Fake Edizioni - Macchina dei Sogni
Fake Edizioni - Macchina dei Sogni
Fake Edizioni - Macchina dei Sogni
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Titolo originale dell’opera:<br />
“<strong>Fake</strong> <strong>Edizioni</strong>.<br />
Nuovo catalogo aggiornato di romanzi eventuali”<br />
MACCHINA DEI SOGNI<br />
associazione culturale<br />
cinema&scrittura<br />
È un motore alimentato dal propellente della creatività<br />
e messo in moto dalla comunità solidale di tutti<br />
gli ingegni impazienti.<br />
Genera conoscenza connessioni incontri, alimenta passioni,<br />
traduce sogni in scintille e non danneggia l’ozono.<br />
www.macchina<strong>dei</strong>sogni.org<br />
info@macchina<strong>dei</strong>sogni.org<br />
collana<br />
LIBRI della MACCHINA DEI SOGNI<br />
volume 15<br />
© 2011 by MACCHINA DEI SOGNI<br />
Corso MANUALE D’AUTORE progettare il romanzo<br />
Edizione 2001<br />
Condotto da Matteo B. Bianchi<br />
EDIZIONI AUTOPRODOTTE<br />
traduzioni previste in tutte le lingue richieste<br />
Progetto MACCHINA DEI SOGNI<br />
Art director: Jasmina von Büren – www.xsdsign.ch<br />
Coordinamento del progetto: chicca profumo<br />
Redazione: Loretta Patrini
<strong>Fake</strong> <strong>Edizioni</strong><br />
Nuovo catalogo aggiornato di romanzi eventuali
Un catalogo immaginario per un'immaginaria casa editrice, che però illustra romanzi<br />
possibili. I libri che troverete in queste pagine non esistono, o per meglio dire, non<br />
esistono ancora: sono i progetti che i frequentatori del corso "Manuale d'autore"<br />
stanno portando avanti. Durante gli incontri ne abbiamo discusso le trame, analizzati<br />
i personaggi, verificato i dialoghi... Tra qualche mese alcuni di questi romanzi saranno<br />
terminati, ma a noi, per gioco e anche per incoraggiamento, piace presentarli qui come se lo<br />
fossero già tutti.<br />
Matteo B. Bianchi
Emma è cresciuta “dalla parte giusta”, ma ora si sente l'unica nel proprio<br />
mondo a non trovare più conforto in un patrimonio condiviso di certezze,<br />
preferenze, riferimenti culturali. A partire da una spregiudicata scelta lavorativa,<br />
intraprende un percorso di ribellione segreta che apre sempre<br />
di più la crepa invisibile che la separa dalla famiglia e dal compagno. Le<br />
ricadute saranno più ampie di quanto si possa immaginare, perché Emma<br />
lavora come ghostwriter e le sue parole danno voce a esponenti di primo<br />
piano sulla scena politica nazionale.<br />
Fuori tema è la storia di una donna e il ritratto ironico e spietato di un<br />
Paese in cui il privato è pubblico e il pubblico è privato.<br />
Francesca Pampinella è nata a Belluno nel 1970. Negli ultimi vent'anni<br />
ha cambiato spesso dimora e un paio di volte carriera. È stata un cervello<br />
in fuga, poi rientrato, mai rassegnato.<br />
Questo è il suo primo romanzo.<br />
6
Fuori tema, Francesca Pampinella.<br />
Scrivo da trent'anni lo stesso discorso. Noi siamo migliori di voi.<br />
Alle elementari voi eravate i barbari, i dominatori austro-ungarici, Napoleone che<br />
si porta via le opere d'arte, gli assassini <strong>dei</strong> partigiani. Noi, io e mio fratello in gita<br />
al sacrario di Bastia Mondovì, in fila indiana dietro nostro padre. Eravate ormai<br />
lontani e sconfitti.<br />
Al liceo eravate i corruttori, quelli che se n’erano approfittati troppo a lungo, quelli<br />
della strategia della tensione, i nani e le ballerine. Umiliati, esiliati, finiti. Noi, l'insalata<br />
di riso di mia madre davanti al tg e i tram sull'asfalto rovente fuori dal tribunale.<br />
Adesso siete quelli che non danno valore alla cultura, che non riconoscono le regole,<br />
quelli delle hostess nelle prime file, delle convention, <strong>dei</strong> tabloid all'italiana,<br />
gli avvocati difensori, gli evasori e i piazzisti. Adesso siete in mezzo a noi e avete<br />
vinto.<br />
Ho scritto che siamo migliori di voi nelle recensioni cinematografiche per una rivista<br />
studentesca, nei primi esperimenti con un corso di scrittura creativa, nel forum<br />
“Cieli puliti per Milano”, dove ho conosciuto Luca. Ce lo siamo detti insieme che<br />
siamo migliori di voi, nelle passeggiate dopo il cinema, nei negozi equo-solidali,<br />
alle presentazioni <strong>dei</strong> libri e nelle serate antisanremo. Forti del nostro amore che<br />
cresceva dalla parte giusta. Ho scritto che siamo migliori di voi persino nei commenti<br />
di un blog dedicato alla cucina a chilometro zero.<br />
Scrivo da trent'anni lo stesso discorso, ora lo scrivo più o meno ogni giorno per<br />
una senatrice del PD e mi pagano per farlo.<br />
La strada più sicura è indubbiamente quella di continuare a credere che noi siamo<br />
migliori di voi, se non fosse che a forza di scriverlo non sono più così certa di sapere<br />
chi siate voi né a cosa abbia portato tutto questo essere migliori.<br />
1<br />
«Non passa giorno senza che io mi domandi dove sia finito il paese che in tante<br />
abbiamo sognato per le nostre figlie.»<br />
Qui il suo sguardo si rivolge dritto in camera. All'improvviso. Niente esitazioni, niente<br />
“vede”, basta togliere quel “vede” all'inizio e non sembra più una lezione. Gli occhi<br />
sobriamente truccati fermi su di noi che siamo qui a raccogliere le briciole dalla<br />
tovaglia, e dallo schermo il suo quasi quotidiano appello alle nostre coscienze.<br />
Scuotiamo la testa mentre ammonticchiamo le bucce di mandarino. Nella metà<br />
delle case italiane altre famiglie correttamente ammonticchiano bucce e compiaciuta<br />
disapprovazione, e pendono da quelle labbra rosa pallido al giusto grado di<br />
carnosità. Esattamente equidistanti dalla maestrina invidiosa e dalla cinquantacinquenne<br />
che non si arrende.<br />
In questa cucina invece l'attenzione è coagulata sulla mia bocca ancora un po'<br />
macchiata di cacao. Aspettano che onori il nostro gioco. E io, incorniciata in un<br />
copione ormai fasullo quanto il teatrino di cartone dove da bambina facevo ballare<br />
le marionette, pronuncerò una frase scelta con cura e osserverò l'onda <strong>dei</strong> loro<br />
7
sguardi infrangersi contro il televisore e poi di nuovo rimbalzare su di me. Sorridenti,<br />
fieri. Come se ancora riuscissero a rivivere la sorpresa di quando scoprirono<br />
che quelle parole così importanti le avevo scritte io.<br />
Era la prima domenica che mio padre e mia madre venivano a pranzo a casa nostra.<br />
Un modo di dichiarare a se stessi che con la partenza di Enzo il loro cessava<br />
di essere il baricentro della famiglia. Il figlio piccolo era uscito di casa e restavamo<br />
noi, due coppie di diversa età a scambiarsi le feste e qualche cena infrasettimanale.<br />
Del mio ultimo avanzamento di grado nella schiera <strong>dei</strong> parolai di partito avevo raccontato<br />
a mio fratello mentre lo accompagnavo in aeroporto. Non mi aveva ferito<br />
né stupito l'indifferenza con cui aveva accolto quella notizia. Definirla indifferenza<br />
sarebbe inesatto, ma allora non avevo alcuno strumento per decifrare quella sua<br />
visione del mondo, ciò che per noi era solo un “chiamarsi fuori”, lasciare, appunto,<br />
andarsene.<br />
Per la preparazione di quel pranzo io e Luca iniziammo da vere e proprie riforme<br />
infrastrutturali, che prevedevano l'affissione di quadri ancora appoggiati per terra<br />
da quasi cinque anni, l'omologazione stilistica di piatti e bicchieri e la sostituzione<br />
della consunta pallina di gomma del meccanismo che blocca lo scarico del WC.<br />
Ciò gli impose l'iniziazione al mondo <strong>dei</strong> negozi di ferramenta e una definitiva resa<br />
al ruolo di maschio che gestisce le piccole riparazioni, una mia personale conquista<br />
nell'impostazione della nostra convivenza.<br />
L'ideazione del menù ci vide lavorare fianco a fianco come un dream ticket nella<br />
costruzione del programma elettorale. Ci apprestavamo a intaccare il nostro patrimonio<br />
di gourmand della domenica, pazientemente accumulato nei saloni del<br />
gusto e alle fiere <strong>dei</strong> prodotti D.O.P. nei borghi medievali. Tutto di qualità rigorosamente<br />
certificata, i prodotti, i produttori e, se possibile, anche i borghi medievali. Il<br />
sabato mattina battemmo palmo a palmo il Farmers Market di via Ripamonti, il pomeriggio<br />
lo passammo in cucina.<br />
Era il nostro debutto ufficiale. Le festicciole di compleanno, le cene con gli amici,<br />
nemmeno il fatto che due o tre volte l'anno ospitavamo la riunione del gruppo di<br />
acquisto solidale di cui Luca era uno <strong>dei</strong> promotori, contavano davvero. Ci vuole<br />
una famiglia per certificarne un'altra e questa era la nostra prima e unica occasione.<br />
La madre di Luca probabilmente non verrà mai a Milano, figuriamoci nel nostro<br />
appartamento. Questo nella sua famiglia non è vissuto come una mancanza o un<br />
qualcosa per cui cercare una giustificazione. Anche se non ne abbiamo mai parlato,<br />
siamo certi che nel loro universo non esista il concetto di “Emma e Luca”<br />
come nucleo familiare. Noi siamo “i ragazzi”, quelli che li raggiungono per Natale<br />
nella casa di Terni, dove sua madre è arbitro e giudice supremo in un'eterna competizione<br />
in cui sorelle e cognate si sfidano per il titolo di famiglia modello. Noi due<br />
siamo fuori concorso, a prescindere, e alla fine delle vacanze ce ne torniamo in<br />
quella nozione vaga e indefinita che è per loro la nostra dimora milanese, con<br />
l'auto stipata di pietanze da congelare in contenitori monoporzione. Il massimo<br />
della considerazione l'abbiamo raggiunto a Pasqua dell'anno scorso, quando abbiamo<br />
impastato e infornato le focacce per tutti quanti. L'aver rimesso in funzione<br />
8
il forno a legna, inattivo dalla scomparsa del padre, ci ha fatto guadagnare i nostri<br />
cinque minuti di popolarità come unità in grado di contribuire al sostentamento<br />
della tribù con un qualsiasi genere di produzione. Un po' come vincere nella sezione<br />
Un certain regard.<br />
Quando arrivò la domenica, la tensione da debutto si mescolò all'anticipazione,<br />
tanto che, nell'accogliere i miei sulla porta, nemmeno notai gli strass che tempestavano<br />
i jeans di mia madre, né detti troppo retta al roteare di pupille con cui mio<br />
padre sollecitava un mio solidale commento di disapprovazione. Avevano ciascuno<br />
il proprio lutto da elaborare, mi dissi, lei la perdita dell'amato bamboccione e lui la<br />
fuga di quello che non poteva nemmeno vantare come “cervello”, perlomeno non<br />
in base ai canoni attuali. Confidavo nel fatto che il mio annuncio li avrebbe distolti<br />
da questo nadir della loro parabola genitoriale.<br />
Dopo qualche convenevole papà accettò con grazia l'invito a scegliere e stappare<br />
la bottiglia di vino, e il pranzo ebbe inizio.<br />
Tra una portata e l'altra lievitava la bolla d'intesa dentro la quale io e Luca ci scambiavamo<br />
sorrisi ebeti. Davanti al soufflé di cioccolato, la complicità con cui mia<br />
madre ci chiese cosa avevamo da nascondere sgonfiò il nostro programma in un<br />
colpo solo.<br />
Un nuovo baricentro per la nostra famiglia, con il sistema più classico e sostanziale,<br />
questo si aspettavano da noi.<br />
«Mi hanno chiesto di scrivere per la Pocchiola.» Avrei potuto dirlo così, a bruciapelo,<br />
per evitare che nello spazio di un “devo dirvi che” o “ho una novità da raccontare”,<br />
mio padre avesse già mentalmente messo in sicurezza il nostro<br />
appartamento e applicato i tappi anti-dita-di-bimbo a tutte le prese.<br />
Risposi che eravamo solo molto contenti di aver finalmente risolto l'annosa questione<br />
della pallina del WC e fugai ogni dubbio con una risata, mentre percepivo<br />
lo sguardo perplesso di Luca e mi rifiutavo di incrociarlo.<br />
Non volevo che i miei pensassero che il pranzo fosse stato organizzato per quello.<br />
Sapevo che sarebbero stati contenti per me e anche fieri, ma avevamo messo in<br />
piedi una liturgia da lieto evento. Improvvisamente ci guardavo con i loro occhi e<br />
non mi piaceva quella sensazione. Non dico come se gli avessimo annunciato che<br />
intendevamo prenderci un cane, ma quasi. Soprattutto non volevo condividere<br />
questi pensieri con Luca.<br />
La sera, a letto, quando sapevo di non poter più sfuggire alla spiegazione per quel<br />
mio estemporaneo dissociarmi dal nostro lavoro d'équipe, me la cavai con la storia<br />
che mi era venuto in mente solo all'ultimo quel modo molto più spettacolare di svelare<br />
la sorpresa. La creatività mi va a mille quando sono sotto stress.<br />
Come ogni domenica il caffè del dopopranzo lo prendemmo davanti alla trasmissione<br />
della Annunziata. Ospite proprio quel giorno, Anna Pocchiola, da poco eletta<br />
al senato e già una delle voci più autorevoli dell'opposizione. Il programma si sarebbe<br />
aperto con il filmato di un suo recente intervento a Palazzo Madama, il primo<br />
scritto da me. Il primo di molti che avrei ricordato a memoria, tanto da poter anticipare<br />
lo schermo. Scegliere una frase qualunque e pronunciarla qualche secondo<br />
prima che le stesse identiche parole siano diffuse dal televisore come un'eco. Così<br />
feci quella domenica e così farò adesso per l'ultima volta.<br />
9
Al ritorno dalle ferie dovrò aver trovato un modo per convincerli che questo gioco<br />
ha fatto il suo tempo. Inizialmente avevo pensato di raccontare che avevo chiuso<br />
con il ghostwriting per fare altro ma, a parte questa, nessuna delle attività a cui mi<br />
sia dedicata finora era almeno vagamente remunerativa. E qui invece i soldi continueranno<br />
ad arrivare. Anzi, adesso ancora di più. Perché domani, io, passo dall'altra<br />
parte.<br />
2<br />
L'assistente di volo illustra, ignorata, le procedure di evacuazione dell'aeromobile.<br />
Puntuale mi visita lo stesso pensiero di ogni decollo e mi immagino nell'attimo<br />
estremo di rimpiangere la mia reiterata noncuranza delle procedure. I miei che entrano<br />
in casa. La mia eredità è un bagno con il caos senza pudore di un qualsiasi<br />
mercoledì senza visite annunciate. Improbabile che ci sia un cadavere da rivestire<br />
e al limite gli abiti li potrebbe procurare Luca, ma lui in queste visioni non c'è mai,<br />
e non solo perché in molti casi è ovviamente deceduto al mio fianco. È un immaginario<br />
nato prima della nostra relazione e ancora non si è aggiornato con la sua<br />
presenza.<br />
Nel pc c'è tutta la corrispondenza di queste settimane, inclusa questa lettera che<br />
mi porterò in grembo fino alla fine. Speriamo almeno che a metterci le mani sia<br />
mio fratello, anche se forse per rintracciarlo ci metterebbero qualche giorno.<br />
Rileggo per la centesima volta la mail di Vizzeri per cercare di capire come affronterò<br />
l'incontro. È piena di espressioni convolute come “in un certo qual modo”,<br />
“sondare la sua disponibilità”, “sforzandoci di perseguire un superamento di quella<br />
cesura cartesiana” e “volendo inquadrare il tutto in una prospettiva più ampia che<br />
trascenda la contingenza delle contrapposizioni correnti”. Se inserissi questo testo<br />
nel software che genera le tagcloud il prodotto sarebbe un arabesco.<br />
Elaborato quanto la trama <strong>dei</strong> tendaggi ai lati della finestra del suo studio romano,<br />
davanti alla quale mi parla qualche ora più tardi. È in piedi esattamente al centro<br />
della luce che filtra tra i suoi capelli crespi e rossicci, come la raffigurazione di un<br />
santo illuminato dallo spirito divino.<br />
«Signorina Benedetti, capisce bene che con questa impostazione il materiale che<br />
ci serve è molto più... come posso dire... denso.»<br />
«Denso?»<br />
«Senza le consuete interruzioni, l'impasse <strong>dei</strong> diverbi» l'iPad bianco nelle sue mani<br />
affusolate sembra un messale, «ecco, il peso, il peso specifico <strong>dei</strong> testi.» Termina<br />
la frase a metà allargando le braccia e sorridendomi con le labbra strette.<br />
Per una frazione di secondo ho quasi la certezza che stia per impartirmi una benedizione.<br />
Istintivamente mi aggiusto meglio la gonna sulle ginocchia e cerco di<br />
sedermi ancora più dritta sulla poltrona marrone di velluto consunto. Di tutti gli stereotipi<br />
che mi stanno stretti, quello che attribuisce al centrodestra la povertà del<br />
linguaggio e lo sfarzo degli arredi avrei sinceramente preferito conservarlo.<br />
Del resto Vizzeri è una figura che va sicuramente “inquadrata in una prospettiva<br />
più ampia che trascenda la contingenza delle contrapposizioni correnti”.<br />
Qui dentro si respira quell'aria ministeriale tra il solenne e l'ammuffito che nel mio<br />
immaginario appartiene alla Prima Repubblica, quando non la si considerava an-<br />
10
cora una versione destinata a essere soppiantata dalle successive. Il palazzo si<br />
porta abbastanza dignitosamente i suoi due o tre secoli, i mobili dello studio hanno<br />
l'aria di essere diventati di colpo obsoleti, passata l'infatuazione per la combinazione<br />
legno-formica (ammesso che sia mai esistita), e Vizzeri ha un'età indefinita<br />
tra i sessanta e i duemila anni.<br />
«In altre parole prevedete più spazio per i contenuti? Una bella novità» sorrido e<br />
mi appoggio allo schienale. Lui ignora l'ironia della battuta, intento a scorrere un<br />
menù dall'iPad. Lo sguardo è calamitato sulla tavoletta, il profilo sfuggente contro<br />
la luce che si è fatta più ambrata, forse anche i vespri li pubblicano in versione tablet.<br />
«Ad ogni modo ho capito cosa vi serve e mi farò un'idea più chiara guardando la<br />
trasmissione.»<br />
«Molto bene. La diffusione è ancora locale, ma non si sa mai» si avvia verso la<br />
porta e capisco che devo seguirlo. «Del resto per noi è molto importante l'azione<br />
sul territorio.» Questa parola la pronuncia come se fosse un termine esotico che<br />
ha imparato ieri e non è ancora del tutto sicuro che glielo abbiano insegnato correttamente.<br />
Mi fa uscire da una porta diversa da quella da cui sono entrata, verso un salottino<br />
in stile anni Trenta perfettamente conservato, ed evidentemente utilizzato solo<br />
come luogo di passaggio.<br />
Fa per aprire il portoncino, ma poi lo richiude come in preda a un ripensamento e<br />
vi si appoggia con la schiena frapponendosi fra me e l'uscita. Presa alla sprovvista,<br />
mi fermo a circa dieci centimetri dal suo naso e indietreggio come presa da una<br />
scossa. Sono certa di aver involontariamente invaso il suo spazio vitale, ma lui<br />
con molto savoir faire non lo dà a vedere.<br />
«Poi, signorina Benedetti, un giorno, se non le dispiace, mi racconterà che cosa<br />
l'abbia spinta ad accettare.»<br />
Mi congeda senza nemmeno lasciarmi il tempo dell'imbarazzo, la risposta che gli<br />
darei ora non lo incuriosisce per niente, come se sapesse che io stessa sono ancora<br />
molto lontana dall'averlo capito.<br />
Giù in strada il traffico è meno rumoroso rispetto a quando sono arrivata, le luminarie<br />
di Natale sono ancora appese e spente. L'aria è pungente, ma ha comunque<br />
quell'odore di stagione nuova che mi colpisce sempre arrivando da Milano. Carico<br />
su un taxi il mio bagaglio di dubbi e perplessità. So già che prima di atterrare avrò<br />
deciso di mollare tutto e tornare indietro, e mi sarò anche recuperata da sola, almeno<br />
un paio di volte. Ora non posso contare sui familiari meccanismi di salvataggio.<br />
Tornando a casa da Linate Luca vorrà sentire un nuovo aneddoto sulla<br />
segreteria del PD e su chi sono questa settimana i cospiratori che affossano la<br />
Pocchiola. Su questo ho un repertorio che mi consente un'autonomia di almeno<br />
un annetto. Poi si vedrà.<br />
C'è poca gente in aeroporto, scivolo nell'atmosfera sonnacchiosa da serata di<br />
bassa stagione e procedo in automatico verso il gate con la più alta concentrazione<br />
di uomini d'affari sopra i sessanta. Verifico il numero sulla carta d'imbarco e sul<br />
monitor, il volo partirà con trenta minuti di ritardo. Mezz'ora in più di questo tempo<br />
che ufficialmente non esiste.<br />
11
Grata per l'imprevista dilatazione dell'intercapedine tra la mia vita e l'embrione di<br />
un universo parallelo, mi cerco un posto tranquillo per aspettare.<br />
Venti minuti più tardi sollevo la testa dai documenti che mi hanno consegnato<br />
prima del colloquio, cinque pagine di clausole di riservatezza e una scheda della<br />
trasmissione “Lasciamoli parlare”, in diretta il venerdì sera su Emittente Veneta.<br />
Oltre la vetrata vedo solo il bianco dell'aereo attaccato al finger e la mia immagine<br />
riflessa contro il buio pesto. Dal cappottino afflosciato come un pupazzo sgonfio<br />
su un sedile alla borsa aperta in bilico, sul punto di riversare tutto il contenuto sul<br />
pavimento, ho occupato lo spazio di quattro posti. La stanchezza mi fa espandere<br />
gradualmente come un gelato mezzo sciolto. Ripenso alla domanda di Vizzeri, è<br />
evidentemente sicuro del fatto che a muovermi non sia il denaro. Forse ne è ancora<br />
più certo di me.<br />
Una misconosciuta giornalista padovana si è inventata un nuovo format per l'approfondimento<br />
politico: a ogni puntata invita solo persone dello stesso partito. Gli<br />
ospiti non perdono tempo a interrompersi e a rinfacciarsi le reciproche interruzioni<br />
e hanno ben cinquanta minuti per parlare effettivamente di qualcosa. La trasmissione<br />
è in diretta e il tema lo comunica lei, la sera prima. Gli esponenti del PDL<br />
veneto non hanno ancora accettato l'invito e la cosa inizia a farsi notare.<br />
«Ci serve la vostra... pluralità di punti di vista. In questo caso, però, si dovrà giungere<br />
a una sintesi, ovviamente.»<br />
Ovviamente. Mentre scendo dalla scaletta bagnata dal nevischio di una gelida<br />
notte milanese, mi colpisce, a posteriori, la sensazione della vicinanza fisica con<br />
il funzionario romano. Una pneumatica assenza di odore.<br />
12
Anna e Marco sono molto sposati, in una Milano degli anni Dieci. Anna<br />
vive in bilico tra un’esistenza borghese ben disegnata, un lavoro all’avanguardia<br />
e sogni bohémien. Marco è un dirigente di successo e ha il dono<br />
di prendersi cura di tutto: di lei, delle piante, del gatto Sciòn. Sanno ancora<br />
ridere insieme, tutte le tessere sono andate a posto, perché mai ricominciare<br />
a spostarle?<br />
Cri e Massimo sono la coppia amica, quella con cui festeggiare i compleanni,<br />
scappare nel week end, gustarsi un concerto di nu jazz scandinavo.<br />
Natalie e Daniele sono una coppia creativa dalla carriera<br />
disordinatamente internazionale, che incrocia il quartetto così ben affiatato,<br />
movimentando la scena.<br />
Quando Anna riconosce in Daniele una soul mate e intravede tra loro un<br />
legame misterioso, la faccenda si complica. Gli equilibri instabili saltano,<br />
secondo un effetto domino che avrà conseguenze per tutti.<br />
Le vite <strong>dei</strong> sei personaggi si ingarbugliano in luoghi surreali che sembrano<br />
avere una loro voce nella storia, dalle architetture post-industriali dell’-<br />
Hangar Bicocca, al calore stridente del quartiere Isola, alla natura imperfetta<br />
di Framura.<br />
Elena Ghiretti viviseziona la coppia e i meccanismi della seduzione con<br />
uno sguardo che oscilla tra perfidia ed empatia, intessendo una ragnatela<br />
di piccole manie quotidiane, sogni romantici fuori tempo, episodi grotteschi,<br />
da cui emergono tre figure femminili emblematiche, donne sull’orlo<br />
di una mutazione antropologica in un’Italia alla deriva.<br />
Elena Ghiretti è architetto, si occupa di innovazione, e ha messo insieme<br />
una carriera improbabile. È stata prospective marketing manager in multinazionali<br />
chimiche svizzere, ha fatto ricerca blue sky su scenari tecnologici<br />
futuri e ha gestito licenze profumate. Oggi si occupa di strategia di<br />
marca e trend forecast per marchi del Made in Italy. Ha esordito nel 1999<br />
con un racconto pubblicato da MarieClaire, poi per anni non ha trovato il<br />
tempo per la scrittura. Oggi il tempo l’ha ritrovato e tiene tre blog: donnealpha.blogspot.com,<br />
lostinstyle.splinder.com e mia-mi.it. Questo è il suo<br />
primo romanzo.<br />
14
Duepertre, Elena Ghiretti.<br />
½<br />
BLUE<br />
Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone.<br />
#<br />
«A che ora dobbiamo essere là?»<br />
«Alle nove.»<br />
«Nove in punto? Te la fai o no la doccia? Guarda che io tra un quarto d’ora sono<br />
pronta.»<br />
«Io ci metto dieci minuti.»<br />
«Figurati.»<br />
«Vedrai.»<br />
#<br />
Anna è in piedi nella cabina armadio. Le mani sui fianchi, il piede destro appoggiato<br />
al polpaccio sinistro in una versione fiacca dell’Albero, fissa il groviglio di abiti<br />
giacche bluse pantaloni gonne gilet camicette.<br />
Aspetta. Sa che magicamente, come sempre, si manifesterà l’outfit perfetto per la<br />
serata. Deve solo scegliere il primo pezzo, poi gli altri seguiranno per catena semiotica.<br />
Allunga una mano, sfiora rasi di seta fredda, ruvidi crêpe di lana, viscose sottili,<br />
maglie di cashmere impalpabili come nuvole. Si ferma per un attimo su un abito<br />
nero in lino drappeggiato. Diana alla caccia? Troppo esplicito.<br />
Qualcosa di più cerebralmente sensuale.<br />
Si blocca su un paio di pantaloni a sigaretta in cotone pettinato color malva. Con<br />
il kaftano di seta acquerellata? Glielo hanno già visto. Mette a fuoco un gilet nero.<br />
Chiude gli occhi. Sì. Questa sera sarà una Annie Hall.<br />
#<br />
Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone, al loro tavolo per sei<br />
in seconda fila, visibilità discreta.<br />
#<br />
Marco accende la doccia, si toglie la camicia e la getta nel cesto ricolmo. Questa<br />
settimana non è ingrassato. Ma non è nemmeno dimagrito. Deve riprendere il tennis,<br />
la partitella a calcetto del mercoledì non è sufficiente. Poi ormai sono tutti un<br />
po’ acciaccati, vanno a rilento, non si corre più come quando avevano trent’anni.<br />
15
Rimane a lessare nel vapore davanti allo specchio, analizzandosi di tre quarti, poi<br />
ruotando il busto di profilo, fino a quando la propria immagine non si dissolve nella<br />
nebbia.<br />
Rimane fermo con gli occhi chiusi sotto il getto caldo, cercando di lavare via il<br />
senso di allerta per la serata che l’ha accompagnato tutto il pomeriggio.<br />
Non è sicuro di volersi fare la barba. L’ha tagliata stamattina. Forse è meglio non<br />
avere un aspetto troppo studiatamente curato. Lasciare un grado di approssimazione<br />
disinvolta.<br />
Il fatto è che non ha un quadro preciso del pericolo. Sa solo che deve stare in<br />
guardia.<br />
#<br />
Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone, al loro tavolo per sei<br />
in seconda fila, visibilità discreta. Sorseggiano un balloon di vino rosso e cercano<br />
di colmare lo spazio lasciato dai posti vuoti con arie da connoisseur.<br />
#<br />
La sala del Blue Note è immersa in una penombra serica. C’è quasi tutto: i tavoli<br />
rotondi, il palco, la balconata, il chiacchiericcio di fondo, il ghiaccio nei drink,<br />
l’aspettativa da pre-concerto. Potremmo essere davvero a New York o dentro Mo’<br />
Better Blues. Ma siamo a Milano, è novembre e fuori c’è l’Isola sotto la pioggia.<br />
«Prova a richiamare Massimo, manca poco» Anna ovatta la voce.<br />
«Stanno arrivando, piantala di agitarti. Al limite perdono l’inizio, che c’è?» e, dopo<br />
un secondo, «Hai chiuso la porta della cucina?» Se ne frega di abbassare il tono,<br />
per ora.<br />
Riprende a studiare il menù. Mazzetto di asparagi con uova di quaglia, veli di suprema<br />
d’anatra leggermente affumicata, salsa spumosa all’orientale. Spumosa.<br />
Rieccoci. Spume ovunque, pure al Blue Note, tutta colpa di Adrià.<br />
«Ordiniamo?» dice Marco mentre sta già studiando i dessert, meglio portarsi<br />
avanti.<br />
«Ma non possiamo ordinare solo per noi, non è carino.»<br />
«Lo sai che odio mangiare in faccia ai musicisti. E poi Cri e Massimo prendono<br />
solo una portata, noi possiamo iniziare con un antipasto. Gli altri non so.»<br />
«Gli altri? Intendi The Others?»<br />
Anna imposta sopracciglia sarcastiche, posa il bicchiere al rallentatore. È tentata<br />
di intavolare una discussione, ma si censura. Si rifiuta di creare tensioni, ha solo<br />
voglia di crogiolarsi in quel buio vellutato, pregustarsi la serata.<br />
«Aspettiamo ancora cinque minuti.»<br />
«Anna, il concerto sta per iniziare.» (Tentativo di tono autorevole).<br />
Anna fa la sfinge. Tiene lo sguardo fisso sul palco. Le si stanno già gonfiando i<br />
piedi, c’è troppo caldo. Sbircia furtiva sotto il tavolo e scopre che la tovaglia bianca<br />
arriva fino a terra, un sipario sicuro se volesse sfilarsi le scarpe più tardi. Certo<br />
che le stringate non si prestano all’operazione.<br />
16
Si aggiusta una ciocca lasciata volutamente libera dallo chignon lento, si guarda<br />
attorno e prende atto di non essere osservata. Rimane sempre un po’ delusa. È<br />
difficile accettare di non essere più la più bella della situazione, anche se si difende<br />
piuttosto bene. Mantiene in media una terza o quarta posizione, a seconda degli<br />
ambienti. Certo in un party di ventenni ormai scompare, risucchiata in una palude<br />
invisibile. Dipende anche dalle giornate e dalle cure preparatorie. Per questa sera<br />
si è regalata un Oxygen, niente di invasivo, solo ossigeno spruzzato sul viso con<br />
un aerografo. Un po’ di freschezza, tre anni in meno per qualche giorno. Ma la<br />
notte scorsa non ha dormito e gli occhi non sono luminosi come vorrebbe. Per fortuna<br />
il buio aiuta, sempre.<br />
Marco vorrebbe sparire dalla scena. Sbriciolarsi e ricomporsi in Malesia, su una<br />
spiaggia oceanica, a contare paguri. I paguri sì che sanno vivere. Se si mette male,<br />
basta ritrarsi nella propria conchiglia. E quando la conchiglia è troppo stretta, se<br />
ne cerca una più adatta a sé e ci si trasferisce, senza tanti patemi. La società <strong>dei</strong><br />
paguri questo lo accetta. Una bella vita monotona. A fare e disfare ricami di sabbia,<br />
pronti a essere schiacciati da piedi umani e code di rettile. Un po’ frustrante, ok,<br />
ma semplice, lineare, senza casini emotivi, al massimo qualche ansia da riproduzione.<br />
Ma i paguri sono ermafroditi come le lumache? Si guarda furtivo attorno,<br />
estrae il blackberry dalla tasca della giacca di Piombo, lo tiene in pugno sotto il tavolo,<br />
vigile. Tenendo il mento alzato con aria estremamente disinvolta, riesce a digitare<br />
sessa paguro sulla mini tastiera. Forse intendevi sesso paguro? Sì,<br />
intendevo sesso paguro. Risultati della ricerca: ottocento pagine di sesso paguro.<br />
Un sacco di ristoranti Il Paguro. Tutti al Paguro per orge romane? Nel forum di<br />
Animali nel mondo punto com Lepre e Acciuga disquisiscono sui loro terrari domestici.<br />
In Pescare a Messina punto com si affronta la difficile pratica di innescare<br />
il paguro. Innescare il paguro? Paguro come bomba? O come esca? Che orrore.<br />
Marco sente gli occhiacci di Anna sulla guancia. Gli occhiacci di Anna potrebbero<br />
sterminare un esercito di paguri in un solo istante.<br />
«Stai usando il blackberry?»<br />
Il tono non è amorevole. Meglio sospendere la ricerca zoologica.<br />
Mentre Marco fa sgusciare la propria protesi tecnologica dentro la tasca <strong>dei</strong> pantaloni<br />
del sarto, i musicisti fanno la loro entrata sul palco finalmente illuminato, accolti<br />
da applausi milanesi, un po’ diffidenti. Come ogni altra cosa in questa città,<br />
anche gli applausi devi sudarteli, non si regala consenso a priori, a meno che la<br />
tua fama non sia planetaria da almeno due generazioni, il che non vale per l’ensemble<br />
di nu-jazz scandinavo di scena questa sera.<br />
Anna e Marco spariscono nel buio della sala, il tavolo troppo grande nasconde il<br />
proprio imbarazzo confondendosi tra pieni e vuoti senza più contorno.<br />
Sui primi accordi strumentali, ecco comparire Massimo. Si muove tra i tavoli col<br />
suo passo molleggiato, cercando di limitare il disturbo, costernato. Scusate. Scusate.<br />
Li ha individuati, ha strizzato gli occhi miopi e ha puntato su di loro. Cri non<br />
si vede ancora, si sarà attardata al guardaroba con gli altri. No, eccola che spunta,<br />
il musetto da topo biondo fa capolino da dietro la giacca dell’eterno fidanzato.<br />
«Scusateci, non si trovava un taxi.» (Squittio al silenziatore).<br />
«Siete soli?» (Bisbiglio soffocato dagli applausi fiacchi).<br />
17
«Natalie non sta bene, alla fine non sono usciti. Gli abbiamo rivenduto i biglietti.<br />
Avete già ordinato?»<br />
I loro sussurri si intrecciano agli accordi, lamenti di un gatto idrofobo. I musicisti<br />
sono tutti biondi. Tutto può ancora succedere, sul palco.<br />
Anna si sforza di non mostrare delusione, la tiene bloccata dentro, ma sente la<br />
faccia che le scivola giù. Si aggrappa al menù fingendosi concentrata, ma sa di<br />
essere un’attrice mediocre.<br />
Marco ha un’espressione da cessato allarme, trattiene l’ultimo sorso di Shiraz tra<br />
il palato e la lingua, si lascia sprofondare nella poltroncina, trasportato dalle prime<br />
note del concerto.<br />
1<br />
BLUES<br />
Com’era, prima? C’è stato un prima? Quanto tempo è passato da quella sera al<br />
Light? Sei mesi? Un anno? E tra il primo e il secondo incontro, al compleanno di<br />
Cri? Anna si sta attorcigliando su se stessa e vorrebbe srotolarsi, è scomodo stare<br />
così. Non riesce a mettere in sequenza esatta gli eventi e a collocarli nel suo calendario<br />
mentale.<br />
Sciòn la guarda, raggomitolato sui suoi piedi, con gli occhi tondi un po’ ebeti e le<br />
vibrisse tese. Si sta sforzando di capire quello che le passa per la testa. Ha una<br />
faccia ottusa, con l’iPad sulle ginocchia e lo sguardo perso nella parete di fronte.<br />
Forse vuole cambiare di nuovo la disposizione <strong>dei</strong> quadri. Forse vuole rimetterli a<br />
terra, come piacevano di più a lui, che ci si poteva rifugiare dietro quando arrivava<br />
la donna con l’aspirapolvere. Era anche un buon nascondiglio per il topopeloso.<br />
Spera solo che questo suo stato catatonico non ritardi il secondo round di pappa,<br />
all’alba il tonnetto con i gamberi faceva schifo e ne ha mangiato solo metà, sforzandosi<br />
per farle piacere.<br />
Anna sistema il cuscino in memory foam dietro la schiena. Eppure – pensa – il<br />
tempo nella sua testa è in ordine, scandito da cinque giorni lavorativi e due festivi,<br />
e si addensa attorno a eventi-cardine annuali imposti dal calendario Corporate-<br />
Cattolico-Locale: gennaio-marzo lavoro intenso, Pasqua, ponte del 25 aprile, ponte<br />
del 1 maggio, maggio-giugno lavoro intenso, luglio e agosto spina staccata, settembre-dicembre<br />
lavoro intenso, ponte di sant’Ambrogio, Natale, 20 dicembre-6<br />
gennaio spina staccata. Anno dopo anno, da quando è rientrata in Italia.<br />
Non c’è possibilità di tregua, non è ammessa flessibilità, o vie di fuga.<br />
Anche ora che potrebbe svincolarsene, lavorando in proprio – di cosa ti occupi?<br />
Consulo – e potendo gestirsi le giornate come le pare, rimane ancorata a questo<br />
imprinting atavico.<br />
Possibile che sia finita imbrigliata in uno schema mnestico, proprio lei che come<br />
titolo in LinkedIn ha Visionary? Deve essere l’ascendente Vergine che avanza.<br />
Se un martedì si trova ad avere la mattinata libera, mica riesce ad andare in giro<br />
a fare cose da sabato pomeriggio. Sente la città che corre, l’energia che solleva<br />
l’asfalto, lo smog che vibra, i telefoni fissi che urlano, i cellulari untuosi appiccicati<br />
18
alle guance, gli ingorghi auto-indotti, la nevrosi che scorre nelle strette di mano.<br />
Come può cazzeggiare quando tutti attorno a lei lavorano, o fingono molto bene<br />
di essere impegnatissimi? Si rende conto che a volte prende appuntamento dal<br />
parrucchiere in pausa pranzo, quando potrebbe benissimo andarci alle tre del pomeriggio.<br />
Ma come ci si può presentare da Di Luca alle tre del pomeriggio di un<br />
mercoledì? Sarebbe come ammettere di essere diventata una qualunque Giacomazzi<br />
del Centro-Ovest, di quelle con il giusto punto di biondo e la messa in piega<br />
vaporosa.<br />
Lei non è così, oh no. Lei viene da molto lontano. E porta ancora i capelli da ventenne.<br />
Così continua a muoversi a gincana in un’agenda immaginaria, evitando<br />
ostacoli inesistenti. Entra da Di Luca finto-trafelata, sempre un po’ in ritardo, come<br />
se arrivasse da un pranzo di lavoro al ristorante piacentino all’angolo, anche se in<br />
realtà fino a cinque minuti prima era stesa a gambe in su con una maschera in<br />
tessuto-non-tessuto sul viso.<br />
Ha voluto rallentare. È che forse ha rallentato troppo.<br />
Sciòn è costretto a cambiare ancora posizione, visto che lei non sta ferma con i<br />
piedi. Stende le zampe e ci mette il muso in mezzo, soluzione precaria. Oggi è fastidiosissima.<br />
E non dà segni di alzarsi per andare in cucina. Se ne sta lì da un’ora<br />
a non fare niente. Prima è suonato il telefono fisso e lei niente.<br />
Se tutto è continuato a fluire secondo le regole – intanto continua a rimuginare<br />
Anna – come può non ricordare il prima? Il tempo è diventato pastoso, sotto la superficie<br />
liscia delle cose. Lì sotto è successo qualcosa.<br />
La delusione le è rimasta incrostata addosso dalla sera precedente, al Blue Note,<br />
e non per colpa del concerto surreale. Non è servito farsi lo scrub ai cristalli di zenzero,<br />
mettersi biancheria pulita Grazia‘Lliani e spruzzarsi l’eau parfumée au té<br />
blanc sui capelli e sui polsi. Di solito così recupera comfort ed equilibrio. Oggi no.<br />
Un’altra occasione mancata. Questa volta sembrava tutto a posto.<br />
Non va bene, così. Ricominciano nausea e languore insieme. Deve esserci ancora<br />
una mela cotta nel forno.<br />
Ha bisogno di rimettere in fila i fatti. Forse così scoprirà il punto in cui si è ingarbugliato<br />
tutto. C’è stato forse un momento in cui la realtà avrebbe potuto prendere<br />
una piega diversa, alla Sliding Doors.<br />
Anna si alza e si avvia verso la cucina. Sciòn segue ogni suo gesto con grande<br />
attenzione. Finalmente si è ricordata di lui, e che cavolo. Scende dal divano, si<br />
stira sulle zampe inarcando la schiena concavo-convessa, zampetta fiducioso<br />
verso il corridoio già pregustando il pranzo. Speriamo che sia manzo, speriamo<br />
che sia manzo, speriamo che sia manzo. È solo a metà strada quando la vede<br />
tornare indietro come sonnambula, superarlo indifferente e tornare in sala. Lo sta<br />
prendendo per il culo?<br />
Anna torna a sedersi, una gamba piegata di lato come di gomma, e affonda i denti<br />
nella mela spappolata caramellosa.<br />
Il Light. Di chi era la festa? Forse di Sergio. Sì, di Sergio, l’amico cretino di Massimo.<br />
Chi vuoi che organizzi ancora una festa al Light, se non lui. Faceva freddo,<br />
doveva essere febbraio, perché lei indossava l’abito nero di Michael Kors con<br />
sopra il cardigan ampio di lana e gli stivali lunghi scamosciati. Un anno fa, allora.<br />
19
Gli avevano comprato last minute quel vaso di gomma di Italian Independent. Il<br />
vaso di Lapo. Che vergogna. A pensarci ora, perfetto per Sergio. Sembrava più<br />
un pallone da rugby sgonfio.<br />
Quindi, il Light. Cri e Massimo erano già lì. Cri era ancora un personaggio dai contorni<br />
sfumati, un profilo da Nefertiti albina, lei e Massimo si stavano frequentando<br />
solo da pochi mesi. Che strano, ora sono il loro orizzonte, uno status quo.<br />
Glielo aveva presentato lei, era venuto – solo – con loro due. Aveva una giacca di<br />
velluto a coste nera ed era molto più alto di lei, che significa essere almeno un<br />
metro e ottantacinque. Di cosa avevano parlato? Possibile che in quel momento<br />
non avesse attivato tutti i dispositivi di registrazione live, assorbendo ogni parola<br />
e gesto?<br />
Ha sporcato il bracciolo del divano con un pezzo di mela cotta, le mani sono tutte<br />
appiccicose, butta il torsolo molle con i semi nel piattino, si lecca le dita, non si<br />
muove di lì.<br />
Si sta sforzando di mettere a fuoco la scena, ma i pezzi rimangono staccati e l’insieme<br />
è un magma fluttuante con dentro qualche Kir Royal, tende bianche, molti<br />
mojito, musica lounge datata, facce di spugna vagamente familiari, palloni da<br />
rugby sgonfi, profili di Nefertiti, giacche di velluto a coste.<br />
Sciòn si guarda bene dal tornare a scaldarle i piedi. Si arrampica su un altro divano<br />
vuoto, piantando con perizia le unghie nella trama del tessuto, gira a ciambella un<br />
paio di volte e si adagia, voltandole le spalle, sdegnato.<br />
Quello che Anna ricorda con più chiarezza è la reazione di Marco.<br />
Mentre stava chiacchierando con lui – avevano parlato <strong>dei</strong> propri lavori, adesso il<br />
file si ricompone, e avevano scoperto di avere frequentato la stessa università, e<br />
lì doveva avere pensato ma guarda che coincidenza – si era accorta che Marco li<br />
stava fissando, da un gruppetto ridacchiante all’angolo opposto della sala. Era durato<br />
giusto uno scambio di occhiate.<br />
Piripì piripì piripì piripì – il suono odioso dell’asciugatrice la avverte che le lenzuola<br />
sono pronte – piripì piripì piripì piripì – si alza e corre nel bagno di servizio – piripì<br />
piripì piripì piripì – si fionda sul pulsante arancio e lo stoppa – pì. Torna ad accoccolarsi<br />
sul divano con le ginocchia in grembo, allunga un braccio per accendere<br />
la sua lampada da lettura-value-for-money-di-designer-emergente. Che schifo di<br />
tempo, anche oggi.<br />
C’è stata quella frazione di secondo in cui ha sentito gli occhi di Marco su di loro.<br />
Ora le piacerebbe infilarsi in quella scena e sgusciare dentro Marco come in Ghost<br />
per osservare quei due comportarsi come vecchi amici che non si vedono da anni,<br />
ma che in realtà non si sono mai incontrati prima.<br />
Lei sembra disinvolta, gesticola per spiegare meglio qualcosa, ha le spalle nude.<br />
Lui è un po’ chino su di lei per sentirla nel frastuono che li avvolge, ha le mani in<br />
tasca e sorride.<br />
Sono perfetti. Sembrano stati progettati per essere lì insieme a parlare dentro quel<br />
locale con le luci sexy e le tende bianche, arrivano da due traiettorie lontane che<br />
finalmente si sono incrociate, dopo alcuni inspiegabili depistaggi.<br />
Peccato che lei sia sua moglie.<br />
«Hai parlato tutta la sera con quello là.»<br />
20
«Tutta la sera, che esagerato. Due parole! Viene dalla mia scuola, non conosco<br />
nessuno qui che abbia studiato a Venezia!»<br />
«Ci ha provato.»<br />
«Macché provato, me l’ha presentato Cri, ti pare? È un suo amico.»<br />
«È alto. Avete parlato per ore. Chiedi a Massimo.»<br />
«Togli quelle scarpe dal tappeto?»<br />
Anche standosene acquattata sotto la pelle di Marco non riesce ad afferrare la<br />
sua gelosia proattiva, senza precedenti. Continua a sembrarle irreale e fuori luogo.<br />
Marco non era mai stato geloso. Disonesta e ipocrita fino all’osso. (Chi ha parlato?)<br />
Lei che possiede dalla nascita il Cromosoma Gelosia, sospettosa e diffidente nei<br />
confronti di qualsiasi novità femminile appaia nella vita di Marco: product manager<br />
dalla pelle di alabastro e la dolcezza di un rottweiler, brand manager con i seni a<br />
punta, segretarie di direzione travestite da Valentina, direttori creativi borderline<br />
di agenzie di comunicazione across-the-line, PR biondo miele, avvocatesse anoressiche.<br />
Sospetto a priori. Gelosia preventiva a tappeto, altro che proattiva. (Chi<br />
ha parlato?)<br />
C’è uno strano silenzio oggi, fuori. Dove sono finiti i trapani e le martellate del cantiere<br />
all’angolo? La rilassavano.<br />
Di quella sera una cosa le era rimasta, di certo: il suo cellulare. Glielo aveva chiesto<br />
lei, sull’onda dell’entusiasmo da compagni-di-università-mancati. Questo a<br />
Marco non lo aveva detto, ammette. E per un lungo periodo si era persino scordata<br />
di avercelo, quel numero.<br />
La macchia sul divano le dà un fastidio tremendo. Ha provato a non farci caso,<br />
ma ora sta diventando insostenibile. Si alza di nuovo, con fitta lombare, e va a<br />
prendere un panno inumidito con cui cerca di pulire via i residui di mela. Sfrega<br />
piano, per non far scolorire l’azzurro e il rosso. Un alone beige si allarga attorno<br />
al peccato originario.<br />
Sciòn le sta ancora girando le spalle. Monitorizza i suoi movimenti con l’udito e<br />
l’olfatto, standosene stravaccato lì, occhi chiusi. Non lo frega più, con le sue finte<br />
mosse.<br />
L’iPhone vibra sul tavolo, poco distante. Anna molla lo straccio e va a vedere chi<br />
è.<br />
La faccia di Marco la guarda da una foto di cinque anni prima.<br />
«Hello?»Anna si accorge che la batteria è quasi scarica.<br />
«Hellooooh, che fai oggi?»<br />
«Devo andare in Campari, per Londra.»<br />
«Avete già fissato la data?»<br />
«Circa. Fanno casino con le agende, non so se ne usciremo. Tu? A che ora arrivi,<br />
caaaro?»<br />
«Pensavo di andare in palestra, prima.»<br />
«Uuuh, i Buoni Propositi reggono ancora!»<br />
«…Hai portato la Smart a far revisionare?»<br />
«No.»<br />
21
«Cosa aspetti? Che si rompa? Non hai cura delle cose.»<br />
«Io ho cura delle cose, fin troppa. Ti ricordi di passare a pagare la tintoria? Sono<br />
due settimane.»<br />
«Arrivo alle nove.»<br />
«Ok, preparo per le dieci. Mao.»<br />
«Guarda che io arrivo davvero alle nove.»<br />
«Sì, sì, mao.»<br />
«Mao.»<br />
Marco riattacca e prende in mano una cartella bianca in formato A3, la apre e ne<br />
estrae una tavola con la prima proposta della nuova campagna, la osserva dubbioso,<br />
poi tira fuori la seconda. Le dispone sulla scrivania. Passa lo sguardo da<br />
una all’altra, mentre risponde a un sms di John Cass che lo invita a pranzo alla<br />
trattoria pugliese e allo stesso tempo scrolla le email del mattino, solo cinquantasette,<br />
fino a trovare quella di Timo della Publicis. Dal corridoio si sentono le voci<br />
<strong>dei</strong> colleghi vicino al distributore di junk food. Suona il fisso.<br />
«Adesso no.»<br />
«Quello delle sette da Linate va bene.»<br />
«Pensaci tu, grazie.»<br />
Bussano alla porta e non fa in tempo a dire no che Manuela si affaccia dentro con<br />
aria tapina, lo guarda supplichevole, occhioni da vitello.<br />
«Alle dieci.»<br />
«Ma abbiamo bisogno adesso, CAPO.»<br />
«Ci vediamo in sala Jupiter alle dieci, ce la puoi fare.»<br />
La porta si richiude, stizzita.<br />
Marco ruota verso la finestra, afferra l’annaffiatoio d’acciaio e versa un po’ di acqua<br />
nella terra degli otto vasi che compongono la sua mini-giungla, uno a uno, scivolando<br />
con la poltroncina come un leprotto su un prato, dosandola con precisione.<br />
La sua giungla l’ha seguito di ufficio in ufficio negli ultimi tre incarichi. Con qualche<br />
caduto, certo, e qualche sostituto, non tutte hanno superato il trauma da ambientamento.<br />
Ripone l’annaffiatoio e passa a studiare le foglie della Sanchezia Speciosa,<br />
che si sono un po’ ingiallite. Luce naturale troppo diretta? Dovrebbe spostare<br />
il vaso. Non ora. Passa ad analizzare la Tradescantia, toglie con delicatezza le foglioline<br />
secche. Lei invece ha bisogno di più luce artificiale, quegli idioti delle pulizie<br />
devono avere ripreso a spegnere la lampada la sera, deve ricordarsi di dirlo a<br />
Laura.<br />
Guarda fuori, nebbia. Ieri sera cosa può essere successo? Perché Daniele e Natalie<br />
non si sono presentati? Che lei abbia capito qualcosa e lo abbia costretto a<br />
non andare? C’è davvero qualcosa da capire? Anna è sempre più strana. Si è dimenticata<br />
ancora di portare la Smart a revisionare. No, questo non è strano. Non<br />
gliene frega nulla delle incombenze pratiche, preferisce che siano gli altri a occuparsene.<br />
Ma è strana. Si è messa a leggere Le regole dell’attrazione, l’ha scovato<br />
nella libreria, sepolto tra gli altri Einaudi. Era in seconda fila, per cui deve averlo<br />
proprio cercato. È una lettura da anni Ottanta, non ha senso rileggerla oggi, anche<br />
se è ufficialmente in atto il revival. E martedì ha voluto a tutti i costi rivedere The<br />
22
Kids Are All Right, dove Julienne Moore tradisce Annette Benning – fighissima<br />
anche da lesbica, col capello corto da pulcino arruffato – con Mark Ruffalo, che<br />
sembra uno degli Ewok, gli orsetti di Star Wars. Un po’ bolso, e non altissimo, in<br />
effetti. Sempre di tradimento si tratta, anche con un Ewok sovrappeso.<br />
Si sposta con la sedia di nuovo verso la scrivania, riprende in mano la prima proposta<br />
