

nasale dialoga alla perfezione con la sua parte alare, allargando di qualche millimetro<br />

la narice destra e conferendo una pennellata di colore all'aspetto generale<br />

dell'espressione. Mai volgare, un signorile stupore si dipinge sornione tra il setto<br />

e l'incisivo del labbro superiore. I denti rimangono nascosti.<br />

I quadrati del labbro trascinano con delicatezza l'estremità sinistra della bocca, a<br />

sollevare solo di poco il pesante orecchio, senza curvare, con naturalezza. Il buccinatore<br />

è inerte, incerto se intervenire o meno, resta preparato alla chiamata del<br />

triangolare inferiore. Non un tremore, ma un delicato corrugarsi non visto.<br />

Gli occhi sono tutta un'altra storia. Le pupille, sveglie e vive, dilatate al punto giusto,<br />

segnano il posto di frontiera per la luce naturale proveniente da sinistra. I bastoncelli<br />

riflettono quasi tutto, regalando all'iride una scura caparbietà mediterranea. I<br />

bulbi oculari, di un bianco naturalmente venato da pochi capillari, che altro non<br />

fanno che accennare colore, risultano armonici nel taglio mandorlato. Il muscolo<br />

orbicolare sinistro, contratto sia inferiormente che superiormente, dà l'abbrivio al<br />

destro che, con diseguale armonia, contrasta la staticità cerea del sollevatore del<br />

labbro superiore.<br />

Il mentale è solcato. Lo sternocleidomastoideo fa coppia gemella con i muscoli<br />

della nuca per conferire una postura retta, che componga un angolo di poco meno<br />

di novanta gradi tra il mento e il collo, per non risultare né troppo austero né troppo<br />

remissivo. Un fiero orgoglio maschile che non si imponga, che esista semplicemente,<br />

con signorilità, eleganza e naturalezza.<br />

Chiunque avrebbe riconosciuto quell'espressione. Era la fotografia del successo,<br />

il manifesto della sensualità, il sogno proibito dello schermo. Ma questo in altri<br />

tempi e in un altro luogo. Ora, guardandosi allo specchio, si sentiva semplicemente<br />

vecchio.<br />

63


1<br />

16 Giugno 2007<br />

Marcello Merkele aveva smesso di esistere nel 1970.<br />

Uscì di casa che l'isola sembrava ancora un set dismesso. Non presto, ma molto<br />

prima che cominciasse a popolarsi di turisti. Le saracinesche, poche e ben evidenti,<br />

erano ancora abbassate, la strada saliva appena prima di tuffarsi decisa verso la scogliera.<br />

E il mare.<br />

Marcello ci provava a tenere la schiena dritta e il mento alzato, come gli avevano insegnato,<br />

ma da un po' di anni era diventata dura. Aveva una volontà di ferro ma<br />

un'anca di polistirolo, l'unica soluzione era camminare molto lentamente. Non che<br />

avesse fretta di arrivare da nessuna parte.<br />

Questo sole del cazzo rimbalza da tutte le parti, con gli occhiali scuri è anche peggio.<br />

Tanto vale strizzare gli occhi. Le strade sono tutte strette e solo una è asfaltata, per<br />

il resto brecciolino. Che fa scivolare.<br />

Vent'anni prima avrebbe pagato per un posto come questo dove venire a riposare le<br />

ossa, ora a malapena aveva ossa da riposare e si trascinava lungo le giornate tutte<br />

uguali con un'idea fissa. Fortunatamente era troppo vigliacco per considerarla davvero.<br />

Ogni giorno smetteva di fumare, verso le dieci di sera, ma la mattina se ne dimenticava,<br />

per cui estrasse dal taschino della giacca il pacchetto morbido. Si fermò su uno<br />

slargo della strada che porta in centro, accese una sigaretta guardando i cardi che<br />

da soli svettavano sui cespugli di rovi. La prima boccata fa girare la testa a chiunque,<br />

sentì cedere le ginocchia e dovette sedersi.<br />

Guardava per terra. Se negli anni avesse segnato la ghiaia, si sarebbe accorto che<br />

ogni sasso non si era spostato più di qualche centimetro dalla prima volta che aveva<br />

percorso quella strada. In bicicletta. Gli era sembrata una buona idea, ma ben presto<br />

aveva scoperto che la salita non era poi così leggera, quindi l'aveva depositata a far<br />

ruggine sotto la finestra dello studio. Ora andava a piedi.<br />

Finita la sigaretta, gli ci vollero due minuti e sedici secondi per poter riprendere a<br />

camminare. Arrivato in cima al dislivello, non si fermò per guardare il panorama, lo<br />

aveva fatto un paio di volte e aveva scoperto che non faceva altro che insinuargli nel<br />

petto un senso di tristezza di cui non aveva bisogno. Iniziò a scendere. Case bianche<br />

da cartolina, cielo terso e tranquillo, non una macchina, non un suono se non quello<br />

delle onde sulla scogliera. Una desolazione devastante alla quale aveva fatto l'abitudine<br />

a fatica.<br />

Il bar era aperto. Per gli operai che avevano lavorato di notte sull'unica strada asfaltata<br />

che attraversava l'isola e adesso smontavano il turno. Erano in cinque, Marcello<br />

li conosceva tutti di vista. Accennarono un saluto. Lui salutò la barista.<br />

Mentre aspettava che il fondo si depositasse, con la pazienza di chi ha dovuto impararla,<br />

gli venne in mente quanto fosse facile prendere un caffè a Roma. Sulla strada<br />

per andare agli studi. Un gesto rituale, ripetitivo, veloce. Ora ci volevano tra i cinque<br />

minuti e uno e i cinque minuti e sei solo perché il caffè fosse bevibile. Ma la cosa che<br />

lo infastidiva di più era che tutta questa lentezza sembrava volersi adeguare alla sua<br />

età. E se c'era una cosa che non poteva tollerare, era che l'ambiente esterno si per-<br />

64


mettesse di ricordargli quanti anni aveva.<br />

Guardò la barista, una bella donna sulla quarantina, il profilo marcato tipico delle<br />

donne greche, capelli neri, occhi neri, solo un accenno di trucco. Un tempo le<br />

avrebbe sorriso, forse un secolo fa, e lei si sarebbe sciolta come neve al sole.<br />

Tornò a guardare la tazzina.<br />

Gli operai, seduti a un tavolino dietro le sue spalle, non parlavano. Uno di loro leggeva<br />

un quotidiano, gli altri sembravano tutti sul punto di addormentarsi. Quello<br />

con il giornale lo appoggiò al tavolo e lo richiuse con calma, quasi con perizia. Si<br />

alzò, scostò la sedia e venne al bancone.<br />

«Tesseris cafè, parakalò.»<br />

«Duo ogdonta.»<br />

Pagò per tutti, nessuno fece una piega.<br />

«Eukaristò.»<br />

«Kaliméra.»<br />

Tornò al tavolo, batté con le nocche chiuse sul piano accanto a uno <strong>dei</strong> suoi colleghi.<br />

«Aurìo.»<br />

Alcuni accennarono un saluto, uno di loro prese il giornale e cominciò a sfogliarlo.<br />

Con dedizione. Una dedizione soffocante.<br />

Iniziava a fare caldo e Marcello, in camicia e pantaloni di lino, scarpe comode, la<br />

cintura che stringeva sui fianchi e la schiena stanca, si sporse in avanti, prese il<br />

recipiente dello zucchero, di quelli col dosatore, e ne versò una generosa quantità<br />

nella tazzina. Mescolò. Parte del fondo tornò a galla per poi ridepositarsi quasi subito.<br />

«Posso usare il telefono?»<br />

La barista gli passò un cordless. Sorrise, probabilmente quella era l'unica frase<br />

che conosceva in italiano, Marcello la ripeteva quasi tutti i giorni e quasi sempre<br />

alla stessa ora. Il telefono rimase appoggiato al bancone un minuto esatto, tempo<br />

di tastarsi il polso sinistro e contare fino a sessanta. Tutto bene. Prefisso internazionale,<br />

prefisso, numero. Routine, routine, routine.<br />

2<br />

26 Agosto 1962<br />

«Merkele, quali sono le sue aspettative per questa ventisettesima edizione?»<br />

«Dovrei avere delle aspettative? Vedo molta di gente vestita bene, sicuramente il<br />

buffet sarà all'altezza.»<br />

Risate.<br />

«Lei si presenta con Sergio Straniero. Antonino ha avuto una tiepida accoglienza<br />

nelle sale, e la competizione quest'anno è agguerrita. Non ha paura che Venezia<br />

segni l'inizio del declino?»<br />

«Straniero è un genio, oltre che uno <strong>dei</strong> miei più cari amici. E il pubblico non ha<br />

mai influenzato Venezia. Conta quello che pensano qui, non nelle sale.»<br />

65


Brusio.<br />

«Cosa risponde a chi l'ha accusata di aver perso il criterio nella scelta <strong>dei</strong> ruoli?<br />

Gli intellettuali sono rimasti infastiditi dalle sue recenti apparizioni in pellicole comiche.»<br />

«Sono un attore.»<br />

«Questo lo sappiamo, ma non ha paura di perdere il suo pubblico di affezionati, voltandogli<br />

le spalle?»<br />

«Non sono io a voltarle a loro ma loro a me. Essere intellettuali non vuol dire essere<br />

noiosi, consiglierei ai miei affezionati di farsi quattro risate di tanto in tanto.»<br />

«È qui con sua moglie, Merkele?»<br />

«Cosa?»<br />

«È qui con Betta Reisenstein?»<br />

«Mia moglie è impegnata nelle riprese a Saint Tropez. Se vuole chiedermi un appuntamento,<br />

le consiglio di contattarmi in privato, però. In questa sede mi vedo<br />

costretto a declinare.»<br />

Risate, ancora.<br />

«È la sua terza moglie?»<br />

«Come? Non la sento.»<br />

«È la sua terza moglie? Alcuni sostengono che lei fosse già sposato prima di conoscere<br />

Emma Pagani.»<br />

«Nessuno ha domande sul mio film?»<br />

«C'è chi sostiene che non basti più Marcello Merkele a sollevare la qualità di una<br />

pellicola. Dicono che abbia perso lo smalto.»<br />

«È una domanda?»<br />

«Sì.»<br />

«La domanda sarebbe se io ho perso lo smalto, se non mi sento più in grado di<br />

recitare?»<br />

«Possono capitare momenti di scarsa lucidità.»<br />

«Lei ha visto il film?»<br />

«Sì.»<br />

«Come lo ha trovato?»<br />

«Molto divertente, però Straniero ha...»<br />

«Tanto basta, grazie a tutti.»<br />

Brusio, ancora.<br />

«Aspetti, Marcello!»<br />

«…»<br />

«Marcello!»<br />

Si alza, il microfono resta solo.<br />

«Cani schifosi, si riempiono la bocca di stronzate.»<br />

«Tranquillo, lo fanno perché gli metti soggezione.»<br />

«Soggezione un cazzo. Fammi mandare su una bottiglia di Cointreau e una confezione<br />

di paracetamolo. La schiena mi sta uccidendo.»<br />

66


3<br />

16 Giugno 2007<br />

Il televisore avrà avuto almeno dieci anni, a tubo catodico, grande come un armadio,<br />

pesante come un macigno, ma tanto nessuno lo avrebbe spostato. Mentre il<br />

nastro della cassetta girava nascosto dal frontalino del videoregistratore, emetteva<br />

un suono sinistro, un fruscio che per chi era distratto dalle immagini suonava come<br />

un sibilo animalesco. L'audio non era necessario, Marcello conosceva la scena a<br />

memoria.<br />

La stanza era illuminata solo dalla luce intermittente delle immagini. Grigia e orgogliosa<br />

arrivava a baciare la libreria colma di volumi mai aperti, scaffale per scaffale.<br />

Tutti tranne quello più in basso, tenuto in ombra dalla poltrona di pelle<br />

marrone, con i suoi faldoni stropicciati di documenti e articoli di giornale, rilegati<br />

come una reliquia pagana. Odore di ricordi e di carta ingiallita.<br />

Il colore <strong>dei</strong> pantaloni di raso bordeaux a coste del pigiama andava e veniva, così<br />

come quello della vestaglia. Niente calzini, ciabatte chiuse. Nessuno lo aveva mai<br />

visto così, nemmeno Varessa era autorizzata a entrare nello studio dopo le nove<br />

di sera.<br />

Spostò il posacenere sul bracciolo sinistro, spense il mozzicone quando ormai<br />

non c'era più nulla da fumare. Si accarezzò una guancia col dorso della mano, la<br />

barba gli dava ancora fastidio ma ormai era abituato alla ruvidità crespa e bianca<br />

che gli gonfiava la faccia. Cercava di tenerla in ordine, perlomeno. Aveva gli occhi<br />

lucidi ma l'espressione dura, non si commuoveva più, non sentiva più niente nel<br />

petto. Il se stesso dello schermo sorrideva, non era lui la figura derelitta e sfatta<br />

dall'altra parte del vetro.<br />

Si chinò in avanti per prendere il telecomando, avanzamento veloce fino al volto<br />

di Anna Magnani. Il suo sorriso e le occhiaie lo facevano sentire meno solo, come<br />

se avesse avuto una complice da qualche parte che lo capiva, che apparteneva a<br />

entrambi i suoi mondi.<br />

«Non toglietemi nemmeno una delle rughe, ci ho messo tanti anni per averle.»<br />

Retorica. Ma adesso avrebbe voluto saperlo dire lui. Stop. Si alzò.<br />

Una volta spento il televisore, la poca luce sparì del tutto, ma conosceva l'ambiente,<br />

poteva muoversi anche al buio. Riordinò a memoria gli oggetti sulla poltrona,<br />

prese in mano il posacenere e lo svuotò nel cestino accanto alla scrivania.<br />

Strisciando i piedi, raggiunse la porta. Varessa stava già dormendo, dovevano essere<br />

almeno le undici. E in Italia? Un’ora in meno. Tutto bene. Tolse la vestaglia e<br />

l'appese accanto alla testata del letto, si sedette. Non aveva più sonno da molto<br />

tempo, guardò sul comodino e riconobbe la confezione di Roipnol dalla sagoma<br />

familiare, bombata. Decise che era presto. Varessa respirò troppo a fondo per essere<br />

profondamente addormentata.<br />

«Hai fumato?»<br />

«Fumo di continuo.»<br />

«Non dovresti, agàpe.»<br />

«Non dovrei fare un sacco di cose. Non ho per niente sonno.»<br />

67


«Sdraiati e concentrati, il sonno arriva poi.»<br />

Marcello tossì, Varessa sospirò.<br />

«Sono vecchio.»<br />

«Sono vecchia anch'io, ma non lo ripeto di continuo.»<br />

«Non me lo voglio dimenticare.»<br />

«Però così lo ricordi a me.»<br />

Si sdraiò sopra le lenzuola ma tenne gli occhi aperti, lei era sdraiata sul fianco sinistro.<br />

Mise le mani in grembo, poi le spostò sul petto. Pensò di nuovo al Roipnol.<br />

Ancora cinque minuti.<br />

4<br />

18 Giugno 2007<br />

Eduardo Baum, un tempo analista, non si preoccupava di apparire ridicolo in calzoni<br />

corti, canottiera e calze fino al ginocchio. Aveva smesso di indossare i completi<br />

da vent'anni, da quando non ce n'era più nessuna necessità, nessun paziente,<br />

nessun appuntamento. Lo studio di via Armorari era ormai sfitto, e i libri che aveva<br />

contenuto, centinaia, dormicchiavano impolverati in una cantina greca, accanto ai<br />

barili di olive. Non ne sentiva la mancanza, e se capitava di sentirla scendeva nella<br />

cantina, li guardava dalla giusta distanza per coglierli tutti, pescava un'oliva nera<br />

e salata e ritornava verso il mare masticando. Tutto bene, in fondo.<br />

«Merkele.»<br />

«Dottore, sai che non devi chiamarmi così.»<br />

«E tu sai che non sono più un dottore, siamo pari.»<br />

Marcello guardava il mare dal terrazzino del ristorante. Bianco. Il terrazzino, non<br />

il mare, il mare era azzurro intenso e gli metteva una grande tristezza. Ma non<br />

c'era nulla che non gli mettesse tristezza ultimamente, perlomeno il mare sembrava<br />

fare il suo dovere.<br />

«Se non sei più un dottore, dovresti smetterla di analizzarmi.»<br />

«Deformazione professionale, suppongo. Mi appassionano i casi patologici reiterati.»<br />

«E a me appassionano le donne che hanno un quarto <strong>dei</strong> miei anni. Non sempre<br />

si può avere quello che si vuole.»<br />

Girò il bicchiere nella mano, la salsedine lo aveva opacizzato.<br />

«Quante mogli hai avuto?»<br />

«Quattro.»<br />

«Le hai amate tutte?»<br />

«Loro amavano me, ma era facile amarmi. Così com’era impossibile per me innamorarmi.<br />

Mi invaghivo, ma mi stancavo presto.»<br />

«Vuoi parlarmene?»<br />

«No, non voglio parlartene. Sono anni che cerchi di farmi parlare e sono anni che<br />

cerco di dissuaderti.»<br />

«Dovresti smetterla, accettare il fallimento e liberarti una volta per tutte. Ho parlato<br />

68


con tua sorella.»<br />

«Anch'io. Ti ha detto della sceneggiatura?»<br />

«Sì. Non fa per te.»<br />

«lo penso anch'io. E allora perché sono qui a fissare il mare al tramonto come un<br />

vecchio stronzo malinconico?»<br />

«Mi è stato suggerito di smettere di analizzarti. Scelgo di seguire il suggerimento.»<br />

«Vigliacco. Che ore sono?»<br />

«Le otto e mezza.»<br />

«Controllavo che fosse tutto a posto.»<br />

«Hai fatto bene.»<br />

Marcello tossì, una tosse profonda, ancestrale. Dovette inspirare a fondo.<br />

«Vedo il mare a pallini.»<br />

«Sfuocato?»<br />

«No, a pallini. Come il segnale statico della televisione.»<br />

«E i colori?»<br />

«I colori ci sono, ma non sono uniformi.»<br />

«È normale, l'importante è che tu veda i colori. E non sforzare la vista.»<br />

«Perché dovrei? La cosa più distante da vedere su quest'isola è comunque a cento metri<br />

dal mio naso.»<br />

«Non hai più quarant'anni.»<br />

«Ma non posso averne di più. Ho scelto di fermarmi.»<br />

«Non hai informato il resto del corpo, però. Cadi a pezzi.»<br />

Eduardo aveva le gambe accavallate, Marcello distese davanti a sé. Non serviva<br />

che parlassero veramente per dirsi quello che dovevano. In tanti anni di amicizia,<br />

quella era la prima volta che avevano veramente qualcosa su cui riflettere. Ognuno<br />

per conto suo, ognuno con i suoi motivi che inesorabilmente andavano a incrociarsi<br />

con quelli dell'altro.<br />

I turisti avevano affollato il ristorante tutto d'un tratto. Erano arrivati in massa dalla<br />

spiaggia, chiassosi, caotici, fuori luogo. Specialmente italiani e americani, ma<br />

anche francesi e russi. Nessun greco. Si sedevano ai tavoli, cercavano di accaparrarsi<br />

quelli più vicini al parapetto. Chi non trovava un posto a sedere si accalcava<br />

intorno al bancone, come se fossero a digiuno da due settimane. Una scena<br />

pietosa, anche per Marcello che non la stava guardando, ma la sentiva e ormai la<br />

conosceva a memoria.<br />

«Sembrano profughi, non sembra gente in vacanza.»<br />

«Sei cinico oggi, Marcello, hai deciso finalmente di abbracciare lo stereotipo dell'anziano<br />

brontolone?»<br />

«Sono riflessivo. Vedi se riesci a procurare un'altra caraffa.»<br />

69


Virginia, Carlo, Luna e Nadia erano amici ma dieci anni fa Virginia se n’è<br />

andata senza lasciare traccia. Senza di lei, gli equilibri saltano, i ruoli e i<br />

sentimenti si confondono.<br />

Anche Nadia se ne va dopo qualche anno, si trasferisce a Roma con il<br />

marito. Poi succede qualcosa, gli altri ricevono una sua mail, una richiesta<br />

d'aiuto.<br />

Virginia, Carlo e Luna si ritrovano a Milano da trentenni. Sono quasi degli<br />

estranei, così diversi dalla proiezione di loro stessi da adolescenti che il<br />

loro viaggio alla ricerca di Nadia sarà pieno di silenzio. Il segreto di Virginia<br />

fa paura a tutti, nessuno osa affrontarlo. Ma verrà fuori, quando si ritroveranno<br />

ad avere un’unica possibilità per ritrovare Nadia.<br />

Dopo di te è tutto quello che succede quando si decide di soffocare qualcosa,<br />

perché se lo svelassimo cambierebbe così radicalmente la nostra<br />

vita da non riconoscerla, da non farci riconoscere nemmeno più. Ed è<br />

tutto quello che succede quando si decide di non nascondersi più, dando<br />

la colpa alla vita, anche se non è stata lei a decidere per noi.<br />

Loretta Patrini nasce nel 1978 a Crema. Alle elementari si dilettava con<br />

sceneggiature per gli spettacoli con le marionette di peluche del Dixan.<br />

Molti anni più tardi scopre Pier Vittorio Tondelli che le cambia irreparabilmente<br />

la vita. Capisce come deve scrivere, oltre a cosa.<br />

Ha scritto <strong>dei</strong> racconti nelle pubblicazioni Nessundorma, On my shoes e<br />

Il portiere rassicura della <strong>Macchina</strong> <strong>dei</strong> <strong>Sogni</strong>, di cui si è occupata anche<br />

della redazione.<br />

Ha fondato e dirige la rivista letteraria static (staticreview.wordpress.com).<br />

Questo non è il suo primo romanzo, ma i due che ha scritto prima è meglio<br />

che rimangano nel cassetto.<br />

71


Dopo di te, Loretta Patrini.<br />

“Hai creduto che ti bastasse chiudere una porta,<br />

ma sei rimasta a guardarla per tutta la vita.”<br />

A. Gatto<br />

1<br />

Le piastrelle sono fredde e il palmo umidiccio non fa presa. Spinge i polpastrelli<br />

per bloccarsi ma è come tentare su una parete oleosa. Le unghie sono senza<br />

smalto, sono giorni che non se lo mette più, non c’è una persona da cui vuole farsi<br />

notare, per cui essere curata e attraente. Con la pressione la punta delle dita diventa<br />

bianca, la vede da sotto le unghie. Le righe nette delle falangi, i cinque tendini<br />

che partono dalle dita e convergono all’inizio del polso. Le mani sono<br />

screpolate, il dorso ha delle piccole crepe bianche, la cattiva abitudine di lavarsi<br />

le mani con l’acqua fredda.<br />

La sua immagine riflessa così da vicino la sta fissando. Ci sono delle righette nere<br />

appena sotto gli occhi. Ha premuto gli occhi forte e il mascara si è incollato lì sotto.<br />

Ha il trucco colato e le unghie senza smalto ma il rossetto è ancora intatto. Cattivissimo<br />

segno. È quello che la frega, che spegne il suo interruttore.<br />

Non sta guardando lui ma se stessa. Il gioco davanti allo specchio è iniziato tempo<br />

prima ma ha smesso di essere divertente già da un po’. Non fa altro che guardarsi<br />

negli occhi, vuole riconoscere qualcosa. Cerca qualcosa che non trova. E lui dietro<br />

che spinge è solo patetico, immerso nel suo piacere. Lo osserva dal riflesso. È un<br />

gioco autoreferenziale per entrambi: l’uomo vede in diretta il potere che crede di<br />

gestire, la donna l’espressione che può avere solo in quei momenti. È una curiosità<br />

morbosa, non ha niente a che vedere con il sesso, ma solo con quello che di se<br />

stessa non controlla.<br />

Guardandosi le labbra il suo piacere si interrompe subito. Una passata di rosso<br />

inutile e se ci pensa si accorge che è da un pezzo che non si baciano più.<br />

Lui le sta mettendo le mani sui fianchi, le preme le quattro dita sotto e con il pollice<br />

cerca di farle slittare il bacino in fuori, nella sua direzione. Lei lo asseconda e lo<br />

guarda, lui fa un accenno di sorriso e continua. Non è possibile che lui non si renda<br />

conto che nessuno <strong>dei</strong> suoi muscoli sia più in tensione e che stia scopando senza<br />

di lei. Lui chiude gli occhi e butta la testa indietro, non è più nemmeno nello specchio<br />

con lei, è proprio uno che si sta scopando una qualsiasi.<br />

E la sua è una posizione piuttosto scomoda. Se non la sfrutti per il sesso non è<br />

che ti metteresti proprio così davanti allo specchio.<br />

Quando il telefono squilla si distrae subito, perché ha le suonerie personalizzate<br />

e sa chi la sta chiamando. Rimane a contare gli squilli, sa che ce ne saranno nove<br />

prima che cada la linea. Se una persona ti cerca senza fretta magari aspetta solo<br />

fino al quinto o al sesto. Quando il nono si interrompe capisce che c’è qualcosa<br />

che non va. Il telefono ricomincia a squillare. Con una mano lo scosta all’indietro<br />

facendolo uscire. Lui spalanca gli occhi, prova ad accennare qualcosa ma non fa<br />

in tempo, perché lei scappa nell’altra stanza.<br />

72


«Carlo» la sente dire.<br />

Ha interrotto la sua scopata per rispondere a un altro.<br />

Quando torna nemmeno lo guarda, raccoglie i suoi slip da terra e li lancia nel cesto<br />

della biancheria sporca, entra nella doccia dicendogli:<br />

«Te ne devi andare.»<br />

«Come, scusa?»<br />

Luna solleva la manopola della doccia facendo uscire il getto al massimo. Parla al<br />

di sopra dell’acqua.<br />

«Tesoro, finito, almeno per me. Tu se vuoi finiscitela da solo, ma non in casa mia»<br />

chiude gli occhi e si butta sotto l’acqua calda. Gli sente dire: «Sei davvero una<br />

troia!»<br />

Resta ad ascoltare i suoi movimenti con gli occhi chiusi, solo quando sente sbattere<br />

la porta li riapre.<br />

Non si lava mai i capelli sotto la doccia, lo fa sempre a parte, perché detesta avere<br />

capelli ovunque quando si deve asciugare, ma stavolta butta sotto anche la testa.<br />

Carlo le ha chiesto se ha visto la mail. Gliel’ha letta e le ha chiesto di incontrarsi<br />

appena possono. Le viene da piangere, perché ha paura e non le piace per niente<br />

non sapere di cosa avere paura. Appoggia una mano alle piastrelle, stavolta senza<br />

fare pressione, senza dita bianche sotto le unghie e tendini tirati. Lava via tutto<br />

l’odore di quello lì che ha appena mandato via, il suo riflesso nello specchio che<br />

non riconosce più, il mascara che non farà più colare senza piacere. Si strofina<br />

nei punti in cui l’ha toccata facendo arrossare la pelle.<br />

Fuori dalla doccia nota subito che lui ha lasciato di proposito il preservativo usato<br />

per terra. Voleva farla inginocchiare a raccoglierlo ma lei sorride, perché è l’ultima<br />

volta che si inginocchia per lui.<br />

2<br />

Virginia legge il nome del mittente e ha come l’impressione che qualcuno le abbia<br />

lanciato addosso una secchiata di cubetti di ghiaccio senza avvertirla. Sente i capelli<br />

che le si drizzano sulla nuca e d’istinto si mette una mano in testa come se<br />

stessero per staccarsi tutti. Il cuore le sbatte contro la laringe. Lo sente ovunque,<br />

sembra che voglia uscire dall’ombelico.<br />

La distrazione, deve cercare la distrazione. Muove gli occhi a destra e a sinistra<br />

per focalizzarsi su qualcuno. La hostess sta picchiettando qualcosa al computer.<br />

Un po’ guarda le sue dita e un po’ i tasti, come se non fosse sicura di scrivere tutto<br />

correttamente. Alza la cornetta di un telefono grigio con il filo di plastica arrotolato<br />

a spirale, come quelli <strong>dei</strong> vecchi telefoni con la rotella, che se sbagliavi l’ultimo numero<br />

dovevi ripetere tutto daccapo ed era una gran rottura di palle.<br />

Pigia un tasto e rimane in attesa facendo un lungo sospiro. Le sue labbra sembrano<br />

dire solo ok, prima rimettere la cornetta al suo posto.<br />

Ha sempre pensato che le hostess non abbiano una vita propria, che siano solo<br />

<strong>dei</strong> meccanismi robotici posti in uno spazio vuoto per far salire i passeggeri sugli<br />

aerei. Anche le sale d’imbarco le fanno lo stesso effetto.<br />

La gente è seduta ad aspettare, sulle loro facce c’è stampata solo l’attesa. La<br />

73


maggior parte di loro ha lo sguardo imbambolato a terra. Anche se alcuni parlano,<br />

in realtà non stanno dicendo niente, cercano solo di riempire un po’ quello spazio<br />

vuoto. Chi è in partenza sembra non abbia mai niente da dire o da pensare.<br />

Ci sono tre bambini che giocano con un palloncino verde. Ridacchiano saltando,<br />

non hanno la minima coordinazione nel colpirlo al momento giusto. Non appena<br />

distoglie lo sguardo sente uno “Sciaf!” seguito da un’esplosione di pianto. Uno <strong>dei</strong><br />

tre bambini è sdraiato per terra e sembra aver sbattuto una guancia. La sua<br />

mamma accorre, ma invece di consolarlo lo rimprovera con un accento bavarese<br />

fortissimo. Il bambino prova a frignare un po’ ma quando vede che nessuno ha intenzione<br />

di compatirlo la smette. Gli altri due sono rimasti a osservare la scena in<br />

silenzio. Quello con in mano il palloncino verde fa spallucce e lo tira all’altro che<br />

glielo rimanda. Il gioco ricomincia, tragedia finita.<br />

Manca quasi mezz’ora all’imbarco e il tempo sembra fermo. Apre lo zaino e ci<br />

guarda dentro. Tutto il suo contenuto in quel momento diventa improvvisamente<br />

interessante. C’è la sua Canon e ci sono i suoi libri, il suo taccuino arancione e il<br />

suo astuccio. I fazzoletti di carta che profumano di menta e la guida della città. Fa<br />

per estrarre la guida e sollevandola scorge il libro appoggiato. Rimane un attimo<br />

lì sospesa a fissare il pezzo di copertina al contrario che riesce a vedere, poi molla<br />

la guida e prende il libro. Si intitola “Il buio della notte” e ogni volta che lo legge si<br />

ripete che è un titolo davvero banale.<br />

«La recensione per venerdì. Sii clemente, è la nipote dell’editore.»<br />

Clemente. Non era mai stata clemente in vita sua e il suo capo la apprezzava proprio<br />

per questo.<br />

La scrittrice si chiamava Anja von Geller, aveva ventisette anni e due settimane<br />

prima l’aveva invasa con i racconti del suo viaggio australiano, da cui aveva trovato<br />

l’ispirazione per scrivere quel libro. Lei l’aveva fissata per un quarto d’ora ma dopo<br />

qualche minuto aveva smesso di ascoltarla. Muoveva impercettibilmente la testa<br />

verso un sì per dare l’aria di essere attenta e sorrideva quando Anja sorrideva,<br />

spalancando gli occhi con un po’ troppa enfasi.<br />

A un certo punto Anja le aveva chiesto:<br />

«E tu?»<br />

«…Eh?»<br />

«Tu, dico. Non scrivi?»<br />

Lei era rimasta in silenzio un attimo, strofinandosi la falange del pollice contro<br />

quella del medio.<br />

«…Sì. In realtà l’ho sempre fatto.» E si era pentita immediatamente di averglielo<br />

detto.<br />

«Ah sì? E cosa?»<br />

Non aveva per niente voglia di parlarne. Avrebbe potuto tagliare corto dicendole<br />

che scriveva cose da nulla ma non ci era riuscita. Le poche volte che parlava delle<br />

cose che scriveva si sentiva costretta a non mentire.<br />

«Anni fa ho scritto delle cose. Ma adesso le trovo imbarazzanti.»<br />

Anja von Geller aveva ridacchiato. Cosa c’era da ridacchiare?<br />

«Ero un po’ giovane» si era giustificata, «e forse un po’ troppo convinta.»<br />

«Lo siamo stati tutti, ma va bene così.»<br />

74


Situazione molto retorica.<br />

«E dopo? Non hai più scritto altro?»<br />

«No, in realtà no.»<br />

«E come mai?»<br />

Si stava sentendo un po’ troppo l’intervistata e trovava la von Geller invadente,<br />

anche se in realtà le aveva posto solo una semplice domanda. Ma quando eviti di<br />

trovare la risposta semplice alle domande semplici, allora quelle domande diventano<br />

un colpo diretto, quasi peggio di un’accusa.<br />

Rilegge il nome dell’autrice in copertina e sospira. Puoi distrarti fino a un certo<br />

punto ma poi l’accusa ti arriva diretta addosso e te la devi prendere per forza.<br />

Abbassa gli occhi sul palmare e scorge gli altri due destinatari in copia.<br />

La mail dice soltanto quello.<br />

3<br />

Carlo è appoggiato alla portiera della sua macchina. Ha lo sguardo fisso a terra, i<br />

capelli lisci lunghi fino alle spalle gli cadono in avanti. Guarda la sigaretta spenta<br />

che ha tra le dita, la gira di qua e di là come se nascondesse un segreto. Gli sembra<br />

di tremare, che non sia possibile. Ha passato anni in attesa che quel momento<br />

arrivasse e adesso non si sente più così sicuro.<br />

Sente il passo di Luna avvicinarsi ma non osa alzare la testa. Lei si ferma davanti<br />

a lui.<br />

«Mi sembrava che avessi smesso» gli dice lei.<br />

Lui la guarda. Luna è truccata, vestita e pettinata come una che lavora in banca.<br />

L’impiegata perfetta, quella a cui tutti porterebbero il loro salvadanaio per farselo<br />

tenere al sicuro.<br />

«Quando sono nervoso ne tengo una in mano, a volte faccio anche finta di aspirare.<br />