della campagna, è tutta sbagliata. Non hanno capito il brief, quei coglioni.<br />
Apre l’email di Timo, schiaccia un Reply to All.<br />
Stasera deve assolutamente andare in palestra.<br />
1 ½<br />
VALS<br />
Quel week end.<br />
Stavano insieme da poco, ormone galoppante, coppia non ancora simbiotica.<br />
Erano partiti tardi, da Milano. Al passo del San Bernardino: fuori un metro di neve<br />
ai lati della strada e paesaggio lunare, dentro il primo <strong>dei</strong> Franz Ferdinand. Nessun’altra<br />
auto, solo loro. Aveva ripreso a nevicare.<br />
Anna teneva i piedi sul cruscotto e guardava fuori. Marco, che a chiunque altra<br />
avrebbe fatto pesare la faccenda <strong>dei</strong> piedi sul cruscotto, ogni tanto sbirciava il suo<br />
profilo, estasiato.<br />
Avevano fatto battute sceme sui Grigioni. L’Abominevole Uomo <strong>dei</strong> Grigioni se ne<br />
stava probabilmente nascosto dietro i muri di neve, e loro erano spacciati.<br />
Dopo un’ultima curva a gomito, ecco nel buio bianco il leggendario villaggio di<br />
Vals. Quattro case-baita e quattro case da architetto svizzero razionalista. All’apparenza<br />
vuote.<br />
Erano già le nove quando si erano trovati nel piazzale di fronte all’hotel, illuminato<br />
di blu dall’insegna al neon Therme Vals.<br />
Una receptionist <strong>dei</strong> Grigioni li aveva accolti compunta e gli aveva consegnato le<br />
chiavi di una delle stanze temporanee. Le chiamavano da anni le stanze temporanee,<br />
quelle disegnate da Zumthor, il falegname poeta architetto, che progetta<br />
con la memoria.<br />
Stavano per entrare nell’ascensore, quando la ragazza li aveva raggiunti.<br />
«Stasera le terme sono aperte fino alle undici. Solo il giovedì.»<br />
Le porte si erano richiuse come un sipario metallico. Anna e Marco si erano guardati<br />
nella luce gialla dell’ascensore e a un tratto li aveva colti un’euforia infantile,<br />
una gioia stupida per quella notizia inattesa. Le piscine aperte di notte, e chi lo immaginava.<br />
Ceneremo dopo, oppure non ceneremo affatto. L’avventura.<br />
Erano corsi in camera, gettando i bagagli sul pavimento bianco lucido – tutta la<br />
stanza era un guscio bianco lucido, costellato di pochi pezzi scelti dalla storia del<br />
design del Novecento, eccetto la tenda rosso cangiante e il tappeto afgano – si<br />
erano spogliati inciampando nei jeans e negli stivali buttati in giro, si erano infilati<br />
un costume a caso e, avvolti nell’accappatoio, si erano sparati di nuovo nel corridoio<br />
da Overlook Hotel, in un crescendo di eccitazione. Le terme stavano sotto,<br />
nel basamento. L’albergo sembrava deserto. Solo loro due risucchiati nelle viscere<br />
23
minerali.<br />
Si erano ritrovati, spugna contro spugna, all’inizio di una sala lunga e stretta, l’aria<br />
improvvisamente calda, pareti e pavimento rivestiti di ferro, un primo segno d’acqua<br />
che corrodeva il materiale in una striscia di ruggine. L’acqua si avvicinava a<br />
ogni passo, ora la potevano sentire scorrere lungo la parete, e forse aspettarli giù<br />
in fondo.<br />
Non si immaginavano nulla, alla fine. Era già bello attraversare quello spazio vicini,<br />
toccandosi appena, senza guardarsi.<br />
Sbucati fuori invece erano stati sopraffatti. Un’architettura colossale e minimale,<br />
tutta in ardesia, un labirinto nero sommerso dall’acqua.<br />
Erano rimasti sulla soglia, respirando piano come per non disturbare. Si erano immersi<br />
lentamente nell’acqua calda e densa, sapone vellutato liquido che scivolava<br />
sulla pelle e avvolgeva il corpo. Silenzio assoluto, scandito solo dai getti delle vasche<br />
esterne. Si erano spinti fendendo la superficie a bracciate ampie, uno dietro<br />
l’altra, fino a un varco da dove proveniva una corrente fredda.<br />
Anna stava davanti, la più intrepida. Marco poteva scorgere nella penombra i capelli<br />
bagnati sulla nuca, appiccicati alla pelle ancora ambrata dall’estate lontana.<br />
Avrebbe voluto allungare la mano e toccarli, sfiorarle il collo sottile, invece no.<br />
Di colpo si erano trovati fuori, il corpo coccolato dall’acqua calda, le orecchie nel<br />
vapore gelido. I volumi geometrici proseguivano senza interruzioni, come lava<br />
scura tagliata di netto.<br />
Anna si era spinta fino al centro della grande vasca, attraversando la nebbia che<br />
profumava di quarzo e neve.<br />
Marco l’aveva seguita e si erano trovati con le teste vicine. Non si erano nemmeno<br />
baciati, troppo ovvio. Avevano solo tenuto le tempie a contatto, pulsazioni bagnate,<br />
occhi chiusi. Poi Anna aveva sollevato lo sguardo.<br />
Sopra di loro, oltre il vapore, una stellata limpida <strong>dei</strong> Grigioni che conteneva tutti i<br />
cieli possibili.<br />
«Hai visto?»<br />
Il firmamento al completo in una mezzanotte senza inquinamento luminoso nel<br />
deserto di Ouarzazate dal tetto della Kasbah, dopo avere attraversato l’Atlante su<br />
una Peugeot 205 con centomila km di noleggio (Quanto credi ci metteremo? Bah,<br />
massimo due ore. Stai scherzando, vero?). Una striscia di alba sul mare di Grenada<br />
dalla veranda del cottage, dopo tre cocktail speciali del barman killer (Hai<br />
notato con che precisione affetta il lime?). Un Grande Carro dispiegato IMAX sull’Egeo<br />
dalla terrazza della casetta di Sifnos, prima di una sessione erotica al Meltemi<br />
(Devo confessarti una cosa. Cosa? Io questo vento lo odio, mi piacevano di<br />
più i giorni senza. Ottimo, siamo passati dal collasso alla nevrosi). Un pezzo di<br />
cielo grigio smog dal balcone della loro casa milanese, zeppo di piante asfittiche,<br />
bottiglie oblunghe di vino altoatesino, siciliano, bordolese, cristalli per lettiera, terra<br />
acida, rosmarino alle polveri sottili (Perché non usi il nostro rosmarino per il sugo?<br />
Marco, è tossico).<br />
«Abgeschlossen!» L’inserviente notturno delle Therme Vals, un nibelungo adolescente,<br />
si era materializzato in bianco e nero sul bordo traslucido, mani sui fianchi<br />
nella sua uniforme firmata Zumthor, e li stava fissando professionale.<br />
24
«Dici che dobbiamo andare?» aveva mugolato Anna, sentendo improvvisamente<br />
freddo.<br />
«Linguaggio del corpo inequivocabile» aveva risposto Marco.<br />
2<br />
CANTIERI<br />
Le fette biscottate al kamut integrale sono finite e il trendwalk di Londra rischia di<br />
essere un fallimento. Se Anna riuscisse a concentrarsi su queste due catastrofi la<br />
mattinata potrebbe prendere una piega di normalità. Aggredire il problema e depennarlo<br />
dalla testa. Stare dentro le cose.<br />
Decide di iniziare dalle fette biscottate, per salvare almeno la colazione del mattino<br />
dopo. Aggrapparsi ai rituali quotidiani. Un salto al Centro Botanico potrebbe scuoterla.<br />
Prende le chiavi e se le infila nella tasca del giubbotto. Apre la porta Déco<br />
imbottita di acciaio, se la richiude alle spalle, facendo attenzione che Sciòn non<br />
fugga verso la libertà, guarda la porta. Sciòn è dall’altra parte, fissa il mogano lucido<br />
e non ci trova la soluzione all’enigma. Eppure una ragione ci deve essere, se<br />
oggi l’ha lasciato a stomaco vuoto. Dieta della luna piena?<br />
Dove ho messo le chiavi? Ah. Nella tasca del giubbotto. Per ora non funziona, il<br />
cervello è ancora in standby. Fare le scale di corsa con rischio di scivolare sul<br />
marmo bagnato – ha adocchiato il secchio-con-mocio abbandonato sul pianerottolo<br />
– e sbattere quel che resta della sua coda di primate sullo spigolo dello scalino.<br />
Non sa immaginare nulla di più adrenalinico, al momento. Ci prova. Sbuca in<br />
strada. Nessun ferito.<br />
Traiettoria predefinita, pilota automatico, rotaie di cemento. La gente la scansa,<br />
lei non vede niente. Anestesia totale. Stare dentro le cose. Non funziona. Già è<br />
tornata a galla l’idea. L’idea di tornare a sedurre, abortita. Ha preso corpo in Anna<br />
senza preavviso dall’imbalsamazione del loro ménage certificato.<br />
Imbalsamazione è una parola forte (Chi ha parlato?). Loop, piuttosto. Ecco. È<br />
come se lei e Marco fossero finiti risucchiati dentro un mandala tibetano, a girare<br />
in tondo, ripetendosi sempre le stesse cose, prevedendo con tre secondi di anticipo<br />
le risposte. Succede a tutte le coppie, prima o poi (sicura?). E il loro è un bel<br />
mandala. Disegnato da Ross Lovegrove. Tridimensionale. Climatizzato. E anche<br />
ironico, quasi sempre. Ne sono consapevoli, ci ridono sopra. Le chiamano idiotsincrasie.<br />
Nonostante l’approccio metalinguistico alla crisi <strong>dei</strong> sette anni, l’idea di tornare a<br />
sedurre ha preso corpo in Anna dal loop del loro ménage certificato.<br />
Perché un certificato c’è. Nero su bianco. Il Contratto.<br />
Sono gli unici a essersi sposati, nel loro gruppo di amici. Gli altri convivono da secoli.<br />
Hanno fatto figli, gatti, cani, senza bisogno di sposarsi. Loro invece hanno<br />
convolato verso un sobrio matrimonio laico, senza riprodursi.<br />
Quando Anna l’ha annunciato alla sua famiglia-stretching, riunita un po’ solennemente<br />
nella cornice del Pescatore a Canneto sull’Oglio, tre stelle Michelin, si sono<br />
messi tutti a ridere. Pensavano scherzasse. Anche la zia Poldina ha riso, tenendosi<br />
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il tovagliolo di mussola appoggiato alle labbra increspate. Anche a Nadia Santin,<br />
lo chef stellato, è scappato un sorriso, di là in cucina. La matrigna Agata ha fatto<br />
una battuta pesante. Il patrigno Sergio ha risposto con una battuta più greve. Il<br />
fratellastro Luca ha rincarato ulteriormente, citando Belushi. Quando hanno capito<br />
che non era uno scherzo, ci sono rimasti male.<br />
«Da Vinci Code?»<br />
Cosa c’entra adesso Dan Brown con Belushi? Sì, l'articolo su Vanity della settimana<br />
scorsa. Sembra che l’autore di best sellers interplanetari stia lavorando a<br />
una trama sorprendente sul più grande complotto della storia: un filo rosso sangue<br />
teso tra le morti <strong>dei</strong> miti pop. Elvis Presley, Marilyn Monroe, Jim Morrison, John<br />
Belushi, Kurt Cobain non sono morti, sarebbero stati tutti sequestrati dalla stessa<br />
setta dell’Arizona e vivrebbero nel bunker dell’isola di Lost.<br />
«Scussi, Da Vinci Code?»<br />
Anna riemerge in superficie mettendo a fuoco due ragazzoni con bermuda kaki, tshirt<br />
verde muschio, camicie a quadrettini sottobosco, guida Footprint sotto braccio,<br />
occhi da Husky. Solo due norvegesi delle foreste potrebbero aggirarsi estivi<br />
in una Milano a cinque gradi Celsius. Viaggiatori del Nord, ruvidi. Spiriti liberi. Spartani<br />
dentro. Unghie sporche e menti nitide. Ne ha sempre invidiato il coraggio. Lei<br />
in viaggio non potrebbe mai fare a meno della trousse di prodotti skin care, della<br />
trousse di prodotti body care, della trousse di prodotti hair care, <strong>dei</strong> due phon –<br />
uno per asciugare, uno per lo styling – degli integratori in scatolotto travel, delle<br />
infradito anti verruca. Con gli anni è migliorata, è riuscita a razionalizzare passando<br />
a taglie mini, ma non potrà mai essere un viaggiatore scandinavo, sebbene li abbia<br />
studiati da vicino.<br />
«You mean Cenacolo?» Anna si toglie gli occhiali da Jackie O, svelando le occhiaie<br />
avute in dono dall’insonnia cronica e li strabuzza contro, in un improvviso moto di<br />
orgoglio nazionale.<br />
I due annuiscono biondi all’unisono, ma non è certa che abbiano capito.<br />
«Ok, you have to go back to that narrow street, then take the first on the left, go<br />
ahead until the little square. The church will be on your left. Capito?» È sempre<br />
una soddisfazione poter sfoggiare il proprio inglese fluorescente, smentendo il pregiudizio<br />
infondato glitalianinonparlanolelingue.<br />
«Yess, grassie. Ciiao.»<br />
Le fanno bye bye con le manone e tornano al loro privato concetto di Italia, intessuto<br />
di bellezza e dolcezza, quello che gli italiani hanno perso per strada.<br />
Ora che la bolla è stata infranta, si rende conto di avere già oltrepassato il Centro<br />
Botanico. Cercando di dissimulare l’imbarazzo (e chi la guarda?) fa dietrofront e<br />
torna sui suoi passi freddi.<br />
Varca la soglia a scomparsa e si ritrova in un bellissimo mondo bio.<br />
Se non pensiamo all'immortalità ma all'evoluzione naturale<br />
e alla diversità, rischiamo la felicità. Campeggia arancio – scritto quando era ancora<br />
il colore dell’innovazione, tardi Novanta – sopra gi scaffali del pane e derivati.<br />
Ci si aspetta che lei ne tragga insegnamento?<br />
Afferra un carrello giallo bio e si lascia scivolare lungo un perimetro di rigenerante<br />
fiducia in un futuro migliore. La nebbia triste in cui era avvolta si dipana di fronte<br />
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a questi packaging sorridenti, che riverberano di luce a risparmio energetico, lontani<br />
dal marketing di massa, pensati per pochi, fortunati, eletti. Per chi sa pensare<br />
green e può permettersi di pensare green.<br />
Hanno spostato i medaglioni di seitan. Dove sono i medaglioni di seitan? Io ne ho<br />
bisogno! Panico panico panico. Fino a quanto tempo fa una scoperta del genere<br />
non l’avrebbe gettata nello sconforto? Sono segnali da non sottovalutare. Era abituata<br />
a trovarli nel banco frigo tra le bistecche al tofu e il Camembert caprino. Eccoli,<br />
sono finiti oltre l’area latte vegetale. Menomale.<br />
Mentre stringe tra le mani il suo tesoro sottovuoto, le parte di nuovo il link a tornareasedurre.edu,<br />
sezione primipassi.<br />
Dopo secoli senza flirt, in principio un po’ di gioco le era sembrato salutare. Risveglio<br />
<strong>dei</strong> sensi, pizzicore primaverile, leggerezza ritrovata. E poi una nuova energia,<br />
di quelle rinnovabili e pulite, che le ha regalato uno sguardo nuovo sulle cose<br />
di sempre. Non aveva calcolato la sua predisposizione al dramma sentimentale e<br />
al sogno, e nemmeno la natura di questo nuovo oggetto del desiderio.<br />
È il tè Bancha o il Sencha che manca? Anna fissa lessa i due sacchettini quasi<br />
identici, cercando di ricordare quale nuance di verde abbia buttato nella raccolta<br />
differenziata il giorno prima. Facciamo Bancha.<br />
Aveva sentito parlare di DanieleNatalie in qualche occasione, prima del Light.<br />
Amici di Cri dalla sua vita precedente, erano rientrati da NYC – dopo una tappa<br />
precedente ad Amsterdam – dove avevano vissuto in un mondo fatto di loft di<br />
Brooklyn, colazioni al MoMa, teatri off off, negozi vintage di Nolita, vernissage sulla<br />
Bowery, crogiolandosi nel ruolo di creativi emergenti dalla carriera disordinatamente<br />
internazionale. Antipaticissimi anche solo raccontati. Cri sembrava così orgogliosa<br />
di appartenere al loro passato ed eccitata all’idea di riaverli a Milano,<br />
mmmh, così vicini.<br />
Non c’erano ancora state occasioni comuni, fino a quando la nuova amica-perproprietà-transitiva,<br />
dall’energia inesauribile e sempre avvolta in una nuvola di glamour,<br />
aveva deciso di festeggiare il suo compleanno nel cantiere della casa che<br />
stava costruendo con Massimo. Era arrivata una mail d’invito corale, tono effervescente,<br />
sottocategorie di conoscenti stranamente shakerate, per una attenta al<br />
lato diplomatico dell’esistenza.<br />
Quella sera tutto sembrava casuale e perfetto, anche mentre succedeva, non solo<br />
nel ricordo. Contrariamente al Light, Anna ne conserva una fotografia a fuoco e<br />
fiamme.<br />
Sul pavimento di cemento polveroso si accanivano tacchi funambolici e platform<br />
improbabili, mentre l’aria, satura di profumi di nicchia e calce viva, teneva insieme<br />
commenti e battute stranianti. Anna si era trovata catapultata in una scenografia<br />
così consapevolmente shabby chic, animata da personaggi vagamente appartenenti<br />
all’élite creativa di una città che aveva dato il suo meglio vent’anni prima,<br />
senza riuscire a rinnovarsi. Visi ben disegnati, pensieri originali. E tutti così disinvolti<br />
e fringe. Si era spesso affacciata su questo universo osservandolo con occhio<br />
clinico, attingendone l’essenza per trasformarla in beni di consumo per le masse.<br />
L’aveva usato a fini di marketing, sempre con un retrogusto d’invidia, bloccata dentro<br />
la sua gabbia borghese costruita pezzo per pezzo insieme a Marco.<br />
27
Nella loro vita tutto era al posto giusto, come i cuscini in tinta sul divano di Moroso,<br />
mentre lei di notte sognava un’esistenza da Charlotte Gainsbourg: accovacciata<br />
in un angolo, la cenere della sigaretta sui piedi scalzi (mai fumato), i capelli scarmigliati<br />
sulle spalle nude. Meno certezze e più disinvoltura.<br />
Ora, da dentro, capiva di non appartenere né a un mondo né all’altro, di essere<br />
sempre fuori luogo, ma – anche grazie a un fisico da modella un po’ fané e al collo<br />
da biscotto mangiami – di riuscire sempre a mantenere uno sguardo a volo d’uccello,<br />
proprio sopra le loro teste.<br />
Le vibra la quarta tasca.<br />
«Buongiorno. Bene, tu? Come, c’è un ferito? Cos’è successo? Non ci credo! Ma<br />
tu stai bene? Ah. La spesina. No. No. Sì. No. Stasera? Ma era domani sera. Ah,<br />
è oggi giovedì. Merda. Mi scusi, signora. Niente, niente, una Giacomazzi bio. Ma<br />
sei sicuro? Merda. Mi scusi. Allora prepariamo tutti insieme una pasta, io sono indietro<br />
con Londra. Sì. Ok. Ma proprio The Road? No, così, non allegrissimo. È di<br />
qualità? Così. E ci sono i sottotitoli per Massimo? Ok, ok. Proprio tu devi andarci?<br />
Ok. Mao.»<br />
Bene. L'aspetta una delle loro serate a quattro. Deve riuscire a estorcere informazioni<br />
senza esporsi troppo. Afferra il vasetto da 250 ml di yogurt ai cereali tostati,<br />
che si rovescia dentro il cantiere. Seduta su un’asse di legno da impalcatura, attenta<br />
a non sporcarsi troppo la mise simil-Alexander Wang immaginata per la serata,<br />
stava osservando con interesse da antropologo un gruppetto di ballerini<br />
scalmanati da una posizione sicura, sorseggiando un miscuglio letale di vodka e<br />
altri ingredienti a caso, quando uno <strong>dei</strong> più scomposti e sudati si era staccato ed<br />
era venuto verso di lei, sorridendo di un bianco perossido di carbamide. Era Daniele,<br />
l’uomo con la giacca di velluto. Senza giacca, stavolta. Si era presentato.<br />
Ancora.<br />
Fa finta di non riconoscermi per darsi un tono, è rincoglionito o proprio non si ricorda<br />
di me?<br />
L’ultima ipotesi non reggeva, chi mai poteva non ricordarsi di lei? O erano convinzioni<br />
stantie, retaggio dell’epoca in cui era ancora sul mercato, roba da soffitta?<br />
(Chi ha parlato?)<br />
Deglutita la mezza delusione, aveva raggirato l’ostacolo con un Ma noi ci conosciamo!<br />
Tanto la musica era altissima. Stretta di mano bis, ed era ripreso il dialogo<br />
interrotto. Le si era seduto accanto. L’asse di legno aveva traballato. Aveva le basette<br />
più lunghe, da Lupin III, suo sogno erotico della quinta elementare, dopo Terence.<br />
Anche Marco le porta, brizzolate. Gli accentuano la linea della mascella.<br />
Queste erano basette sconosciute, esotiche. Teneva le gambe accavallate strette<br />
nelle mani intrecciate, come in un talk show. Forse era un’intervista della Bignardi.<br />
Chi era la Bignardi <strong>dei</strong> due? Anna parlava con sottotesto, sospesa su un ponte<br />
elastico verso il Light. Daniele era lì e ora.<br />
Il problema è: cambiare o non cambiare marca di fette biscottate al kamut? Quelle<br />
che ha finito non erano fragrantissime. A lei piacciono tostate-tostate, l'ideale sarebbe<br />
bruciate. Sceglie quelle meno pallide.<br />
L’intimità non si crea, non si distrugge, ma si trasforma, attraversando i corpi? C’è<br />
già in potenza, quando incontri una persona? È lì che cova tra le sopracciglia?<br />
28
Anna non è timida. Su questo sono tutti d’accordo. È risultata per tre anni consecutivi<br />
una Extrovert Intuitive Thinking Perceiving nel test Junghiano della Personalità,<br />
quando lavorava su al Nord. Alla ventisettesima affermazione – You<br />
frequently and easily express your feelings and emotions – ha sempre cliccato<br />
yess. Alle trentottesima – You enjoy being at the center of events in which other<br />
people are directly involved – yesss. Alla cinquantaduesima – You usually place<br />
yourself nearer to the side than in the center of the room – noh.<br />
Ma è anche molto, molto, molto selettiva. Raramente trova le persone interessanti.<br />
Dimmi qualcosa che non so, dimmi qualcosa che mi affascini. Lo spera sempre.<br />
Rimane delusa. Sei noioso, sei saccente, sei banale, parli male, non so di che<br />
parli.<br />
Anna invece ora se ne stava con Daniele dentro una sceneggiatura di Aaron Sorkin,<br />
dialoghi serrati, dritti nel cuore della storia. O era un doppio monologo? Perché<br />
aveva l'impressione che stessero esprimendo uno i pensieri dell'altra, in simultanea.<br />
Forse non si ascoltavano nemmeno. Non stavano nemmeno emettendo<br />
suoni. Uno formulava una frase, l'altro la completava, vasi comunicanti. La musica<br />
era diventata dance, qualcuno aveva attivato una vecchia strobo, attorno la boom<br />
<strong>dei</strong> quarantenni tuonava, e loro in un silenzio biposto. Chissà che ruolo avevano i<br />
ferormoni in questo quadro. Che succede, qui?<br />
Anna era riuscita a schiacciare pausa. Distanza tra i nasi inferiore ai dieci centimetri,<br />
fianchi a contatto, piedi che fanno amicizia. Ground control to Major Tom.<br />
Pipì tattica. Si era alzata adducendo scusa un po' più elegante e si era allontanata<br />
facendosi largo tra abiti a fiori e giubbotti di pelle sudati. Nella traiettoria aveva intercettato<br />
Cri.<br />
«Ti presento Natalie!»<br />
Natalie di DanieleNatalie. La legittima proprietaria delle basette esotiche appena<br />
lasciate a svaporare sulla panca. Bella Natalie. Bel tipo, piuttosto. Sguardo deciso.<br />
Sorriso largo. Elegante. Avranno un accordo da flirt libero? (domanda scorretta).<br />
«Finalmente ci si conosce...»<br />
«Codice?»<br />
Quale codice? Ancora Da Vinci? Anna torna alla terza dimensione e sente gli occhi<br />
addosso della cassiera bio che la sta interrogando. È sempre la stessa, e ha sempre<br />
la stessa aria depressa, a volte puzza di minestra. Oggi no. Il codice non lo<br />
sa, non ha studiato.<br />
«Numero della tessera?» quella insiste.<br />
«2142…» azzarda.<br />
Batte i tastini nervosi, è giusto, deve averlo ripescato chissà da quale scatola.<br />
«Hai visto il regalo di Anna?» la voce di Cri le rimbomba dal dietro le quinte.<br />
Si erano trovate in tre aggrappate a uno chemin de table che Anna aveva scovato<br />
in un negozietto di Berlino Mitte – nell’atelier di Rossana Orlandi sarebbe costato<br />
il doppio, e questa era una gran soddisfazione – a contemplare scaglie di betulla<br />
intrappolate in un rettangolo di lattice trasparente.<br />
«Carino. È legno?» aveva chiesto Natalie col naso appiccicato al suo lembo trasparente,<br />
in un italiano tutto consonanti.<br />
«Credo di sì, sì» le aveva sorriso Anna, studiandole il profilo. È Ingrid Bergman.<br />
29
Non la Rossellini. Proprio l'originale, non il clone. Quindi avrà anche la corporatura<br />
robusta da istitutrice austriaca e le caviglie grosse. Invecchierà bene di faccia,<br />
male di culo. Anna è convinta che esistano tipologie fisiche precise, che dettano<br />
tutti i pezzi e le fasi di un corpo.<br />
«L’hai preso a Milano?» l’aveva incalzata Ingrid-Natalie, mentre Cri si allontanava<br />
di un metro per farsi fotografare Lomo con due tipi alla Mad Men.<br />
«No, ormai non riesco più a comprare a Milano, sono tutti pazzi. Solo all’Isola, al<br />
limite.»<br />
«È vero, ma qualcosa a Milano c’è, se cerchi bene. L’Isola, ma anche Tortona e<br />
Corso Genova» aveva continuato Notorius con aria davvero sicura, per una appena<br />
arrivata in città. Invasione di territorio. La Visionary è lei.<br />
«Di cosa ti occupi?» le aveva chiesto Anna, cercando di suonare genuinamente<br />
interessata e per nulla acida.<br />
«Art Direction» Ingrid aveva piegato la tovaglietta viscida su un mobile improvvisato<br />
con i pallet di legno, mani lunghe lunghe, e le aveva piantato negli occhi due<br />
iridi che potevano essere verde vetro.<br />
«Ah.»<br />
«Tu?» le aveva chiesto a sua volta, senza distogliere lo sguardo indagatore.<br />
Chissà se l’aveva beccata fare la gatta in estro col fidanzato, giusto sette minuti<br />
fa.<br />
«Trend Forecast.»<br />
«Ah.»<br />
Ecco, mettiamo le cose in chiaro.<br />
«Venite a darmi una mano con la torta?» le aveva riacciuffate Cri per la collottola,<br />
con la voce da sbronza felice.<br />
«Marco dove l’hai lasciato?» era riuscita a chiederle Cri mentre una mano pelosa<br />
la agguantava alla vita da Barbie.<br />
Marco? Marco mio marito? Anna si era sentita improvvisamente molto Emma Bovary,<br />
i pallet si erano tramutati intorno a lei in trumeau ottocenteschi, il cemento<br />
sotto i suoi piedi si era sciolto in un lucido pavimento alla veneziana e alle pareti<br />
erano apparse cornici dorate, che le cantavano in coro: Marco dov’èèè?<br />
Aveva aguzzato gli occhi a fatica, passando in scansione quel tugurio degno di<br />
un set di Vogue Italia. E Marco si era materializzato laggiù in fondo, a confabulare<br />
placido con Massimo e altri tre omuncoli del loro gruppo storico, un insano ibrido<br />
culturale tra la trilogia della fuga di Salvatores e tutti gli Amici Miei. Marco era normale.<br />
Mentre se ne stava lì, metà Anna e metà Emma, qualcuno o qualcosa l’aveva<br />
presa per mano e l’aveva trascinata in mezzo a un groviglio di braccia e visi ondeggianti<br />
al ritmo di revival anni Settanta, tracce scelte a turno da dj improvvisati<br />
dietro un vecchio computer appoggiato su una pila di casse di Lambrusco piacentino,<br />
tra i bicchieri di plastica abbandonati. Era Daniele e anche questo era normale,<br />
no? (Chi ha parlato?)<br />
Aveva ballato, a una distanza variabile da lui ma sempre nel suo raggio, mescolata<br />
al gruppo, le braccia in alto intrecciate a molte altre braccia sconosciute. Si erano<br />
sfiorati per caso, poi erano stati allontanati dal magma saltellante ed era stata tra-<br />
30
sportata in una zona neutra, dove Marco le stava porgendo la giacca per andarsene.<br />
Aveva cercato di ritrovare quella figura dinoccolata, ma senza troppo impegno.<br />
Così lei e Marco se n’erano andati a metà festa, come sempre, per far ritorno<br />
alla sicurezza del nido candido.<br />
In questo supermercato devono avere spento il riscaldamento. Anna guarda a<br />
terra e vede i propri piedi galleggiare sul marciapiede, illuminati snob dalla vetrina<br />
di Curatolo, il commerciante più astuto del quartiere. Quel volpone dal gusto sublime<br />
negli anni le ha spillato una percentuale crescente di reddito. Mentre gioca<br />
alla bilancia con i sacchetti della spesa biodegradabili cercando di calcolare<br />
quanto può avergli regalato, due cartelli appesi all’ingresso della boutique le si infilano<br />
a tradimento nella visuale. Il primo è un annuncio funebre stampato in casa<br />
su carta riciclata. Dice che Curatolo è morto. Il secondo è un grande foglio di carta<br />
verde, dove Curatolo morente ha tracciato in pennarello i suoi ultimi pensieri. Molla<br />
i due sacchetti. Rumore di vetro rotto. Anche il succo di agave è morto. Inizia a<br />
leggere, come un automa, ma subito si ferma, per pudore. Scrittura infantile, lingua<br />
involuta, azione di guerrilla marketing postuma. Fastidio. Commozione. Fastidio.<br />
Commozione. Quel Signor Bonaventura bonsai con la montatura da primo Allen,<br />
sul letto di morte ha preso un pennarello nero di quelli dell’asilo e ha dato l’addio<br />
ai propri clienti, augurando a tutti di godersela. Perché tra tutte le morti quotidiane<br />
proprio questa qui la colpisce? Una morte di quartiere, in una città senza quartieri.<br />
Raccoglie le sporte inzuppate, si ricompone, punta dritta verso casa. La ciotola<br />
vuota di Scìon le si è manifestata in 3D.<br />
3<br />
LANCI<br />
Il cielo è incollato sulla spianata d’asfalto che vorrebbe essere una piazza. Attorno<br />
pulsa il centro commerciale della prima periferia. Giornata fiacca, per un non<br />
luogo.<br />
Marco ha parcheggiato lontano, apposta. Si è dato l’obiettivo di fare tremila passi<br />
al giorno. Cinquemila sarebbe meglio, come dicono gli americani, ma anche tremila<br />
è già un inizio. Tiene le mani in tasca, in una stringe il contapassi digitale,<br />
che se ne sta rannicchiato al calduccio a fare il proprio dovere. Ogni tanto lo tira<br />
fuori e controlla se la lucina è ancora rossa o se è già diventata verde. Non si sa mai.<br />
Si affretta, è in ritardo, come sempre. Il ritardo ce l’ha nel sangue. E lo coltiva con<br />
dedizione.<br />
Manuela ha le braccia incrociate sul petto baldanzoso. È stufa di aspettare, lo si<br />
capisce dall’espressione più scazzata del solito. Odia questo posto, la gente che<br />
lo frequenta, l’azienda che la obbliga a queste faticate per uno stipendio da fame,<br />
il capo che la tratta come un’ebete e se ne frega di lasciarla lì da sola a controllare<br />
i preparativi dell’evento. Hanno sbagliato il blu delle transenne che delimitano la<br />
fila, e sì che lei gli ha dato il riferimento Pantone. Quando Marco lo vedrà la cazzierà,<br />
sicuro.<br />
«Tutto a posto?» Marco le bofonchia in un sorriso tirato senza nemmeno un buon-<br />
31
giorno, mentre a testa china legge un messaggio a cui è vitale rispondere entro i<br />
prossimi cinque minuti, o l’universo intero verrà risucchiato dentro una media station<br />
dal prezzo al pubblico sbagliato.<br />
«Be’, sì. No. In realtà il colore delle transenne…» Manuela gli trotterella a fianco<br />
e lo guida verso lo spiazzo davanti alle porte del negozio, già pronto per l’inizio<br />
della competizione. Un Pippo Baudo trentenne col riporto precoce color faraona<br />
sta facendo le prove microfono per la conduzione della gara, pronto-pronto-provaprova-uno-due-tre-ciao-ragazzi-siete<br />
– prontiiii-siete-caldiiii, gli grida dentro già<br />
compreso nella parte del bravo presentatore da mall. I primi ragazzini si stanno<br />
avvicinando alla pedana di lancio, curiosi, cavallo basso. Un sottofondo musicale<br />
di vecchie hit riempie già da ore ogni interstizio di plastica e cemento. Nell’aria c’è<br />
odore di fritto.<br />
Manuela osserva Marco di sottecchi. C’è qualcosa che non va. Non le ha ancora<br />
fatto lo shampoo per la faccenda del blu. Che stia male? Gli sbircia le mani paffutelle.<br />
Non tremano. Prova ad analizzargli il bianco degli occhi, sembra tutto sommato<br />
bianco. Forse un leggero tic alla palpebra. Occhio che trema, stress emotivo.<br />
Non è proprio il momento per chiedergli il permesso per lunedì, e ogni ora che<br />
passa il prezzo del volo Easy Jet aumenta. Giocarsela ora potrebbe essere controproducente.<br />
«Dove sono i telefonini?» domanda Marco, sempre immerso nel suo ipertesto.<br />
«Nello scatolone, là, vedi?» Manuela fa cenno con la mano, i sei braccialetti d’argento<br />
fanno la ola.<br />
«Mhh. Mostrami il percorso, simula» Marco solleva finalmente lo sguardo.<br />
Simula? Manuela vorrebbe sprofondare. Non vorrà mica farmi fare la prova del<br />
lancio del telefonino da sola davanti a questi energumeni come una polla? Vuole<br />
proprio smantellarmi la dignità. Pensa a lunedì, concentrati su Easy Jet,<br />
Ommmmmhh.<br />
Intanto il pubblico è aumentato, sale il fermento in vista della gara. Già si vedono<br />
arrivare i lanciatori esperti, si sgranchiscono le braccia dandosi arie da agonisti<br />
delle telecomunicazioni, sono quelli che non si perdono una tappa e puntano al<br />
primo premio europeo.<br />
Marco si appoggia al muro, non sa dove sedersi. Deve avvertire Anna della cenetta<br />
con film, Cri e Massimo vorrebbero vedere The Road, la copia è buona. Una<br />
serata tranquilla a quattro, come ai vecchi tempi. Magari si è immaginato tutto.<br />
Non c’è nulla di reale. In fondo sono solo dettagli nebulosi, che lui ha interpretato<br />
come indizi. Se solo lei non fosse così focalizzata. Porta sempre i discorsi lì. Enfasi,<br />
c’è molta enfasi. E un eccesso di impegno a simulare naturalezza, a mettere<br />
le cose sul piatto, parlarne in modo esplicito, come una strategia ingenua per fare<br />
sembrare tutto normale, sotto controllo. E se dipendesse dal fatto che ha smesso<br />
di farla ridere? Ha smesso di farla ridere? Stop. Rischio paranoia molto alto. Si<br />
guarda le Church nuove, sono identiche alle altre sei paia. Estrae meccanicamente<br />
dalla tasca il contapassi, la luce pulsa rosso. Anna direbbe che sono compulsivo,<br />
ma non è mica vero.<br />
Manuela avanza verso la pedana, i pugni stretti. Pippo Baudo Jr. la accoglie calorosamente:<br />
«Ecco qua il primo concorrenteeeeee! Ma che bella signorina, da<br />
32
dove vieni cara?» Manuela lo fulmina e, a denti stretti «Sono io, cretino.» Lui non<br />
fa una piega, deve intrattenere, the show must go on. «Varese? Hai detto Varese?<br />
La nostra prima concorrente è di Vareseeeeee» improvvisa, sudando come il ventitré<br />
luglio. Manuela arranca verso il bidone stracolmo di telefonini, ne afferra uno<br />
a caso, si porta in posizione di lancio. Easy Jet. Easy Jet. Easy Jet.<br />
«…e si appresta a fare il suo primo e unico lancio. Un lancio solo ciascuno! Una<br />
possibilitààààà!»<br />
È proprio necessaria pure tutta la telecronaca? Marco la sta guardando, è un sorriso<br />
sornione quello? O un inizio di paresi? Senso di irrealtà, formicolio agli arti inferiori,<br />
forse sverrà su questa lurida pedana blu sbagliato. Qualcuno deve arrivare<br />
a salvarla da tutto ciò. Si guarda attorno. Un centinaio di occhi sono pronti a godere<br />
della sua figura di merda.<br />
Marco ha fame. Ha sempre fame. Soprattutto di roba dolce. Gelati. Tortine morbide<br />
al cioccolato fondente. Gelati. Brioches ripiene di crema pasticcera con scaglie di<br />
mandorle tostate. Gelati. Sbrisolona piacentina. Gelati. Sbrisolona mantovana intinta<br />
nello Zacapa. Gelati. Biscotti artigianali tutto burro. Gelati. Biscotti industriali<br />
al cacao Batticuori. Acquolina. O forse è perché non la porta in luoghi abbastanza<br />
elitari? – si guarda attorno – Ha questa mania dell’edge. Adesso tutto deve essere<br />
edge. Ma che vuol dire edge? Stare sul bordo di cosa? A stare sul bordo si rischia<br />
di cadere. Il suo lavoro non è più aspirazionale per lei? Lui non è più aspirazionale?<br />
Quelle transenne hanno proprio il Pantone sbagliato, e adesso che ci bada<br />
forse anche la pedana. E il logo non è abbastanza grande, dal fondo della piazza<br />
non si vede di certo. Uccidiamo il brand, ma sì. Un’operazione da novantamila<br />
euro buttata nel cesso. Non può delegare niente, almeno per queste cose dovrebbe<br />
potersi fidare di Manuela, la meno deficiente del team. E invece guardala<br />
lì, come si destreggia sulla rampa di lancio. Imbranata cronica. Dopo tre anni deve<br />
potermi garantire una gestione decente del progetto. Ci saranno ancora brioches<br />
senza marmellata al bar?<br />
Manuela stringe il telefonino nella mano destra, sudaticcia. È pronta. Riuscire a<br />
estraniarsi da questo spazio-tempo è possibile. Chiude gli occhi. Sente l’odore<br />
del mare e la salsedine nei capelli. Li riapre. Punta all’orizzonte, dove acqua e<br />
cielo si incontrano. Inspira. Assume la posizione del Discobolo. Vaghe reminescenze<br />
di prima liceo la aiutano a riprodurre fedelmente la posa plastica. Fidia o<br />
Mirone? Fa sempre casino. Diciamo copia romana. Si bilancia sulla gamba sinistra,<br />
piega il ginocchio destro, allunga il braccio destro all’indietro, in torsione, un<br />
tutt’uno con il Nokia E52, sposta il peso sul piede destro, piega il busto in avanti,<br />
ogni muscolo in tensione, pelle di marmo dell’Attica, attraverso ogni fibra porta<br />
tutta la forza, la rabbia blu, le umiliazioni, il cielo e il mare, l’odore di fritto, Easy<br />
Jet, il sorriso di Marco dentro il braccio fino alla mano, che si carica fino a vibrare,<br />
affondando la carne nel metallo e poi zzzzzzzzzzzooot!, come una scultura futurista<br />
rilascia l’energia nell’aria, il telefonino parte come un dardo infuocato, spezza<br />
l’etere in un sibilo acuto, per poi esplodere in collisione con. Con? Sciolgo le trecce<br />
e i cavalli… corrono… e le tue gambe eleganti… ballano… riporta Manuela sulla<br />
pedana, qui e ora. Mette a fuoco scompiglio tra il pubblico, brusio crescente, Pippo<br />
Baudo non c’è più, Marco non c’è più. Forse è successo qualcosa di brutto.<br />
33
Uno yacht affonda in circostanze misteriose al largo della costa ligure.<br />
Negli stessi giorni, una serie di furti di dipinti occupa le prime pagine <strong>dei</strong><br />
giornali. Gli indizi collegano i fatti a operazioni finanziarie che coinvolgono<br />
alti prelati e una società di affari russa controllata da manager senza scrupoli.<br />
Il capitano <strong>dei</strong> Carabinieri Andrea Manetti indaga. Contro il volere <strong>dei</strong> suoi<br />
stessi superiori segue una pista che penetra le mura della Città del Vaticano<br />
e scala la gerarchia pontificia.<br />
Andrea è gay, convive con un ex tossicodipendente e qualcuno non esita<br />
a usare questi elementi per distruggere la sua credibilità prima che possa<br />
danneggiare gli interessi occulti che collegano Roma, Mosca e lo yacht<br />
misterioso. Le minacce che arrivano da lontano si mescolano a quelle<br />
dell’ambiente machista dell’Arma <strong>dei</strong> Carabinieri quando un’operazione<br />
rocambolesca nel mezzo del Mediterraneo conclude l’ultimo degli inseguimenti.<br />
Stefano Paolo Giussani (1966) è giornalista e autore di documentari.<br />
Lavora alle testate GrandTour e L’Orso. Ha scritto per il Corriere della<br />
Sera e i Viaggi di Repubblica. Ha pubblicato il libro Sentieri di Fede (Bellavite<br />
Editore) e ha curato guide tematiche per Touring Editore e l’Istituto<br />
Geografico De Agostini.<br />
Magellano è il suo secondo romanzo.<br />
35
Magellano, Stefano Paolo Giussani.<br />
Da Roma Today 1 :<br />
18 marzo 2009.<br />
Duecentotrentasette reliquie di santi sono state trafugate dalla diocesi di Porto e<br />
Santa Rufina alla Storta. Tra il materiale portato via anche un frammento di legno<br />
della Santa Croce, le reliquie <strong>dei</strong> santi Ignazio di Loyola e Ippolito e una Madonna<br />
rinascimentale di scuola fiorentina.<br />
Sul furto stanno indagando i Carabinieri del NTPA 2 , coadiuvati dalla Gendarmeria<br />
Vaticana. Le indagini sono a tutto campo.<br />
4 aprile 2009.<br />
Sono state recuperate in un casolare abbandonato nelle campagne tra La Storta<br />
e il comune di Formello le reliquie rubate lo scorso 18 marzo nell'interno della Cattedrale<br />
della Diocesi di Porto e Santa Rufina, in via del Cenacolo a La Storta a<br />
Roma.<br />
Gli inquirenti, coordinati da un nucleo speciale della Gendarmeria Pontificia, hanno<br />
recuperato la refurtiva poco prima che fosse immessa nel mercato clandestino<br />
delle opere d'arte. Le reliquie sono state consegnate nella parrocchia della Beata<br />
Vergine Maria Immacolata Concezione al vescovo monsignor Luigi Conti.<br />
Tra gli oggetti sacri che erano stati rubati ci sono anche la reliquia ex Ossibus di<br />
San Ippolito, patrono della Cattedrale della Diocesi di Porto Santa Rufina, e una<br />
croce di vetro con all'interno un pezzo della Santissima Croce di Gesù. Manca ancora<br />
all’appello una preziosa Madonna di manifattura medievale italiana. Parole<br />
di apprezzamento sull’operazione sono state espresse dal Cardinale Barberini,<br />
delegato responsabile della sicurezza pontificia per le opere d’arte.<br />
Capitolo 1 – Laurin<br />
Bolzano, 10 agosto, ore 23<br />
Ha già allacciato la cintura di sicurezza.<br />
Sta pensando che gira parecchio e le città dall’alto gli sembrano tutte uguali. Tutte<br />
tranne quelle di montagna. Lì le luci si concentrano dove si incrociano le poche<br />
strade, come un gorgo nel mezzo di un oceano scuro.<br />
L’area del piccolo aeroporto è segmentata dalle corsie ordinate delle luci di atterraggio.<br />
Sembrano lucciole disciplinate al margine dell’asfalto, segnano il confine<br />
tra prato e pista. È da quando era piccolo che non vede una lucciola, pensa. La<br />
distesa di erba intorno alla striscia è il proseguimento del buio <strong>dei</strong> boschi sulle<br />
montagne. Non si capisce dove finisca uno spazio e inizi l’altro. Circondata dai rilievi,<br />
Bolzano sembra ancora più piccola di quella che è. Un nugolo di case schiacciate<br />
dalla cappa di umidità estiva. Attorno spuntano solo le montagne, i bordi di<br />
1 Notizie basate su fatti reali tratte da fonti web.<br />
2 Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, il nucleo <strong>dei</strong> Carabinieri specializzato<br />
nelle indagini su furti dʼarte.<br />
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un catino in cui galleggia la città. Riconosce il Rosengarten a oriente, la luna che<br />
sta per sorgere proietta il suo profilo seghettato nel cielo.<br />
Alle spalle dell’Alfa Romeo 156 <strong>dei</strong> Carabinieri, il quartiere industriale della città è<br />
un insieme di parallelepipedi di cemento appoggiati in ordine sparso e sovrastati<br />
da un fantasma di foschia arancione. La nube iridescente si allunga pigra tra i meandri,<br />
alla confluenza tra i fiumi nella stretta pianura.<br />
Dei due militari, quello più anziano fuma in piedi a fianco all’auto. Fissa il tratto di<br />
pista di fronte a lui. Non gli importa nulla di essere lì. Guarda distrattamente lo<br />
scorrere <strong>dei</strong> fari sull’autostrada che costeggia l’aeroporto. Il traffico scivola senza<br />
ostacoli. Ascolta l’ultimo treno passare, è un merci. Il rumore <strong>dei</strong> carri pesanti riecheggia<br />
tra le pareti della montagna. Tutto è concentrato nei pochi metri della pianura.<br />
Il carabiniere più giovane è seduto in macchina, sfoglia una rivista di moto.<br />
Tiene la portiera aperta. L’alone del cruscotto illumina l’asfalto attorno all’auto.<br />
«Eccolo» dice seccamente il fumatore all’accendersi di un punto nel cielo proveniente<br />
da sud.<br />
L’oggetto diventa un fascio luminoso sempre meglio distinto. È in lento avvicinamento.<br />
Sembra fermo nell’aria. L’unica altra luce nitida verso il cielo è quella della<br />
torre di controllo. C’è solo un uomo dietro la vetrata. Sembra un pesce solitario in<br />
una bolla sospesa su un pilastro.<br />
«Un aereo della presidenza del consiglio. Qui. Oggi… a quest’ora. Chemminchia<br />
ci sarà di così importante?» dice. Butta a terra la sigaretta. La schiaccia con la<br />
scarpa mentre il giovane scende dall’auto e nasconde la rivista nel bagagliaio. Si<br />
sta sistemando camicia e cappello quando l’aereo li sorvola. Per atterrare deve<br />
prima superare l’aeroporto, virare sopra la città e imboccare la corsia di avvicinamento.<br />
Nell’ultimo passaggio transita molto vicino. Le gomme <strong>dei</strong> carrelli stridono<br />
al tocco della pista. Il suono della turbina è un lungo sibilo aspirato che striscia di<br />
fianco a loro. È un disturbo di quelli che non ti aspetteresti nella quiete notturna di<br />
una vallata alpina. All’avvicinarsi dell’aereo in rullata il rumore diventa più fastidioso.<br />
L’apparecchio si ferma con un leggero beccheggio a pochi metri dall’auto. Si accendono<br />
le luci interne. L’apertura del portello squarcia il buio di fronte ai militari.<br />
Disegna il profilo di un uomo affacciarsi dall’interno della carlinga.<br />
«Capitano Manetti?»<br />
«Eccomi, buonasera!»<br />
«Benvenuto in Alto Adige, signore. Abbiamo l’ordine di condurla all’hotel Laurin. Il<br />
colonnello Mazzucchelli ci ha chiesto di accompagnarla là» dice il maresciallo<br />
aprendo la portiera posteriore.<br />
Le dodici lettere di “Mazzucchelli” scorrono veloci nella mente del capitano Manetti.<br />
Dalle orecchie scendono dritte nel fondo della pancia con il fastidio che provi<br />
quando ingoi qualcosa di andato a male. Quelle sensazioni che ti disgustano per<br />
qualche secondo. Poi passa, ma intanto ti lasciano in bocca una sensazione di<br />
acido.<br />
L’ultima volta che ha sentito pronunciare il nome del colonnello Mazzucchelli era<br />
37
a Roma. Si era appena conclusa l’operazione alla Storta, o almeno credeva fosse<br />
così. Giornate serrate di indagini. Ore interminabili in osservazione. Pedinamenti.<br />
Lo studio delle opere trafugate. Un incastro tra gli alibi <strong>dei</strong> sospettati e l’ipotesi di<br />
qualche movente. Il successo e il recupero della refurtiva fino alla telefonata del<br />
superiore.<br />
Di fronte alle reliquie, ancora in mimetica, lo squillo sul cellulare di servizio era<br />
echeggiato all’interno della navata, dove con i suoi uomini stava riconsegnando<br />
le opere. Stavano richiudendo la teca contenente un frammento della Croce del<br />
Cristo. A tutti sembrava un momento solenne. Anche i militari fissavano muti la lastra<br />
di vetro antiproiettile mentre sigillava la custodia blindata. Alcuni uomini in<br />
borghese osservavano la scena dal colonnato.<br />
Gendarmeria Vaticana, aveva pensato Manetti guardandoli. Li aveva riconosciuti<br />
al volo perché hanno uno sguardo strano. Non si capisce se ci sono davvero o<br />
fingono e con la testa sono altrove. Le barzellette dovrebbero raccontarle su di<br />
loro, non sui Carabinieri.<br />
Dal telefono avevano cominciato a uscire delle frasi. Al momento la concentrazione<br />
sulla reliquia le aveva fatte scivolare via. Come l’acqua di un rubinetto aperto<br />
su un oggetto impermeabile.<br />
Chiusa la teca, lo scatto della serratura elettronica aveva avuto l’effetto di infilare<br />
la spina di una connessione che riportava alla realtà.<br />
«…mi ha capito, capitano?»<br />
«Scusi?»<br />
«Qui finisce la sua missione. Il merito sarà della Gendarmeria Vaticana. Nessuna<br />
conferenza stampa per voi. Sono stato chiaro? Ora esca immediatamente da lì<br />
con i suoi uomini e torni a fare rapporto.»<br />
Ma checcazzo sta dicendo, ha pensato. Là fuori è pieno di stampa e tivù. Buttare<br />
nel cesso un’occasione così.<br />
«Signore, fuori è pieno di giornalisti…» ha provato a dire.<br />
«Un’ottima ragione per rientrare subito!»<br />
Dall’altra parte la comunicazione interrotta produceva un suono continuo che lo<br />
ha fatto sentire uno stupido. Uno stupido con un telefono spento appoggiato all’orecchio.<br />
Mazzucchelli è uno di poche parole, e questo lo rende ancora meno<br />
simpatico di quel che è.<br />
Frasi lapidarie per un ordine arrivato direttamente dall’alto. Senza una ragione.<br />
Ha eseguito, ma non ci ha creduto davvero fino ai giornali del giorno dopo.<br />
Monsignor Conti accoglie il ritorno delle reliquie recuperate grazie a un’operazione<br />
di Intelligence in concerto tra la Gendarmeria Vaticana e le forze dell’ordine.<br />
Ma vaffanculo!<br />
Gendarmeria Vaticana? Non agisce fuori dalle mura della Santa Sede. Un generico<br />
“forze dell’ordine”? No, non c’è niente di generico nei Carabinieri! Mille pensieri<br />
battevano i piedi nella sua testa. Loro sono “quelli del nucleo tutela patrimonio<br />
artistico”. “L’élite dell’élite”. “Quelli votati alla protezione del bello di cui il Paese<br />
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abbonda e che in parecchi minacciano”. “Un braccio investigativo a tutela dell’arte”.<br />
Evvai con tutte quelle cazzate che il pubblico legge sui giornali dopo le operazioni<br />
e con cui li avevano farciti al corso ufficiali. Dove sono finite? Prima in Accademia,<br />
poi le ore con gli studiosi <strong>dei</strong> musei, i pomeriggi nel silenzio delle biblioteche a studiare<br />
le tracce del passato, a farsi raccontare che un’opera d’arte si legge così,<br />
che certi falsi sono quasi indistinguibili dagli originali. Che ognuno in passato dipingeva<br />
sopra le sue vecchie tele e a volte si fa fatica a capire chi abbia fatto cosa,<br />
che due colpi di scalpello su un sasso possono far credere che Modigliani abbia<br />
toccato la pietra che si ha di fronte.<br />
Non siamo un generico “forze dell’ordine”, minchione di un ufficiale impavonato,<br />
avrebbe imprecato volentieri a sentire il nome del colonnello Mazzucchelli.<br />
Intanto però i giornali e i siti avevano battuto la notizia. Il vescovo esprimeva la<br />
soddisfazione per la gioia <strong>dei</strong> fedeli, il ministro per lo svolgimento dell’operazione<br />
e bla, e bla, e bla… è tutto bello quando sei alle giostre. Tuttibravi, tuttofigo. Sorrisoni<br />
ovunque. Tranne che per i suoi Carabinieri rimasti nell’anonimato. E poi mancava<br />