Se tengo tra le labbra il filtro mi tranquillizzo.»<br />

«Pare che oggi tu non l’abbia tenuta ancora tra le labbra.»<br />

Lui fa un riso forzato, in realtà butta fuori solo aria dal naso e solleva un po’ le<br />

spalle.<br />

«Io ho bisogno di bere.»<br />

È un po’ presto per l’aperitivo ma Luna è una che non si è mai fatta troppi problemi.<br />

Si sta mangiando tutte le olive che il cameriere ha portato. Gli indica la ciotola per<br />

invitarlo a prenderne una, ma lui alza la mano rifiutando.<br />

«Cosa ne pensi?» le chiede lui.<br />

«Ti sembra una domanda sensata?»<br />

«Cercavo solo di capire, magari tu non stai subendo un blackout.»<br />

«Più che blackout mi sento un grosso punto di domanda che mi lampeggia sopra<br />

la testa.»<br />

«Ecco, giusto.»<br />

«Cosa ne pensa la tua ragazza?»<br />

«Non lo sa. E non credo le interesserebbe.»<br />

Alza gli occhi su di lui e lascia in pace le olive:<br />

75


«Tu credi? Nemmeno se dovessimo partire?»<br />

«Non essere ridicola, Luna… e per dove?»<br />

«Ad esempio all’indirizzo che abbiamo.»<br />

«Certo, ci mettiamo lo zaino in spalla e partiamo per un bell’on the road.»<br />

«Perché non dici che il tuo vero problema non è la mail di Nadia ma il fatto che<br />

potrebbe ricomparire Virginia nella tua vita?»<br />

«Virginia non ricomparirà mai.»<br />

«Non è possibile che tu non voglia mai parlare di lei.»<br />

«Non c’è niente da dire.»<br />

«Sì, invece.»<br />

«No! Invece.»<br />

«Non hai la stessa reazione quando parli di Nadia.»<br />

«Nadia ha scelto quello che era giusto per lei. Ora non devo essere io ad andare<br />

a salvarla dalle sue scelte sbagliate.»<br />

Carlo si alza.<br />

«Siediti…»<br />

«Non sono più affari miei da moltissimo tempo. Ho la mia vita. Ho una ragazza…<br />

»<br />

«Che non ami» taglia corto Luna, e si beve l’ultimo sorso del suo spritz, guardandolo<br />

negli occhi. Posa il bicchiere sul tavolo con attenzione, per non fargli fare rumore.<br />

Carlo ripensa a quand’erano adolescenti. La schiettezza di Luna gli dava sempre<br />

fastidio, lo faceva subito infiammare. Lei invece rimaneva impassibile e la sua<br />

calma non faceva altro che alimentare il suo fastidio. Adesso sapeva di non potersela<br />

più prendere con lei, non quando diceva la verità.<br />

«Devo andare» Carlo sfila la giacca dallo schienale della sedia e se la mette.<br />

«C’è qualcosa che tu non mi hai mai detto. Che voi tre non mi avete mai detto.<br />

Guarda che non sono stupida» dice Luna fissando l’interno del suo bicchiere<br />

vuoto.<br />

Lui rimane paralizzato e non riesce a nasconderlo in tempo. Sta per darle modo<br />

di interrogarlo ma lei rialza la testa e dice soltanto:<br />

«Faresti meglio ad accendertela quella sigaretta.»<br />

C’è stato un periodo in cui avrebbe voluto sapere, invece ha sempre fatto finta di<br />

niente. Luna non ha mai chiesto niente a nessuno in realtà, piuttosto ha sempre<br />

detto in faccia ciò che pensa, che non si è mai basato su qualcosa che non sa. La<br />

sua è una discrezione schietta: io mi faccio gli affari miei, ma quello che penso te<br />

lo dico.<br />

È una cosa che più o meno tutti apprezzano, perlomeno le persone non ipocrite.<br />

È la prima volta che si ritrova a svelare una sua curiosità. Anche se non ha formulato<br />

una domanda il punto è lo stesso.<br />

Carlo è il suo migliore amico dai tempi del liceo. Lei gli faceva copiare latino, lui le<br />

faceva copiare matematica. Lei gli ha sempre raccontato tutto senza che lui le<br />

chiedesse niente e gli ha sempre detto cosa pensava di lui, anche quando lui non<br />

le raccontava niente.<br />

76


Un pomeriggio aveva preso in prestito il libro di Carlo con i suoi appunti sulla seconda<br />

guerra mondiale. Aveva deciso di portare storia come seconda materia alla<br />

maturità. Una fotografia era scivolata per terra con l’immagine rivolta verso terra.<br />

Non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere chi ci fosse fotografato sopra, perché<br />

Carlo era stato velocissimo a raccoglierla.<br />

«Guarda che lo so chi è» gli aveva detto.<br />

Lui aveva guardato la fotografia e aveva quell’espressione di ogni volta che lei gli<br />

centrava un pensiero.<br />

«Ma sono affari vostri» aveva aggiunto.<br />

Carlo aveva appoggiato la foto sul tavolo. Virginia sorrideva con lo sguardo basso,<br />

teneva in mano una margherita. Ogni anno, quando arrivava la primavera, prendevano<br />

il sole tutti e quattro nel cortile di Nadia. Sua madre faceva delle focacce<br />

al rosmarino buonissime.<br />

Un mese dopo il giorno di quella foto si erano diplomati.<br />

E Virginia era sparita.<br />

4<br />

È soltanto un altro stupido Natale ed è già passato, in realtà, da due giorni. Ma<br />

quando detesti qualcosa sembra che duri ancora di più, infesti l’anima e rallenti<br />

l’orologio.<br />

Giù in strada il silenzio tirerebbe scemo anche un guru dello yoga.<br />

C’è un orologio digitale attaccato alla parete, Luna non sopporta il ticchettio <strong>dei</strong><br />

secondi. Ma se ci fosse adesso le sembrerebbe di sentirlo una volta ogni cinque.<br />

Ha chiesto a tutti di non farle gli auguri e quando si è svegliata la mattina del 25<br />

ha acceso il cellulare, ha aspettato, ma non è arrivato niente. Ha sollevato un po’<br />

la testa, come se la suoneria non si sentisse da sdraiati, poi l’ha ributtata sul cuscino.<br />

Quando chiedi cose del genere nessuno ti dà retta, si sarebbe aspettata<br />

quegli sms tipo: “So che non ami il Natale ma ti voglio bene e oggi ci tenevo a dirtelo”,<br />

oppure quegli orrendi messaggi retorici inviati con una pigiata di pollice a<br />

tutta la rubrica.<br />

E invece niente, e ci è quasi rimasta male.<br />

Il suo silenzio, lo ha sempre detto, è il suo controllo. La vita è rumorosa, ma in<br />

casa non vuole sentire niente. Non ha una tv e nemmeno uno stereo con una<br />

radio, può sentirla sul cellulare quella, ma non lo fa mai. Ci ha provato, una volta<br />

le si è rotto l’altoparlante, non sentiva la voce dell’interlocutore e doveva per forza<br />

usare l’auricolare. Aveva scoperto che la radio si poteva ascoltare solo con quello,<br />

così l’ha attivata, ma dopo soli due giorni si è resa conto di pedalare per chilometri<br />

attraverso la città con i suoi pensieri sintonizzati su altro che non fosse la radio.<br />

La televisione non la vede più da qualche anno, senza un motivo ben preciso.<br />

Luna ha smesso di fare tante cose, come ascoltare le persone. Perché la annoiano,<br />

non ha altri motivi nemmeno per questo.<br />

Ha iniziato a leggere furiosamente e a seguire serie tv. Guarda anche una decina<br />

di episodi al giorno durante il weekend. Carlo le ripete di continuo che non è sano<br />

e anche se lei non lo ammette in fondo lo sa, ma non riesce proprio a smettere.<br />

77


Ha trovato un modo per stare dentro il più possibile alla storia di qualcun altro.<br />

Quando si alza dal letto è già mezzogiorno. Mette il latte a scaldare con due cucchiaini<br />

di zucchero. A parte trita il cacao con il caffè solubile e la cannella. Torna a<br />

letto con la sua tazza e la piccola stanza da letto prende un altro profumo.<br />

Il suo computer è acceso, di notte scarica gli ultimi episodi. Non è arrivata nessuna<br />

mail notturna. Nel programma di posta tiene perfettamente ordinate tutte le cartelle<br />

<strong>dei</strong> suoi contatti. Non fa in tempo ad arrivare una nuova mail che già la sposta<br />

nella cartella. In questo modo ha sempre la cartella di posta in arrivo vuota. Sono<br />

giorni però che la cartella è piena di una mail di una persona che nella sua vita<br />

non c’è più da un bel po’ di tempo. La tiene lì, non saprebbe nemmeno dove spostarla,<br />

perché non c’è una cartella apposta per lei. La potrebbe creare, ma non è<br />

questo il punto. Il punto è che non vuole archiviare Virginia come tutti gli altri. Continua<br />

a riaprire quella mail e a rileggere quella riga. È Nadia che l’ha scritta, ma è<br />

a Virginia che Luna pensa.<br />

Carlo non vuole averne niente a che fare.<br />

Non si sono fatti gli auguri, Luna non è andata a pranzo dalla famiglia di Carlo<br />

come negli ultimi anni. È rimasta a casa da sola a trovare le parole per chiedergli<br />

scusa, anche se sa di avergli detto la verità.<br />

Ha tenuto la mail di Nadia aperta per un giorno intero. Ci ha camminato avanti e<br />

indietro con il suo caffelatte alla cannella. Ha pensato di rispondere a Nadia e in<br />

contemporanea a Virginia e Carlo, ma lui si sarebbe arrabbiato. Avrebbe potuto<br />

scrivere solo a Nadia ma le viene difficile. Cosa si potrebbe mai scrivere a una<br />

persona che ti chiede aiuto quando è sull’orlo del precipizio? Come stai? E non<br />

vuole risponderle da sola.<br />

L’ultimo numero che ha di lei è inattivo da più di due anni. Suo padre non lo vede<br />

da altrettanto, e chiamarlo adesso è fuori discussione, è come suonare una sirena<br />

di allarme.<br />

Sul fondo della tazza ci sono <strong>dei</strong> grumi di caffè e cacao non sciolti. Li schiaccia<br />

con la punta del cucchiaino.<br />

I rami degli alberi fuori sono immobili, il sole sbatte contro i balconi del palazzo di<br />

fronte dal terzo piano al sesto, dal secondo in giù c’è meno luce, o magari c’è ma<br />

è una luce diversa, che mette a fuoco altro.<br />

Luna si volta verso lo schermo, riapre la mail e gli occhi le vanno direttamente sull’indirizzo<br />

di Virginia.<br />

È a lei che deve scrivere.<br />

5<br />

Elena è contenta di non aver avuto Luna tra i piedi al pranzo di Natale. Lei e la<br />

sua spocchia, le sue frecciate, il suo ridere solo per cose che la infastidiscono.<br />

Non si è mai spiegata come sia possibile che lei e Carlo siano tanto amici. Almeno<br />

la giudicasse apertamente, almeno fosse una di quelle stronze che non fanno altro<br />

che trovarti qualcosa fuori posto, come quelli che non ti vedono da un pezzo e la<br />

prima cosa ti dicono è: «Ma come sei ingrassata!» Invece la ignora. Non fa nemmeno<br />

finta di salutarla col sorriso quando la incontra. Se Carlo non è totalmente<br />

78


in sintonia con lei è colpa di quella Luna storta.<br />

È il primo Natale senza di lei ma il padre di Carlo, alla fine del pranzo, non ce la<br />

fa a non evocarla.<br />

«Adesso ci vorrebbe proprio una bella torta di Luna.»<br />

Sua moglie è in piedi che sta sparecchiando e non fa in tempo a dargli una gomitata.<br />

«Elena ha fatto il tiramisù» dice.<br />

«Oh, bene.» Suo padre si strofina le mani contento, non coglie il disagio che ha<br />

creato.<br />

«Quindi? Perché non è venuta quella che non si abbasserebbe mai a fare un banale<br />

tiramisù?» gli chiede Elena in macchina, di ritorno a casa.<br />

«Abbiamo litigato» Carlo non ha nemmeno più voglia di fingere.<br />

«Ma smettila, voi non litigate mai. E alla scusa dell’influenza ci possono credere<br />

solo i tuoi.»<br />

Carlo sta guidando ma si gira a guardarla male, ha appena dato indirettamente<br />

degli idioti ai suoi genitori.<br />

«Se fossi mancata io non l’avrebbero menata tanto.»<br />

«Non fare la vittima.»<br />

«Perché devi sempre farmi sentire così?»<br />

«Perché devi sempre fare così?»<br />

Ma Elena è già partita e non la ferma più.<br />

«Quando c’è lei mi sembra di non essere una coppia ma un cazzo di trio, in cui mi<br />

sento il numero tre non perfetto. Quando non c’è per i tuoi è come se tu fossi single,<br />

o come se tu avessi lasciato la fidanzata a casa, che sembro non essere io.»<br />

Carlo sospira e non risponde.<br />

«Silenzio, come sempre.»<br />

«Elena, dici sempre le stesse cose.»<br />

Lei alza la voce: «Certo, io sono solo quella che ti rompe i coglioni. Perché allora<br />

non stai con lei?»<br />

«Non urlare.»<br />

«Perché non ti togli il disturbo di portare due persone a pranzo dai tuoi, invece di<br />

una?»<br />

«Non. Urlare.»<br />

Elena, che si era spinta in avanti verso il cruscotto, torna a sbattere la schiena<br />

contro il sedile.<br />

«Mi chiedo se anche quando mi scopi in realtà non desideri scoparti lei. O magari<br />

quando sono in ginocchio speri di sbatterlo in bocca a lei» lo dice senza più alzare<br />

la voce, a cui seguono tre, quattro secondi immobili.<br />

Carlo dà un’occhiata veloce al retrovisore, vede che non c’è nessuno, stringe tra<br />

i pugni il volante fino a sentire compressi sulla pelle le palline di gomma della fodera,<br />

poi spinge il piede sul freno come non ha mai fatto prima. Le gomme si immobilizzano<br />

e fischiano fortissimo, la macchina sbanda ed Elena finisce urlando<br />

con una spalla contro la portiera.<br />

Carlo ha ancora le mani strette sul volante, i piedi ancora schiacciati sul freno e la<br />

79


frizione, quasi abbia paura che la macchina possa ripartire da sola.<br />

«Scendi» le dice con calma.<br />

«Cosa?» Elena è incredula per la sua voce così pacata.<br />

«Scendi.»<br />

«Non fare la testa di cazzo…»<br />

Carlo non ha ancora schiodato lo sguardo dal vetro davanti.<br />

«Elena. Scendi.»<br />

Lei lo fa senza dire altro. Slaccia la cintura, raccoglie la sua borsa e la teglia che<br />

ha comprato apposta per fare il tiramisù, e scende. Non sbatte la portiera, è spaventata.<br />

Carlo riparte subito senza guardarla, non la osserva nemmeno dal retrovisore. Sa<br />

di essere riuscito a farla star zitta per una volta, ma non le interessa guardarla.<br />

A casa accende la tv ma la guarda un attimo e la trova subito noiosa. Gli sembra<br />

di avere di fronte Elena. Non saprebbe dire quando ha smesso di ascoltarla, di<br />

guardarla negli occhi sentendo la sua voce al rallentatore, sempre più ovattata.<br />

Quando ha smesso di fingere di averla mai amata. E non sa cos’ha fatto stasera,<br />

se l’ha lasciata soltanto per la strada o l’ha anche lasciata davvero.<br />

Due giorni prima Luna gli ha urlato dietro per la prima volta nella sua vita. Ha provato<br />

di nuovo a tirare fuori il discorso di Nadia e Virginia ma lui l’ha fermata subito.<br />

Lei ha reagito con un’aggressività mai vista, mai nei suoi confronti. Elena ha ragione<br />

su una cosa, lui e Luna non hanno mai litigato. Ma stavolta gli ha detto tutto<br />

quello che pensa in modo così chiaro che lui ha potuto difendersi solo con la rabbia.<br />

6<br />

“Sto vedendo questa serie tv canadese che si chiama ‘Being Erica’, dove la protagonista<br />

è una ragazza di trentadue anni che un giorno incontra un tipo strano<br />

che si spaccia per un analista, che le fa compilare una lista di rimpianti, e a ogni<br />

episodio la fa tornare indietro nel tempo per rivivere la situazione che rimpiange,<br />

per sistemarla – o come dicono gli inglesi: ‘to fix’ che è un verbo che adoro – anche<br />

se il passato non si può cambiare, o soltanto per capire perché sia andata così.<br />

Vederlo è terapeutico, in più questo dottor Tom per ogni situazione ha pronto un<br />

aforisma che vale più di qualsiasi predica. Va diretto al punto, non riuscirei mai a<br />

essere così neppure io, a meno che non diventi una sorta di libro di citazioni ambulante,<br />

esprimendomi solo con quelle. Ma credo che dopo un po’ risulterebbe noioso<br />

persino a me.<br />

Tutto questo per dirti che l’altro giorno ho provato a stilare una mia lista di rimpianti,<br />

anche senza nessun dottor Tom che mi consenta di viaggiare nel tempo. E non ci<br />

sono riuscita. Non perché non ne abbia, anzi. È solo che il primo rimpianto che mi<br />

veniva in mente era talmente forte da cancellare quelli successivi.<br />

Il mio più grande rimpianto sei tu. Non avrei mai dovuto lasciarti andare via, avrei<br />

dovuto chiederti perché stavi scappando. E anche se tu fossi andata via lo stesso,<br />

non avrei dovuto smettere di cercarti, lasciare che tu uscissi così tanto dalla mia<br />

vita da arrivare persino a scordare il suono della tua voce.<br />

80


Se ci fosse un dottor Tom anche per me mi farebbe tornare indietro a quel giorno<br />

e forse mi farebbe capire come fare a non ripetere sempre lo stesso errore: non<br />

fermare nessuno, lasciare che le persone escano dalla mia vita senza inseguirle<br />

mai, come se non me ne importasse niente, come se io fossi l’unica che si meriti<br />

di essere soltanto cercata senza scomodarsi mai.<br />

Per favore, Virginia. So che te lo sto chiedendo con dieci anni di ritardo. Ma fermati.<br />

Per me.<br />

Luna”<br />

«Non so come tu faccia a bere tutto quel caffè.»<br />

«Non mi ha mai fatto nessun effetto.»<br />

«Sarebbe magnifico se non lo facesse a me. Non c’è momento della giornata che<br />

io aspetti di più del primo sorso di caffè.»<br />

Guarda divertita l’espressione schifata di Astrid davanti al suo decaffeinato del<br />

tardo pomeriggio.<br />

«Dovresti andare» le dice Astrid, e il suo sorriso si spegne all’istante.<br />

«Non torno in Italia da dieci anni. Non penso nemmeno più in italiano.»<br />

«Come se questo c’entrasse.»<br />

Beve un altro sorso di caffè: «Non c’è niente che c’entri. Sono persone che non<br />

vedo né sento da dieci anni.»<br />

«Però una di loro ha bisogno di te.»<br />

«Risponderanno gli altri due.» Virginia rialza la tazza per bere un altro sorso ma<br />

Astrid le blocca il braccio. La tazza vacilla ma il caffè non esce.<br />

«Una persona ti scrive “ti prego” e tu non vai perché sono passati dieci anni e ti<br />

senti autorizzata a non esserne responsabile?»<br />

«Astrid…»<br />

Astrid la blocca con il palmo della mano puntato su di lei.<br />

«Se io domani partissi e tra dieci anni tu dovessi scrivermi “ti prego”, tornerei immediatamente.<br />

E so che faresti la stessa cosa con me. Perché allora non lo fai<br />

con questa Nadia?»<br />

«È una lunga storia…»<br />

«Ho tempo» risponde Astrid accomodandosi contro lo schienale e incrociando le<br />

braccia.<br />

Virginia guarda fuori dalla finestra. La sua bicicletta è chiusa con il lucchetto insieme<br />

a quella di Astrid. Ha chiuso con un lucchetto anche Nadia, Carlo e Luna.<br />

Da quando vive lì non glieli ha mai nominati.<br />

«In quella fotografia bellissima del tuo album, con altre tre persone, sei con loro,<br />

vero?»<br />

Annuisce.<br />

«Quando sei arrivata qui sapevi a malapena il tedesco. Non potevo chiederti molto<br />

di te e della tua vita ma siamo diventate amiche lo stesso. So solo che hai deciso<br />

di fare l’università qui e di andare via dall’Italia perché avevi perso tua madre.»<br />

«Non mi sono trasferita qui per questo.»<br />

81


Astrid rimane senza parole, è sempre stata convinta che quello fosse l’unico motivo<br />

plausibile.<br />

«Mi spiace. Ho solo cercato di dimenticare.»<br />

«Sei tornata diversa da Monaco e stanotte ti ho sentita. Lo so che non hai dormito.»<br />

«Astrid…»<br />

«Dimmi solo se è successo qualcosa di grave dieci anni fa.»<br />

Virginia scuote la testa, non vuole parlare. Si porta una mano alla bocca e stringe<br />

gli occhi. Astrid le stringe il polso.<br />

«Perché una mail ti ha sconvolta così?»<br />

Virginia ricaccia giù le lacrime e guarda gli occhi azzurri di Astrid.<br />

Le racconta tutto.<br />

Le ha preparato il suo piatto preferito. Se la sua migliore amica ha una dote straordinaria<br />

è quella di afferrare i momenti negativi e trasformarli con leggerezza in<br />

positivi.<br />

Si preparano una tisana e Virginia la appoggia sul comodino. Astrid la saluta con<br />

la mano per darle la buonanotte, non aggiunge altro.<br />

Quando butta la testa sul cuscino se la sente leggera, come se l’incudine conficcata<br />

dentro fosse finalmente uscita.<br />

Non ha deciso niente. Ha solo parlato e pianto singhiozzando fortissimo, urlando<br />

quella parola che si ripete da anni. Un aggettivo scomodo che non riesce a lavarsi<br />

via di dosso. Si è sempre sentita sporca di quell’aggettivo.<br />

Descriviti con una parola, ci sono quelli che te lo chiedono. Tutti si sentono in difficoltà<br />

a rispondere. Una parola? Come si fa soltanto con una parola?<br />

Eppure Virginia la sua la conosce benissimo.<br />

Astrid ha ascoltato in silenzio. Non ha dato opinioni, non ha detto mi dispiace, non<br />

le ha suggerito di fare niente, di partire o di non partire. Le ha detto soltanto che<br />

se avesse saputo prima il suo segreto l’avrebbe costretta a toglierselo dalla testa.<br />

Le bruciano gli occhi se prova a chiuderli, ma è esausta e non riesce a tenerli<br />

aperti.<br />

Si addormenta lasciando che la tisana si raffreddi senza averla toccata.<br />

Virginia è un’intrusa.<br />

82


Alessandro è un trentenne dalla vita tranquilla. Naviga a vista infischiandosene<br />

di quello che succede nella società intorno a lui. I suoi più grandi<br />

interessi al momento sono Monica e i mondiali di calcio che stanno per<br />

iniziare.<br />

Ma tutto cambia quando misteriose interferenze cominciano a invadere i<br />

programmi delle televisioni, sconvolgendo i palinsesti nazionali.<br />

In un’Italia in cui democrazia e televoto sono ormai sinonimi, e in cui il sistema<br />

mediatico-televisivo è controllato saldamente dal governo, le interferenze<br />

inceppano l’efficiente macchina della propaganda nazionale<br />

attaccando al cuore un sistema che rischia ben presto di crollare.<br />

La vita di Alessandro è sconvolta quando viene identificato come l’hacker<br />

autore delle interferenze.<br />

Gianluca Pizzingrilli fin da giovanissimo dà prova di uno straordinario<br />

talento letterario arrivando secondo al prestigioso premio “Giovani Promesse”<br />

di Topolino. Una promessa non mantenuta a causa di una vita<br />

dissoluta che lo porta a perdersi nel vizio della scienza e nel degrado<br />

della matematica, fino a laurearsi in ingegneria.<br />

Questo è il suo primo romanzo, dopo una lunga disintossicazione.<br />

84


Senza fede, Gianluca Pizzingrilli.<br />

Capitolo 1<br />

Te ne pentirai.<br />

«Che uomo di merda!»<br />

Taci!<br />

«Che schifo.»<br />

Stai zitto!<br />

«Guarda che faccia!»<br />

Chiudi il becco! Finché sei in tempo.<br />

«Vorrei non vederlo mai più in televisione.»<br />

Ecco. Il danno è fatto.<br />

La faccia abbronzata e oleosa di Emilio Fede ti guarda sorpresa. È bloccata in un<br />

fermo immagine stupito: gli occhi sgranati, le sopracciglia alzate aggrinziscono la<br />

fronte color cuoio, la bocca aperta a O. Povero Emilio, cosa starà vedendo in questo<br />

istante congelato? La sua morte mediatica?<br />

Poi tutto si spegne.<br />

Tu sei ancora lì, con l'imprecazione a mezz'aria e il telecomando in mano. Ma il<br />

pollice è sollevato, il colpo è ancora in canna. Non hai sparato, tu.<br />

«Ale, bastava cambiare.»<br />

Monica non capisce la portata dell'evento, anzi sembra infastidita. Silvio vi guarda<br />

incuriosito, mentre addenta la pizza.<br />

«Non... ho ancora fatto nulla.»<br />

Rimani immobile, come intuendo il mare di guai in cui ti sei cacciato con la tua<br />

sfrontatezza. Monica, spazientita, ti toglie il telecomando di mano e cambia. La<br />

televisione torna in vita; lei prova uno zapping veloce, tutti i canali funzionano, o<br />

quasi.<br />

Rai1 Pacchi<br />

Rai2 Pubblicità<br />

Rai3 Blob<br />

Rete4 buio<br />

Canale5 Veline<br />

Italia1 Simpson<br />

«Sììì, Simpson!!» Silvio esulta per l'insperata fortuna.<br />

Rete4, buio.<br />

Tu e Monica vi guardate un istante pensierosi, decidete all'unisono che non è nulla<br />

e che tanto vale finire la pizza guardando i cartoni.<br />

«Avranno problemi ai ripetitori» la metti sul tecnico, anche se non riesci a non sentirti<br />

a disagio.<br />

Non sei uno che si scalda per la politica, non te ne preoccupi troppo. Anzi, puoi<br />

85


tranquillamente dire che non te ne frega nulla. Le polemiche politiche sono solo<br />

rumori di fondo nella tua vita, buone per farne due chiacchiere al caffè. Non sei<br />

come Guillaume, tu.<br />

La tele era sintonizzata su quel canale per caso, in attesa di iniziare a guardare la<br />

partita.<br />

È stato quando Fede ha pronunciato il nome di Ago. Dopo tanti anni, nei quali sei<br />

riuscito faticosamente a dimenticare tutta quella faccenda, sentire la voce nasale<br />

del mezzobusto liftato ricominciare con le solite bugie sulla storia di Agostino ha<br />

messo in moto in te un meccanismo di ribellione elementare quanto inutile: l’insulto.<br />

Per una volta, hai deciso che non ne potevi più. E senza rendertene conto te la<br />

sei presa con una macchietta televisiva.<br />

La partita è finita da un po’. Silvio dorme sul divano. Tu dai una mano a Monica a<br />

sistemare la cucina. Avresti altre idee sulla continuazione della serata, ma lei non<br />

è d’accordo: «Con il bambino di là, te lo puoi scordare» taglia corto staccando le<br />

labbra dalle tue e sgusciando dal tuo abbraccio.<br />

«Daaai.»<br />

«No!»<br />

Monica ti piace. Non avresti mai pensato che potesse entrare così prepotentemente<br />

nella tua vita. Ti piace uscirci, ti piace parlarci, ti piace lavorarci e ti piace<br />

passarci le notti.<br />

Anche tu lo capisci che è qualcosa di diverso dal solito, e infatti è la prima donna<br />

che vede casa tua alla luce del sole, a parte tua madre.<br />

Lo hai capito quando tre mesi fa ti sei sorpreso con un vassoio della colazione.<br />

Niente di speciale, visto che nel tuo frigo faresti meglio a metterci un poster per<br />

nascondere lo squallore delle rovine. Un succo d’arancia dal colore accettabile,<br />

uno yogurt appena scaduto e un caffè. I biscotti non ce li avevi – ti spiaceva – ma<br />

la prossima volta avresti provveduto. La prossima volta. Tre parole che non pronunciavi<br />

mai a una donna. Specialmente se la donna era già nel tuo letto. Specialmente<br />

la domenica mattina.<br />

Monica aveva sorriso, ringraziato per la magnifica colazione e fatto finta di nulla<br />

su tutto il resto. Ma tu, sì insomma, ti eri dichiarato.<br />

«Credo che stasera me ne andrò a casa.»<br />

«Non dormi qui?»<br />

«Non ne ho voglia. Che senso ha restare qui oggi?»<br />

«Ma dai, fra poco la vicina torna e restiamo soli.»<br />

Monica ti bacia con lentezza e tu cominci a far scorrere le mani sulla schiena e a<br />

infilarle sotto la maglietta.<br />

«La vicina! Se ne approfitta un po’ troppo» sussurra e si stacca da te.<br />

Cominci a pensare che non sia stata una saggia idea dire di sì a Simona. D’accordo,<br />

non avevate nulla in programma. D’accordo che c’era solo la partita inaugurale<br />

<strong>dei</strong> mondiali, che ti fa sempre piacere tenere Silvio e che lei aveva<br />

promesso di tornare per le nove. Ma sono già le undici passate.<br />

I tuoi pensieri sono interrotti dal campanello: la vicina finalmente.<br />

86


«Meglio tardi che mai» Monica va a rintanarsi in bagno.<br />

Simona ha il viso stanco, ma il sorriso adorabile come sempre.<br />

«Ciao Vicino, scusa il ritardo. Oggi l’ufficio era un delirio.»<br />

«Non ti preoccupare» menti un po’, «Silvio si è addormentato.»<br />

«Adesso lo metto a letto.»<br />

Entra lasciando aperta la porta del suo appartamento. Nel pianerottolo, abbandonate<br />

per terra, le sue cose. Prende in braccio Silvio che la abbraccia stanchissimo.<br />

Tu sei sempre sulla porta.<br />

«Ciao Vicino, grazie.»<br />

«Hai già fatto cena? C’è una pizza in forno, se riesci a mangiarla.»<br />

«Ci riesco sicuramente, con la fame che ho.»<br />

«Simo, lavori troppo» la rimproveri bonariamente.<br />

Porti da lei la pizza fredda e pure le cose che ha lasciato sul pianerottolo: una<br />

borsa, il pc, la sciarpa, le chiavi della macchina. Mentre lei mette a letto il figlio, rimani<br />

un attimo all’ingresso ascoltandola mentre lo coccola e lo accompagna nel<br />

sonno. Ti dà uno strano piacere sentire quella cantilena sussurrata e roca. Come<br />

la prima volta che l’hai incontrata. Era appena arrivata nel palazzo e aveva già invaso<br />

tutto il pianerottolo. Non solo pacchi e scatoloni, ma tutta una serie di oggetti<br />

che ricordi di esserti chiesto come avesse fatto a trasportare senza un contenitore,<br />

una valigia o un sacchetto qualunque. C’erano <strong>dei</strong> libri, delle scarpe, un boccaglio,<br />

un peluche, un mouse, <strong>dei</strong> dischi, una padella, due bottiglie di vino. Oggetti che<br />

avevano trovato il loro posto tra le scatole e sembravano essere a proprio agio, e<br />

che formavano una specie di scia, come le molliche di pane delle fiabe. Seguendoli<br />

eri entrato nell’appartamento di fronte al tuo e saresti potuto arrivare fino alla camera<br />

in fondo al corridoio, da cui proveniva una voce roca che cantava una ninna<br />

nanna. Allora come oggi ti eri fermato ad ascoltare.<br />

Questa volta però non puoi restare, devi convincere Monica a rimanere per la<br />

notte.<br />

Esci chiudendoti dietro la porta, senza salutare.<br />

Capitolo 2<br />

Accendi l’aria condizionata e un odore acre di pelo di cane bagnato investe l’abitacolo.<br />

«Ancora problemi col filtro?» Monica chiude la portiera e si allaccia la cintura di<br />

sicurezza.<br />

«Già» commenti laconico, mentre abbassi i finestrini per far circolare un po’ d’aria<br />

pulita. «Fra qualche minuto se ne sarà andato.»<br />

«Sarebbe meglio cambiare l’auto.»<br />

«Perché?» Alla tua auto ci sei affezionato, anche se ormai ha un’età. Sì, d’accordo,<br />

il motore è un po’ rumoroso, ma basta tenere lo stereo alto.<br />

«A proposito, a fine mese mi danno l’auto» Monica sta rovistando nella borsa.<br />

Per fortuna siete fermi al semaforo, altrimenti avresti inchiodato brutalmente. La<br />

guardi esterrefatto.<br />

«Sergio mi ha detto ieri che ha pensato di dotare le persone del marketing dell’auto<br />

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aziendale» finalmente ha trovato quello che cercava, il cellulare. Lo guarda un attimo<br />

e lo ripone nell’immensa borsa griffata.<br />

«Io l’aspetto da anni» mormori.<br />

«Come?» Monica ti sorride. Le labbra si aprono sui denti bianchissimi – la piccolissima<br />

apertura tra gli incisivi, sorride anche lei – le gote si gonfiano e gli occhi<br />

neri si accendono sulla carnagione abbronzata. È bellissima.<br />

«No, nulla. Sono contento per te.»<br />

Il resto del tragitto lo fate in silenzio, fino a piazza Berlusconi. Tutte le volte che<br />

dormite insieme poi la lasci qui, a duecento metri dall’ufficio. Siete d’accordo di tenere<br />

segreta la vostra relazione, per ora. La guardi allontanarsi verso la statua<br />

equestre di Silvio Berlusconi. Poi riparti verso il parcheggio.<br />

Dieci minuti più tardi, mentre cammini su corso Craxi, il tuo sguardo è attratto da<br />

alcuni cartelloni elettorali. Ci sono le elezioni a breve? Non lo sai e non ti interessa,<br />

non voti da anni. Ti colpiscono però i poster del PDM, il partito del premier ha i<br />

manifesti sei metri per tre: cielo azzurro, campi verdi, ulivi e il mare in lontananza.<br />