sempre una Madonna. Di questo nessuno ne parlava?<br />
Quella sera aveva preferito andare in sauna a sfogarsi. Gli piace andarci. Lì, solo,<br />
seduto sulla panca, ha iniziato a sudare e a sbollirsi. Un uomo sui trenta è entrato.<br />
Bel fisico. Si sono guardati. Si è tolto l’asciugamano e si è seduto di fronte a lui.<br />
Così da potersi vedere bene. Nudi. Volto contro volto. Corpo contro corpo. La macelleria<br />
era aperta. Sono usciti assieme dalla camera profumata di legno e senza<br />
parlarsi si sono incamminati verso i camerini. Andrea dietro, l’altro davanti. Una<br />
fila di porte in laminato bianco a sinistra, muro a destra. Aveva delle belle spalle.<br />
Anche il culo era fatto bene. Uno di quelli delle statue di Michelangelo. Un piacere<br />
da vedere, ancora di più da toccare. Da dietro una delle porte un gemito indistinto<br />
era ritmato da <strong>dei</strong> colpi.<br />
Sono entrati in uno spazio libero. Una specie di cabina armadio senza il soffitto.<br />
Andrea ha chiuso la porta dietro di lui. Hanno incrociato gli sguardi, fatto scivolare<br />
l’asciugamano sulla panca. I piedi nudi sul pavimento si sono avvicinati. Poi i corpi.<br />
Ora non ricorda neanche che faccia avesse quell’uomo. Solo che si era svuotato.<br />
Che era talmente incazzato da aver rimosso tutto di quei giorni. Tutto tranne i titoli<br />
<strong>dei</strong> giornali e le foto <strong>dei</strong> sovrintendenti del ministero che sorridevano compiaciuti<br />
con quelli della Gendarmeria Vaticana. Sembrava una foto ricordo <strong>dei</strong> tempi di<br />
scuola. Quelle dove tutti hanno facce da ebeti ma alcune facce sono più ebeti di<br />
altre. I vaticani, appunto.<br />
«C’è un monsignore che vuole vederla, capitano» dice il maresciallo dal sedile anteriore.<br />
Lo chiamano capitano ma per la sua anzianità di servizio dovrebbe già essere un<br />
maggiore. L’essere diverso dai suoi commilitoni ha frenato la carriera. Forse lo<br />
avrebbero già buttato fuori volentieri, pensa. Ma non possono perché lui, i casi, li<br />
risolve. E se non li risolve, ci va molto vicino.<br />
«Un monsignore?»<br />
Non se l’aspettava. No che non se l’aspettava.<br />
39
La macchina percorre il lungo viale deserto. Nessuno sui marciapiedi. Uffici a specchi<br />
e capannoni si susseguono in una sfilata anonima. Qualche murale sulle pareti<br />
più vecchie. Un corridoio lungo e vuoto intervallato dalle luci <strong>dei</strong> lampioni. Accendono<br />
e spengono pozzanghere di asfalto in direzione del centro e dell’appuntamento.<br />
I fanali scorrono sulle strisce della strada. Le periferie sembrano tutte<br />
progettate dalla stessa testa.<br />
Non è un monsignore, pensa l’ufficiale guardando l’auto parcheggiata di fronte all’ingresso<br />
dell’Hotel Laurin. L’Alfa <strong>dei</strong> Carabinieri si accoda. Una Mercedes così è<br />
riservata come minimo a un cardinale. Sul marciapiede l’asfalto è interrotto da cerchi<br />
bianchi in marmo che contengono delle parole. Donano alla superficie un effetto<br />
a pois che non c’entra nulla con l’architettura ottocentesca dell’albergo. Le<br />
lettere non si leggono perché sono poco illuminate. Le bandiere sopra il portone<br />
sudano sgonfie e immobili nell’afa.<br />
È stato convocato in Alto Adige da un pezzo grosso. Gli scatta una lampadina. Sa<br />
che il papa è in vacanza non distante da lì. Bressanone, crede. Può essere qualcuno<br />
del suo staff. Non sa chi, ma per farlo prelevare a quell’ora e mettere su un<br />
volo della presidenza del consiglio, dev’essere qualcuno che conta. Qualcuno che<br />
ha fatto una telefonata a qualcun altro che conta che ha fatto… Una cascata di telefonate<br />
che contano, fino a Mazzucchelli. Si è domandato quanto era lunga la<br />
cascata prima di arrivare al colonnello e a lui.<br />
La merda scende, ma prima o poi si ferma da qualche parte. Lui è il “da qualche<br />
parte”.<br />
Era estate.<br />
Il capitano Andrea Manetti si trovava a Roma fino a un’ora e cinquantacinque minuti<br />
prima. Era in un ufficio alla Legione Carabinieri della capitale. Occupando un<br />
ruolo delicato nell’Arma ha più o meno una scrivania in ogni comando di regione.<br />
Ed è normale per lui rimanerci anche dopo cena. Stava stendendo un rapporto,<br />
quando la chiamata di un ufficiale lo aveva avvertito di un volo a sua disposizione<br />
da Ciampino. Partenza immediata. Sono in pochi a poter muovere un comandante<br />
<strong>dei</strong> Carabinieri a quell’ora verso un aereo. Quei pochi stanno sul colle del Quirinale<br />
o a Palazzo Chigi. Non c’è nessuno di altrettanto potente da questa parte del Tevere…<br />
oppure… oppure oltre il Tevere, qualcuno che vive all’ombra della cupola<br />
di San Pietro. Nel deserto romano di agosto, dove gli uffici sono completamente<br />
vuoti, è molto probabile che la chiamata originaria fosse partita proprio da qualcuno<br />
del Vaticano. Lì non chiudono mai. Dio non va in vacanza. Il papa sì, però. Ecco<br />
perché a Bolzano.<br />
L’hotel Laurin è tra i più vecchi della città. Pur trovandosi a pochi passi da piazza<br />
Duomo è abbastanza defilato da non essere al centro dell’attenzione di paparazzi<br />
e cronisti. È normalmente frequentato anche dagli uomini d’affari. Un incontro lì<br />
non desta troppi sospetti. L’edificio ha ancora quell’austerità di quando Bolzano<br />
era governata dagli Asburgo. In fondo è passato solo un secolo. In parecchi qui<br />
vorrebbero che ci fossero ancora gli austriaci a governare.<br />
40
L’albergo è affacciato sulla strada. Sul lato opposto all’entrata si apre un giardino<br />
con sequoie che forse furono piantate all’inaugurazione.<br />
Entra nella hall. La reception è in fondo al corridoio. Una ragazza lo saluta. Ricambia.<br />
Sulla sinistra si apre il bar. È tutto rivestito da una boiserie in noce. Nello<br />
spazio tra la sua fine e il soffitto, un ciclo di affreschi circonda tutta la sala. Sono<br />
raffigurati cavalieri e scene di corte. Su una parete un frate battezza qualcuno, a<br />
fianco un guerriero brandisce una spada alta quanto il dipinto.<br />
Eccolo. Aveva ragione. È un cardinale. Barberini, addirittura. Il poliziotto del papa.<br />
Fiuta un odore. La cascata di merda è passata da lì. Forse è partita da lì. Lo sta<br />
aspettando. È in piedi da solo tra le poltrone che circondano il grande camino<br />
spento. Un’esile figura con una statura superiore alla media. Torreggia tra le forme<br />
arrotondate <strong>dei</strong> divani. Il cardinale sta guardando gli affreschi. Il camino è così<br />
grande che Manetti ci immagina che qualcuno potrebbe giocarci a calcio e usarlo<br />
come porta. Non lui perché il calcio non lo sopporta.<br />
Dall’operazione alla Storta è la prima volta che vede di persona Barberini. Era in<br />
chiesa, defilato in un angolo buio, ed è una delle persone che farebbe volentieri a<br />
meno di vedere.<br />
«Eminenza» esordisce Manetti senza nessun altro convenevole.<br />
«Capitano, lei mi odia?» risponde il prelato. Nessun saluto, nota il carabiniere.<br />
«Dovrei?»<br />
«Me lo dica lei. Ne avrebbe il motivo. Capirei… le vie del Signore sono infinite,<br />
quello che prende poi dà…» dice con voce e tono da predica. «Intendiamoci: so<br />
bene che il merito alla Storta è stato suo e <strong>dei</strong> suoi uomini. Il problema è un altro.<br />
In Vaticano stiamo attraversando una crisi interna molto grave. Qualcuno sta minacciando<br />
la nostra sicurezza. E lo sta facendo dall’interno delle mura… Si sta<br />
domandando perché le sto dicendo questo?» chiede una frazione di secondo dopo<br />
il prelato.<br />
È esattamente quello che il capitano si sta chiedendo.<br />
«La cinta di San Pietro è molto, molto alta. Quanto più devi proteggere il tuo<br />
gregge, tanto più deve essere alta la protezione… lupi e volpi non devono poterla<br />
saltare. Ma può succedere che la volpe sia più astuta del previsto e riesca a entrare<br />
dalla porta travestendosi da pecora. In questi casi è meglio che l’intruso pensi<br />
che il cane pastore del gregge sia sveglio.»<br />
La parabola del giorno, pensa Manetti.<br />
«Ecco perché abbiamo dovuto far credere che il merito fosse della nostra gendarmeria»<br />
incalza il cardinale, «per far credere che qualcuno <strong>dei</strong> nostri sia vigile. Intendiamoci,<br />
capitano, un piccolo gruppo di uomini non può proteggere da solo un<br />
luogo dove è concentrata gran parte delle opere d’arte dell’umanità. Possiamo investire<br />
in tecnologia, fornire ai nostri uomini mezzi sofisticati, addestrarli a pensare<br />
prevenendo i rischi. Ma non possiamo arrivare a tutto. Provi a immaginare il Vaticano<br />
come un quartiere di Roma, un quartiere dove però sono stipate tutte le firme<br />
della storia dell’arte. Pochi cani pastori per proteggere una grande stalla rivestita<br />
d’oro. Lei crede in Dio, capitano?»<br />
Silenzio.<br />
Il capitano lo guarda. Si chiede se per fare il cardinale devi essere pazzo o lo di-<br />
41
venti dopo, o hai una forma di lucidità che a lui in questo momento sfugge.<br />
«Diciamo che ci sto lavorando, eminenza.»<br />
Sta cercando di stabilire una certa confidenza, pensa il carabiniere.<br />
«Mi permetta di confidarle una cosa» dice il prelato mentre si incammina nel giardino.<br />
Quest’uomo legge nel pensiero? si domanda improvvisamente il militare.<br />
«Non serve saper leggere nel pensiero…»<br />
Sì è risposto. Si accoda a lui. Non è pazzo. Gli fissa la nuca mentre cammina. La<br />
pelle è tirata tra la base del cranio e il colletto della veste. È molto più vecchio di<br />
quanto pensasse.<br />
«…per capire che non tutti in Vaticano sono guidati dallo Spirito Santo o non tutti<br />
credono che un giorno saremo giudicati. Purtroppo alcuni agiscono con la convinzione<br />
che il giudizio non sia neppure di questa terra, allora si muovono non preoccupandosi<br />
di nulla se non del proprio vantaggio.»<br />
«Eminenza, con tutto il rispetto, non capisco dove vuole arrivare.»<br />
«Capitano» fermandosi si gira e lo guarda negli occhi, «siamo di fronte alla più<br />
grave minaccia che lo stato pontificio abbia conosciuto nei tempi recenti. Qualcuno<br />
sta cercando di sottrarre i beni più preziosi del nostro patrimonio. E qualcuno <strong>dei</strong><br />
nostri lo sta aiutando.»<br />
«Con tutto le opere che custodite, come può definire una minaccia la sparizione<br />
di qualche reliquia?»<br />
«Lei è giovane, ma ha esperienza. E sa che fa paura quel che non si conosce.<br />
Noi non conosciamo chi sta minacciandoci.» Sul “non” il cardinale si ferma, lascia<br />
avvertire un’incertezza, la prima dall’inizio della conversazione. Anche lui è un<br />
uomo, allora. «Temiamo che possa essere solo questione di tempo il fatto che la<br />
crepa nella nostra sicurezza si trasformi in una breccia e poi nel crollo di una parte<br />
del sistema» non smette di tenere lo sguardo fisso nel suo, ha le pupille che pungono,<br />
pensa Manetti. «La prossima sparizione potrebbe essere ben più importante<br />
di qualche reliquia.»<br />
«Ma a catechismo ci insegnavate che la chiesa è spirito, eminenza.»<br />
«Sì. È vero» sorride, ed è la prima volta, nota il carabiniere. Lo sguardo si alleggerisce.<br />
«Apprezzo che lei ricordi questo. Ma non è il punto. Senza una certa garanzia<br />
patrimoniale lo spirito da solo, oggi, non può arrivare ovunque. O meglio,<br />
non con la forza necessaria. Pensi alle missioni che manteniamo, pensi alla più<br />
piccola parrocchia nel posto più sperduto…»<br />
…allo sperpero delle cerimonie in Vaticano, alla Mercedes parcheggiata qui fuori…<br />
aggiunge Manetti senza dirlo.<br />
«…siamo anche là. Ma per poterci essere dobbiamo passare da Roma. Non si<br />
faccia ingannare dall’opulenza che a volte dimostriamo. La consideri una “necessità”<br />
che siamo costretti ad affermare attraverso <strong>dei</strong> simboli.»<br />
Nel giardino c’è ancora un piccolo buffet allestito per la cena. Sono rimaste solo<br />
due persone sedute a un tavolo. Un cameriere aspetta di finire il turno. Ruota il<br />
polso spesso per leggere l’ora. Sembra un tic nervoso.<br />
«Abbiamo bisogno di lei, capitano.»<br />
Il cardinale chiede al cameriere un bicchiere di vino.<br />
42
«È l’unico che in questo momento ci può aiutare.» Impugna il calice tenendolo alla<br />
base con la punta delle dita. Annusa il contenuto. Il naso appuntito si ferma appena<br />
oltre il bordo del vetro.<br />
«Perché, eminenza? Sono l’unico che non protesta se quando risolve un caso non<br />
gli si riconosce il merito?»<br />
Il cardinale lo guarda per un attimo in un silenzio senza espressione.<br />
«No, però sono sicuro non si lascerebbe contaminare. Ho capito di che pasta è<br />
lei. So quanta fatica ha fatto per arrivare dove si trova.» Guarda il calice che in<br />
mano: «Questo è Lagrein» lo alza verso un lampione e lo porta in controluce, i riflessi<br />
porpora brillano nel cristallo. Il carabiniere nota che sono dello stesso colore<br />
della fascia della sua tonaca. «È probabilmente uno <strong>dei</strong> migliori vini rossi al mondo.<br />
Cresce tra queste montagne. Le sue vigne resistono al gelo dell’inverno. Chi lo<br />
coltiva deve impegnarsi di più per via <strong>dei</strong> dislivelli e del clima. Il risultato è un nettare<br />
che è costato fatica ma che ha potuto maturare con calma, grazie a qualcuno<br />
che lo ha curato. Qualcuno che dopo il gelo dell’inverno ha permesso al tepore<br />
delle primavere di arieggiare le vigne, che le ha protette mentre crescevano.»<br />
Anche Manetti lo assaggia. Ha ragione. Per quel che ne capisce di vino è davvero<br />
buono, anche se a digiuno gli sta puntando dritto al cervello.<br />
Il gesto del cardinale lascia spuntare l’orologio dal polsino. Rolex Cellini, listino<br />
seimilanovecento euro, più o meno, pensa il capitano. Adeguato alla macchina<br />
qui fuori, “signor” eminenza.<br />
«C’è chi minaccia la nostra vigna e non sappiamo dove si nasconda. Non sono i<br />
soliti corvi. Non basta qualche fucilata in aria o uno spaventapasseri. C’è qualcosa<br />
di invisibile che sale dalle radici. Non posso chiederle di aiutarci se non vuole farlo.<br />
Non posso neanche assicurarle che questa volta le saranno riconosciuti <strong>dei</strong> meriti.<br />
Però posso anticiparle che ho la sensazione che le cose presto peggioreranno e<br />
il gioco si farà più pesante.» Il cardinale alza lo sguardo verso il cielo. È spuntata<br />
la luna. «Ora è tardi. Ci rifletta.»<br />
Il cardinale lo guarda, è un attimo che gli sembra durare parecchio. Accenna a<br />
un’espressione dove ti aspetteresti un sorriso, ma senza sorriso. È il suo saluto.<br />
Si gira e rientra nella hall. Il carabiniere lo guarda allontanarsi.<br />
È stato un piacere averla incontrata di persona e ci scusi ancora per averle infinocchiato<br />
il caso alla Storta, pensa Manetti mentre il prelato sta per scomparire.<br />
Ah! e grazie per essere saltato su un aereo e corso fino a qui per farsi ubriacare<br />
dalle nostre parole, continua.<br />
Fanculo anche a lei, eminenza.<br />
Rimane solo di fronte all’edificio.<br />
Dal giardino l’albergo sembra un grosso castello dove tutto è addormentato. La<br />
facciata interna non ha più nessuna finestra accesa. Un glicine si arrampica fino<br />
ai piani alti. Il suo profumo arriva fino a lì. Torna verso il buffet. Si fa versare un<br />
altro bicchiere di vino. Il cameriere è un ragazzo molto giovane. La barba gli sporca<br />
appena il mento e le guance. La camicia bianca che indossa gli è piccola. È riempita<br />
da un torace ben fatto. L’ultimo bottone del collo è stretto e probabilmente lo<br />
infastidisce. Pensa che glielo slaccerebbe volentieri.<br />
43
Capitolo 2 – Rose<br />
Monza, 14 agosto, ore 1:55<br />
L’abbaino della stanza è affacciato sul roseto della Villa Reale. È stato fortunato a<br />
trovare quei locali vicino al suo comando. Erano gli alloggi di chi lavorava a corte.<br />
Ora sono case comunali e costano poco di affitto. Le pareti hanno qualcosa da<br />
raccontare. Le ha lasciate grezze apposta. Gli piace toccarle. Gli piace vedere le<br />
travi di legno sul soffitto, immaginare le materie che si affiancano combinandosi,<br />
come i colori in un quadro. Una riproduzione del san Sebastiano di Mattia Preti è<br />
appesa all’ingresso, sul muro intonacato senza una tinta. La tela parte dal pavimento<br />
e tocca quasi il soffitto. L’espressione del giovane accasciato di fronte al<br />
tronco prende forma sullo sfondo grigio del cemento.<br />
A distanza di anni continua ad apprezzare il silenzio delle notti d’estate, quando la<br />
luna impallidisce il parco. La luce diafana è riflessa dalle foglie del roseto. Si è appena<br />
spenta l’irrigazione e le piante sembrano un tappeto di gocce immobili nella<br />
pianura estiva. Gli alberi circondano l’edificio. Le loro sagome scure sono come<br />
delle sentinelle sullo stato di quiete. Un argine sul resto del mondo. Gli piace pensare<br />
che è la stessa pace che amava il re quando stava qui. Almeno prima che gli<br />
sparassero. Lo hanno ucciso in fondo al viale, appena fuori dalla riserva dove si<br />
rifugiava con le sue amanti. Si chiede se anche lui prima o poi sarà minacciato<br />
fuori dalla sua riserva.<br />
Andrea si affaccia alla finestra. È tardi. Qualche auto passa ancora sul viale. In<br />
fondo, oltre la pesante cancellata, il traffico sembra un elemento estraneo al suo<br />
mondo. Dalle sue spalle arriva il rumore di un respiro pesante, affaticato. Cesare<br />
sta dormendo. Vuole stargli vicino. Non vuole lasciarlo solo. Lo ha già lasciato solo<br />
troppe volte.<br />
Sente il rintocco delle due arrivare da un campanile del centro. La chiesa non è<br />
distante. Gli vengono in mente il cardinale Barberini e la predica di Bolzano.<br />
Dovranno fare a meno di lui. Ha deciso che non si lascia incantare.<br />
Il mattino è sceso presto in ufficio. La caserma è ancora deserta. Gli piace perché<br />
non sembra affatto una caserma. Si rende conto che è fortunato. Lavora in un<br />
posto che gli piace. Fa un lavoro che gli piace.<br />
Sta indagando su un caso di trafugamento di reperti da una necropoli etrusca.<br />
Hanno sfondato una parete in pietra e portato via tutto quello che c’era dentro.<br />
Nonostante il sopralluogo gli è comunque impossibile capire cos’era conservato<br />
nella tomba. Può solo immaginarlo. Così come immagina che i reperti saranno irrintracciabili,<br />
probabilmente già sulla piazza di qualche mercante.<br />
La scrivania è completamente piena di foto. Se le è stampate tutte. Spera di intuire<br />
qualcosa. Per ora ci vede solo una collina con degli arbusti. Guardandola ricorda<br />
quando era lì. Sente ancora il profumo della campagna romana bagnata dalla<br />
pioggia. Vede un’apertura su un lato, come se tra i cespugli ci fosse una porta per<br />
entrarci. Le pareti interne e la volta sono decorate da scolpiture. C’era un odore<br />
strano dentro. Più simile a un non-odore fatto dall’assenza di odori. Qualcuno ha<br />
44
lavorato più di duemila anni fa per rendere gradevole quell’ingresso. Quella porta<br />
dell’aldilà. Le linee si susseguono combinandosi tra loro fino a perdersi nel buio in<br />
fondo. Sono perfette. Il senso del bello è un linguaggio universale. Forse era la<br />
tomba di un uomo importante. O forse era solo importante per chi lo ha conosciuto<br />
e ha pagato per la sepoltura. Gli etruschi credevano che il defunto avesse un’altra<br />
vita dopo quella terrena.<br />
Poi una foto discosta, l’immagine del foro nella parete. Una serie di martellate ha<br />
squarciato le righe scolpite. Senza nessun rispetto per quel lavoro antico. Senza<br />
nessun rispetto per quella tomba. Chi le ha tirate non si è preoccupato di quel che<br />
stava facendo. In qualsiasi altra parte del mondo civile quel luogo sarebbe stato<br />
protetto. Pensa alla stalla d’oro di Barberini.<br />
Squilla il telefono.<br />
«Manetti» dice meccanicamente alzando il ricevitore, senza smettere di guardare<br />
le immagini sul tavolo.<br />
«Colonnello Mazzucchelli» dall’altra parte.<br />
«Buongiorno, signore» svogliatamente.<br />
Il superiore è al corrente <strong>dei</strong> contenuti dell’incontro di Bolzano. Se lo aspettava.<br />
Gli dice che ci sono certe occasioni che non si possono rifiutare.<br />
Gli risponde che ci sono certe occasioni che non danno stimoli.<br />
Lo chiama a rapporto. Gli ordina di presentarsi al comando regionale.<br />
«Obbedisco, signore.»<br />
Riaggancia il telefono. Rimane a fissare l’apparecchio. Alza lo sguardo. Alla parete<br />
è appesa una copia del Narciso di Tintoretto. Non vale come quella originale conservata<br />
a Roma ma è di buona fattura, probabilmente un allievo del maestro. L’ha<br />
intercettata dal fondo di un camion carico di frutta secca diretto in Francia. In quel<br />
caso una soffiata lo aveva aiutato. Nessuno l’ha reclamata ed era ferma lì da loro.<br />
Capita. E a lui piace che capiti. È come se un po’ dell’arte che aiuta a recuperare<br />
gli rimanesse attaccata addosso.<br />
Domani andrà al comando di Milano. Si alza, prende una birra dal piccolo frigo<br />
alle sue spalle. La sorseggia molto lentamente. Sente la schiuma fermarsi sul labbro.<br />
Mangia un paio di mandorle tostate. Sale da Cesare. Vuole chiudergli la finestra<br />
e accendergli l’aria condizionata. Sarà una giornata calda. Un po’ di fresco gli<br />
darà sollievo.<br />
45
Nina cuce corpetti da attricetta per ricche signore siliconate e tailleur da<br />
romana borghese per tettute ballerine della tv.<br />
Nina non cuce abiti da sposa.<br />
Ama il cibo ma è sempre a dieta, adora dormire ma soffre di insonnia.<br />
È alta con i tacchi, magra con la gonna giusta, e ha gli occhi troppo grandi.<br />
Ma blu. Che comunque è un bel colore.<br />
Ha due tette discrete e non esce mai senza lo smalto.<br />
Ha la frangia troppo lunga ed è stata tutto, tranne che bionda.<br />
Non è capace di stare zitta. Mai.<br />
Piange solo se è da sola.<br />
Adora i musical, fosse per lei dovrebbero cantare tutti, sempre, anche<br />
nella vita.<br />
Guarda solo film in inglese perché ha paura di svegliarsi un giorno e non<br />
saperlo più parlare.<br />
Sceglie i libri leggendo l’ultima parola.<br />
L’ultima di questo qui è “Fine.”<br />
Lei lo avrebbe letto.<br />
Vivere da donna tra le donne. Una storia che fa ridere anche se si ha il<br />
rossetto sui denti e per cui piangere imbrattandosi la faccia di rimmel,<br />
come ogni femmina che si rispetti. Anche se siete maschi.<br />
Manuela Mazzocchi è una intorno ai trenta, intorno al biondo, intorno al<br />
goffo.<br />
Scrive testi per programmi radiofonici e inventa pubblicità. Quelle che,<br />
quando passano in radio, la gente abbassa il volume. O cambia canale,<br />
e c’è sempre la canzone sbagliata.<br />
Ha anche un lavoro che riesce a spiegare alla sua famiglia: organizza<br />
eventi ed è un addetto stampa.<br />
Ha un blog: achickenthing.blogspot.com<br />
Nina cuce è il suo primo libro, non più nel cassetto.<br />
47
Nina cuce, Manuela Mazzocchi.<br />
1<br />
Sto abbracciando una bara.<br />
Il tappeto di rose schiacciato sulla faccia, le mani che cercano di vincere contro<br />
questa lucida discesa di legno. Lo scuotersi, perpetuo e regolare, delle teste alle<br />
mie spalle scandisce la fine della mia dignità. Sudo incenso e lacrime. Stramaledetti<br />
tacchi. Avrei dovuto accendere un cero alla “Madonna dello Stiletto”. Potrei<br />
fingere un improvviso attaccamento al nonno del mio capo, buttare lì un singhiozzo,<br />
un gemito, un urlo popolano in perfetto stile Magnani. Raddrizzo le ginocchia<br />
e lentamente cerco di staccarmi dalla nuova, laccata, dimora del defunto.<br />
Raccolgo il telefono da terra, mi strappo un petalo dalla guancia e concludo il mio<br />
viaggio verso la prima fila della basilica di Santa Maria in Trastevere: una che saggiamente<br />
portava sandali alla schiava.<br />
L’ultimo lifting ha privato Costanza delle rughe d’espressione, ma il suo sguardo<br />
è piuttosto esaustivo.<br />
Le passo il telefono. Mi volto. Occhi bassi e passo lento, esco dalla chiesa.<br />
Memo: trovare un modo creativo per raggiungere il nonno di Costanza. Entro oggi.<br />
La solita Roma rassicurante che non si accorge di niente mi aspetta fuori.<br />
«Ma la bara si è aperta?»<br />
Mi tolgo le scarpe e finalmente mi passa il mal d’aria.<br />
«Allora? Il ministro? S’è visto?»<br />
Il nonno, era stato ministro.<br />
Vuoi non sdraiarti su un politico, prima o poi?<br />
È il trionfo del racconto all’italiana: scivolo per colpa <strong>dei</strong> tacchi e al terzo passaparola<br />
sono un’estremista che tenta di trafugare la salma dell’ottuagenario, in cambio<br />
della liberazione <strong>dei</strong> prigionieri politici della Papuasia.<br />
«Dice Matteo che t’hanno dovuto sollevare in due perché eri incastrata nella corona<br />
<strong>dei</strong> compagni di partito.»<br />
Attendo fiduciosa almeno un paio di teorie del complotto, e il racconto dettagliato<br />
sull’ingresso in chiesa <strong>dei</strong> Corpi di Pace.<br />
Se lo ricorderà qualcuno il morto? O negli anni l’aneddoto della sconosciuta che<br />
gli è caduta sulla bara offuscherà le sue gloriose gesta?<br />
Devo finire di cucire il corpetto di Cleopatra.<br />
Il mio ago passa diligente e puntuale attraverso l’imbottitura.<br />
«Nina…»<br />
Matteo ha la voce coccola, quella delle brutte notizie date con amore.<br />
«Ti vede subito.»<br />
«Ma è già qui?»<br />
«Sì.»<br />
«E tu?»<br />
«Io cosa?»<br />
«Non hai ancora caricato su youtube la mia performance funebre di oggi?»<br />
48
«Mi sono permesso di aggiungere un tocco di teatralità nel raccontare l’aneddoto,<br />
te lo concedo. L’idea del video l’ho accantonata subito. Ti voglio bene.»<br />
Matteo è l’assistente di Costanza, il mio primo abbraccio in questa città. Gli concedo<br />
tutto, il risotto alla milanese con la soia e l’amatriciana di tofu, Lady Gaga a<br />
tutte le ore e True Color di Cindy Lauper quando deve sputare tristezza.<br />
Oggi potrei strangolarlo ma, spingendolo per raggiungere l’ufficio di Costanza, ho<br />
visto i suoi calzini rosa. La filosofia del rosa è iniziata quando avevo vent’anni.<br />
Amavo uomini che non mi filavano e liquidavo ragazzi gentili, perché sulla loro<br />
fronte lampeggiava costantemente un semaforo rosso, che minacciava di fermare<br />
la mia corsa verso SaDioCosa. Cercavo fortuna. Per vederla meglio le ho dato un<br />
colore.<br />
L’Amore non l’ha cambiato, l’Umore sì. Questione di vocali.<br />
Il giorno del funerale di mia madre, mia zia portava un foulard rosa antico. L’ho<br />
preso e buttato prima di arrivare in chiesa. Quel giorno la fortuna non aveva colore.<br />
Nell’ufficio del mio capo c’è la solita temperatura “Greetings from Aspen”.<br />
«Se esce anche una sola foto del tuo sedere sulla bara di mio nonno sei licenziata!»<br />
Giurerei di aver visto una ruga sulla faccia di questa diciottenne, classe 1951.<br />
«Costanza, sono scivolata. Comunque non credo che il mio sedere su una bara<br />
sia spendibile sulle pagine di cronaca. Forse le tette. Ma le tette non si vedevano.»<br />
«Nina! Prendi la tua risposta pronta e andate dalla Maccapani che deve stringere<br />
l’abito per il Festival!»<br />
«Ma non sarebbe più pratico prendere le misure della Maccapani a liposuzioni terminate?»<br />
«Fuori!»<br />
«Vado.»<br />
2<br />
Non avevo mai guidato una Vespa prima di Roma. Ho sempre provato terrore per<br />
le due ruote, ma qui la vita è incosciente. C’è qualcosa nell’aria. In questa città la<br />
gente mangia e ride. Si tocca.<br />
Domenica sono andata a comprarmi <strong>dei</strong> fiori. Davanti a me c’era un signore, a occhio<br />
i settanta erano passati da un pezzo. Le dita sorde e grassocce della fioraia<br />
litigavano con le spine e il nastro delle rose.<br />
«Lo mette il biglietto?»<br />
«Che?»<br />
«Lo scrive il biglietto?»<br />
«Ma… So’ quarantacinqu’anni de matrimonio. Le parole l’amo già mischiate tutte.»<br />
«Allora niente. Vado dietro a finirle la confezione.»<br />
Siamo rimasti in silenzio un paio di mazzi di fiori, poi il genio: «Signorì, sia brava,<br />
mettemo anche er bietto. Passi qua la penna che je damo na’ rimestata!»<br />
Questa è la Roma che ho scelto io.<br />
49
Casa Maccapani starebbe bene nell’inferno di Dante se ci fosse il girone <strong>dei</strong> rifatti.<br />
Al terzo matrimonio, dopo un notaio e un latitante “re del mattone”, Lucrezia Maccapani<br />
ha scelto di unire l’utile al dilettevole sposando un chirurgo plastico. Potrebbe<br />
avere dai trenta ai quarantacinque anni, e quasi certamente li ha, tutti e<br />
quindici, in una tasca interna delle tette, dove il marito infila la parte crescente di<br />
ogni tiratina. Pensavo che anche per la Maccapani valesse la teoria “Valentino the<br />
Last Emperor”: dopo ogni lifting (rigorosamente non dichiarato) del maestro della<br />
moda, spunta un pechinese nuovo nel suo attico parigino. Ma Ugolino e Ugonotto<br />
non si vedono a Palazzo Maccapani da mesi. La signora dice di averli mandati in<br />
una Spa per cani. Erano stressati. Ci avrà attaccato due maniglie trasformandoli<br />
in borse da viaggio.<br />
Le sto cucendo un abito per la serata inaugurale del Festival del Cinema. È la<br />
terza volta che le strizzo le tette in questo trionfo di lurex.<br />
«Nina cara, che ti devo dire, dimagrisco a vista d’occhio. Ho la stessa silhouette<br />
di quando avevo vent’anni.»<br />
«Letizia, cosa mi dice mai! Lei non ha vent’anni?»<br />
«Tesoro no! Avrò più o meno la tua età!»<br />
Memo: ricordarsi uscendo di prendere il biglietto da visita del Maccapani chirurgo.<br />
Mia nonna era una sarta, vederla cucire mi dava l’idea che tutto potesse essere<br />
sistemato.<br />
Mi diceva: «Se sei brava il rammendo non si vede, sei tu che scegli a chi mostrarlo.<br />
Tutti abbiamo qualche punto qua e là, e non solo sui vestiti.» Rammendava la sua<br />
vita con la stessa cura con cui cuciva gli abiti. Aveva perso un figlio e un marito,<br />
eppure nessuno sapeva dove la sua vita si fosse strappata.<br />
Per questo ho scelto questo mestiere. Per aggiustare tutto il possibile. Per vestire<br />
le persone e coprire le cuciture delle loro vite.<br />
«Gioia, sei sovrappensiero?»<br />
«No, no signora. Un altro punto e abbiamo finito» fino alla prossima liposuzione.<br />
3<br />
NinatipregopuoiandaretipregoaprendereBartolomeoall’asilotipregocheiosonobloccataalcircolotipregotipregoAsianonpuò.<br />
Sveva ha due ottimi polmoni, i messaggi che regala alla mia segreteria telefonica<br />
sono sempre composti da un’unica lunghissima parola e, se non altro, molto educati.<br />
L’asilo è di strada.<br />
«È la mamma del piccolo?»<br />
Nel caso sarei la terza.<br />
«No. Un’amica.»<br />
«Ce l’ha la delega?»<br />
Mostro diligentemente l’sms che Asia mi ha memorizzato sul telefono, il mio certificato<br />
da ausiliaria della maternità.<br />
«Nina, ce l’hai il gelato?»<br />
50
La manina appiccicosa di Bartolomeo si incolla alla mia giacca.<br />
«Amore, adesso lo prendiamo, fammi finire di parlare con la maestra.»<br />
«Coordinatrice didattica.»<br />
Questi occhialini anni Trenta celano un’appassionata delle gerarchie. Nascondo<br />
dietro a tutti i miei denti il disgusto per i collant color carne che indossa.<br />
«Possiamo andare?»<br />
«Ancora una cosa. Potrebbe dare ai genitori questo avviso? Dovrei vederli con<br />
una certa urgenza. Madre e padre possibilmente.»<br />
«Il padre di Bartolomeo vive a Londra.»<br />
«Ma io c’ho due mamme. Anche!»<br />
«Sì, amore. Infatti verranno loro a parlare con la signora.»<br />
«Signorina.»<br />
«Con la signorina coordinatrice didattica. Ma è successo qualcosa?»<br />
«Non sarei autorizzata a parlarne con lei. Ma è una cosa alquanto bizzarra, in effetti.<br />
E poi al momento lei fa le veci della figura genitoriale. Bartolomeo, vai un momento<br />
nella sala ricreativa “colori del mare”, vuoi?»<br />
«Bartolo vai, io finisco qui e arrivo. Poi doppio cioccolato.»<br />
La sua manina si stacca da me come una striscia di ceretta.<br />
«Tripolo!»<br />
«Triplo. Aggiudicato!»<br />
Mentre saltella nel suo cubo blu pieno di giocattoli, realizzo che potrei passare la<br />
vita intera ad accordarmi con esseri umani che hanno meno di sei anni. Sono una<br />
diplomatica <strong>dei</strong> denti da latte.<br />
«Vede signorina. O signora?»<br />
«È uguale.»<br />
Leggo negli occhi della signorina coordinatrice didattica una scossa di terremoto.<br />
Direi secondo grado della scala Mercalli.<br />
«Come preferisce. Signora. Il fatto è che abbiamo un problema con l’espressione<br />
articolata per immagini del bambino.»<br />
«I… disegni?»<br />
«Esattamente.»<br />
«Che tipo di problema?»<br />
«Vengo al punto. Non delinea con sufficiente coscienza la rappresentazione grafica<br />
della… come dire… mascolinità. Mi capisce?»<br />
«Non proprio. Ha qualcosa da mostrarmi per chiarire il concetto?»<br />
Apre la cartellina color topo che usa come scudo da quando sono arrivata, e mi<br />
passa un foglio da disegno.<br />
«Abbiamo chiesto di rappresentare il concetto di Festività Natalizia. Questa è l’elaborazione<br />
di Bartolomeo.»<br />
Ecco. Babbo Natale ha le tette. Oggi andiamo alla grande.<br />
In questa casa ci sono due mamme, un bambino di cinque anni e un padre gay<br />
che vive a Londra e viene a trovarci una volta al mese.<br />
Io nella mia vita ho amato un uomo solo che si fissava le scarpe mentre piangevo,<br />
urlavo, e facevo le valigie per andare lontano da lui. Ogni volta che giro l’angolo,<br />
51
spero di incontrare Quello Giusto. In questo collage di cuori speciali ci sto benissimo.<br />
Potrei imbottigliare l’amore che c’è tra questi muri e venderlo a un sacco di<br />
famiglie in bianco e nero.<br />
Noi siamo rosa, anche se stasera sta per scattare l’allarme rosso.<br />
Ho messo l’avviso della scuola e il disegno di Bartolomeo nel microonde. Lo<br />
usiamo tutti come svuota tasche. Sveva dice che non va usato per cucinare, perché<br />
rende il cibo radioattivo. Ma non lo butta, lo usa come scalpo del nemico.<br />
La “criatura”, come lo chiama la melodrammatica madre di Sveva, è in cameretta<br />
a disegnare.<br />
Asia entra in casa con le sue tre macchine fotografiche ancora al collo. Conto le<br />
crepe sulla sua faccia. L’ennesimo matrimonio coatto con cigni di ghiaccio a grandezza<br />
naturale e sposo con gli stivali da texano, rigorosamente in vernice bianca.<br />
«Com’era?»<br />
«La torta era la bandiera della Roma.»<br />
«Non oso immaginare le… bomboniere.»<br />
«Con la faccia di Totti e Ilary sopra. Me pare ovvio.»<br />
«Tu zitta che sei della Lazio!»<br />
«Te stai a romanizzà?»<br />
«Un tantino. Senti, ci sarebbe una cosa… dalla scuola di Bartolomeo.»<br />
Asia sforna il richiamo e il disegno. Le macchine fotografiche le penzolano ancora<br />
dal collo, dovevo aspettare che si cambiasse, ora passerà la serata con venti chili<br />
di obiettivi addosso. La mutazione in Godzilla è quasi ultimata. Manca solo l’arrivo<br />
di Sveva.<br />
«Non ti vuoi levare quella roba di dosso prima?»<br />
È già in modalità screensaver. Potrei lanciare un fumogeno in mezzo alla cucina<br />
senza farle fare una piega.<br />
«Nina, ma a te pare una cosa grave? È solo un disegno. C’è bisogno di convocare<br />
lo stato maggiore? Lo sapevo io che questa scuola era eccessiva. È Sveva che<br />
ha voluto mandarlo con tutti questi nanetti in divisa. Io con questa giacchetta simil<br />
Londra non lo posso vedere!»<br />
«Magari dovreste parlarci. E spiegargli che Babbo Natale è un vecchio ciccione<br />
che sta in Finlandia a mangiare le renne.»<br />
Sorride e rimette i fogli nel forno come se fosse un fascicolo della CIA.<br />
«Vado a fargli il bagno.»<br />
Io metto su l’acqua della pasta e stacco dal gruppo i miei soliti quindici maccheroni.<br />
Amo il cibo, ma sono sempre a dieta. Con le bolle sale in superficie anche il mio<br />
senso di colpa. E se fossero le mie fiabe?<br />
Ogni sera ne racconto una a Bartolomeo. Diciamo, la mia versione della storia.<br />
Piuttosto fedele all’originale in verità. Solo, senza principi azzurri. Nelle mie, Cenerentola<br />
fa la donna delle pulizie, Biancaneve vive con i nani, La Bella addormentata<br />
è narcolettica. Insomma, sono tutte ferme dove sto io, e aspettano.<br />
Quando gli rimbocco le coperte lui mi chiede: «Ma lo troveranno il Principe?» e io<br />
rispondo: «Spero di sì, ma sono felici anche così.»<br />
Memo: sono una persona orribile.<br />
Adoro dormire, ma soffro d’insonnia.<br />
52
Sveva e Asia hanno discusso fino a tardi. La loro camera è accanto alla mia. Sono<br />
dotata da sempre di una specie di super udito. Le sentivo parlare e agitarsi, la ragione<br />
passava dall’una all’altra rimbalzando come in una finale di Wimbledon.<br />
Le ho sempre ammirate per il loro coraggio. Ho sempre pensato che, per aggiungere<br />
una vita a questo caos, devi avere una specie di dono. Bartolomeo mangia<br />
e dorme in una bolla di amore cosmico, poi esce e le sue guanciotte devono attutire<br />
i colpi del mondo a cui ci siamo abituati.<br />
E per quanto possiamo considerarci progressisti, ci siamo abituati tutti al brutto,<br />
con troppa facilità.<br />
4<br />
Un cappottino rosa attraversa la strada di corsa e mi si staccano i pensieri dalla<br />
testa. Mi vibra la tasca.<br />
PASSA AL PARIOLI A RITIRARE I COSTUMI DEL BALLETTO E POI FAI L’AP-<br />
PUNTAMENTO DAI MARCHESI AL POSTO MIO. IL TUO CULO È A PAGINA 12<br />
DI REPUBBLICA.<br />
La vita è una cosa meravigliosa. Dicunt.<br />
A Roma hanno tutti un nome romano.<br />
Io adoro il mio perché ha solo quattro lettere e perché il suo anagramma è “nani”,<br />
che in milanese è una cosa affettuosa con cui gli anziani chiamano i bambini.<br />
La sartina del Parioli si chiama Cencia. Lavora in questo teatro da vent’anni. È la<br />
mamma di tutti. Gli aghi nelle sue mani sembrano grandi e quando cuce canta.<br />
Le mie prime giornate romane le ho passate con lei, a cucire i costumi delle ballerine<br />
di un programma tv. Gli stessi che ora devo portare via. È lei che ha impostato<br />
il mio orologio sul fuso orario romano. Quello che tra un minuto e l’altro ci<br />
infila la vita.<br />
Mi viene incontro. Per abbracciarla mi piego in due.<br />
«Ho provato a dire di non stare a farti passare. Ci potevo mandare un taxi a portarli!»<br />
«Fa niente Cencina.»<br />
«Bella. Sei consumata. Ma mangi?»<br />
«Sì. Sì. Pure troppo.»<br />
«Non mi pare proprio.»<br />
Memo: passare dalla Cencia ogni volta che mi sento in colpa per aver ingoiato un<br />
piatto di tonnarelli cacio e pepe senza masticare.<br />
«Ni’, ma che è sta storia, che di là stanno a dì che sei su Repubblica?»<br />
«No! Caz… No!»<br />
«Ma che davero?»<br />
«Ma no. No. Niente Cencia. Ora vado che sono di corsa!»<br />
«Ciao amore. Non li sgualcire! E mangia!»<br />
Il sedere su Repubblica non lo voglio vedere.<br />
Il sacchetto con i costumi delle ballerine continua a impigliarsi nel mio cappotto di<br />
finto pelo. A ogni strattone prego che le perline che abbiamo attaccato, una a una,<br />
reggano il loro primo giro in Vespa. Costanza le passerà tutte tra le dita con la pre-<br />
53
cisione maniacale di un serial killer. CSI Sartoria.<br />
Dovrà strapparmi questi costumi dalle mani, come sempre. Mi attacco ossessivamente<br />
a ogni vestito, ogni orlo, ogni bottone che uso. Matteo dice che sono il Dr.<br />
Frankenstein dell’ago e del filo. Quando lavoro fino a tardi, spunta dal buio urlando<br />
SI PUO’ FFAAREEE.<br />
Spesso prendo i lavori che nessuno in showroom vuole fare, mi metto nell’angolo<br />
con Gilda, il mio manichino, e inizio le mie guerre con i “casi difficili”. Provo <strong>dei</strong><br />
sentimenti per tutti gli abiti a cui lavoro, inizio e non riesco più a staccarmene. Potessi,<br />
vivrei in un hangar pieno di manichini con tutti gli abiti che ho fatto, anche<br />
quelli a cui ho solo attaccato un bottone.<br />
«Un cappuccio e un cornetto.»<br />
Mi sono rassegnata. La brioche a Roma non esiste.<br />
Il tizio accanto a me sfoglia Repubblica. Mi giro di scatto per non guardare. Il cornetto<br />
mi esplode in mano. Ho appena rallentato la mia pausa caffè del 300%.<br />
Entro in casa <strong>dei</strong> Marchesi con le mani che sanno di marmellata e sapone<br />
“oceano”. Immagino gli omini del Carrefour che chiedono asilo sulle barche di Greenpeace<br />
per imbottigliare la schiuma di mare da mettere nei loro saponi da 0.99€.<br />
L’ennesimo attico romano, il soffitto alto dove litigano gli affreschi di tre correnti<br />
artistiche differenti, qua e là un mezzobusto di qualche filosofo, che a Roma la diplomazia<br />
non è mai troppa, e tende di broccato.<br />
Memo: pagare il riscatto e liberare la sobrietà <strong>dei</strong> ricchi romani.<br />
Mi viene incontro una biondina tutta occhi.<br />
«Costanza! Che piacere!»<br />
«Sono Nina, lavoro con Costanza. Purtroppo ha avuto un imprevisto. Ha mandato<br />
me.»<br />
«Lei è quella con il sedere sulla bara a pagina 12 di Repubblica?»<br />
Le labbra di Tuttaocchi sono sigillate. Chi parla?<br />
«Dico, è lei o no?»<br />
Dubito sia ventriloqua. Mi giro pronta a rispondere al mezzobusto di Marco Aurelio.<br />
Una donna esile, con il collo da giraffa segnato da un filo di perle, sta guardando<br />
fuori dalla finestra dandomi le spalle.<br />
«Non credo, signora.»<br />
«Matilde, vogliamo affidare il tuo abito da sposa a una che non riconosce il suo<br />
stesso sedere?»<br />
«Lo riconosco piuttosto bene, in verità. Andiamo d’accordo. Certo, come tutte le<br />
coppie che si rispettino, litighiamo un pochino quando gli chiedo se sono ingrassata<br />
e lui non risponde. Ma capita, no?»<br />
Abito da sposa.<br />
«Vieni Nina, posso darti del tu? Ti faccio vedere le foto che ho preso dai giornali.<br />
Nonna, tu vieni?»<br />
Abito da sposa.<br />
«Non credo, Matilde. Andate avanti voi.»<br />
Abito da sposa.<br />
«Gina, sta dimenticando la borsa. Le misure le prende a spanne?»<br />
54
Abito da sposa.<br />
«Nina, mi chiamo… Nina» il sangue raggiunge finalmente il mio cervello. «Chiedo<br />
scusa, ma deve esserci un errore, io non faccio abiti da sposa.»<br />
«Ma Costanza farà il mio abito da sposa, siamo in parola da mesi!»<br />
Tuttaocchi mi dispiace, se potessi ti abbraccerei per non guardare la tua faccina<br />
da cammeo trasfigurare in questa smorfia di dolore. Ma non ho tempo. Devo uscire<br />
da qui.<br />
«L’abbiamo anche già pagato, a dire il vero. Cara Gina.»<br />
«…Nina» dico con un filo di voce mentre raccolgo borsa cappotto di pelo e sacchettone<br />
contenente le micro mutande in perline delle ballerine del Parioli.<br />
Poi chiudo gli occhi. E sono già seduta sulla Vespa con Costanza che mi vibra<br />
nella tasca. Resto immobile, infilata in una strada chiusa con le gambe rigide e il<br />
casco slacciato.<br />
Ho fatto in una notte l’abito di mio padre per il funerale di mamma. Tutto quello<br />
che avevo da dire a quell’uomo improvvisamente vecchio, piccolo e pentito, l’ho<br />
cucito in quel vestito. Nella tasca interna della giacca ho sigillato il mio sogno di<br />
bambina: camminare verso l’altare aggrappata al suo braccio, vederlo piangere<br />
con la coda dell’occhio e incontrare lo sguardo di mia madre che ride e piange<br />
come si fa nei giorni veramente felici.<br />
Io non faccio abiti da sposa. Non li guardo nelle vetrine, abbasso gli occhi ai matrimoni<br />
delle mie amiche, e non dirò sì davanti a Dio. Dio ha preso mia madre. E<br />
se mi vede da lassù, di certo non mi vedrà vestita di bianco.<br />
Non sopporto le complicazioni, cambio canale quando la gente litiga in tv o quando<br />
le cose per il protagonista della storia si mettono male.<br />
Costanza continua a vibrare nella mia tasca e non c’è nessun telecomando che<br />
possa salvarmi da questa giornata.<br />
«Confido che al nostro prossimo appuntamento non agirà da perfetta squilibrata.»<br />
La voce pacata di Collodagiraffa gira nella mia testa come un mantra. Non si è<br />
nemmeno voltata. Sottile, affusolata e immobile, con gli occhi fissi sul chiasso romano,<br />
mentre una povera sudamericana, vestita come la governante in un giallo<br />
di Agatha Christie, mi apre la porta.<br />
5<br />
«Fammi capire, ci hai sbattuto la testa oltre al culo su quella bara?»<br />
«Era per un abito da sposa. Io non li faccio.»<br />
«Nina, te lo ripeto l’ultima volta, piano, così capisci bene: L O D E V I F A R E O T<br />
E N E V A I!»<br />
Esco dal suo ufficio senza aprire bocca, lenta come le sue parole.<br />
Matteo è nel mio angolo, accarezza il raso da ragazza per bene che avvolge Gilda.<br />
Mi rimetto il rossetto con l’automatismo di un cyborg.<br />
«Cosa facciamo? Ci votiamo al silenzio sigillando le labbra con il gloss di Chanel?»<br />
Ho gli occhi grandi. Quando mi viene da piangere mi si allargano come se Dio<br />
usasse lo zoom.<br />
55
«Dai, finisci le tue cose qui, che stasera ti porto fuori.»<br />
Mi siedo, appoggio la mia scatola <strong>dei</strong> bottoni sulle ginocchia e li mescolo con le<br />
dita.<br />
«Passo da te alle nove.»<br />
Metto i bottoni rosa in fila sul legno lucido del mio tavolo da lavoro.<br />
«Mettiti bene che facciamo serata. Carciofi alla Giudia da Gigetto, mi voglio rovinare.<br />
Stasera mangio anche il pane!»<br />
Gli occhi mi tornano a grandezza naturale. Matteo mi bacia sulla fronte e scompare<br />
tra il rumore della macchina da cucire e il clacson del furgone <strong>dei</strong> tessuti. Gli suona<br />
da dieci minuti, fermo sul passo carraio, per principio, mica perché non c’è parcheggio.<br />
Esco per ultima, spengo le luci, respiro la stoffa. Carico Gilda sul taxi insieme alla<br />
scatola con le mie cose. Resta il mio post-it sulla scrivania di Costanza.<br />
ERA PER UN ABITO DA SPOSA. IO NON LI FACCIO.<br />
«Ce lo facciamo un tiramisù in due?»<br />
«Ma hai già mangiato il pane…»<br />
«Fanculo! Due tiramisù, grazie.»<br />
Le dita di Matteo tamburellano sul tavolo e le briciole saltano, isteriche come lui.<br />
«Lunedì torni in ufficio, le parli, ti fai un gin tonic, e vai a coprire di tulle quella culona<br />
romana!»<br />
«Veramente è magra come un chiodo.»<br />
«Meglio ancora! Meno stoffa.»<br />
«Era per un abito da sposa. Io non li faccio.»<br />
«Se me lo ripeti un’altra volta mi faccio portare un barile pieno di cioccolata, mi ci<br />
butto dentro, tipo Houdini, e ci annego dentro grazie ai sensi di colpa che non mi<br />
permetteranno mai di finirla.»<br />
«Però è così.»<br />
«Nella tua testa, e credimi sono certo che lì dentro, stipata tra un’introvabile etero<br />
in calzamaglia blu e cavallo bianco e la pace nel mondo, avrà anche un inattaccabile<br />
filo logico. Ma qui fuori è una puttanata!»<br />
Infilo il mio cucchiaio nel suo piatto e spappolo il suo dolce.<br />
«Credi che non lo mangerò? Solo per quella mia fobia da cibo mischiato?»<br />
Nessuno <strong>dei</strong> due abbassa lo sguardo. È la versione schizofrenica di un duello alla<br />
Sergio Leone.<br />
«Se lo mangio, tu fai il vestito la sposa.»<br />
«Bene. Mangia.»<br />
La mano gli trema, solleva con la forchetta un atomo di torta e cerca di avvicinarlo<br />
alla bocca. Non ce la farà mai. Misura i tramezzini con il righello, leva la sottiletta<br />
che esce dall’area <strong>dei</strong> toast, l’unico gelato che mangia è il Mottarello. La geometria<br />
è il paracadute della sua vita.<br />
La forchetta è a un centimetro dalla sua bocca. Chiusa.<br />
«Ti odio!» lascia ricadere la forchetta nel piatto.<br />
Sono brava nel mio lavoro. Ho lavorato per anni nella sartoria di un teatro mila-<br />
56
nese, quando vivevo in una vecchia casa di ringhiera e mi prendevo il lusso di non<br />
fare programmi.<br />
Poi mi è stato presentato il conto di qualcosa che pensavo mi spettasse di diritto:<br />
mia madre è morta. Ho fatto le valigie e sono partita per Roma. Faccio abiti. Non<br />
ho mai pensato di fare altro.<br />
Entro lunedì è bene che mi faccia venire un’idea, però.<br />
Sono alta con i tacchi e magra con la gonna giusta, dubito di riuscire a riciclarmi<br />
come top model. Magari un call center. No. Un call center no.<br />
Tra Hollywood e Centocelle c’è tutto un mondo di opportunità. Tanto per cominciare<br />
domani cambio colore.<br />
«Houston, ci sei? Cosa bevi?»<br />
«Una piccola chiara.»<br />
«Due gin tonic, grazie.»<br />
«Ma allora perché me lo chiedi?»<br />
«Credo nei miracoli. A ore dodici, polo blu, faccia da inglesotto.»<br />
Mi giro a caso.<br />
«Nina! Ore dodici!»<br />
Riprovo. Mezzo giro in più.<br />
«Santo Dio! Ma l’Afghanistan lo bombardavi tu?»<br />
Mi gira la faccia ignorando l’esistenza del collo e delle sue leggi motorie.<br />