In primo piano, a figura intera, il Primo Ministro, bello e abbronzato, i folti capelli<br />

neri al vento, che porta sulle spalle una bambina sorridente. Sorride anche lui. La<br />

scritta “PDM, il futuro dell’Italia” è blu. Passi davanti a uno <strong>dei</strong> poster che ti parla:<br />

«Buongiorno giovanotto, ha già pensato per quale partito voterà alle prossime elezioni?»<br />

I poster interattivi sono l’ultima trovata del partito del Cavaliere, basta che qualcuno<br />

si avvicini e la sua voce registrata interagisce, salutando e parlando con il passante.<br />

Ti è capitato di vedere persone discuterci animatamente. Prosegui senza<br />

rispondere.<br />

«Va bene, sarà per la prossima volta. Le auguro una buona giornata. Pensi al suo<br />

futuro, Voti PDM.»<br />

Hai sentito che ci sono anche <strong>dei</strong> poster tridimensionali, ma non li hai mai visti.<br />

Svolti su via Moratti, una stradina tranquilla, lasciandoti il traffico alle spalle. Anche<br />

qui vedi un poster elettorale: su uno sfondo bianco c’è il mezzo busto in bianco e<br />

nero di un uomo che indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate e, intorno<br />

al colletto sbottonato, una cravatta nera a pois. L’uomo è quasi calvo, a parte<br />

un po’ di capelli spettinati sulle tempie, ha delle occhiaie e un’espressione che vorrebbe<br />

essere austera ma sembra solo stanca. Lo guardi e ti fa venire in mente<br />

una vecchia lampadina triste. La scritta è color verde ospedale e dice “Per una<br />

nuova Italia. Vota L.O.S.E.R.: Lega di Opposizione per una Società Egualitaria e<br />

Responsabile”. Il poster non è interattivo, non ti chiede nulla e non vuole sapere<br />

nulla di te. Lo guardi per un attimo e poi te ne vai prima di deprimerti. Menomale<br />

che non voti.<br />

«Aleee! Vieni pure, caro.»<br />

Non hai fatto in tempo ad arrivare in ufficio che la segretaria dell’amministratore<br />

delegato ti ha convocato. Sergio vuole parlarti.<br />

Questo qui deve essere un gran figlio di puttana, ti sei detto la prima volta che lo<br />

hai guardato in faccia. Ti stava facendo un colloquio di assunzione. Lo avevi aspet-<br />

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tato per quasi un’ora in un’enorme sala riunioni con una parete di vetro smerigliato,<br />

oltre la quale un’ombra agitata stava parlando in inglese al telefono. Quando aveva<br />

chiuso la telefonata, era piombato nella sala riunioni, ti aveva stretto la mano e<br />

aveva sfoderato un gran sorriso, bianchissimo. E aveva continuato a parlare. Sui<br />

quarantacinque, molto sicuro di sé. Sapeva piacere alla gente: era il suo mestiere,<br />

era l'amministratore delegato. Gli occhi però non ti avevano convinto: piccoli, scuri<br />

ed estremamente mobili. Ti davano l’impressione che si guardassero intorno in<br />

cerca della prossima preda.<br />

Chissà cosa aveva pensato di te. Non che te ne importasse molto; ti stava offrendo<br />

un bel lavoro, uno stipendio che non avresti mai neanche sperato dopo una laurea<br />

breve e un open space pieno di belle ragazze. Quindi non servivano tanti discorsi<br />

per convincerti. Non c’era stato bisogno di rispondere bene e di simulare sicurezza,<br />

aveva parlato lui per tutti e due.<br />

E poi ti aveva assunto.<br />

Col tempo hai scoperto che con Sergio è sempre così, parla solo lui perché lui sa<br />

sempre tutto di ogni cosa: conosce gli ultimi gadget tecnologici, le auto che stanno<br />

per uscire, i colori di moda per il prossimo anno. E non chiede mai conferme. Né<br />

ha mai tentennamenti, non ha bisogno di riflettere, ponderare o meditare. Lui sa.<br />

Il suo istinto lo guida e gli indica la scelta. Che è sempre la più logica e corretta. È<br />

sicuramente un uomo di successo nella vita e negli affari. Potresti quasi invidiarlo,<br />

se non pensassi che è uno stronzo pieno di sé.<br />

Mentre percorri gli svariati metri che separano la porta dalla sua scrivania, lo senti<br />

concludere una telefonata.<br />

«Certo certo. Non c’è problema caro mio, ci vediamo al porto domani sera. Ti faccio<br />

passare un weekend fantastico. Senza famiglia, senza rotture. Solo mare, vela<br />

e relax. Ceeeerto.»<br />

Ti strizza l’occhio, complice. Dietro di lui, la parete al plasma trasmette immagini<br />

da un canale economico. Finalmente riattacca.<br />

«Alessandro, come stai?»<br />

Il suo sorriso si riapre nuovamente, bianchissimo e sicuro. Ha un viso aerodinamico.<br />

Si vede che è in cima alla catena alimentare.<br />

«Volevi vedermi?»<br />

«Come va con la Eptron? Consegnate le schede?»<br />

«Arriveranno domani, purtroppo con un giorno di ritardo. Ma ho già sistemato con<br />

loro.»<br />

«Bene. Bene. Ti ho chiamato perché volevo parlarti dell’auto aziendale.»<br />

Si alza. È alto, un corpo magro e atletico che si estende per circa un metro e novanta.<br />

Si tiene in forma. Se non fosse per le rughe del sorriso, non lo diresti che<br />

ha quarantacinque anni.<br />

«So che è da un po’ che la stai aspettando…»<br />

Il telefono sulla scrivania si illumina e vibra. Sergio si distrae per un attimo. Poi<br />

torna a guardarti con un sorriso ancora più largo. Però non parla, è ancora distratto<br />

dal messaggio appena ricevuto. Dev’essere una buona notizia.<br />

«Be’, certamente l’auto mi sarebbe utile» cogli l’occasione per rimarcare il tuo bisogno.<br />

«Te ne ho già parlato altre volte. Giro molto…»<br />

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«Sono il primo a dire che l’assistenza vendite dovrebbe essere dotata di un’auto<br />

aziendale. Purtroppo però abbiamo problemi di budget. Ci sono vincoli imposti da<br />

Chicago...»<br />

Quando mette in mezzo gli americani, di solito butta male. Lui ha sempre grandi<br />

idee, purtroppo i capi non gli lasciano la libertà per seguire tutte le sue intuizioni.<br />

«Dopo lunghe discussioni, dato che quest’anno soffriremo per raggiungere gli<br />

obiettivi, mi hanno concesso due auto…» tenendo le mani unite per i polpastrelli<br />

davanti a sé, si sporge sul tavolo di cristallo fissandoti, «e voi dell’assistenza siete<br />

tre…»<br />

In effetti, siete tre.<br />

«Perciò cominciamo dal marketing, dove sono solo in due.»<br />

Non fa una piega.<br />

«Ma scusa, abbiamo superato tutti i record di vendita. Possibile che ci siano problemi<br />

a dare tre macchine?» provi a batterti.<br />

Sergio smette di sorridere. Di solito questo vuol dire che qualcuno è andato troppo<br />

oltre. Riflette, in silenzio e con la bocca stretta. Una fessura sottile. Una cosa che<br />

succede di rado e si tratta sempre di momenti innaturali, complessi.<br />

Viene interrotto da una nuova vibrazione. Afferra il telefono dal piano di cristallo<br />

con tanta irruenza da far cadere il telecomando dello schermo al plasma, lì a<br />

fianco. Occupato a rispondere al messaggio, non si cura né <strong>dei</strong> pezzi del telecomando<br />

schizzati sul pavimento, né delle batterie che ora rotolano spensierate sul<br />

parquet color miele, né del fatto che l’urto abbia sintonizzato lo schermo su Rete4.<br />

Ripone il telefono e ti fissa severo.<br />

«Stai forse mettendo in discussione il modo in cui è gestita l’azienda?»<br />

No, tu non stai discutendo nulla.<br />

«Se questa storia dell’auto crea problemi, la dovrò riconsiderare. Non la darò a<br />

nessuno e se ne riparla l’anno prossimo.» Adesso ha ripreso a sorridere, «Vai a<br />

chiamare Monica e Lorenzo che gli diamo la notizia.»<br />

Così non vale! Monica ti ucciderà se le farai togliere l’auto.<br />

«No, aspetta, non intendevo fare storie, stavo solo dicendo...»<br />

«Non intendevi fare storie? A me sembra proprio che stavi facendo storie! Io cerco<br />

in continuazione di migliorare la vostra vita, discutendo con gli americani per ottenere<br />

benefit per tutti voi. Mi aspetterei da voi più riconoscenza e pazienza. Siamo<br />

sulla stessa barca, lo capisci?»<br />

Stessa barca? Lui ha una barca. Tu solo una Punto vecchia di quindici anni con il<br />

filtro dell’aria condizionata rotto.<br />

«Hai ragione, Sergio. È solo che ho bisogno di cambiare l’auto» capitoli.<br />

«Capisco. Ti prometto che la prima dell’anno prossimo sarà la tua.»<br />

Il sorriso si è riaperto più radioso e balsamico che mai. La macchina di Monica è<br />

salva.<br />

Sergio continua a descriverti il radioso futuro che sta preparando per tutti voi, i<br />

suoi ragazzi, che lui difenderà e proteggerà a ogni costo, purché voi rimaniate<br />

sempre fiduciosi nel vostro illuminatissimo capo. Tu non lo segui più, perché nel<br />

frattempo ti distrai guardando la parete alle sue spalle. Su Rete4 sta iniziando il<br />

telegiornale di mezzogiorno. Dopo la sigla appare la faccia di Emilio Fede. Ha il<br />

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sorriso delle grandi occasioni, ma gli occhi sembrano più guardinghi del solito.<br />

Trasmettono una certa apprensione.<br />

«Gentili telespettatori, a nome di tutta l’azienda mi scuso per quanto è successo<br />

ieri sera» la sua voce si confonde con quella di Sergio, riesci a distinguere a fatica<br />

quella del giornalista. «È stato un increscioso incidente tecnico, che però è stato<br />

risolto. Per rassicurare l’affezionato pubblico, abbiamo deciso insieme alla dirigenza<br />

che avrei aperto anche l’edizione di mezzogiorno.»<br />

E risuccede. Lo schermo si spegne. Scatti in piedi per la sorpresa indicando il plasma<br />

spento.<br />

«Che ti prende?»<br />

«Niente, scusa, ho dimenticato che devo chiamare quelli della Eptron entro mezzogiorno.<br />

Scusami, ma è urgente.»<br />

«Vai pure. Siamo intesi, giusto?»<br />

«Giusto, giusto.»<br />

Scappi via. Corri alla sala riunione del primo piano per controllare, sperando che<br />

il plasma di Sergio sia difettoso, ma la sala è occupata, c’è già Guillaume con il<br />

telecomando in mano. Fissa uno schermo buio.<br />

«Hai visto il tanné? Era in crisi di astinenza! Forse lo pagano a ore, come la mia femme<br />

de ménage.»<br />

Lo fissi senza riuscire a parlare, poi guardi la lucina del televisore, allegramente<br />

verde: non è spenta. Guillaume preme un bottone a caso. Le immagini tornano a<br />

scorrere sullo schermo. Una sonora risata riempie la sala riunioni e richiama le<br />

persone dall’open space vicino.<br />

«Cosa succede?» chiede Anna, la centralinista.<br />

«Rete4: si è spenta di nuovo» risponde con le lacrime agli occhi il francese, «Secondo<br />

me all’abbronzato gli prende un colpo!»<br />

Cerchi di ridere anche tu, continuando a ripeterti che augurarglielo non vale.<br />

Capitolo 3<br />

Bruno Pizzi è seduto da un’ora sul divano immacolato nello studio del Presidente.<br />

È in bilico sul bordo della seduta. Continua a dondolarsi senza sosta come fosse<br />

seduto su una stufa. È agitato e angosciato. A vederlo in faccia non si direbbe<br />

molto preoccupato, ma è solo dovuto ai tanti lifting subìti negli anni. Da tempo<br />

Bruno non è più in grado di governare appieno i muscoli facciali. Poco male, lo<br />

aveva messo in conto dall’inizio della sua carriera. Da quando si era proposto alle<br />

selezioni. Gli esaminatori della giuria glielo avevano detto: hai la stoffa, ma dovrai<br />

lavorare sulla faccia. E ci aveva lavorato, parecchio. In realtà si era sottoposto<br />

anche a un intervento alle corde vocali, per riuscire a modellare la sua voce perfettamente<br />

uguale all’originale.<br />

Dietro alla faccia abbronzantissima, dietro al completo impeccabile, Bruno è terrorizzato,<br />

perché sa che quello che sta succedendo può essere la fine della sua<br />

carriera. Questo non può permetterselo, non dopo tutti i sacrifici che ha fatto. E<br />

proprio per tutto ciò che ha fatto per lui, il Cavaliere dovrà aiutarlo.<br />

Finalmente la porta si apre. Bruno scatta in piedi mentre Luca B Vischi, Presidente<br />

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del Consiglio della Repubblica Italiana, entra nel suo ufficio.<br />

«Emiiiilioo! Eccoti qui finalmente!» il sorriso radioso del Premier è già un balsamo<br />

sulle ansie del poveruomo. Lui lo capirà e aiuterà.<br />

«Presidente, buongiorno.»<br />

Il Presidente si ferma per un attimo a guardarlo: «Bruno, scusami se ti ho chiamato<br />

Emilio. La forza dell’abitudine.»<br />

«Si figuri. Anzi, lo considero un complimento.»<br />

Il Presidente gli fa cenno di tornare a sedersi.<br />

«Vuoi un caffè? Prego, serviti pure. I babà sono freschissimi» si siede nella poltrona<br />

di fronte, accavalla le gambe, si passa – come sempre – una mano tra i folti<br />

capelli e lo guarda con aria rassicurante. «Allora dimmi, di cosa volevi parlarmi?»<br />

Bruno esita un momento. Dopo aver passato due notti insonni, aver urlato contro<br />

ogni collega e dirigente del gruppo e aver ostinatamente insistito con la segretaria<br />

personale del Cavalier B Vischi per ottenere un colloquio, adesso è assalito dal<br />

dubbio che il suo problema sia davvero poca cosa in confronto ai problemi che il<br />

Cavaliere deve affrontare ogni giorno. Abbassa lo sguardo quasi vergognandosi<br />

del suo ardire, e in quel momento vede riflesso nella brocca d’argento di fronte a<br />

lui il viso, un po’ deformato dal metallo, di Emilio Fede. Emilio gli sta chiedendo di<br />

non tradirlo.<br />

«Presidente, ho chiesto di vederLa per parlarLe degli oscuramenti che ho subìto<br />

negli ultimi due giorni…»<br />

«Ah! I blackout del tuo telegiornale. Bruno, sappiamo benissimo che si è trattato<br />

di un caso.»<br />

«Ma Presidente. Ne è sicuro? È una strana coincidenza...»<br />

«Ne sono sicuro. Ho parlato con Pio, si è trattato di un guasto tecnico.»<br />

«Due volte?»<br />

«Una coincidenza! E una riparazione al guasto fatta male. La persona responsabile<br />

è già stata rimossa. Problema chiuso.»<br />

«Problema chiuso?»<br />

«Chiuso.»<br />

Il Cavaliere rimarca il concetto addentando risoluto un babà, meritato premio.<br />

«Presidente, se posso permettermi…»<br />

Il Presidente lo guarda con aria assente continuando a masticare, evidentemente<br />

può permettersi.<br />

«Mi è sembrato strano che proprio mentre ero in onda, per due volte di seguito, ci<br />

sia stato lo stesso guasto tecnico. Secondo me si è trattato di sabotaggio.»<br />

«Sabotaggio?» il babà finisce sputacchiato per terra.<br />

«Sì, qualcuno dell’opposizione, qualcuno della concorrenza?»<br />

«Concorrenza!? Emilio! Le satellitari sono fuorilegge da anni. Quale concorrenza!»<br />

«Ma Presidente, potrebbe essere possibile. Se ci pensa bene, io sono da sempre<br />

il suo collaboratore più fidato. Attaccare me è come attaccare il suo volto sullo<br />

schermo.»<br />

Il Presidente si alza e comincia a camminare avanti e indietro.<br />

«Bruno, conosco perfettamente la tua fedeltà e il tuo coraggio. Ti ho scelto personalmente<br />

tra decine di aspiranti sosia. Ho saputo vedere oltre le differenze este-<br />

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iori. Ho capito che sotto le apparenze saresti stato il miglior candidato possibile<br />

per sostituire il tuo compianto predecessore. E sono stato io a pagare tutti gli interventi<br />

chirurgici.»<br />

«…Lo so, ma…»<br />

«E ho fatto bene, perché negli anni hai rappresentato per tutti gli italiani la continuità<br />

di azione del governo. Continuità, cioè sicurezza. Le famiglie italiane si fidano<br />

di te. E così anche io.»<br />

Bruno–Emilio si sente così onorato che quasi dimentica le sue preoccupazioni.<br />

«E ora io ti chiedo di fidarti di me.»<br />

«Certo maest… certo Presidente!»<br />

«Non ci sono attentati, non ci sono sabotaggi. Solo un guasto e una coincidenza.<br />

Questa sera tornerai in onda come sempre, hai la mia parola.»<br />

Bruno–Emilio si alza commosso: «Grazie! Grazie Presid…»<br />

«Ma figurati, per così poco. Ora devo chiederti di lasciarmi, ho un’altra riunione.»<br />

Il giornalista si inchina senza aggiungere altro ed esce dallo studio.<br />

Pietro Pompei entra senza bussare qualche minuto dopo.<br />

Ogni volta che entra in quello studio, il sottosegretario alla presidenza non può<br />

fare a meno di pensare quanto sia orribile il nuovo arredamento scelto dal Presidente<br />

del Consiglio. Considera raccapriccianti e fuori luogo i mobili di design che<br />

Vischi ha voluto mettere. La madre, buonanima, aveva molto più gusto.<br />

«Era Emilio quello che usciva? Era in lacrime, non mi ha nemmeno salutato.»<br />

B Vischi sta sorseggiando un caffè.<br />

«Ultimamente è strano, saranno le medicine che prende. Mi avevano detto che a<br />

lungo andare avrebbero potuto creare danni permanenti.» Posa la tazzina sul tavolino<br />

di cristallo: «Oggi ha voluto vedermi perché è convinto che ci sia un complotto<br />

contro di lui. Capisci? La mia rete ammiraglia è in blackout per quasi quattro<br />

ore in due giorni. Io perdo fiumi di soldi in mancati introiti pubblicitari e lui si preoccupa<br />

perché lo stanno sabotando. E per quale motivo lo saboterebbero?» si<br />

fissa le unghie delle dita affusolate. «Forse è il caso di avviare una ricerca per un<br />

nuovo sosia di Emilio Fede» conclude.<br />

Il segretario si siede sul divano di pelle bianca nel quale sprofonda come se i cuscini<br />

cercassero di ingurgitarlo. A fatica riesce a riemergere dalla pelle immacolata<br />

e sedersi sul bordo. Pensa a quanto erano meglio le poltrone seconda Repubblica.<br />

«Pietro, perché l’ambasciatore cinese vuole vedermi?» il Presidente si passa la<br />

mano tra i capelli. «Devi spiegare a Zenit che deve finirla. Continua a dichiarare<br />

che vuole permettere ai cinesi nati in Italia di votare.»<br />

«Vuol far votare gli immigrati?»<br />

«Non tutti, solo i cinesi, visto che a Milano sono ormai la maggioranza. Ma non è<br />

pensabile farli votare, in Cina si stanno innervosendo.»<br />

«Perché?»<br />

«Scherzi? In Cina la democrazia c’è! Ma senza diritto di voto. Non vogliono cattivi<br />

esempi.»<br />

«Capisco. E se lo permettiamo solo alle municipali?»<br />

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«Non vogliono sentire ragioni. Minacciano di bloccare le importazioni dall’Italia.»<br />

«Disastroso! La nostra industria del lusso tracollerebbe.»<br />

«Appunto, non ce lo possiamo permettere.»<br />

«Ma gli hai spiegato che poi alla fine il voto… si gestisce? Gli hai parlato di Democracy?»<br />

«Lo sanno benissimo come funziona, ma non vogliono rischiare.»<br />

«D’accordo, convoca Zenit e vedrò di fargli cambiare idea.»<br />

Il Premier estrae un cellulare dalla tasca interna della giacca, lo fissa per qualche<br />

istante e poi scuote la testa.<br />

«Neanche un messaggio» mormora.<br />

Il segretario appoggia lentamente la tazza vuota. Si ferma per un attimo a fissare<br />

lo schermo cinquanta pollici che trasmette l’immagine di un acquario con fondali<br />

caraibici. Poi guarda negli occhi il suo presidente: «Vuoi che mandi qualcuno a<br />

cercarla? Con discrezione.»<br />

Il Presidente tira un grosso sospiro e sembra accasciarsi sulla poltrona.<br />

«No, per ora lascia perdere.»<br />

Pietro si alza e va alla porta, ma esita ad aprirla.<br />

«Luca, ci sarebbe un’altra questione.»<br />

«Quale?»<br />

«Questa storia <strong>dei</strong> blackout. Anche a me sembra molto strana.»<br />

«Anche tu? Si è trattato di un incidente.»<br />

«Sì, però… due volte? E sempre quando compare Emilio? A me sembra strano.<br />

Se permetti vorrei occuparmene in prima pers…»<br />

«Pietro» Luca B Vischi si alza e gli va incontro, «si tratta dell’azienda di famiglia,<br />

l’ha fondata mio nonno.»<br />

«Sì, ma…»<br />

«Nessun ma, me ne sto occupando io, ti ho detto. E sono sicuro si tratti di una<br />

coincidenza.»<br />

Apre la porta al suo segretario. L’invito è inequivocabile.<br />

«D’accordo. Ci vediamo più tardi con l’ambasciatore cinese e Zenit per risolvere<br />

la questione.»<br />

Pietro Pompei si chiude la porta alle spalle e si allontana turbato. Dopo qualche<br />

metro, estrae un palmare e compone un numero.<br />

«Sono io. Ho bisogno di una ricerca sui blackout degli ultimi due giorni. Con discrezione,<br />

mi raccomando.»<br />

Capitolo 4<br />

«Dammene uno che vince!»<br />

Il barista porge il gratta e vinci all'uomo con la coda al bancone.<br />

Lo osservi dal tavolo, mentre sorseggi il cappuccino. Estrae un mazzo di chiavi<br />

dalla tasca, sceglie la più solenne e la strofina concentrato sul cartoncino dorato<br />

che il barista gli ha passato.<br />

Ti ricordi di quando tuo padre da bambino ti spiegò la logica <strong>dei</strong> gratta e vinci. A te<br />

piaceva da morire strofinare le monetine sulla patina argentea per scoprire quello<br />

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che nascondeva. Il tuo preferito era il “Tris del Trapassato”. Se dietro alle tre caselle<br />

coperte si trovavano tre figure uguali, si vinceva la proprietà di un conto bancario<br />

dormiente. Tu a quell'età nemmeno sapevi cosa fosse un conto corrente né<br />

perché stesse dormendo. Però ti piaceva scorticare la pellicola delle tre caselle e<br />

scoprire quali figure nascondessero. Le pulivi tutte e tre accuratamente, anche se<br />

alla seconda già si poteva smettere: non ce n'erano mai due uguali. Smettesti di<br />

giocarci quel giorno che al bar sottocasa avevano finito i cartoncini del “Tris del<br />

Trapassato”. «Mi sono finiti, ormai sono introvabili» aveva detto il barista parlando<br />

a tuo padre. Avevi cominciato a piangere e a dare calci al basamento di marmo<br />

del bancone: non era giusto! Tuo padre si era accucciato, ti aveva guardato fisso<br />

con i suoi occhi calmi fino a quando non avevi smesso di frignare, e poi ti aveva<br />

spiegato: «Alessandro, questi giochi del gratta e vinci sono la tassa sulla stupidità.»<br />

Tu una tassa non sapevi proprio cosa fosse, ma la stupidità invece sì. «Solo<br />

gli stupidi pensano che grattare un cartoncino gli cambierà la vita. Sei stupido tu?»<br />

Avevi tirato su col naso e avevi detto imbronciato «No!», e non avevi più voluto<br />

grattare niente da nessuno cartellino.<br />

Tuo padre. Chissà cosa direbbe oggi nel guardare il tipo col codino così concentrato<br />

sul “Gratta e Vinci Democracy”.<br />

«Fanculo! Ti avevo chiesto di darmene uno buono!» accartoccia il cartoncino e lo<br />

getta per terra.<br />

Sorridi tra te e addenti il cornetto.<br />

«Mais vraiment voi italiani pensate che uno di quei cosi vi possa portare in parlamento?»<br />

Guillaume ti sottrae dai tuoi pensieri con una domanda troppo complicata. Spallucce.<br />

«Ragadzo...» il francese posa il marocchino e si sistema sulla sedia per aprire una<br />

lezione di educazione civica d’oltralpe, «dites–moi la verità: hai mai visto nessuno<br />

vincere?»<br />

«Boh, ogni tanto si sente di qualcuno che vince» immergi la faccia nella tazza provando<br />

a leccare la schiuma rimasta sul fondo e sperando che la tazza nasconda<br />

Guillaume.<br />

Il francese è uno in gamba. Sul lavoro, ma anche nella vita. Uno che se ne frega,<br />

che fa e dice le cose che devono essere fatte e dette. Che non ha paura delle<br />

conseguenze. Uno che ha le sue idee ed è pronto a difenderle. Guillaume viene<br />

da Parigi, ma non ha la puzza sotto al naso. Sarà che ha viaggiato un bel po', ma<br />

è proprio un bravo ragazzo. Però quando inizia con la politica, non si regge.<br />

«Gui, siamo in ritardo. Io devo timbrare» ti alzi e vai a pagare.<br />

«Quanti senatori vengono nominati ogni anno? Quanti sono?»<br />

Non molla, continua a tormentarti anche sulla strada assolata verso l'ufficio.<br />

«Non lo so, Gui. Sono tanti, ma non è che basti vincere al gratta e vinci per diventare<br />

senatore, per chi ci hai preso?»<br />

«Ah no?»<br />

«Certo che no, quelli che vincono poi devono andare in tv, e solo alcuni vengono<br />

scelti col televoto.»<br />

Il francese aggrotta la fronte, si sta preparando per un nuovo attacco.<br />

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«E in Francia come fate per sceglierli?» lo anticipi.<br />

Per un attimo rimane sorpreso dalla domanda.<br />

«Noi siamo all'antica, noi li eleggiamo.»<br />

La mattinata passa velocemente, ci sono un bel po' di commesse da chiudere<br />

prima della pausa estiva, il lavoro non manca.<br />

Ritrovi Guillaume a pranzo per una piadina al solito posto, dove vi raggiungono<br />

anche Monica e Lorenzo, il suo collega del marketing.<br />

«Ciao ragadzi» Gui addolcisce sempre le zeta, «come va? Lavorate sempre alla<br />

strategia di comunicazione?» e si porta una mano alla bocca, facendo il gesto di<br />

tracannare un bicchiere.<br />

«Certo! Vuoi dare una mano?»<br />

I due stanno parlando della serie di eventi pensati da Sergio in occasione <strong>dei</strong> mondiali<br />

di calcio. Nelle principali città d'Italia verranno organizzate serate per i nostri<br />

clienti migliori con megaschermi e spettacoli per cenare e festeggiare, con la scusa<br />

di guardare le partite. Ovviamente, visto che Avaya è sponsor della manifestazione,<br />

saranno proiettate le immagini migliori: quelle delle telecamere più vicine.<br />

Neanche le pay tv possono offrire tanto.<br />

Per Guillaume si tratta di una scusa per offrire cene e mignotte ai clienti peggiori.<br />

A te piacerebbe partecipare, per le partite e perché le organizza Monica. Ma la<br />

cosa è fuori discussione: Sergio è stato chiaro.<br />

«No no, c'est un travail trop difficile per me!»<br />

È proprio un peccato che Guillaume e Monica non si piacciano. Passano il tempo<br />

a punzecchiarsi. Non che te ne importi molto, è solo che ogni tanto ti tocca metterti<br />

in mezzo prima che si accapiglino.<br />

«Fede si è rivisto?» ti chiedi come mai tu abbia scelto proprio questo argomento<br />

per cambiare discorso.<br />

«Fede?» Monica sembra neanche ricordarsi già più chi sia.<br />

«No no» Guillaume non aspettava altro. «Il vecchio tanné non si vede più: quando<br />

lo invitavano a un programma, il programma veniva oscurato! Anche al TG4 lo<br />

hanno rimpiazzato! Ormai scrive.»<br />

«Scrive?»<br />

«Sui giornali!» si guarda intorno e ne prende uno sgualcito su un tavolo vicino. Te<br />

lo sbatte davanti. La foto a colori di un furibondo Emilio Fede ti fissa astiosa. L'articolo<br />

che la circonda parla di complotto, di personaggio scomodo, nemici del popolo,<br />

fedeltà totale al Presidente, attentato. Alla terza riga sei già annoiato.<br />

«È così su tutti i giornali. Il vecchio non si rassegna di aver perso il suo giocattolino.»<br />

«Ma secondo voi come mai è sparito dalla tv?»<br />

Tu non lo sai di certo. E augurarselo non conta.<br />

«Io penso che Le Boss si è stancato de luì e ha deciso, come dite voi? di fare luì<br />

fuori. E lo ha cacciato. Quando sei fuori dalla telé, sei fuori da tutò.»<br />

Annuisci vigorosamente, cercando di convincerti della razionalità della spiegazione.<br />

Monica guarda il giornale.<br />

96


«Stasera c’è la finale di Democracy.»<br />

Alzi lo sguardo al cielo, sai già quello che sta per succedere.<br />

«Ah, il futuro della democrazia» Guillaume non se l’è fatto ripetere due volte.<br />

«In che senso?» Monica è già sulla difensiva.<br />

«Democracy è il programma per scegliere i parlamentatori…»<br />

«Si dice parlamentari. Sono i senatori che vengono scelti con Democracy.»<br />

«Non era col gratta e vinci?»<br />

«No! Chi te l’ha detto? Col gratta e vinci si accede alle selezioni. Poi si passa nella<br />

casa del programma e si deve dare prova di avere delle abilità. Se il pubblico ti<br />

vota, diventi senatore.»<br />

«Incroyable.»<br />

«Un corno! È un metodo molto migliore di quello che c’era prima, quando i deputati<br />

li sceglievano i partiti.»<br />

«Migliore?»<br />

«Certo, adesso la scelta è prima casuale, quindi nessuna possibilità di brogli o inciuci.<br />

Nessun indagato, nessun mafioso. È solo la fortuna che decide. E poi c’è la selezione<br />

da parte del pubblico. Più democratico di così, cosa c’è?»<br />

«Mooolto democratico, davvero!»<br />

Per fortuna arrivano le piadine, non avresti saputo come interromperli. Mangiate<br />

in silenzio.<br />

«E se avesse ragione?» mormora alla fine Lorenzo.<br />

«Chi?»<br />

«Fede. E se avesse ragione lui: se fosse un complotto?»<br />

«Vado a prendere i caffè!» ti alzi di scatto.<br />

97


«Adesso ti spiego come funziona.<br />

Partendo da Sud, Riccione si contraddistingue per i vampiri, dandy del<br />

diciottesimo secolo che tra una vittima e l’altra passano le loro nottate<br />

sorseggiando Martini Dry nei bistrot lungo viale Ceccarini.<br />

Rimini è da sempre feudo indiscusso di licantropi piuttosto sanguinari e<br />

ciellini.<br />

Alcuni sostengono che il ventitreesimo piano del grattacielo di Cesenatico<br />

sia in realtà una porta per l’inferno.<br />

Pinarella è di una noia mortale anche per gli spiriti maligni, mentre gli<br />

zombie hanno sempre apprezzato la zona di Cervia, forse per l’aria salina.<br />

A Milano Marittima non ci vado da quando sono stato multato per aver<br />

parcheggiato l’Ape in sosta vietata. Per me quel posto e i suoi vigili urbani<br />

possono anche finire arrostiti da Satana in persona.<br />

Marina di Ravenna è da sempre la patria di serial killer con tendenze religiose<br />

e fanatici alla Charles Manson.<br />

Dopo Marina iniziano i lidi frequentati dai ferraresi: se non ci sei mai stato,<br />

immaginati Fàntasia de La storia infinita dopo l’arrivo del Nulla e aggiungici<br />

pini marittimi e un po’ di tristezza.»<br />

1.500.000, sono le persone che la notte del 2 luglio 2009 si sono riversate<br />

nelle spiagge romagnole.<br />

63, i km che separano Ravenna da Riccione lungo la statale Adriatica.<br />

12, i metri di lunghezza media di una Limousine Lincoln.<br />

10, le ore che mancano all’alba.<br />

8, i ragazzi molto molto cattivi che non dovresti mai incontrare.<br />

5, le persone che cercheranno di fermarle.<br />

2, Luca e Donatella.<br />

1, la notte: è la Notte Rosa.<br />

Luca R (come tutti) è nato lo stesso giorno di Dylan Dog a Castel San<br />

Pietro (BO).<br />

Vive tra Milano e la Romagna: tutta, indistintamente.<br />

Lavora in tv (ossimoro).<br />

Questo è il suo primo romanzo.<br />

99


Via le mani dagli occhi... la notte rosa, Luca R.<br />

Indice<br />

PARTE I - HANA-bi<br />

CAP 1 - LOSER(S)<br />

CAP 2 - SATURDAY NIGHT’S ALRIGHT (FOR FIGHTING)<br />

CAP 3 - HIGHWAY TO HELL<br />

INTERMEZZO - TRE PAPERELLE<br />

PARTE II - COSMONAUTI<br />

CAP 4 - WELCOME TO THE JUNGLE<br />

CAP 5 - SHOOT FOR THE THRILL<br />

INTERMEZZO - TRE PAPERELLE (II)<br />

PARTE III - MEXICAN STAND-OFF<br />

CAP 4 - BATTLE WITHOUT HONOR OR HUMANITY<br />

CAP 5 - A FIOR DI PELLE<br />

CAP 6 - SCAPPA CON ME<br />

EPILOGO<br />

«Ci sono delle regole precise che vanno rispettate<br />

se si vuole sopravvivere in un horror:<br />

1. Non si deve mai fare sesso. Sesso uguale morte.<br />

2. Mai ubriacarsi o drogarsi.<br />

3. Mai, mai e poi mai, in nessun caso dire: “torno subito”.»<br />

Randy in Scream<br />

100


Parte I<br />

Hana-bi<br />

CAPITOLO 1<br />

LOSERS<br />

1.<br />

Imola, ore 17:30<br />

Vaffanculo, ma andiamo con ordine.<br />

“I’m a loser baby, so why don’t you kill me?”<br />

Beck<br />

Le differenze tra le due squadre partivano dal livello epidermico.<br />

I giocatori del Ceramicandi Faenza, quadri e medi livelli dell’omonima cooperativa<br />

ceramica, mostravano una coloritura uniforme frutto degli agi di una vita borghese,<br />

dove l’abbronzatura si coltivava con regolarità sin dal primo weekend di maggio.<br />

Al contrario l’ARCI Imola Basket 1997 esibiva sotto le canottiere color turchesi una<br />

maggiore varietà cromatica: un nigeriano d’ebano, tre magrebini color faggio, una<br />

larga rappresentanza di lavoratori dell’edilizia con pelle già scurissima – ma solo<br />

dal gomito e dal ginocchio in giù – due programmatori informatici viranti sul beige<br />

e infine un albino. Ma bisognava aggiungere altri due elementi per completare la<br />

tavolozza.<br />

Di un color scuro ai limiti del rosso lo era sin da dicembre il capitano Michele Bombardoni,<br />

titolare della Bombardoni installazioni elettriche srl, discussa ex promessa<br />

della pallacanestro locale, alopecia incipiente, in quel momento in una dimensione<br />

parallela: correva, difendeva, rubava, pallava, tirava, intercettava, dava il massimo<br />

quando gli altri, sia i suoi compagni di squadra che gli avversari, si muovevano in<br />

campo come zombie a dieta. Era l’ultima inutile partita di un campionato inutile di<br />

una serie ai limiti del dilettantismo (“ai limiti”, verso il basso) e la foga di Bombardoni<br />

stonava in quel contesto da ufficio statale.<br />

Si fosse giocato la permanenza nel quintetto base la si poteva anche comprendere<br />

tutta quella volontà di dare il meglio, ma il fatto che le Bombardoni installazioni<br />

elettriche srl fossero lo sponsor della squadra, la rendevano superflua e pertanto<br />

ancor più insopportabile.<br />

Tornando a noi, il tiro a palombella da tre punti che portò l’ARCI Imola Basket 1997<br />

nel purgatorio <strong>dei</strong> tempi supplementari col Ceramicandi Faenza G.S. fu lo zenit<br />

della stagione, della carriera e, perché no?, della vita di Michele Bombardoni.<br />

Peccato che la scenografia risultasse del tutto inadeguata a questo evento degno<br />

di entrare negli annales del basket dilettantistico: qualche fidanzata, il vecchio che<br />

non si perdeva mai una partita attaccato come un koala alla ringhiera di bordocampo,<br />

il butterato reporter sportivo del settimanale locale (non quello letto e rispettato,<br />

l’altro) che, per rimarcare il proprio interesse al match, prendeva appunti<br />

ascoltando l’iPod.<br />

101


Un colorito del tutto inappropriato alla stagione estiva era invece quello di Luca<br />

Bazetti, guardia più allenata nello scatto panchina/spogliatoio che in quello dell’area<br />

di tiro/canestro. Ritrovatosi giocatore dell’ARCI Imola Basket 1997 per pressione<br />

osmotica dai tempi del liceo, Bazetti aveva in testa un modo migliore, molto<br />

migliore, per passare il resto di quel primo sabato di luglio, ma quei venti minuti di<br />

tempi supplementari rischiavano di comprometterlo per sempre.<br />

Insomma, quel vaffanculo che Luca Bazetti sibilò a denti stretti allo scadere del<br />

tempo regolamentare, il suo capitano se l’era decisamente meritato.<br />

2.<br />

Imola (ma altrove), ore 17:30<br />

Ritornò al centro della stanza: era tardi e doveva arrivare a una soluzione.<br />

Per le decisioni davvero importanti, Donatella iniziava infatti con l’ordine cronologico:<br />

appoggiava sotto l’armadio le vecchie Reebok dalla suola in plastica verde<br />

logorate in punta fino ad arrivare, trentadue paia dopo, alle tacco dodici rosso vernice.<br />

Quel plotone di calzature le già aveva dato delle suggestioni e un probabile vincitore,<br />

ma il pretenzioso vestito appoggiato sul letto le suggeriva maggiore attenzione.<br />

Si chinò sulle ginocchia e riprese a rimescolare, prima con criteri propriamente<br />

cromatici, poi sistemando il tutto in ordine di altezza, ma non usciva una risposta<br />

certa nemmeno in questo caso. Non riuscendo però a non pensare all’altra faccenda<br />

ritornò alla scrivania, dove però nulla era cambiato, quindi riprese a trafficare<br />

con le scarpe sbuffando d’impazienza. Riprovò con un sistema che si era rivelato<br />

il migliore: cercare quelle scarpe che, in qualche modo, si erano rivelate <strong>dei</strong> validi<br />

porta fortuna.<br />

Il podio di questa disposizione vedeva al terzo posto le Head con cui aveva vinto<br />

il primo torneo di tennis, le Nike Silver con cui era stata al Cocoricò insieme a<br />

Jenny e sul gradino più alto ancora le tacco dodici di vernice rossa che pur essendo<br />

nuove erano già importanti, visto che le aveva acquistate al primo appuntamento<br />

con Marcello.<br />

Le vernice rossa sembravano quindi le vincitrici ai punti di diverse classifiche, ma<br />

quello di calzare i piedi di Donatella non era mai un gioco facile, nemmeno per<br />

delle scarpe come loro: c’era sempre un “ma” che contrastava un “visto”.<br />

Il “visto” era perché “visto che piacciono tanto a Marcello avrebbe dovuto indossarle<br />

quella sera”; il “ma” derivava dal fatto che avrebbero sicuramente raggiunto<br />

gli altri a qualche in festa in spiaggia per la Notte Rosa («Rimini? Riccione? Marina<br />

di Ravenna? No, ti prego Marcello, Marina di Ravenna no...»), e in quel caso con<br />

i tacchi sulla sabbia avrebbe fatto una figura piuttosto patetica, arrancando come<br />

una tossica. Perciò: forse sandali (posizione nove)? Forse ciabattine (posizione<br />

tredici)? Perché no, delle ballerine rosa (posizione ventidue, con un plus aggiuntivo<br />

per il colore in sintonia con lo spirito della serata)?<br />

Incominciava a odiarla quella Notte Rosa: non bastava un capodanno a metterle<br />

102


ansia su cosa? come? e con chi fare cosa e come?, ora avevano pure inventato<br />

il capodanno dell’estate per raddoppiare i suoi problemi.<br />

Le serviva un analista. Uno migliore di quello che aveva già.<br />

Ancora a piedi nudi ritornò alla scrivania e controllò posta elettronica, Msn Messenger,<br />

Myspace, Facebook, Twitter... l’elenco era lungo ma alla fine il risultato<br />

era lo stesso, cioè niente.<br />

La sera precedente, raggiungendo le colonne greche del proprio orgoglio, gli aveva<br />

persino scritto per chiedergli cosa avesse intenzione di fare («Rimini? Riccione?<br />

Milano Marittima? No, ti prego Marcello, Milano Marittima no...») e lui non solo<br />

non le aveva risposto, ma nelle venti ore successive non le aveva nemmeno fornito<br />

un orario indicativo di quando sarebbe passato a prenderla, e senza un orario lei<br />

come avrebbe potuto essere in ritardo? Rischiava seriamente di fare la figura della<br />

morta di fame che al primo squillo è già bella e pronta sull’uscio di casa con un<br />

fiocco rosa sulle mutandine.<br />

Così, in mattinata, gli aveva riscritto per annunciargli il suo trionfo al torneo di Lugo<br />

e ricordargli, en passant, della serata, ma anche il secondo tentativo pareva essere<br />

stato vano, nonostante avesse inoltrato la comunicazione attraverso tutti i mezzi<br />

possibili.<br />

Telefonargli? Mai, nemmeno sotto tortura, e poi nelle vicinanze non si registravano<br />

incidenti mortali o rapine con vittime intorno ai venticinque anni, quindi il bastardo<br />

doveva essere vivo, aver ricevuto il messaggio e perciò doveva risponderle, e pure<br />

in fretta, se la voleva ancora vedere. Cacciò via i pensieri su Marcello chiudendo<br />

il laptop e ritornando alle cose che contavano veramente, come le scarpe.<br />

Riassumendo: i sandali facevano troppo liceale, quindi non andavano bene, via.<br />

Le ciabattine non le portava più nemmeno sua cugina pugliese mezza suora... via.<br />

Le ballerine forse, ma erano troppo poco impegnative, quasi fossero la prima cosa<br />

semplice e decente che avesse avuto davanti. Via, ma con riserva.<br />

L’idea che voleva dare era di uno stile ricercato ma non da festa del villaggio, tipo<br />

abito buono della domenica, perché “sono una tipa speciale”, rimarcando però con<br />

qualche piccolo particolare che in fondo anche la serata lo era.<br />

Le tacco dodici rosso vernice erano quindi la scelta, e pazienza se quei cretini<br />

della compagnia di Marcello avevano nel frattempo scelto un party sulla sabbia:<br />

lei sarebbe stata al sicuro sul cemento vicino al bar e Marcello lì con lei per parlare,<br />

ridere e ballare insieme.<br />

Sotto la luna, pensava.<br />

Fino all’alba, sperava.<br />

Soli in mezzo al delirio di una spiaggia nella prima notte d’estate, immaginava.<br />

Sentì uno squillo, abbassò i Club Dogo che pompavano dallo stereo sul davanzale<br />

della finestra e prese in mano il cellulare.<br />

Marcello, SMS.<br />

Ciao, sono già al mare con gli altri! Scusa ma no soldi nel cel. e ho ricaricato solo<br />

ora. Te scendi? Dai è una figata! Siamo a Villa Papete a MiMa, entro mezzanotte<br />

posso farti entrare col tavolo! Mi ha detto Fabio che ti ha visto al torneo: brava.<br />

Poi ha aggiunto che tua madre è proprio una gran FXXA ;-) a dopo, bacio!<br />

Le ballerine rosa sarebbero andate benissimo.<br />

103


3.<br />

Imola, ore 18:00<br />

Dopo avere salutato tutti, tranne Bombardoni che dopo la sconfitta era rimasto<br />

solo a piangere e singhiozzare come un vitello a metà campo, era pronto a inforcare<br />

la bici, raggiungere la videoteca per riconsegnare i dvd a noleggio ed essere<br />

così a casa entro le diciannove in punto, l’ora X entro la quale lui e la sua sorellastra<br />

Clara si giocavano il possesso della macchina di famiglia.<br />

Se uno <strong>dei</strong> due fosse arrivato in ritardo, la Yaris Blu spettava di diritto all’altro senza<br />

alcuna contrattazione, e questo Luca non poteva permetterselo. Clara, Clara la<br />

viscida, quando c’era da prendere prendeva senza lasciare tracce, testimoni e<br />

possibilità di trattativa.<br />

Ma ce l’avrebbe sicuramente fatta e ne rimase convinto, almeno finché non vide<br />

le ruote della bicicletta sventrate. Non ebbe nemmeno tempo di chiedersi chi fosse<br />

stato a fare quel gesto, se un giocatore del Faenza, un tifoso (no, non ce n’erano)<br />

o qualche adolescente annoiato; sapeva solo che per fare tutto quello che aveva<br />

in mente nei tempi previsti le opzioni si riducevano a una sola: correre.<br />

Col senno di poi, quindi, il non essere sceso in campo restando fresco come una<br />

rosa ma coi muscoli già riscaldati e pronti per la corsa, si sarebbe rivelato l’unico<br />

colpo di fortuna per Luca Bazetti fino all’alba successiva.<br />

4.<br />

Cesenatico, ore 18:10<br />

Prima di finire investito da una macchina, di essere preso a calci e sputi in faccia<br />

da un bambino di otto anni e di vedere quello che mai avrebbe voluto vedere,<br />

David Malvezzi aveva letto i segni di quel caldo sabato di inizio luglio come propizi<br />

ai suoi scopi.<br />

Il primo segno fu l’aver vinto per due volte di seguito al gratta e vinci: aggiungendo<br />

solo qualche centesimo alla somma era riuscito a prendere un pacchetto di light<br />

a spese dello stato. Il secondo segno fu che la tabaccaia, versione slava di una<br />

perversione felliniana, l’aveva definito “un mago”, anzi, “un vero mago”, cosa che<br />

difficilmente accadeva, anche se lui era effettivamente un mago. Il terzo segno,<br />

inequivocabile, si palesò mentre percorreva viale Carducci, e una persona dalla<br />

faccia antipatica, dopo aver incrociato il suo sguardo, era inciampata su una radice<br />

sporgente nel marciapiede ed era caduta a terra.<br />

“Porta jella”, avrebbero creduto in tanti; “è il mio giorno fortunato”, pensò invece<br />

David, che aveva sempre nutrito la certezza che alle persone che gli erano antipatiche<br />

non accedesse mai nulla di male.<br />

Arrivato in fondo al viale, all’angolo dove sorgeva la libreria Safarà, tirò l’ultima sigaretta<br />

del pacchetto: perso com’era nel contemplare i successi della giornata e<br />

a limare gli ultimi dettagli del piano lungo i due chilometri del tragitto, aveva fumato<br />

rapsodicamente, un tiro o due al massimo, scacciando con le cicche anche i pensieri<br />

di insuccesso. Perché non poteva andare male, non poteva andare male<br />

104


anche quella volta.<br />

«David Malvezzi, se non la smetti di assillarmi giuro che chiamo la polizia e ti denuncio<br />

per stalking, se solo fossi certa che tu sappia cosa significa.»<br />

La libreria, come al solito, era avvolta nel buio; solo la zona vicina alle casse era<br />

illuminata dagli occhi di due pipistrelli di plastica che penzolavano dal soffitto, mentre<br />

il sole era tenuto a debita distanza dalle tende viola di stoffa che coprivano<br />

buona parte della vetrina.<br />

Cassandra se lo ritrovò di fronte mentre stava rientrando dal magazzino dove<br />

aveva appena preso tre tomi troppo pesanti per il suo fisico ai limiti dell’anoressia,<br />

ma non così pesanti perché lasciasse che David venisse in suo soccorso.<br />

«Non mi pare ci siano gli estremi per...» messo in difficoltà, David Malvezzi tendeva<br />

a uscire dall’impasse usando un linguaggio forbito al quale non credevano nemmeno<br />

gli estranei, figurarsi lei.<br />

«Credi che in due mesi non mi sia accorta di te che mi aspetti sotto casa finché<br />

non rientro? O delle misteriose telefonate anonime che ricevo in negozio? O di<br />

quando resti giorni interi là fuori a spiarmi?»<br />

Secondo le leggi dell’ars oratoria che David aveva studiato al liceo, la parte peggiore<br />

doveva essere passata, ma forse Cassandra non aveva avuto le sue stesse<br />

letture.<br />

«…almeno mi avessi spiato, almeno ti fossi nascosto: no, come un cretino su viale<br />

Carducci, ore e ore su quella panchina a fumare e bere birra in lattina come un disadattato...<br />

sembravi la versione handicappata di Forrest Gump… chissà cosa<br />

avranno pensato...»<br />

«Da quando ti interessi di quello che pensano gli altri?»<br />

«Dal momento esatto in cui ho capito che non volevo stare con te.»<br />

Non che fosse sempre stata così stronza, Cassandra.<br />

Sei anni fa era una neo laureata in antropologia culturale di ventiquattro anni con<br />

gli occhi carichi di sogni per il proprio avvenire. Fallita la possibilità di un dottorato<br />

all’estero per un disguido con il suo relatore (lui la pretendeva ma non gliel’aveva<br />

data) era tornata in Romagna, dove aveva preso in gestione i locali del negozio di<br />

souvenir marittimi di famiglia con l’idea di adattare l’attività a quelle che erano le<br />

sue passioni, ovvero la magia e l’occulto.<br />

Sei mesi dopo il negozio di souvenir si era trasformato in una libreria specializzata<br />

in arti occulte (Safarà, sì, come quella di Dylan Dog), mentre il vice responsabile<br />

crediti della filiale di Tagliata del Banco Romagnolo, ragioniere Malvezzi Davide,<br />

aveva ormai abbandonato la sua scrivania per seguire il proprio destino diventando<br />

così David M., cacciatore di spiriti malvagi e illusionista a tempo perso. In realtà<br />

tendeva a soprassedere sulla sua attività principale, preoccupato che organizzatori<br />

di convention aziendali e direttrici di asili nido, i clienti che gli consentivano di restare<br />

sopra l’indigenza, potessero vedere in cattiva luce le sue scorribande notturne<br />

in cerca di demoni, vampiri e compagnia.<br />

David e Cassandra, che in un ambiente come quello di Cesenatico avrebbero dovuto<br />

faticare per non incontrarsi, avevano assecondato la reciproca attrazione arrivando<br />

a celebrare, due pleniluni dopo, un rito di fidanzamento con tanto di sabba<br />

105


celebrato sulla foce del Rubicone per ringraziarsi gli spiriti, ma soprattutto la signora<br />

Malvezzi che una qualche forma di ufficialità alla relazione del figlio la pretendeva.<br />

Nel corso della loro lunga relazione, David si era spesso chiesto cosa avesse mai<br />

trovato in lui una ragazza come Cassandra, arrivando a elaborare ipotesi perfino<br />

credibili, ma a giudicare da com’era finita, ci doveva essere qualcosa che gli era<br />

sfuggito.<br />

«Sei patetico, un verme inutile, sei l’intruso che intasa il water.»<br />

«La verità è che tu non sopporti che io sia qua fuori perché ogni giorno ti sbatto in<br />

faccia quanto era magica la nostra storia.»<br />

Cassandra odiava essere contraddetta, e quando veniva contraddetta Cassandra<br />

si arrabbiava sul serio, e se si arrabbiava sul serio aveva il vizio di sbattere qualsiasi<br />

cosa avesse a portata di mano: porte, posate, gatti, la faccia di David Malvezzi.<br />

In quel caso furono i tre tomi di magia nera larghi quasi mezzo metro che<br />

prese a picchiare sul tavolo della cassa con tale forza da farlo quasi crepare. Poi,<br />

come al solito, si alzò sulle punte <strong>dei</strong> piedi e serrò le mani fino a formare due piccoli<br />

pugnetti che gli puntò sotto il mento.<br />

«Non sopporto più te, la tua faccia, i tuoi vestiti logori e... il tuo odore» prese ad<br />

annusare l’aria, «Dio Santo David, ma da quanto non ti fai una doccia?»<br />

David era sempre stato una persona con una sua dignità igienica e fin da piccolo<br />

la signora Malvezzi gli aveva imposto l’abitudine di farsi una doccia ogni mattina<br />

appena sveglio; sveglia e getto d’acqua scattavano con riflessi pavloviani. Ma dopo<br />

la fine della storia con Cassandra iniziò a soffrire d’insonnia e alle ore diciotto e<br />

dieci di quel sabato stava per superare il suo record di duecento e passa ore di<br />

veglia ininterrotta.<br />

«E io che pensavo fossero queste fialette a puzzare così tanto!» si intromise il<br />

commercialista Palmanovi sbucando dal reparto gadget con qualche intruglio proveniente<br />

dalla Transilvania sotto le narici. Il commercialista Palmanovi era stato<br />

uno degli allievi più sciroccati tra i tanti incapaci che avevano partecipato al primo<br />

e unico corso di micromagia tenuto da David Malvezzi nel retrobottega del Safarà:<br />

pessimo entertainer, non riusciva a seguire il gioco delle tre carte che lui stesso<br />

gestiva, confondeva le formule magiche e durante il saggio finale il suo tentativo<br />

di estrarre un coniglio dal cilindro si risolse in una cena che David preparò a Cassandra<br />

la sera dopo l’esame.<br />

«Lei si faccia gli affari suoi, ma tornando a noi...» era in difficoltà, doveva mostrare<br />

intelligenza. «Non lo sai che il WWF ha promosso una campagna contro lo spreco<br />

dell’acqua? Una doccia ogni due giorni è più che sufficiente per mantenere la propria<br />

dignità.» David Malvezzi aveva letto quell’informazione su un depliant prima<br />

di usarlo come fazzoletto.<br />

«Tu vieni a parlare di ambientalismo a me?! Tu hai sgozzato quattro capre perché<br />

pensavi che il loro sangue ti servisse per un incantesimo, e poi quando ti sei accorto<br />

di aver tradotto male dall’aramaico le istruzioni hai lasciato i cadaveri sul ciglio<br />

dell’Adriatica e a quello del distributore quasi non viene un infarto perché<br />

pensa si tratti di un avvertimento mafioso...»<br />

Cassandra riprese in mano i libri e, facendosi largo con una spallata, si avviò verso<br />

106


lo scaffale di riferimento “Magia nera, occultismo, marketing”.<br />

Con quel suo comportamento ostile lo stava obbligando a mettere in atto il primo<br />

<strong>dei</strong> suoi due piani fino in fondo, cosa che non voleva fare perché desiderava sì riconquistarla,<br />

ma non sfoderando tutti i poteri di cui era in possesso. Ma forse c’era<br />

ancora tempo per parlare e...<br />

«E se non l’hai ancora capito, voglio che tu esca dal mio negozio e se Dio mi concedesse<br />

la grazia, anche dalla mia vita» disse lei mentre, dandogli le spalle, infilava<br />

il primo <strong>dei</strong> tre tomi nello scaffale più in alto.<br />

Ok, l’aveva voluto lei con quell’attacco diretto: David Malvezzi si vedeva costretto<br />

a mettere in atto il piano numero uno, nome in codice: strategia laterale. Recuperò<br />

l’espressione più spavalda del suo repertorio pescando tra i suoi modelli di riferimento:<br />

Osvaldo Valenti e David Copperfield e, dopo aver incrociato le braccia, si<br />

appoggiò a una colonna della libreria.<br />

“Guarda fuori dalla vetrina come se parlassi di cose senza importanza e, mi raccomando,<br />

voce impostata” si ripeté prima di iniziare.<br />

«Ho notato» partì in falsetto per l’emozione, tossì per rimettere a posto il tono, poi<br />

riprese: «Ho notato che negli ultimi tempi gli affari non vanno un granché bene.»<br />

Nell’ultima settimana, e si parla dell’inizio dell’alta stagione, aveva contato solo<br />

dodici ingressi, molti <strong>dei</strong> quali uscivano senza aver acquistato niente, molti <strong>dei</strong><br />

quali erano il commercialista Palmanovi.<br />

«Si dà il caso che una certa persona» “avrà capito che parlo di me?”, si chiese,<br />

«sia in contatto con molte altre persone che sarebbero ben felici di tornare a fare<br />

acquisti qui da te...»<br />

«Che cosa stai dicendo?» replicò Cassandra, stupita.<br />

«Sto parlando di tutti i miei amici che da quando ci siamo lasciati hanno smesso<br />

di venire qua per solidarietà nei miei confronti, visto l’ignobile maniera in cui mi<br />

hai trattato.» E ora il colpo finale, l’Enola Gay di tutte le vendette di un ex: «Basta<br />

solo una mia parola e qua dentro tornerà a scorrere lo stesso fiume di persone<br />

che c’era l’anno scorso. Ti chiedo di darmi solo un’altra possibilità e grazie a me<br />

e rivedrai riprendere i tuoi affari.»<br />

David Malvezzi aveva ovviamente previsto qualsiasi tipo di reazione possibile, era<br />

pur sempre un mago abituato a confrontarsi con la sorpresa delle persone di fronte<br />

all’incredibile, ma la risposta di Cassandra, l’unica parola con la quale rispose, lo<br />

colse del tutto impreparato.<br />

«Internet.»<br />

Cosa? Cosa significava internet?<br />

David Malvezzi suppose che lei volesse solo prendersi un po’ di tempo, magari il<br />

tutto poteva partire con un paio di chiacchiere in chat o con uno scambio di mail<br />

romantiche.<br />

«No, non hai capito nulla, coglione. Se quando stavamo insieme mi avessi mai<br />

ascoltata sapresti che ormai da un anno il novanta percento degli incassi li faccio<br />

vendendo via web o su ebay, e che tengo queste quattro mura solo perché ci sono<br />

affezionata, visto che mia nonna ci ha lavorato una vita. E i tuoi amici “solidali”<br />

sono ancora tra i miei più affezionati clienti, anzi, ora che faccio consegne a domicilio,<br />

comprano più di prima.»<br />

107


«Anche io compro online e se vengo qui è solo perché mi fa piacere vedere questa<br />

deliziosa signorina» si intromise nuovamente il commercialista Palmanovi.<br />

«Ma lei vuole stare un po’ zitto?! Qua c’è qualcuno che ha delle cose importanti<br />

da dirsi.»<br />

Come un gentleman d’altri tempi il Palmanovi, accortosi di essere di troppo, salutò<br />

Cassandra con un delicato baciamano e uscì dal negozio.<br />

Forse il primo atto non era proprio andato come previsto ma David Malvezzi aveva<br />

già il secondo colpo in canna, il diretto, il letale, il piano numero due: il nome in<br />

codice ufficioso dell’operazione ora passava da “mettiamola sugli affari” a “suscitare<br />

pietà”. David si inginocchiò quindi ai piedi della sua ex e strinse le braccia intorno<br />

alle ginocchia magre e pallide che sbucavano dalla gonna di jeans. Pochi<br />

istanti prima di accasciarsi a terra, con abile mossa da mago, si era spruzzato del<br />

liquido per stimolare le lacrime che era solito usare nelle sue esibizioni più melodrammatiche,<br />

un misto di cipolla e acqua della laguna di Marghera. Ma aveva esagerato<br />

e ora le pupille odoravano di tabasco e per il dolore il tono di voce si tramutò<br />

in stridulo, infantile, da vecchio in fase di delirio di fronte all’abisso imminente.<br />

«La mia vita non ha più senso senza di te... non faccio una convention da due<br />

mesi... mi sono rimaste solo le feste per i bambini... e anche quelle mi fanno schifo,<br />

li odio tutti quei mocciosi, e poi vogliono solo essere ammanettati e fatti sparire...»<br />

«David...»<br />

«Dimmi che non hai un altro, e se un altro c’è, non è quell’hippie del cazzo con la<br />

coda e gli occhialini alla Elton John, quello della farmacia omeopatica vicino al<br />

porto vecchio, quello che a gennaio ti scrisse quel messaggino...»<br />

«David, ti prego...»<br />

«Non ci sto più con la testa, l’altra sera quasi mi facevo sventrare da un maligno<br />

di grado zero perché mi ero dimenticato l’acqua sacra a casa... sono sempre<br />

ubriaco, non dormo più, puzzo da far schifo, non so cucinare... riprendimi con te!»<br />

poi urlò: «Perché non mi vuoi?!»<br />

Cassandra gli fece segno di alzarsi poi, una volta che fu in piedi, prima con un<br />

fazzoletto bianco gli asciugò le lacrime dal volto e passò il dorso della sua mano<br />

sulla guancia arrossata con una tenerezza che stavano per farlo commuovere<br />

nuovamente, questa volta sul serio.<br />

“Ha funzionato”.<br />

Avvicinò quindi le labbra al suo orecchio, David notò che il rossetto aveva il profumo<br />

dell’albicocca, quello che piaceva a lui.<br />

“Cazzo, ha proprio funzionato. Lo sapevo, come patetico sono imbattibile.”<br />

Sussurrò:<br />

«Non ti voglio perché sei un fallito e mi fai anche un po’ pena. E ora fuori dal mio<br />

negozio o chiamo sul serio la polizia, coglione.»<br />

Una volta fuori, David si chiese dove avesse sbagliato nel leggere i segni di un<br />

destino, e se non fosse il caso di dare una ripassatina al manuale di ars aruspicina.<br />

“Però è ancora carina” pensò.<br />

Stava per rimettersi sui suoi passi tornando mestamente all’Ape Car che aveva<br />

108


lasciato vicino al grattacielo, quando una voce conosciuta lo colse alle spalle.<br />

«È lui mamma! È lui il mangia merda!»<br />

Riconobbe immediatamente quel piccolo nano bastardo dai capelli ricci e rossi<br />

con i polsi troppo cicciotti per la sua età e la madre, una megera cesenate cafona<br />

dalla criniera d’argento. Se la diede così a gambe levate e ce l’avrebbe anche<br />

fatta a svignarsela se la familiare azzurro confetto del commercialista Palmanovi<br />

non si fosse fermata allo stop e non l’avesse travolto.<br />

Era ancora tramortito quando i piccoli ma precisi calci del bambino iniziarono ad<br />

arrivargli, con un ritmo da orologio svizzero, nell’area facciale.<br />

«Mangia merda! Ha ragione il mio papà, sei un mangia merda!»<br />

Ebbe il tempo di ripetere calci e frasi più volte, anche perché la mamma non aveva<br />

la minima intenzione di fermarlo, e l’unico suo probabile alleato, il commercialista<br />

Palmanovi, impiegava a causa dell’artrosi non meno di sette minuti netti per scendere<br />

dalla vettura.<br />

«Lei e le sue stupide manette! È dalla festa di compleanno di suo cugino che cerchiamo<br />

di contattarla per liberarlo» si intromise la madre tra un mangia merda e<br />

l’altro. «Per un trucco del piffero lei ha legato mio figlio come un salame poi è<br />

scomparso... mio marito e suo fratello l’hanno cercata per ore attorno a casa ma<br />

hanno trovato solo il suo costume abbandonato vicino una bottiglia di vodka vuota»<br />

e travolta dall’emozione sferrò anche lei un colpo di sandalo in faccia a David.<br />

In effetti, notò David, il piccolo bastardo aveva le manine legate proprio dal paio<br />

di manette che mancavano all’appello, quelle con gli elefantini disegnati sui polsi<br />

e che lui si era convinto di aver perso in cantina dopo l’ultima e molto degenerata<br />

sbronza.<br />

Prima di svenire travolto da un mix letale di umiliazione e puro dolore fisico, il mago<br />

David M. promise a se stesso che era giunto il tempo di rifarsi agli occhi della vita.<br />

Non sapeva ancora come, ma quella sera ci avrebbe provato.<br />

A dire il vero, l’ultima cosa che vide fu l’arrivo davanti alle vetrine della libreria Safarà<br />

di un uomo alto quasi due metri, coda di cavallo, camicia a fiori aperta sul<br />

petto, occhiali con lenti blu alla Elton John.<br />

Il bastardo aveva pure delle rose in mano, quel tipo di fiore che per anni Cassandra<br />

gli aveva giurato di odiare. Ma quell’immagine David Malvezzi non se la ricorderà<br />

al suo risveglio: sarebbe stato un segno troppo evidente che in effetti quel giorno sarebbe<br />

stato sì positivo, ma per qualcun altro.<br />

5.<br />

Imola, ore 18:28<br />

Il club “non abbiamo voglia di andare al mare in mezzo a quel casino” pareva essersi<br />

dato appuntamento al Blockbuster di Imola quel pomeriggio.<br />

Chiara, che era stata la bassista del primo gruppo di Luca Bazetti (una cover band<br />

degli 883, i “Non me la suonare”), spuntava dietro alla cassa cercando di placare<br />

l’orda di clienti che più o meno velatamente mostravano il disappunto per la lentezza<br />

con cui la commessa sembrava svolgere le sue funzioni.<br />

109


Luca Bazetti, fiato ancora corto per la maratona improvvisata, non poteva lasciare<br />

semplicemente i film nella buchetta e andarsene, doveva infatti consegnare le<br />

copie a mano se voleva che in nome della vecchia amicizia Chiara gli togliesse il<br />

ritardo accumulato in due settimane (e Luca Bazetti non voleva sborsare cinquanta<br />

euro per “Scream”, “Nightmare 3” e “La casa delle finestre che ridono”). Si mise<br />

quindi in fondo alle quindici persone in fila e, controllato l’orologio dietro il bancone,<br />

fece due calcoli: se Chiara non si fosse persa in chiacchiere, se davanti a lui non<br />

ci fossero stati clienti sprovvisti di tessera, se non ci fosse stato qualche stronzo<br />

che si impuntava a non voler pagare il ritardo, se i due bambini presenti non avessero<br />

piantato qualche grana dell’ultimo momento cambiando continuamente idea<br />

su quale film prendere... insomma, se fosse accaduto quello che in un normale<br />

sabato da Blockbuster non accadeva mai, Luca Bazetti, correndo a perdifiato fino<br />

alla parte opposta della città, sarebbe potuto ancora arrivare a casa in tempo.<br />

6.<br />

Bologna, ore 18:30<br />

La camera di Jamal era l’unica di tutta la casa dove c’era l’abitudine a bussare<br />

prima di entrare.<br />

«Avanti» rispose il giovane che per specchiarsi era costretto a piegare la schiena<br />

come il soggetto di una macchina fotografica dall’obiettivo troppo stretto.<br />

Era Amad. Al contrario di Jamal, ancora in mutande, lui era già pronto per la serata<br />

sin da tarda mattinata. Aveva lavorato così tanto al ristorante nelle ultime due settimane<br />

che aspettava quel sabato sera di riposo in riviera con trepidazione.<br />

«Tuo cugino... era in vistoso imbarazzo… Joussef.»<br />

«Cos’ha combinato stavolta...?» chiese portando davanti allo specchio la sfumatura<br />

del lato destro.<br />

«Non ho capito bene, ma se vuoi che neanche questa volta lo uccidano, vieni di<br />

là. E fai in fretta.»<br />

“Me li ha tagliati proprio alla cazzo” pensò facendo ben attenzione che Jamal non<br />

si accorgesse del suo disappunto. Si infilò una maglietta <strong>dei</strong> Simpson che teneva<br />

appoggiata sulle spalle e seguì il coinquilino lungo gli stretti e afosi corridoi dell’appartamento,<br />

pronto a risolvere l’ennesima crisi diplomatica.<br />

«Io continuo a sostenere che Israele abbia le sue ragioni.»<br />

Il naso di Joussef ora sanguinava molto meno, il tampone che Jamal gli aveva inserito<br />

nella narice sembrava funzionare, anche se la voce del giovanotto usciva<br />

ancora più simile a quella di un papero saccente.<br />

«So che hai ragione, ma forse...»<br />

«Se leggessero qualche giornale» da terra prese in mano alcune copie di quelle<br />

riviste straniere a cui era abbonato e che ogni settimana intasavano la buchetta<br />

delle lettere, «capirebbero che sono nel giusto...»<br />

Di questo Jamal ne era certo a priori, ancor prima di arrivare in soggiorno e sedare<br />

la rissa, o meglio, pestaggio: suo cugino nel giusto lo era sempre. Era nel giusto<br />

quando all’inizio dell’estate scorsa contattò la CGIL per far denunciare le ridicole<br />