«Carino… Ma non è roba tua?»<br />
«Uno che mette la maglia della salute sotto la polo?»<br />
L’inglesotto, intenerito dal mio sguardo o più realisticamente impietosito dal fatto<br />
che Matteo mi tenga ancora la testa e me la giri come se fossi Barbie Occhio di<br />
Vetro, alza il bicchiere e sorride.<br />
«Dai, vai!»<br />
Due strattoni dopo sono di fronte al principe Henry del Contestaccio.<br />
«…Ciao» credo. La musica è assordante.<br />
«Ciao» dico. E ho finito gli argomenti.<br />
«Il tuo amico non si unisce a noi?»<br />
Questa la sento benissimo.<br />
«…Sì, certo. È solo un po’ timido.»<br />
Mi si incolla all’orecchio.<br />
«Gli… facilito la cosa» e va a ripescare Matteo al bar. Io vado a cercare il mio orgoglio<br />
di donna nel fondo del lavandino del bagno e decido che domani mi faccio<br />
nera. Il rosso non va.<br />
Memo: la maglia della salute non è più un’esclusiva etero.<br />
6<br />
Sono stata praticamente di tutti i colori: rossa, nocciola, cannella, ma bionda mai.<br />
Non sono io.<br />
La tinta nera cola nel lavandino e spero che non lasci segni, o Sveva me li farà levare<br />
con la lingua. La frangia mi va negli occhi ma non la taglio. I capelli ormai mi<br />
arrivano sotto le spalle. Mi piace il nero, gli occhi sembrano più blu e meno grandi.<br />
57
Solo una femmina può formulare un pensiero del genere.<br />
«Bella nera! Mi piace!»<br />
Asia entra in bagno con Bartolomeo e le paperelle. Il mio tempo è scaduto.<br />
«Biancaneve!» dice Bartolomeo puntandomi contro il ditino cicciotto.<br />
Poteva andarmi peggio.<br />
Esco dal bagno e mi metto sul terrazzino sperando che i capelli si asciughino, che<br />
il nero non evapori e che nella pagina degli annunci di lavoro che ho strappato ci<br />
sia qualcosa che si possa fare con un ago.<br />
Sveva penzola da una specie di cesto indiano appeso molto fiduciosamente con<br />
una corda al soffitto.<br />
«Sicura che ti regge?»<br />
«Se mi libero <strong>dei</strong> pensieri pesanti, sì.»<br />
Memo: mai sedersi nel cesto indiano.<br />
Oggi sembra estate. Roma è così, mischia le stagioni e a differenza della mia vecchia<br />
Milano sa usare il sole. Chiudo gli occhi e respiro il tempo.<br />
Asia e Bartolomeo riemergono dal set di Waterworld che hanno allestito in bagno.<br />
«Ni’, ma perché non lavori con me questa settimana? Ho quattro servizi per Signorini<br />
e posso infilarti come stylist.»<br />
«Assolutamente sì!» risponde Sveva.<br />
«Dite? No perché qui secondo me trovo qualcosa, così non vi rompo.»<br />
«Ah be’, se vuoi riprovare il call center…»<br />
«Sono tutta tua!»<br />
La mia esperienza al call center è una delle leggende metropolitane preferite dai<br />
miei amici. La usano per rimorchiare, alle cene con i parenti, ai colloqui di lavoro.<br />
È un evergreen.<br />
Prima di trovare lavoro all’Elfo, i teatri milanesi e le tv mi usavano solo part time,<br />
e per arrivare a fine mese serviva un altro lavoro. Dovevo vendere polizze assicurative.<br />
Una cosa per gente in difficoltà. Sei povero? No problem, accettiamo pagamenti<br />
in debiti. Odiavo il meccanismo, il posto, e il microfonino in stile “Non è la<br />
rai”, in cui dovevo infilare tutte quelle bugie.<br />
La mia prima telefonata è stata alla famiglia Marchioni.<br />
Luisa Marchioni è vedova, ha tre figli tra i sette e i quindici anni. Lavora part time<br />
per un’impresa di pulizie. Invece di venderle la polizza/debito le faccio di tasca<br />
mia un bonifico di trecento euro per mandare i figli in gita con la scuola.<br />
In due settimane al call center non vendo nulla ma faccio bonifici ai potenziali<br />
clienti per un totale di mille euro. Dopo Luisa Marchioni mando duecentocinquanta<br />
euro a Nilla Verecondi, che deve curarsi una brutta infezione ai polmoni e ha ottant’anni<br />
ma è single, nessuno la può aiutare; quattrocento euro a una ragazza<br />
madre della provincia di Bari; e do cinquanta euro a una mia collega divorziata<br />
con due figli per comprare il costume di carnevale al piccolo Duccio.<br />
Sono stata salvata da una serpe che ascoltava le mie telefonate e mi ha fatto licenziare.<br />
La Marchioni mi manda ancora gli auguri di Natale. Nilla Verecondi è morta l’estate<br />
scorsa. Ovviamente le ho mandato <strong>dei</strong> fiori.<br />
58
7<br />
Quanto poco so del mondo.<br />
Le foto che Asia scatta per Signorini sono <strong>dei</strong> finti scatti rubati. Abbiamo appuntamento<br />
a casa di Miss Italia alle nove del mattino. Io la aiuto a scegliere i vestiti, le<br />
do un paio di punti così la camicia cade meglio, le stringo i jeans e la passo alla<br />
truccatrice che la dipinge. E finalmente la riconosco.<br />
Poi scendiamo, Asia si apposta come concordato con la miss fuori dal portone e<br />
scatta.<br />
Il titolo dell’articolo sarà una cosa tipo “Foto rubate. Ecco una Miss acqua e sapone”.<br />
Mentre la guardo, penso che se facessero una cosa del genere a me, senza ritocco,<br />
la domenica mattina quando porto Bartolomeo al parco così le ragazze possono<br />
dormire un po’ di più, i lettori chiederebbero gli occhiali 3D pensando di<br />
vedere l’immagine sfuocata.<br />
Rispondo a Matteo una volta ogni cinque, altrimenti minaccia di mandarmi un’ambulanza<br />
a casa. Dice che Costanza non ha toccato il post-it, che oggi hanno un<br />
appuntamento con Collodagiraffa e Tuttaocchi. Dice che gliela pago. Prima o poi.<br />
Non ero a casa alle quattro del pomeriggio da anni. Le ragazze sono fuori e non<br />
devo prendere Bartolomeo. Mi metto sul terrazzo con il computer sulle ginocchia.<br />
Vediamo cosa fanno quelli che hanno il tempo. Ho trenta mail da leggere. Venti<br />
sono di mio padre. Do un’occhiata alle dieci che leggerò veramente. Costanza,<br />
senza oggetto. Concita di Gregorio: Grazie per aver firmato la nostra petizione.<br />
Matteo: Ti ammazzo. Oracolo.com: Trova la tua anima tra gli astri. Matteo: Ti ammazzo<br />
davvero. Banca Popolare di Milano: Estratto conto on line. Matteo: Oh! Sei<br />
morta? Sveva: Bollette del gas o ci tagliano i fili. Iloveshopping.it: Le tue Jimmy<br />
Choo al 30% in meno. Asia: Ho scordato le bollette non dirlo a S.<br />
Cancello la mail dove troneggiano le Jimmy Choo che ho preso il mese scorso,<br />
chiaramente a prezzo pieno, facendo i debiti.<br />
Quelli che hanno il tempo lo sprecano. Mi unisco al gruppo.<br />
Rubo un'altra confezione di Plasmon dalla credenza. Per smettere mi ci vorrà un<br />
gruppo di sostegno tipo reduci del Vietnam.<br />
Sul tavolo c’è una busta per me. La mia prima lettera. Scritta a mano. Su una carta<br />
presumibilmente rubata dal cassetto della Principessa Sissi, imperatrice d’Austria.<br />
Gentile Signorina Cerruti,<br />
ho avuto il suo recapito da Costanza Cascavilla, che mi ha assicurata di essere<br />
autorizzata a divulgarlo a chiunque.<br />
Mi scuso per il poco preavviso, La invito a raggiungermi mercoledì alle ore 11 alla<br />
Sala da tè Babington’s in PIAZZA DI SPAGNA 23.<br />
Le spiegherò il motivo del nostro colloquio vis à vis.<br />
RingraziandoLa anticipatamente,<br />
Violante Marchesi<br />
Collodagiraffa. Domani alle undici. Lo scrivo su un post-it, come fossi in trance, e<br />
59
lo incollo al pc.<br />
Matteo si è attaccato al citofono dieci minuti fa. Apro per evitare che i due settantenni<br />
della portineria lo finiscano a colpi di tosse. Lo sento ansimare sulle scale. Mi sporgo<br />
per vederlo fare stretching tra il terzo e il quarto piano. Arriva al sesto in dieci minuti<br />
netti.<br />
«Ascensore rotto!» dice usando solo le consonanti.<br />
«No. C’è il cartello ma funziona. Si dimenticano di levarlo.»<br />
Sento l’odore della paura.<br />
«Come mai sei passato?»<br />
«Per ammazzarti. Ma non ne ho la forza.»<br />
«Che dice Costanza?»<br />
«Niente.»<br />
«Meglio.»<br />
«E insisti un po’! Torturami! Vabbe’, ho capito. Il tuo post-it non l’ha nemmeno staccato<br />
dalla scrivania. Lo ignora. Noi passiamo e lo veneriamo. Tipo una moderna Sindone.<br />
Siamo stati dai Marchesi oggi. Madonna com’è secca la sposina. Potevi farle l’abito<br />
da sposa usando un pacchetto di kleenex senza fare tutto ’sto casino! La matriarca<br />
ha fatto come se niente fosse. Costanza prendeva le misure e lei “a questo pensiamo<br />
la prossima volta con Gina… Quello lo vediamo poi con… Gina.»<br />
Rido. Ma il mio stomaco fa bungee jumping. Prendo la lettera e la passo a Matteo.<br />
«Da Babington’s! Fanno delle pastarelle da urlo!»<br />
«Ci vado per quello.»<br />
«Ci vai?»<br />
«Sì.»<br />
«Ah be’, certo! Non fa una… piega» intanto fa il mimo suicida. Questa volta ride<br />
anche il mio stomaco.<br />
60
Marcello ha smesso di vivere nel 1970, ora semplicemente esiste.<br />
Un'icona del cinema italiano che per timore del lento affievolirsi della luce<br />
che ha scaldato il suo successo per quasi vent'anni ha scelto di uscire di<br />
scena. Funerali di stato e lacrime da cinema salutano il passaggio di una<br />
bara vuota.<br />
Il grande attore porta il suo segreto lontano dal set e cerca di invecchiare<br />
serenamente nella sua nuova vita, amaro sequel della sua morte. Una<br />
storia che nessuno vuole raccontare, un personaggio che nessuno può<br />
interpretare, una pellicola che nessuno vuole girare lo catapulteranno, insieme<br />
al suo orgoglio e alla sua insicurezza, nel panorama del cinema<br />
chiassoso e improvvisato di un'Italia banale e frenetica, che sembra non<br />
avere tempo per la sua resurrezione.<br />
Giulio G. D'Antona debutta con un romanzo che ha il sapore del vecchio<br />
cinema. Racconta il consumarsi di un talento unico e spaventato, tra ipocondria<br />
e compulsione, che torna a reclamare il suo posto sulla scena.<br />
Una storia unica e commovente che segue con la delicatezza di un dolly<br />
la parabola discendente del viale del tramonto.<br />
Giulio G. D'Antona è nato a Milano nel 1984, dove vive e lavora come<br />
copywriter, pubblicista e illustratore. Ha pubblicato racconti sulla rivista<br />
Out Of The Blue e sull'antologia La Pagina Bianca, edita da Giulio Perrone.<br />
Scrive sul blog www.grandefreddo.wordpress.com.<br />
62
Ogni giorno che Dio manda in terra,<br />
Giulio G. D’Antona.<br />
Parte Prima<br />
AZIONE<br />
Il muscolo corrugatore destro agisce in perfetta armonia con il muscolo oculare<br />
suo compagno, mentre il sinistro scende volubile a incrinare leggermente il temporale,<br />
che si ritira lasciando che siano altri a compiere il lavoro. Una linea immaginaria,<br />
che va dall'estremità del sopracciglio sinistro al centro della fronte, disegna<br />
l'inalienabile solco espressivo, noto alle riviste come agli schermi, che si infrange<br />
in un fuoco artificiale di piccole pieghe al bordo dell'occhio aperto, ma non spalancato.<br />
È la curva sinuosa, che sembra fatta apposta per incoronare l'occhio destro,<br />
a prendersi tutti i meriti. Due parti perfettamente complementari.<br />
Se immaginaste di staccare dall'adipe sopracciglio e palpebra per incollarli tra loro,<br />
trovereste le loro curve armoniosamente identiche, la superiore solo leggermente<br />
più arcuata dell'inferiore per concedere il miracolo di un incastro perfetto.<br />
Il procero s’increspa leggermente sotto la spinta <strong>dei</strong> muscoli del setto, sfiorando i<br />
frontali che ne subiscono la delicata prepotenza. La parte trasversa del muscolo<br />
nasale dialoga alla perfezione con la sua parte alare, allargando di qualche millimetro<br />
la narice destra e conferendo una pennellata di colore all'aspetto generale<br />
dell'espressione. Mai volgare, un signorile stupore si dipinge sornione tra il setto<br />
e l'incisivo del labbro superiore. I denti rimangono nascosti.<br />
I quadrati del labbro trascinano con delicatezza l'estremità sinistra della bocca, a<br />
sollevare solo di poco il pesante orecchio, senza curvare, con naturalezza. Il buccinatore<br />
è inerte, incerto se intervenire o meno, resta preparato alla chiamata del<br />
triangolare inferiore. Non un tremore, ma un delicato corrugarsi non visto.<br />
Gli occhi sono tutta un'altra storia. Le pupille, sveglie e vive, dilatate al punto giusto,<br />
segnano il posto di frontiera per la luce naturale proveniente da sinistra. I bastoncelli<br />
riflettono quasi tutto, regalando all'iride una scura caparbietà mediterranea. I<br />
bulbi oculari, di un bianco naturalmente venato da pochi capillari, che altro non<br />
fanno che accennare colore, risultano armonici nel taglio mandorlato. Il muscolo<br />
orbicolare sinistro, contratto sia inferiormente che superiormente, dà l'abbrivio al<br />
destro che, con diseguale armonia, contrasta la staticità cerea del sollevatore del<br />
labbro superiore.<br />
Il mentale è solcato. Lo sternocleidomastoideo fa coppia gemella con i muscoli<br />
della nuca per conferire una postura retta, che componga un angolo di poco meno<br />
di novanta gradi tra il mento e il collo, per non risultare né troppo austero né troppo<br />
remissivo. Un fiero orgoglio maschile che non si imponga, che esista semplicemente,<br />
con signorilità, eleganza e naturalezza.<br />
Chiunque avrebbe riconosciuto quell'espressione. Era la fotografia del successo,<br />
il manifesto della sensualità, il sogno proibito dello schermo. Ma questo in altri<br />
tempi e in un altro luogo. Ora, guardandosi allo specchio, si sentiva semplicemente<br />
vecchio.<br />
63
1<br />
16 Giugno 2007<br />
Marcello Merkele aveva smesso di esistere nel 1970.<br />
Uscì di casa che l'isola sembrava ancora un set dismesso. Non presto, ma molto<br />
prima che cominciasse a popolarsi di turisti. Le saracinesche, poche e ben evidenti,<br />
erano ancora abbassate, la strada saliva appena prima di tuffarsi decisa verso la scogliera.<br />
E il mare.<br />
Marcello ci provava a tenere la schiena dritta e il mento alzato, come gli avevano insegnato,<br />
ma da un po' di anni era diventata dura. Aveva una volontà di ferro ma<br />
un'anca di polistirolo, l'unica soluzione era camminare molto lentamente. Non che<br />
avesse fretta di arrivare da nessuna parte.<br />
Questo sole del cazzo rimbalza da tutte le parti, con gli occhiali scuri è anche peggio.<br />
Tanto vale strizzare gli occhi. Le strade sono tutte strette e solo una è asfaltata, per<br />
il resto brecciolino. Che fa scivolare.<br />
Vent'anni prima avrebbe pagato per un posto come questo dove venire a riposare le<br />
ossa, ora a malapena aveva ossa da riposare e si trascinava lungo le giornate tutte<br />
uguali con un'idea fissa. Fortunatamente era troppo vigliacco per considerarla davvero.<br />
Ogni giorno smetteva di fumare, verso le dieci di sera, ma la mattina se ne dimenticava,<br />
per cui estrasse dal taschino della giacca il pacchetto morbido. Si fermò su uno<br />
slargo della strada che porta in centro, accese una sigaretta guardando i cardi che<br />
da soli svettavano sui cespugli di rovi. La prima boccata fa girare la testa a chiunque,<br />
sentì cedere le ginocchia e dovette sedersi.<br />
Guardava per terra. Se negli anni avesse segnato la ghiaia, si sarebbe accorto che<br />
ogni sasso non si era spostato più di qualche centimetro dalla prima volta che aveva<br />
percorso quella strada. In bicicletta. Gli era sembrata una buona idea, ma ben presto<br />
aveva scoperto che la salita non era poi così leggera, quindi l'aveva depositata a far<br />
ruggine sotto la finestra dello studio. Ora andava a piedi.<br />
Finita la sigaretta, gli ci vollero due minuti e sedici secondi per poter riprendere a<br />
camminare. Arrivato in cima al dislivello, non si fermò per guardare il panorama, lo<br />
aveva fatto un paio di volte e aveva scoperto che non faceva altro che insinuargli nel<br />
petto un senso di tristezza di cui non aveva bisogno. Iniziò a scendere. Case bianche<br />
da cartolina, cielo terso e tranquillo, non una macchina, non un suono se non quello<br />
delle onde sulla scogliera. Una desolazione devastante alla quale aveva fatto l'abitudine<br />
a fatica.<br />
Il bar era aperto. Per gli operai che avevano lavorato di notte sull'unica strada asfaltata<br />
che attraversava l'isola e adesso smontavano il turno. Erano in cinque, Marcello<br />
li conosceva tutti di vista. Accennarono un saluto. Lui salutò la barista.<br />
Mentre aspettava che il fondo si depositasse, con la pazienza di chi ha dovuto impararla,<br />
gli venne in mente quanto fosse facile prendere un caffè a Roma. Sulla strada<br />
per andare agli studi. Un gesto rituale, ripetitivo, veloce. Ora ci volevano tra i cinque<br />
minuti e uno e i cinque minuti e sei solo perché il caffè fosse bevibile. Ma la cosa che<br />
lo infastidiva di più era che tutta questa lentezza sembrava volersi adeguare alla sua<br />
età. E se c'era una cosa che non poteva tollerare, era che l'ambiente esterno si per-<br />
64
mettesse di ricordargli quanti anni aveva.<br />
Guardò la barista, una bella donna sulla quarantina, il profilo marcato tipico delle<br />
donne greche, capelli neri, occhi neri, solo un accenno di trucco. Un tempo le<br />
avrebbe sorriso, forse un secolo fa, e lei si sarebbe sciolta come neve al sole.<br />
Tornò a guardare la tazzina.<br />
Gli operai, seduti a un tavolino dietro le sue spalle, non parlavano. Uno di loro leggeva<br />
un quotidiano, gli altri sembravano tutti sul punto di addormentarsi. Quello<br />
con il giornale lo appoggiò al tavolo e lo richiuse con calma, quasi con perizia. Si<br />
alzò, scostò la sedia e venne al bancone.<br />
«Tesseris cafè, parakalò.»<br />
«Duo ogdonta.»<br />
Pagò per tutti, nessuno fece una piega.<br />
«Eukaristò.»<br />
«Kaliméra.»<br />
Tornò al tavolo, batté con le nocche chiuse sul piano accanto a uno <strong>dei</strong> suoi colleghi.<br />
«Aurìo.»<br />
Alcuni accennarono un saluto, uno di loro prese il giornale e cominciò a sfogliarlo.<br />
Con dedizione. Una dedizione soffocante.<br />
Iniziava a fare caldo e Marcello, in camicia e pantaloni di lino, scarpe comode, la<br />
cintura che stringeva sui fianchi e la schiena stanca, si sporse in avanti, prese il<br />
recipiente dello zucchero, di quelli col dosatore, e ne versò una generosa quantità<br />
nella tazzina. Mescolò. Parte del fondo tornò a galla per poi ridepositarsi quasi subito.<br />
«Posso usare il telefono?»<br />
La barista gli passò un cordless. Sorrise, probabilmente quella era l'unica frase<br />
che conosceva in italiano, Marcello la ripeteva quasi tutti i giorni e quasi sempre<br />
alla stessa ora. Il telefono rimase appoggiato al bancone un minuto esatto, tempo<br />
di tastarsi il polso sinistro e contare fino a sessanta. Tutto bene. Prefisso internazionale,<br />
prefisso, numero. Routine, routine, routine.<br />
2<br />
26 Agosto 1962<br />
«Merkele, quali sono le sue aspettative per questa ventisettesima edizione?»<br />
«Dovrei avere delle aspettative? Vedo molta di gente vestita bene, sicuramente il<br />
buffet sarà all'altezza.»<br />
Risate.<br />
«Lei si presenta con Sergio Straniero. Antonino ha avuto una tiepida accoglienza<br />
nelle sale, e la competizione quest'anno è agguerrita. Non ha paura che Venezia<br />
segni l'inizio del declino?»<br />
«Straniero è un genio, oltre che uno <strong>dei</strong> miei più cari amici. E il pubblico non ha<br />
mai influenzato Venezia. Conta quello che pensano qui, non nelle sale.»<br />
65
Brusio.<br />
«Cosa risponde a chi l'ha accusata di aver perso il criterio nella scelta <strong>dei</strong> ruoli?<br />
Gli intellettuali sono rimasti infastiditi dalle sue recenti apparizioni in pellicole comiche.»<br />
«Sono un attore.»<br />
«Questo lo sappiamo, ma non ha paura di perdere il suo pubblico di affezionati, voltandogli<br />
le spalle?»<br />
«Non sono io a voltarle a loro ma loro a me. Essere intellettuali non vuol dire essere<br />
noiosi, consiglierei ai miei affezionati di farsi quattro risate di tanto in tanto.»<br />
«È qui con sua moglie, Merkele?»<br />
«Cosa?»<br />
«È qui con Betta Reisenstein?»<br />
«Mia moglie è impegnata nelle riprese a Saint Tropez. Se vuole chiedermi un appuntamento,<br />
le consiglio di contattarmi in privato, però. In questa sede mi vedo<br />
costretto a declinare.»<br />
Risate, ancora.<br />
«È la sua terza moglie?»<br />
«Come? Non la sento.»<br />
«È la sua terza moglie? Alcuni sostengono che lei fosse già sposato prima di conoscere<br />
Emma Pagani.»<br />
«Nessuno ha domande sul mio film?»<br />
«C'è chi sostiene che non basti più Marcello Merkele a sollevare la qualità di una<br />
pellicola. Dicono che abbia perso lo smalto.»<br />
«È una domanda?»<br />
«Sì.»<br />
«La domanda sarebbe se io ho perso lo smalto, se non mi sento più in grado di<br />
recitare?»<br />
«Possono capitare momenti di scarsa lucidità.»<br />
«Lei ha visto il film?»<br />
«Sì.»<br />
«Come lo ha trovato?»<br />
«Molto divertente, però Straniero ha...»<br />
«Tanto basta, grazie a tutti.»<br />
Brusio, ancora.<br />
«Aspetti, Marcello!»<br />
«…»<br />
«Marcello!»<br />
Si alza, il microfono resta solo.<br />
«Cani schifosi, si riempiono la bocca di stronzate.»<br />
«Tranquillo, lo fanno perché gli metti soggezione.»<br />
«Soggezione un cazzo. Fammi mandare su una bottiglia di Cointreau e una confezione<br />
di paracetamolo. La schiena mi sta uccidendo.»<br />
66
3<br />
16 Giugno 2007<br />
Il televisore avrà avuto almeno dieci anni, a tubo catodico, grande come un armadio,<br />
pesante come un macigno, ma tanto nessuno lo avrebbe spostato. Mentre il<br />
nastro della cassetta girava nascosto dal frontalino del videoregistratore, emetteva<br />
un suono sinistro, un fruscio che per chi era distratto dalle immagini suonava come<br />
un sibilo animalesco. L'audio non era necessario, Marcello conosceva la scena a<br />
memoria.<br />
La stanza era illuminata solo dalla luce intermittente delle immagini. Grigia e orgogliosa<br />
arrivava a baciare la libreria colma di volumi mai aperti, scaffale per scaffale.<br />
Tutti tranne quello più in basso, tenuto in ombra dalla poltrona di pelle<br />
marrone, con i suoi faldoni stropicciati di documenti e articoli di giornale, rilegati<br />
come una reliquia pagana. Odore di ricordi e di carta ingiallita.<br />
Il colore <strong>dei</strong> pantaloni di raso bordeaux a coste del pigiama andava e veniva, così<br />
come quello della vestaglia. Niente calzini, ciabatte chiuse. Nessuno lo aveva mai<br />
visto così, nemmeno Varessa era autorizzata a entrare nello studio dopo le nove<br />
di sera.<br />
Spostò il posacenere sul bracciolo sinistro, spense il mozzicone quando ormai<br />
non c'era più nulla da fumare. Si accarezzò una guancia col dorso della mano, la<br />
barba gli dava ancora fastidio ma ormai era abituato alla ruvidità crespa e bianca<br />
che gli gonfiava la faccia. Cercava di tenerla in ordine, perlomeno. Aveva gli occhi<br />
lucidi ma l'espressione dura, non si commuoveva più, non sentiva più niente nel<br />
petto. Il se stesso dello schermo sorrideva, non era lui la figura derelitta e sfatta<br />
dall'altra parte del vetro.<br />
Si chinò in avanti per prendere il telecomando, avanzamento veloce fino al volto<br />
di Anna Magnani. Il suo sorriso e le occhiaie lo facevano sentire meno solo, come<br />
se avesse avuto una complice da qualche parte che lo capiva, che apparteneva a<br />
entrambi i suoi mondi.<br />
«Non toglietemi nemmeno una delle rughe, ci ho messo tanti anni per averle.»<br />
Retorica. Ma adesso avrebbe voluto saperlo dire lui. Stop. Si alzò.<br />
Una volta spento il televisore, la poca luce sparì del tutto, ma conosceva l'ambiente,<br />
poteva muoversi anche al buio. Riordinò a memoria gli oggetti sulla poltrona,<br />
prese in mano il posacenere e lo svuotò nel cestino accanto alla scrivania.<br />
Strisciando i piedi, raggiunse la porta. Varessa stava già dormendo, dovevano essere<br />
almeno le undici. E in Italia? Un’ora in meno. Tutto bene. Tolse la vestaglia e<br />
l'appese accanto alla testata del letto, si sedette. Non aveva più sonno da molto<br />
tempo, guardò sul comodino e riconobbe la confezione di Roipnol dalla sagoma<br />
familiare, bombata. Decise che era presto. Varessa respirò troppo a fondo per essere<br />
profondamente addormentata.<br />
«Hai fumato?»<br />
«Fumo di continuo.»<br />
«Non dovresti, agàpe.»<br />
«Non dovrei fare un sacco di cose. Non ho per niente sonno.»<br />
67
«Sdraiati e concentrati, il sonno arriva poi.»<br />
Marcello tossì, Varessa sospirò.<br />
«Sono vecchio.»<br />
«Sono vecchia anch'io, ma non lo ripeto di continuo.»<br />
«Non me lo voglio dimenticare.»<br />
«Però così lo ricordi a me.»<br />
Si sdraiò sopra le lenzuola ma tenne gli occhi aperti, lei era sdraiata sul fianco sinistro.<br />
Mise le mani in grembo, poi le spostò sul petto. Pensò di nuovo al Roipnol.<br />
Ancora cinque minuti.<br />
4<br />
18 Giugno 2007<br />
Eduardo Baum, un tempo analista, non si preoccupava di apparire ridicolo in calzoni<br />
corti, canottiera e calze fino al ginocchio. Aveva smesso di indossare i completi<br />
da vent'anni, da quando non ce n'era più nessuna necessità, nessun paziente,<br />
nessun appuntamento. Lo studio di via Armorari era ormai sfitto, e i libri che aveva<br />
contenuto, centinaia, dormicchiavano impolverati in una cantina greca, accanto ai<br />
barili di olive. Non ne sentiva la mancanza, e se capitava di sentirla scendeva nella<br />
cantina, li guardava dalla giusta distanza per coglierli tutti, pescava un'oliva nera<br />
e salata e ritornava verso il mare masticando. Tutto bene, in fondo.<br />
«Merkele.»<br />
«Dottore, sai che non devi chiamarmi così.»<br />
«E tu sai che non sono più un dottore, siamo pari.»<br />
Marcello guardava il mare dal terrazzino del ristorante. Bianco. Il terrazzino, non<br />
il mare, il mare era azzurro intenso e gli metteva una grande tristezza. Ma non<br />
c'era nulla che non gli mettesse tristezza ultimamente, perlomeno il mare sembrava<br />
fare il suo dovere.<br />
«Se non sei più un dottore, dovresti smetterla di analizzarmi.»<br />
«Deformazione professionale, suppongo. Mi appassionano i casi patologici reiterati.»<br />
«E a me appassionano le donne che hanno un quarto <strong>dei</strong> miei anni. Non sempre<br />
si può avere quello che si vuole.»<br />
Girò il bicchiere nella mano, la salsedine lo aveva opacizzato.<br />
«Quante mogli hai avuto?»<br />
«Quattro.»<br />
«Le hai amate tutte?»<br />
«Loro amavano me, ma era facile amarmi. Così com’era impossibile per me innamorarmi.<br />
Mi invaghivo, ma mi stancavo presto.»<br />
«Vuoi parlarmene?»<br />
«No, non voglio parlartene. Sono anni che cerchi di farmi parlare e sono anni che<br />
cerco di dissuaderti.»<br />
«Dovresti smetterla, accettare il fallimento e liberarti una volta per tutte. Ho parlato<br />
68
con tua sorella.»<br />
«Anch'io. Ti ha detto della sceneggiatura?»<br />
«Sì. Non fa per te.»<br />
«lo penso anch'io. E allora perché sono qui a fissare il mare al tramonto come un<br />
vecchio stronzo malinconico?»<br />
«Mi è stato suggerito di smettere di analizzarti. Scelgo di seguire il suggerimento.»<br />
«Vigliacco. Che ore sono?»<br />
«Le otto e mezza.»<br />
«Controllavo che fosse tutto a posto.»<br />
«Hai fatto bene.»<br />
Marcello tossì, una tosse profonda, ancestrale. Dovette inspirare a fondo.<br />
«Vedo il mare a pallini.»<br />
«Sfuocato?»<br />
«No, a pallini. Come il segnale statico della televisione.»<br />
«E i colori?»<br />
«I colori ci sono, ma non sono uniformi.»<br />
«È normale, l'importante è che tu veda i colori. E non sforzare la vista.»<br />
«Perché dovrei? La cosa più distante da vedere su quest'isola è comunque a cento metri<br />
dal mio naso.»<br />
«Non hai più quarant'anni.»<br />
«Ma non posso averne di più. Ho scelto di fermarmi.»<br />
«Non hai informato il resto del corpo, però. Cadi a pezzi.»<br />
Eduardo aveva le gambe accavallate, Marcello distese davanti a sé. Non serviva<br />
che parlassero veramente per dirsi quello che dovevano. In tanti anni di amicizia,<br />
quella era la prima volta che avevano veramente qualcosa su cui riflettere. Ognuno<br />
per conto suo, ognuno con i suoi motivi che inesorabilmente andavano a incrociarsi<br />
con quelli dell'altro.<br />
I turisti avevano affollato il ristorante tutto d'un tratto. Erano arrivati in massa dalla<br />
spiaggia, chiassosi, caotici, fuori luogo. Specialmente italiani e americani, ma<br />
anche francesi e russi. Nessun greco. Si sedevano ai tavoli, cercavano di accaparrarsi<br />
quelli più vicini al parapetto. Chi non trovava un posto a sedere si accalcava<br />
intorno al bancone, come se fossero a digiuno da due settimane. Una scena<br />
pietosa, anche per Marcello che non la stava guardando, ma la sentiva e ormai la<br />
conosceva a memoria.<br />
«Sembrano profughi, non sembra gente in vacanza.»<br />
«Sei cinico oggi, Marcello, hai deciso finalmente di abbracciare lo stereotipo dell'anziano<br />
brontolone?»<br />
«Sono riflessivo. Vedi se riesci a procurare un'altra caraffa.»<br />
69
Virginia, Carlo, Luna e Nadia erano amici ma dieci anni fa Virginia se n’è<br />
andata senza lasciare traccia. Senza di lei, gli equilibri saltano, i ruoli e i<br />
sentimenti si confondono.<br />
Anche Nadia se ne va dopo qualche anno, si trasferisce a Roma con il<br />
marito. Poi succede qualcosa, gli altri ricevono una sua mail, una richiesta<br />
d'aiuto.<br />
Virginia, Carlo e Luna si ritrovano a Milano da trentenni. Sono quasi degli<br />
estranei, così diversi dalla proiezione di loro stessi da adolescenti che il<br />
loro viaggio alla ricerca di Nadia sarà pieno di silenzio. Il segreto di Virginia<br />
fa paura a tutti, nessuno osa affrontarlo. Ma verrà fuori, quando si ritroveranno<br />
ad avere un’unica possibilità per ritrovare Nadia.<br />
Dopo di te è tutto quello che succede quando si decide di soffocare qualcosa,<br />
perché se lo svelassimo cambierebbe così radicalmente la nostra<br />
vita da non riconoscerla, da non farci riconoscere nemmeno più. Ed è<br />
tutto quello che succede quando si decide di non nascondersi più, dando<br />
la colpa alla vita, anche se non è stata lei a decidere per noi.<br />
Loretta Patrini nasce nel 1978 a Crema. Alle elementari si dilettava con<br />
sceneggiature per gli spettacoli con le marionette di peluche del Dixan.<br />
Molti anni più tardi scopre Pier Vittorio Tondelli che le cambia irreparabilmente<br />
la vita. Capisce come deve scrivere, oltre a cosa.<br />
Ha scritto <strong>dei</strong> racconti nelle pubblicazioni Nessundorma, On my shoes e<br />
Il portiere rassicura della <strong>Macchina</strong> <strong>dei</strong> <strong>Sogni</strong>, di cui si è occupata anche<br />
della redazione.<br />
Ha fondato e dirige la rivista letteraria static (staticreview.wordpress.com).<br />
Questo non è il suo primo romanzo, ma i due che ha scritto prima è meglio<br />
che rimangano nel cassetto.<br />
71
Dopo di te, Loretta Patrini.<br />
“Hai creduto che ti bastasse chiudere una porta,<br />
ma sei rimasta a guardarla per tutta la vita.”<br />
A. Gatto<br />
1<br />
Le piastrelle sono fredde e il palmo umidiccio non fa presa. Spinge i polpastrelli<br />
per bloccarsi ma è come tentare su una parete oleosa. Le unghie sono senza<br />
smalto, sono giorni che non se lo mette più, non c’è una persona da cui vuole farsi<br />
notare, per cui essere curata e attraente. Con la pressione la punta delle dita diventa<br />
bianca, la vede da sotto le unghie. Le righe nette delle falangi, i cinque tendini<br />
che partono dalle dita e convergono all’inizio del polso. Le mani sono<br />
screpolate, il dorso ha delle piccole crepe bianche, la cattiva abitudine di lavarsi<br />
le mani con l’acqua fredda.<br />
La sua immagine riflessa così da vicino la sta fissando. Ci sono delle righette nere<br />
appena sotto gli occhi. Ha premuto gli occhi forte e il mascara si è incollato lì sotto.<br />
Ha il trucco colato e le unghie senza smalto ma il rossetto è ancora intatto. Cattivissimo<br />
segno. È quello che la frega, che spegne il suo interruttore.<br />
Non sta guardando lui ma se stessa. Il gioco davanti allo specchio è iniziato tempo<br />
prima ma ha smesso di essere divertente già da un po’. Non fa altro che guardarsi<br />
negli occhi, vuole riconoscere qualcosa. Cerca qualcosa che non trova. E lui dietro<br />
che spinge è solo patetico, immerso nel suo piacere. Lo osserva dal riflesso. È un<br />
gioco autoreferenziale per entrambi: l’uomo vede in diretta il potere che crede di<br />
gestire, la donna l’espressione che può avere solo in quei momenti. È una curiosità<br />
morbosa, non ha niente a che vedere con il sesso, ma solo con quello che di se<br />
stessa non controlla.<br />
Guardandosi le labbra il suo piacere si interrompe subito. Una passata di rosso<br />
inutile e se ci pensa si accorge che è da un pezzo che non si baciano più.<br />
Lui le sta mettendo le mani sui fianchi, le preme le quattro dita sotto e con il pollice<br />
cerca di farle slittare il bacino in fuori, nella sua direzione. Lei lo asseconda e lo<br />
guarda, lui fa un accenno di sorriso e continua. Non è possibile che lui non si renda<br />
conto che nessuno <strong>dei</strong> suoi muscoli sia più in tensione e che stia scopando senza<br />
di lei. Lui chiude gli occhi e butta la testa indietro, non è più nemmeno nello specchio<br />
con lei, è proprio uno che si sta scopando una qualsiasi.<br />
E la sua è una posizione piuttosto scomoda. Se non la sfrutti per il sesso non è<br />
che ti metteresti proprio così davanti allo specchio.<br />
Quando il telefono squilla si distrae subito, perché ha le suonerie personalizzate<br />
e sa chi la sta chiamando. Rimane a contare gli squilli, sa che ce ne saranno nove<br />
prima che cada la linea. Se una persona ti cerca senza fretta magari aspetta solo<br />
fino al quinto o al sesto. Quando il nono si interrompe capisce che c’è qualcosa<br />
che non va. Il telefono ricomincia a squillare. Con una mano lo scosta all’indietro<br />
facendolo uscire. Lui spalanca gli occhi, prova ad accennare qualcosa ma non fa<br />
in tempo, perché lei scappa nell’altra stanza.<br />
72
«Carlo» la sente dire.<br />
Ha interrotto la sua scopata per rispondere a un altro.<br />
Quando torna nemmeno lo guarda, raccoglie i suoi slip da terra e li lancia nel cesto<br />
della biancheria sporca, entra nella doccia dicendogli:<br />
«Te ne devi andare.»<br />
«Come, scusa?»<br />
Luna solleva la manopola della doccia facendo uscire il getto al massimo. Parla al<br />
di sopra dell’acqua.<br />
«Tesoro, finito, almeno per me. Tu se vuoi finiscitela da solo, ma non in casa mia»<br />
chiude gli occhi e si butta sotto l’acqua calda. Gli sente dire: «Sei davvero una<br />
troia!»<br />
Resta ad ascoltare i suoi movimenti con gli occhi chiusi, solo quando sente sbattere<br />
la porta li riapre.<br />
Non si lava mai i capelli sotto la doccia, lo fa sempre a parte, perché detesta avere<br />
capelli ovunque quando si deve asciugare, ma stavolta butta sotto anche la testa.<br />
Carlo le ha chiesto se ha visto la mail. Gliel’ha letta e le ha chiesto di incontrarsi<br />
appena possono. Le viene da piangere, perché ha paura e non le piace per niente<br />
non sapere di cosa avere paura. Appoggia una mano alle piastrelle, stavolta senza<br />
fare pressione, senza dita bianche sotto le unghie e tendini tirati. Lava via tutto<br />
l’odore di quello lì che ha appena mandato via, il suo riflesso nello specchio che<br />
non riconosce più, il mascara che non farà più colare senza piacere. Si strofina<br />
nei punti in cui l’ha toccata facendo arrossare la pelle.<br />
Fuori dalla doccia nota subito che lui ha lasciato di proposito il preservativo usato<br />
per terra. Voleva farla inginocchiare a raccoglierlo ma lei sorride, perché è l’ultima<br />
volta che si inginocchia per lui.<br />
2<br />
Virginia legge il nome del mittente e ha come l’impressione che qualcuno le abbia<br />
lanciato addosso una secchiata di cubetti di ghiaccio senza avvertirla. Sente i capelli<br />
che le si drizzano sulla nuca e d’istinto si mette una mano in testa come se<br />
stessero per staccarsi tutti. Il cuore le sbatte contro la laringe. Lo sente ovunque,<br />
sembra che voglia uscire dall’ombelico.<br />
La distrazione, deve cercare la distrazione. Muove gli occhi a destra e a sinistra<br />
per focalizzarsi su qualcuno. La hostess sta picchiettando qualcosa al computer.<br />
Un po’ guarda le sue dita e un po’ i tasti, come se non fosse sicura di scrivere tutto<br />
correttamente. Alza la cornetta di un telefono grigio con il filo di plastica arrotolato<br />
a spirale, come quelli <strong>dei</strong> vecchi telefoni con la rotella, che se sbagliavi l’ultimo numero<br />
dovevi ripetere tutto daccapo ed era una gran rottura di palle.<br />
Pigia un tasto e rimane in attesa facendo un lungo sospiro. Le sue labbra sembrano<br />
dire solo ok, prima rimettere la cornetta al suo posto.<br />
Ha sempre pensato che le hostess non abbiano una vita propria, che siano solo<br />
<strong>dei</strong> meccanismi robotici posti in uno spazio vuoto per far salire i passeggeri sugli<br />
aerei. Anche le sale d’imbarco le fanno lo stesso effetto.<br />
La gente è seduta ad aspettare, sulle loro facce c’è stampata solo l’attesa. La<br />
73
maggior parte di loro ha lo sguardo imbambolato a terra. Anche se alcuni parlano,<br />
in realtà non stanno dicendo niente, cercano solo di riempire un po’ quello spazio<br />
vuoto. Chi è in partenza sembra non abbia mai niente da dire o da pensare.<br />
Ci sono tre bambini che giocano con un palloncino verde. Ridacchiano saltando,<br />
non hanno la minima coordinazione nel colpirlo al momento giusto. Non appena<br />
distoglie lo sguardo sente uno “Sciaf!” seguito da un’esplosione di pianto. Uno <strong>dei</strong><br />
tre bambini è sdraiato per terra e sembra aver sbattuto una guancia. La sua<br />
mamma accorre, ma invece di consolarlo lo rimprovera con un accento bavarese<br />
fortissimo. Il bambino prova a frignare un po’ ma quando vede che nessuno ha intenzione<br />
di compatirlo la smette. Gli altri due sono rimasti a osservare la scena in<br />
silenzio. Quello con in mano il palloncino verde fa spallucce e lo tira all’altro che<br />
glielo rimanda. Il gioco ricomincia, tragedia finita.<br />
Manca quasi mezz’ora all’imbarco e il tempo sembra fermo. Apre lo zaino e ci<br />
guarda dentro. Tutto il suo contenuto in quel momento diventa improvvisamente<br />
interessante. C’è la sua Canon e ci sono i suoi libri, il suo taccuino arancione e il<br />
suo astuccio. I fazzoletti di carta che profumano di menta e la guida della città. Fa<br />
per estrarre la guida e sollevandola scorge il libro appoggiato. Rimane un attimo<br />
lì sospesa a fissare il pezzo di copertina al contrario che riesce a vedere, poi molla<br />
la guida e prende il libro. Si intitola “Il buio della notte” e ogni volta che lo legge si<br />
ripete che è un titolo davvero banale.<br />
«La recensione per venerdì. Sii clemente, è la nipote dell’editore.»<br />
Clemente. Non era mai stata clemente in vita sua e il suo capo la apprezzava proprio<br />
per questo.<br />
La scrittrice si chiamava Anja von Geller, aveva ventisette anni e due settimane<br />
prima l’aveva invasa con i racconti del suo viaggio australiano, da cui aveva trovato<br />
l’ispirazione per scrivere quel libro. Lei l’aveva fissata per un quarto d’ora ma dopo<br />
qualche minuto aveva smesso di ascoltarla. Muoveva impercettibilmente la testa<br />
verso un sì per dare l’aria di essere attenta e sorrideva quando Anja sorrideva,<br />
spalancando gli occhi con un po’ troppa enfasi.<br />
A un certo punto Anja le aveva chiesto:<br />
«E tu?»<br />
«…Eh?»<br />
«Tu, dico. Non scrivi?»<br />
Lei era rimasta in silenzio un attimo, strofinandosi la falange del pollice contro<br />
quella del medio.<br />
«…Sì. In realtà l’ho sempre fatto.» E si era pentita immediatamente di averglielo<br />
detto.<br />
«Ah sì? E cosa?»<br />
Non aveva per niente voglia di parlarne. Avrebbe potuto tagliare corto dicendole<br />
che scriveva cose da nulla ma non ci era riuscita. Le poche volte che parlava delle<br />
cose che scriveva si sentiva costretta a non mentire.<br />
«Anni fa ho scritto delle cose. Ma adesso le trovo imbarazzanti.»<br />
Anja von Geller aveva ridacchiato. Cosa c’era da ridacchiare?<br />
«Ero un po’ giovane» si era giustificata, «e forse un po’ troppo convinta.»<br />
«Lo siamo stati tutti, ma va bene così.»<br />
74
Situazione molto retorica.<br />
«E dopo? Non hai più scritto altro?»<br />
«No, in realtà no.»<br />
«E come mai?»<br />
Si stava sentendo un po’ troppo l’intervistata e trovava la von Geller invadente,<br />
anche se in realtà le aveva posto solo una semplice domanda. Ma quando eviti di<br />
trovare la risposta semplice alle domande semplici, allora quelle domande diventano<br />
un colpo diretto, quasi peggio di un’accusa.<br />
Rilegge il nome dell’autrice in copertina e sospira. Puoi distrarti fino a un certo<br />
punto ma poi l’accusa ti arriva diretta addosso e te la devi prendere per forza.<br />
Abbassa gli occhi sul palmare e scorge gli altri due destinatari in copia.<br />
La mail dice soltanto quello.<br />
3<br />
Carlo è appoggiato alla portiera della sua macchina. Ha lo sguardo fisso a terra, i<br />
capelli lisci lunghi fino alle spalle gli cadono in avanti. Guarda la sigaretta spenta<br />
che ha tra le dita, la gira di qua e di là come se nascondesse un segreto. Gli sembra<br />
di tremare, che non sia possibile. Ha passato anni in attesa che quel momento<br />
arrivasse e adesso non si sente più così sicuro.<br />
Sente il passo di Luna avvicinarsi ma non osa alzare la testa. Lei si ferma davanti<br />
a lui.<br />
«Mi sembrava che avessi smesso» gli dice lei.<br />
Lui la guarda. Luna è truccata, vestita e pettinata come una che lavora in banca.<br />
L’impiegata perfetta, quella a cui tutti porterebbero il loro salvadanaio per farselo<br />
tenere al sicuro.<br />
«Quando sono nervoso ne tengo una in mano, a volte faccio anche finta di aspirare.<br />
Se tengo tra le labbra il filtro mi tranquillizzo.»<br />
«Pare che oggi tu non l’abbia tenuta ancora tra le labbra.»<br />
Lui fa un riso forzato, in realtà butta fuori solo aria dal naso e solleva un po’ le<br />
spalle.<br />
«Io ho bisogno di bere.»<br />
È un po’ presto per l’aperitivo ma Luna è una che non si è mai fatta troppi problemi.<br />
Si sta mangiando tutte le olive che il cameriere ha portato. Gli indica la ciotola per<br />
invitarlo a prenderne una, ma lui alza la mano rifiutando.<br />
«Cosa ne pensi?» le chiede lui.<br />
«Ti sembra una domanda sensata?»<br />
«Cercavo solo di capire, magari tu non stai subendo un blackout.»<br />
«Più che blackout mi sento un grosso punto di domanda che mi lampeggia sopra<br />
la testa.»<br />
«Ecco, giusto.»<br />
«Cosa ne pensa la tua ragazza?»<br />
«Non lo sa. E non credo le interesserebbe.»<br />
Alza gli occhi su di lui e lascia in pace le olive:<br />
75
«Tu credi? Nemmeno se dovessimo partire?»<br />
«Non essere ridicola, Luna… e per dove?»<br />
«Ad esempio all’indirizzo che abbiamo.»<br />
«Certo, ci mettiamo lo zaino in spalla e partiamo per un bell’on the road.»<br />
«Perché non dici che il tuo vero problema non è la mail di Nadia ma il fatto che<br />
potrebbe ricomparire Virginia nella tua vita?»<br />
«Virginia non ricomparirà mai.»<br />
«Non è possibile che tu non voglia mai parlare di lei.»<br />
«Non c’è niente da dire.»<br />
«Sì, invece.»<br />
«No! Invece.»<br />
«Non hai la stessa reazione quando parli di Nadia.»<br />
«Nadia ha scelto quello che era giusto per lei. Ora non devo essere io ad andare<br />
a salvarla dalle sue scelte sbagliate.»<br />
Carlo si alza.<br />
«Siediti…»<br />
«Non sono più affari miei da moltissimo tempo. Ho la mia vita. Ho una ragazza…<br />
»<br />
«Che non ami» taglia corto Luna, e si beve l’ultimo sorso del suo spritz, guardandolo<br />
negli occhi. Posa il bicchiere sul tavolo con attenzione, per non fargli fare rumore.<br />
Carlo ripensa a quand’erano adolescenti. La schiettezza di Luna gli dava sempre<br />
fastidio, lo faceva subito infiammare. Lei invece rimaneva impassibile e la sua<br />
calma non faceva altro che alimentare il suo fastidio. Adesso sapeva di non potersela<br />
più prendere con lei, non quando diceva la verità.<br />
«Devo andare» Carlo sfila la giacca dallo schienale della sedia e se la mette.<br />
«C’è qualcosa che tu non mi hai mai detto. Che voi tre non mi avete mai detto.<br />
Guarda che non sono stupida» dice Luna fissando l’interno del suo bicchiere<br />
vuoto.<br />
Lui rimane paralizzato e non riesce a nasconderlo in tempo. Sta per darle modo<br />
di interrogarlo ma lei rialza la testa e dice soltanto:<br />
«Faresti meglio ad accendertela quella sigaretta.»<br />
C’è stato un periodo in cui avrebbe voluto sapere, invece ha sempre fatto finta di<br />
niente. Luna non ha mai chiesto niente a nessuno in realtà, piuttosto ha sempre<br />
detto in faccia ciò che pensa, che non si è mai basato su qualcosa che non sa. La<br />
sua è una discrezione schietta: io mi faccio gli affari miei, ma quello che penso te<br />
lo dico.<br />
È una cosa che più o meno tutti apprezzano, perlomeno le persone non ipocrite.<br />
È la prima volta che si ritrova a svelare una sua curiosità. Anche se non ha formulato<br />
una domanda il punto è lo stesso.<br />
Carlo è il suo migliore amico dai tempi del liceo. Lei gli faceva copiare latino, lui le<br />
faceva copiare matematica. Lei gli ha sempre raccontato tutto senza che lui le<br />
chiedesse niente e gli ha sempre detto cosa pensava di lui, anche quando lui non<br />
le raccontava niente.<br />
76
Un pomeriggio aveva preso in prestito il libro di Carlo con i suoi appunti sulla seconda<br />
guerra mondiale. Aveva deciso di portare storia come seconda materia alla<br />
maturità. Una fotografia era scivolata per terra con l’immagine rivolta verso terra.<br />
Non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere chi ci fosse fotografato sopra, perché<br />
Carlo era stato velocissimo a raccoglierla.<br />
«Guarda che lo so chi è» gli aveva detto.<br />
Lui aveva guardato la fotografia e aveva quell’espressione di ogni volta che lei gli<br />
centrava un pensiero.<br />
«Ma sono affari vostri» aveva aggiunto.<br />
Carlo aveva appoggiato la foto sul tavolo. Virginia sorrideva con lo sguardo basso,<br />
teneva in mano una margherita. Ogni anno, quando arrivava la primavera, prendevano<br />
il sole tutti e quattro nel cortile di Nadia. Sua madre faceva delle focacce<br />
al rosmarino buonissime.<br />
Un mese dopo il giorno di quella foto si erano diplomati.<br />
E Virginia era sparita.<br />
4<br />
È soltanto un altro stupido Natale ed è già passato, in realtà, da due giorni. Ma<br />
quando detesti qualcosa sembra che duri ancora di più, infesti l’anima e rallenti<br />
l’orologio.<br />
Giù in strada il silenzio tirerebbe scemo anche un guru dello yoga.<br />
C’è un orologio digitale attaccato alla parete, Luna non sopporta il ticchettio <strong>dei</strong><br />
secondi. Ma se ci fosse adesso le sembrerebbe di sentirlo una volta ogni cinque.<br />
Ha chiesto a tutti di non farle gli auguri e quando si è svegliata la mattina del 25<br />
ha acceso il cellulare, ha aspettato, ma non è arrivato niente. Ha sollevato un po’<br />
la testa, come se la suoneria non si sentisse da sdraiati, poi l’ha ributtata sul cuscino.<br />
Quando chiedi cose del genere nessuno ti dà retta, si sarebbe aspettata<br />
quegli sms tipo: “So che non ami il Natale ma ti voglio bene e oggi ci tenevo a dirtelo”,<br />
oppure quegli orrendi messaggi retorici inviati con una pigiata di pollice a<br />
tutta la rubrica.<br />
E invece niente, e ci è quasi rimasta male.<br />
Il suo silenzio, lo ha sempre detto, è il suo controllo. La vita è rumorosa, ma in<br />
casa non vuole sentire niente. Non ha una tv e nemmeno uno stereo con una<br />
radio, può sentirla sul cellulare quella, ma non lo fa mai. Ci ha provato, una volta<br />
le si è rotto l’altoparlante, non sentiva la voce dell’interlocutore e doveva per forza<br />
usare l’auricolare. Aveva scoperto che la radio si poteva ascoltare solo con quello,<br />
così l’ha attivata, ma dopo soli due giorni si è resa conto di pedalare per chilometri<br />
attraverso la città con i suoi pensieri sintonizzati su altro che non fosse la radio.<br />
La televisione non la vede più da qualche anno, senza un motivo ben preciso.<br />
Luna ha smesso di fare tante cose, come ascoltare le persone. Perché la annoiano,<br />
non ha altri motivi nemmeno per questo.<br />
Ha iniziato a leggere furiosamente e a seguire serie tv. Guarda anche una decina<br />
di episodi al giorno durante il weekend. Carlo le ripete di continuo che non è sano<br />
e anche se lei non lo ammette in fondo lo sa, ma non riesce proprio a smettere.<br />
77
Ha trovato un modo per stare dentro il più possibile alla storia di qualcun altro.<br />
Quando si alza dal letto è già mezzogiorno. Mette il latte a scaldare con due cucchiaini<br />