110


condizioni di sicurezza di un cantiere edile vicino alla stazione, peccato che per<br />

quell’impresa lavorasse più di metà del caseggiato e che per colpa sua buona<br />

parte fosse stata licenziata in una sorta di vendetta trasversale.<br />

Quella volta Joussef uscì dallo scambio di opinioni (leggi: agguato) avvenuto nel<br />

cortile condominiale con due dita rotte, una decina di lividi sparsi per il corpo e minacce<br />

di morte che l’avrebbero accompagnato negli incubi per settimane: e questo<br />

pur essendo il cugino di Jamal, quel Jamal.<br />

«Non è colpa mia se loro sono stupidi.»<br />

«Saranno anche stupidi, ma vivono con noi, anche con te. Sono i nostri amici, la<br />

nostra famiglia.»<br />

Gli aveva fatto quel discorso almeno un milione di volte: ogni sera che Joussef<br />

entrava in soggiorno sbraitando perché coinquilini e altri amici, giocando con la<br />

playstation, gli impedivano di concentrarsi a dovere negli studi e questi lo lapidavano<br />

di patatine e pop corn; ogni volta che a cena metteva su un caso per un errore<br />

nella raccolta differenziata a persone che si erano svegliate all’alba per andare<br />

su impalcature o in catena di montaggio e questi per poco non gli infilavano le forchette<br />

nel costato; ogni volta che si parlava di figa davanti a un porno e lui tirava<br />

fuori il concetto di dignità femminile e si beccava del frocio e, a volte, un’altra forchettata<br />

nella mano.<br />

Ma Joussef era fatto così, non riusciva a farsi amare dalle persone, non c’era mai<br />

riuscito in Marocco da bambino e a maggior ragione non ci sarebbe mai riuscito<br />

nella sua vita adulta in Italia. Per questo Jamal lo vedeva già avvocato.<br />

«Senti, gli animi si sono surriscaldati un po’ troppo oggi e anche se gli altri mi<br />

hanno promesso che ti chiederanno scusa, le cose non possono andare avanti<br />

così.»<br />

«Mi stai cacciando?»<br />

Jamal sapeva che Joussef avrebbe accettato una vita da odiato da tutti ma non<br />

lontano da lui, perciò l’ipotesi di estrometterlo dal nido era fuori discussione. E poi<br />

lui stesso non aveva la minima voglia di allontanare l’unica persona davvero intelligente<br />

che conoscesse in famiglia.<br />

«No, stupido... ma devi integrarti!» si alzò e gli mise le mani sulle spalle, usando<br />

quel tono paterno che nessuno aveva usato con lui. «Sei molto meno stronzo di<br />

quanto vuoi far sembrare, io lo so, ma gli altri fanno fatica a crederti. Per questo<br />

stasera uscirai con noi, c’è la Notte Rosa al mare, un sacco di feste in giro... Verrai<br />

a ballare con noi e dimostrerai a tutti di essere simpatico, almeno un pochino.»<br />

«Non esiste, tra dieci giorni ho un esame di diritto marittimo e sono indietro...» balbettò.<br />

«Joussef, non fare il musone. Te lo chiedo io.»<br />

“Te lo chiedo io” era un colpo basso e Jamal lo sapeva, ma non poteva fare altrimenti<br />

o rischiava di perdersi in ore di discussioni che non avrebbero portato a nulla<br />

e, pur con tutto l’affetto del mondo, aveva altri programmi ben più piacevoli per la<br />

serata.<br />

«Partiamo tra dieci minuti per Marina di Ravenna» disse con tono risolutivo mentre<br />

usciva dalla stanza, «quindi vedi di muoverti.»<br />

«Ma...» aveva mille obiezioni, nessuna valida. «Va bene…» pausa, piuttosto lunga,<br />

111


«...marocchincello.»<br />

Jamal si fermò sulla soglia della porta e rifletté su cosa consistesse l’essere cugini,<br />

almeno per lui: non nell’avere come padri due fratelli, ma nel ridere ancora come<br />

pazzi per quel modo di dire che solo loro, che erano passati sotto le grinfie di un<br />

arrogante e razzista professore di lettere alle medie, sembravano ricordare.<br />

Jamal tornò indietro e i due si abbracciarono.<br />

7.<br />

Imola, 18:42<br />

Luca Bazetti stava tagliando la piazza principale di Imola correndo a perdifiato (“ce<br />

la faccio, ce la faccio, ce la faccio...”), dribblando un paio di mamme con carrozzine<br />

e il tandem che trasportava l’assessore locale al bilancio e la sua signora, quando<br />

squillò il telefono.<br />

“Lei, lei e il suo solito tempismo”.<br />

Non avrebbe risposto, ovviamente, se quella stessa mattina non avesse chiuso la<br />

comunicazione su Skype dicendole in maniera chiara e diretta che se fosse andata<br />

a Nantes in compagnia di quel Philippe poteva dichiararsi single.<br />

Alt, rewind.<br />

Luca Bazetti era fidanzato da circa un anno con Maria Cristina, perugina, bella<br />

presenza, automunita, studentessa fuorisede presso l’università di Bologna al<br />

terzo anno di ingegneria gestionale, media del trenta e lode, aziende che chiamavano<br />

in continuazione per proporle stage su stage (fin qui tutto bene) e attualmente<br />

in Francia per il progetto Erasmus (da lì tutto male).<br />

Luca Bazetti, figurante senza battute nella facoltà di economia e marketing dello<br />

stesso ateneo, era sinceramente contento per i progressi della propria compagna,<br />

e quando lei gli aveva confessato il suo desiderio di recarsi all’estero per un periodo<br />

di studi aveva assecondato la sua volontà. Certo, quando venne a sapere di<br />

essere stato informato già a consegna della borsa di studio avvenuta si sentì un<br />

po’ preso in giro, ma come gli aveva insegnato suo padre (quello vero, non il replicante<br />

che girava per casa in mutande monopolizzando tutte le sere Sky Sport)<br />

si era messo nei suoi panni e aveva lasciato correre.<br />

Di Philippe invece non ne sapeva nulla se non che era belga, che era il classico<br />

belloccio da Erasmus, che studiava medicina e che la sua presenza nelle foto che<br />

Cristina postava su Facebook cresceva esponenzialmente giorno dopo giorno:<br />

prima come figura di sfondo, poi come parte del gruppo (zona centro/laterale) infine,<br />

immagine degli ultimi giorni, solo insieme a Maria Cristina in una serie di pose<br />

a due a base di linguacce e brindisi. Abbastanza per scatenare fiammate di gelosia<br />

e un bruciante desiderio che la convivenza tra fiamminghi e valloni degenerasse<br />

in una guerra civile, con un richiamo immediato in patria per tutti i belgi e il loro arruolamento<br />

forzato nell’esercito nazionale. Nell’improbabilità di questa ipotesi<br />

anche una forma inguaribile di herpes avrebbe portato analoghe felici conseguenze.<br />

Quel sabato mattina, nella loro consueta chat prima del weekend, lei lo aveva av-<br />

112


visato che nel pomeriggio sarebbe partita insieme ad altri erasmuci alla volta di<br />

Nantes, e Luca Bazetti, senza che dalla bocca di Cristina uscisse un solo riferimento<br />

a Philippe, era sbottato in una serie di improperi e vaghe allusioni fino a<br />

chiudere d’improvviso la conversazione minacciando di lasciarla in quanto “puttana<br />

e senza cuore”. Se non avesse risposto subito le conseguenze che potevano scatenarsi<br />

erano incalcolabili, soprattutto con quell’avvoltoio belga nei paraggi pronto<br />

alla sua prima mossa falsa; se avesse risposto, la logorrea di Cristina gli avrebbe<br />

fatto perdere l’anticipo netto di due minuti che era riuscito ad accumulare contro<br />

la viscida Clara.<br />

E così lo sventurato rispose.<br />

113


114


Un impero di famiglia alle prese con il passaggio generazionale, il nipote<br />

del fondatore che ne sta scardinando gli equilibri, un gruppo di colleghi<br />

incapace di fermare il tracollo, sono gli elementi attorno ai quali ruotano<br />

le vicende del romanzo. Natan Mondin si abbandona al manifesto dell’impotenza<br />

che guida i personaggi tra uffici, linee di produzione, campi<br />

da golf e motel. Dal direttore di stabilimento che si rifiuta di trasferire la<br />

produzione nell’Europa dell’Est al fedele ragioniere che viene licenziato<br />

in tronco; dall’impiegato dell’ufficio acquisti al top manager, tutti vengono<br />

risucchiati nel vortice insensato di ruoli che è divertente leggere in un romanzo,<br />

ma speri di cuore non ti capiti mai.<br />

Natan Mondin nasce nel 1978 a Milano, si trasferisce dopo una settimana<br />

a Bresso, dove abita da circa trentatré anni. Lavora per un ente<br />

coreano e Agglomerato è il suo primo romanzo.<br />

115


Agglomerato, Natan Mondin.<br />

La paura<br />

Le scale mobili sono più pericolose degli ascensori. Il gradino gli ballava sotto i<br />

piedi. Sono più pericolose perché non hanno i cunei lungo le guide laterali, il pistone<br />

di frenata e il doppio cavo di sicurezza. Il problema sta nella fossa, nella<br />

mancanza di dispositivi di sicurezza realmente efficaci, nel movimento dal basso<br />

all’alto e viceversa. A causa di una manutenzione non proprio ortodossa, quel<br />

pezzo di metallo avrebbe potuto cedere, lui si sarebbe incastrato fra l’alluminio e<br />

il vuoto; una volta arrivato alla piattaforma avrebbe fatto la stessa fine di Robespierre.<br />

Anche il corrimano non gli dava fiducia. Poteva succedere l’incidente più banale<br />

mentre stava lì aggrappato alla striscia di gomma nera che, cedendo all’improvviso,<br />

l’avrebbe trascinato in avanti fino fargli perdere l’equilibrio. Si sarebbe ritrovato<br />

con il naso schiacciato e il viso tumefatto. Una questione statistica, un dato<br />

di fatto, come dire che un italiano su tre ha i baffi.<br />

Finalmente aveva appoggiato i piedi sulla terraferma del secondo piano. Aveva<br />

comprato una Coca, si era accomodato a un tavolino che dava sull’ampia area<br />

d’atterraggio della macchina infernale, lontano dalla vista di tutti.<br />

Era del tutto immotivato. Darsi appuntamento in quel posto in un giorno di festa.<br />

In molti avevano approfittato per agganciare un giorno di ferie al fine settimana.<br />

Da quando lavorava in Riva non aveva mai fatto un ponte. Si guardava attorno attento<br />

a riconoscere volti e fisionomie; se un paio di occhiali, la camminata, le<br />

spalle, un taglio di capelli gli sembrava appartenessero a qualcuno <strong>dei</strong> suoi colleghi,<br />

abbassava la testa, leggeva un sms immaginario, scorreva i nomi sulla rubrica<br />

del cellulare.<br />

Scuoteva il bicchiere di carta, i cubetti urtavano uno contro l’altro, osservava chi<br />

scendeva al piano uno alla volta. Con la cannuccia succhiava l’acqua rimasta sul<br />

fondo; era una cosa che non tollerava. Aveva chiesto senza ghiaccio e l’avevano<br />

messo lo stesso. Il trucco più vecchio del mondo per fare margine con le bevande.<br />

Ok McDonald’s, ma se anche il pizzaiolo egiziano l’aveva imparato voleva dire<br />

che la fine era vicina.<br />

Asfissiato dalla preoccupazione di non farsi riconoscere, si teneva il viso tra le<br />

mani. Lo cercava fra la gente che si lasciava portare in giro dai cartelli di saldi e<br />

occasioni. Le persone si spingevano verso la galleria di vetrine. Quando lo riconobbe,<br />

gli fece un piccolo cenno con la mano sinistra, lo salutò con gli occhi e appoggiò<br />

il bicchiere sul tavolino di metallo.<br />

«Scusa il ritardo, mi aspettavi da molto?»<br />

«No, ho preso soltanto da bere.»<br />

«Allora vado a ordinare, cosa mangi?»<br />

«Un kebab senza cipolla.»<br />

«Patatine?»<br />

116


«Ok.»<br />

«Ketchup o maionese?»<br />

«Tutti e due.»<br />

«E poi?»<br />

«Prendimi un’altra Coca.»<br />

«Va bene.»<br />

«Tieni.»<br />

«Lascia stare, offro io.»<br />

«Allora io pago il cinema.»<br />

«Non incominciare.»<br />

«Ma sono io che ti ho detto di venire.»<br />

«Che c’entra, mi devi raccontare le novità.»<br />

«Aspetta, vado a ordinare.»<br />

Tornò con il vassoio, inseguito da una scia di spezie e olio esausto.<br />

Scaricò prima le bevande e poi il cibo, si sedette.<br />

Rimoldi<br />

Ho ceduto e sono andato al vegetariano. Mara l’aveva detto che non mi sarei sentito<br />

a disagio, sono tutti in giacca e cravatta, a parte donne in tailleur e cameriere<br />

in tuniche sgargianti.<br />

Avevo una voglia tremenda di andarmene; sembravano tutti mezzi fatti, seguivano<br />

ogni mio movimento con sorrisini ebeti e mani giunte. Tanto più che a due passi<br />

c’è il pub dove abbiamo visto la finale. Quello del roast beef famoso. Mara è al limite<br />

della paranoia, mi ha perfino controllato nel portafogli per vedere se mi sono<br />

iscritto.<br />

L’altra sera mi ha fissato durante tutta la cena, in silenzio. Lei davanti alla sua insalata<br />

e ai germogli di soia, io alla mia costata. Manzo, ventiquattro euro al chilo,<br />

Esselunga.<br />

«Tu non sai cosa patiscono gli animali negli allevamenti, se lo leggessi anche tu,<br />

non avresti più voglia di mangiare carne. Per non parlare del fatto che tutto lo<br />

stress e l’aggressività che hai è di sicuro un riflesso, una conseguenza <strong>dei</strong> loro<br />

maltrattamenti.»<br />

Qualche segno di cedimento l’aveva già dato in passato, ma da quando si è messa<br />

a leggere quel libro si è totalmente rincoglionita. Hai capito? Secondo lei io sono<br />

aggressivo e stressato perché mi piacciono le bistecche.<br />

Ad ogni modo non mi aspettavo nulla di simile, pensavo che fosse pieno di fricchettoni<br />

luridi e sballati, invece dentro è messo meglio che al matrimonio di mia<br />

sorella: tavoli e sedie ricoperti di broccato, candido e profumato. Incenso ovunque,<br />

ma non mi ha dato fastidio; i bicchieri e le posate molto semplici, le brocche d’acciaio,<br />

tutto lustro e di classe.<br />

Alle pareti non c’è nulla, a parte le foto in bianco e nero di un ometto pelato e sorridente.<br />

In questo ambiente asettico l’unica nota di colore sono i fiori arancioni che<br />

decorano le immagini del santone.<br />

117


Ti puoi accomodare dove vuoi. Io mi sono seduto a un tavolino in un angolo, dove<br />

non c’era nessuno e speravo che rimanesse vuoto. Non avevo nessuna voglia di<br />

fare conversazione. La cameriera mi spiega tutta la manfrina, i due menù, la possibilità<br />

del bis, e mi dice di compilare con calma la tessera per l’iscrizione al centro<br />

culturale. Scelgo il menù ridotto, come aveva consigliato Mara. Mi portano un vassoio<br />

con tre ciotole e un piattino, la cameriera mi dice di conservare il tagliando e<br />

la scheda della tessera per la cassa.<br />

«Da dove inizio?» le faccio.<br />

«Se vuole può partire dall’insalata e poi proseguire in senso antiorario» mi risponde<br />

con un alito al gelsomino.<br />

Nella sala non c’è musica, si sentono parlare soltanto i cucchiai. Divoro l’insalata<br />

condita con noci e qualcosa che sembra panna acida, finisco in un nanosecondo<br />

il riso e mi butto sul piatto forte, una caponata rinforzata con qualcosa di spugnoso.<br />

Il tutto innaffiato con un succo di nonosochecosa, molto buono, sarà per le vitamine.<br />

Mi faccio il bis di caponatina e quando sto per addentare il dolce non sento<br />

più il rumore delle posate. Un silenzio fastidiosissimo. Si distingue il respiro di ogni<br />

persona. Dal fondo della stanza vedo entrare le cameriere in fila indiana. Lasciano<br />

cadere i petali sulla moquette mentre si dirigono verso di me. Parte un frastuono<br />

di cembali e flauti ed entra lui, quello delle foto, molto più magro, scavato dalla<br />

fame, in tunica arancione. Il viso e il cranio lucidi, rasati, sulla fronte un bollino<br />

enorme, molto più grande di quello delle cameriere. Si avvicina, tutti mi fissano a<br />

mani giunte e non la smettono di harekrishnare. Il tizio si siede al mio tavolo, mi<br />

saluta con inchino e mi versa una tazza di tè.<br />

Non avevo ancora associato voce, sguardo e nome, quando mi dice:<br />

«Dottor Rimoldi, è un piacere rivederla, la stavo aspettando.»<br />

«In realtà sono venuto qui perché mi ha costretto Mara» balbetto.<br />

«Non si faccia troppe domande, a noi non è dato sapere il volere di Krishna.»<br />

Butto giù quello che rimane del tè.<br />

«Mi venga a trovare quando vuole e mi raccomando, non abbia paura» dice mentre<br />

mi allontano verso la cassa. Ho pagato e soltanto allora ho capito che quel<br />

santone sorridente avvolto dal lino arancione era il ragionier Malversi.<br />

«Ti sarai sbagliato.»<br />

«Ti giuro, era lui, dimagrito di almeno quindici chili.»<br />

«E non sei più tornato a parlargli?»<br />

«Sei pazzo, me ne guardo bene. Da quando mi hanno fatto quel discorsetto non<br />

mi allontano mai dall’ufficio. Ho paura di trovare la mia roba in uno scatolone.»<br />

«Esagerato.»<br />

«Lascia stare. Non sai. Riva è un pazzo, e quello del fondo a cui sta cedendo la<br />

società è ancora peggio. Senza scrupoli, muove tutto dietro le quinte. Mariani l’hanno<br />

lasciato a casa, dopo che ha trasferito tutta la produzione all’Est. Con lui<br />

sono rimasti senza lavoro seicento operai. Mia sorella ha ricevuto il benservito, il<br />

responsabile qualità, quello della logistica, il direttore vendite estero pure. La Riva<br />

è un’azienda senza management, allo sbando. Ora temo anche per noi. Ho già ricevuto<br />

un avvertimento. Tu andrai a Roma, ma chi ha sponsorizzato il tuo trasfe-<br />

118


imento è stato Malversi.»<br />

«Tu come fai a saperlo?»<br />

Il ragionier Malversi<br />

Non l’hanno mai affascinato le filosofie indiane, i Beatles sì. Nel 73, finite le superiori,<br />

il tirocinio, la naja nei bersaglieri e il posto fisso, ufficio contabilità fornitori alla<br />

Riva S.p.A. Otto ore di partita doppia e poi la musica, le donne e la droga. Suonava<br />

molto bene la chitarra ma non la usava per rimorchiare.<br />

“Il Valore è un rapporto tra fasi di tempo. Così ad esempio una penna ha valore<br />

perché prevediamo di scrivere; quindi il Valore è un rapporto fra il momento della<br />

previsione e il momento previsto. La prima fase di tempo è il momento strumentale,<br />

che attiene all'oggetto, la seconda fase di tempo del Valore è il momento edonistico<br />

[di godimento del bene], che attiene al soggetto”.<br />

Che cazzo significava quel biglietto?<br />

Gliel’aveva lasciato Marzia sul vassoio, assieme alla pasta al sugo e la cotoletta<br />

con patate. L’avrebbe invitata comunque al parco Lambro. Re Nudo, i suoi ex compagni<br />

di classe e gli altri del gruppo, ne parlavano da mesi. Spiritualità e musica.<br />

Aveva preso ferie e una scorta di acidi. Marxisti, leninisti, anarchici, Hippy, Goa,<br />

Osho, Abhay Charanaravinda Bhaktivedanta Swami Prabhupada e i suoi Hare Krishna<br />

a lui non gliene fregava un cazzo. Voleva vedere Finardi, donne nude e tanti<br />

draghi volanti, magari ballare anche lui, senza vestiti. Con Marzia, che a parte le<br />

prediche sul mangiare animali e sulla reincarnazione era veramente carina. Senza<br />

cuffietta, con i capelli neri al vento e non solo quelli. Non portava il reggiseno,<br />

l’aveva notato perché il grembiule bianco era di cotone leggero – il vecchio Riva<br />

aveva risparmiato con la fornitura – e in mensa era più freddo che dalle altre parti.<br />

Erano riusciti a stare insieme per il tempo del festival e poi c’erano stati gli scontri,<br />

all’interno del movimento e fra di loro. L’amore libero non si conciliava con il concetto<br />

di famiglia di Malversi. Per quanto fricchettone, era pur sempre un ragioniere.<br />

Lei lavorava in mensa per racimolare i soldi sufficienti per partire e andare in India.<br />

Così fece.<br />

Malversi trascorse il 77 e gli anni successivi lontano da P38 e rivolte. Nessuna<br />

iscrizione al sindacato, niente Autonomia Operaia né eroina. La sua ribellione era<br />

impugnare la chitarra dopo il libro mastro. Il dovere era poco e ben pagato e a lui<br />

rimanevano più tempo e soldi per il piacere.<br />

Dimenticò Marzia e si innamorò di Bob Marley.<br />

Venerdì 27 giugno 1980 non era andato in ufficio, era stato uno <strong>dei</strong> primi centomila<br />

che entrarono a San Siro. Si era portato dietro il suo batterista, il cantante, il bassista,<br />

due michette con la mortadella e una mela. La mela finì contro una delle coriste<br />

della Average White Band, le si scoprì una tetta mentre il resto del coro e il<br />

gruppo erano spariti dietro le quinte. Forse in quel momento cadde l’aereo a Ustica<br />

e per una sconosciuta coincidenza astrale lui si accese una canna. Dopo due tiri<br />

la passò a una bionda con i pantaloni a zampa e il pezzo sopra di un bikini giallo<br />

rosso e verde. La baciò per colpa di “No woman no cry” e, nonostante fosse cotto<br />

119


dal sole e dalle nubi cariche di THC, le chiese indirizzo e numero di telefono.<br />

Chiunque avesse un accendino lo teneva acceso, sull’ultimo anello comparve un<br />

falò e la luna era rossa di caligine.<br />

Uscirono per ultimi, lui e Barbara, fra lattine schiacciate e bottiglie rotte, dribblarono<br />

una 127 blu e gli amici di lei, sparirono fischiettando.<br />

La ospitò nel suo monolocale così lei tornò a Roma con due giorni di ritardo. Barbara<br />

per un anno lo andò a prendere a Termini il venerdì notte, Malversi si presentava<br />

il lunedì mattina in ufficio con barba fatta di fresco nei lavandini targati<br />

FS. Le chiese di trovarsi un lavoro a Milano. Lei non amava la nebbia e aveva un<br />

debole per gli ufficiali <strong>dei</strong> Granatieri. Così un venerdì non trovò la Renault 4 posteggiata<br />

in doppia fila in via Marsala. Probabilmente aveva avuto un contrappello<br />

al forte di Pietralata. Per quello ogni volta che sentiva “Cinzia e Piero” di Venditti<br />

alla radio cambiava stazione o spegneva. Barbara il veleno l’aveva iniettato a lui.<br />

Vendette la chitarra.<br />

Nel gennaio dell’82 venne promulgata la legge numero diciassette “Norme di attuazione<br />

dell'art.18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento<br />

dell’associazione denominata Loggia P2” e il capo ufficio contabilità<br />

generale andò in pensione. Il vecchio Riva lo chiamò in ufficio e gli offrì una promozione<br />

in cambio di un taglio radicale di capelli. Chiuse il suo primo bilancio e<br />

quando Zoff alzò la coppa del mondo, si trovò il primo ciuffo incastrato fra i denti<br />

del pettine.<br />

Con i capelli lo lasciò anche il patriarca, il fondatore dell’impero di cui lui era arrivato<br />

a tenere le chiavi della cassaforte. Poco prima lo aveva convocato in ufficio,<br />

gli aveva mostrato la copertina dell’Espresso con la foto di Ania Peroni e Craxi.<br />

«Prima regola: negare l’evidenza. Ma è per questo che ho combattuto sul Piave e<br />

vostro padre ha assalito convogli nazisti? Troie a palazzo, cocaina fra i ricchi e robaccia<br />

per i poveri? Menomale che me ne sto andando. Voi state attenti, vi affido<br />

la baracca. Tenete d’occhio mio figlio e soprattutto mio nipote. Non può venire<br />

niente di buono da uno che è stato tirato grande da mia moglie. Mi raccomando.»<br />

Aveva seppellito le parole del vecchio con la sua cassa. Ottenuta la fiducia del figlio,<br />

a cui non faceva mancare nemmeno l’illusione di manovrare uomini e capitali,<br />

era pronto a manipolare il loro destino attraverso i numeri.<br />

Alberto<br />

Era arrivato per caso a Milano, perché a Roma tutti i suoi amici non contavano<br />

nulla. Perché nessuno doveva favori a suo padre. Aveva soffocato l’idea del posto<br />

fisso nell’esercito sul nascere, al contrario di molti suoi amici. A chi aveva detto<br />

bene, si era ritrovato a organizzare i turni di guardia alle ambasciate e alle sedi diplomatiche,<br />

oppure tratteneva la pancia con il cinturone di cuoio davanti alle banche<br />

e sui furgoni blindati che ritiravano i soldi alla chiusura <strong>dei</strong> supermercati. In<br />

tanti avevano preso le missioni di pace come una scorciatoia per mutui più leggeri<br />

o per sistemare i conti delle famiglie. Enzo era partito perché ci credeva, alle sue<br />

capacità, alla battaglia per la democrazia, la libertà e tutte le belle chiacchiere con<br />

120


cui tanti si riempivano la bocca. Tranne lui.<br />

Stava in cima al mucchio, le avevano stampate al centro commerciale con uno di<br />

quegli aggeggi dove infili la chiavetta e toccando lo schermo scegli inquadratura,<br />

formato, quantità.<br />

Gli occhi di Enzo non si vedevano, le lenti erano troppo grandi e scure. Indossava<br />

gli occhiali di un’amica, quelli da diva: un po’ Monica Bellucci, un po’ Sandra Mondaini.<br />

Si divertiva a prenderlo in giro. Sembrava di sentire il rumore della sua risata,<br />

che lo metteva in imbarazzo quando stavano in pizzeria o in metropolitana, e che<br />

ora mancava da morire a tutti.<br />

Era abbronzato, l’avevano scattata al mare, i due solchi fra la bocca e le guance<br />

che formavano i vertici di un triangolo perfetto con la fossetta sul mento si notavano<br />

ancora di più. L’ultima vacanza insieme della comitiva. Aveva sorriso anche<br />

a Ciampino prima di partire. Li aveva salutati con lo sguardo dello stesso colore<br />

della divisa, fino a quando le palpebre avevano smesso di raccogliere le lacrime.<br />

Si era girato e se n’era andato.<br />

L’aveva conosciuto pochi mesi prima della maturità. Lui, già diplomato, lavorava<br />

nella carrozzeria del padre mentre aspettava l’esito del concorso. Abitavano nello<br />

stesso quartiere, uno <strong>dei</strong> tanti a ridosso del Grande Raccordo Anulare. Palazzi<br />

come caserme e caserme fra i palazzi. I pini lungo le strade, troppo piccole per<br />

contenere il flusso di auto verso il centro. I muri usati per la corrispondenza fra innamorati,<br />

per insultare gli avversari politici o sfottere la tifoseria avversaria.<br />

Aveva raggiunto gli amici sotto casa alla solita ora, uno <strong>dei</strong> tanti sabato sera. Si<br />

erano incontrati lì, fra i cassonetti tenuti aperti dalle cassette di frutta, fra l’odore<br />

di marcio misto CK One.<br />

«Lui è Enzo, sta in classe con mio cugino.»<br />

«Piacere, Alberto.»<br />

L’aveva incrociato tante volte, una di quelle persone che sono una parte del tuo<br />

mondo ma su cui non ti soffermi mai, come i manifesti che fanno sentire la loro<br />

presenza con i simboli <strong>dei</strong> partiti ma che non ti viene mai voglia di leggere. Era<br />

uno di quei ragazzini che tormentavano i più grandi per poter fare un giro con le<br />

loro moto nuove. Che saltavano con la bicicletta sulle pedane <strong>dei</strong> carri attrezzi in<br />

manovra, che finivano le superiori uno o due anni dopo la media perché passare<br />

le ore sui libri era quanto di più vicino ci fosse a un soggiorno a Rebibbia.<br />

L’aveva rivisto diverse volte anche senza gli altri, Alberto aveva deciso di leggere<br />

quel manifesto, per capire come mai fosse così vivo. Davanti a una birra gli aveva<br />

chiesto per quale motivo si fosse arruolato.<br />

«Più per passione che per necessità.»<br />

Gli aveva raccontato della prima parata a cui aveva assistito, sulle spalle del<br />

nonno.<br />

«L’unico modo per migliorare questo mondo è dare il buon esempio. Non posso<br />

farlo usando la testa.»<br />

Quella era stata l’unica volta in cui la sua risata non lo aveva messo in imbarazzo<br />

per l’invadenza, ma per un motivo molto più profondo. Avevano fatto una passeggiata<br />

lungo il fiume, sul ponte con i menti rivolti verso l’alto, Alberto aveva interrotto<br />

il silenzio.<br />

121


«Le hai viste quelle luci?»<br />

«Sì.»<br />

«Ci credi agli UFO?»<br />

«Anche tu l’hai sentita quella <strong>dei</strong> transistor?»<br />

«Cosa?»<br />

«I transistor li hanno inventati gli americani, hanno trovato un po’ di rottami nel deserto<br />

di cui non conoscevano l’origine, li hanno studiati e ora abbiamo i cellulari.»<br />

«Fico, non lo sapevo.»<br />

«Mi piace pensare che lì in alto ci sia qualcuno che non ha bisogno della violenza<br />

e di sopraffare gli altri per vivere bene.»<br />

«T’immagini, quelli ci stanno spiando e se la stanno ridendo per quanto siamo coglioni.»<br />

«Stanno aspettando, saremo noi a eliminarci da soli.»<br />

Non si erano più visti fino a quando Enzo giurò sotto le bandiere; tutti gli amici sedevano<br />

sulla tribuna fatta di tubi d’acciaio avvolti nel velluto azzurro.<br />

Aveva spento il cellulare, sistemate le foto nel cassetto della scrivania, non voleva<br />

più ricevere altre telefonate. La televisione era accesa, dimenticata in salotto: l’inviato<br />

muoveva la bocca dal terrazzo di un albergo; sullo sfondo montagne senza<br />

neve, alberi senza foglie e in sovraimpressione l’elenco <strong>dei</strong> nomi.<br />

Con la fotografia nella tasca del giubbotto era uscito di casa, si era infilato il casco<br />

e aveva incominciato a guidare, lasciandosi alle spalle il centro. Sorpassava le<br />

macchine in doppia fila di fianco ai banchi improvvisati di frutta e verdura. Fra le<br />

luci e le ombre <strong>dei</strong> cavalcavia, dove riposavano salotti abbandonati e giocattoli<br />

rotti, apriva l’acceleratore sui rettilinei; le case avevano lasciato il posto ai depositi<br />

di rottami, materiali edili e alla campagna. Un semaforo l’aveva costretto a fermarsi,<br />

ad accorgersi della stazione <strong>dei</strong> carabinieri fra case coloniche e villini. Il<br />

drappo verde nascondeva gli altri due colori a mezz’asta: una giornata senza nuvole<br />

e vento. Il semaforo era scattato e Alberto si era accorto di aver bagnato la<br />

visiera.<br />

Aveva continuato gli studi a oltranza: corsi di lingua all’estero, aggiornamento e<br />

formazione in Italia, master quanto basta. Mentre nessuno leggeva le sue risposte<br />

agli annunci di lavoro. Fra un semestre e l’altro, aveva allenato la sua predisposizione<br />

al teamworking in un centro spedizioni di Brighton; spiccate doti analitiche<br />

non gli mancavano, le aveva arricchite in anni di parole crociate e sudoku; la sintesi<br />

non era il suo forte ma se la cavava in proattività e problem solving, merito <strong>dei</strong><br />

mesi trascorsi a scarrozzare pacchi con un furgone. Al terzo stage non rinnovato<br />

aveva interrotto la sequela di sfighe con un contratto da fame in Riva e la promessa<br />

del tempo indeterminato finiti sei mesi di rodaggio e altri tre di collaudo.<br />

Aveva trovato una casa in città, dove le vie hanno i nomi delle regioni e di qualche<br />

eroe dimenticato; un sottotetto soppalcato che gli costava metà stipendio. Le giacche<br />

e le camicie appese alla trave che reggeva il letto facevano da separé fra zona<br />

giorno e cucina. La luce illuminava lavabo, fornello da campeggio e frigobar dall’oblò<br />

di una roulotte. Era fortunato ad avere un bagno dove si lavava i denti piegato<br />

a portafogli e poteva pisciare soltanto da seduto. La vecchia proprietaria di<br />

casa passava a trovarlo una volta al mese e dava sempre un occhio al di là della<br />

122


porta a soffietto del bagno, per sincerarsi che ci fosse soltanto lui in casa.<br />

La sua vicina era una ragazza di Sanremo che non aveva il bagno e si accontentava<br />

di quello comune davanti al motore dell’ascensore. La incrociava di ritorno la<br />

sera, ogni tanto le offriva una birra o di fare il bucato con la sua lavatrice. Era molto<br />

carina e aveva una passione per i completi intimi di seta, ma non gli interessava.<br />

Le donne per lui erano accessori ingombranti, in quel momento della vita non<br />

avrebbe saputo dove metterle. Giulia lavorava come commessa fra un provino e<br />

l’altro. Aveva tentato due volte di entrare in una scuola di teatro prestigiosa, poi<br />

qualcuno le aveva detto che per fare televisione non era necessaria una dizione<br />

perfetta e nemmeno conoscere a memoria la biografia di Ionesco. Gli raccontava<br />

degli sconti stratosferici che era costretta a fare a soubrette e star che andavano<br />

a comprare i vestiti da lei, e delle signore che le chiedevano cosa avessero comprato<br />

per imitarle a prezzo pieno. Le stesse che lui incrociava per le strade del<br />

centro con buste decorate da toraci scolpiti e glabri.<br />

Riva<br />

«Piano terra. Ground floor.»<br />

La voce dell’ascensore.<br />

Si è fermato davanti al muro dipinto di fresco. Sapeva avrebbero sbagliato la tonalità<br />

di azzurro, motivo in più per incazzarsi con Malversi.<br />

Nell’atrio si è sentito il bip della macchina timbratrice, il cartellino magnetico sfugge<br />

dalle mani dell’impiegato e si ferma contro una suola.<br />

«Buonasera dottor Riva.»<br />

«Non le sembra presto per uscire?»<br />

«Veramente…»<br />

«È una domanda chiusa, può rispondere sì o no.»<br />

«Sì, ma…»<br />

«Non le hanno mai insegnato che le giustificazioni le danno soltanto i perdenti?»<br />

«Mi scusi.»<br />

«Dove sta andando?»<br />

«Ho appuntamento dal medico.»<br />

«Però, di venerdì pomeriggio. E il suo medico riceve per caso a Roma?»<br />

Silenzio, Alberto sentiva la faccia bollire. Non era vergogna.<br />

«Raccolga il tesserino. Ci vediamo lunedì, nel caso in cui non sia nulla di grave.»<br />

È finito il secondo giorno di lavoro dopo le ferie di agosto: un ricordo sbiadito.<br />

Alberto è uscito, ha aggredito la scala che porta al parcheggio e si è lasciato dietro<br />

la risacca di ghiaia e asfalto.<br />

Nell’afa il sole faticava a scendere dietro le coperture di amianto, Riva abbandonò<br />

l’aria condizionata dell’atrio per quella della sua macchina. Appoggiò la giacca sul<br />

sedile posteriore e sentì la camicia bagnata raffreddarsi sotto le ascelle e sulla<br />

schiena. Passò di fianco al capannone sei, l’ufficio spedizioni; due cartelli consumati:<br />

Italia, Estero.<br />

Abbassò il finestrino per rimproverare il magazziniere che si era acceso una siga-<br />

123


etta; gli chiese il numero di matricola, lo annotò sullo scontrino di un posteggio.<br />

Aspettò che spegnesse la sigaretta e rientrasse dall’avvolgibile, poi spinse sull’acceleratore<br />

e gli pneumatici lasciarono una striscia appiccicosa e nera dietro la<br />

macchina. Si alzò la sbarra, la strada era sgombra, soltanto qualche camion carico<br />

di terra si allontanava dai cantieri vicini. I lavori in corso lo deviarono verso i palazzoni<br />

lungo la tangenziale. Le torri prendevano vita, interruttori spinti da dita di<br />

poveracci accendono le finestre.<br />

Il pensiero di fuggire gli trapassò il cervello alla velocità della moto che lo sorpassò<br />

in terza corsia. Abbandonare tutte le persone appese al filo delle sue decisioni.<br />

Schiacciò il pulsante, entrò nel cortile, lasciò la macchina in quella che un tempo<br />

era una rimessa per le carrozze, attraversò il giardino e salì in casa. Fece scivolare<br />

la giacca su una poltrona, raggiunse la cucina dopo aver congedato la governante<br />

e si accese la televisione. Immagini di vetture in fiamme, militari in pattuglia, madri<br />

in apprensione e figlie scomparse si sostituivano ai consueti primi piani del presidente<br />

del consiglio e degli esponenti dell’opposizione.<br />

Si aprì una birra e infilò un piatto di lasagne nel microonde. Finito di mangiare decise<br />

di prepararsi per la serata. Spense la televisione, la musica uscì dallo stereo<br />

e invase la casa. Bach in filodiffusione, una delle tante manie di sua madre. Si<br />

buttò sotto la doccia: un corpo minuscolo fra getti che scaldavano vetro e marmo.<br />

Asciugò i capelli, si strofinò nell’accappatoio con le cifre ricamate in argento. Le<br />

stesse del nonno e del nonno di suo nonno. Entrò nella cabina armadio, passò in<br />

rivista le camicie schierate da Ines per colore e tipo di collo. Sgradevole era l’aggettivo<br />

migliore per definire il suo aspetto. Ne era consapevole e non si vestiva<br />

bene per camuffare gli scherzi di una natura bizzarra, nemmeno per vanità. Tutto<br />

ciò che indossava era legato al concetto di decoro che gli era stato trasmesso fin<br />

da bambino. Dimesso e borghese ma allo stesso tempo raffinato. Alle porte <strong>dei</strong><br />

quarant’anni, pochi sogni dimenticati in fondo a un cassetto tutti pronti per essere<br />

esauditi da una carta di credito o una telefonata alla persona giusta. Questo lo<br />

rendeva diverso dagli altri, questo e il cassetto Luigi XVI.<br />

A parte soldi e potere, la vita era solo routine e voglia di evasione. Si rifletteva nei<br />

suoi occhi, dietro al parabrezza illuminato dai neon <strong>dei</strong> locali del centro. Colori, insegne,<br />

vetrine sempre accese, vie infettate da facce mimetizzate con i marciapiedi,<br />

imbalsamate dallo stress e dall’alcol; vino al ristorante, birra in pizzeria. Un posteggio,<br />

l’insegna si intravedeva in lontananza. Il palo, la donna in bikini e la foca<br />

aggrappata agli slip.<br />

Aveva nostalgia del bancone, delle Polaroid dell’inaugurazione sparse sulle pareti:<br />

vintage è trendy, ma ricorda il cattivo gusto delle ricevitorie di periferia.<br />

Ai tavoli ai lati delle passerelle illuminate non c’era ancora nessuno. Si avvicinò al<br />

barista.<br />

«Fammi un negroni.»<br />

Il primo è il più buono, con il secondo le papille gustative sono anestetizzate dal<br />

gin, non si sente più alcun sapore, ti accorgi di aver bevuto perché tutto è avvolto<br />

da una fitta nebbia.<br />

Il locale incominciò riempirsi, due ragazze vennero a salutarlo, senza impegno<br />

offrì da bere. Faceva fatica a muovere i piedi a tempo fra tette, sorrisi e occhi lucidi.<br />

124


Malversi gli fece cenno dalle scale, aveva il trentatré per cento delle probabilità di<br />

incontrarlo. Anche questa volta si era sbagliato a fare i conti con il ragioniere.<br />

«Buonasera Malversi, pensavo venisse qui soltanto una volta alla settimana.»<br />

«Esatto, il giovedì.»<br />

«Ma lunedì non aveva accompagnato i signori del fondo?»<br />

«E cosa c’entra, era un impegno di lavoro. Il giovedì al Foca Loca è sacro!»<br />

«Già, come darle torto.»<br />

«Stasera c’è una nuova ragazza, Olga, mi fa compagnia al tavolo?»<br />

Riva si sedette al tavolo e ordinò il terzo negroni. Sul palco una contorsionista<br />

nuda si stava suonando le chiappe come bonghi.<br />

«E poi se davvero vuol fare qualcosa di interessante per proseguire la serata, ho<br />

scoperto un posto nuovo. Mi avevano ritirato la patente da due giorni. Non sapevo<br />

che i vigili hanno le auto civetta. C’era quella macchina che bloccava la strada,<br />

ferma vicino a una mignotta. Non avevo bevuto tanto, un paio di birre. Ho aspettato<br />

un minuto prima di mettermi a suonare. Quelli non si muovevano, allora sono salito<br />

sul marciapiede con due ruote e ho accostato. Chi avrebbe immaginato che la vigilessa<br />

si sarebbe incazzata così tanto. Alla fine sembravano tre pervertiti pronti<br />

a caricare la quarta per un’orgia, e io mi sono limitato a farglielo notare. Con parole<br />

mie. Hanno lasciato stare la puttana e si sono concentrati su di me. Hanno chiamato<br />

la centrale. Sono arrivati i rinforzi e mi hanno fatto il palloncino. Ho il vantaggio<br />

di avere tutte le comodità a due passi. La metropolitana sotto casa. Il bar vicino<br />

all’ufficio. Il club per scambisti sulla strada. In macchina non ci fai caso. Non ti soffermi,<br />

fai tutto meccanicamente. Se cammini, i tempi si dilatano e riesci a curiosare.<br />

Stavo tornando dal bar, questa volta ubriaco, il ritiro della patente mi ha tolto tutti<br />

i freni. Visto che non devo guidare, tanto vale fare le cose fatte bene. Allora esco<br />

dal bar e mi faccio la solita scarpinata. Vicino al McDonald’s noto una porta di metallo<br />

nera. Nessuna insegna, soltanto un neon rosso. Vicino alla porta un campanello.<br />

New Fantasy Club. Non mi ci è voluto molto a decidermi a suonare. A casa<br />

non c’era nessuno ad aspettarmi. Mi apre un vecchietto tutto occhiali e doppiopetto.<br />

Chiede la tessera. Gli rispondo che non ce l’ho. Chiede se sono single. Gli<br />

dico di sì. Sono duecentocinquanta l’iscrizione annuale e poi venti l’ingresso. Tiro<br />

fuori i contanti. Dice che la prima consumazione è compresa. Prende il cappotto<br />

e mi lascia un numerino. Mi siedo al bancone e mi faccio fare un gin tonic. E osservo<br />

il salone con i divanetti vuoti, gli specchi alle pareti che riflettono soltanto<br />

me e il vecchietto. “È arrivato tardi” mi dice, “sono già tutti di sopra”. Indica la scala.<br />

Prendo il gin tonic e salgo. Un’anticamera con un’altra statua, una venere con un<br />

vassoio di preservativi. E una tenda nera. Scosto la tenda e mi ci vuole un po’ per<br />

abituarmi alla semioscurità. Divani e corpi, corpi e divani. Qualcuno mi tocca la<br />

spalla. Mi giro. Qualcuno mi abbassa la zip. Io abbasso lo sguardo. Non vedo<br />

bene. Mi sembra una donna. Fosse stato un uomo non avrebbe fatto differenza.<br />

Completamente nuda. La sollevo e la giro. Si piega. Ho appena incominciato a<br />

farmela, quando mi accorgo di uno che ci sta fissando. Rallento. Mi sorride. Mi<br />

fermo. Ha la mano nei pantaloni. “Continua ti prego” mi sussurra lui. “Hai sentito<br />

quel finocchio di mio marito?” mi fa lei. Riprendo a darle colpi sempre più forti fino<br />

a quando non sento più i gemiti di fondo e sento urlare soltanto lei. Le vengo sulla<br />

125


schiena. Non ho preso il preservativo. Il tizio si avvicina e mi ringrazia. Lei si alza,<br />

mi bacia e scivola dentro un rettangolo di luce alla mia sinistra che subito si spegne.<br />

Scavalco una testa in mezzo a due gambe, scanso un paio di tette che si<br />

muovono sopra una pancia bianca, quasi fosforescente, enorme anche da sdraiata,<br />

ed entro anch’io nel bagno. Tengo gli occhi chiusi per un po’ prima di avere il<br />

coraggio di riaprirli. Lentamente. Il neon mi fa male. Mi sciacquo nel lavandino.<br />

Arranco verso la carta asciugamani. Sento scorrere l’acqua. Vedo entrare un uomo<br />

della mia età con un pisello enorme. Vedo uscire un culo peloso e raggrinzito. Ritorno<br />

al buio e ai gemiti. Mi diventa di nuovo duro. Da anni non avevo un tempo di<br />

recupero così corto. Non mi impegno troppo a capire come funzionano le dinamiche.<br />

Mi avvicino a una bocca e mi ci infilo. Esco poco prima di venire. Prendo due<br />

respiri profondi prima di infilarmi in un altro buco. Mi sono bevuto il bicchiere della<br />

staffa con un notaio di Biella e ci siamo dati appuntamento per la settimana successiva.<br />

Ha una moglie cubana. Sono arrivato a casa, ho fatto una doccia, colazione<br />

e mi sono buttato a letto.»<br />

«Questa sera preferirei qualcosa di tranquillo.»<br />

Riva si alzò con la scorza d’arancia fra i denti. Al posto della contorsionista c’era<br />

una bionda che faceva la verticale fra le gambe di un tatuaggio a forma di donna.<br />

Uscì ad accendersi una sigaretta, cacciò l’ambulante con le rose e coprì il suo<br />

odore con uno sbuffo di tabacco. Nemmeno rientrò a salutare Malversi, si ritrovò<br />

al volante, direzione Navigli, cercando un diversivo allo svago.<br />

Dribblò i tavolini ammassati sul pavé e si infilò in un locale. Il barista lo squadrava<br />

dalla testa ai piedi, in mano aveva quattro bottiglie che stava spremendo in una<br />

fila di bicchieri, ragazzini vestiti come comparse di un film di Spike Lee si contorcevano<br />

nelle frasi triturate in inglese. Non si imbarazzò a ordinare un altro drink;<br />

poi barcollando scese dallo sgabello e si fece strada attraverso la selva di visiere<br />

e cappellini.<br />

Uscì fra le bancarelle mentre l’aria umida saliva dai canali, nella transumanza di<br />

coppie e comitive incrociò sguardi di persone dimenticate.<br />

«Riva, carissimo!»<br />

«Ciao.»<br />

«Non mi riconosci? Seguivamo finanza aziendale insieme.»<br />

«Ah.»<br />

«Ti trovo in gran forma.»<br />

«Anch’io.»<br />

«Incontriamoci una sera di queste, per un aperitivo, sono sempre laggiù, al Pellicano.»<br />

«Magari, sarebbe fantastico.»<br />

«Top, a presto.»<br />

Una goccia gli sfiorò la punta del naso, le parole di circostanza si sciolsero nella<br />

pioggia. Fissò distratto le scarpe del compagno di università diventare sempre più<br />

piccole, mentre cercava di allontanarsi una sportellata lo fermò. Un agglomerato<br />

di muscoli abbronzati scese dal SUV, lo ignorò completamente nella fretta di rifugiarsi<br />

nel primo ristorante. Il gomito gli si stava gonfiando, la camicia gli si appiccicò<br />

sul livido e il formicolio prolungato lo riportò indietro con gli anni, a giochi d’infanzia,<br />

126


a spigoli di scrivanie ricoperte da matite colorate e fogli pasticciati. Improvvisamente<br />

un’ondata elettronica lo travolse. Arrivava da una vetrina completamente<br />

azzurra che si apriva al suo passaggio. Era tutto confuso nel blu intermittente; si<br />

accorse di essere appoggiato a una ragazza. Era mora, splendida e più ubriaca<br />

di lui. I loro corpi si sfioravano, si toccavano si univano. Svuotarono bicchieri, cercarono<br />

di dirsi qualcosa.<br />

«È la prima volta che vengo.»<br />

«Hai un viso davvero interessante.»<br />

«I Navigli sono un postaccio per turisti, studenti fuori sede e provinciali.»<br />

«Non sei il solito ragazzino che ci prova.»<br />

«Metà di questi posti è in mano a ex galeotti e prestanome.»<br />

«Hai delle mani molto mature.»<br />

«Che dici? È come se avessi messo la testa in un compressore.»<br />

«Sei davvero signorile…»<br />

«Oppure una radio a tutto volume fra le orecchie.»<br />

«…e interessante.»<br />

Si accesero le luci, piombò il silenzio.<br />

La morettina aveva appoggiato la testa sulla sua spalla. Lavanda e anice.<br />

«Cazzo, devo smettere di bere.»<br />

«Scusa?»<br />

«Aspetta, vado in bagno.»<br />

Tagliò una pallina bianca sul coperchio del cesso e tirò su la polvere bianca aiutandosi<br />

con cinquanta euro arrotolati.<br />

«Dicevamo?»<br />

«Mi accompagneresti a casa? Le mie amiche mi hanno piantata qui senza nemmeno<br />

i soldi per un taxi. Sono devastata e domani devo fare qualcosa e non mi ricordo<br />

cosa e tu sei così interessante e io sono così ubriaca dai ti prego no non ci<br />

sto provando.»<br />

«Va bene, la macchina non è distante.»<br />

Uscirono, la pioggia se n’era andata e aveva lasciato un’umidità più fresca dell’aria<br />

stagnante del Naviglio.<br />

I riccioli scuri gli accarezzano la guancia mentre la testa si appoggiava nuovamente<br />

sulla sua spalla. La ragazza gli afferrò il braccio con entrambe le mani.<br />

«Cosa c’è, non ti piaccio?»<br />

«No, è che di solito pago.»<br />

«Scusa?»<br />

«Cioè, prendo io l’iniziativa.»<br />

«Hai ragione, quando bevo divento un po’ sfacciata, ma dove hai parcheggiato?»<br />

«Siamo arrivati. Là, sotto quel lampione.»<br />

Lei si legò in fretta la cintura di sicurezza.<br />

«Ti dispiace se mi accendo una sigaretta?»<br />

«No, basta che tiri giù il finestrino.»<br />

Entrò nell’abitacolo aria fresca, accompagnata dall’odore di asfalto bagnato.<br />

«Dove ti porto?»<br />

«Ho voglia di dormire con te.»<br />

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128


L’altro volto è la storia di un ragazzo che non riconosce il proprio volto.<br />

Sconvolto da nevrosi compulsiva in seguito a un incidente drammatico,<br />

Davide deve andare all'inseguimento di un equilibrio che passerà attraverso<br />

l'arte manuale, alla ricerca del volto perfetto. Il supporto di un artista<br />

amato e di un filosofo comunista saranno la chiave per scavare a fondo<br />

nella propria psiche e ritornare ad abbracciare la tranquillità perduta. Il<br />

confronto con la sorella, conformista consumata, gli darà modo di sviluppare<br />

un proprio io, in netta opposizione con la realtà superficiale <strong>dei</strong> tempi<br />

moderni.<br />

Una drammaticità ottimamente orchestrata e una prosa intimamente complessa<br />

danno vita allo splendido intreccio <strong>dei</strong> personaggi, fondamentale<br />

per comprendere questo viaggio psicologico nel superamento di un<br />

trauma primordiale.<br />

Tiziano Buffoli ci regala una piccola perla, lasciando affondare tutti noi<br />

nei più profondi meandri della mente insieme al protagonista.<br />

Tiziano Buffoli é nato a Varese nel 1968, vive e lavora in provincia di<br />

Milano. Ha scritto diversi racconti, sceneggiato alcuni cortometraggi, di<br />

Dal tramonto all’alba ha curato la regia. Questo è il suo primo romanzo.<br />

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L’altro volto, Tiziano Buffoli.<br />

Una cicatrice, segno violento, profanatore di un viso che rivela grazia.<br />

Seduto davanti al computer nella sua camera, suoni ad alto volume in cuffia e<br />

nello schermo, immagini sincronizzate in bianco e nero di reti che avvolgono e si<br />

incrociano. Accanto a lui, appese alla parete, c’è un poster con Marilyn di Warhol<br />

e un altro vicino, con uno <strong>dei</strong> volti di Orlan. La strumentazione collegata al computer<br />

è invadente. Davide si muove a ritmo, è concentrato sulle immagini video<br />

che lui stesso crea compiendo <strong>dei</strong> movimenti di regolazione level. Aumenta il ritmo<br />

<strong>dei</strong> suoi movimenti, accenna un sorriso di soddisfazione.<br />

Si spalanca la porta alle sue spalle, Giulia entra, lo guarda un istante, si avvicina<br />

senza essere sentita e vista, gli toglie di scatto le cuffie e gli grida nell’orecchio.<br />

A mangiare!<br />

Dai, stavo…<br />

Fammi sentire!<br />

Giulia si mette le cuffie e fa una smorfia inorridita.<br />

Sempre peggio, ma che roba è?<br />

Si toglie le cuffie.<br />

Vieni a mangiare!<br />

Giulia se ne va.<br />

Lui riprende da dov’era rimasto e continua la sua opera.<br />

Niente da fare, nell’interruzione ha perso la concentrazione, non gli viene nulla di<br />

buono. Spazientito si toglie la cuffia, sconsolato.<br />

Che rompipalle!<br />

Si alza dalla sedia ed esce dalla stanza, si dirige in soggiorno ma sente delle voci<br />

che non riconosce. Si ferma, ascolta per un istante e ritorna in camera. Chiude la<br />

porta e si rimette al computer. Nello schermo si apre la finestra messenger.<br />

Anna: Ci sei? Ci vediamo stasera?<br />

Davide: Devo uscire con quei miei amici per organizzare la festa.<br />

Anna: Me n’ero dimenticata. Allora a domani.<br />

Si spalanca ancora la porta, di nuovo Giulia.<br />

Ti muovi!<br />

Chi sono quelli?<br />

Come chi sono, lo sapevi che doveva venire quella coppia amica loro.<br />

No, non ho voglia, portami da mangiare qui.<br />

Sei scemo, lo sai che si incazzano.<br />

Mangio qui.<br />

Va bene, cazzi tuoi.<br />

Giulia va a tavola, il soggiorno è arredato con buon gusto e ricercato design degli<br />

elementi. Ci sono seduti il padre Sergio, un uomo sui cinquant’anni palestrato, capelli<br />

lunghi, pizzo e baffi in stile biker, con muscoli e tatuaggi in bella vista; sua<br />

madre Serena, una donna minuta di bell’aspetto e la coppia loro amica. Interrompe<br />

la discussione fra i genitori e gli ospiti, dice che Davide non vuole venire a tavola.<br />

Il padre si scusa e si giustifica dicendo che è fatto a modo suo. Giulia prende un<br />

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piatto, ci mette un po’ di lasagne e dell’arrosto, poi prende un bicchiere, una birra<br />

e porta tutto a Davide.<br />

Ti è andata bene, sono di buon umore, però io non sopporto di farti da cameriera,<br />

presto ti dirò come dovrai ripagare questo servizio.<br />

Non se ne parla, mi hai interrotto sul più bello.<br />

Allora mangi per terra.<br />

Giulia divertita posa il tutto a terra, abbaia come a imitare il cane-fratello e se ne<br />

va.<br />

Davide, con un grido che tenta di essere aggressivo, ma finisce in un ghigno.<br />

Carogna!<br />

Giulia torna in cucina, siede a tavola e ride.<br />

Suo padre le chiede cos’ha combinato.<br />

Niente.<br />

Allora perché abbiamo sentito quella parola?<br />

Sua madre Serena spiega agli amici che Giulia pizzica spesso il fratello, che fortunatamente<br />

è un buon ragazzo e perdona la sua vivacità.<br />

Giulia, fra quelli che ritiene <strong>dei</strong> noiosissimi discorsi tenuti dai genitori e dalla coppia<br />

amica, consuma velocemente la cena.<br />

Scusate, vado in camera mia, buona serata.<br />

Si avvia nel corridoio che porta alla zona notte, passa dalla camera di Davide e in<br />

direzione della porta abbaia ancora.<br />

Chiede l’amica ospite a cena.<br />

Ma avete un cane?<br />

Risponde il padre.<br />

No, sempre Giulia.<br />

La coppia ride divertita.<br />

La cena continua con tema imperante la crisi economica che non dà scampo ai<br />

vari settori in cui lavorano.<br />

Suona il campanello di casa, Serena chiede scusa agli ospiti e raggiunge il citofono.<br />

Avvisa Davide che c’è il suo amico Alessandro, ma lui non si schioda dalla<br />

sua camera. Lei si scusa di nuovo con gli ospiti e apre la porta d’ingresso ad Alessandro.<br />

Lui è vestito con jeans, felpa con cappuccio e cappellino con visiera tenuta<br />

di lato, entra e timidamente saluta tutti i presenti. Serena gli chiede come sta e<br />

aggiunge che è da tanto tempo che non si fa vedere. Lui si scusa gentilmente di<br />

aver interrotto la cena e fa i dovuti convenevoli prima di essere accompagnato<br />

nella stanza di Davide.<br />

Ma cosa fai, la cena sul pavimento?<br />

Chiede la madre prima di lasciarli.<br />

Chiedilo a quella tarata di tua figlia.<br />

Non usare quelle parole, per favore. Ma non hai mangiato nulla, si è sicuramente<br />

raffreddato, vado a scaldartelo.<br />

Ma perché mangi per terra?<br />

Alessandro insiste.<br />

Mica ho mangiato! Comunque di solito mangio sul tavolo.<br />

Almeno in questo sei normale. Come butta?<br />

131


Bene, e tu?<br />

Bella! Ma chi è questa?<br />

Chiede Alessandro indicando il volto di Orlan.<br />

È un’artista.<br />

Cosa fa?<br />

Ha scelto il proprio corpo come materiale da plasmare e modellare alla ricerca dell'ideale<br />

di bellezza.<br />

Roba leggera, ma non so, tipo Michelangelo o roba simile per te troppo normale,<br />

eh? E ’sta musica? Tipo, un po’ di Fibra non ce l’hai!?<br />

Dovrei sporcare il mio archivio con la roba che ascolti tu? No, non se ne parla.<br />

Oh, modestone.<br />

Dai oh, dobbiamo andare che ci aspettano Ce e Ri, ma fammi sentire quella cosa<br />

che vuole farti mettere alla festa Ri.<br />

Guarda che è questa che stai sentendo.<br />

Ma si balla? No perché le tipe vogliono ballare.<br />

Chi vuole balla, e chi vuole guarda e ascolta.<br />

Ma ad ascoltarla bene non è male, è tutta roba tua?<br />

Tutta mia.<br />

Figa!<br />

È buio, i due amici camminano lungo un marciapiede poco illuminato, intorno a<br />

loro palazzi popolari tutti uguali. Dall’ombra sbucano cinque ragazzini dal fare minaccioso,<br />

si incrociano. Raggiungono l’ingresso del condominio in cui abita Cesare.<br />

Alessandro suona il campanello, risponde una voce maschile adulta, dice<br />

che Cesare arriva. Davide nell’attesa appoggia una mano al muro. Alessandro con<br />

tono allarmato gli dice che c’è uno scarafaggio vicino alla sua mano, lui sobbalza.<br />

Alessandro scoppia a ridere.<br />

Ti sei cagato! Non ti è passata la strizza degli insetti!<br />

Fanculo!<br />

Controbatte Davide.<br />

Cesare li raggiunge, lui e Alessandro si salutano con gesti delle mani e battute<br />

che a Davide non viene di replicare, e si limita a un Ciao, come stai?<br />

Bella. Quanto tempo, zio!<br />

Andiamo dai, che Ri ci aspetta. Dice Alessandro.<br />

Si incamminano lungo un marciapiede identico a quello percorso per arrivare a<br />

casa di Cesare. I palazzi si fanno più imponenti e degradati dall’inquinamento e<br />

dall’incuria.<br />

Riccardo, un ragazzo alto e robusto con aspetto rude, è in un piccolo appartamento<br />

seduto su un divano. Il padre con voce alta gli sta dicendo che quei soldi<br />

per la sua festa non ci sono.<br />

Se vuoi i soldi devi lavorare, se continui a non fare un cazzo non vedrai più un<br />

centesimo.<br />

Non li cago mica i soldi io, è ora che trovi qualcosa da fare.<br />

Bravo, e perché non me lo trovi tu un lavoro?<br />

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Muovi il culo come fanno molti della tua età, sei l’unico che ha abbandonato la<br />

scuola da due anni e non ha mai fatto un cazzo!<br />

E tu che cazzo fai per farci stare meglio!?<br />

Il padre si avvicina minaccioso.<br />

Testa di cazzo, io mi faccio il culo tutti i giorni.<br />

La madre cerca di calmare il marito ma viene spinta e fatta quasi cadere. Riccardo<br />

si infuria dicendo che non deve permettersi di toccare sua madre. Il suono del<br />

campanello di casa interrompe il litigio fra spinte e insulti. Riccardo afferra il ricevitore<br />

del citofono.<br />

Chi è?<br />

I tre amici arrivano a un ingresso condominiale. Il contenitore della pubblicità cartacea<br />

straborda, le cassette della posta sono in gran parte divelte, sui campanelli<br />

si fa fatica a leggere i nomi, alcuni sono scritti a penna, altri con etichette a carattere<br />

Courier New, tutti in qualche modo uno diverso dall’altro. Suonano al citofono.<br />

Ri, siamo noi.<br />

Chi è?<br />

Un sottofondo di urla, Riccardo si incazza ancora.<br />

Silenzio, non sento un cazzo! Chi è!?<br />

Noi!<br />

Arrivo.<br />

Alessandro, mentre Davide osserva la facciata del palazzo con una mano appoggiata<br />

al muro, bisbiglia a Cesare.<br />

Digli che c’è un ragno vicino alla sua mano.<br />

Cesare.<br />

Minchia che ragno! Guarda vicino alla tua mano!<br />

Davide lancia un urlo e sobbalza nuovamente in modo ridicolo. Gli altri due crepano<br />

dal ridere.<br />

Alessandro.<br />

Ma sei un vero cagone.<br />

Cesare ridendo come un pirla.<br />

Fratello, ho visto il panico nei tuoi occhi.<br />

Andate a cagare!<br />

Riccardo li raggiunge, Alessandro gli presenta Davide ma lui è teso, tirato in volto,<br />

ripete insulti rivolti a suo padre.<br />

Raggiungono una piazzetta. Riccardo e Cesare si siedono su un muretto. Alessandro<br />

e Davide si mettono di fronte. Riccardo chiede a Davide se ha preparato<br />

musica e video per la sua festa.<br />

Ale mi ha detto che fai delle cose, che roba è?<br />

Alessandro dice di fidarsi che è roba figa mai vista. Riccardo dice che vuole una festa mega,<br />

non la solita roba.<br />

Davide è solo in un luogo appartato della discoteca, Alessandro è con Cesare e<br />

due ragazze visibilmente stordite, una cicciona e l’altra molto magra. Si accorge<br />

133


che Davide è rimasto solo e con il resto del gruppo lo raggiunge. Intorno ci sono<br />

ragazzi che ballano con musica che pompa. Gli presenta le ragazze e spiega rivolgendosi<br />

a loro che Davide era un suo compagno alle medie, si sono divertiti<br />

molto insieme. Ora lui è un bravo VJ, crea musiche e video, di lì a poco si esibirà<br />

con una performance. Davide timidamente annuisce. Cesare aggiunge che tutti<br />

sono cresciuti nel quartiere. Le ragazze ridono inutilmente. Quella magra gli<br />

chiede.<br />

Cosa ti è successo in faccia?<br />

Davide non risponde.<br />

Poi tutti raggiungono Riccardo che è seduto su un divano, visibilmente fuso.<br />

Auguri Ri, minchia come sei lesso!<br />

Dai, beviamo.<br />

Auguri! Tutti in coro.<br />

Fanno un gran casino tutti insieme.<br />

Riccardo grida a tutti.<br />

Divertiamoci, cazzo è il mio compleanno e domani tutti allo stadio, e ci vieni anche<br />

tu.<br />

Intima a Davide.<br />

Vedrai che figata.<br />

Davide prova a dire di no ma gli altri lo sovrastano e confermano per lui.<br />

Si esibisce con la sua performance video musicale, il pubblico è stupito, qualcuno<br />

apprezza, molti sono indifferenti.<br />

Davide entra in casa, porta un piumino, un cappello tenuto basso sugli occhi e i<br />

guanti, dall’ingresso accede direttamente all’open space, dove la madre in cucina<br />

sta terminando di preparare il pranzo, il padre e Giulia sono seduti in salotto. Saluta<br />

la famiglia riunita e si toglie piumino e berretto, scoprendo il nuovo taglio di capelli.<br />

Giulia lo stuzzica immediatamente, gli dice che è brutto. Sergio dice che così ha<br />

perso quel poco di maschile che gli era rimasto.<br />

Davide, incurante, si siede accanto alla sorella che con gli auricolari ascolta musica<br />

di una boy band. Gliene toglie uno e se lo mette, ascolta un istante.<br />

Ma com’è possibile! Non cresci!<br />

Saranno belli quei rumori che ti crei tu?<br />

Il padre dice che la musica negli ultimi anni è espressione di come va il mondo.<br />

La madre difende Giulia, padre e figlio attaccano la madre accusandola di aver<br />

usato il pretesto di accompagnare Giulia per vedere l’ultimo concerto <strong>dei</strong> Tokio<br />

Hotel.<br />

Siedono a tavola, pranzano e il padre fa le dovute raccomandazioni.<br />

Ci hanno confermato la partenza per domani, come previsto staremo via circa<br />

dieci giorni. Ci dispiace lasciarvi soli ma dobbiamo andare tutti e due. Cercate di<br />

essere responsabili, soprattutto tu, ricordati che l’auto può essere un’arma, fai attenzione.<br />

Come va con la guida?<br />

Bene, tutto ok. Domani vado allo stadio.<br />

Tu allo stadio?<br />

134


Davide entra nella sua camera, si avvicina al computer. C’è la finestra messenger<br />

aperta.<br />

Anna: Vengo alle tre.<br />

Risponde.<br />

Davide: Oggi dormo, ieri sera ho fatto tardissimo. Domani vado allo stadio.<br />

Mette della musica classica e inizia a cambiarsi. Giulia entra in camera, lui è in<br />

mutande, si vergogna e le dice di uscire, ma lei inizia a prenderlo in giro, gli tira il<br />

cuscino dicendogli che ascolta musica da vecchi e che lo dirà ai suoi amici e a<br />

Anna che razza di musica ascolta a casa. Continua dicendo che i libri che legge<br />

e le cose che fa sono vecchie. Davide la butta sul letto e iniziano una lotta a cuscinate.<br />