di zucchero. A parte trita il cacao con il caffè solubile e la cannella. Torna a<br />
letto con la sua tazza e la piccola stanza da letto prende un altro profumo.<br />
Il suo computer è acceso, di notte scarica gli ultimi episodi. Non è arrivata nessuna<br />
mail notturna. Nel programma di posta tiene perfettamente ordinate tutte le cartelle<br />
<strong>dei</strong> suoi contatti. Non fa in tempo ad arrivare una nuova mail che già la sposta<br />
nella cartella. In questo modo ha sempre la cartella di posta in arrivo vuota. Sono<br />
giorni però che la cartella è piena di una mail di una persona che nella sua vita<br />
non c’è più da un bel po’ di tempo. La tiene lì, non saprebbe nemmeno dove spostarla,<br />
perché non c’è una cartella apposta per lei. La potrebbe creare, ma non è<br />
questo il punto. Il punto è che non vuole archiviare Virginia come tutti gli altri. Continua<br />
a riaprire quella mail e a rileggere quella riga. È Nadia che l’ha scritta, ma è<br />
a Virginia che Luna pensa.<br />
Carlo non vuole averne niente a che fare.<br />
Non si sono fatti gli auguri, Luna non è andata a pranzo dalla famiglia di Carlo<br />
come negli ultimi anni. È rimasta a casa da sola a trovare le parole per chiedergli<br />
scusa, anche se sa di avergli detto la verità.<br />
Ha tenuto la mail di Nadia aperta per un giorno intero. Ci ha camminato avanti e<br />
indietro con il suo caffelatte alla cannella. Ha pensato di rispondere a Nadia e in<br />
contemporanea a Virginia e Carlo, ma lui si sarebbe arrabbiato. Avrebbe potuto<br />
scrivere solo a Nadia ma le viene difficile. Cosa si potrebbe mai scrivere a una<br />
persona che ti chiede aiuto quando è sull’orlo del precipizio? Come stai? E non<br />
vuole risponderle da sola.<br />
L’ultimo numero che ha di lei è inattivo da più di due anni. Suo padre non lo vede<br />
da altrettanto, e chiamarlo adesso è fuori discussione, è come suonare una sirena<br />
di allarme.<br />
Sul fondo della tazza ci sono <strong>dei</strong> grumi di caffè e cacao non sciolti. Li schiaccia<br />
con la punta del cucchiaino.<br />
I rami degli alberi fuori sono immobili, il sole sbatte contro i balconi del palazzo di<br />
fronte dal terzo piano al sesto, dal secondo in giù c’è meno luce, o magari c’è ma<br />
è una luce diversa, che mette a fuoco altro.<br />
Luna si volta verso lo schermo, riapre la mail e gli occhi le vanno direttamente sull’indirizzo<br />
di Virginia.<br />
È a lei che deve scrivere.<br />
5<br />
Elena è contenta di non aver avuto Luna tra i piedi al pranzo di Natale. Lei e la<br />
sua spocchia, le sue frecciate, il suo ridere solo per cose che la infastidiscono.<br />
Non si è mai spiegata come sia possibile che lei e Carlo siano tanto amici. Almeno<br />
la giudicasse apertamente, almeno fosse una di quelle stronze che non fanno altro<br />
che trovarti qualcosa fuori posto, come quelli che non ti vedono da un pezzo e la<br />
prima cosa ti dicono è: «Ma come sei ingrassata!» Invece la ignora. Non fa nemmeno<br />
finta di salutarla col sorriso quando la incontra. Se Carlo non è totalmente<br />
78
in sintonia con lei è colpa di quella Luna storta.<br />
È il primo Natale senza di lei ma il padre di Carlo, alla fine del pranzo, non ce la<br />
fa a non evocarla.<br />
«Adesso ci vorrebbe proprio una bella torta di Luna.»<br />
Sua moglie è in piedi che sta sparecchiando e non fa in tempo a dargli una gomitata.<br />
«Elena ha fatto il tiramisù» dice.<br />
«Oh, bene.» Suo padre si strofina le mani contento, non coglie il disagio che ha<br />
creato.<br />
«Quindi? Perché non è venuta quella che non si abbasserebbe mai a fare un banale<br />
tiramisù?» gli chiede Elena in macchina, di ritorno a casa.<br />
«Abbiamo litigato» Carlo non ha nemmeno più voglia di fingere.<br />
«Ma smettila, voi non litigate mai. E alla scusa dell’influenza ci possono credere<br />
solo i tuoi.»<br />
Carlo sta guidando ma si gira a guardarla male, ha appena dato indirettamente<br />
degli idioti ai suoi genitori.<br />
«Se fossi mancata io non l’avrebbero menata tanto.»<br />
«Non fare la vittima.»<br />
«Perché devi sempre farmi sentire così?»<br />
«Perché devi sempre fare così?»<br />
Ma Elena è già partita e non la ferma più.<br />
«Quando c’è lei mi sembra di non essere una coppia ma un cazzo di trio, in cui mi<br />
sento il numero tre non perfetto. Quando non c’è per i tuoi è come se tu fossi single,<br />
o come se tu avessi lasciato la fidanzata a casa, che sembro non essere io.»<br />
Carlo sospira e non risponde.<br />
«Silenzio, come sempre.»<br />
«Elena, dici sempre le stesse cose.»<br />
Lei alza la voce: «Certo, io sono solo quella che ti rompe i coglioni. Perché allora<br />
non stai con lei?»<br />
«Non urlare.»<br />
«Perché non ti togli il disturbo di portare due persone a pranzo dai tuoi, invece di<br />
una?»<br />
«Non. Urlare.»<br />
Elena, che si era spinta in avanti verso il cruscotto, torna a sbattere la schiena<br />
contro il sedile.<br />
«Mi chiedo se anche quando mi scopi in realtà non desideri scoparti lei. O magari<br />
quando sono in ginocchio speri di sbatterlo in bocca a lei» lo dice senza più alzare<br />
la voce, a cui seguono tre, quattro secondi immobili.<br />
Carlo dà un’occhiata veloce al retrovisore, vede che non c’è nessuno, stringe tra<br />
i pugni il volante fino a sentire compressi sulla pelle le palline di gomma della fodera,<br />
poi spinge il piede sul freno come non ha mai fatto prima. Le gomme si immobilizzano<br />
e fischiano fortissimo, la macchina sbanda ed Elena finisce urlando<br />
con una spalla contro la portiera.<br />
Carlo ha ancora le mani strette sul volante, i piedi ancora schiacciati sul freno e la<br />
79
frizione, quasi abbia paura che la macchina possa ripartire da sola.<br />
«Scendi» le dice con calma.<br />
«Cosa?» Elena è incredula per la sua voce così pacata.<br />
«Scendi.»<br />
«Non fare la testa di cazzo…»<br />
Carlo non ha ancora schiodato lo sguardo dal vetro davanti.<br />
«Elena. Scendi.»<br />
Lei lo fa senza dire altro. Slaccia la cintura, raccoglie la sua borsa e la teglia che<br />
ha comprato apposta per fare il tiramisù, e scende. Non sbatte la portiera, è spaventata.<br />
Carlo riparte subito senza guardarla, non la osserva nemmeno dal retrovisore. Sa<br />
di essere riuscito a farla star zitta per una volta, ma non le interessa guardarla.<br />
A casa accende la tv ma la guarda un attimo e la trova subito noiosa. Gli sembra<br />
di avere di fronte Elena. Non saprebbe dire quando ha smesso di ascoltarla, di<br />
guardarla negli occhi sentendo la sua voce al rallentatore, sempre più ovattata.<br />
Quando ha smesso di fingere di averla mai amata. E non sa cos’ha fatto stasera,<br />
se l’ha lasciata soltanto per la strada o l’ha anche lasciata davvero.<br />
Due giorni prima Luna gli ha urlato dietro per la prima volta nella sua vita. Ha provato<br />
di nuovo a tirare fuori il discorso di Nadia e Virginia ma lui l’ha fermata subito.<br />
Lei ha reagito con un’aggressività mai vista, mai nei suoi confronti. Elena ha ragione<br />
su una cosa, lui e Luna non hanno mai litigato. Ma stavolta gli ha detto tutto<br />
quello che pensa in modo così chiaro che lui ha potuto difendersi solo con la rabbia.<br />
6<br />
“Sto vedendo questa serie tv canadese che si chiama ‘Being Erica’, dove la protagonista<br />
è una ragazza di trentadue anni che un giorno incontra un tipo strano<br />
che si spaccia per un analista, che le fa compilare una lista di rimpianti, e a ogni<br />
episodio la fa tornare indietro nel tempo per rivivere la situazione che rimpiange,<br />
per sistemarla – o come dicono gli inglesi: ‘to fix’ che è un verbo che adoro – anche<br />
se il passato non si può cambiare, o soltanto per capire perché sia andata così.<br />
Vederlo è terapeutico, in più questo dottor Tom per ogni situazione ha pronto un<br />
aforisma che vale più di qualsiasi predica. Va diretto al punto, non riuscirei mai a<br />
essere così neppure io, a meno che non diventi una sorta di libro di citazioni ambulante,<br />
esprimendomi solo con quelle. Ma credo che dopo un po’ risulterebbe noioso<br />
persino a me.<br />
Tutto questo per dirti che l’altro giorno ho provato a stilare una mia lista di rimpianti,<br />
anche senza nessun dottor Tom che mi consenta di viaggiare nel tempo. E non ci<br />
sono riuscita. Non perché non ne abbia, anzi. È solo che il primo rimpianto che mi<br />
veniva in mente era talmente forte da cancellare quelli successivi.<br />
Il mio più grande rimpianto sei tu. Non avrei mai dovuto lasciarti andare via, avrei<br />
dovuto chiederti perché stavi scappando. E anche se tu fossi andata via lo stesso,<br />
non avrei dovuto smettere di cercarti, lasciare che tu uscissi così tanto dalla mia<br />
vita da arrivare persino a scordare il suono della tua voce.<br />
80
Se ci fosse un dottor Tom anche per me mi farebbe tornare indietro a quel giorno<br />
e forse mi farebbe capire come fare a non ripetere sempre lo stesso errore: non<br />
fermare nessuno, lasciare che le persone escano dalla mia vita senza inseguirle<br />
mai, come se non me ne importasse niente, come se io fossi l’unica che si meriti<br />
di essere soltanto cercata senza scomodarsi mai.<br />
Per favore, Virginia. So che te lo sto chiedendo con dieci anni di ritardo. Ma fermati.<br />
Per me.<br />
Luna”<br />
«Non so come tu faccia a bere tutto quel caffè.»<br />
«Non mi ha mai fatto nessun effetto.»<br />
«Sarebbe magnifico se non lo facesse a me. Non c’è momento della giornata che<br />
io aspetti di più del primo sorso di caffè.»<br />
Guarda divertita l’espressione schifata di Astrid davanti al suo decaffeinato del<br />
tardo pomeriggio.<br />
«Dovresti andare» le dice Astrid, e il suo sorriso si spegne all’istante.<br />
«Non torno in Italia da dieci anni. Non penso nemmeno più in italiano.»<br />
«Come se questo c’entrasse.»<br />
Beve un altro sorso di caffè: «Non c’è niente che c’entri. Sono persone che non<br />
vedo né sento da dieci anni.»<br />
«Però una di loro ha bisogno di te.»<br />
«Risponderanno gli altri due.» Virginia rialza la tazza per bere un altro sorso ma<br />
Astrid le blocca il braccio. La tazza vacilla ma il caffè non esce.<br />
«Una persona ti scrive “ti prego” e tu non vai perché sono passati dieci anni e ti<br />
senti autorizzata a non esserne responsabile?»<br />
«Astrid…»<br />
Astrid la blocca con il palmo della mano puntato su di lei.<br />
«Se io domani partissi e tra dieci anni tu dovessi scrivermi “ti prego”, tornerei immediatamente.<br />
E so che faresti la stessa cosa con me. Perché allora non lo fai<br />
con questa Nadia?»<br />
«È una lunga storia…»<br />
«Ho tempo» risponde Astrid accomodandosi contro lo schienale e incrociando le<br />
braccia.<br />
Virginia guarda fuori dalla finestra. La sua bicicletta è chiusa con il lucchetto insieme<br />
a quella di Astrid. Ha chiuso con un lucchetto anche Nadia, Carlo e Luna.<br />
Da quando vive lì non glieli ha mai nominati.<br />
«In quella fotografia bellissima del tuo album, con altre tre persone, sei con loro,<br />
vero?»<br />
Annuisce.<br />
«Quando sei arrivata qui sapevi a malapena il tedesco. Non potevo chiederti molto<br />
di te e della tua vita ma siamo diventate amiche lo stesso. So solo che hai deciso<br />
di fare l’università qui e di andare via dall’Italia perché avevi perso tua madre.»<br />
«Non mi sono trasferita qui per questo.»<br />
81
Astrid rimane senza parole, è sempre stata convinta che quello fosse l’unico motivo<br />
plausibile.<br />
«Mi spiace. Ho solo cercato di dimenticare.»<br />
«Sei tornata diversa da Monaco e stanotte ti ho sentita. Lo so che non hai dormito.»<br />
«Astrid…»<br />
«Dimmi solo se è successo qualcosa di grave dieci anni fa.»<br />
Virginia scuote la testa, non vuole parlare. Si porta una mano alla bocca e stringe<br />
gli occhi. Astrid le stringe il polso.<br />
«Perché una mail ti ha sconvolta così?»<br />
Virginia ricaccia giù le lacrime e guarda gli occhi azzurri di Astrid.<br />
Le racconta tutto.<br />
Le ha preparato il suo piatto preferito. Se la sua migliore amica ha una dote straordinaria<br />
è quella di afferrare i momenti negativi e trasformarli con leggerezza in<br />
positivi.<br />
Si preparano una tisana e Virginia la appoggia sul comodino. Astrid la saluta con<br />
la mano per darle la buonanotte, non aggiunge altro.<br />
Quando butta la testa sul cuscino se la sente leggera, come se l’incudine conficcata<br />
dentro fosse finalmente uscita.<br />
Non ha deciso niente. Ha solo parlato e pianto singhiozzando fortissimo, urlando<br />
quella parola che si ripete da anni. Un aggettivo scomodo che non riesce a lavarsi<br />
via di dosso. Si è sempre sentita sporca di quell’aggettivo.<br />
Descriviti con una parola, ci sono quelli che te lo chiedono. Tutti si sentono in difficoltà<br />
a rispondere. Una parola? Come si fa soltanto con una parola?<br />
Eppure Virginia la sua la conosce benissimo.<br />
Astrid ha ascoltato in silenzio. Non ha dato opinioni, non ha detto mi dispiace, non<br />
le ha suggerito di fare niente, di partire o di non partire. Le ha detto soltanto che<br />
se avesse saputo prima il suo segreto l’avrebbe costretta a toglierselo dalla testa.<br />
Le bruciano gli occhi se prova a chiuderli, ma è esausta e non riesce a tenerli<br />
aperti.<br />
Si addormenta lasciando che la tisana si raffreddi senza averla toccata.<br />
Virginia è un’intrusa.<br />
82
Alessandro è un trentenne dalla vita tranquilla. Naviga a vista infischiandosene<br />
di quello che succede nella società intorno a lui. I suoi più grandi<br />
interessi al momento sono Monica e i mondiali di calcio che stanno per<br />
iniziare.<br />
Ma tutto cambia quando misteriose interferenze cominciano a invadere i<br />
programmi delle televisioni, sconvolgendo i palinsesti nazionali.<br />
In un’Italia in cui democrazia e televoto sono ormai sinonimi, e in cui il sistema<br />
mediatico-televisivo è controllato saldamente dal governo, le interferenze<br />
inceppano l’efficiente macchina della propaganda nazionale<br />
attaccando al cuore un sistema che rischia ben presto di crollare.<br />
La vita di Alessandro è sconvolta quando viene identificato come l’hacker<br />
autore delle interferenze.<br />
Gianluca Pizzingrilli fin da giovanissimo dà prova di uno straordinario<br />
talento letterario arrivando secondo al prestigioso premio “Giovani Promesse”<br />
di Topolino. Una promessa non mantenuta a causa di una vita<br />
dissoluta che lo porta a perdersi nel vizio della scienza e nel degrado<br />
della matematica, fino a laurearsi in ingegneria.<br />
Questo è il suo primo romanzo, dopo una lunga disintossicazione.<br />
84
Senza fede, Gianluca Pizzingrilli.<br />
Capitolo 1<br />
Te ne pentirai.<br />
«Che uomo di merda!»<br />
Taci!<br />
«Che schifo.»<br />
Stai zitto!<br />
«Guarda che faccia!»<br />
Chiudi il becco! Finché sei in tempo.<br />
«Vorrei non vederlo mai più in televisione.»<br />
Ecco. Il danno è fatto.<br />
La faccia abbronzata e oleosa di Emilio Fede ti guarda sorpresa. È bloccata in un<br />
fermo immagine stupito: gli occhi sgranati, le sopracciglia alzate aggrinziscono la<br />
fronte color cuoio, la bocca aperta a O. Povero Emilio, cosa starà vedendo in questo<br />
istante congelato? La sua morte mediatica?<br />
Poi tutto si spegne.<br />
Tu sei ancora lì, con l'imprecazione a mezz'aria e il telecomando in mano. Ma il<br />
pollice è sollevato, il colpo è ancora in canna. Non hai sparato, tu.<br />
«Ale, bastava cambiare.»<br />
Monica non capisce la portata dell'evento, anzi sembra infastidita. Silvio vi guarda<br />
incuriosito, mentre addenta la pizza.<br />
«Non... ho ancora fatto nulla.»<br />
Rimani immobile, come intuendo il mare di guai in cui ti sei cacciato con la tua<br />
sfrontatezza. Monica, spazientita, ti toglie il telecomando di mano e cambia. La<br />
televisione torna in vita; lei prova uno zapping veloce, tutti i canali funzionano, o<br />
quasi.<br />
Rai1 Pacchi<br />
Rai2 Pubblicità<br />
Rai3 Blob<br />
Rete4 buio<br />
Canale5 Veline<br />
Italia1 Simpson<br />
«Sììì, Simpson!!» Silvio esulta per l'insperata fortuna.<br />
Rete4, buio.<br />
Tu e Monica vi guardate un istante pensierosi, decidete all'unisono che non è nulla<br />
e che tanto vale finire la pizza guardando i cartoni.<br />
«Avranno problemi ai ripetitori» la metti sul tecnico, anche se non riesci a non sentirti<br />
a disagio.<br />
Non sei uno che si scalda per la politica, non te ne preoccupi troppo. Anzi, puoi<br />
85
tranquillamente dire che non te ne frega nulla. Le polemiche politiche sono solo<br />
rumori di fondo nella tua vita, buone per farne due chiacchiere al caffè. Non sei<br />
come Guillaume, tu.<br />
La tele era sintonizzata su quel canale per caso, in attesa di iniziare a guardare la<br />
partita.<br />
È stato quando Fede ha pronunciato il nome di Ago. Dopo tanti anni, nei quali sei<br />
riuscito faticosamente a dimenticare tutta quella faccenda, sentire la voce nasale<br />
del mezzobusto liftato ricominciare con le solite bugie sulla storia di Agostino ha<br />
messo in moto in te un meccanismo di ribellione elementare quanto inutile: l’insulto.<br />
Per una volta, hai deciso che non ne potevi più. E senza rendertene conto te la<br />
sei presa con una macchietta televisiva.<br />
La partita è finita da un po’. Silvio dorme sul divano. Tu dai una mano a Monica a<br />
sistemare la cucina. Avresti altre idee sulla continuazione della serata, ma lei non<br />
è d’accordo: «Con il bambino di là, te lo puoi scordare» taglia corto staccando le<br />
labbra dalle tue e sgusciando dal tuo abbraccio.<br />
«Daaai.»<br />
«No!»<br />
Monica ti piace. Non avresti mai pensato che potesse entrare così prepotentemente<br />
nella tua vita. Ti piace uscirci, ti piace parlarci, ti piace lavorarci e ti piace<br />
passarci le notti.<br />
Anche tu lo capisci che è qualcosa di diverso dal solito, e infatti è la prima donna<br />
che vede casa tua alla luce del sole, a parte tua madre.<br />
Lo hai capito quando tre mesi fa ti sei sorpreso con un vassoio della colazione.<br />
Niente di speciale, visto che nel tuo frigo faresti meglio a metterci un poster per<br />
nascondere lo squallore delle rovine. Un succo d’arancia dal colore accettabile,<br />
uno yogurt appena scaduto e un caffè. I biscotti non ce li avevi – ti spiaceva – ma<br />
la prossima volta avresti provveduto. La prossima volta. Tre parole che non pronunciavi<br />
mai a una donna. Specialmente se la donna era già nel tuo letto. Specialmente<br />
la domenica mattina.<br />
Monica aveva sorriso, ringraziato per la magnifica colazione e fatto finta di nulla<br />
su tutto il resto. Ma tu, sì insomma, ti eri dichiarato.<br />
«Credo che stasera me ne andrò a casa.»<br />
«Non dormi qui?»<br />
«Non ne ho voglia. Che senso ha restare qui oggi?»<br />
«Ma dai, fra poco la vicina torna e restiamo soli.»<br />
Monica ti bacia con lentezza e tu cominci a far scorrere le mani sulla schiena e a<br />
infilarle sotto la maglietta.<br />
«La vicina! Se ne approfitta un po’ troppo» sussurra e si stacca da te.<br />
Cominci a pensare che non sia stata una saggia idea dire di sì a Simona. D’accordo,<br />
non avevate nulla in programma. D’accordo che c’era solo la partita inaugurale<br />
<strong>dei</strong> mondiali, che ti fa sempre piacere tenere Silvio e che lei aveva<br />
promesso di tornare per le nove. Ma sono già le undici passate.<br />
I tuoi pensieri sono interrotti dal campanello: la vicina finalmente.<br />
86
«Meglio tardi che mai» Monica va a rintanarsi in bagno.<br />
Simona ha il viso stanco, ma il sorriso adorabile come sempre.<br />
«Ciao Vicino, scusa il ritardo. Oggi l’ufficio era un delirio.»<br />
«Non ti preoccupare» menti un po’, «Silvio si è addormentato.»<br />
«Adesso lo metto a letto.»<br />
Entra lasciando aperta la porta del suo appartamento. Nel pianerottolo, abbandonate<br />
per terra, le sue cose. Prende in braccio Silvio che la abbraccia stanchissimo.<br />
Tu sei sempre sulla porta.<br />
«Ciao Vicino, grazie.»<br />
«Hai già fatto cena? C’è una pizza in forno, se riesci a mangiarla.»<br />
«Ci riesco sicuramente, con la fame che ho.»<br />
«Simo, lavori troppo» la rimproveri bonariamente.<br />
Porti da lei la pizza fredda e pure le cose che ha lasciato sul pianerottolo: una<br />
borsa, il pc, la sciarpa, le chiavi della macchina. Mentre lei mette a letto il figlio, rimani<br />
un attimo all’ingresso ascoltandola mentre lo coccola e lo accompagna nel<br />
sonno. Ti dà uno strano piacere sentire quella cantilena sussurrata e roca. Come<br />
la prima volta che l’hai incontrata. Era appena arrivata nel palazzo e aveva già invaso<br />
tutto il pianerottolo. Non solo pacchi e scatoloni, ma tutta una serie di oggetti<br />
che ricordi di esserti chiesto come avesse fatto a trasportare senza un contenitore,<br />
una valigia o un sacchetto qualunque. C’erano <strong>dei</strong> libri, delle scarpe, un boccaglio,<br />
un peluche, un mouse, <strong>dei</strong> dischi, una padella, due bottiglie di vino. Oggetti che<br />
avevano trovato il loro posto tra le scatole e sembravano essere a proprio agio, e<br />
che formavano una specie di scia, come le molliche di pane delle fiabe. Seguendoli<br />
eri entrato nell’appartamento di fronte al tuo e saresti potuto arrivare fino alla camera<br />
in fondo al corridoio, da cui proveniva una voce roca che cantava una ninna<br />
nanna. Allora come oggi ti eri fermato ad ascoltare.<br />
Questa volta però non puoi restare, devi convincere Monica a rimanere per la<br />
notte.<br />
Esci chiudendoti dietro la porta, senza salutare.<br />
Capitolo 2<br />
Accendi l’aria condizionata e un odore acre di pelo di cane bagnato investe l’abitacolo.<br />
«Ancora problemi col filtro?» Monica chiude la portiera e si allaccia la cintura di<br />
sicurezza.<br />
«Già» commenti laconico, mentre abbassi i finestrini per far circolare un po’ d’aria<br />
pulita. «Fra qualche minuto se ne sarà andato.»<br />
«Sarebbe meglio cambiare l’auto.»<br />
«Perché?» Alla tua auto ci sei affezionato, anche se ormai ha un’età. Sì, d’accordo,<br />
il motore è un po’ rumoroso, ma basta tenere lo stereo alto.<br />
«A proposito, a fine mese mi danno l’auto» Monica sta rovistando nella borsa.<br />
Per fortuna siete fermi al semaforo, altrimenti avresti inchiodato brutalmente. La<br />
guardi esterrefatto.<br />
«Sergio mi ha detto ieri che ha pensato di dotare le persone del marketing dell’auto<br />
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aziendale» finalmente ha trovato quello che cercava, il cellulare. Lo guarda un attimo<br />
e lo ripone nell’immensa borsa griffata.<br />
«Io l’aspetto da anni» mormori.<br />
«Come?» Monica ti sorride. Le labbra si aprono sui denti bianchissimi – la piccolissima<br />
apertura tra gli incisivi, sorride anche lei – le gote si gonfiano e gli occhi<br />
neri si accendono sulla carnagione abbronzata. È bellissima.<br />
«No, nulla. Sono contento per te.»<br />
Il resto del tragitto lo fate in silenzio, fino a piazza Berlusconi. Tutte le volte che<br />
dormite insieme poi la lasci qui, a duecento metri dall’ufficio. Siete d’accordo di tenere<br />
segreta la vostra relazione, per ora. La guardi allontanarsi verso la statua<br />
equestre di Silvio Berlusconi. Poi riparti verso il parcheggio.<br />
Dieci minuti più tardi, mentre cammini su corso Craxi, il tuo sguardo è attratto da<br />
alcuni cartelloni elettorali. Ci sono le elezioni a breve? Non lo sai e non ti interessa,<br />
non voti da anni. Ti colpiscono però i poster del PDM, il partito del premier ha i<br />
manifesti sei metri per tre: cielo azzurro, campi verdi, ulivi e il mare in lontananza.<br />
In primo piano, a figura intera, il Primo Ministro, bello e abbronzato, i folti capelli<br />
neri al vento, che porta sulle spalle una bambina sorridente. Sorride anche lui. La<br />
scritta “PDM, il futuro dell’Italia” è blu. Passi davanti a uno <strong>dei</strong> poster che ti parla:<br />
«Buongiorno giovanotto, ha già pensato per quale partito voterà alle prossime elezioni?»<br />
I poster interattivi sono l’ultima trovata del partito del Cavaliere, basta che qualcuno<br />
si avvicini e la sua voce registrata interagisce, salutando e parlando con il passante.<br />
Ti è capitato di vedere persone discuterci animatamente. Prosegui senza<br />
rispondere.<br />
«Va bene, sarà per la prossima volta. Le auguro una buona giornata. Pensi al suo<br />
futuro, Voti PDM.»<br />
Hai sentito che ci sono anche <strong>dei</strong> poster tridimensionali, ma non li hai mai visti.<br />
Svolti su via Moratti, una stradina tranquilla, lasciandoti il traffico alle spalle. Anche<br />
qui vedi un poster elettorale: su uno sfondo bianco c’è il mezzo busto in bianco e<br />
nero di un uomo che indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate e, intorno<br />
al colletto sbottonato, una cravatta nera a pois. L’uomo è quasi calvo, a parte<br />
un po’ di capelli spettinati sulle tempie, ha delle occhiaie e un’espressione che vorrebbe<br />
essere austera ma sembra solo stanca. Lo guardi e ti fa venire in mente<br />
una vecchia lampadina triste. La scritta è color verde ospedale e dice “Per una<br />
nuova Italia. Vota L.O.S.E.R.: Lega di Opposizione per una Società Egualitaria e<br />
Responsabile”. Il poster non è interattivo, non ti chiede nulla e non vuole sapere<br />
nulla di te. Lo guardi per un attimo e poi te ne vai prima di deprimerti. Menomale<br />
che non voti.<br />
«Aleee! Vieni pure, caro.»<br />
Non hai fatto in tempo ad arrivare in ufficio che la segretaria dell’amministratore<br />
delegato ti ha convocato. Sergio vuole parlarti.<br />
Questo qui deve essere un gran figlio di puttana, ti sei detto la prima volta che lo<br />
hai guardato in faccia. Ti stava facendo un colloquio di assunzione. Lo avevi aspet-<br />
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tato per quasi un’ora in un’enorme sala riunioni con una parete di vetro smerigliato,<br />
oltre la quale un’ombra agitata stava parlando in inglese al telefono. Quando aveva<br />
chiuso la telefonata, era piombato nella sala riunioni, ti aveva stretto la mano e<br />
aveva sfoderato un gran sorriso, bianchissimo. E aveva continuato a parlare. Sui<br />
quarantacinque, molto sicuro di sé. Sapeva piacere alla gente: era il suo mestiere,<br />
era l'amministratore delegato. Gli occhi però non ti avevano convinto: piccoli, scuri<br />
ed estremamente mobili. Ti davano l’impressione che si guardassero intorno in<br />
cerca della prossima preda.<br />
Chissà cosa aveva pensato di te. Non che te ne importasse molto; ti stava offrendo<br />
un bel lavoro, uno stipendio che non avresti mai neanche sperato dopo una laurea<br />
breve e un open space pieno di belle ragazze. Quindi non servivano tanti discorsi<br />
per convincerti. Non c’era stato bisogno di rispondere bene e di simulare sicurezza,<br />
aveva parlato lui per tutti e due.<br />
E poi ti aveva assunto.<br />
Col tempo hai scoperto che con Sergio è sempre così, parla solo lui perché lui sa<br />
sempre tutto di ogni cosa: conosce gli ultimi gadget tecnologici, le auto che stanno<br />
per uscire, i colori di moda per il prossimo anno. E non chiede mai conferme. Né<br />
ha mai tentennamenti, non ha bisogno di riflettere, ponderare o meditare. Lui sa.<br />
Il suo istinto lo guida e gli indica la scelta. Che è sempre la più logica e corretta. È<br />
sicuramente un uomo di successo nella vita e negli affari. Potresti quasi invidiarlo,<br />
se non pensassi che è uno stronzo pieno di sé.<br />
Mentre percorri gli svariati metri che separano la porta dalla sua scrivania, lo senti<br />
concludere una telefonata.<br />
«Certo certo. Non c’è problema caro mio, ci vediamo al porto domani sera. Ti faccio<br />
passare un weekend fantastico. Senza famiglia, senza rotture. Solo mare, vela<br />
e relax. Ceeeerto.»<br />
Ti strizza l’occhio, complice. Dietro di lui, la parete al plasma trasmette immagini<br />
da un canale economico. Finalmente riattacca.<br />
«Alessandro, come stai?»<br />
Il suo sorriso si riapre nuovamente, bianchissimo e sicuro. Ha un viso aerodinamico.<br />
Si vede che è in cima alla catena alimentare.<br />
«Volevi vedermi?»<br />
«Come va con la Eptron? Consegnate le schede?»<br />
«Arriveranno domani, purtroppo con un giorno di ritardo. Ma ho già sistemato con<br />
loro.»<br />
«Bene. Bene. Ti ho chiamato perché volevo parlarti dell’auto aziendale.»<br />
Si alza. È alto, un corpo magro e atletico che si estende per circa un metro e novanta.<br />
Si tiene in forma. Se non fosse per le rughe del sorriso, non lo diresti che<br />
ha quarantacinque anni.<br />
«So che è da un po’ che la stai aspettando…»<br />
Il telefono sulla scrivania si illumina e vibra. Sergio si distrae per un attimo. Poi<br />
torna a guardarti con un sorriso ancora più largo. Però non parla, è ancora distratto<br />
dal messaggio appena ricevuto. Dev’essere una buona notizia.<br />
«Be’, certamente l’auto mi sarebbe utile» cogli l’occasione per rimarcare il tuo bisogno.<br />
«Te ne ho già parlato altre volte. Giro molto…»<br />
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«Sono il primo a dire che l’assistenza vendite dovrebbe essere dotata di un’auto<br />
aziendale. Purtroppo però abbiamo problemi di budget. Ci sono vincoli imposti da<br />
Chicago...»<br />
Quando mette in mezzo gli americani, di solito butta male. Lui ha sempre grandi<br />
idee, purtroppo i capi non gli lasciano la libertà per seguire tutte le sue intuizioni.<br />
«Dopo lunghe discussioni, dato che quest’anno soffriremo per raggiungere gli<br />
obiettivi, mi hanno concesso due auto…» tenendo le mani unite per i polpastrelli<br />
davanti a sé, si sporge sul tavolo di cristallo fissandoti, «e voi dell’assistenza siete<br />
tre…»<br />
In effetti, siete tre.<br />
«Perciò cominciamo dal marketing, dove sono solo in due.»<br />
Non fa una piega.<br />
«Ma scusa, abbiamo superato tutti i record di vendita. Possibile che ci siano problemi<br />
a dare tre macchine?» provi a batterti.<br />
Sergio smette di sorridere. Di solito questo vuol dire che qualcuno è andato troppo<br />
oltre. Riflette, in silenzio e con la bocca stretta. Una fessura sottile. Una cosa che<br />
succede di rado e si tratta sempre di momenti innaturali, complessi.<br />
Viene interrotto da una nuova vibrazione. Afferra il telefono dal piano di cristallo<br />
con tanta irruenza da far cadere il telecomando dello schermo al plasma, lì a<br />
fianco. Occupato a rispondere al messaggio, non si cura né <strong>dei</strong> pezzi del telecomando<br />
schizzati sul pavimento, né delle batterie che ora rotolano spensierate sul<br />
parquet color miele, né del fatto che l’urto abbia sintonizzato lo schermo su Rete4.<br />
Ripone il telefono e ti fissa severo.<br />
«Stai forse mettendo in discussione il modo in cui è gestita l’azienda?»<br />
No, tu non stai discutendo nulla.<br />
«Se questa storia dell’auto crea problemi, la dovrò riconsiderare. Non la darò a<br />
nessuno e se ne riparla l’anno prossimo.» Adesso ha ripreso a sorridere, «Vai a<br />
chiamare Monica e Lorenzo che gli diamo la notizia.»<br />
Così non vale! Monica ti ucciderà se le farai togliere l’auto.<br />
«No, aspetta, non intendevo fare storie, stavo solo dicendo...»<br />
«Non intendevi fare storie? A me sembra proprio che stavi facendo storie! Io cerco<br />
in continuazione di migliorare la vostra vita, discutendo con gli americani per ottenere<br />
benefit per tutti voi. Mi aspetterei da voi più riconoscenza e pazienza. Siamo<br />
sulla stessa barca, lo capisci?»<br />
Stessa barca? Lui ha una barca. Tu solo una Punto vecchia di quindici anni con il<br />
filtro dell’aria condizionata rotto.<br />
«Hai ragione, Sergio. È solo che ho bisogno di cambiare l’auto» capitoli.<br />
«Capisco. Ti prometto che la prima dell’anno prossimo sarà la tua.»<br />
Il sorriso si è riaperto più radioso e balsamico che mai. La macchina di Monica è<br />
salva.<br />
Sergio continua a descriverti il radioso futuro che sta preparando per tutti voi, i<br />
suoi ragazzi, che lui difenderà e proteggerà a ogni costo, purché voi rimaniate<br />
sempre fiduciosi nel vostro illuminatissimo capo. Tu non lo segui più, perché nel<br />
frattempo ti distrai guardando la parete alle sue spalle. Su Rete4 sta iniziando il<br />
telegiornale di mezzogiorno. Dopo la sigla appare la faccia di Emilio Fede. Ha il<br />
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sorriso delle grandi occasioni, ma gli occhi sembrano più guardinghi del solito.<br />
Trasmettono una certa apprensione.<br />
«Gentili telespettatori, a nome di tutta l’azienda mi scuso per quanto è successo<br />
ieri sera» la sua voce si confonde con quella di Sergio, riesci a distinguere a fatica<br />
quella del giornalista. «È stato un increscioso incidente tecnico, che però è stato<br />
risolto. Per rassicurare l’affezionato pubblico, abbiamo deciso insieme alla dirigenza<br />
che avrei aperto anche l’edizione di mezzogiorno.»<br />
E risuccede. Lo schermo si spegne. Scatti in piedi per la sorpresa indicando il plasma<br />
spento.<br />
«Che ti prende?»<br />
«Niente, scusa, ho dimenticato che devo chiamare quelli della Eptron entro mezzogiorno.<br />
Scusami, ma è urgente.»<br />
«Vai pure. Siamo intesi, giusto?»<br />
«Giusto, giusto.»<br />
Scappi via. Corri alla sala riunione del primo piano per controllare, sperando che<br />
il plasma di Sergio sia difettoso, ma la sala è occupata, c’è già Guillaume con il<br />
telecomando in mano. Fissa uno schermo buio.<br />
«Hai visto il tanné? Era in crisi di astinenza! Forse lo pagano a ore, come la mia femme<br />
de ménage.»<br />
Lo fissi senza riuscire a parlare, poi guardi la lucina del televisore, allegramente<br />
verde: non è spenta. Guillaume preme un bottone a caso. Le immagini tornano a<br />
scorrere sullo schermo. Una sonora risata riempie la sala riunioni e richiama le<br />
persone dall’open space vicino.<br />
«Cosa succede?» chiede Anna, la centralinista.<br />
«Rete4: si è spenta di nuovo» risponde con le lacrime agli occhi il francese, «Secondo<br />
me all’abbronzato gli prende un colpo!»<br />
Cerchi di ridere anche tu, continuando a ripeterti che augurarglielo non vale.<br />
Capitolo 3<br />
Bruno Pizzi è seduto da un’ora sul divano immacolato nello studio del Presidente.<br />
È in bilico sul bordo della seduta. Continua a dondolarsi senza sosta come fosse<br />
seduto su una stufa. È agitato e angosciato. A vederlo in faccia non si direbbe<br />
molto preoccupato, ma è solo dovuto ai tanti lifting subìti negli anni. Da tempo<br />
Bruno non è più in grado di governare appieno i muscoli facciali. Poco male, lo<br />
aveva messo in conto dall’inizio della sua carriera. Da quando si era proposto alle<br />
selezioni. Gli esaminatori della giuria glielo avevano detto: hai la stoffa, ma dovrai<br />
lavorare sulla faccia. E ci aveva lavorato, parecchio. In realtà si era sottoposto<br />
anche a un intervento alle corde vocali, per riuscire a modellare la sua voce perfettamente<br />
uguale all’originale.<br />
Dietro alla faccia abbronzantissima, dietro al completo impeccabile, Bruno è terrorizzato,<br />
perché sa che quello che sta succedendo può essere la fine della sua<br />
carriera. Questo non può permetterselo, non dopo tutti i sacrifici che ha fatto. E<br />
proprio per tutto ciò che ha fatto per lui, il Cavaliere dovrà aiutarlo.<br />
Finalmente la porta si apre. Bruno scatta in piedi mentre Luca B Vischi, Presidente<br />
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del Consiglio della Repubblica Italiana, entra nel suo ufficio.<br />
«Emiiiilioo! Eccoti qui finalmente!» il sorriso radioso del Premier è già un balsamo<br />
sulle ansie del poveruomo. Lui lo capirà e aiuterà.<br />
«Presidente, buongiorno.»<br />
Il Presidente si ferma per un attimo a guardarlo: «Bruno, scusami se ti ho chiamato<br />
Emilio. La forza dell’abitudine.»<br />
«Si figuri. Anzi, lo considero un complimento.»<br />
Il Presidente gli fa cenno di tornare a sedersi.<br />
«Vuoi un caffè? Prego, serviti pure. I babà sono freschissimi» si siede nella poltrona<br />
di fronte, accavalla le gambe, si passa – come sempre – una mano tra i folti<br />
capelli e lo guarda con aria rassicurante. «Allora dimmi, di cosa volevi parlarmi?»<br />
Bruno esita un momento. Dopo aver passato due notti insonni, aver urlato contro<br />
ogni collega e dirigente del gruppo e aver ostinatamente insistito con la segretaria<br />
personale del Cavalier B Vischi per ottenere un colloquio, adesso è assalito dal<br />
dubbio che il suo problema sia davvero poca cosa in confronto ai problemi che il<br />
Cavaliere deve affrontare ogni giorno. Abbassa lo sguardo quasi vergognandosi<br />
del suo ardire, e in quel momento vede riflesso nella brocca d’argento di fronte a<br />
lui il viso, un po’ deformato dal metallo, di Emilio Fede. Emilio gli sta chiedendo di<br />
non tradirlo.<br />
«Presidente, ho chiesto di vederLa per parlarLe degli oscuramenti che ho subìto<br />
negli ultimi due giorni…»<br />
«Ah! I blackout del tuo telegiornale. Bruno, sappiamo benissimo che si è trattato<br />
di un caso.»<br />
«Ma Presidente. Ne è sicuro? È una strana coincidenza...»<br />
«Ne sono sicuro. Ho parlato con Pio, si è trattato di un guasto tecnico.»<br />
«Due volte?»<br />
«Una coincidenza! E una riparazione al guasto fatta male. La persona responsabile<br />
è già stata rimossa. Problema chiuso.»<br />
«Problema chiuso?»<br />
«Chiuso.»<br />
Il Cavaliere rimarca il concetto addentando risoluto un babà, meritato premio.<br />
«Presidente, se posso permettermi…»<br />
Il Presidente lo guarda con aria assente continuando a masticare, evidentemente<br />
può permettersi.<br />
«Mi è sembrato strano che proprio mentre ero in onda, per due volte di seguito, ci<br />
sia stato lo stesso guasto tecnico. Secondo me si è trattato di sabotaggio.»<br />
«Sabotaggio?» il babà finisce sputacchiato per terra.<br />
«Sì, qualcuno dell’opposizione, qualcuno della concorrenza?»<br />
«Concorrenza!? Emilio! Le satellitari sono fuorilegge da anni. Quale concorrenza!»<br />
«Ma Presidente, potrebbe essere possibile. Se ci pensa bene, io sono da sempre<br />
il suo collaboratore più fidato. Attaccare me è come attaccare il suo volto sullo<br />
schermo.»<br />
Il Presidente si alza e comincia a camminare avanti e indietro.<br />
«Bruno, conosco perfettamente la tua fedeltà e il tuo coraggio. Ti ho scelto personalmente<br />
tra decine di aspiranti sosia. Ho saputo vedere oltre le differenze este-<br />
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iori. Ho capito che sotto le apparenze saresti stato il miglior candidato possibile<br />
per sostituire il tuo compianto predecessore. E sono stato io a pagare tutti gli interventi<br />
chirurgici.»<br />
«…Lo so, ma…»<br />
«E ho fatto bene, perché negli anni hai rappresentato per tutti gli italiani la continuità<br />
di azione del governo. Continuità, cioè sicurezza. Le famiglie italiane si fidano<br />
di te. E così anche io.»<br />
Bruno–Emilio si sente così onorato che quasi dimentica le sue preoccupazioni.<br />
«E ora io ti chiedo di fidarti di me.»<br />
«Certo maest… certo Presidente!»<br />
«Non ci sono attentati, non ci sono sabotaggi. Solo un guasto e una coincidenza.<br />
Questa sera tornerai in onda come sempre, hai la mia parola.»<br />
Bruno–Emilio si alza commosso: «Grazie! Grazie Presid…»<br />
«Ma figurati, per così poco. Ora devo chiederti di lasciarmi, ho un’altra riunione.»<br />
Il giornalista si inchina senza aggiungere altro ed esce dallo studio.<br />
Pietro Pompei entra senza bussare qualche minuto dopo.<br />
Ogni volta che entra in quello studio, il sottosegretario alla presidenza non può<br />
fare a meno di pensare quanto sia orribile il nuovo arredamento scelto dal Presidente<br />
del Consiglio. Considera raccapriccianti e fuori luogo i mobili di design che<br />
Vischi ha voluto mettere. La madre, buonanima, aveva molto più gusto.<br />
«Era Emilio quello che usciva? Era in lacrime, non mi ha nemmeno salutato.»<br />
B Vischi sta sorseggiando un caffè.<br />
«Ultimamente è strano, saranno le medicine che prende. Mi avevano detto che a<br />
lungo andare avrebbero potuto creare danni permanenti.» Posa la tazzina sul tavolino<br />
di cristallo: «Oggi ha voluto vedermi perché è convinto che ci sia un complotto<br />
contro di lui. Capisci? La mia rete ammiraglia è in blackout per quasi quattro<br />
ore in due giorni. Io perdo fiumi di soldi in mancati introiti pubblicitari e lui si preoccupa<br />
perché lo stanno sabotando. E per quale motivo lo saboterebbero?» si<br />
fissa le unghie delle dita affusolate. «Forse è il caso di avviare una ricerca per un<br />
nuovo sosia di Emilio Fede» conclude.<br />
Il segretario si siede sul divano di pelle bianca nel quale sprofonda come se i cuscini<br />
cercassero di ingurgitarlo. A fatica riesce a riemergere dalla pelle immacolata<br />
e sedersi sul bordo. Pensa a quanto erano meglio le poltrone seconda Repubblica.<br />
«Pietro, perché l’ambasciatore cinese vuole vedermi?» il Presidente si passa la<br />
mano tra i capelli. «Devi spiegare a Zenit che deve finirla. Continua a dichiarare<br />
che vuole permettere ai cinesi nati in Italia di votare.»<br />
«Vuol far votare gli immigrati?»<br />
«Non tutti, solo i cinesi, visto che a Milano sono ormai la maggioranza. Ma non è<br />
pensabile farli votare, in Cina si stanno innervosendo.»<br />
«Perché?»<br />
«Scherzi? In Cina la democrazia c’è! Ma senza diritto di voto. Non vogliono cattivi<br />
esempi.»<br />
«Capisco. E se lo permettiamo solo alle municipali?»<br />
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«Non vogliono sentire ragioni. Minacciano di bloccare le importazioni dall’Italia.»<br />
«Disastroso! La nostra industria del lusso tracollerebbe.»<br />
«Appunto, non ce lo possiamo permettere.»<br />
«Ma gli hai spiegato che poi alla fine il voto… si gestisce? Gli hai parlato di Democracy?»<br />
«Lo sanno benissimo come funziona, ma non vogliono rischiare.»<br />
«D’accordo, convoca Zenit e vedrò di fargli cambiare idea.»<br />
Il Premier estrae un cellulare dalla tasca interna della giacca, lo fissa per qualche<br />
istante e poi scuote la testa.<br />
«Neanche un messaggio» mormora.<br />
Il segretario appoggia lentamente la tazza vuota. Si ferma per un attimo a fissare<br />
lo schermo cinquanta pollici che trasmette l’immagine di un acquario con fondali<br />
caraibici. Poi guarda negli occhi il suo presidente: «Vuoi che mandi qualcuno a<br />
cercarla? Con discrezione.»<br />
Il Presidente tira un grosso sospiro e sembra accasciarsi sulla poltrona.<br />
«No, per ora lascia perdere.»<br />
Pietro si alza e va alla porta, ma esita ad aprirla.<br />
«Luca, ci sarebbe un’altra questione.»<br />
«Quale?»<br />
«Questa storia <strong>dei</strong> blackout. Anche a me sembra molto strana.»<br />
«Anche tu? Si è trattato di un incidente.»<br />
«Sì, però… due volte? E sempre quando compare Emilio? A me sembra strano.<br />
Se permetti vorrei occuparmene in prima pers…»<br />
«Pietro» Luca B Vischi si alza e gli va incontro, «si tratta dell’azienda di famiglia,<br />
l’ha fondata mio nonno.»<br />
«Sì, ma…»<br />
«Nessun ma, me ne sto occupando io, ti ho detto. E sono sicuro si tratti di una<br />
coincidenza.»<br />
Apre la porta al suo segretario. L’invito è inequivocabile.<br />
«D’accordo. Ci vediamo più tardi con l’ambasciatore cinese e Zenit per risolvere<br />
la questione.»<br />
Pietro Pompei si chiude la porta alle spalle e si allontana turbato. Dopo qualche<br />
metro, estrae un palmare e compone un numero.<br />
«Sono io. Ho bisogno di una ricerca sui blackout degli ultimi due giorni. Con discrezione,<br />
mi raccomando.»<br />
Capitolo 4<br />
«Dammene uno che vince!»<br />
Il barista porge il gratta e vinci all'uomo con la coda al bancone.<br />
Lo osservi dal tavolo, mentre sorseggi il cappuccino. Estrae un mazzo di chiavi<br />
dalla tasca, sceglie la più solenne e la strofina concentrato sul cartoncino dorato<br />
che il barista gli ha passato.<br />
Ti ricordi di quando tuo padre da bambino ti spiegò la logica <strong>dei</strong> gratta e vinci. A te<br />
piaceva da morire strofinare le monetine sulla patina argentea per scoprire quello<br />
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che nascondeva. Il tuo preferito era il “Tris del Trapassato”. Se dietro alle tre caselle<br />
coperte si trovavano tre figure uguali, si vinceva la proprietà di un conto bancario<br />
dormiente. Tu a quell'età nemmeno sapevi cosa fosse un conto corrente né<br />
perché stesse dormendo. Però ti piaceva scorticare la pellicola delle tre caselle e<br />
scoprire quali figure nascondessero. Le pulivi tutte e tre accuratamente, anche se<br />
alla seconda già si poteva smettere: non ce n'erano mai due uguali. Smettesti di<br />
giocarci quel giorno che al bar sottocasa avevano finito i cartoncini del “Tris del<br />
Trapassato”. «Mi sono finiti, ormai sono introvabili» aveva detto il barista parlando<br />
a tuo padre. Avevi cominciato a piangere e a dare calci al basamento di marmo<br />
del bancone: non era giusto! Tuo padre si era accucciato, ti aveva guardato fisso<br />
con i suoi occhi calmi fino a quando non avevi smesso di frignare, e poi ti aveva<br />
spiegato: «Alessandro, questi giochi del gratta e vinci sono la tassa sulla stupidità.»<br />
Tu una tassa non sapevi proprio cosa fosse, ma la stupidità invece sì. «Solo<br />
gli stupidi pensano che grattare un cartoncino gli cambierà la vita. Sei stupido tu?»<br />
Avevi tirato su col naso e avevi detto imbronciato «No!», e non avevi più voluto<br />
grattare niente da nessuno cartellino.<br />
Tuo padre. Chissà cosa direbbe oggi nel guardare il tipo col codino così concentrato<br />
sul “Gratta e Vinci Democracy”.<br />
«Fanculo! Ti avevo chiesto di darmene uno buono!» accartoccia il cartoncino e lo<br />
getta per terra.<br />
Sorridi tra te e addenti il cornetto.<br />
«Mais vraiment voi italiani pensate che uno di quei cosi vi possa portare in parlamento?»<br />
Guillaume ti sottrae dai tuoi pensieri con una domanda troppo complicata. Spallucce.<br />
«Ragadzo...» il francese posa il marocchino e si sistema sulla sedia per aprire una<br />
lezione di educazione civica d’oltralpe, «dites–moi la verità: hai mai visto nessuno<br />
vincere?»<br />
«Boh, ogni tanto si sente di qualcuno che vince» immergi la faccia nella tazza provando<br />
a leccare la schiuma rimasta sul fondo e sperando che la tazza nasconda<br />
Guillaume.<br />
Il francese è uno in gamba. Sul lavoro, ma anche nella vita. Uno che se ne frega,<br />
che fa e dice le cose che devono essere fatte e dette. Che non ha paura delle<br />
conseguenze. Uno che ha le sue idee ed è pronto a difenderle. Guillaume viene<br />
da Parigi, ma non ha la puzza sotto al naso. Sarà che ha viaggiato un bel po', ma<br />
è proprio un bravo ragazzo. Però quando inizia con la politica, non si regge.<br />
«Gui, siamo in ritardo. Io devo timbrare» ti alzi e vai a pagare.<br />
«Quanti senatori vengono nominati ogni anno? Quanti sono?»<br />
Non molla, continua a tormentarti anche sulla strada assolata verso l'ufficio.<br />
«Non lo so, Gui. Sono tanti, ma non è che basti vincere al gratta e vinci per diventare<br />
senatore, per chi ci hai preso?»<br />
«Ah no?»<br />
«Certo che no, quelli che vincono poi devono andare in tv, e solo alcuni vengono<br />
scelti col televoto.»<br />
Il francese aggrotta la fronte, si sta preparando per un nuovo attacco.<br />
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«E in Francia come fate per sceglierli?» lo anticipi.<br />
Per un attimo rimane sorpreso dalla domanda.<br />
«Noi siamo all'antica, noi li eleggiamo.»<br />
La mattinata passa velocemente, ci sono un bel po' di commesse da chiudere<br />
prima della pausa estiva, il lavoro non manca.<br />
Ritrovi Guillaume a pranzo per una piadina al solito posto, dove vi raggiungono<br />
anche Monica e Lorenzo, il suo collega del marketing.<br />
«Ciao ragadzi» Gui addolcisce sempre le zeta, «come va? Lavorate sempre alla<br />
strategia di comunicazione?» e si porta una mano alla bocca, facendo il gesto di<br />
tracannare un bicchiere.<br />
«Certo! Vuoi dare una mano?»<br />
I due stanno parlando della serie di eventi pensati da Sergio in occasione <strong>dei</strong> mondiali<br />
di calcio. Nelle principali città d'Italia verranno organizzate serate per i nostri<br />
clienti migliori con megaschermi e spettacoli per cenare e festeggiare, con la scusa<br />
di guardare le partite. Ovviamente, visto che Avaya è sponsor della manifestazione,<br />
saranno proiettate le immagini migliori: quelle delle telecamere più vicine.<br />
Neanche le pay tv possono offrire tanto.<br />
Per Guillaume si tratta di una scusa per offrire cene e mignotte ai clienti peggiori.<br />
A te piacerebbe partecipare, per le partite e perché le organizza Monica. Ma la<br />
cosa è fuori discussione: Sergio è stato chiaro.<br />