Giulia gli preme un cuscino sul viso. Lui reagisce in modo eccessivo, la<br />

fa cadere. Preoccupato si assicura che non si sia fatta nulla, si scusa.<br />

Lei.<br />

Dimenticavo, pure claustrofobico.<br />

Risponde con uno schiaffone e ride, riprendono la lotta.<br />

Un cuscino finisce sulla parete dove c’è una maschera in ceramica di Arlecchino<br />

nella versione demone. Cade e si rompe in pochi pezzi taglienti, loro incuranti continuano<br />

a giocare.<br />

Sullo schermo del pc appare la risposta di Anna: Stadio?<br />

Davide indossa una maglietta bianca ed è con i suoi tre amici: Cesare, Alessandro<br />

e Riccardo seguono la partita sugli spalti. La squadra del cuore è sotto di un gol.<br />

Riccardo grida come un forsennato e incita il pubblico al sostegno. Alessandro e<br />

Cesare litigano fra loro, c’è un giocatore che è responsabile della situazione secondo<br />

Alessandro, Cesare impreca contro l’allenatore. Davide non capisce cosa<br />

stia succedendo ed è spaventato dal boato della folla incazzata intorno a lui.<br />

Verso la fine viene fischiato un rigore contro. La partita è persa. Al fischio di fine<br />

partita si scatenano tutti e tre con urla e insulti all’arbitro e alla squadra avversaria.<br />

Davide è impressionato ma anche un po’ affascinato dalla potenza scatenata da<br />

un pubblico incazzato.<br />

Davide guida la sua nuova auto, stanno per tornare a casa, continuano a imprecare<br />

contro l’arbitro.<br />

Cesare vuole bere.<br />

Fermiamoci al centro, dai che ho sete.<br />

Tutti d’accordo.<br />

Entrano nel parcheggio sotterraneo e trovano posto per l’auto. Vicino c’è una<br />

Punto identica alla loro ma non la notano. Scendono. Alessandro prima di allontanarsi<br />

nota la targa dell’auto di Davide: VO101OV<br />

Ma che targa hai? Pure la targa strana.<br />

Entrano in un supermarket, si recano al frigo delle bevande, Cesare e Alessandro<br />

prendono delle birre e si dirigono alla cassa, Riccardo con una mossa furba passa<br />

davanti a due ragazzi, gli riesce ma uno <strong>dei</strong> due gli dice, con accento dell’est, che<br />

ci sono prima loro. Riccardo non gli dà retta e sia Cesare che Alessandro si infilano<br />

superando i ragazzi che ragionevolmente lasciano perdere e fanno passare anche<br />

Davide, il quale si scusa. Nel dirigersi al posteggio per riprendere l’auto si tracan-<br />

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nano le birre.<br />

Riccardo nota una ragazza che guarda una vetrina di abiti da sposa, fa segno agli<br />

altri che restano indietro, le si avvicina spavaldo e inizia a parlarle, lei fa un gesto<br />

di disapprovazione e se ne va stizzita. Lui, già incazzato per la partita andata male,<br />

non sopporta l’insuccesso davanti agli amici. Alza la voce, le dà della figa di legno.<br />

Alessandro e Cesare sorridono.<br />

Riccardo grida attirando l’attenzione della gente che passa dall’ampio corridoio.<br />

Chi cazzo vuoi che ti sposi!<br />

Tutti provano imbarazzo. Torna dagli amici e continua a insultare la ragazza. Raggiungono<br />

le scale che portano al parcheggio sotterraneo.<br />

Arrivano all’auto, davanti a tutti c’è Riccardo, vede i ragazzi romeni che hanno appena<br />

incontrato alla cassa del supermarket, sono vicino alla Punto rossa, stanno<br />

fumando e uno <strong>dei</strong> due è leggermente chinato, sta per aprire l’auto. Riccardo ferma<br />

tutti, Alessandro bisbiglia:<br />

Figli di puttana, ci stanno fregando la macchina.<br />

Riccardo si scaglia contro i due, immediatamente Alessandro e Cesare lo seguono,<br />

Davide si blocca, resta impietrito.<br />

Inizia un terribile pestaggio, Riccardo è una furia.<br />

I due ragazzi dell’est cadono a terra, prendono calci e perdono sangue in modo e<br />

in quantità esagerata. I colpi ricevuti creano schizzi di sangue che colorano i vestiti<br />

e i volti di tutti e tre gli aggressori in modo costruito.<br />

Davide sbalordito si avvicina e tenta un misero gesto per fermarli. Anche lui viene<br />

raggiunto da uno schizzo di sangue che gli colora il volto e la maglietta bianca.<br />

Con vista dall’alto le figure degli aggrediti e il pavimento creano una composizione<br />

di corpi e di colore rosso bella ed equilibrata, evidentemente preparata e quindi<br />

innaturale.<br />

Alessandro alza lo sguardo e si accorge che vicino c’è un’altra Punto rossa identica.<br />

Riconosce dalla targa che è la loro auto. Grida.<br />

Cazzo, oh, fermi, guardate.<br />

Indica agli altri.<br />

Cesare.<br />

Oh cazzo, non è la tua, Davide… Quella… Non ce la stavano rubando.<br />

Corrono verso la Punto di Davide, ma lui è scioccato, resta immobile a guardare i<br />

corpi <strong>dei</strong> due malcapitati, Riccardo torna indietro, lo afferra e lo spinge verso la<br />

loro auto, riescono a partire.<br />

Le telecamere della videosorveglianza hanno ripreso tutto.<br />

136


137


Matteo è uno psicologo milanese abituato a relazionarsi al mondo solo<br />

tra le pareti sicure del suo studio.<br />

All'inizio di gennaio si trova costretto a prendere un aereo per L’Avana a<br />

causa del silenzio prolungato di suo fratello Diego. Sull'isola cubana scopre<br />

che il fratello è morto in circostanze misteriose.<br />

Matteo si sente rimosso dalla sua dimensione intimista ed è completamente<br />

incapace di gestire il suo dolore. Eppure sarà la sua abitudine a<br />

osservare, ad analizzare il suo io, che risolverà l'enigma intorno alla morte<br />

del fratello.<br />

Ripercorrendo poi a ritroso la vita di Diego, il protagonista si ritrova tra le<br />

mani la trama sfilacciata di altre vicende del proprio passato, di segreti di<br />

famiglia che chiedono di essere esplorati. I fili riannodati lo portano a tornare<br />

prima a Milano per poi continuare per le strade del Sud America, da<br />

Cusco, dove vive ancora lo spettro dell'antica cultura Inca, fino a Buenos<br />

Aires, capitale di fumose milonghe.<br />

Camminando tra le frontiere dell'animo umano Michele Crescenzo esplora<br />

il delicato confronto tra l'io e gli altri, tra l'istinto di conservazione e la necessità<br />

del cambiamento, chiedendoci se in fondo il viaggio non è semplicemente<br />

un percorso di avvicinamento a se stessi.<br />

Michele Crescenzo è nato nel 1977 a Napoli nel quartiere di Fabio Cannavaro.<br />

Vive e lavora a Milano come impiegato in una multinazionale<br />

americana. Inspiegabilmente non farebbe mai a cambio con il concittadino.<br />

Lavora per vivere e scrive per vivere meglio. Spesso in ufficio legge<br />

le sue bozze di nascosto chiuso in bagno. Alcuni colleghi sono convinti<br />

che abbia una rara disfunzione ai reni.<br />

È laureato in sociologia, che gli ha donato occhiali nuovi per guarire la<br />

sua miopia culturale.<br />

Ama viaggiare, ha girovagato per tutta l'Europa e l'America Latina.<br />

Nel 2009 con immensa sorpresa ha vinto il Premio Chatwin. Quest'anno<br />

un suo racconto è stato inserito nella raccolta antologica In viaggio della<br />

collana Les Cahiers du Troskij Café della casa editrice Montegrappa.<br />

138


Camminando sull’isola coccodrillo,<br />

Michele Crescenzo.<br />

É appena finito il film, non mi è piaciuto. Anzi, ora che ci penso non mi piacciono<br />

quasi mai i film che trasmettono in aereo, scelgono sempre quelli con trame banali<br />

e personaggi prevedibili. Le persone non sono così, nella vita reale si mente senza<br />

rendersene conto, si sbaglia, si è convinti di fare una cosa e si fa tutt'altro, e questo,<br />

devo ammetterlo, è molto più divertente.<br />

Mi affaccio al finestrino, siamo ancora sull’Atlantico. Paulo dorme. Accanto a me<br />

un nostalgico sessantottino ha la testa inghiottita nella biografia di Fidel Castro,<br />

ogni tanto ne legge <strong>dei</strong> passi alla moglie che gli sta accanto. Nel 1947 il leader<br />

massimo fu uno <strong>dei</strong> pochi sopravvissuti di una barca di rivoluzionari naufragata<br />

vicino a Santo Domingo.<br />

«Un segno del destino!» esclama lui.<br />

Sarà, a me sembra solo fortuna, solo uno di quei piccoli particolari della vita che,<br />

senza renderti conto, te la cambiano, te la spostano. Li cerco sempre nei miei pazienti.<br />

Iniziamo la fase d'atterraggio, mi affaccio e dall’aereo L’Avana mi appare sfocata,<br />

luci lontane velate. L'illuminazione della città è talmente sottile che non la si distingue<br />

dal mare. Accanto a me Paulo si sveglia.<br />

All’aeroporto un’umidità soffocante mi entra in gola, rumore di gente e di accenti<br />

diversi. Mentre aspettiamo il bagaglio, Paulo, cercando di non farsi notare, guarda<br />

una donna in divisa che gli ricambia lo sguardo con un sorriso malizioso. Non c'è<br />

dubbio, già si conoscono. Senza rendermene conto la fisso; lei mi guarda indispettita<br />

e va via. In realtà non guardavo lei ma la sua divisa: ma è normale avere<br />

gonne così corte?<br />

Appena usciti veniamo presi d’assalto da tassisti. Ne trovo uno che parla italiano.<br />

Chiede, come se fosse la cosa più semplice del mondo, se vogliamo andare a<br />

donne. Paulo mi guarda, sorride cercando un atteggiamento complice, ma stronco<br />

il suo entusiasmo indicando subito il nome dell'hotel che avevo prenotato dall'Italia.<br />

Non so perché l’ho fatto, certo non per lei.<br />

Arriviamo all’albergo, le nostre valigie sono leggere; gesto dovuto al caldo o forse<br />

speranza di ritrovarlo presto?<br />

Sarà per il fuso orario, sarà per l'aria strana di questo albergo, ma non riesco proprio<br />

a dormire. Accendo il telefonino, c’è un sms di Giulia, non lo leggo, guardo<br />

fuori: uomini e donne si muovono in modo sgraziato tra le mille ombre di questa<br />

città.<br />

Butto giù un sonnifero, dormo.<br />

Mi risveglio infreddolito dall’aria condizionata. Paulo mi ha lasciato un messaggio:<br />

vado a fare due chiacchiere. ci vediamo stasera, tu butta un occhio in giro.<br />

Rimango colpito dal modo insolito di scrivere le vocali, come se fossero più larghe<br />

rispetto alle consonanti.<br />

Esco dall’albergo e sono sommerso da sole e afa cubana. Ma se a gennaio fa<br />

139


questo caldo, cosa ci sarà ad agosto? Giro senza una meta, vengo avvicinato più<br />

di una volta da ragazzi cubani: provano a indovinare la mia nazionalità, mi chiedono<br />

se voglio <strong>dei</strong> sigari o rum. In un angolo di strada c'è l'uomo fotografato nella<br />

copertina della Lonely Planet che, con la guida a fianco, chiede l’elemosina.<br />

Dietro ogni angolo cerco Diego, mio fratello. Mi aspetto che sbuchi all’improvviso,<br />

mi guardi sbalordito e si metta a ridere, mentre giustifica il suo lungo silenzio con<br />

una delle possibili scuse che ho ipotizzato a Milano.<br />

L’Avana mi appare decadente ma anche energica, è una fila di palazzi sbriciolati<br />

ma ancora colorati, è musica che esce dalle case, bambini in strada e auto americane<br />

anni Cinquanta che sfrecciano colmi di passeggeri.<br />

Non sono abituato a camminare così tanto, così cerco riposo entrando in un bar.<br />

Davanti a una tazza di caffè riguardo l’Avana che cammina davanti; i movimenti<br />

spiati la notte scorsa mi appaiono più chiari ora, carnagioni di ogni colore si muovono<br />

davanti ai miei occhi, nessuno ha davvero qualcosa da fare, nessuno riesce<br />

davvero a star fermo. La mia attenzione è rapita da quattro anziani che giocano<br />

animatamente a domino. Uno di loro si rende conto che lo fisso e mi invita ad avvicinarmi.<br />

Capisco che mi sta chiedendo se voglio giocare con loro, io con uno<br />

spagnolo improvvisato gli dico che non conosco le regole, lui inizia a elencarmele<br />

ma non le capisco. L’unica cosa che afferro è che si gioca in senso antiorario.<br />

Glielo ripeto, lo saluto e lui nella sua lingua dice: «Sai perché si gioca in senso<br />

antiorario? Per ricordarci che le cose vanno sempre da un'altra parte rispetto a<br />

quello che ci aspettiamo.»<br />

Con questa frase mi lascia andare. Non è una grande perla di saggezza ma inizio<br />

a pensare a Diego con un approccio diverso: se fosse scappato? No, improbabile.<br />

Se non mi avesse chiamato per Natale perché stava male? No, qualcuno della<br />

società dove lavora avrebbe recuperato i documenti e contattato l’ambasciata italiana.<br />

Se l’avessero rapito avrebbero potuto chiamare solo me per il riscatto. Ormai<br />

siamo rimasti solo io e lui in famiglia. Perso tra questi magri pensieri mi ritrovo<br />

nella stanza d’albergo.<br />

Torna Paulo, mi dice che ha poche novità. Andiamo a mangiare in un ristorante<br />

per turisti, accanto a me c’è un tavolo formato da ragazze mulatte bellissime e da<br />

tedeschi di mezza età che ridono in modo goffo, uno di loro ha la fede al dito. Mi<br />

fanno pena, lo dico a Paulo che mi risponde: «Matteo, non lo capisci perché tu<br />

non sei mai stato con una ventenne cubana.»<br />

Lui ordina aragosta. Non posso mangiare l’aragosta, l’immagine di un animale vivo<br />

che muore lanciato in acqua bollente mi fa impressione. Fa una battuta ma io non<br />

rido, la mia mente è sommersa di immagini di aragoste buttate in pentola un attimo<br />

prima di chiudere il coperchio.<br />

Dopo un po’ mi comunica che non c’è stata nessuna sparizione di turisti ma solo<br />

un omicidio di una straniera nell’ultimo mese. Non si conosce la nazionalità, l'unica<br />

cosa che si sa è che ha un tatuaggio sul braccio sinistro.<br />

«Sul braccio sinistro... ti ricordi cosa c’è scritto?»<br />

«Sì, ma non so cosa vuol dire. Qualcosa tipo Naelies, nefeli.»<br />

«Naedys?»<br />

«Sì, sembra di sì... ma come fai a saperlo?»<br />

140


Una fiamma mi lacera il corpo, mi agito, mi sento come un’aragosta appena buttata<br />

in una pentola d’acqua bollente, mi alzo ed esco.<br />

«Cosa succede, non stai bene?»<br />

«Mio fratello ha lo stesso tatuaggio sul braccio sinistro.»<br />

Rimango bloccato. A Cuba gli uffici chiudono presto ma per certe cose non servono<br />

orari. Paulo fa un paio di chiamate, paghiamo il conto e prendiamo un taxi. Guardo<br />

il fondo giallastro dell'auto mentre Paulo spiega al taxista dove andare. Non riesco<br />

a immaginare in cosa devo avere paura, in cosa posso sperare: mio fratello sparisce<br />

e muore una donna con lo stesso tatuaggio sul braccio? Casualità o c’è un<br />

collegamento?<br />

Sono io l’aragosta qui, un’aragosta che si muove dentro acqua bollente e spera<br />

che qualcuno apra quel coperchio e la tiri fuori.<br />

Paulo mi dice di aspettare nel taxi; sì, questo lo posso fare, mi fermo e conto i respiri:<br />

uno, due e tre, Matteo stai tranquillo, lentamente arrivo a dieci e poi ricomincio.<br />

Uno, due, tre. Vedrai che non è nulla.<br />

Torna dopo un tempo incalcolabile, mi fa vedere una foto. Io svengo, tutto è buio.<br />

L’aragosta è morta sbattendo contro una foto di mio fratello Diego vestito da<br />

donna, è morta per soddisfare il palato di questa città calda di nome L’Avana.<br />

Mi rigiro, tiro su con il naso, l’aria condizionata è al massimo. Guardo l’orologio e<br />

scopro che sono le due di pomeriggio. Ma come sono tornato qui?<br />

Trovo un biglietto sul comodino: vedo di capirci qualcosa, ci vediamo alle otto in<br />

hotel.<br />

Le immagini di ieri mi appaiono confuse, accendo il mio registratore, lo consiglio<br />

sempre ai miei pazienti, e inizio a registrare: prima mia madre, poi mio padre e<br />

ora Diego, possibile? Mio fratello ucciso a L’Avana, mio fratello vestito da donna,<br />

perché? Per nasconderlo? Mio fratello ammazzato senza nessuno, mio fratello<br />

senza un funerale.<br />

Non riesco a star qui, esco dall'albergo, cammino senza meta. Inizio a correre<br />

verso il mare, sono una lepre, una lepre che corre lontano, verso la ferrovia, ancora<br />

oltre, verso una lunga strada in salita, non vedo la gente, i colori, le auto, i clacson,<br />

corro fin quando non mi stanco, non mi abbatto. La lepre è stata raggiunta non so<br />

da chi, viene morsa, fa male. Piango, picchio i pugni a terra.<br />

La mia mente è opaca, sfumata. Continuo a camminare, come se il dolore possa<br />

essere placato dalla stanchezza fisica. Guardo per terra, a un tratto la strada<br />

smette di essere asfaltata, alzo lo sguardo e vedo da lontano la statua di un Cristo<br />

come quella che c’è in Brasile; ma questo non è uno stato comunista e ateo?<br />

Osservo questa grande statua bianca e penso a Diego, dove sarà adesso? Mi<br />

starà osservando? Sono sempre stato critico sulle religioni, quanto vorrei crederci.<br />

Ripenso a quello che dico ai miei pazienti, poi a Elisabeth Ross, alle cinque fasi<br />

dell’elaborazione del lutto, sembrano concetti così astratti ora.<br />

Ritorno meccanicamente all’albergo all’ora contrattata senza notare nessuno. Assenza<br />

di pensieri, assenza di energie. Paulo è lì che mi aspetta. Mi fa cenno di<br />

sedermi, senza nemmeno incrociare il mio sguardo inizia a parlare:<br />

«Tuo fratello è stato ammazzato, non ci sono dubbi. Non è stata contattata l’ambasciata<br />

perché nessuno ha trovato i documenti. Era registrato con il nome di una<br />

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donna, per giunta finto. Quando i medici dell’autopsia hanno capito che era un<br />

uomo hanno tenuto la situazione ancora più nascosta. Tutti gli intervistati lo conoscevano<br />

come una donna: parlava, rideva e scherzava come una donna.»<br />

«È troppo.»<br />

«Cosa?»<br />

«È troppo, dammi qualcosa da bere.»<br />

«Be’, ho comprato del rum per corrompere un funzionario ma non è servito. Tieni…<br />

ma sei sicuro? Non mi sembra la cosa giusta da fare…»<br />

«Sono stanco di fare la cosa giusta.»<br />

Mi sveglio nella mia camera con la nausea e il mal di testa. Rimango sotto le coperte<br />

a soffrire il freddo su un’isola tropicale. Quanto sono stupido, prevedibile.<br />

Sono come tutti i miei pazienti quando soffrono, non sono migliore né diverso, anzi<br />

sono peggiore perché so che dovrei essere lucido e concentrarmi su quello che<br />

devo fare. Invece voglio solo starmene qui, spegnere il condizionatore e non alzarmi,<br />

voglio svegliarmi a Milano, nel mio appartamento, e voglio che a soffrire<br />

sono siano solo i miei pazienti.<br />

Mi rigiro. Cerco una foto di Diego nel portafoglio, non ne ho. Sono egoista e solo.<br />

Perché si comportava da donna? Era per nascondersi? Mio fratello era omosessuale?<br />

Era un travestito? Ma come ho fatto a non rendermi conto di nulla? Come<br />

ho fatto proprio io a non rendermi conto di tutto questo? Forse si nascondeva?<br />

Ma cosa importa?<br />

Con fatica mi alzo dal letto, spengo la rumorosa aria condizionata. Leggo il solito<br />

bigliettino dalle lunghe vocali di Paulo: a questo punto non so che fare… ne parliamo<br />

a pranzo?<br />

Mi muovo per la stanza e mi sale la voglia di piangere ma riesco a fermarmi. Ai<br />

miei pazienti consiglio sempre di ritagliare un momento della giornata, un’ora dedicata<br />

al dolore, possibilmente la sera, quando fa buio e puoi dormire sommerso<br />

dalle tue lacrime. Accendo il telefonino, un paio di messaggi di colleghi e un altro<br />

di Giulia, lo guardo ma è solo un avviso di chiamata.<br />

Prendo un pezzo di carta e provo a mettere giù le cose da fare. Non ci riesco.<br />

Prendo il mio registratore ma non mi viene nulla da dire.<br />

Paulo arriva puntuale al ristorante e mentre aspettiamo le ordinazioni illustra quello<br />

che ha scoperto: quello di mio fratello fa parte di uno <strong>dei</strong> tanti processi-lampo per<br />

omicidio che viene fatto a L’Avana. Il corpo è stato trovato mentre un uomo fuggiva.<br />

La polizia non ha dubbi, è stato un omicidio passionale: l’uomo ha sedotto Diego,<br />

ma quando ha scoperto che non era una donna l’ha inseguito e l’ha ammazzato<br />

sotto gli occhi di una passante. Quando è arrivata la polizia ha provato a fuggire.<br />

Lui parla e io non riesco a seguirlo bene, mi dice di andare all'ambasciata, che<br />

forse il corpo si trova già in un cimitero. Io penso solo a Diego, ai regali ai suoi ritorni<br />

dai viaggi, al suo silenzio, a come io cercavo di capire il suo umore dalla musica<br />

che usciva dalla sua stanza, passavo ore a interpretarlo attraverso i Nirvana<br />

o i The Cure.<br />

Mi guarda dritto negli occhi e mi chiede:<br />

«Concentrati su questo… che facciamo? Io ho del lavoro da fare in Messico. Che<br />

142


ne dici di sistemare le pratiche con l’ambasciata e tornare in Italia?»<br />

Cosa rispondo? Lascio tutto? Posso davvero tornare a Milano, al convegno che<br />

ho tra qualche giorno?<br />

Paulo, stanco del mio silenzio, dice:<br />

«Ascoltami, lascia tutta questa faccenda alle spalle e torna alla tua vita.»<br />

«Non lo so, ho bisogno di tempo.»<br />

Rimaniamo a mangiare in silenzio. Mi sforzo di pensare ad altro. Lo guardo, noto<br />

la sua postura perfetta, le sue mani grosse, il suo volto lungo e cupo. Da un punto<br />

di vista puramente razionale sono stato fortunato a incontrarlo, così glielo dico.<br />

«Ma che dici? Volevo tornare a L’Avana, vai a pensare che avrei trovato lavoro in<br />

fila per i visti cubani…»<br />

«È sempre così il tuo lavoro?»<br />

«Di solito ricercare persone scomparse richiede molta più fatica, possono dire<br />

quello che vogliono di Cuba, ma il resto dell’America Latina è molto più incasinato<br />

di qui!»<br />

Non voglio pensare a Diego così cerco di concentrarmi su di lui, gli chiedo della<br />

sua vita. Mi racconta del suo passato in Argentina, della sua passione per il tango,<br />

gli chiedo perché abbia smesso. Cerco di psicanalizzarlo ma qui non siamo nel<br />

mio studio, così esagero diventando invadente e ritorna il silenzio. Volta lo sguardo<br />

e pensa a qualcosa che probabilmente io non saprò mai. È strano, sono tre giorni<br />

che parlo con lui ma solo quando ha parlato del tango mi è parso davvero puro.<br />

Finiamo di mangiare, mi dice di aspettarlo alle venti in un altro ristorante e mi ribadisce<br />

di passare per l’ambasciata e poi per il cimitero.<br />

Non eseguo gli ordini, non capisco nemmeno se davvero Paulo mi abbia parlato,<br />

tutto sembra molto distante. Il tempo è infinito, nella stanza solo buio, rumori lontani<br />

e “Something In The Way” nella testa. Dormo, mi sveglio, ho mal di stomaco<br />

ma non voglio mangiare, torno nel letto. Tutto è ovattato. Tutto quello che mi rimane<br />

sono i Nirvana nella testa.<br />

Paulo bussa alla porta, io non apro. Mi lascia qualcosa fuori dalla stanza. È una<br />

specie di pizza.<br />

La mattina dopo ribussa alla mia porta con forza, sento che non posso evitarlo.<br />

Mi parla con meno freddezza e mi consiglia di nuovo di andare all’ambasciata e<br />

al cimitero. Mi convince.<br />

Cammino come un automa, non sembro nemmeno un turista. Con una certa difficoltà<br />

arrivo all’ambasciata e poi al cimitero, guardo una bara senza nome né<br />

croci. Addio fratellone, non so perché hai scelto questo posto, non so perché non<br />

mi hai mai detto nulla di questi tuoi desideri nascosti. Mi dispiace, eravamo distanti<br />

ma eri la mia famiglia, lo so, sarei potuto essere un fratello migliore.<br />

Decido che questo è il mio momento del dolore e lo lascio sfogare. La gente passa<br />

e mi vede piangere. Ho sempre percepito la morte come qualcosa di freddo, di<br />

lontano. Questo calore mi spiazza, questo sole tropicale rende tutto ancora più irreale.<br />

Ho voglia di bere, di farmi male, ho voglia di picchiare o forse anche di essere picchiato,<br />

questa città inizia a farmi paura.<br />

Mi fermo in una piazza piena di bancarelle, raccolte casuali di libri del Che, di Fidel<br />

143


Castro, qualcosa di Camilo Cienfuegos e mille foto di Ernest Hemingway. Tra tutte<br />

queste cianfrusaglie vedo un coltello grande come un portachiavi, lo prendo. Girare<br />

con un coltellino in tasca mi fa sembrare tutto ancora più pericoloso, mi siedo e<br />

mi rilasso un attimo. La gente mi guarda, non so perché ma ora tutti capiscono<br />

che sono straniero. Si avvicinano e mi chiedono se voglio sigari, se voglio puta. Io<br />

tocco il mio coltellino in tasca e rispondo che non voglio niente. Voglio solo andarmene<br />

a casa, nel mio sicuro appartamento in Italia, nel centro dai miei pazienti.<br />

Sono nella via principale, ritrovo il pub di ieri. Ordino un moijto, poi un altro. Questo<br />

bar non è grande, ma i turisti ci passano spesso e non è difficile trovare degli stranieri<br />

più loquaci di me. Io quindi posso sparire, annullarmi, rallentare il respiro e<br />

aprire bene gli occhi. Sono un palo sull’autostrada che spia e scatta fotografie per<br />

multe cittadine. Non respiro quasi.<br />

L’Avana si trasforma in una gatta dal pelo nero e curato che si muove con sensualità<br />

tra i balconi ornati del centro storico, fa le fusa ai turisti occasionali che si<br />

fotocopiano nelle foto lungo le sue strade o che hanno lo sguardo perso tra barche<br />

lontane e odore di salsedine.<br />

Davanti a questo io sono un topo che cerca di sfuggirle, di nascondersi.<br />

Provo a non pensare a Diego ma la mia testa è un’altalena di immagini del passato<br />

e del presente. Nella mente mi ritornano frasi che ormai hanno perso anche forza:<br />

perché non mi ha detto nulla? Perché non ho lasciato che si aprisse a me?<br />

All’improvviso sento che qualcuno mi sta fissando, mi giro velocemente: sono<br />

occhi neri e profondi quelli che mi osservano, che non si abbassano quando incrociano<br />

i miei, incuriositi e un po’ impauriti. Osservo la sua pelle mulatta, il suo fisico<br />

gracile e alto, vedo le sue mani mentre suona il contrabbasso, un’infinità di<br />

treccine che le cadono oltre la spalla.<br />

Io ho smesso di osservare, questa volta sono osservato, continua a scrutarmi incuriosita<br />

come se vedesse oltre me. Finiscono di suonare e lei si avvicina. Inizia<br />

a parlarmi in uno spagnolo velocissimo, io mi sposto, urtando il tavolino faccio traballare<br />

il mojito. Qualcuno si gira ma nessuno si interessa a noi. Le dico che non<br />

parlo la sua lingua, lei cerca di parlarmi più piano, io la allontano e le dico che non<br />

vado con le puta. I suoi occhi diventano di fuoco nero, io non riesco a gestirli, mi<br />

alzo di scatto, il mojito le cade addosso e io scappo.<br />

Questo spavento mi ha svegliato. Guardo l’orologio e sono quasi le venti, così<br />

vado all’appuntamento con Paulo. Mentre cammino ripenso a quegli occhi, a<br />

quella pelle mulatta. Cos’ho provato? Prendo il registratore: questa città vuole<br />

qualcosa da me, io ho paura, ho una strana sensazione, voglio tornare a casa!<br />

Paulo fa commenti stupidi sulla mia faccia pallida e sul mio maldestro equilibrio.<br />

Con la sua assoluta freddezza mi presenta la situazione: mio fratello è arrivato a<br />

L’Avana avendo con sé tutti i suoi soldi, ha buttato i suoi documenti e ha deciso di<br />

essere quello che aveva sempre desiderato, un travestito. Così ha iniziato relazioni<br />

fugaci con turisti e qualche cubano. Insomma, batteva. Fin quando sulla sua strada<br />

è arrivato il suo assassino, un cubano troppo ubriaco per rendersi conto che fosse<br />

un uomo. Non credeva di poterlo ammazzare. Il processo è stato veloce.<br />

«Ha preso trent’anni di carcere e stai sicuro che qui non è come in Italia.»<br />

Ho la nausea, vado in bagno, va un po’ meglio, ma non voglio continuare a bere<br />

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né a fare altro. Ancora un po’ e mi lascio andare, ma cos’è questa sensazione?<br />

Fastidio? Quasi sollevato che nessuno in Italia saprà che mio fratello era… frocio?<br />

Mentre mi vergogno di questi pensieri ritorno verso il tavolo. Paulo ha abbordato<br />

due ragazze, li vedo che parlano spagnolo, ridono tantissimo di cose che non capisco.<br />

Sembra tutto un circo. Da una parte ci sono due pantere che girano intorno<br />

al domatore, lui cerca di far fare un percorso che le porti dritte al suo letto, ma<br />

guardando con attenzione mi sa che non hanno bisogno di indicazioni, sanno bene<br />

cosa fare.<br />

Io? Io sono il clown, ma di quelli tristi, di quelli che cercano di far ridere e non ci<br />

riescono.<br />

Comunque lo spettacolo è iniziato e io non so che fare, mio fratello era un travestito<br />

ed è stato ammazzato, di fronte a me c’è una cubana e io non capisco nulla di<br />

quello che dice, rido cercando di non disperarmi, lasciandomi guidare da questa<br />

danza dell’accoppiamento così lontana dalla mia quotidianità.<br />

Paulo dice a entrambe qualcosa, poi lui sparisce con una delle due mentre io salgo<br />

con l’altra in camera mia, è talmente bella che non riesco a toccarla. Non ci riesco<br />

per pudore o per Giulia? All’improvviso la ragazza cubana piange, mi fa vedere la<br />

foto della mamma malata, mi spiega che è la prima volta che fa “queste cose”.<br />

Parla molto ma io riesco a comprenderla, capisco quasi tutto anche se le parole<br />

sono sommerse dal pianto e richieste di soldi. Le do <strong>dei</strong> soldi e lei va via. Ha inventato<br />

tutto però lo ammetto, mi sono piaciuti i dettagli.<br />

Rimango sul letto a guardare il bianco opaco del soffitto che non smette di fermarsi.<br />

Prendo un altro sonnifero.<br />

Mi risveglio stanco sul letto dell'albergo. Ho fatto un sogno strano: camminavo e<br />

inciampavo, mi rialzavo e inciampavo. Mi piacciono i sogni, li faccio sempre raccontare<br />

dai miei pazienti. Delle volte sono così pieni di particolari che sembrano<br />

frammenti di vite passate oppure della vita presente, se si fossero fatte scelte diverse.<br />

Se non ci fosse stato quel particolare che stravolge la vita. Qual è stato il<br />

mio? La scomparsa di mia madre quando ero piccolo? La morte di mio padre cinque<br />

anni fa? Diego e il suo segreto? Be’, mi sa che questi sono molto più che particolari.<br />

Sento bussare alla porta, è Paulo: «Cosa ne dici se andiamo via da questa cazzo<br />

di isola? Tu non avevi il convegno a Milano?»<br />

Istintivamente gli rispondo di sì, basta afa, basta mal di testa, basta questa lingua.<br />

Mi sorride e mi fa vedere i biglietti, li aveva già comprati. Ci si organizza per la<br />

giornata. Esco dall'albergo e vedo in reception la ragazza mulatta di ieri, quella<br />

che ha cercato di parlare con me al locale. La ignoro, mi dirigo verso l’ambasciata<br />

italiana. Cerco di tenere la testa impegnata, faccio file interminabili, recupero documenti.<br />

Mi ripeto che andare via è la scelta migliore, prendere un aereo, far seppellire<br />

mio fratello in Italia. Elisabeth Ross con la sua teoria del lutto dice solo<br />

cazzate; ora non devo pensare al dolore, devo concentrarmi sulle cose da fare.<br />

C'è il tramonto e L’Avana sembra una tigre accovacciata sull'oceano, il giallo e<br />

nero del suo mantello appaiono alternarsi nello stesso modo tra il colore oro <strong>dei</strong><br />

palazzi logorati dal sole e le sue ombre. Camminando senza meta incontro un<br />