«No no, c'est un travail trop difficile per me!»<br />
È proprio un peccato che Guillaume e Monica non si piacciano. Passano il tempo<br />
a punzecchiarsi. Non che te ne importi molto, è solo che ogni tanto ti tocca metterti<br />
in mezzo prima che si accapiglino.<br />
«Fede si è rivisto?» ti chiedi come mai tu abbia scelto proprio questo argomento<br />
per cambiare discorso.<br />
«Fede?» Monica sembra neanche ricordarsi già più chi sia.<br />
«No no» Guillaume non aspettava altro. «Il vecchio tanné non si vede più: quando<br />
lo invitavano a un programma, il programma veniva oscurato! Anche al TG4 lo<br />
hanno rimpiazzato! Ormai scrive.»<br />
«Scrive?»<br />
«Sui giornali!» si guarda intorno e ne prende uno sgualcito su un tavolo vicino. Te<br />
lo sbatte davanti. La foto a colori di un furibondo Emilio Fede ti fissa astiosa. L'articolo<br />
che la circonda parla di complotto, di personaggio scomodo, nemici del popolo,<br />
fedeltà totale al Presidente, attentato. Alla terza riga sei già annoiato.<br />
«È così su tutti i giornali. Il vecchio non si rassegna di aver perso il suo giocattolino.»<br />
«Ma secondo voi come mai è sparito dalla tv?»<br />
Tu non lo sai di certo. E augurarselo non conta.<br />
«Io penso che Le Boss si è stancato de luì e ha deciso, come dite voi? di fare luì<br />
fuori. E lo ha cacciato. Quando sei fuori dalla telé, sei fuori da tutò.»<br />
Annuisci vigorosamente, cercando di convincerti della razionalità della spiegazione.<br />
Monica guarda il giornale.<br />
96
«Stasera c’è la finale di Democracy.»<br />
Alzi lo sguardo al cielo, sai già quello che sta per succedere.<br />
«Ah, il futuro della democrazia» Guillaume non se l’è fatto ripetere due volte.<br />
«In che senso?» Monica è già sulla difensiva.<br />
«Democracy è il programma per scegliere i parlamentatori…»<br />
«Si dice parlamentari. Sono i senatori che vengono scelti con Democracy.»<br />
«Non era col gratta e vinci?»<br />
«No! Chi te l’ha detto? Col gratta e vinci si accede alle selezioni. Poi si passa nella<br />
casa del programma e si deve dare prova di avere delle abilità. Se il pubblico ti<br />
vota, diventi senatore.»<br />
«Incroyable.»<br />
«Un corno! È un metodo molto migliore di quello che c’era prima, quando i deputati<br />
li sceglievano i partiti.»<br />
«Migliore?»<br />
«Certo, adesso la scelta è prima casuale, quindi nessuna possibilità di brogli o inciuci.<br />
Nessun indagato, nessun mafioso. È solo la fortuna che decide. E poi c’è la selezione<br />
da parte del pubblico. Più democratico di così, cosa c’è?»<br />
«Mooolto democratico, davvero!»<br />
Per fortuna arrivano le piadine, non avresti saputo come interromperli. Mangiate<br />
in silenzio.<br />
«E se avesse ragione?» mormora alla fine Lorenzo.<br />
«Chi?»<br />
«Fede. E se avesse ragione lui: se fosse un complotto?»<br />
«Vado a prendere i caffè!» ti alzi di scatto.<br />
97
«Adesso ti spiego come funziona.<br />
Partendo da Sud, Riccione si contraddistingue per i vampiri, dandy del<br />
diciottesimo secolo che tra una vittima e l’altra passano le loro nottate<br />
sorseggiando Martini Dry nei bistrot lungo viale Ceccarini.<br />
Rimini è da sempre feudo indiscusso di licantropi piuttosto sanguinari e<br />
ciellini.<br />
Alcuni sostengono che il ventitreesimo piano del grattacielo di Cesenatico<br />
sia in realtà una porta per l’inferno.<br />
Pinarella è di una noia mortale anche per gli spiriti maligni, mentre gli<br />
zombie hanno sempre apprezzato la zona di Cervia, forse per l’aria salina.<br />
A Milano Marittima non ci vado da quando sono stato multato per aver<br />
parcheggiato l’Ape in sosta vietata. Per me quel posto e i suoi vigili urbani<br />
possono anche finire arrostiti da Satana in persona.<br />
Marina di Ravenna è da sempre la patria di serial killer con tendenze religiose<br />
e fanatici alla Charles Manson.<br />
Dopo Marina iniziano i lidi frequentati dai ferraresi: se non ci sei mai stato,<br />
immaginati Fàntasia de La storia infinita dopo l’arrivo del Nulla e aggiungici<br />
pini marittimi e un po’ di tristezza.»<br />
1.500.000, sono le persone che la notte del 2 luglio 2009 si sono riversate<br />
nelle spiagge romagnole.<br />
63, i km che separano Ravenna da Riccione lungo la statale Adriatica.<br />
12, i metri di lunghezza media di una Limousine Lincoln.<br />
10, le ore che mancano all’alba.<br />
8, i ragazzi molto molto cattivi che non dovresti mai incontrare.<br />
5, le persone che cercheranno di fermarle.<br />
2, Luca e Donatella.<br />
1, la notte: è la Notte Rosa.<br />
Luca R (come tutti) è nato lo stesso giorno di Dylan Dog a Castel San<br />
Pietro (BO).<br />
Vive tra Milano e la Romagna: tutta, indistintamente.<br />
Lavora in tv (ossimoro).<br />
Questo è il suo primo romanzo.<br />
99
Via le mani dagli occhi... la notte rosa, Luca R.<br />
Indice<br />
PARTE I - HANA-bi<br />
CAP 1 - LOSER(S)<br />
CAP 2 - SATURDAY NIGHT’S ALRIGHT (FOR FIGHTING)<br />
CAP 3 - HIGHWAY TO HELL<br />
INTERMEZZO - TRE PAPERELLE<br />
PARTE II - COSMONAUTI<br />
CAP 4 - WELCOME TO THE JUNGLE<br />
CAP 5 - SHOOT FOR THE THRILL<br />
INTERMEZZO - TRE PAPERELLE (II)<br />
PARTE III - MEXICAN STAND-OFF<br />
CAP 4 - BATTLE WITHOUT HONOR OR HUMANITY<br />
CAP 5 - A FIOR DI PELLE<br />
CAP 6 - SCAPPA CON ME<br />
EPILOGO<br />
«Ci sono delle regole precise che vanno rispettate<br />
se si vuole sopravvivere in un horror:<br />
1. Non si deve mai fare sesso. Sesso uguale morte.<br />
2. Mai ubriacarsi o drogarsi.<br />
3. Mai, mai e poi mai, in nessun caso dire: “torno subito”.»<br />
Randy in Scream<br />
100
Parte I<br />
Hana-bi<br />
CAPITOLO 1<br />
LOSERS<br />
1.<br />
Imola, ore 17:30<br />
Vaffanculo, ma andiamo con ordine.<br />
“I’m a loser baby, so why don’t you kill me?”<br />
Beck<br />
Le differenze tra le due squadre partivano dal livello epidermico.<br />
I giocatori del Ceramicandi Faenza, quadri e medi livelli dell’omonima cooperativa<br />
ceramica, mostravano una coloritura uniforme frutto degli agi di una vita borghese,<br />
dove l’abbronzatura si coltivava con regolarità sin dal primo weekend di maggio.<br />
Al contrario l’ARCI Imola Basket 1997 esibiva sotto le canottiere color turchesi una<br />
maggiore varietà cromatica: un nigeriano d’ebano, tre magrebini color faggio, una<br />
larga rappresentanza di lavoratori dell’edilizia con pelle già scurissima – ma solo<br />
dal gomito e dal ginocchio in giù – due programmatori informatici viranti sul beige<br />
e infine un albino. Ma bisognava aggiungere altri due elementi per completare la<br />
tavolozza.<br />
Di un color scuro ai limiti del rosso lo era sin da dicembre il capitano Michele Bombardoni,<br />
titolare della Bombardoni installazioni elettriche srl, discussa ex promessa<br />
della pallacanestro locale, alopecia incipiente, in quel momento in una dimensione<br />
parallela: correva, difendeva, rubava, pallava, tirava, intercettava, dava il massimo<br />
quando gli altri, sia i suoi compagni di squadra che gli avversari, si muovevano in<br />
campo come zombie a dieta. Era l’ultima inutile partita di un campionato inutile di<br />
una serie ai limiti del dilettantismo (“ai limiti”, verso il basso) e la foga di Bombardoni<br />
stonava in quel contesto da ufficio statale.<br />
Si fosse giocato la permanenza nel quintetto base la si poteva anche comprendere<br />
tutta quella volontà di dare il meglio, ma il fatto che le Bombardoni installazioni<br />
elettriche srl fossero lo sponsor della squadra, la rendevano superflua e pertanto<br />
ancor più insopportabile.<br />
Tornando a noi, il tiro a palombella da tre punti che portò l’ARCI Imola Basket 1997<br />
nel purgatorio <strong>dei</strong> tempi supplementari col Ceramicandi Faenza G.S. fu lo zenit<br />
della stagione, della carriera e, perché no?, della vita di Michele Bombardoni.<br />
Peccato che la scenografia risultasse del tutto inadeguata a questo evento degno<br />
di entrare negli annales del basket dilettantistico: qualche fidanzata, il vecchio che<br />
non si perdeva mai una partita attaccato come un koala alla ringhiera di bordocampo,<br />
il butterato reporter sportivo del settimanale locale (non quello letto e rispettato,<br />
l’altro) che, per rimarcare il proprio interesse al match, prendeva appunti<br />
ascoltando l’iPod.<br />
101
Un colorito del tutto inappropriato alla stagione estiva era invece quello di Luca<br />
Bazetti, guardia più allenata nello scatto panchina/spogliatoio che in quello dell’area<br />
di tiro/canestro. Ritrovatosi giocatore dell’ARCI Imola Basket 1997 per pressione<br />
osmotica dai tempi del liceo, Bazetti aveva in testa un modo migliore, molto<br />
migliore, per passare il resto di quel primo sabato di luglio, ma quei venti minuti di<br />
tempi supplementari rischiavano di comprometterlo per sempre.<br />
Insomma, quel vaffanculo che Luca Bazetti sibilò a denti stretti allo scadere del<br />
tempo regolamentare, il suo capitano se l’era decisamente meritato.<br />
2.<br />
Imola (ma altrove), ore 17:30<br />
Ritornò al centro della stanza: era tardi e doveva arrivare a una soluzione.<br />
Per le decisioni davvero importanti, Donatella iniziava infatti con l’ordine cronologico:<br />
appoggiava sotto l’armadio le vecchie Reebok dalla suola in plastica verde<br />
logorate in punta fino ad arrivare, trentadue paia dopo, alle tacco dodici rosso vernice.<br />
Quel plotone di calzature le già aveva dato delle suggestioni e un probabile vincitore,<br />
ma il pretenzioso vestito appoggiato sul letto le suggeriva maggiore attenzione.<br />
Si chinò sulle ginocchia e riprese a rimescolare, prima con criteri propriamente<br />
cromatici, poi sistemando il tutto in ordine di altezza, ma non usciva una risposta<br />
certa nemmeno in questo caso. Non riuscendo però a non pensare all’altra faccenda<br />
ritornò alla scrivania, dove però nulla era cambiato, quindi riprese a trafficare<br />
con le scarpe sbuffando d’impazienza. Riprovò con un sistema che si era rivelato<br />
il migliore: cercare quelle scarpe che, in qualche modo, si erano rivelate <strong>dei</strong> validi<br />
porta fortuna.<br />
Il podio di questa disposizione vedeva al terzo posto le Head con cui aveva vinto<br />
il primo torneo di tennis, le Nike Silver con cui era stata al Cocoricò insieme a<br />
Jenny e sul gradino più alto ancora le tacco dodici di vernice rossa che pur essendo<br />
nuove erano già importanti, visto che le aveva acquistate al primo appuntamento<br />
con Marcello.<br />
Le vernice rossa sembravano quindi le vincitrici ai punti di diverse classifiche, ma<br />
quello di calzare i piedi di Donatella non era mai un gioco facile, nemmeno per<br />
delle scarpe come loro: c’era sempre un “ma” che contrastava un “visto”.<br />
Il “visto” era perché “visto che piacciono tanto a Marcello avrebbe dovuto indossarle<br />
quella sera”; il “ma” derivava dal fatto che avrebbero sicuramente raggiunto<br />
gli altri a qualche in festa in spiaggia per la Notte Rosa («Rimini? Riccione? Marina<br />
di Ravenna? No, ti prego Marcello, Marina di Ravenna no...»), e in quel caso con<br />
i tacchi sulla sabbia avrebbe fatto una figura piuttosto patetica, arrancando come<br />
una tossica. Perciò: forse sandali (posizione nove)? Forse ciabattine (posizione<br />
tredici)? Perché no, delle ballerine rosa (posizione ventidue, con un plus aggiuntivo<br />
per il colore in sintonia con lo spirito della serata)?<br />
Incominciava a odiarla quella Notte Rosa: non bastava un capodanno a metterle<br />
102
ansia su cosa? come? e con chi fare cosa e come?, ora avevano pure inventato<br />
il capodanno dell’estate per raddoppiare i suoi problemi.<br />
Le serviva un analista. Uno migliore di quello che aveva già.<br />
Ancora a piedi nudi ritornò alla scrivania e controllò posta elettronica, Msn Messenger,<br />
Myspace, Facebook, Twitter... l’elenco era lungo ma alla fine il risultato<br />
era lo stesso, cioè niente.<br />
La sera precedente, raggiungendo le colonne greche del proprio orgoglio, gli aveva<br />
persino scritto per chiedergli cosa avesse intenzione di fare («Rimini? Riccione?<br />
Milano Marittima? No, ti prego Marcello, Milano Marittima no...») e lui non solo<br />
non le aveva risposto, ma nelle venti ore successive non le aveva nemmeno fornito<br />
un orario indicativo di quando sarebbe passato a prenderla, e senza un orario lei<br />
come avrebbe potuto essere in ritardo? Rischiava seriamente di fare la figura della<br />
morta di fame che al primo squillo è già bella e pronta sull’uscio di casa con un<br />
fiocco rosa sulle mutandine.<br />
Così, in mattinata, gli aveva riscritto per annunciargli il suo trionfo al torneo di Lugo<br />
e ricordargli, en passant, della serata, ma anche il secondo tentativo pareva essere<br />
stato vano, nonostante avesse inoltrato la comunicazione attraverso tutti i mezzi<br />
possibili.<br />
Telefonargli? Mai, nemmeno sotto tortura, e poi nelle vicinanze non si registravano<br />
incidenti mortali o rapine con vittime intorno ai venticinque anni, quindi il bastardo<br />
doveva essere vivo, aver ricevuto il messaggio e perciò doveva risponderle, e pure<br />
in fretta, se la voleva ancora vedere. Cacciò via i pensieri su Marcello chiudendo<br />
il laptop e ritornando alle cose che contavano veramente, come le scarpe.<br />
Riassumendo: i sandali facevano troppo liceale, quindi non andavano bene, via.<br />
Le ciabattine non le portava più nemmeno sua cugina pugliese mezza suora... via.<br />
Le ballerine forse, ma erano troppo poco impegnative, quasi fossero la prima cosa<br />
semplice e decente che avesse avuto davanti. Via, ma con riserva.<br />
L’idea che voleva dare era di uno stile ricercato ma non da festa del villaggio, tipo<br />
abito buono della domenica, perché “sono una tipa speciale”, rimarcando però con<br />
qualche piccolo particolare che in fondo anche la serata lo era.<br />
Le tacco dodici rosso vernice erano quindi la scelta, e pazienza se quei cretini<br />
della compagnia di Marcello avevano nel frattempo scelto un party sulla sabbia:<br />
lei sarebbe stata al sicuro sul cemento vicino al bar e Marcello lì con lei per parlare,<br />
ridere e ballare insieme.<br />
Sotto la luna, pensava.<br />
Fino all’alba, sperava.<br />
Soli in mezzo al delirio di una spiaggia nella prima notte d’estate, immaginava.<br />
Sentì uno squillo, abbassò i Club Dogo che pompavano dallo stereo sul davanzale<br />
della finestra e prese in mano il cellulare.<br />
Marcello, SMS.<br />
Ciao, sono già al mare con gli altri! Scusa ma no soldi nel cel. e ho ricaricato solo<br />
ora. Te scendi? Dai è una figata! Siamo a Villa Papete a MiMa, entro mezzanotte<br />
posso farti entrare col tavolo! Mi ha detto Fabio che ti ha visto al torneo: brava.<br />
Poi ha aggiunto che tua madre è proprio una gran FXXA ;-) a dopo, bacio!<br />
Le ballerine rosa sarebbero andate benissimo.<br />
103
3.<br />
Imola, ore 18:00<br />
Dopo avere salutato tutti, tranne Bombardoni che dopo la sconfitta era rimasto<br />
solo a piangere e singhiozzare come un vitello a metà campo, era pronto a inforcare<br />
la bici, raggiungere la videoteca per riconsegnare i dvd a noleggio ed essere<br />
così a casa entro le diciannove in punto, l’ora X entro la quale lui e la sua sorellastra<br />
Clara si giocavano il possesso della macchina di famiglia.<br />
Se uno <strong>dei</strong> due fosse arrivato in ritardo, la Yaris Blu spettava di diritto all’altro senza<br />
alcuna contrattazione, e questo Luca non poteva permetterselo. Clara, Clara la<br />
viscida, quando c’era da prendere prendeva senza lasciare tracce, testimoni e<br />
possibilità di trattativa.<br />
Ma ce l’avrebbe sicuramente fatta e ne rimase convinto, almeno finché non vide<br />
le ruote della bicicletta sventrate. Non ebbe nemmeno tempo di chiedersi chi fosse<br />
stato a fare quel gesto, se un giocatore del Faenza, un tifoso (no, non ce n’erano)<br />
o qualche adolescente annoiato; sapeva solo che per fare tutto quello che aveva<br />
in mente nei tempi previsti le opzioni si riducevano a una sola: correre.<br />
Col senno di poi, quindi, il non essere sceso in campo restando fresco come una<br />
rosa ma coi muscoli già riscaldati e pronti per la corsa, si sarebbe rivelato l’unico<br />
colpo di fortuna per Luca Bazetti fino all’alba successiva.<br />
4.<br />
Cesenatico, ore 18:10<br />
Prima di finire investito da una macchina, di essere preso a calci e sputi in faccia<br />
da un bambino di otto anni e di vedere quello che mai avrebbe voluto vedere,<br />
David Malvezzi aveva letto i segni di quel caldo sabato di inizio luglio come propizi<br />
ai suoi scopi.<br />
Il primo segno fu l’aver vinto per due volte di seguito al gratta e vinci: aggiungendo<br />
solo qualche centesimo alla somma era riuscito a prendere un pacchetto di light<br />
a spese dello stato. Il secondo segno fu che la tabaccaia, versione slava di una<br />
perversione felliniana, l’aveva definito “un mago”, anzi, “un vero mago”, cosa che<br />
difficilmente accadeva, anche se lui era effettivamente un mago. Il terzo segno,<br />
inequivocabile, si palesò mentre percorreva viale Carducci, e una persona dalla<br />
faccia antipatica, dopo aver incrociato il suo sguardo, era inciampata su una radice<br />
sporgente nel marciapiede ed era caduta a terra.<br />
“Porta jella”, avrebbero creduto in tanti; “è il mio giorno fortunato”, pensò invece<br />
David, che aveva sempre nutrito la certezza che alle persone che gli erano antipatiche<br />
non accedesse mai nulla di male.<br />
Arrivato in fondo al viale, all’angolo dove sorgeva la libreria Safarà, tirò l’ultima sigaretta<br />
del pacchetto: perso com’era nel contemplare i successi della giornata e<br />
a limare gli ultimi dettagli del piano lungo i due chilometri del tragitto, aveva fumato<br />
rapsodicamente, un tiro o due al massimo, scacciando con le cicche anche i pensieri<br />
di insuccesso. Perché non poteva andare male, non poteva andare male<br />
104
anche quella volta.<br />
«David Malvezzi, se non la smetti di assillarmi giuro che chiamo la polizia e ti denuncio<br />
per stalking, se solo fossi certa che tu sappia cosa significa.»<br />
La libreria, come al solito, era avvolta nel buio; solo la zona vicina alle casse era<br />
illuminata dagli occhi di due pipistrelli di plastica che penzolavano dal soffitto, mentre<br />
il sole era tenuto a debita distanza dalle tende viola di stoffa che coprivano<br />
buona parte della vetrina.<br />
Cassandra se lo ritrovò di fronte mentre stava rientrando dal magazzino dove<br />
aveva appena preso tre tomi troppo pesanti per il suo fisico ai limiti dell’anoressia,<br />
ma non così pesanti perché lasciasse che David venisse in suo soccorso.<br />
«Non mi pare ci siano gli estremi per...» messo in difficoltà, David Malvezzi tendeva<br />
a uscire dall’impasse usando un linguaggio forbito al quale non credevano nemmeno<br />
gli estranei, figurarsi lei.<br />
«Credi che in due mesi non mi sia accorta di te che mi aspetti sotto casa finché<br />
non rientro? O delle misteriose telefonate anonime che ricevo in negozio? O di<br />
quando resti giorni interi là fuori a spiarmi?»<br />
Secondo le leggi dell’ars oratoria che David aveva studiato al liceo, la parte peggiore<br />
doveva essere passata, ma forse Cassandra non aveva avuto le sue stesse<br />
letture.<br />
«…almeno mi avessi spiato, almeno ti fossi nascosto: no, come un cretino su viale<br />
Carducci, ore e ore su quella panchina a fumare e bere birra in lattina come un disadattato...<br />
sembravi la versione handicappata di Forrest Gump… chissà cosa<br />
avranno pensato...»<br />
«Da quando ti interessi di quello che pensano gli altri?»<br />
«Dal momento esatto in cui ho capito che non volevo stare con te.»<br />
Non che fosse sempre stata così stronza, Cassandra.<br />
Sei anni fa era una neo laureata in antropologia culturale di ventiquattro anni con<br />
gli occhi carichi di sogni per il proprio avvenire. Fallita la possibilità di un dottorato<br />
all’estero per un disguido con il suo relatore (lui la pretendeva ma non gliel’aveva<br />
data) era tornata in Romagna, dove aveva preso in gestione i locali del negozio di<br />
souvenir marittimi di famiglia con l’idea di adattare l’attività a quelle che erano le<br />
sue passioni, ovvero la magia e l’occulto.<br />
Sei mesi dopo il negozio di souvenir si era trasformato in una libreria specializzata<br />
in arti occulte (Safarà, sì, come quella di Dylan Dog), mentre il vice responsabile<br />
crediti della filiale di Tagliata del Banco Romagnolo, ragioniere Malvezzi Davide,<br />
aveva ormai abbandonato la sua scrivania per seguire il proprio destino diventando<br />
così David M., cacciatore di spiriti malvagi e illusionista a tempo perso. In realtà<br />
tendeva a soprassedere sulla sua attività principale, preoccupato che organizzatori<br />
di convention aziendali e direttrici di asili nido, i clienti che gli consentivano di restare<br />
sopra l’indigenza, potessero vedere in cattiva luce le sue scorribande notturne<br />
in cerca di demoni, vampiri e compagnia.<br />
David e Cassandra, che in un ambiente come quello di Cesenatico avrebbero dovuto<br />
faticare per non incontrarsi, avevano assecondato la reciproca attrazione arrivando<br />
a celebrare, due pleniluni dopo, un rito di fidanzamento con tanto di sabba<br />
105
celebrato sulla foce del Rubicone per ringraziarsi gli spiriti, ma soprattutto la signora<br />
Malvezzi che una qualche forma di ufficialità alla relazione del figlio la pretendeva.<br />
Nel corso della loro lunga relazione, David si era spesso chiesto cosa avesse mai<br />
trovato in lui una ragazza come Cassandra, arrivando a elaborare ipotesi perfino<br />
credibili, ma a giudicare da com’era finita, ci doveva essere qualcosa che gli era<br />
sfuggito.<br />
«Sei patetico, un verme inutile, sei l’intruso che intasa il water.»<br />
«La verità è che tu non sopporti che io sia qua fuori perché ogni giorno ti sbatto in<br />
faccia quanto era magica la nostra storia.»<br />
Cassandra odiava essere contraddetta, e quando veniva contraddetta Cassandra<br />
si arrabbiava sul serio, e se si arrabbiava sul serio aveva il vizio di sbattere qualsiasi<br />
cosa avesse a portata di mano: porte, posate, gatti, la faccia di David Malvezzi.<br />
In quel caso furono i tre tomi di magia nera larghi quasi mezzo metro che<br />
prese a picchiare sul tavolo della cassa con tale forza da farlo quasi crepare. Poi,<br />
come al solito, si alzò sulle punte <strong>dei</strong> piedi e serrò le mani fino a formare due piccoli<br />
pugnetti che gli puntò sotto il mento.<br />
«Non sopporto più te, la tua faccia, i tuoi vestiti logori e... il tuo odore» prese ad<br />
annusare l’aria, «Dio Santo David, ma da quanto non ti fai una doccia?»<br />
David era sempre stato una persona con una sua dignità igienica e fin da piccolo<br />
la signora Malvezzi gli aveva imposto l’abitudine di farsi una doccia ogni mattina<br />
appena sveglio; sveglia e getto d’acqua scattavano con riflessi pavloviani. Ma dopo<br />
la fine della storia con Cassandra iniziò a soffrire d’insonnia e alle ore diciotto e<br />
dieci di quel sabato stava per superare il suo record di duecento e passa ore di<br />
veglia ininterrotta.<br />
«E io che pensavo fossero queste fialette a puzzare così tanto!» si intromise il<br />
commercialista Palmanovi sbucando dal reparto gadget con qualche intruglio proveniente<br />
dalla Transilvania sotto le narici. Il commercialista Palmanovi era stato<br />
uno degli allievi più sciroccati tra i tanti incapaci che avevano partecipato al primo<br />
e unico corso di micromagia tenuto da David Malvezzi nel retrobottega del Safarà:<br />
pessimo entertainer, non riusciva a seguire il gioco delle tre carte che lui stesso<br />
gestiva, confondeva le formule magiche e durante il saggio finale il suo tentativo<br />
di estrarre un coniglio dal cilindro si risolse in una cena che David preparò a Cassandra<br />
la sera dopo l’esame.<br />
«Lei si faccia gli affari suoi, ma tornando a noi...» era in difficoltà, doveva mostrare<br />
intelligenza. «Non lo sai che il WWF ha promosso una campagna contro lo spreco<br />
dell’acqua? Una doccia ogni due giorni è più che sufficiente per mantenere la propria<br />
dignità.» David Malvezzi aveva letto quell’informazione su un depliant prima<br />
di usarlo come fazzoletto.<br />
«Tu vieni a parlare di ambientalismo a me?! Tu hai sgozzato quattro capre perché<br />
pensavi che il loro sangue ti servisse per un incantesimo, e poi quando ti sei accorto<br />
di aver tradotto male dall’aramaico le istruzioni hai lasciato i cadaveri sul ciglio<br />
dell’Adriatica e a quello del distributore quasi non viene un infarto perché<br />
pensa si tratti di un avvertimento mafioso...»<br />
Cassandra riprese in mano i libri e, facendosi largo con una spallata, si avviò verso<br />
106
lo scaffale di riferimento “Magia nera, occultismo, marketing”.<br />
Con quel suo comportamento ostile lo stava obbligando a mettere in atto il primo<br />
<strong>dei</strong> suoi due piani fino in fondo, cosa che non voleva fare perché desiderava sì riconquistarla,<br />
ma non sfoderando tutti i poteri di cui era in possesso. Ma forse c’era<br />
ancora tempo per parlare e...<br />
«E se non l’hai ancora capito, voglio che tu esca dal mio negozio e se Dio mi concedesse<br />
la grazia, anche dalla mia vita» disse lei mentre, dandogli le spalle, infilava<br />
il primo <strong>dei</strong> tre tomi nello scaffale più in alto.<br />
Ok, l’aveva voluto lei con quell’attacco diretto: David Malvezzi si vedeva costretto<br />
a mettere in atto il piano numero uno, nome in codice: strategia laterale. Recuperò<br />
l’espressione più spavalda del suo repertorio pescando tra i suoi modelli di riferimento:<br />
Osvaldo Valenti e David Copperfield e, dopo aver incrociato le braccia, si<br />
appoggiò a una colonna della libreria.<br />
“Guarda fuori dalla vetrina come se parlassi di cose senza importanza e, mi raccomando,<br />
voce impostata” si ripeté prima di iniziare.<br />
«Ho notato» partì in falsetto per l’emozione, tossì per rimettere a posto il tono, poi<br />
riprese: «Ho notato che negli ultimi tempi gli affari non vanno un granché bene.»<br />
Nell’ultima settimana, e si parla dell’inizio dell’alta stagione, aveva contato solo<br />
dodici ingressi, molti <strong>dei</strong> quali uscivano senza aver acquistato niente, molti <strong>dei</strong><br />
quali erano il commercialista Palmanovi.<br />
«Si dà il caso che una certa persona» “avrà capito che parlo di me?”, si chiese,<br />
«sia in contatto con molte altre persone che sarebbero ben felici di tornare a fare<br />
acquisti qui da te...»<br />
«Che cosa stai dicendo?» replicò Cassandra, stupita.<br />
«Sto parlando di tutti i miei amici che da quando ci siamo lasciati hanno smesso<br />
di venire qua per solidarietà nei miei confronti, visto l’ignobile maniera in cui mi<br />
hai trattato.» E ora il colpo finale, l’Enola Gay di tutte le vendette di un ex: «Basta<br />
solo una mia parola e qua dentro tornerà a scorrere lo stesso fiume di persone<br />
che c’era l’anno scorso. Ti chiedo di darmi solo un’altra possibilità e grazie a me<br />
e rivedrai riprendere i tuoi affari.»<br />
David Malvezzi aveva ovviamente previsto qualsiasi tipo di reazione possibile, era<br />
pur sempre un mago abituato a confrontarsi con la sorpresa delle persone di fronte<br />
all’incredibile, ma la risposta di Cassandra, l’unica parola con la quale rispose, lo<br />
colse del tutto impreparato.<br />
«Internet.»<br />
Cosa? Cosa significava internet?<br />
David Malvezzi suppose che lei volesse solo prendersi un po’ di tempo, magari il<br />
tutto poteva partire con un paio di chiacchiere in chat o con uno scambio di mail<br />
romantiche.<br />
«No, non hai capito nulla, coglione. Se quando stavamo insieme mi avessi mai<br />
ascoltata sapresti che ormai da un anno il novanta percento degli incassi li faccio<br />
vendendo via web o su ebay, e che tengo queste quattro mura solo perché ci sono<br />
affezionata, visto che mia nonna ci ha lavorato una vita. E i tuoi amici “solidali”<br />
sono ancora tra i miei più affezionati clienti, anzi, ora che faccio consegne a domicilio,<br />
comprano più di prima.»<br />
107
«Anche io compro online e se vengo qui è solo perché mi fa piacere vedere questa<br />
deliziosa signorina» si intromise nuovamente il commercialista Palmanovi.<br />
«Ma lei vuole stare un po’ zitto?! Qua c’è qualcuno che ha delle cose importanti<br />
da dirsi.»<br />
Come un gentleman d’altri tempi il Palmanovi, accortosi di essere di troppo, salutò<br />
Cassandra con un delicato baciamano e uscì dal negozio.<br />
Forse il primo atto non era proprio andato come previsto ma David Malvezzi aveva<br />
già il secondo colpo in canna, il diretto, il letale, il piano numero due: il nome in<br />
codice ufficioso dell’operazione ora passava da “mettiamola sugli affari” a “suscitare<br />
pietà”. David si inginocchiò quindi ai piedi della sua ex e strinse le braccia intorno<br />
alle ginocchia magre e pallide che sbucavano dalla gonna di jeans. Pochi<br />
istanti prima di accasciarsi a terra, con abile mossa da mago, si era spruzzato del<br />
liquido per stimolare le lacrime che era solito usare nelle sue esibizioni più melodrammatiche,<br />
un misto di cipolla e acqua della laguna di Marghera. Ma aveva esagerato<br />
e ora le pupille odoravano di tabasco e per il dolore il tono di voce si tramutò<br />
in stridulo, infantile, da vecchio in fase di delirio di fronte all’abisso imminente.<br />
«La mia vita non ha più senso senza di te... non faccio una convention da due<br />
mesi... mi sono rimaste solo le feste per i bambini... e anche quelle mi fanno schifo,<br />
li odio tutti quei mocciosi, e poi vogliono solo essere ammanettati e fatti sparire...»<br />
«David...»<br />
«Dimmi che non hai un altro, e se un altro c’è, non è quell’hippie del cazzo con la<br />
coda e gli occhialini alla Elton John, quello della farmacia omeopatica vicino al<br />
porto vecchio, quello che a gennaio ti scrisse quel messaggino...»<br />
«David, ti prego...»<br />
«Non ci sto più con la testa, l’altra sera quasi mi facevo sventrare da un maligno<br />
di grado zero perché mi ero dimenticato l’acqua sacra a casa... sono sempre<br />
ubriaco, non dormo più, puzzo da far schifo, non so cucinare... riprendimi con te!»<br />
poi urlò: «Perché non mi vuoi?!»<br />
Cassandra gli fece segno di alzarsi poi, una volta che fu in piedi, prima con un<br />
fazzoletto bianco gli asciugò le lacrime dal volto e passò il dorso della sua mano<br />
sulla guancia arrossata con una tenerezza che stavano per farlo commuovere<br />
nuovamente, questa volta sul serio.<br />
“Ha funzionato”.<br />
Avvicinò quindi le labbra al suo orecchio, David notò che il rossetto aveva il profumo<br />
dell’albicocca, quello che piaceva a lui.<br />
“Cazzo, ha proprio funzionato. Lo sapevo, come patetico sono imbattibile.”<br />
Sussurrò:<br />
«Non ti voglio perché sei un fallito e mi fai anche un po’ pena. E ora fuori dal mio<br />
negozio o chiamo sul serio la polizia, coglione.»<br />
Una volta fuori, David si chiese dove avesse sbagliato nel leggere i segni di un<br />
destino, e se non fosse il caso di dare una ripassatina al manuale di ars aruspicina.<br />
“Però è ancora carina” pensò.<br />
Stava per rimettersi sui suoi passi tornando mestamente all’Ape Car che aveva<br />
108
lasciato vicino al grattacielo, quando una voce conosciuta lo colse alle spalle.<br />
«È lui mamma! È lui il mangia merda!»<br />
Riconobbe immediatamente quel piccolo nano bastardo dai capelli ricci e rossi<br />
con i polsi troppo cicciotti per la sua età e la madre, una megera cesenate cafona<br />
dalla criniera d’argento. Se la diede così a gambe levate e ce l’avrebbe anche<br />
fatta a svignarsela se la familiare azzurro confetto del commercialista Palmanovi<br />
non si fosse fermata allo stop e non l’avesse travolto.<br />
Era ancora tramortito quando i piccoli ma precisi calci del bambino iniziarono ad<br />
arrivargli, con un ritmo da orologio svizzero, nell’area facciale.<br />
«Mangia merda! Ha ragione il mio papà, sei un mangia merda!»<br />
Ebbe il tempo di ripetere calci e frasi più volte, anche perché la mamma non aveva<br />
la minima intenzione di fermarlo, e l’unico suo probabile alleato, il commercialista<br />
Palmanovi, impiegava a causa dell’artrosi non meno di sette minuti netti per scendere<br />
dalla vettura.<br />
«Lei e le sue stupide manette! È dalla festa di compleanno di suo cugino che cerchiamo<br />
di contattarla per liberarlo» si intromise la madre tra un mangia merda e<br />
l’altro. «Per un trucco del piffero lei ha legato mio figlio come un salame poi è<br />
scomparso... mio marito e suo fratello l’hanno cercata per ore attorno a casa ma<br />
hanno trovato solo il suo costume abbandonato vicino una bottiglia di vodka vuota»<br />
e travolta dall’emozione sferrò anche lei un colpo di sandalo in faccia a David.<br />
In effetti, notò David, il piccolo bastardo aveva le manine legate proprio dal paio<br />
di manette che mancavano all’appello, quelle con gli elefantini disegnati sui polsi<br />
e che lui si era convinto di aver perso in cantina dopo l’ultima e molto degenerata<br />
sbronza.<br />
Prima di svenire travolto da un mix letale di umiliazione e puro dolore fisico, il mago<br />
David M. promise a se stesso che era giunto il tempo di rifarsi agli occhi della vita.<br />
Non sapeva ancora come, ma quella sera ci avrebbe provato.<br />
A dire il vero, l’ultima cosa che vide fu l’arrivo davanti alle vetrine della libreria Safarà<br />
di un uomo alto quasi due metri, coda di cavallo, camicia a fiori aperta sul<br />
petto, occhiali con lenti blu alla Elton John.<br />
Il bastardo aveva pure delle rose in mano, quel tipo di fiore che per anni Cassandra<br />
gli aveva giurato di odiare. Ma quell’immagine David Malvezzi non se la ricorderà<br />
al suo risveglio: sarebbe stato un segno troppo evidente che in effetti quel giorno sarebbe<br />
stato sì positivo, ma per qualcun altro.<br />
5.<br />
Imola, ore 18:28<br />
Il club “non abbiamo voglia di andare al mare in mezzo a quel casino” pareva essersi<br />
dato appuntamento al Blockbuster di Imola quel pomeriggio.<br />
Chiara, che era stata la bassista del primo gruppo di Luca Bazetti (una cover band<br />
degli 883, i “Non me la suonare”), spuntava dietro alla cassa cercando di placare<br />
l’orda di clienti che più o meno velatamente mostravano il disappunto per la lentezza<br />
con cui la commessa sembrava svolgere le sue funzioni.<br />
109
Luca Bazetti, fiato ancora corto per la maratona improvvisata, non poteva lasciare<br />
semplicemente i film nella buchetta e andarsene, doveva infatti consegnare le<br />
copie a mano se voleva che in nome della vecchia amicizia Chiara gli togliesse il<br />
ritardo accumulato in due settimane (e Luca Bazetti non voleva sborsare cinquanta<br />
euro per “Scream”, “Nightmare 3” e “La casa delle finestre che ridono”). Si mise<br />
quindi in fondo alle quindici persone in fila e, controllato l’orologio dietro il bancone,<br />
fece due calcoli: se Chiara non si fosse persa in chiacchiere, se davanti a lui non<br />
ci fossero stati clienti sprovvisti di tessera, se non ci fosse stato qualche stronzo<br />
che si impuntava a non voler pagare il ritardo, se i due bambini presenti non avessero<br />
piantato qualche grana dell’ultimo momento cambiando continuamente idea<br />
su quale film prendere... insomma, se fosse accaduto quello che in un normale<br />
sabato da Blockbuster non accadeva mai, Luca Bazetti, correndo a perdifiato fino<br />
alla parte opposta della città, sarebbe potuto ancora arrivare a casa in tempo.<br />
6.<br />
Bologna, ore 18:30<br />
La camera di Jamal era l’unica di tutta la casa dove c’era l’abitudine a bussare<br />
prima di entrare.<br />
«Avanti» rispose il giovane che per specchiarsi era costretto a piegare la schiena<br />
come il soggetto di una macchina fotografica dall’obiettivo troppo stretto.<br />
Era Amad. Al contrario di Jamal, ancora in mutande, lui era già pronto per la serata<br />
sin da tarda mattinata. Aveva lavorato così tanto al ristorante nelle ultime due settimane<br />
che aspettava quel sabato sera di riposo in riviera con trepidazione.<br />
«Tuo cugino... era in vistoso imbarazzo… Joussef.»<br />
«Cos’ha combinato stavolta...?» chiese portando davanti allo specchio la sfumatura<br />
del lato destro.<br />
«Non ho capito bene, ma se vuoi che neanche questa volta lo uccidano, vieni di<br />
là. E fai in fretta.»<br />
“Me li ha tagliati proprio alla cazzo” pensò facendo ben attenzione che Jamal non<br />
si accorgesse del suo disappunto. Si infilò una maglietta <strong>dei</strong> Simpson che teneva<br />
appoggiata sulle spalle e seguì il coinquilino lungo gli stretti e afosi corridoi dell’appartamento,<br />
pronto a risolvere l’ennesima crisi diplomatica.<br />
«Io continuo a sostenere che Israele abbia le sue ragioni.»<br />
Il naso di Joussef ora sanguinava molto meno, il tampone che Jamal gli aveva inserito<br />
nella narice sembrava funzionare, anche se la voce del giovanotto usciva<br />
ancora più simile a quella di un papero saccente.<br />
«So che hai ragione, ma forse...»<br />
«Se leggessero qualche giornale» da terra prese in mano alcune copie di quelle<br />
riviste straniere a cui era abbonato e che ogni settimana intasavano la buchetta<br />
delle lettere, «capirebbero che sono nel giusto...»<br />
Di questo Jamal ne era certo a priori, ancor prima di arrivare in soggiorno e sedare<br />
la rissa, o meglio, pestaggio: suo cugino nel giusto lo era sempre. Era nel giusto<br />
quando all’inizio dell’estate scorsa contattò la CGIL per far denunciare le ridicole<br />
110
condizioni di sicurezza di un cantiere edile vicino alla stazione, peccato che per<br />
quell’impresa lavorasse più di metà del caseggiato e che per colpa sua buona<br />
parte fosse stata licenziata in una sorta di vendetta trasversale.<br />
Quella volta Joussef uscì dallo scambio di opinioni (leggi: agguato) avvenuto nel<br />
cortile condominiale con due dita rotte, una decina di lividi sparsi per il corpo e minacce<br />
di morte che l’avrebbero accompagnato negli incubi per settimane: e questo<br />
pur essendo il cugino di Jamal, quel Jamal.<br />
«Non è colpa mia se loro sono stupidi.»<br />
«Saranno anche stupidi, ma vivono con noi, anche con te. Sono i nostri amici, la<br />
nostra famiglia.»<br />
Gli aveva fatto quel discorso almeno un milione di volte: ogni sera che Joussef<br />
entrava in soggiorno sbraitando perché coinquilini e altri amici, giocando con la<br />
playstation, gli impedivano di concentrarsi a dovere negli studi e questi lo lapidavano<br />
di patatine e pop corn; ogni volta che a cena metteva su un caso per un errore<br />
nella raccolta differenziata a persone che si erano svegliate all’alba per andare<br />
su impalcature o in catena di montaggio e questi per poco non gli infilavano le forchette<br />
nel costato; ogni volta che si parlava di figa davanti a un porno e lui tirava<br />
fuori il concetto di dignità femminile e si beccava del frocio e, a volte, un’altra forchettata<br />
nella mano.<br />
Ma Joussef era fatto così, non riusciva a farsi amare dalle persone, non c’era mai<br />
riuscito in Marocco da bambino e a maggior ragione non ci sarebbe mai riuscito<br />
nella sua vita adulta in Italia. Per questo Jamal lo vedeva già avvocato.<br />
«Senti, gli animi si sono surriscaldati un po’ troppo oggi e anche se gli altri mi<br />
hanno promesso che ti chiederanno scusa, le cose non possono andare avanti<br />
così.»<br />
«Mi stai cacciando?»<br />
Jamal sapeva che Joussef avrebbe accettato una vita da odiato da tutti ma non<br />
lontano da lui, perciò l’ipotesi di estrometterlo dal nido era fuori discussione. E poi<br />
lui stesso non aveva la minima voglia di allontanare l’unica persona davvero intelligente<br />
che conoscesse in famiglia.<br />
«No, stupido... ma devi integrarti!» si alzò e gli mise le mani sulle spalle, usando<br />
quel tono paterno che nessuno aveva usato con lui. «Sei molto meno stronzo di<br />
quanto vuoi far sembrare, io lo so, ma gli altri fanno fatica a crederti. Per questo<br />
stasera uscirai con noi, c’è la Notte Rosa al mare, un sacco di feste in giro... Verrai<br />
a ballare con noi e dimostrerai a tutti di essere simpatico, almeno un pochino.»<br />
«Non esiste, tra dieci giorni ho un esame di diritto marittimo e sono indietro...» balbettò.<br />
«Joussef, non fare il musone. Te lo chiedo io.»<br />
“Te lo chiedo io” era un colpo basso e Jamal lo sapeva, ma non poteva fare altrimenti<br />
o rischiava di perdersi in ore di discussioni che non avrebbero portato a nulla<br />
e, pur con tutto l’affetto del mondo, aveva altri programmi ben più piacevoli per la<br />
serata.<br />
«Partiamo tra dieci minuti per Marina di Ravenna» disse con tono risolutivo mentre<br />
usciva dalla stanza, «quindi vedi di muoverti.»<br />
«Ma...» aveva mille obiezioni, nessuna valida. «Va bene…» pausa, piuttosto lunga,<br />
111
«...marocchincello.»<br />
Jamal si fermò sulla soglia della porta e rifletté su cosa consistesse l’essere cugini,<br />
almeno per lui: non nell’avere come padri due fratelli, ma nel ridere ancora come<br />
pazzi per quel modo di dire che solo loro, che erano passati sotto le grinfie di un<br />
arrogante e razzista professore di lettere alle medie, sembravano ricordare.<br />
Jamal tornò indietro e i due si abbracciarono.<br />
7.<br />
Imola, 18:42<br />
Luca Bazetti stava tagliando la piazza principale di Imola correndo a perdifiato (“ce<br />
la faccio, ce la faccio, ce la faccio...”), dribblando un paio di mamme con carrozzine<br />
e il tandem che trasportava l’assessore locale al bilancio e la sua signora, quando<br />
squillò il telefono.<br />
“Lei, lei e il suo solito tempismo”.<br />
Non avrebbe risposto, ovviamente, se quella stessa mattina non avesse chiuso la<br />
comunicazione su Skype dicendole in maniera chiara e diretta che se fosse andata<br />
a Nantes in compagnia di quel Philippe poteva dichiararsi single.<br />
Alt, rewind.<br />
Luca Bazetti era fidanzato da circa un anno con Maria Cristina, perugina, bella<br />
presenza, automunita, studentessa fuorisede presso l’università di Bologna al<br />
terzo anno di ingegneria gestionale, media del trenta e lode, aziende che chiamavano<br />
in continuazione per proporle stage su stage (fin qui tutto bene) e attualmente<br />
in Francia per il progetto Erasmus (da lì tutto male).<br />
Luca Bazetti, figurante senza battute nella facoltà di economia e marketing dello<br />
stesso ateneo, era sinceramente contento per i progressi della propria compagna,<br />
e quando lei gli aveva confessato il suo desiderio di recarsi all’estero per un periodo<br />
di studi aveva assecondato la sua volontà. Certo, quando venne a sapere di<br />
essere stato informato già a consegna della borsa di studio avvenuta si sentì un<br />
po’ preso in giro, ma come gli aveva insegnato suo padre (quello vero, non il replicante<br />
che girava per casa in mutande monopolizzando tutte le sere Sky Sport)<br />
si era messo nei suoi panni e aveva lasciato correre.<br />
Di Philippe invece non ne sapeva nulla se non che era belga, che era il classico<br />
belloccio da Erasmus, che studiava medicina e che la sua presenza nelle foto che<br />
Cristina postava su Facebook cresceva esponenzialmente giorno dopo giorno:<br />
prima come figura di sfondo, poi come parte del gruppo (zona centro/laterale) infine,<br />
immagine degli ultimi giorni, solo insieme a Maria Cristina in una serie di pose<br />
a due a base di linguacce e brindisi. Abbastanza per scatenare fiammate di gelosia<br />
e un bruciante desiderio che la convivenza tra fiamminghi e valloni degenerasse<br />
in una guerra civile, con un richiamo immediato in patria per tutti i belgi e il loro arruolamento<br />
forzato nell’esercito nazionale. Nell’improbabilità di questa ipotesi<br />
anche una forma inguaribile di herpes avrebbe portato analoghe felici conseguenze.<br />
Quel sabato mattina, nella loro consueta chat prima del weekend, lei lo aveva av-<br />
112
visato che nel pomeriggio sarebbe partita insieme ad altri erasmuci alla volta di<br />
Nantes, e Luca Bazetti, senza che dalla bocca di Cristina uscisse un solo riferimento<br />
a Philippe, era sbottato in una serie di improperi e vaghe allusioni fino a<br />
chiudere d’improvviso la conversazione minacciando di lasciarla in quanto “puttana<br />
e senza cuore”. Se non avesse risposto subito le conseguenze che potevano scatenarsi<br />
erano incalcolabili, soprattutto con quell’avvoltoio belga nei paraggi pronto<br />
alla sua prima mossa falsa; se avesse risposto, la logorrea di Cristina gli avrebbe<br />
fatto perdere l’anticipo netto di due minuti che era riuscito ad accumulare contro<br />
la viscida Clara.<br />
E così lo sventurato rispose.<br />
113
114
Un impero di famiglia alle prese con il passaggio generazionale, il nipote<br />
del fondatore che ne sta scardinando gli equilibri, un gruppo di colleghi<br />
incapace di fermare il tracollo, sono gli elementi attorno ai quali ruotano<br />
le vicende del romanzo. Natan Mondin si abbandona al manifesto dell’impotenza<br />
che guida i personaggi tra uffici, linee di produzione, campi<br />
da golf e motel. Dal direttore di stabilimento che si rifiuta di trasferire la<br />
produzione nell’Europa dell’Est al fedele ragioniere che viene licenziato<br />
in tronco; dall’impiegato dell’ufficio acquisti al top manager, tutti vengono<br />
risucchiati nel vortice insensato di ruoli che è divertente leggere in un romanzo,<br />
ma speri di cuore non ti capiti mai.<br />
Natan Mondin nasce nel 1978 a Milano, si trasferisce dopo una settimana<br />
a Bresso, dove abita da circa trentatré anni. Lavora per un ente<br />
coreano e Agglomerato è il suo primo romanzo.<br />
115
Agglomerato, Natan Mondin.<br />
La paura<br />
Le scale mobili sono più pericolose degli ascensori. Il gradino gli ballava sotto i<br />
piedi. Sono più pericolose perché non hanno i cunei lungo le guide laterali, il pistone<br />
di frenata e il doppio cavo di sicurezza. Il problema sta nella fossa, nella<br />
mancanza di dispositivi di sicurezza realmente efficaci, nel movimento dal basso<br />
all’alto e viceversa. A causa di una manutenzione non proprio ortodossa, quel<br />
pezzo di metallo avrebbe potuto cedere, lui si sarebbe incastrato fra l’alluminio e<br />
il vuoto; una volta arrivato alla piattaforma avrebbe fatto la stessa fine di Robespierre.<br />
Anche il corrimano non gli dava fiducia. Poteva succedere l’incidente più banale<br />
mentre stava lì aggrappato alla striscia di gomma nera che, cedendo all’improvviso,<br />
l’avrebbe trascinato in avanti fino fargli perdere l’equilibrio. Si sarebbe ritrovato<br />
con il naso schiacciato e il viso tumefatto. Una questione statistica, un dato<br />
di fatto, come dire che un italiano su tre ha i baffi.<br />
Finalmente aveva appoggiato i piedi sulla terraferma del secondo piano. Aveva<br />
comprato una Coca, si era accomodato a un tavolino che dava sull’ampia area<br />
d’atterraggio della macchina infernale, lontano dalla vista di tutti.<br />
Era del tutto immotivato. Darsi appuntamento in quel posto in un giorno di festa.<br />
In molti avevano approfittato per agganciare un giorno di ferie al fine settimana.<br />
Da quando lavorava in Riva non aveva mai fatto un ponte. Si guardava attorno attento<br />
a riconoscere volti e fisionomie; se un paio di occhiali, la camminata, le<br />
spalle, un taglio di capelli gli sembrava appartenessero a qualcuno <strong>dei</strong> suoi colleghi,<br />
abbassava la testa, leggeva un sms immaginario, scorreva i nomi sulla rubrica<br />
del cellulare.<br />
Scuoteva il bicchiere di carta, i cubetti urtavano uno contro l’altro, osservava chi<br />
scendeva al piano uno alla volta. Con la cannuccia succhiava l’acqua rimasta sul<br />
fondo; era una cosa che non tollerava. Aveva chiesto senza ghiaccio e l’avevano<br />
messo lo stesso. Il trucco più vecchio del mondo per fare margine con le bevande.<br />
Ok McDonald’s, ma se anche il pizzaiolo egiziano l’aveva imparato voleva dire<br />
che la fine era vicina.<br />
Asfissiato dalla preoccupazione di non farsi riconoscere, si teneva il viso tra le<br />
mani. Lo cercava fra la gente che si lasciava portare in giro dai cartelli di saldi e<br />
occasioni. Le persone si spingevano verso la galleria di vetrine. Quando lo riconobbe,<br />
gli fece un piccolo cenno con la mano sinistra, lo salutò con gli occhi e appoggiò<br />
il bicchiere sul tavolino di metallo.<br />
«Scusa il ritardo, mi aspettavi da molto?»<br />
«No, ho preso soltanto da bere.»<br />
«Allora vado a ordinare, cosa mangi?»<br />
«Un kebab senza cipolla.»<br />
«Patatine?»<br />
116
«Ok.»<br />
«Ketchup o maionese?»<br />
«Tutti e due.»<br />
«E poi?»<br />
«Prendimi un’altra Coca.»<br />
«Va bene.»<br />
«Tieni.»<br />
«Lascia stare, offro io.»<br />
«Allora io pago il cinema.»<br />
«Non incominciare.»<br />
«Ma sono io che ti ho detto di venire.»<br />
«Che c’entra, mi devi raccontare le novità.»<br />
«Aspetta, vado a ordinare.»<br />
Tornò con il vassoio, inseguito da una scia di spezie e olio esausto.<br />
Scaricò prima le bevande e poi il cibo, si sedette.<br />
Rimoldi<br />
Ho ceduto e sono andato al vegetariano. Mara l’aveva detto che non mi sarei sentito<br />
a disagio, sono tutti in giacca e cravatta, a parte donne in tailleur e cameriere<br />
in tuniche sgargianti.<br />
Avevo una voglia tremenda di andarmene; sembravano tutti mezzi fatti, seguivano<br />
ogni mio movimento con sorrisini ebeti e mani giunte. Tanto più che a due passi<br />
c’è il pub dove abbiamo visto la finale. Quello del roast beef famoso. Mara è al limite<br />
della paranoia, mi ha perfino controllato nel portafogli per vedere se mi sono<br />
iscritto.<br />
L’altra sera mi ha fissato durante tutta la cena, in silenzio. Lei davanti alla sua insalata<br />
e ai germogli di soia, io alla mia costata. Manzo, ventiquattro euro al chilo,<br />
Esselunga.<br />
«Tu non sai cosa patiscono gli animali negli allevamenti, se lo leggessi anche tu,<br />
non avresti più voglia di mangiare carne. Per non parlare del fatto che tutto lo<br />
stress e l’aggressività che hai è di sicuro un riflesso, una conseguenza <strong>dei</strong> loro<br />
maltrattamenti.»<br />
Qualche segno di cedimento l’aveva già dato in passato, ma da quando si è messa<br />
a leggere quel libro si è totalmente rincoglionita. Hai capito? Secondo lei io sono<br />
aggressivo e stressato perché mi piacciono le bistecche.<br />
Ad ogni modo non mi aspettavo nulla di simile, pensavo che fosse pieno di fricchettoni<br />
luridi e sballati, invece dentro è messo meglio che al matrimonio di mia<br />
sorella: tavoli e sedie ricoperti di broccato, candido e profumato. Incenso ovunque,<br />
ma non mi ha dato fastidio; i bicchieri e le posate molto semplici, le brocche d’acciaio,<br />
tutto lustro e di classe.<br />
Alle pareti non c’è nulla, a parte le foto in bianco e nero di un ometto pelato e sorridente.<br />
In questo ambiente asettico l’unica nota di colore sono i fiori arancioni che<br />
decorano le immagini del santone.<br />
117
Ti puoi accomodare dove vuoi. Io mi sono seduto a un tavolino in un angolo, dove<br />
non c’era nessuno e speravo che rimanesse vuoto. Non avevo nessuna voglia di<br />
fare conversazione. La cameriera mi spiega tutta la manfrina, i due menù, la possibilità<br />
del bis, e mi dice di compilare con calma la tessera per l’iscrizione al centro<br />
culturale. Scelgo il menù ridotto, come aveva consigliato Mara. Mi portano un vassoio<br />
con tre ciotole e un piattino, la cameriera mi dice di conservare il tagliando e<br />
la scheda della tessera per la cassa.<br />
«Da dove inizio?» le faccio.<br />
«Se vuole può partire dall’insalata e poi proseguire in senso antiorario» mi risponde<br />
con un alito al gelsomino.<br />
Nella sala non c’è musica, si sentono parlare soltanto i cucchiai. Divoro l’insalata<br />
condita con noci e qualcosa che sembra panna acida, finisco in un nanosecondo<br />
il riso e mi butto sul piatto forte, una caponata rinforzata con qualcosa di spugnoso.<br />
Il tutto innaffiato con un succo di nonosochecosa, molto buono, sarà per le vitamine.<br />
Mi faccio il bis di caponatina e quando sto per addentare il dolce non sento<br />
più il rumore delle posate. Un silenzio fastidiosissimo. Si distingue il respiro di ogni<br />
persona. Dal fondo della stanza vedo entrare le cameriere in fila indiana. Lasciano<br />
cadere i petali sulla moquette mentre si dirigono verso di me. Parte un frastuono<br />
di cembali e flauti ed entra lui, quello delle foto, molto più magro, scavato dalla<br />
fame, in tunica arancione. Il viso e il cranio lucidi, rasati, sulla fronte un bollino<br />
enorme, molto più grande di quello delle cameriere. Si avvicina, tutti mi fissano a<br />
mani giunte e non la smettono di harekrishnare. Il tizio si siede al mio tavolo, mi<br />
saluta con inchino e mi versa una tazza di tè.<br />
Non avevo ancora associato voce, sguardo e nome, quando mi dice:<br />
«Dottor Rimoldi, è un piacere rivederla, la stavo aspettando.»<br />
«In realtà sono venuto qui perché mi ha costretto Mara» balbetto.<br />
«Non si faccia troppe domande, a noi non è dato sapere il volere di Krishna.»<br />
Butto giù quello che rimane del tè.<br />
«Mi venga a trovare quando vuole e mi raccomando, non abbia paura» dice mentre<br />
mi allontano verso la cassa. Ho pagato e soltanto allora ho capito che quel<br />
santone sorridente avvolto dal lino arancione era il ragionier Malversi.<br />
«Ti sarai sbagliato.»<br />
«Ti giuro, era lui, dimagrito di almeno quindici chili.»<br />
«E non sei più tornato a parlargli?»<br />
«Sei pazzo, me ne guardo bene. Da quando mi hanno fatto quel discorsetto non<br />
mi allontano mai dall’ufficio. Ho paura di trovare la mia roba in uno scatolone.»<br />
«Esagerato.»<br />
«Lascia stare. Non sai. Riva è un pazzo, e quello del fondo a cui sta cedendo la<br />
società è ancora peggio. Senza scrupoli, muove tutto dietro le quinte. Mariani l’hanno<br />
lasciato a casa, dopo che ha trasferito tutta la produzione all’Est. Con lui<br />
sono rimasti senza lavoro seicento operai. Mia sorella ha ricevuto il benservito, il<br />
responsabile qualità, quello della logistica, il direttore vendite estero pure. La Riva<br />
è un’azienda senza management, allo sbando. Ora temo anche per noi. Ho già ricevuto<br />
un avvertimento. Tu andrai a Roma, ma chi ha sponsorizzato il tuo trasfe-<br />
118
imento è stato Malversi.»<br />
«Tu come fai a saperlo?»<br />
Il ragionier Malversi<br />
Non l’hanno mai affascinato le filosofie indiane, i Beatles sì. Nel 73, finite le superiori,<br />
il tirocinio, la naja nei bersaglieri e il posto fisso, ufficio contabilità fornitori alla<br />
Riva S.p.A. Otto ore di partita doppia e poi la musica, le donne e la droga. Suonava<br />
molto bene la chitarra ma non la usava per rimorchiare.<br />
“Il Valore è un rapporto tra fasi di tempo. Così ad esempio una penna ha valore<br />
perché prevediamo di scrivere; quindi il Valore è un rapporto fra il momento della<br />
previsione e il momento previsto. La prima fase di tempo è il momento strumentale,<br />
che attiene all'oggetto, la seconda fase di tempo del Valore è il momento edonistico<br />
[di godimento del bene], che attiene al soggetto”.<br />
Che cazzo significava quel biglietto?<br />
Gliel’aveva lasciato Marzia sul vassoio, assieme alla pasta al sugo e la cotoletta<br />
con patate. L’avrebbe invitata comunque al parco Lambro. Re Nudo, i suoi ex compagni<br />
di classe e gli altri del gruppo, ne parlavano da mesi. Spiritualità e musica.<br />
Aveva preso ferie e una scorta di acidi. Marxisti, leninisti, anarchici, Hippy, Goa,<br />
Osho, Abhay Charanaravinda Bhaktivedanta Swami Prabhupada e i suoi Hare Krishna<br />
a lui non gliene fregava un cazzo. Voleva vedere Finardi, donne nude e tanti<br />
draghi volanti, magari ballare anche lui, senza vestiti. Con Marzia, che a parte le<br />
prediche sul mangiare animali e sulla reincarnazione era veramente carina. Senza<br />
cuffietta, con i capelli neri al vento e non solo quelli. Non portava il reggiseno,<br />
l’aveva notato perché il grembiule bianco era di cotone leggero – il vecchio Riva<br />
aveva risparmiato con la fornitura – e in mensa era più freddo che dalle altre parti.<br />
Erano riusciti a stare insieme per il tempo del festival e poi c’erano stati gli scontri,<br />
all’interno del movimento e fra di loro. L’amore libero non si conciliava con il concetto<br />
di famiglia di Malversi. Per quanto fricchettone, era pur sempre un ragioniere.<br />
Lei lavorava in mensa per racimolare i soldi sufficienti per partire e andare in India.<br />
Così fece.<br />
Malversi trascorse il 77 e gli anni successivi lontano da P38 e rivolte. Nessuna<br />
iscrizione al sindacato, niente Autonomia Operaia né eroina. La sua ribellione era<br />
impugnare la chitarra dopo il libro mastro. Il dovere era poco e ben pagato e a lui<br />
rimanevano più tempo e soldi per il piacere.<br />
Dimenticò Marzia e si innamorò di Bob Marley.<br />
Venerdì 27 giugno 1980 non era andato in ufficio, era stato uno <strong>dei</strong> primi centomila<br />
che entrarono a San Siro. Si era portato dietro il suo batterista, il cantante, il bassista,<br />
due michette con la mortadella e una mela. La mela finì contro una delle coriste<br />
della Average White Band, le si scoprì una tetta mentre il resto del coro e il<br />
gruppo erano spariti dietro le quinte. Forse in quel momento cadde l’aereo a Ustica<br />
e per una sconosciuta coincidenza astrale lui si accese una canna. Dopo due tiri<br />
la passò a una bionda con i pantaloni a zampa e il pezzo sopra di un bikini giallo<br />
rosso e verde. La baciò per colpa di “No woman no cry” e, nonostante fosse cotto<br />
119
dal sole e dalle nubi cariche di THC, le chiese indirizzo e numero di telefono.<br />
Chiunque avesse un accendino lo teneva acceso, sull’ultimo anello comparve un<br />
falò e la luna era rossa di caligine.<br />
Uscirono per ultimi, lui e Barbara, fra lattine schiacciate e bottiglie rotte, dribblarono<br />
una 127 blu e gli amici di lei, sparirono fischiettando.<br />
La ospitò nel suo monolocale così lei tornò a Roma con due giorni di ritardo. Barbara<br />
per un anno lo andò a prendere a Termini il venerdì notte, Malversi si presentava<br />
il lunedì mattina in ufficio con barba fatta di fresco nei lavandini targati<br />
FS. Le chiese di trovarsi un lavoro a Milano. Lei non amava la nebbia e aveva un<br />
debole per gli ufficiali <strong>dei</strong> Granatieri. Così un venerdì non trovò la Renault 4 posteggiata<br />
in doppia fila in via Marsala. Probabilmente aveva avuto un contrappello<br />
al forte di Pietralata. Per quello ogni volta che sentiva “Cinzia e Piero” di Venditti<br />
alla radio cambiava stazione o spegneva. Barbara il veleno l’aveva iniettato a lui.<br />
Vendette la chitarra.<br />
Nel gennaio dell’82 venne promulgata la legge numero diciassette “Norme di attuazione<br />
dell'art.18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento<br />
dell’associazione denominata Loggia P2” e il capo ufficio contabilità<br />
generale andò in pensione. Il vecchio Riva lo chiamò in ufficio e gli offrì una promozione<br />
in cambio di un taglio radicale di capelli. Chiuse il suo primo bilancio e<br />
quando Zoff alzò la coppa del mondo, si trovò il primo ciuffo incastrato fra i denti<br />
del pettine.<br />
Con i capelli lo lasciò anche il patriarca, il fondatore dell’impero di cui lui era arrivato<br />
a tenere le chiavi della cassaforte. Poco prima lo aveva convocato in ufficio,<br />
gli aveva mostrato la copertina dell’Espresso con la foto di Ania Peroni e Craxi.<br />
«Prima regola: negare l’evidenza. Ma è per questo che ho combattuto sul Piave e<br />
vostro padre ha assalito convogli nazisti? Troie a palazzo, cocaina fra i ricchi e robaccia<br />
per i poveri? Menomale che me ne sto andando. Voi state attenti, vi affido<br />
la baracca. Tenete d’occhio mio figlio e soprattutto mio nipote. Non può venire<br />
niente di buono da uno che è stato tirato grande da mia moglie. Mi raccomando.»<br />
Aveva seppellito le parole del vecchio con la sua cassa. Ottenuta la fiducia del figlio,<br />
a cui non faceva mancare nemmeno l’illusione di manovrare uomini e capitali,<br />
era pronto a manipolare il loro destino attraverso i numeri.<br />
Alberto<br />
Era arrivato per caso a Milano, perché a Roma tutti i suoi amici non contavano<br />
nulla. Perché nessuno doveva favori a suo padre. Aveva soffocato l’idea del posto<br />
fisso nell’esercito sul nascere, al contrario di molti suoi amici. A chi aveva detto<br />
bene, si era ritrovato a organizzare i turni di guardia alle ambasciate e alle sedi diplomatiche,<br />
oppure tratteneva la pancia con il cinturone di cuoio davanti alle banche<br />
e sui furgoni blindati che ritiravano i soldi alla chiusura <strong>dei</strong> supermercati. In<br />
tanti avevano preso le missioni di pace come una scorciatoia per mutui più leggeri<br />
o per sistemare i conti delle famiglie. Enzo era partito perché ci credeva, alle sue<br />
capacità, alla battaglia per la democrazia, la libertà e tutte le belle chiacchiere con<br />
120
cui tanti si riempivano la bocca. Tranne lui.<br />
Stava in cima al mucchio, le avevano stampate al centro commerciale con uno di<br />
quegli aggeggi dove infili la chiavetta e toccando lo schermo scegli inquadratura,<br />
formato, quantità.<br />
Gli occhi di Enzo non si vedevano, le lenti erano troppo grandi e scure. Indossava<br />
gli occhiali di un’amica, quelli da diva: un po’ Monica Bellucci, un po’ Sandra Mondaini.<br />
Si divertiva a prenderlo in giro. Sembrava di sentire il rumore della sua risata,<br />
che lo metteva in imbarazzo quando stavano in pizzeria o in metropolitana, e che<br />
ora mancava da morire a tutti.<br />
Era abbronzato, l’avevano scattata al mare, i due solchi fra la bocca e le guance<br />
che formavano i vertici di un triangolo perfetto con la fossetta sul mento si notavano<br />
ancora di più. L’ultima vacanza insieme della comitiva. Aveva sorriso anche<br />
a Ciampino prima di partire. Li aveva salutati con lo sguardo dello stesso colore<br />
della divisa, fino a quando le palpebre avevano smesso di raccogliere le lacrime.<br />
Si era girato e se n’era andato.<br />
L’aveva conosciuto pochi mesi prima della maturità. Lui, già diplomato, lavorava<br />
nella carrozzeria del padre mentre aspettava l’esito del concorso. Abitavano nello<br />
stesso quartiere, uno <strong>dei</strong> tanti a ridosso del Grande Raccordo Anulare. Palazzi<br />
come caserme e caserme fra i palazzi. I pini lungo le strade, troppo piccole per<br />
contenere il flusso di auto verso il centro. I muri usati per la corrispondenza fra innamorati,<br />
per insultare gli avversari politici o sfottere la tifoseria avversaria.<br />
Aveva raggiunto gli amici sotto casa alla solita ora, uno <strong>dei</strong> tanti sabato sera. Si<br />
erano incontrati lì, fra i cassonetti tenuti aperti dalle cassette di frutta, fra l’odore<br />
di marcio misto CK One.<br />
«Lui è Enzo, sta in classe con mio cugino.»<br />
«Piacere, Alberto.»<br />
L’aveva incrociato tante volte, una di quelle persone che sono una parte del tuo<br />
mondo ma su cui non ti soffermi mai, come i manifesti che fanno sentire la loro<br />
presenza con i simboli <strong>dei</strong> partiti ma che non ti viene mai voglia di leggere. Era<br />
uno di quei ragazzini che tormentavano i più grandi per poter fare un giro con le<br />
loro moto nuove. Che saltavano con la bicicletta sulle pedane <strong>dei</strong> carri attrezzi in<br />
manovra, che finivano le superiori uno o due anni dopo la media perché passare<br />
le ore sui libri era quanto di più vicino ci fosse a un soggiorno a Rebibbia.<br />
L’aveva rivisto diverse volte anche senza gli altri, Alberto aveva deciso di leggere<br />
quel manifesto, per capire come mai fosse così vivo. Davanti a una birra gli aveva<br />
chiesto per quale motivo si fosse arruolato.<br />
«Più per passione che per necessità.»<br />
Gli aveva raccontato della prima parata a cui aveva assistito, sulle spalle del<br />
nonno.<br />
«L’unico modo per migliorare questo mondo è dare il buon esempio. Non posso<br />
farlo usando la testa.»<br />
Quella era stata l’unica volta in cui la sua risata non lo aveva messo in imbarazzo<br />
per l’invadenza, ma per un motivo molto più profondo. Avevano fatto una passeggiata<br />
lungo il fiume, sul ponte con i menti rivolti verso l’alto, Alberto aveva interrotto<br />
il silenzio.<br />
121
«Le hai viste quelle luci?»<br />
«Sì.»<br />
«Ci credi agli UFO?»<br />
«Anche tu l’hai sentita quella <strong>dei</strong> transistor?»<br />
«Cosa?»<br />
«I transistor li hanno inventati gli americani, hanno trovato un po’ di rottami nel deserto<br />
di cui non conoscevano l’origine, li hanno studiati e ora abbiamo i cellulari.»<br />
«Fico, non lo sapevo.»<br />
«Mi piace pensare che lì in alto ci sia qualcuno che non ha bisogno della violenza<br />
e di sopraffare gli altri per vivere bene.»<br />
«T’immagini, quelli ci stanno spiando e se la stanno ridendo per quanto siamo coglioni.»<br />
«Stanno aspettando, saremo noi a eliminarci da soli.»<br />
Non si erano più visti fino a quando Enzo giurò sotto le bandiere; tutti gli amici sedevano<br />
sulla tribuna fatta di tubi d’acciaio avvolti nel velluto azzurro.<br />
Aveva spento il cellulare, sistemate le foto nel cassetto della scrivania, non voleva<br />
più ricevere altre telefonate. La televisione era accesa, dimenticata in salotto: l’inviato<br />
muoveva la bocca dal terrazzo di un albergo; sullo sfondo montagne senza<br />
neve, alberi senza foglie e in sovraimpressione l’elenco <strong>dei</strong> nomi.<br />
Con la fotografia nella tasca del giubbotto era uscito di casa, si era infilato il casco<br />
e aveva incominciato a guidare, lasciandosi alle spalle il centro. Sorpassava le<br />
macchine in doppia fila di fianco ai banchi improvvisati di frutta e verdura. Fra le<br />
luci e le ombre <strong>dei</strong> cavalcavia, dove riposavano salotti abbandonati e giocattoli<br />
rotti, apriva l’acceleratore sui rettilinei; le case avevano lasciato il posto ai depositi<br />
di rottami, materiali edili e alla campagna. Un semaforo l’aveva costretto a fermarsi,<br />
ad accorgersi della stazione <strong>dei</strong> carabinieri fra case coloniche e villini. Il<br />
drappo verde nascondeva gli altri due colori a mezz’asta: una giornata senza nuvole<br />
e vento. Il semaforo era scattato e Alberto si era accorto di aver bagnato la<br />
visiera.<br />
Aveva continuato gli studi a oltranza: corsi di lingua all’estero, aggiornamento e<br />
formazione in Italia, master quanto basta. Mentre nessuno leggeva le sue risposte<br />
agli annunci di lavoro. Fra un semestre e l’altro, aveva allenato la sua predisposizione<br />
al teamworking in un centro spedizioni di Brighton; spiccate doti analitiche<br />
non gli mancavano, le aveva arricchite in anni di parole crociate e sudoku; la sintesi<br />
non era il suo forte ma se la cavava in proattività e problem solving, merito <strong>dei</strong><br />
mesi trascorsi a scarrozzare pacchi con un furgone. Al terzo stage non rinnovato<br />
aveva interrotto la sequela di sfighe con un contratto da fame in Riva e la promessa<br />
del tempo indeterminato finiti sei mesi di rodaggio e altri tre di collaudo.<br />
Aveva trovato una casa in città, dove le vie hanno i nomi delle regioni e di qualche<br />
eroe dimenticato; un sottotetto soppalcato che gli costava metà stipendio. Le giacche<br />
e le camicie appese alla trave che reggeva il letto facevano da separé fra zona<br />
giorno e cucina. La luce illuminava lavabo, fornello da campeggio e frigobar dall’oblò<br />
di una roulotte. Era fortunato ad avere un bagno dove si lavava i denti piegato<br />
a portafogli e poteva pisciare soltanto da seduto. La vecchia proprietaria di<br />
casa passava a trovarlo una volta al mese e dava sempre un occhio al di là della<br />
122
porta a soffietto del bagno, per sincerarsi che ci fosse soltanto lui in casa.<br />
La sua vicina era una ragazza di Sanremo che non aveva il bagno e si accontentava<br />
di quello comune davanti al motore dell’ascensore. La incrociava di ritorno la<br />
sera, ogni tanto le offriva una birra o di fare il bucato con la sua lavatrice. Era molto<br />
carina e aveva una passione per i completi intimi di seta, ma non gli interessava.<br />
Le donne per lui erano accessori ingombranti, in quel momento della vita non<br />
avrebbe saputo dove metterle. Giulia lavorava come commessa fra un provino e<br />
l’altro. Aveva tentato due volte di entrare in una scuola di teatro prestigiosa, poi<br />
qualcuno le aveva detto che per fare televisione non era necessaria una dizione<br />
perfetta e nemmeno conoscere a memoria la biografia di Ionesco. Gli raccontava<br />
degli sconti stratosferici che era costretta a fare a soubrette e star che andavano<br />
a comprare i vestiti da lei, e delle signore che le chiedevano cosa avessero comprato<br />
per imitarle a prezzo pieno. Le stesse che lui incrociava per le strade del<br />
centro con buste decorate da toraci scolpiti e glabri.<br />
Riva<br />
«Piano terra. Ground floor.»<br />
La voce dell’ascensore.<br />
Si è fermato davanti al muro dipinto di fresco. Sapeva avrebbero sbagliato la tonalità<br />
di azzurro, motivo in più per incazzarsi con Malversi.<br />
Nell’atrio si è sentito il bip della macchina timbratrice, il cartellino magnetico sfugge<br />
dalle mani dell’impiegato e si ferma contro una suola.<br />
«Buonasera dottor Riva.»<br />
«Non le sembra presto per uscire?»<br />
«Veramente…»<br />
«È una domanda chiusa, può rispondere sì o no.»<br />
«Sì, ma…»<br />
«Non le hanno mai insegnato che le giustificazioni le danno soltanto i perdenti?»<br />
«Mi scusi.»<br />
«Dove sta andando?»<br />
«Ho appuntamento dal medico.»<br />
«Però, di venerdì pomeriggio. E il suo medico riceve per caso a Roma?»<br />
Silenzio, Alberto sentiva la faccia bollire. Non era vergogna.<br />
«Raccolga il tesserino. Ci vediamo lunedì, nel caso in cui non sia nulla di grave.»<br />
È finito il secondo giorno di lavoro dopo le ferie di agosto: un ricordo sbiadito.<br />
Alberto è uscito, ha aggredito la scala che porta al parcheggio e si è lasciato dietro<br />
la risacca di ghiaia e asfalto.<br />
Nell’afa il sole faticava a scendere dietro le coperture di amianto, Riva abbandonò<br />
l’aria condizionata dell’atrio per quella della sua macchina. Appoggiò la giacca sul<br />
sedile posteriore e sentì la camicia bagnata raffreddarsi sotto le ascelle e sulla<br />
schiena. Passò di fianco al capannone sei, l’ufficio spedizioni; due cartelli consumati:<br />
Italia, Estero.<br />
Abbassò il finestrino per rimproverare il magazziniere che si era acceso una siga-<br />
123
etta; gli chiese il numero di matricola, lo annotò sullo scontrino di un posteggio.<br />
Aspettò che spegnesse la sigaretta e rientrasse dall’avvolgibile, poi spinse sull’acceleratore<br />
e gli pneumatici lasciarono una striscia appiccicosa e nera dietro la<br />
macchina. Si alzò la sbarra, la strada era sgombra, soltanto qualche camion carico<br />
di terra si allontanava dai cantieri vicini. I lavori in corso lo deviarono verso i palazzoni<br />
lungo la tangenziale. Le torri prendevano vita, interruttori spinti da dita di<br />
poveracci accendono le finestre.<br />
Il pensiero di fuggire gli trapassò il cervello alla velocità della moto che lo sorpassò<br />
in terza corsia. Abbandonare tutte le persone appese al filo delle sue decisioni.<br />
Schiacciò il pulsante, entrò nel cortile, lasciò la macchina in quella che un tempo<br />
era una rimessa per le carrozze, attraversò il giardino e salì in casa. Fece scivolare<br />
la giacca su una poltrona, raggiunse la cucina dopo aver congedato la governante<br />
e si accese la televisione. Immagini di vetture in fiamme, militari in pattuglia, madri<br />
in apprensione e figlie scomparse si sostituivano ai consueti primi piani del presidente<br />
del consiglio e degli esponenti dell’opposizione.<br />
Si aprì una birra e infilò un piatto di lasagne nel microonde. Finito di mangiare decise<br />
di prepararsi per la serata. Spense la televisione, la musica uscì dallo stereo<br />
e invase la casa. Bach in filodiffusione, una delle tante manie di sua madre. Si<br />
buttò sotto la doccia: un corpo minuscolo fra getti che scaldavano vetro e marmo.<br />
Asciugò i capelli, si strofinò nell’accappatoio con le cifre ricamate in argento. Le<br />
stesse del nonno e del nonno di suo nonno. Entrò nella cabina armadio, passò in<br />
rivista le camicie schierate da Ines per colore e tipo di collo. Sgradevole era l’aggettivo<br />
migliore per definire il suo aspetto. Ne era consapevole e non si vestiva<br />
bene per camuffare gli scherzi di una natura bizzarra, nemmeno per vanità. Tutto<br />
ciò che indossava era legato al concetto di decoro che gli era stato trasmesso fin<br />
da bambino. Dimesso e borghese ma allo stesso tempo raffinato. Alle porte <strong>dei</strong><br />
quarant’anni, pochi sogni dimenticati in fondo a un cassetto tutti pronti per essere<br />
esauditi da una carta di credito o una telefonata alla persona giusta. Questo lo<br />
rendeva diverso dagli altri, questo e il cassetto Luigi XVI.<br />
A parte soldi e potere, la vita era solo routine e voglia di evasione. Si rifletteva nei<br />
suoi occhi, dietro al parabrezza illuminato dai neon <strong>dei</strong> locali del centro. Colori, insegne,<br />
vetrine sempre accese, vie infettate da facce mimetizzate con i marciapiedi,<br />
imbalsamate dallo stress e dall’alcol; vino al ristorante, birra in pizzeria. Un posteggio,<br />
l’insegna si intravedeva in lontananza. Il palo, la donna in bikini e la foca<br />
aggrappata agli slip.<br />
Aveva nostalgia del bancone, delle Polaroid dell’inaugurazione sparse sulle pareti:<br />
vintage è trendy, ma ricorda il cattivo gusto delle ricevitorie di periferia.<br />
Ai tavoli ai lati delle passerelle illuminate non c’era ancora nessuno. Si avvicinò al<br />
barista.<br />
«Fammi un negroni.»<br />
Il primo è il più buono, con il secondo le papille gustative sono anestetizzate dal<br />
gin, non si sente più alcun sapore, ti accorgi di aver bevuto perché tutto è avvolto<br />
da una fitta nebbia.<br />
Il locale incominciò riempirsi, due ragazze vennero a salutarlo, senza impegno<br />
offrì da bere. Faceva fatica a muovere i piedi a tempo fra tette, sorrisi e occhi lucidi.<br />
124
Malversi gli fece cenno dalle scale, aveva il trentatré per cento delle probabilità di<br />
incontrarlo. Anche questa volta si era sbagliato a fare i conti con il ragioniere.<br />
«Buonasera Malversi, pensavo venisse qui soltanto una volta alla settimana.»<br />
«Esatto, il giovedì.»<br />
«Ma lunedì non aveva accompagnato i signori del fondo?»<br />
«E cosa c’entra, era un impegno di lavoro. Il giovedì al Foca Loca è sacro!»<br />
«Già, come darle torto.»<br />
«Stasera c’è una nuova ragazza, Olga, mi fa compagnia al tavolo?»<br />
Riva si sedette al tavolo e ordinò il terzo negroni. Sul palco una contorsionista<br />
nuda si stava suonando le chiappe come bonghi.<br />
«E poi se davvero vuol fare qualcosa di interessante per proseguire la serata, ho<br />
scoperto un posto nuovo. Mi avevano ritirato la patente da due giorni. Non sapevo<br />
che i vigili hanno le auto civetta. C’era quella macchina che bloccava la strada,<br />
ferma vicino a una mignotta. Non avevo bevuto tanto, un paio di birre. Ho aspettato<br />
un minuto prima di mettermi a suonare. Quelli non si muovevano, allora sono salito<br />
sul marciapiede con due ruote e ho accostato. Chi avrebbe immaginato che la vigilessa<br />
si sarebbe incazzata così tanto. Alla fine sembravano tre pervertiti pronti<br />
a caricare la quarta per un’orgia, e io mi sono limitato a farglielo notare. Con parole<br />
mie. Hanno lasciato stare la puttana e si sono concentrati su di me. Hanno chiamato<br />
la centrale. Sono arrivati i rinforzi e mi hanno fatto il palloncino. Ho il vantaggio<br />
di avere tutte le comodità a due passi. La metropolitana sotto casa. Il bar vicino<br />
all’ufficio. Il club per scambisti sulla strada. In macchina non ci fai caso. Non ti soffermi,<br />
fai tutto meccanicamente. Se cammini, i tempi si dilatano e riesci a curiosare.<br />
Stavo tornando dal bar, questa volta ubriaco, il ritiro della patente mi ha tolto tutti<br />
i freni. Visto che non devo guidare, tanto vale fare le cose fatte bene. Allora esco<br />
dal bar e mi faccio la solita scarpinata. Vicino al McDonald’s noto una porta di metallo<br />
nera. Nessuna insegna, soltanto un neon rosso. Vicino alla porta un campanello.<br />
New Fantasy Club. Non mi ci è voluto molto a decidermi a suonare. A casa<br />
non c’era nessuno ad aspettarmi. Mi apre un vecchietto tutto occhiali e doppiopetto.<br />
Chiede la tessera. Gli rispondo che non ce l’ho. Chiede se sono single. Gli<br />
dico di sì. Sono duecentocinquanta l’iscrizione annuale e poi venti l’ingresso. Tiro<br />
fuori i contanti. Dice che la prima consumazione è compresa. Prende il cappotto<br />
e mi lascia un numerino. Mi siedo al bancone e mi faccio fare un gin tonic. E osservo<br />
il salone con i divanetti vuoti, gli specchi alle pareti che riflettono soltanto<br />
me e il vecchietto. “È arrivato tardi” mi dice, “sono già tutti di sopra”. Indica la scala.<br />
Prendo il gin tonic e salgo. Un’anticamera con un’altra statua, una venere con un<br />
vassoio di preservativi. E una tenda nera. Scosto la tenda e mi ci vuole un po’ per<br />
abituarmi alla semioscurità. Divani e corpi, corpi e divani. Qualcuno mi tocca la<br />
spalla. Mi giro. Qualcuno mi abbassa la zip. Io abbasso lo sguardo. Non vedo<br />
bene. Mi sembra una donna. Fosse stato un uomo non avrebbe fatto differenza.<br />
Completamente nuda. La sollevo e la giro. Si piega. Ho appena incominciato a<br />
farmela, quando mi accorgo di uno che ci sta fissando. Rallento. Mi sorride. Mi<br />
fermo. Ha la mano nei pantaloni. “Continua ti prego” mi sussurra lui. “Hai sentito<br />
quel finocchio di mio marito?” mi fa lei. Riprendo a darle colpi sempre più forti fino<br />
a quando non sento più i gemiti di fondo e sento urlare soltanto lei. Le vengo sulla<br />
125
schiena. Non ho preso il preservativo. Il tizio si avvicina e mi ringrazia. Lei si alza,<br />
mi bacia e scivola dentro un rettangolo di luce alla mia sinistra che subito si spegne.<br />
Scavalco una testa in mezzo a due gambe, scanso un paio di tette che si<br />
muovono sopra una pancia bianca, quasi fosforescente, enorme anche da sdraiata,<br />
ed entro anch’io nel bagno. Tengo gli occhi chiusi per un po’ prima di avere il<br />
coraggio di riaprirli. Lentamente. Il neon mi fa male. Mi sciacquo nel lavandino.<br />
Arranco verso la carta asciugamani. Sento scorrere l’acqua. Vedo entrare un uomo<br />
della mia età con un pisello enorme. Vedo uscire un culo peloso e raggrinzito. Ritorno<br />
al buio e ai gemiti. Mi diventa di nuovo duro. Da anni non avevo un tempo di<br />
recupero così corto. Non mi impegno troppo a capire come funzionano le dinamiche.<br />
Mi avvicino a una bocca e mi ci infilo. Esco poco prima di venire. Prendo due<br />
respiri profondi prima di infilarmi in un altro buco. Mi sono bevuto il bicchiere della<br />
staffa con un notaio di Biella e ci siamo dati appuntamento per la settimana successiva.<br />
Ha una moglie cubana. Sono arrivato a casa, ho fatto una doccia, colazione<br />
e mi sono buttato a letto.»<br />
«Questa sera preferirei qualcosa di tranquillo.»<br />
Riva si alzò con la scorza d’arancia fra i denti. Al posto della contorsionista c’era<br />
una bionda che faceva la verticale fra le gambe di un tatuaggio a forma di donna.<br />
Uscì ad accendersi una sigaretta, cacciò l’ambulante con le rose e coprì il suo<br />
odore con uno sbuffo di tabacco. Nemmeno rientrò a salutare Malversi, si ritrovò<br />
al volante, direzione Navigli, cercando un diversivo allo svago.<br />
Dribblò i tavolini ammassati sul pavé e si infilò in un locale. Il barista lo squadrava<br />
dalla testa ai piedi, in mano aveva quattro bottiglie che stava spremendo in una<br />
fila di bicchieri, ragazzini vestiti come comparse di un film di Spike Lee si contorcevano<br />
nelle frasi triturate in inglese. Non si imbarazzò a ordinare un altro drink;<br />
poi barcollando scese dallo sgabello e si fece strada attraverso la selva di visiere<br />
e cappellini.<br />
Uscì fra le bancarelle mentre l’aria umida saliva dai canali, nella transumanza di<br />
coppie e comitive incrociò sguardi di persone dimenticate.<br />
«Riva, carissimo!»<br />
«Ciao.»<br />
«Non mi riconosci? Seguivamo finanza aziendale insieme.»<br />
«Ah.»<br />
«Ti trovo in gran forma.»<br />
«Anch’io.»<br />
«Incontriamoci una sera di queste, per un aperitivo, sono sempre laggiù, al Pellicano.»<br />
«Magari, sarebbe fantastico.»<br />
«Top, a presto.»<br />
Una goccia gli sfiorò la punta del naso, le parole di circostanza si sciolsero nella<br />
pioggia. Fissò distratto le scarpe del compagno di università diventare sempre più<br />
piccole, mentre cercava di allontanarsi una sportellata lo fermò. Un agglomerato<br />
di muscoli abbronzati scese dal SUV, lo ignorò completamente nella fretta di rifugiarsi<br />
nel primo ristorante. Il gomito gli si stava gonfiando, la camicia gli si appiccicò<br />
sul livido e il formicolio prolungato lo riportò indietro con gli anni, a giochi d’infanzia,<br />
126
a spigoli di scrivanie ricoperte da matite colorate e fogli pasticciati. Improvvisamente<br />
un’ondata elettronica lo travolse. Arrivava da una vetrina completamente<br />
azzurra che si apriva al suo passaggio. Era tutto confuso nel blu intermittente; si<br />
accorse di essere appoggiato a una ragazza. Era mora, splendida e più ubriaca<br />
di lui. I loro corpi si sfioravano, si toccavano si univano. Svuotarono bicchieri, cercarono<br />
di dirsi qualcosa.<br />
«È la prima volta che vengo.»<br />
«Hai un viso davvero interessante.»<br />
«I Navigli sono un postaccio per turisti, studenti fuori sede e provinciali.»<br />
«Non sei il solito ragazzino che ci prova.»<br />
«Metà di questi posti è in mano a ex galeotti e prestanome.»<br />
«Hai delle mani molto mature.»<br />
«Che dici? È come se avessi messo la testa in un compressore.»<br />
«Sei davvero signorile…»<br />
«Oppure una radio a tutto volume fra le orecchie.»<br />
«…e interessante.»<br />
Si accesero le luci, piombò il silenzio.<br />
La morettina aveva appoggiato la testa sulla sua spalla. Lavanda e anice.<br />
«Cazzo, devo smettere di bere.»<br />
«Scusa?»<br />
«Aspetta, vado in bagno.»<br />
Tagliò una pallina bianca sul coperchio del cesso e tirò su la polvere bianca aiutandosi<br />
con cinquanta euro arrotolati.<br />
«Dicevamo?»<br />
«Mi accompagneresti a casa? Le mie amiche mi hanno piantata qui senza nemmeno<br />
i soldi per un taxi. Sono devastata e domani devo fare qualcosa e non mi ricordo<br />
cosa e tu sei così interessante e io sono così ubriaca dai ti prego no non ci<br />
sto provando.»<br />
«Va bene, la macchina non è distante.»<br />
Uscirono, la pioggia se n’era andata e aveva lasciato un’umidità più fresca dell’aria<br />
stagnante del Naviglio.<br />
I riccioli scuri gli accarezzano la guancia mentre la testa si appoggiava nuovamente<br />
sulla sua spalla. La ragazza gli afferrò il braccio con entrambe le mani.<br />
«Cosa c’è, non ti piaccio?»<br />
«No, è che di solito pago.»<br />
«Scusa?»<br />
«Cioè, prendo io l’iniziativa.»<br />
«Hai ragione, quando bevo divento un po’ sfacciata, ma dove hai parcheggiato?»<br />
«Siamo arrivati. Là, sotto quel lampione.»<br />
Lei si legò in fretta la cintura di sicurezza.<br />
«Ti dispiace se mi accendo una sigaretta?»<br />
«No, basta che tiri giù il finestrino.»<br />
Entrò nell’abitacolo aria fresca, accompagnata dall’odore di asfalto bagnato.<br />
«Dove ti porto?»<br />
«Ho voglia di dormire con te.»<br />
127
128
L’altro volto è la storia di un ragazzo che non riconosce il proprio volto.<br />
Sconvolto da nevrosi compulsiva in seguito a un incidente drammatico,<br />
Davide deve andare all'inseguimento di un equilibrio che passerà attraverso<br />
l'arte manuale, alla ricerca del volto perfetto. Il supporto di un artista<br />
amato e di un filosofo comunista saranno la chiave per scavare a fondo<br />
nella propria psiche e ritornare ad abbracciare la tranquillità perduta. Il<br />
confronto con la sorella, conformista consumata, gli darà modo di sviluppare<br />
un proprio io, in netta opposizione con la realtà superficiale <strong>dei</strong> tempi<br />
moderni.<br />
Una drammaticità ottimamente orchestrata e una prosa intimamente complessa<br />
danno vita allo splendido intreccio <strong>dei</strong> personaggi, fondamentale<br />
per comprendere questo viaggio psicologico nel superamento di un<br />
trauma primordiale.<br />
Tiziano Buffoli ci regala una piccola perla, lasciando affondare tutti noi<br />
nei più profondi meandri della mente insieme al protagonista.<br />
Tiziano Buffoli é nato a Varese nel 1968, vive e lavora in provincia di<br />
Milano. Ha scritto diversi racconti, sceneggiato alcuni cortometraggi, di<br />
Dal tramonto all’alba ha curato la regia. Questo è il suo primo romanzo.<br />
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L’altro volto, Tiziano Buffoli.<br />
Una cicatrice, segno violento, profanatore di un viso che rivela grazia.<br />
Seduto davanti al computer nella sua camera, suoni ad alto volume in cuffia e<br />
nello schermo, immagini sincronizzate in bianco e nero di reti che avvolgono e si<br />
incrociano. Accanto a lui, appese alla parete, c’è un poster con Marilyn di Warhol<br />
e un altro vicino, con uno <strong>dei</strong> volti di Orlan. La strumentazione collegata al computer<br />
è invadente. Davide si muove a ritmo, è concentrato sulle immagini video<br />
che lui stesso crea compiendo <strong>dei</strong> movimenti di regolazione level. Aumenta il ritmo<br />
<strong>dei</strong> suoi movimenti, accenna un sorriso di soddisfazione.<br />
Si spalanca la porta alle sue spalle, Giulia entra, lo guarda un istante, si avvicina<br />
senza essere sentita e vista, gli toglie di scatto le cuffie e gli grida nell’orecchio.<br />
A mangiare!<br />
Dai, stavo…<br />
Fammi sentire!<br />
Giulia si mette le cuffie e fa una smorfia inorridita.<br />
Sempre peggio, ma che roba è?<br />
Si toglie le cuffie.<br />
Vieni a mangiare!<br />
Giulia se ne va.<br />
Lui riprende da dov’era rimasto e continua la sua opera.<br />
Niente da fare, nell’interruzione ha perso la concentrazione, non gli viene nulla di<br />
buono. Spazientito si toglie la cuffia, sconsolato.<br />
Che rompipalle!<br />
Si alza dalla sedia ed esce dalla stanza, si dirige in soggiorno ma sente delle voci<br />
che non riconosce. Si ferma, ascolta per un istante e ritorna in camera. Chiude la<br />
porta e si rimette al computer. Nello schermo si apre la finestra messenger.<br />
Anna: Ci sei? Ci vediamo stasera?<br />
Davide: Devo uscire con quei miei amici per organizzare la festa.<br />
Anna: Me n’ero dimenticata. Allora a domani.<br />
Si spalanca ancora la porta, di nuovo Giulia.<br />
Ti muovi!<br />
Chi sono quelli?<br />
Come chi sono, lo sapevi che doveva venire quella coppia amica loro.<br />
No, non ho voglia, portami da mangiare qui.<br />
Sei scemo, lo sai che si incazzano.<br />
Mangio qui.<br />
Va bene, cazzi tuoi.<br />
Giulia va a tavola, il soggiorno è arredato con buon gusto e ricercato design degli<br />
elementi. Ci sono seduti il padre Sergio, un uomo sui cinquant’anni palestrato, capelli<br />
lunghi, pizzo e baffi in stile biker, con muscoli e tatuaggi in bella vista; sua<br />
madre Serena, una donna minuta di bell’aspetto e la coppia loro amica. Interrompe<br />
la discussione fra i genitori e gli ospiti, dice che Davide non vuole venire a tavola.<br />
Il padre si scusa e si giustifica dicendo che è fatto a modo suo. Giulia prende un<br />
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piatto, ci mette un po’ di lasagne e dell’arrosto, poi prende un bicchiere, una birra<br />
e porta tutto a Davide.<br />
Ti è andata bene, sono di buon umore, però io non sopporto di farti da cameriera,<br />
presto ti dirò come dovrai ripagare questo servizio.<br />
Non se ne parla, mi hai interrotto sul più bello.<br />
Allora mangi per terra.<br />
Giulia divertita posa il tutto a terra, abbaia come a imitare il cane-fratello e se ne<br />
va.<br />
Davide, con un grido che tenta di essere aggressivo, ma finisce in un ghigno.<br />
Carogna!<br />
Giulia torna in cucina, siede a tavola e ride.<br />
Suo padre le chiede cos’ha combinato.<br />
Niente.<br />
Allora perché abbiamo sentito quella parola?<br />
Sua madre Serena spiega agli amici che Giulia pizzica spesso il fratello, che fortunatamente<br />
è un buon ragazzo e perdona la sua vivacità.<br />
Giulia, fra quelli che ritiene <strong>dei</strong> noiosissimi discorsi tenuti dai genitori e dalla coppia<br />
amica, consuma velocemente la cena.<br />
Scusate, vado in camera mia, buona serata.<br />
Si avvia nel corridoio che porta alla zona notte, passa dalla camera di Davide e in<br />
direzione della porta abbaia ancora.<br />
Chiede l’amica ospite a cena.<br />
Ma avete un cane?<br />
Risponde il padre.<br />
No, sempre Giulia.<br />
La coppia ride divertita.<br />
La cena continua con tema imperante la crisi economica che non dà scampo ai<br />
vari settori in cui lavorano.<br />
Suona il campanello di casa, Serena chiede scusa agli ospiti e raggiunge il citofono.<br />
Avvisa Davide che c’è il suo amico Alessandro, ma lui non si schioda dalla<br />
sua camera. Lei si scusa di nuovo con gli ospiti e apre la porta d’ingresso ad Alessandro.<br />
Lui è vestito con jeans, felpa con cappuccio e cappellino con visiera tenuta<br />
di lato, entra e timidamente saluta tutti i presenti. Serena gli chiede come sta e<br />
aggiunge che è da tanto tempo che non si fa vedere. Lui si scusa gentilmente di<br />
aver interrotto la cena e fa i dovuti convenevoli prima di essere accompagnato<br />
nella stanza di Davide.<br />
Ma cosa fai, la cena sul pavimento?<br />
Chiede la madre prima di lasciarli.<br />
Chiedilo a quella tarata di tua figlia.<br />
Non usare quelle parole, per favore. Ma non hai mangiato nulla, si è sicuramente<br />
raffreddato, vado a scaldartelo.<br />
Ma perché mangi per terra?<br />
Alessandro insiste.<br />
Mica ho mangiato! Comunque di solito mangio sul tavolo.<br />
Almeno in questo sei normale. Come butta?<br />
131
Bene, e tu?<br />
Bella! Ma chi è questa?<br />
Chiede Alessandro indicando il volto di Orlan.<br />
È un’artista.<br />
Cosa fa?<br />
Ha scelto il proprio corpo come materiale da plasmare e modellare alla ricerca dell'ideale<br />
di bellezza.<br />
Roba leggera, ma non so, tipo Michelangelo o roba simile per te troppo normale,<br />
eh? E ’sta musica? Tipo, un po’ di Fibra non ce l’hai!?<br />
Dovrei sporcare il mio archivio con la roba che ascolti tu? No, non se ne parla.<br />
Oh, modestone.<br />
Dai oh, dobbiamo andare che ci aspettano Ce e Ri, ma fammi sentire quella cosa<br />
che vuole farti mettere alla festa Ri.<br />
Guarda che è questa che stai sentendo.<br />
Ma si balla? No perché le tipe vogliono ballare.<br />
Chi vuole balla, e chi vuole guarda e ascolta.<br />
Ma ad ascoltarla bene non è male, è tutta roba tua?<br />
Tutta mia.<br />
Figa!<br />
È buio, i due amici camminano lungo un marciapiede poco illuminato, intorno a<br />
loro palazzi popolari tutti uguali. Dall’ombra sbucano cinque ragazzini dal fare minaccioso,<br />
si incrociano. Raggiungono l’ingresso del condominio in cui abita Cesare.<br />
Alessandro suona il campanello, risponde una voce maschile adulta, dice<br />
che Cesare arriva. Davide nell’attesa appoggia una mano al muro. Alessandro con<br />
tono allarmato gli dice che c’è uno scarafaggio vicino alla sua mano, lui sobbalza.<br />
Alessandro scoppia a ridere.<br />
Ti sei cagato! Non ti è passata la strizza degli insetti!<br />
Fanculo!<br />
Controbatte Davide.<br />
Cesare li raggiunge, lui e Alessandro si salutano con gesti delle mani e battute<br />
che a Davide non viene di replicare, e si limita a un Ciao, come stai?<br />
Bella. Quanto tempo, zio!<br />
Andiamo dai, che Ri ci aspetta. Dice Alessandro.<br />
Si incamminano lungo un marciapiede identico a quello percorso per arrivare a<br />
casa di Cesare. I palazzi si fanno più imponenti e degradati dall’inquinamento e<br />
dall’incuria.<br />
Riccardo, un ragazzo alto e robusto con aspetto rude, è in un piccolo appartamento<br />
seduto su un divano. Il padre con voce alta gli sta dicendo che quei soldi<br />
per la sua festa non ci sono.<br />
Se vuoi i soldi devi lavorare, se continui a non fare un cazzo non vedrai più un<br />
centesimo.<br />
Non li cago mica i soldi io, è ora che trovi qualcosa da fare.<br />
Bravo, e perché non me lo trovi tu un lavoro?<br />
132
Muovi il culo come fanno molti della tua età, sei l’unico che ha abbandonato la<br />
scuola da due anni e non ha mai fatto un cazzo!<br />
E tu che cazzo fai per farci stare meglio!?<br />
Il padre si avvicina minaccioso.<br />
Testa di cazzo, io mi faccio il culo tutti i giorni.<br />
La madre cerca di calmare il marito ma viene spinta e fatta quasi cadere. Riccardo<br />
si infuria dicendo che non deve permettersi di toccare sua madre. Il suono del<br />
campanello di casa interrompe il litigio fra spinte e insulti. Riccardo afferra il ricevitore<br />
del citofono.<br />
Chi è?<br />
I tre amici arrivano a un ingresso condominiale. Il contenitore della pubblicità cartacea<br />
straborda, le cassette della posta sono in gran parte divelte, sui campanelli<br />
si fa fatica a leggere i nomi, alcuni sono scritti a penna, altri con etichette a carattere<br />
Courier New, tutti in qualche modo uno diverso dall’altro. Suonano al citofono.<br />
Ri, siamo noi.<br />
Chi è?<br />
Un sottofondo di urla, Riccardo si incazza ancora.<br />
Silenzio, non sento un cazzo! Chi è!?<br />
Noi!<br />
Arrivo.<br />
Alessandro, mentre Davide osserva la facciata del palazzo con una mano appoggiata<br />
al muro, bisbiglia a Cesare.<br />
Digli che c’è un ragno vicino alla sua mano.<br />
Cesare.<br />
Minchia che ragno! Guarda vicino alla tua mano!<br />
Davide lancia un urlo e sobbalza nuovamente in modo ridicolo. Gli altri due crepano<br />
dal ridere.<br />
Alessandro.<br />
Ma sei un vero cagone.<br />
Cesare ridendo come un pirla.<br />
Fratello, ho visto il panico nei tuoi occhi.<br />
Andate a cagare!<br />
Riccardo li raggiunge, Alessandro gli presenta Davide ma lui è teso, tirato in volto,<br />
ripete insulti rivolti a suo padre.<br />
Raggiungono una piazzetta. Riccardo e Cesare si siedono su un muretto. Alessandro<br />
e Davide si mettono di fronte. Riccardo chiede a Davide se ha preparato<br />
musica e video per la sua festa.<br />
Ale mi ha detto che fai delle cose, che roba è?<br />
Alessandro dice di fidarsi che è roba figa mai vista. Riccardo dice che vuole una festa mega,<br />
non la solita roba.<br />
Davide è solo in un luogo appartato della discoteca, Alessandro è con Cesare e<br />
due ragazze visibilmente stordite, una cicciona e l’altra molto magra. Si accorge<br />
133
che Davide è rimasto solo e con il resto del gruppo lo raggiunge. Intorno ci sono<br />
ragazzi che ballano con musica che pompa. Gli presenta le ragazze e spiega rivolgendosi<br />
a loro che Davide era un suo compagno alle medie, si sono divertiti<br />
molto insieme. Ora lui è un bravo VJ, crea musiche e video, di lì a poco si esibirà<br />
con una performance. Davide timidamente annuisce. Cesare aggiunge che tutti<br />
sono cresciuti nel quartiere. Le ragazze ridono inutilmente. Quella magra gli<br />
chiede.<br />
Cosa ti è successo in faccia?<br />
Davide non risponde.<br />
Poi tutti raggiungono Riccardo che è seduto su un divano, visibilmente fuso.<br />
Auguri Ri, minchia come sei lesso!<br />
Dai, beviamo.<br />
Auguri! Tutti in coro.<br />
Fanno un gran casino tutti insieme.<br />
Riccardo grida a tutti.<br />
Divertiamoci, cazzo è il mio compleanno e domani tutti allo stadio, e ci vieni anche<br />
tu.<br />
Intima a Davide.<br />
Vedrai che figata.<br />
Davide prova a dire di no ma gli altri lo sovrastano e confermano per lui.<br />
Si esibisce con la sua performance video musicale, il pubblico è stupito, qualcuno<br />
apprezza, molti sono indifferenti.<br />
Davide entra in casa, porta un piumino, un cappello tenuto basso sugli occhi e i<br />
guanti, dall’ingresso accede direttamente all’open space, dove la madre in cucina<br />
sta terminando di preparare il pranzo, il padre e Giulia sono seduti in salotto. Saluta<br />
la famiglia riunita e si toglie piumino e berretto, scoprendo il nuovo taglio di capelli.<br />
Giulia lo stuzzica immediatamente, gli dice che è brutto. Sergio dice che così ha<br />
perso quel poco di maschile che gli era rimasto.<br />
Davide, incurante, si siede accanto alla sorella che con gli auricolari ascolta musica<br />
di una boy band. Gliene toglie uno e se lo mette, ascolta un istante.<br />
Ma com’è possibile! Non cresci!<br />
Saranno belli quei rumori che ti crei tu?<br />
Il padre dice che la musica negli ultimi anni è espressione di come va il mondo.<br />
La madre difende Giulia, padre e figlio attaccano la madre accusandola di aver<br />
usato il pretesto di accompagnare Giulia per vedere l’ultimo concerto <strong>dei</strong> Tokio<br />
Hotel.<br />
Siedono a tavola, pranzano e il padre fa le dovute raccomandazioni.<br />
Ci hanno confermato la partenza per domani, come previsto staremo via circa<br />