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gruppo di bambini con la divisa scolastica che corrono dietro la maestra; sorrido,<br />

ai miei pazienti suggerisco spesso di immaginarsi bambini e di dirmi come si vedono.<br />

Io non sono quel bambino che chiede qualcosa da mangiare, non chiedo soldi. Io<br />

non sono quel bambino che alcuni turisti cercano per regalargli saponi e matite<br />

per ripulirsi la coscienza. Io sono quel bambino che avrebbe solo bisogno di un<br />

abbraccio, di quelli che non ti fanno respirare bene, di quelli in cui puoi piangere.<br />

Decido di tornare all’albergo e passo davanti al bar di ieri, il mio sguardo incrocia<br />

quello della ragazza con le treccine, sta suonando il suo contrabbasso. Mi riconosce<br />

e smette di suonare. I colleghi la guardano, lei chiede scusa, prende il microfono<br />

e mi urla:<br />

«Yo soy Naedys!»<br />

Sono paralizzato. Naedys è un nome? Naedys è lei? Sento uno strano fuoco dentro<br />

di me, forse è gioia, sicuramente è gioia, ma perché?<br />

Le sorrido quasi tramortito, lei mi fa un gesto come per dire “rimani qui”. Finisce di<br />

suonare e si avvicina a me, inizia a parlare piano in spagnolo io capisco poco, mi<br />

guarda e mi dice: «Diego?»<br />

«Diego è mio fratello.»<br />

Mi abbraccia forte, un abbraccio lungo più di un minuto, di quelli che non ti fanno<br />

respirare bene, di quelli in cui puoi piangere, ma a piangere è lei.<br />

Mi dice che vuole parlarmi, ma devo aspettare che finisca di suonare. Così rimango<br />

in un angolo, tra il timore e la curiosità, ascoltando questa musica commerciale<br />

e allegra cantata da una donna dagli occhi scuri e tristi che si<br />

inumidiscono quando incrociano il mio sguardo.<br />

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Alla sua opera prima, l’autore ci vuole portare con sé in un paese lontano.<br />

Un volo interminabile su un cargo militare deposita Giorgio Mazzoni nel<br />

paese <strong>dei</strong> mille splendidi soli con il misero bagaglio di informazioni che un<br />

occidentale ha a disposizione quando si parla di questa parte del mondo: la<br />

televisione, il web, i saggi storici, Khaled Hosseini e Gino Strada. Il protagonista<br />

è un giovane avvocato stanco della professione considerata arida e<br />

poco stimolante che decide di dedicarsi alla causa umanitaria nei paesi meno<br />

sviluppati e più bisognosi del mondo. La partecipazione con Grazia alla festa<br />

del matrimonio di una giovane coppia della capitale è il pretesto per rivivere<br />

tutte le sue vicende di cooperazione in Afghanistan. Le nozze sono un evento<br />

speciale dove ospitalità e generosità degli sposi e delle loro famiglie si annodano<br />

alle tradizioni, alle curiosità composte da impressioni, racconti e sensazioni.<br />

Nell’atmosfera gioiosa di condivisione, la gente si lascia andare a<br />

pensieri e opinioni fuori dall’ordinario, fino a condividerli con un occidentale.<br />

Così Giorgio riesce a trasformare l’esperienza della miseria e della sofferenza<br />

nel suo alibi per la ricerca della semplicità, del grottesco, del magico nel<br />

paese devastato dai conflitti. Tra avventure in luoghi sconosciuti, incontri con<br />

personaggi misteriosi e percorsi alla ricerca di qualcosa e qualcuno, si snoda<br />

l’opera di Moyersoen che, come un piatto di cucina locale, è ricco di sapori<br />

variopinti ed è condito con spezie profumate che ti fanno sentire sazio solo<br />

dopo averlo letto fino in fondo.<br />

Joseph Moyersoen é laureato in giurisprudenza all'Università Statale di Milano<br />

e si è specializzato in diritto minorile. Ha svolto la funzione di vice Procuratore<br />

onorario (Pubblico Ministero d'udienza) presso il Tribunale di Milano<br />

e svolge la funzione di giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di<br />

Milano dal 2002. Collabora come esperto esterno con la Direzione Generale<br />

della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.<br />

Ha pubblicato decine di articoli nelle riviste specialistiche: Minorigiustizia,<br />

The Chronicle e Cittadini in crescita e nelle collane Puer della Franco Angeli<br />

e Quaderni e Documenti del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi<br />

sull'Infanzia e l'Adolescenza.<br />

Recensisce per il sito internet specializzato: www.tribunaleminorimilano.it<br />

del Tribunale per i minorenni di Milano e per www.minori.it/rassegne-filmografiche<br />

del Centro Audiovisivo e Mediatico sulla Rappresentazione dell'Infanzia<br />

e dell'Adolescenza (CAMeRa) ha collaborato a lungometraggi che<br />

trattano tematiche legate al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza.<br />

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Sobh Bekheir Kabul, Joseph Moyersoen.<br />

Capitolo 1 – Un matrimonio inconsueto<br />

«Ma dai, vedrai che saremo tutti insieme, vieni anche tu. In fondo è una famiglia<br />

progressista.»<br />

«Non ti credo.»<br />

«Ma li conosco, figurati se saremo in due sale separate!»<br />

«Ma Grazia… sei sicura? Mi sembra così strano, anche se siamo nel 2010, qui<br />

sono tutti ancorati alle tradizioni e a usanze direi… secolari. Comunque, la cosa<br />

mi tenta muchissimo, dev’essere un’esperienza pazzesca. E come mi dovrei vestire?»<br />

«Mah, mettiti una giacca. Non è come da noi, qui ognuno si mette ciò che si sente,<br />

soprattutto gli uomini, questo lo so. D’altra parte il progetto che seguo è proprio<br />

nel campo dell’abbigliamento.»<br />

«Ma come li hai conosciuti?»<br />

«Be’, semplice. Ahmed, il fratello dello sposo Rashid, è il capo della sartoria che<br />

si è costituita con il mio progetto, per cui mi conoscono tutti.»<br />

Giorgio aveva capito che in quel contesto la parola “Grazia” lo avrebbe salvato nel<br />

caso in cui, come temeva, sarebbe stato solo in mezzo a tanti uomini sconosciuti.<br />

«Prima di andare a prepararci, vista l’ora, spiegami come faccio a imbucarmi a un<br />

matrimonio. Confesso che non lo avevo mai fatto, ma questa volta sono disposto<br />

a rischiare. Mi piacerebbe tanto vedere le donne tutte agghindate a festa, immagino<br />

già i corpi avvolti in tessuti pregiati e colorati senza burka, i capelli nelle più<br />

assurde acconciature senza chador, i gioielli sfoggiati per l’occasione, sìssìsì, già<br />

mi immagino questo e altro!»<br />

«Eeeeh adesso, non correre. Però penso che un po’ tu abbia ragione. Poi Ahmed<br />

mi ha detto che la moglie di Rashid e le sue sorelle sono davvero bellissime<br />

donne.»<br />

«Ma pensi che oltre alla cena ci siano anche musica e danze?»<br />

«Ma certo, cosa credi, qui quando si sposano si indebitano fino ai capelli per organizzare<br />

una festa davvero speciale, quindi ci saranno musicisti e poi anche<br />

danze all night long. Vedrai che ci scappa anche un ballo scatenato.»<br />

«E come ballano qui? Mica si balla il rock francese…»<br />

«Vedrai vedrai, non ti dico niente, ti ho già detto troppo.»<br />

«Già, ma noi a una certa ora dobbiamo rientrare come cenerentole, altrimenti poi<br />

domani li senti quelli della sicurezza, oltre a trasformarci in zucche ci scappa anche<br />

una bella strigliata. Comunque chi se ne frega, è talmente un’occasione unica, poi<br />

non andiamo mica in uno di quei posti vietati perché frequentati dagli occidentali,<br />

dove il rischio attentanti è sempre alto. In fondo il divieto di uscire la sera è proprio<br />

legato a questo, se si va nei ristoranti frequentati dagli stranieri. Lì sì che si rischia<br />

il botto.»<br />

«Infatti tranquillo, non ti preoccupare, e comunque non facciamo tardi, perché poi<br />

domani ho una giornata di quelle campali.»<br />

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«A chi lo dici, sai chi dovrò incontrare?»<br />

«No, come sai qui è già tanto se uno riesce a seguire i propri di impegni, correndo<br />

dietro al tempo da mattina a sera. D’altra parte non c’è altro, non si può che lavorare<br />

non potendo uscire dal compound se non in casi eccezionali.»<br />

«Vedrò l’avvocato che si occupa <strong>dei</strong> minori in carcere. Quello che conosci anche<br />

tu, come cavolo si chiama…»<br />

«Fazul Zarbach? Ma guarda, allora quando lo vedi salutamelo. Sai che per me fa<br />

un ottimo lavoro?»<br />

«Tu dici? Non ho ancora capito bene come lavora. Devo chiedergli alcune cose<br />

perché non mi tornano i conti sul numero <strong>dei</strong> minori che dice di aver difeso con la<br />

sua ONG. Comunque certo che lo faccio. E poi, dato che lo vedo qui nel compound,<br />

se ci sei passiamo a salutarti.»<br />

«Bene, dai che facciamo tardi, vado a prepararmi. Allora ci vediamo qui tra mezz’ora?»<br />

«Perfetto, a tra poco.»<br />

Giorgio era eccitato come un bambino che sta per aprire i pacchi di Natale, anche<br />

se temeva molto che Grazia avesse preso un granchio con il film del matrimonio<br />

che si era montata in testa.<br />

«Dai, dai, che dobbiamo andare.»<br />

«Eccomi Grazia, scusa ma stavo chattando via skype con un amico e gli stavo<br />

raccontando dell’esperienza che sto per vivere. L’autista è pronto?»<br />

«Sì, stasera c’è di turno Mohammed e ci sta aspettando all’uscita del compound.»<br />

Anche lei era molto eccitata e per l’occasione aveva indossato un bell’abito attillato<br />

a fiori con varie tonalità di blu, che faceva risaltare ancora di più il suo corpo snello,<br />

sinuoso e sicuro, e i suoi occhi azzurri. Con un tocco di trucco sul volto, che usava<br />

raramente, e i capelli lisci e neri lasciati cadere con naturalezza sulla schiena, era<br />

pronta ad affrontare questa esperienza anche per lei nuova, nonostante lavorasse<br />

lì da oramai tre anni.<br />

In auto l’aria fresca entrava dai finestrini, da cui si scorgeva un cielo stellato così<br />

vicino e brillante, senza l’ombra di una nube, accarezzando i volti e facendo ondeggiare<br />

leggermente i capelli di Grazia, contribuiva all’euforia che oramai pervadeva<br />

entrambi.<br />

Appena arrivati all’ingresso del palazzo moderno, di cui gli sposi avevano affittato<br />

tutto il secondo piano per l’occasione, furono subito accompagnati a due ingressi<br />

diversi. Grazia entrò da quello dedicato alle donne che entravano con tanto di<br />

burka o chador, mentre Giorgio da quello dedicato agli uomini vestiti di tutto un<br />

po’. In quel momento si sentì perso, anche se aveva ben ipotizzato che sarebbe<br />

successo l’inevitabile. Salì da solo la scalinata tutta agghindata con fiori e tappeti<br />

per l’occasione pensando “ma che ci sto andando a fare io, se non conosco nessuno?”.<br />

Giunto al secondo piano si trovò di fronte una grande sala luccicante con<br />

circa cinquecento uomini afghani seduti in tavoli da sei, otto o dieci persone.<br />

Era l’unico straniero, un giovane molto alto che indossava un blazer blu. Appena<br />

comparve nella sala tutti si girarono a guardarlo. Un ragazzo venne ad accoglierlo<br />

e lo fece accomodare a un tavolo in cui c’era ancora un posto libero. Dopo qualche<br />

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saluto in farsi, calò il silenzio. Nessuno parlava altro che dari o farsi, e oltre ai saluti<br />

di circostanza Giorgio non spiaccicava una parola.<br />

Molti sorrisi, qualche gesto, poi finalmente un parente dello sposo venne in soccorso.<br />

Aveva capito che non era il posto giusto per quello strano e sconosciuto<br />

ospite, quindi lo fece accomodare a un altro tavolo in cui tutti parlavano inglese.<br />

Allora Giorgio usò la parola magica e disse: «I’m Grazia’s friend». In effetti, dalla<br />

reazione capì che tutti la conoscevano, e non appena si sparse la voce che anche<br />

lui era italiano, iniziò la processione di ragazzi che conoscevano qualche parola<br />

nella sua lingua e uno dopo l’altro passarono a salutarlo.<br />

«Come va.»<br />

«Bella Italia.»<br />

«Conosco italiani qui a Kabul.»<br />

Che strana sensazione provò, perché erano molti che avevano lavorato con militari<br />

o con civili italiani e risultava che si erano trovati molto meglio che con gli altri stranieri<br />

della coalizione internazionale.<br />

In poco tempo arrivarono i parenti dello sposo, le portate, il cameraman a filmare<br />

Giorgio, proprio mentre Grazia lo stava chiamando sul cellulare dall’altra parte<br />

della sala divisa da un separé con altre cinquecento donne con abiti, colori, gioielli<br />

e acconciature alla Bollywood.<br />

«Giorgio, mi spiace ma avevi ragione tu, se vuoi ce ne andiamo.»<br />

«No no, non ti preoccupare per me, va tutto bene, e in questo momento non posso<br />

stare al telefono perché sono circondato, poi ti racconto.»<br />

Quella sera fu davvero speciale per Giorgio. Parlò di tante cose con i suoi vicini di<br />

tavolo, alcune anche un po’ tabù, ma con molta sincerità e naturalezza. Fu servito<br />

e riverito fino all’eccesso, con mille attenzioni. Cibi squisiti, tre tipi di risi diversi,<br />

tra cui uno con le scorze d’arancia e un altro con l’uvetta, <strong>dei</strong> ravioli tipo quelli cinesi<br />

un po’ piccanti, varie carni, tra cui pollo al curry e montone arrosto e tante<br />

altre delizie, poi un ottimo dolce simile al dulce de lece al cardamomo ricoperto di<br />

pezzetti di pistacchi. Il tutto annaffiato da coca cola o aranciata, dato che gli afghani<br />

non possono bere alcolici neppure alle feste. Insomma, una cena da leccarsi i<br />

baffi, anche se tutti per servirsi attingevano, spesso con le mani, allo stesso piatto<br />

di portata.<br />

Durante la cena parlarono di poligamia, di elezioni, di Karzai, di produzione clandestina<br />

di vino per il mercato estero e di tante altre cose. Per esempio era singolare,<br />

ma neanche tanto difficile da comprendere, la posizione sulla poligamia. Per<br />

gli afghani era semplice, loro sostenevano che mentre gli europei hanno le amanti<br />

di nascosto, come se tutti gli europei avessero l’amante, loro invece hanno più<br />

mogli alla luce del sole. Potevano arrivare fino a sette mogli, ma il problema era il<br />

dover garantire lo stesso tenore di vita a tutte quante, per cui gli stessi spazi vitali,<br />

il che necessitava una casa molto grande. I suoi vicini di tavolo al momento avevano<br />

una sola moglie, non perché non volessero averne di più, anzi, ma perché<br />

non se le potevano permettere. Alla domanda di come un vicino avesse scelto la<br />

sua attuale moglie, siccome si vantava di averla conosciuta prima di sposarla,<br />

quello rispose di averla vista all’università mentre chiacchierava con delle amiche:<br />

151


ne era rimasto folgorato e aveva raccolto informazioni su di lei ed era andato dai<br />

suoi genitori a chiederla in sposa. Alla faccia dell’averla conosciuta. Era incredibile<br />

come il punto di vista della donna fosse praticamente inesistente per la cultura afghana,<br />

in particolare in tema di matrimonio.<br />

Anche rispetto ad altri argomenti si erano lasciati andare nell’esprimere liberamente<br />

il loro punto di vista, e senza bisogno di bere alcolici. In proposito c’era chi<br />

produceva vino, e pare anche di discreta qualità, nelle rigogliose valli del sud, e lo<br />

esportava nei paesi limitrofi. Il tutto rigorosamente di nascosto, perché la religione<br />

musulmana vieta in modo categorico il consumo di bevande alcoliche, considerate<br />

opera di Satana: “Evitatele affinché possiate prosperare” (Corano, Sura V). E pensare<br />

che la parola alcol ha radici arabe (al-kul) e significa più o meno “il più sottile”.<br />

Pausa sigaretta fuori dal locale, all’aperto con chiacchiere sotto il cielo stellato, e<br />

poi di nuovo in sala, ma questa volta per le danze con un complesso di musicisti<br />

pronto a strimpellare. Ovviamente qui Giorgio non poteva che fare furore, un vero<br />

ballerino provetto, sempre pronto a fare quattro salti. Il primo ragazzo in pista lo<br />

costrinse a buttarsi nelle danze e subito cercò di imitare l’afghano nei movimenti.<br />

Su le braccia ondeggiando un po’, cercando il ritmo che era tutt’altro che lento.<br />

Poi la pista si riempì e gli sembrò di riuscire a tenere il ritmo, e che ritmo!<br />

Con la scusa di voler fare qualche foto che immortalasse lo sposo e i suoi amici<br />

nelle danze, mentre al di là del separé anche le donne pareva si stessero scatenando,<br />

Giorgio si allontanò pian piano e chiamò Grazia sul cellulare, purtroppo<br />

era ora di tornare alla base.<br />

Capitolo 2 - Il viaggio<br />

Rientrato al compound, ancora pieno di pensieri e di congetture su cui riflettere,<br />

da raccontare e condividere, continuava a ripensare a quanta distanza ci fosse<br />

tra il suo mondo e quello in cui era stato catapultato quella sera. Ripensò alla sua<br />

città, al lavoro, agli amici, tutto quello che aveva temporaneamente congelato per<br />

tuffarsi in questo pianeta così diverso. Nel suo viaggio si era immaginato tante<br />

cose, ma non certo la possibilità di conoscere così da vicino gente con vere tradizioni,<br />

non quelle che si raccontano per sentito dire o si leggono sui libri. In quel<br />

viaggio tante emozioni lo stavano attraversando, come quando si entra a scuola<br />

il primo giorno e si trovano nuovi compagni di viaggio, nuovi insegnanti, nuove<br />

materie, insomma, un nuovo mondo.<br />

Era partito da Milano con tappa a Istanbul, un volo di linea come tanti, insieme a<br />

tanti sconosciuti che si spostavano per lavoro o per piacere, che andavano a concludere<br />

qualche affare o a trascorrere qualche giorno di relax in un altro paese.<br />

Ma poi il viaggio da Istanbul per Kabul aveva assunto tutt’altri connotati. Ricordava<br />

che fuori era buio. Un viaggio interminabile, su un cargo militare. Il rombo costante<br />

e il tremolio persistente gli riportava alla memoria un viaggio fatto qualche anno<br />

prima a Pristina, su un piccolo Stol da venti posti. Allora non era circondato da soldati<br />

ma da civili armati di tanta volontà e generosità, che andavano a portare aiuti<br />

umanitari ai sopravvissuti alla guerra in Kosovo appena conclusa. Anche su quel<br />

volo, seppur più breve, la sensazione era stata di totale stordimento, e le grandi<br />

152


cuffie impedivano qualunque tipo di dialogo. Aveva tentato di scambiare due parole<br />

con la sua vicina, una giovane bionda e robusta australiana del World Food Programme,<br />

ma altro che dialogo tra sordi. Non solo non si capiva niente, ma il tremolio<br />

dava il colpo di grazia, come i compagni che alla recita scolastica tirano<br />

oggetti per far perdere la concentrazione.<br />

Arrivato a Kabul più stordito e frastornato che mai, era subito stato immerso nel<br />

nuovo mondo ma come se viaggiasse in parallelo agli afghani, perché seppure<br />

dovesse lavorare per loro, in realtà fin dall’arrivo si era sentito distante.<br />

I primi giorni erano stati dedicati agli incontri con l’ambasciatore, con il personale<br />

d’ambasciata per la registrazione, con il direttore della cooperazione italiana, con<br />

lo staff del progetto sulla giustizia, con i militari che dovevano illustrare i piani di<br />

evacuazione e le altre regole da tenere presente sempre, perché il pericolo di attentati<br />

e di bombe era all’ordine del giorno e c’era poco da scherzare. Tra le slide<br />

mostrate dai militari ce n’era una che gli era rimasta molto impressa su un tipo di<br />

ragno grande come una mano: il ragno cammello, marrone, enorme e pericoloso.<br />

I ragni non erano mai stati la sua passione e vedere quell’essere che sembrava<br />

venire da un altro pianeta lo aveva proprio colpito. “Certo che trovarsene uno nella<br />

stanza da letto non dev’essere proprio il massimo” aveva pensato. Ma come gli<br />

scorpioni che pure c’erano in quel paese, fortunatamente se ne stavano lontano<br />

dai centri abitati.<br />

Fu durante questi incontri che conobbe Grazia, con cui legò immediatamente per<br />

uno stesso sentire e stesso modo di vedere le cose. Rimase molto colpito dalla<br />

passione con cui combatteva tutti i giorni per poter fare <strong>dei</strong> passi avanti e raggiungere<br />

quei risultati attesi che il progetto da lei gestito perseguiva. Avevano molte<br />

cose in comune e sicuramente anche lei poteva dargli validi suggerimenti rispetto<br />

al progetto di cui si doveva occupare.<br />

Capitolo 3 - La giustizia minorile<br />

Giorgio era stato selezionato dal Ministero degli Affari Esteri Italiano per contribuire<br />

al miglioramento della giustizia minorile in Afghanistan, ossia il sistema che gestiva<br />

i minori in conflitto con la legge. Si trattava di un progetto innovativo, che prevedeva<br />

varie fasi, dalla revisione della normativa alla formazione <strong>dei</strong> giudici e degli<br />

altri operatori del settore (procuratori, avvocati, assistenti sociali, ecc.), dalla costruzione<br />

di un centro di riabilitazione chiuso alla previsione di un centro di riabilitazione<br />

aperto e collegato al contesto sociale adiacente. Ora si trattava di chiudere<br />

una fase e aprirne una nuova, sia a Kabul che a Herat.<br />

Era felice di questa opportunità, avendo avuto già altre esperienze di questo genere<br />

in passato in altri paesi meno sviluppati come l’Afghanistan, sapeva che poteva<br />

dare il proprio apporto al progetto. Certo la lingua era un problema, doveva<br />

lavorare con l’interprete dari e farsi perché molti interlocutori non sapevano bene<br />

l’inglese.<br />

Aveva già incontrato i giudici, per capire i bisogni e le priorità, aveva visitato le<br />

strutture di Kabul e interloquito con i ragazzi internati, mentre con le ragazze ci<br />

aveva parlato una sua collega con l’interprete, siccome era preferibile una persona<br />

153


del loro stesso sesso.<br />

Era rimasto molto colpito da un problema che era emerso rispetto alle ragazze.<br />

Quasi tutte erano definite “running away from home”, scappate di casa. Ma l’avevano<br />

colpito le ragioni per cui erano scappate: avevano un fidanzato che i genitori<br />

non accettavano, oppure i genitori volevano assegnare loro come marito un uomo<br />

che non volevano, erano state picchiate e/o violentate dal padre, dal patrigno o<br />

da un altro membro della famiglia, oppure, cosa incredibile, un membro della famiglia<br />

aveva commesso un grave reato, come ad esempio un omicidio, e la ragazza<br />

era stata scelta per costituirsi alla polizia. Non essendo le ragazze produttrici<br />

di reddito, poiché le famiglie avevano bisogno delle entrate della persona che<br />

aveva commesso quel reato, decidevano di sacrificare la figlia femmina. Incredibile<br />

che si potesse arrivare a scelte così crudeli e ingiuste, che mettevano in luce ancora<br />

una volta la scarsa considerazione che la società afghana aveva della donna.<br />

Ma la cosa ancora più terribile era che queste ragazze “running away from home”<br />

non potevano essere rimandate a casa perché potevano rischiare la loro stessa<br />

vita, e alla fine il centro di riabilitazione per minori autori di reato diventava l’unico<br />

luogo per loro sicuro e protetto, non essendocene altri.<br />

L’assenza di strutture aventi finalità diverse dai centri di riabilitazione e da quelle<br />

carcerarie, nonché l’assenza di assistenti sociali che avrebbero avuto proprio il<br />

compito di approfondire la situazione personale e familiare di questi minori, era<br />

proprio la ragione principale che portava a trattarli come se avessero commesso<br />

un reato. Questa era uno <strong>dei</strong> tanti paradossi di una società piena di contraddizioni,<br />

sfaccettature e antiche tradizioni ancora applicate in modo ferreo.<br />

Siccome il codice minorile era stato adottato e i centri di riabilitazione a Kabul ed<br />

Herat erano stati costruiti, si trattava ora di farli funzionare al meglio e di far funzionare<br />

tutta la macchina della giustizia minorile. Giorgio quindi aveva un bel da<br />

fare per conoscere il sistema sulla carta ma soprattutto quello applicato nella realtà,<br />

poiché il sistema nuovo, attivato con il codice minorile, si scontrava con la<br />

sharìa e con la giustizia tradizionale, ancora applicate soprattutto fuori dalla capitale<br />

e lontano dalle grandi città. Sarebbe stato bello poter uscire da Kabul, dato<br />

che l’Afghanistan è così diversificato dal punto di vista delle etnie, delle usanze e<br />

del paesaggio, ma l’ambasciatore era stato chiaro: per uscire dalla capitale occorreva<br />

un permesso speciale e già Giorgio stava lottando per averlo per andare a<br />

Herat, dove peraltro era basato il contingente militare italiano, figuriamoci quindi<br />

se era anche solo lontanamente pensabile di poter andare anche altrove, in questo<br />

paese dai mille splendidi soli.<br />

Ma non voleva demordere, dopo essere riuscito ad andare a Herat era sua intenzione<br />

attivare un qualche stratagemma per uscire da Kabul, consapevole <strong>dei</strong> rischi<br />

che avrebbe corso. Aveva intenzione di raccogliere più materiale possibile sia dagli<br />

operatori del settore per cui lavorava, ma anche da soggetti terzi per avere la visuale<br />

più completa possibile. Oramai aveva imparato che, per ragioni diverse, le<br />

informazioni che arrivavano dagli altri stranieri presenti così come dai locali, andavano<br />

messe a fuoco, lette e interpretate con delle lenti particolari.<br />

Prima di incontrare il ministro della giustizia, era importante essere sicuro di avanzare<br />

e discutere delle proposte che fossero le vere priorità e soprattutto fattibili in<br />

154


termini di fondi messi a disposizione dalla cooperazione italiana, che era più impegnata<br />

nella costruzione di strade e negli interventi in campo medico e sanitario,<br />

anche se dall’Italia di tutto questo non aveva mai sentito parlare.<br />

Questa era una cosa strana, in Italia infatti si parlava sui media soltanto dell’intervento<br />

militare, e tutta la sfera degli interventi civili realizzati sia dalla cooperazione<br />

italiana che dai militari era pressoché sconosciuta. Non si capiva se si trattava di<br />

una strategia oppure, come Giorgio pensava, di una carenza, per non dire assenza<br />

di comunicazione, ed era un vero peccato perché, anche se a volte con notevoli<br />

difficoltà di ogni genere, i risultati erano tangibili e anche molto positivi. Per esempio<br />

il centro di riabilitazione <strong>dei</strong> minori autori di reato che Giorgio aveva visitato a<br />

Kabul, e che non vedeva l’ora di visitare a Herat, era stato interessantissimo perché<br />

costituiva una specie di laboratorio sperimentale per un paese islamico, e si<br />

può dire anche all’avanguardia.<br />

Il centro era costituito da una struttura totalmente chiusa, come un carcere minorile,<br />

ma con tutta una serie di attività dalla scuola alla formazione professionale<br />

che consentiva ai ragazzi di preparare il terreno al loro reinserimento nella società<br />

afghana. Andava tenuto conto che la maggior parte <strong>dei</strong> reati di cui erano accusati<br />

questi ragazzi erano soprattutto furti di beni di prima necessità, perché la povertà<br />

era e resta la causa primaria contro cui la gente lotta. Inoltre molti ragazzi avevano<br />

abbandonato gli studi e non trovavano un lavoro.<br />

A fianco di questo centro chiuso ce n’era uno aperto in cui i ragazzi svolgevano le<br />

stesse attività ma tornando a casa alla fine della giornata. Il centro aperto, in collegamento<br />

con la comunità circostante, era la vera novità sperimentale, perché<br />

consentiva di recuperare questi ragazzi che non avevano ancora acquisito le capacità<br />

per svolgere un mestiere di farlo in collaborazione con gli artigiani, che un<br />

domani avrebbero potuto assumerli nelle proprie ditte individuali. Dato che il rischio<br />

di recidiva era forte, per rompere questa catena era indispensabile dare gli strumenti<br />

a questi ragazzi per potersi un domani arrangiare, senza rischiare di tornare<br />

a delinquere per i problemi di povertà o di mancanza di lavoro. Certo l’intervento<br />

non era soltanto di carattere formativo-lavorativo, ma anche e soprattutto educativo-comportamentale.<br />

Per esperienza Giorgio aveva imparato che solo operatori motivati e preparati e<br />

un percorso individualizzato che tenesse conto delle qualità e delle potenzialità di<br />

ciascun ragazzo erano la chiave di volta per far funzionare tutto il sistema e per<br />

abbattere quindi anche la recidiva, che era altissima prima che questo nuovo sistema<br />

fosse messo in moto.<br />

Dopo aver visitato il centro chiuso e il centro aperto di Kabul, costruiti dai civili con<br />

fondi del Ministero Affari Esteri italiano, ora era curioso di vedere il risultato degli<br />

analoghi centri di Herat, costruiti dai militari con fondi del Ministero dell’Interno italiano.<br />

Capitolo 4 - Un volo per Herat<br />

Durante una riunione con i colleghi USA del Correction System Support Program,<br />

che lavoravano sul sistema penitenziario afghano, a Giorgio era stato proposto di<br />

155


andare con il loro capo John Way all’inaugurazione del carcere femminile di Herat,<br />

con un volo militare USA. Servivano tre giorni per avere tutte le autorizzazioni necessarie<br />

e organizzare il volo da Kabul. Consapevole delle difficoltà che gli si sarebbero<br />

presentate, Giorgio iniziò il calvario delle autorizzazioni.<br />

«Pronto, buongiorno sono Giorgio Mazzoni, posso parlare con il consigliere Franzoni?»<br />

«Buongiorno Giorgio, sono Ornella, come va?»<br />

«Bene, bene, vorrei parlare con il consigliere per concretizzare la mia missione a<br />

Herat, avrei una possibilità di cui volevo discutere con lui, e… inshallah…»<br />

«Mmm, guardi che oggi non è giornata, comunque, un attimo che glielo passo.»<br />

Il consigliere Pietro Franzoni era un giovane diplomatico con un pessimo carattere<br />

e molto abile a mettere i bastoni tra le ruote alle persone che non gli andavano a<br />

genio. L’operazione quindi non si prospettava delle più facili perché il canale con<br />

l’ambasciatore, per poter essere autorizzato ad andare a Herat in quel modo, dipendeva<br />

molto dal suo umore e da come lo si riusciva a prendere.<br />

«Pronto? In questo momento sono molto di fretta, mi dica.»<br />

Già l’inizio della conversazione non prometteva bene.<br />

«Buongiorno consigliere, sono stato invitato dai colleghi americani del CSSP all’inaugurazione<br />

del carcere femminile di Herat, mi hanno proposto di andare con<br />

il loro volo militare, credo dovrei discuterne con lei.»<br />

«Come, scusi? Credo di non avere capito bene.»<br />

«Dicevo che sono stato invitato…»<br />

«Sì sì, questo l’ho capito, ma non ho capito come pensa di andare a Herat.»<br />

«Mi hanno proposto un passaggio sul loro volo militare.»<br />

«È fuori questione, se vuole andare deve farlo con un volo civile.»<br />

«Mi scusi, ma che problema c’è se vado con gli americani?»<br />

«Il problema è che non l’autorizziamo, molto semplice.»<br />

«Mi scusi, ma c’è un divieto esplicito per i civili italiani di salire su un volo militare<br />

USA?»<br />

«No, ma comunque è fuori questione, le ho detto. Mi scusi ma ora devo andare,<br />

ne riparliamo più tardi, arrivederci.»<br />

Come temeva l’impresa si faceva ardua, ma lui non avrebbe demorso tanto facilmente.<br />

Intanto occorreva prendere tutte le informazioni necessarie e studiare una<br />

strategia che potesse convincere il consigliere Franzoni a ricredersi e farlo partire.<br />

Ma come?<br />

La prima cosa da fare era riuscire a sapere quali tipologie di autorizzazione servivano<br />

agli americani e da dove partiva il volo militare. Anche se controvoglia, occorreva<br />

subito contattare i militari italiani per questa seconda informazione.<br />

«Pronto, capitano Mezzanotte?»<br />

«Chi lo cerca?»<br />

«Sono Giorgio Mazzoni, avrei bisogno di chiedergli una cortesia.»<br />

«Guardi che sta venendo al vostro compound, anzi dovrebbe già essere arrivato.»<br />

«Grazie, vado subito a cercarlo. Ah… capitano Mezzanotte?»<br />

«Sì, Mazzoni, mi dica.»<br />

«Lei per caso sa da dove partono i voli militari americani per Herat?»<br />

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«Mah, in genere dall’aeroporto militare di Bamiyan, che dista un’ora di strada da<br />

Kabul. Perché?»<br />

E di nuovo Giorgio è costretto, non certo per l’ultima volta, a spiegare la situazione.<br />

«Mi spiace, non possiamo aiutarla, non può andare all’aeroporto di Bamiyan, è<br />

troppo pericoloso.»<br />

«Ma è sicuro che i voli partano solo da lì?»<br />

«Certissimo.»<br />

Era già scoraggiato in partenza, ma non si dava per vinto. Infatti gli era venuta<br />

un’idea che forse lo avrebbe aiutato a partire con gli americani. Ma prima si voleva<br />

consultare con un paio di persone, tra cui Grazia, e il tempo era davvero poco per<br />

trovare una soluzione e far ripartire tutta la macchina per il verso giusto.<br />

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