dieci giorni. Ci dispiace lasciarvi soli ma dobbiamo andare tutti e due. Cercate di<br />
essere responsabili, soprattutto tu, ricordati che l’auto può essere un’arma, fai attenzione.<br />
Come va con la guida?<br />
Bene, tutto ok. Domani vado allo stadio.<br />
Tu allo stadio?<br />
134
Davide entra nella sua camera, si avvicina al computer. C’è la finestra messenger<br />
aperta.<br />
Anna: Vengo alle tre.<br />
Risponde.<br />
Davide: Oggi dormo, ieri sera ho fatto tardissimo. Domani vado allo stadio.<br />
Mette della musica classica e inizia a cambiarsi. Giulia entra in camera, lui è in<br />
mutande, si vergogna e le dice di uscire, ma lei inizia a prenderlo in giro, gli tira il<br />
cuscino dicendogli che ascolta musica da vecchi e che lo dirà ai suoi amici e a<br />
Anna che razza di musica ascolta a casa. Continua dicendo che i libri che legge<br />
e le cose che fa sono vecchie. Davide la butta sul letto e iniziano una lotta a cuscinate.<br />
Giulia gli preme un cuscino sul viso. Lui reagisce in modo eccessivo, la<br />
fa cadere. Preoccupato si assicura che non si sia fatta nulla, si scusa.<br />
Lei.<br />
Dimenticavo, pure claustrofobico.<br />
Risponde con uno schiaffone e ride, riprendono la lotta.<br />
Un cuscino finisce sulla parete dove c’è una maschera in ceramica di Arlecchino<br />
nella versione demone. Cade e si rompe in pochi pezzi taglienti, loro incuranti continuano<br />
a giocare.<br />
Sullo schermo del pc appare la risposta di Anna: Stadio?<br />
Davide indossa una maglietta bianca ed è con i suoi tre amici: Cesare, Alessandro<br />
e Riccardo seguono la partita sugli spalti. La squadra del cuore è sotto di un gol.<br />
Riccardo grida come un forsennato e incita il pubblico al sostegno. Alessandro e<br />
Cesare litigano fra loro, c’è un giocatore che è responsabile della situazione secondo<br />
Alessandro, Cesare impreca contro l’allenatore. Davide non capisce cosa<br />
stia succedendo ed è spaventato dal boato della folla incazzata intorno a lui.<br />
Verso la fine viene fischiato un rigore contro. La partita è persa. Al fischio di fine<br />
partita si scatenano tutti e tre con urla e insulti all’arbitro e alla squadra avversaria.<br />
Davide è impressionato ma anche un po’ affascinato dalla potenza scatenata da<br />
un pubblico incazzato.<br />
Davide guida la sua nuova auto, stanno per tornare a casa, continuano a imprecare<br />
contro l’arbitro.<br />
Cesare vuole bere.<br />
Fermiamoci al centro, dai che ho sete.<br />
Tutti d’accordo.<br />
Entrano nel parcheggio sotterraneo e trovano posto per l’auto. Vicino c’è una<br />
Punto identica alla loro ma non la notano. Scendono. Alessandro prima di allontanarsi<br />
nota la targa dell’auto di Davide: VO101OV<br />
Ma che targa hai? Pure la targa strana.<br />
Entrano in un supermarket, si recano al frigo delle bevande, Cesare e Alessandro<br />
prendono delle birre e si dirigono alla cassa, Riccardo con una mossa furba passa<br />
davanti a due ragazzi, gli riesce ma uno <strong>dei</strong> due gli dice, con accento dell’est, che<br />
ci sono prima loro. Riccardo non gli dà retta e sia Cesare che Alessandro si infilano<br />
superando i ragazzi che ragionevolmente lasciano perdere e fanno passare anche<br />
Davide, il quale si scusa. Nel dirigersi al posteggio per riprendere l’auto si tracan-<br />
135
nano le birre.<br />
Riccardo nota una ragazza che guarda una vetrina di abiti da sposa, fa segno agli<br />
altri che restano indietro, le si avvicina spavaldo e inizia a parlarle, lei fa un gesto<br />
di disapprovazione e se ne va stizzita. Lui, già incazzato per la partita andata male,<br />
non sopporta l’insuccesso davanti agli amici. Alza la voce, le dà della figa di legno.<br />
Alessandro e Cesare sorridono.<br />
Riccardo grida attirando l’attenzione della gente che passa dall’ampio corridoio.<br />
Chi cazzo vuoi che ti sposi!<br />
Tutti provano imbarazzo. Torna dagli amici e continua a insultare la ragazza. Raggiungono<br />
le scale che portano al parcheggio sotterraneo.<br />
Arrivano all’auto, davanti a tutti c’è Riccardo, vede i ragazzi romeni che hanno appena<br />
incontrato alla cassa del supermarket, sono vicino alla Punto rossa, stanno<br />
fumando e uno <strong>dei</strong> due è leggermente chinato, sta per aprire l’auto. Riccardo ferma<br />
tutti, Alessandro bisbiglia:<br />
Figli di puttana, ci stanno fregando la macchina.<br />
Riccardo si scaglia contro i due, immediatamente Alessandro e Cesare lo seguono,<br />
Davide si blocca, resta impietrito.<br />
Inizia un terribile pestaggio, Riccardo è una furia.<br />
I due ragazzi dell’est cadono a terra, prendono calci e perdono sangue in modo e<br />
in quantità esagerata. I colpi ricevuti creano schizzi di sangue che colorano i vestiti<br />
e i volti di tutti e tre gli aggressori in modo costruito.<br />
Davide sbalordito si avvicina e tenta un misero gesto per fermarli. Anche lui viene<br />
raggiunto da uno schizzo di sangue che gli colora il volto e la maglietta bianca.<br />
Con vista dall’alto le figure degli aggrediti e il pavimento creano una composizione<br />
di corpi e di colore rosso bella ed equilibrata, evidentemente preparata e quindi<br />
innaturale.<br />
Alessandro alza lo sguardo e si accorge che vicino c’è un’altra Punto rossa identica.<br />
Riconosce dalla targa che è la loro auto. Grida.<br />
Cazzo, oh, fermi, guardate.<br />
Indica agli altri.<br />
Cesare.<br />
Oh cazzo, non è la tua, Davide… Quella… Non ce la stavano rubando.<br />
Corrono verso la Punto di Davide, ma lui è scioccato, resta immobile a guardare i<br />
corpi <strong>dei</strong> due malcapitati, Riccardo torna indietro, lo afferra e lo spinge verso la<br />
loro auto, riescono a partire.<br />
Le telecamere della videosorveglianza hanno ripreso tutto.<br />
136
137
Matteo è uno psicologo milanese abituato a relazionarsi al mondo solo<br />
tra le pareti sicure del suo studio.<br />
All'inizio di gennaio si trova costretto a prendere un aereo per L’Avana a<br />
causa del silenzio prolungato di suo fratello Diego. Sull'isola cubana scopre<br />
che il fratello è morto in circostanze misteriose.<br />
Matteo si sente rimosso dalla sua dimensione intimista ed è completamente<br />
incapace di gestire il suo dolore. Eppure sarà la sua abitudine a<br />
osservare, ad analizzare il suo io, che risolverà l'enigma intorno alla morte<br />
del fratello.<br />
Ripercorrendo poi a ritroso la vita di Diego, il protagonista si ritrova tra le<br />
mani la trama sfilacciata di altre vicende del proprio passato, di segreti di<br />
famiglia che chiedono di essere esplorati. I fili riannodati lo portano a tornare<br />
prima a Milano per poi continuare per le strade del Sud America, da<br />
Cusco, dove vive ancora lo spettro dell'antica cultura Inca, fino a Buenos<br />
Aires, capitale di fumose milonghe.<br />
Camminando tra le frontiere dell'animo umano Michele Crescenzo esplora<br />
il delicato confronto tra l'io e gli altri, tra l'istinto di conservazione e la necessità<br />
del cambiamento, chiedendoci se in fondo il viaggio non è semplicemente<br />
un percorso di avvicinamento a se stessi.<br />
Michele Crescenzo è nato nel 1977 a Napoli nel quartiere di Fabio Cannavaro.<br />
Vive e lavora a Milano come impiegato in una multinazionale<br />
americana. Inspiegabilmente non farebbe mai a cambio con il concittadino.<br />
Lavora per vivere e scrive per vivere meglio. Spesso in ufficio legge<br />
le sue bozze di nascosto chiuso in bagno. Alcuni colleghi sono convinti<br />
che abbia una rara disfunzione ai reni.<br />
È laureato in sociologia, che gli ha donato occhiali nuovi per guarire la<br />
sua miopia culturale.<br />
Ama viaggiare, ha girovagato per tutta l'Europa e l'America Latina.<br />
Nel 2009 con immensa sorpresa ha vinto il Premio Chatwin. Quest'anno<br />
un suo racconto è stato inserito nella raccolta antologica In viaggio della<br />
collana Les Cahiers du Troskij Café della casa editrice Montegrappa.<br />
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Camminando sull’isola coccodrillo,<br />
Michele Crescenzo.<br />
É appena finito il film, non mi è piaciuto. Anzi, ora che ci penso non mi piacciono<br />
quasi mai i film che trasmettono in aereo, scelgono sempre quelli con trame banali<br />
e personaggi prevedibili. Le persone non sono così, nella vita reale si mente senza<br />
rendersene conto, si sbaglia, si è convinti di fare una cosa e si fa tutt'altro, e questo,<br />
devo ammetterlo, è molto più divertente.<br />
Mi affaccio al finestrino, siamo ancora sull’Atlantico. Paulo dorme. Accanto a me<br />
un nostalgico sessantottino ha la testa inghiottita nella biografia di Fidel Castro,<br />
ogni tanto ne legge <strong>dei</strong> passi alla moglie che gli sta accanto. Nel 1947 il leader<br />
massimo fu uno <strong>dei</strong> pochi sopravvissuti di una barca di rivoluzionari naufragata<br />
vicino a Santo Domingo.<br />
«Un segno del destino!» esclama lui.<br />
Sarà, a me sembra solo fortuna, solo uno di quei piccoli particolari della vita che,<br />
senza renderti conto, te la cambiano, te la spostano. Li cerco sempre nei miei pazienti.<br />
Iniziamo la fase d'atterraggio, mi affaccio e dall’aereo L’Avana mi appare sfocata,<br />
luci lontane velate. L'illuminazione della città è talmente sottile che non la si distingue<br />
dal mare. Accanto a me Paulo si sveglia.<br />
All’aeroporto un’umidità soffocante mi entra in gola, rumore di gente e di accenti<br />
diversi. Mentre aspettiamo il bagaglio, Paulo, cercando di non farsi notare, guarda<br />
una donna in divisa che gli ricambia lo sguardo con un sorriso malizioso. Non c'è<br />
dubbio, già si conoscono. Senza rendermene conto la fisso; lei mi guarda indispettita<br />
e va via. In realtà non guardavo lei ma la sua divisa: ma è normale avere<br />
gonne così corte?<br />
Appena usciti veniamo presi d’assalto da tassisti. Ne trovo uno che parla italiano.<br />
Chiede, come se fosse la cosa più semplice del mondo, se vogliamo andare a<br />
donne. Paulo mi guarda, sorride cercando un atteggiamento complice, ma stronco<br />
il suo entusiasmo indicando subito il nome dell'hotel che avevo prenotato dall'Italia.<br />
Non so perché l’ho fatto, certo non per lei.<br />
Arriviamo all’albergo, le nostre valigie sono leggere; gesto dovuto al caldo o forse<br />
speranza di ritrovarlo presto?<br />
Sarà per il fuso orario, sarà per l'aria strana di questo albergo, ma non riesco proprio<br />
a dormire. Accendo il telefonino, c’è un sms di Giulia, non lo leggo, guardo<br />
fuori: uomini e donne si muovono in modo sgraziato tra le mille ombre di questa<br />
città.<br />
Butto giù un sonnifero, dormo.<br />
Mi risveglio infreddolito dall’aria condizionata. Paulo mi ha lasciato un messaggio:<br />
vado a fare due chiacchiere. ci vediamo stasera, tu butta un occhio in giro.<br />
Rimango colpito dal modo insolito di scrivere le vocali, come se fossero più larghe<br />
rispetto alle consonanti.<br />
Esco dall’albergo e sono sommerso da sole e afa cubana. Ma se a gennaio fa<br />
139
questo caldo, cosa ci sarà ad agosto? Giro senza una meta, vengo avvicinato più<br />
di una volta da ragazzi cubani: provano a indovinare la mia nazionalità, mi chiedono<br />
se voglio <strong>dei</strong> sigari o rum. In un angolo di strada c'è l'uomo fotografato nella<br />
copertina della Lonely Planet che, con la guida a fianco, chiede l’elemosina.<br />
Dietro ogni angolo cerco Diego, mio fratello. Mi aspetto che sbuchi all’improvviso,<br />
mi guardi sbalordito e si metta a ridere, mentre giustifica il suo lungo silenzio con<br />
una delle possibili scuse che ho ipotizzato a Milano.<br />
L’Avana mi appare decadente ma anche energica, è una fila di palazzi sbriciolati<br />
ma ancora colorati, è musica che esce dalle case, bambini in strada e auto americane<br />
anni Cinquanta che sfrecciano colmi di passeggeri.<br />
Non sono abituato a camminare così tanto, così cerco riposo entrando in un bar.<br />
Davanti a una tazza di caffè riguardo l’Avana che cammina davanti; i movimenti<br />
spiati la notte scorsa mi appaiono più chiari ora, carnagioni di ogni colore si muovono<br />
davanti ai miei occhi, nessuno ha davvero qualcosa da fare, nessuno riesce<br />
davvero a star fermo. La mia attenzione è rapita da quattro anziani che giocano<br />
animatamente a domino. Uno di loro si rende conto che lo fisso e mi invita ad avvicinarmi.<br />
Capisco che mi sta chiedendo se voglio giocare con loro, io con uno<br />
spagnolo improvvisato gli dico che non conosco le regole, lui inizia a elencarmele<br />
ma non le capisco. L’unica cosa che afferro è che si gioca in senso antiorario.<br />
Glielo ripeto, lo saluto e lui nella sua lingua dice: «Sai perché si gioca in senso<br />
antiorario? Per ricordarci che le cose vanno sempre da un'altra parte rispetto a<br />
quello che ci aspettiamo.»<br />
Con questa frase mi lascia andare. Non è una grande perla di saggezza ma inizio<br />
a pensare a Diego con un approccio diverso: se fosse scappato? No, improbabile.<br />
Se non mi avesse chiamato per Natale perché stava male? No, qualcuno della<br />
società dove lavora avrebbe recuperato i documenti e contattato l’ambasciata italiana.<br />
Se l’avessero rapito avrebbero potuto chiamare solo me per il riscatto. Ormai<br />
siamo rimasti solo io e lui in famiglia. Perso tra questi magri pensieri mi ritrovo<br />
nella stanza d’albergo.<br />
Torna Paulo, mi dice che ha poche novità. Andiamo a mangiare in un ristorante<br />
per turisti, accanto a me c’è un tavolo formato da ragazze mulatte bellissime e da<br />
tedeschi di mezza età che ridono in modo goffo, uno di loro ha la fede al dito. Mi<br />
fanno pena, lo dico a Paulo che mi risponde: «Matteo, non lo capisci perché tu<br />
non sei mai stato con una ventenne cubana.»<br />
Lui ordina aragosta. Non posso mangiare l’aragosta, l’immagine di un animale vivo<br />
che muore lanciato in acqua bollente mi fa impressione. Fa una battuta ma io non<br />
rido, la mia mente è sommersa di immagini di aragoste buttate in pentola un attimo<br />
prima di chiudere il coperchio.<br />
Dopo un po’ mi comunica che non c’è stata nessuna sparizione di turisti ma solo<br />
un omicidio di una straniera nell’ultimo mese. Non si conosce la nazionalità, l'unica<br />
cosa che si sa è che ha un tatuaggio sul braccio sinistro.<br />
«Sul braccio sinistro... ti ricordi cosa c’è scritto?»<br />
«Sì, ma non so cosa vuol dire. Qualcosa tipo Naelies, nefeli.»<br />
«Naedys?»<br />
«Sì, sembra di sì... ma come fai a saperlo?»<br />
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Una fiamma mi lacera il corpo, mi agito, mi sento come un’aragosta appena buttata<br />
in una pentola d’acqua bollente, mi alzo ed esco.<br />
«Cosa succede, non stai bene?»<br />
«Mio fratello ha lo stesso tatuaggio sul braccio sinistro.»<br />
Rimango bloccato. A Cuba gli uffici chiudono presto ma per certe cose non servono<br />
orari. Paulo fa un paio di chiamate, paghiamo il conto e prendiamo un taxi. Guardo<br />
il fondo giallastro dell'auto mentre Paulo spiega al taxista dove andare. Non riesco<br />
a immaginare in cosa devo avere paura, in cosa posso sperare: mio fratello sparisce<br />
e muore una donna con lo stesso tatuaggio sul braccio? Casualità o c’è un<br />
collegamento?<br />
Sono io l’aragosta qui, un’aragosta che si muove dentro acqua bollente e spera<br />
che qualcuno apra quel coperchio e la tiri fuori.<br />
Paulo mi dice di aspettare nel taxi; sì, questo lo posso fare, mi fermo e conto i respiri:<br />
uno, due e tre, Matteo stai tranquillo, lentamente arrivo a dieci e poi ricomincio.<br />
Uno, due, tre. Vedrai che non è nulla.<br />
Torna dopo un tempo incalcolabile, mi fa vedere una foto. Io svengo, tutto è buio.<br />
L’aragosta è morta sbattendo contro una foto di mio fratello Diego vestito da<br />
donna, è morta per soddisfare il palato di questa città calda di nome L’Avana.<br />
Mi rigiro, tiro su con il naso, l’aria condizionata è al massimo. Guardo l’orologio e<br />
scopro che sono le due di pomeriggio. Ma come sono tornato qui?<br />
Trovo un biglietto sul comodino: vedo di capirci qualcosa, ci vediamo alle otto in<br />
hotel.<br />
Le immagini di ieri mi appaiono confuse, accendo il mio registratore, lo consiglio<br />
sempre ai miei pazienti, e inizio a registrare: prima mia madre, poi mio padre e<br />
ora Diego, possibile? Mio fratello ucciso a L’Avana, mio fratello vestito da donna,<br />
perché? Per nasconderlo? Mio fratello ammazzato senza nessuno, mio fratello<br />
senza un funerale.<br />
Non riesco a star qui, esco dall'albergo, cammino senza meta. Inizio a correre<br />
verso il mare, sono una lepre, una lepre che corre lontano, verso la ferrovia, ancora<br />
oltre, verso una lunga strada in salita, non vedo la gente, i colori, le auto, i clacson,<br />
corro fin quando non mi stanco, non mi abbatto. La lepre è stata raggiunta non so<br />
da chi, viene morsa, fa male. Piango, picchio i pugni a terra.<br />
La mia mente è opaca, sfumata. Continuo a camminare, come se il dolore possa<br />
essere placato dalla stanchezza fisica. Guardo per terra, a un tratto la strada<br />
smette di essere asfaltata, alzo lo sguardo e vedo da lontano la statua di un Cristo<br />
come quella che c’è in Brasile; ma questo non è uno stato comunista e ateo?<br />
Osservo questa grande statua bianca e penso a Diego, dove sarà adesso? Mi<br />
starà osservando? Sono sempre stato critico sulle religioni, quanto vorrei crederci.<br />
Ripenso a quello che dico ai miei pazienti, poi a Elisabeth Ross, alle cinque fasi<br />
dell’elaborazione del lutto, sembrano concetti così astratti ora.<br />
Ritorno meccanicamente all’albergo all’ora contrattata senza notare nessuno. Assenza<br />
di pensieri, assenza di energie. Paulo è lì che mi aspetta. Mi fa cenno di<br />
sedermi, senza nemmeno incrociare il mio sguardo inizia a parlare:<br />
«Tuo fratello è stato ammazzato, non ci sono dubbi. Non è stata contattata l’ambasciata<br />
perché nessuno ha trovato i documenti. Era registrato con il nome di una<br />
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donna, per giunta finto. Quando i medici dell’autopsia hanno capito che era un<br />
uomo hanno tenuto la situazione ancora più nascosta. Tutti gli intervistati lo conoscevano<br />
come una donna: parlava, rideva e scherzava come una donna.»<br />
«È troppo.»<br />
«Cosa?»<br />
«È troppo, dammi qualcosa da bere.»<br />
«Be’, ho comprato del rum per corrompere un funzionario ma non è servito. Tieni…<br />
ma sei sicuro? Non mi sembra la cosa giusta da fare…»<br />
«Sono stanco di fare la cosa giusta.»<br />
Mi sveglio nella mia camera con la nausea e il mal di testa. Rimango sotto le coperte<br />
a soffrire il freddo su un’isola tropicale. Quanto sono stupido, prevedibile.<br />
Sono come tutti i miei pazienti quando soffrono, non sono migliore né diverso, anzi<br />
sono peggiore perché so che dovrei essere lucido e concentrarmi su quello che<br />
devo fare. Invece voglio solo starmene qui, spegnere il condizionatore e non alzarmi,<br />
voglio svegliarmi a Milano, nel mio appartamento, e voglio che a soffrire<br />
sono siano solo i miei pazienti.<br />
Mi rigiro. Cerco una foto di Diego nel portafoglio, non ne ho. Sono egoista e solo.<br />
Perché si comportava da donna? Era per nascondersi? Mio fratello era omosessuale?<br />
Era un travestito? Ma come ho fatto a non rendermi conto di nulla? Come<br />
ho fatto proprio io a non rendermi conto di tutto questo? Forse si nascondeva?<br />
Ma cosa importa?<br />
Con fatica mi alzo dal letto, spengo la rumorosa aria condizionata. Leggo il solito<br />
bigliettino dalle lunghe vocali di Paulo: a questo punto non so che fare… ne parliamo<br />
a pranzo?<br />
Mi muovo per la stanza e mi sale la voglia di piangere ma riesco a fermarmi. Ai<br />
miei pazienti consiglio sempre di ritagliare un momento della giornata, un’ora dedicata<br />
al dolore, possibilmente la sera, quando fa buio e puoi dormire sommerso<br />
dalle tue lacrime. Accendo il telefonino, un paio di messaggi di colleghi e un altro<br />
di Giulia, lo guardo ma è solo un avviso di chiamata.<br />
Prendo un pezzo di carta e provo a mettere giù le cose da fare. Non ci riesco.<br />
Prendo il mio registratore ma non mi viene nulla da dire.<br />
Paulo arriva puntuale al ristorante e mentre aspettiamo le ordinazioni illustra quello<br />
che ha scoperto: quello di mio fratello fa parte di uno <strong>dei</strong> tanti processi-lampo per<br />
omicidio che viene fatto a L’Avana. Il corpo è stato trovato mentre un uomo fuggiva.<br />
La polizia non ha dubbi, è stato un omicidio passionale: l’uomo ha sedotto Diego,<br />
ma quando ha scoperto che non era una donna l’ha inseguito e l’ha ammazzato<br />
sotto gli occhi di una passante. Quando è arrivata la polizia ha provato a fuggire.<br />
Lui parla e io non riesco a seguirlo bene, mi dice di andare all'ambasciata, che<br />
forse il corpo si trova già in un cimitero. Io penso solo a Diego, ai regali ai suoi ritorni<br />
dai viaggi, al suo silenzio, a come io cercavo di capire il suo umore dalla musica<br />
che usciva dalla sua stanza, passavo ore a interpretarlo attraverso i Nirvana<br />
o i The Cure.<br />
Mi guarda dritto negli occhi e mi chiede:<br />
«Concentrati su questo… che facciamo? Io ho del lavoro da fare in Messico. Che<br />
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ne dici di sistemare le pratiche con l’ambasciata e tornare in Italia?»<br />
Cosa rispondo? Lascio tutto? Posso davvero tornare a Milano, al convegno che<br />
ho tra qualche giorno?<br />
Paulo, stanco del mio silenzio, dice:<br />
«Ascoltami, lascia tutta questa faccenda alle spalle e torna alla tua vita.»<br />
«Non lo so, ho bisogno di tempo.»<br />
Rimaniamo a mangiare in silenzio. Mi sforzo di pensare ad altro. Lo guardo, noto<br />
la sua postura perfetta, le sue mani grosse, il suo volto lungo e cupo. Da un punto<br />
di vista puramente razionale sono stato fortunato a incontrarlo, così glielo dico.<br />
«Ma che dici? Volevo tornare a L’Avana, vai a pensare che avrei trovato lavoro in<br />
fila per i visti cubani…»<br />
«È sempre così il tuo lavoro?»<br />
«Di solito ricercare persone scomparse richiede molta più fatica, possono dire<br />
quello che vogliono di Cuba, ma il resto dell’America Latina è molto più incasinato<br />
di qui!»<br />
Non voglio pensare a Diego così cerco di concentrarmi su di lui, gli chiedo della<br />
sua vita. Mi racconta del suo passato in Argentina, della sua passione per il tango,<br />
gli chiedo perché abbia smesso. Cerco di psicanalizzarlo ma qui non siamo nel<br />
mio studio, così esagero diventando invadente e ritorna il silenzio. Volta lo sguardo<br />
e pensa a qualcosa che probabilmente io non saprò mai. È strano, sono tre giorni<br />
che parlo con lui ma solo quando ha parlato del tango mi è parso davvero puro.<br />
Finiamo di mangiare, mi dice di aspettarlo alle venti in un altro ristorante e mi ribadisce<br />
di passare per l’ambasciata e poi per il cimitero.<br />
Non eseguo gli ordini, non capisco nemmeno se davvero Paulo mi abbia parlato,<br />
tutto sembra molto distante. Il tempo è infinito, nella stanza solo buio, rumori lontani<br />
e “Something In The Way” nella testa. Dormo, mi sveglio, ho mal di stomaco<br />
ma non voglio mangiare, torno nel letto. Tutto è ovattato. Tutto quello che mi rimane<br />
sono i Nirvana nella testa.<br />
Paulo bussa alla porta, io non apro. Mi lascia qualcosa fuori dalla stanza. È una<br />
specie di pizza.<br />
La mattina dopo ribussa alla mia porta con forza, sento che non posso evitarlo.<br />
Mi parla con meno freddezza e mi consiglia di nuovo di andare all’ambasciata e<br />
al cimitero. Mi convince.<br />
Cammino come un automa, non sembro nemmeno un turista. Con una certa difficoltà<br />
arrivo all’ambasciata e poi al cimitero, guardo una bara senza nome né<br />
croci. Addio fratellone, non so perché hai scelto questo posto, non so perché non<br />
mi hai mai detto nulla di questi tuoi desideri nascosti. Mi dispiace, eravamo distanti<br />
ma eri la mia famiglia, lo so, sarei potuto essere un fratello migliore.<br />
Decido che questo è il mio momento del dolore e lo lascio sfogare. La gente passa<br />
e mi vede piangere. Ho sempre percepito la morte come qualcosa di freddo, di<br />
lontano. Questo calore mi spiazza, questo sole tropicale rende tutto ancora più irreale.<br />
Ho voglia di bere, di farmi male, ho voglia di picchiare o forse anche di essere picchiato,<br />
questa città inizia a farmi paura.<br />
Mi fermo in una piazza piena di bancarelle, raccolte casuali di libri del Che, di Fidel<br />
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Castro, qualcosa di Camilo Cienfuegos e mille foto di Ernest Hemingway. Tra tutte<br />
queste cianfrusaglie vedo un coltello grande come un portachiavi, lo prendo. Girare<br />
con un coltellino in tasca mi fa sembrare tutto ancora più pericoloso, mi siedo e<br />
mi rilasso un attimo. La gente mi guarda, non so perché ma ora tutti capiscono<br />
che sono straniero. Si avvicinano e mi chiedono se voglio sigari, se voglio puta. Io<br />
tocco il mio coltellino in tasca e rispondo che non voglio niente. Voglio solo andarmene<br />
a casa, nel mio sicuro appartamento in Italia, nel centro dai miei pazienti.<br />
Sono nella via principale, ritrovo il pub di ieri. Ordino un moijto, poi un altro. Questo<br />
bar non è grande, ma i turisti ci passano spesso e non è difficile trovare degli stranieri<br />
più loquaci di me. Io quindi posso sparire, annullarmi, rallentare il respiro e<br />
aprire bene gli occhi. Sono un palo sull’autostrada che spia e scatta fotografie per<br />
multe cittadine. Non respiro quasi.<br />
L’Avana si trasforma in una gatta dal pelo nero e curato che si muove con sensualità<br />
tra i balconi ornati del centro storico, fa le fusa ai turisti occasionali che si<br />
fotocopiano nelle foto lungo le sue strade o che hanno lo sguardo perso tra barche<br />
lontane e odore di salsedine.<br />
Davanti a questo io sono un topo che cerca di sfuggirle, di nascondersi.<br />
Provo a non pensare a Diego ma la mia testa è un’altalena di immagini del passato<br />
e del presente. Nella mente mi ritornano frasi che ormai hanno perso anche forza:<br />
perché non mi ha detto nulla? Perché non ho lasciato che si aprisse a me?<br />
All’improvviso sento che qualcuno mi sta fissando, mi giro velocemente: sono<br />
occhi neri e profondi quelli che mi osservano, che non si abbassano quando incrociano<br />
i miei, incuriositi e un po’ impauriti. Osservo la sua pelle mulatta, il suo fisico<br />
gracile e alto, vedo le sue mani mentre suona il contrabbasso, un’infinità di<br />
treccine che le cadono oltre la spalla.<br />
Io ho smesso di osservare, questa volta sono osservato, continua a scrutarmi incuriosita<br />
come se vedesse oltre me. Finiscono di suonare e lei si avvicina. Inizia<br />
a parlarmi in uno spagnolo velocissimo, io mi sposto, urtando il tavolino faccio traballare<br />
il mojito. Qualcuno si gira ma nessuno si interessa a noi. Le dico che non<br />
parlo la sua lingua, lei cerca di parlarmi più piano, io la allontano e le dico che non<br />
vado con le puta. I suoi occhi diventano di fuoco nero, io non riesco a gestirli, mi<br />
alzo di scatto, il mojito le cade addosso e io scappo.<br />
Questo spavento mi ha svegliato. Guardo l’orologio e sono quasi le venti, così<br />
vado all’appuntamento con Paulo. Mentre cammino ripenso a quegli occhi, a<br />
quella pelle mulatta. Cos’ho provato? Prendo il registratore: questa città vuole<br />
qualcosa da me, io ho paura, ho una strana sensazione, voglio tornare a casa!<br />
Paulo fa commenti stupidi sulla mia faccia pallida e sul mio maldestro equilibrio.<br />
Con la sua assoluta freddezza mi presenta la situazione: mio fratello è arrivato a<br />
L’Avana avendo con sé tutti i suoi soldi, ha buttato i suoi documenti e ha deciso di<br />
essere quello che aveva sempre desiderato, un travestito. Così ha iniziato relazioni<br />
fugaci con turisti e qualche cubano. Insomma, batteva. Fin quando sulla sua strada<br />
è arrivato il suo assassino, un cubano troppo ubriaco per rendersi conto che fosse<br />
un uomo. Non credeva di poterlo ammazzare. Il processo è stato veloce.<br />
«Ha preso trent’anni di carcere e stai sicuro che qui non è come in Italia.»<br />
Ho la nausea, vado in bagno, va un po’ meglio, ma non voglio continuare a bere<br />
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né a fare altro. Ancora un po’ e mi lascio andare, ma cos’è questa sensazione?<br />
Fastidio? Quasi sollevato che nessuno in Italia saprà che mio fratello era… frocio?<br />
Mentre mi vergogno di questi pensieri ritorno verso il tavolo. Paulo ha abbordato<br />
due ragazze, li vedo che parlano spagnolo, ridono tantissimo di cose che non capisco.<br />
Sembra tutto un circo. Da una parte ci sono due pantere che girano intorno<br />
al domatore, lui cerca di far fare un percorso che le porti dritte al suo letto, ma<br />
guardando con attenzione mi sa che non hanno bisogno di indicazioni, sanno bene<br />
cosa fare.<br />
Io? Io sono il clown, ma di quelli tristi, di quelli che cercano di far ridere e non ci<br />
riescono.<br />
Comunque lo spettacolo è iniziato e io non so che fare, mio fratello era un travestito<br />
ed è stato ammazzato, di fronte a me c’è una cubana e io non capisco nulla di<br />
quello che dice, rido cercando di non disperarmi, lasciandomi guidare da questa<br />
danza dell’accoppiamento così lontana dalla mia quotidianità.<br />
Paulo dice a entrambe qualcosa, poi lui sparisce con una delle due mentre io salgo<br />
con l’altra in camera mia, è talmente bella che non riesco a toccarla. Non ci riesco<br />
per pudore o per Giulia? All’improvviso la ragazza cubana piange, mi fa vedere la<br />
foto della mamma malata, mi spiega che è la prima volta che fa “queste cose”.<br />
Parla molto ma io riesco a comprenderla, capisco quasi tutto anche se le parole<br />
sono sommerse dal pianto e richieste di soldi. Le do <strong>dei</strong> soldi e lei va via. Ha inventato<br />
tutto però lo ammetto, mi sono piaciuti i dettagli.<br />
Rimango sul letto a guardare il bianco opaco del soffitto che non smette di fermarsi.<br />
Prendo un altro sonnifero.<br />
Mi risveglio stanco sul letto dell'albergo. Ho fatto un sogno strano: camminavo e<br />
inciampavo, mi rialzavo e inciampavo. Mi piacciono i sogni, li faccio sempre raccontare<br />
dai miei pazienti. Delle volte sono così pieni di particolari che sembrano<br />
frammenti di vite passate oppure della vita presente, se si fossero fatte scelte diverse.<br />
Se non ci fosse stato quel particolare che stravolge la vita. Qual è stato il<br />
mio? La scomparsa di mia madre quando ero piccolo? La morte di mio padre cinque<br />
anni fa? Diego e il suo segreto? Be’, mi sa che questi sono molto più che particolari.<br />
Sento bussare alla porta, è Paulo: «Cosa ne dici se andiamo via da questa cazzo<br />
di isola? Tu non avevi il convegno a Milano?»<br />
Istintivamente gli rispondo di sì, basta afa, basta mal di testa, basta questa lingua.<br />
Mi sorride e mi fa vedere i biglietti, li aveva già comprati. Ci si organizza per la<br />
giornata. Esco dall'albergo e vedo in reception la ragazza mulatta di ieri, quella<br />
che ha cercato di parlare con me al locale. La ignoro, mi dirigo verso l’ambasciata<br />
italiana. Cerco di tenere la testa impegnata, faccio file interminabili, recupero documenti.<br />
Mi ripeto che andare via è la scelta migliore, prendere un aereo, far seppellire<br />
mio fratello in Italia. Elisabeth Ross con la sua teoria del lutto dice solo<br />
cazzate; ora non devo pensare al dolore, devo concentrarmi sulle cose da fare.<br />
C'è il tramonto e L’Avana sembra una tigre accovacciata sull'oceano, il giallo e<br />
nero del suo mantello appaiono alternarsi nello stesso modo tra il colore oro <strong>dei</strong><br />
palazzi logorati dal sole e le sue ombre. Camminando senza meta incontro un<br />
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gruppo di bambini con la divisa scolastica che corrono dietro la maestra; sorrido,<br />
ai miei pazienti suggerisco spesso di immaginarsi bambini e di dirmi come si vedono.<br />
Io non sono quel bambino che chiede qualcosa da mangiare, non chiedo soldi. Io<br />
non sono quel bambino che alcuni turisti cercano per regalargli saponi e matite<br />
per ripulirsi la coscienza. Io sono quel bambino che avrebbe solo bisogno di un<br />
abbraccio, di quelli che non ti fanno respirare bene, di quelli in cui puoi piangere.<br />
Decido di tornare all’albergo e passo davanti al bar di ieri, il mio sguardo incrocia<br />
quello della ragazza con le treccine, sta suonando il suo contrabbasso. Mi riconosce<br />
e smette di suonare. I colleghi la guardano, lei chiede scusa, prende il microfono<br />
e mi urla:<br />
«Yo soy Naedys!»<br />
Sono paralizzato. Naedys è un nome? Naedys è lei? Sento uno strano fuoco dentro<br />
di me, forse è gioia, sicuramente è gioia, ma perché?<br />
Le sorrido quasi tramortito, lei mi fa un gesto come per dire “rimani qui”. Finisce di<br />
suonare e si avvicina a me, inizia a parlare piano in spagnolo io capisco poco, mi<br />
guarda e mi dice: «Diego?»<br />
«Diego è mio fratello.»<br />
Mi abbraccia forte, un abbraccio lungo più di un minuto, di quelli che non ti fanno<br />
respirare bene, di quelli in cui puoi piangere, ma a piangere è lei.<br />
Mi dice che vuole parlarmi, ma devo aspettare che finisca di suonare. Così rimango<br />
in un angolo, tra il timore e la curiosità, ascoltando questa musica commerciale<br />
e allegra cantata da una donna dagli occhi scuri e tristi che si<br />
inumidiscono quando incrociano il mio sguardo.<br />
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Alla sua opera prima, l’autore ci vuole portare con sé in un paese lontano.<br />
Un volo interminabile su un cargo militare deposita Giorgio Mazzoni nel<br />
paese <strong>dei</strong> mille splendidi soli con il misero bagaglio di informazioni che un<br />
occidentale ha a disposizione quando si parla di questa parte del mondo: la<br />
televisione, il web, i saggi storici, Khaled Hosseini e Gino Strada. Il protagonista<br />
è un giovane avvocato stanco della professione considerata arida e<br />
poco stimolante che decide di dedicarsi alla causa umanitaria nei paesi meno<br />
sviluppati e più bisognosi del mondo. La partecipazione con Grazia alla festa<br />
del matrimonio di una giovane coppia della capitale è il pretesto per rivivere<br />
tutte le sue vicende di cooperazione in Afghanistan. Le nozze sono un evento<br />
speciale dove ospitalità e generosità degli sposi e delle loro famiglie si annodano<br />
alle tradizioni, alle curiosità composte da impressioni, racconti e sensazioni.<br />
Nell’atmosfera gioiosa di condivisione, la gente si lascia andare a<br />
pensieri e opinioni fuori dall’ordinario, fino a condividerli con un occidentale.<br />
Così Giorgio riesce a trasformare l’esperienza della miseria e della sofferenza<br />
nel suo alibi per la ricerca della semplicità, del grottesco, del magico nel<br />
paese devastato dai conflitti. Tra avventure in luoghi sconosciuti, incontri con<br />
personaggi misteriosi e percorsi alla ricerca di qualcosa e qualcuno, si snoda<br />
l’opera di Moyersoen che, come un piatto di cucina locale, è ricco di sapori<br />
variopinti ed è condito con spezie profumate che ti fanno sentire sazio solo<br />
dopo averlo letto fino in fondo.<br />
Joseph Moyersoen é laureato in giurisprudenza all'Università Statale di Milano<br />
e si è specializzato in diritto minorile. Ha svolto la funzione di vice Procuratore<br />
onorario (Pubblico Ministero d'udienza) presso il Tribunale di Milano<br />
e svolge la funzione di giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di<br />
Milano dal 2002. Collabora come esperto esterno con la Direzione Generale<br />
della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.<br />
Ha pubblicato decine di articoli nelle riviste specialistiche: Minorigiustizia,<br />
The Chronicle e Cittadini in crescita e nelle collane Puer della Franco Angeli<br />
e Quaderni e Documenti del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi<br />
sull'Infanzia e l'Adolescenza.<br />
Recensisce per il sito internet specializzato: www.tribunaleminorimilano.it<br />
del Tribunale per i minorenni di Milano e per www.minori.it/rassegne-filmografiche<br />
del Centro Audiovisivo e Mediatico sulla Rappresentazione dell'Infanzia<br />
e dell'Adolescenza (CAMeRa) ha collaborato a lungometraggi che<br />
trattano tematiche legate al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza.<br />
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Sobh Bekheir Kabul, Joseph Moyersoen.<br />
Capitolo 1 – Un matrimonio inconsueto<br />
«Ma dai, vedrai che saremo tutti insieme, vieni anche tu. In fondo è una famiglia<br />
progressista.»<br />
«Non ti credo.»<br />
«Ma li conosco, figurati se saremo in due sale separate!»<br />
«Ma Grazia… sei sicura? Mi sembra così strano, anche se siamo nel 2010, qui<br />
sono tutti ancorati alle tradizioni e a usanze direi… secolari. Comunque, la cosa<br />
mi tenta muchissimo, dev’essere un’esperienza pazzesca. E come mi dovrei vestire?»<br />
«Mah, mettiti una giacca. Non è come da noi, qui ognuno si mette ciò che si sente,<br />
soprattutto gli uomini, questo lo so. D’altra parte il progetto che seguo è proprio<br />
nel campo dell’abbigliamento.»<br />
«Ma come li hai conosciuti?»<br />
«Be’, semplice. Ahmed, il fratello dello sposo Rashid, è il capo della sartoria che<br />
si è costituita con il mio progetto, per cui mi conoscono tutti.»<br />
Giorgio aveva capito che in quel contesto la parola “Grazia” lo avrebbe salvato nel<br />
caso in cui, come temeva, sarebbe stato solo in mezzo a tanti uomini sconosciuti.<br />
«Prima di andare a prepararci, vista l’ora, spiegami come faccio a imbucarmi a un<br />
matrimonio. Confesso che non lo avevo mai fatto, ma questa volta sono disposto<br />
a rischiare. Mi piacerebbe tanto vedere le donne tutte agghindate a festa, immagino<br />
già i corpi avvolti in tessuti pregiati e colorati senza burka, i capelli nelle più<br />
assurde acconciature senza chador, i gioielli sfoggiati per l’occasione, sìssìsì, già<br />
mi immagino questo e altro!»<br />
«Eeeeh adesso, non correre. Però penso che un po’ tu abbia ragione. Poi Ahmed<br />
mi ha detto che la moglie di Rashid e le sue sorelle sono davvero bellissime<br />
donne.»<br />
«Ma pensi che oltre alla cena ci siano anche musica e danze?»<br />
«Ma certo, cosa credi, qui quando si sposano si indebitano fino ai capelli per organizzare<br />
una festa davvero speciale, quindi ci saranno musicisti e poi anche<br />
danze all night long. Vedrai che ci scappa anche un ballo scatenato.»<br />
«E come ballano qui? Mica si balla il rock francese…»<br />
«Vedrai vedrai, non ti dico niente, ti ho già detto troppo.»<br />
«Già, ma noi a una certa ora dobbiamo rientrare come cenerentole, altrimenti poi<br />
domani li senti quelli della sicurezza, oltre a trasformarci in zucche ci scappa anche<br />
una bella strigliata. Comunque chi se ne frega, è talmente un’occasione unica, poi<br />
non andiamo mica in uno di quei posti vietati perché frequentati dagli occidentali,<br />
dove il rischio attentanti è sempre alto. In fondo il divieto di uscire la sera è proprio<br />
legato a questo, se si va nei ristoranti frequentati dagli stranieri. Lì sì che si rischia<br />
il botto.»<br />
«Infatti tranquillo, non ti preoccupare, e comunque non facciamo tardi, perché poi<br />
domani ho una giornata di quelle campali.»<br />
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«A chi lo dici, sai chi dovrò incontrare?»<br />
«No, come sai qui è già tanto se uno riesce a seguire i propri di impegni, correndo<br />
dietro al tempo da mattina a sera. D’altra parte non c’è altro, non si può che lavorare<br />
non potendo uscire dal compound se non in casi eccezionali.»<br />
«Vedrò l’avvocato che si occupa <strong>dei</strong> minori in carcere. Quello che conosci anche<br />
tu, come cavolo si chiama…»<br />
«Fazul Zarbach? Ma guarda, allora quando lo vedi salutamelo. Sai che per me fa<br />
un ottimo lavoro?»<br />
«Tu dici? Non ho ancora capito bene come lavora. Devo chiedergli alcune cose<br />
perché non mi tornano i conti sul numero <strong>dei</strong> minori che dice di aver difeso con la<br />
sua ONG. Comunque certo che lo faccio. E poi, dato che lo vedo qui nel compound,<br />
se ci sei passiamo a salutarti.»<br />
«Bene, dai che facciamo tardi, vado a prepararmi. Allora ci vediamo qui tra mezz’ora?»<br />
«Perfetto, a tra poco.»<br />
Giorgio era eccitato come un bambino che sta per aprire i pacchi di Natale, anche<br />
se temeva molto che Grazia avesse preso un granchio con il film del matrimonio<br />
che si era montata in testa.<br />
«Dai, dai, che dobbiamo andare.»<br />
«Eccomi Grazia, scusa ma stavo chattando via skype con un amico e gli stavo<br />
raccontando dell’esperienza che sto per vivere. L’autista è pronto?»<br />
«Sì, stasera c’è di turno Mohammed e ci sta aspettando all’uscita del compound.»<br />
Anche lei era molto eccitata e per l’occasione aveva indossato un bell’abito attillato<br />
a fiori con varie tonalità di blu, che faceva risaltare ancora di più il suo corpo snello,<br />
sinuoso e sicuro, e i suoi occhi azzurri. Con un tocco di trucco sul volto, che usava<br />
raramente, e i capelli lisci e neri lasciati cadere con naturalezza sulla schiena, era<br />
pronta ad affrontare questa esperienza anche per lei nuova, nonostante lavorasse<br />
lì da oramai tre anni.<br />
In auto l’aria fresca entrava dai finestrini, da cui si scorgeva un cielo stellato così<br />
vicino e brillante, senza l’ombra di una nube, accarezzando i volti e facendo ondeggiare<br />
leggermente i capelli di Grazia, contribuiva all’euforia che oramai pervadeva<br />
entrambi.<br />
Appena arrivati all’ingresso del palazzo moderno, di cui gli sposi avevano affittato<br />
tutto il secondo piano per l’occasione, furono subito accompagnati a due ingressi<br />
diversi. Grazia entrò da quello dedicato alle donne che entravano con tanto di<br />
burka o chador, mentre Giorgio da quello dedicato agli uomini vestiti di tutto un<br />
po’. In quel momento si sentì perso, anche se aveva ben ipotizzato che sarebbe<br />
successo l’inevitabile. Salì da solo la scalinata tutta agghindata con fiori e tappeti<br />
per l’occasione pensando “ma che ci sto andando a fare io, se non conosco nessuno?”.<br />
Giunto al secondo piano si trovò di fronte una grande sala luccicante con<br />
circa cinquecento uomini afghani seduti in tavoli da sei, otto o dieci persone.<br />
Era l’unico straniero, un giovane molto alto che indossava un blazer blu. Appena<br />
comparve nella sala tutti si girarono a guardarlo. Un ragazzo venne ad accoglierlo<br />
e lo fece accomodare a un tavolo in cui c’era ancora un posto libero. Dopo qualche<br />
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saluto in farsi, calò il silenzio. Nessuno parlava altro che dari o farsi, e oltre ai saluti<br />
di circostanza Giorgio non spiaccicava una parola.<br />
Molti sorrisi, qualche gesto, poi finalmente un parente dello sposo venne in soccorso.<br />
Aveva capito che non era il posto giusto per quello strano e sconosciuto<br />
ospite, quindi lo fece accomodare a un altro tavolo in cui tutti parlavano inglese.<br />
Allora Giorgio usò la parola magica e disse: «I’m Grazia’s friend». In effetti, dalla<br />
reazione capì che tutti la conoscevano, e non appena si sparse la voce che anche<br />
lui era italiano, iniziò la processione di ragazzi che conoscevano qualche parola<br />
nella sua lingua e uno dopo l’altro passarono a salutarlo.<br />
«Come va.»<br />
«Bella Italia.»<br />
«Conosco italiani qui a Kabul.»<br />
Che strana sensazione provò, perché erano molti che avevano lavorato con militari<br />
o con civili italiani e risultava che si erano trovati molto meglio che con gli altri stranieri<br />
della coalizione internazionale.<br />
In poco tempo arrivarono i parenti dello sposo, le portate, il cameraman a filmare<br />
Giorgio, proprio mentre Grazia lo stava chiamando sul cellulare dall’altra parte<br />
della sala divisa da un separé con altre cinquecento donne con abiti, colori, gioielli<br />
e acconciature alla Bollywood.<br />
«Giorgio, mi spiace ma avevi ragione tu, se vuoi ce ne andiamo.»<br />
«No no, non ti preoccupare per me, va tutto bene, e in questo momento non posso<br />
stare al telefono perché sono circondato, poi ti racconto.»<br />
Quella sera fu davvero speciale per Giorgio. Parlò di tante cose con i suoi vicini di<br />
tavolo, alcune anche un po’ tabù, ma con molta sincerità e naturalezza. Fu servito<br />
e riverito fino all’eccesso, con mille attenzioni. Cibi squisiti, tre tipi di risi diversi,<br />
tra cui uno con le scorze d’arancia e un altro con l’uvetta, <strong>dei</strong> ravioli tipo quelli cinesi<br />
un po’ piccanti, varie carni, tra cui pollo al curry e montone arrosto e tante<br />
altre delizie, poi un ottimo dolce simile al dulce de lece al cardamomo ricoperto di<br />
pezzetti di pistacchi. Il tutto annaffiato da coca cola o aranciata, dato che gli afghani<br />
non possono bere alcolici neppure alle feste. Insomma, una cena da leccarsi i<br />
baffi, anche se tutti per servirsi attingevano, spesso con le mani, allo stesso piatto<br />
di portata.<br />
Durante la cena parlarono di poligamia, di elezioni, di Karzai, di produzione clandestina<br />
di vino per il mercato estero e di tante altre cose. Per esempio era singolare,<br />
ma neanche tanto difficile da comprendere, la posizione sulla poligamia. Per<br />
gli afghani era semplice, loro sostenevano che mentre gli europei hanno le amanti<br />
di nascosto, come se tutti gli europei avessero l’amante, loro invece hanno più<br />
mogli alla luce del sole. Potevano arrivare fino a sette mogli, ma il problema era il<br />
dover garantire lo stesso tenore di vita a tutte quante, per cui gli stessi spazi vitali,<br />
il che necessitava una casa molto grande. I suoi vicini di tavolo al momento avevano<br />
una sola moglie, non perché non volessero averne di più, anzi, ma perché<br />
non se le potevano permettere. Alla domanda di come un vicino avesse scelto la<br />
sua attuale moglie, siccome si vantava di averla conosciuta prima di sposarla,<br />
quello rispose di averla vista all’università mentre chiacchierava con delle amiche:<br />
151
ne era rimasto folgorato e aveva raccolto informazioni su di lei ed era andato dai<br />
suoi genitori a chiederla in sposa. Alla faccia dell’averla conosciuta. Era incredibile<br />
come il punto di vista della donna fosse praticamente inesistente per la cultura afghana,<br />
in particolare in tema di matrimonio.<br />
Anche rispetto ad altri argomenti si erano lasciati andare nell’esprimere liberamente<br />
il loro punto di vista, e senza bisogno di bere alcolici. In proposito c’era chi<br />
produceva vino, e pare anche di discreta qualità, nelle rigogliose valli del sud, e lo<br />
esportava nei paesi limitrofi. Il tutto rigorosamente di nascosto, perché la religione<br />
musulmana vieta in modo categorico il consumo di bevande alcoliche, considerate<br />
opera di Satana: “Evitatele affinché possiate prosperare” (Corano, Sura V). E pensare<br />
che la parola alcol ha radici arabe (al-kul) e significa più o meno “il più sottile”.<br />
Pausa sigaretta fuori dal locale, all’aperto con chiacchiere sotto il cielo stellato, e<br />
poi di nuovo in sala, ma questa volta per le danze con un complesso di musicisti<br />
pronto a strimpellare. Ovviamente qui Giorgio non poteva che fare furore, un vero<br />
ballerino provetto, sempre pronto a fare quattro salti. Il primo ragazzo in pista lo<br />
costrinse a buttarsi nelle danze e subito cercò di imitare l’afghano nei movimenti.<br />
Su le braccia ondeggiando un po’, cercando il ritmo che era tutt’altro che lento.<br />
Poi la pista si riempì e gli sembrò di riuscire a tenere il ritmo, e che ritmo!<br />
Con la scusa di voler fare qualche foto che immortalasse lo sposo e i suoi amici<br />
nelle danze, mentre al di là del separé anche le donne pareva si stessero scatenando,<br />
Giorgio si allontanò pian piano e chiamò Grazia sul cellulare, purtroppo<br />
era ora di tornare alla base.<br />
Capitolo 2 - Il viaggio<br />
Rientrato al compound, ancora pieno di pensieri e di congetture su cui riflettere,<br />
da raccontare e condividere, continuava a ripensare a quanta distanza ci fosse<br />
tra il suo mondo e quello in cui era stato catapultato quella sera. Ripensò alla sua<br />
città, al lavoro, agli amici, tutto quello che aveva temporaneamente congelato per<br />
tuffarsi in questo pianeta così diverso. Nel suo viaggio si era immaginato tante<br />
cose, ma non certo la possibilità di conoscere così da vicino gente con vere tradizioni,<br />
non quelle che si raccontano per sentito dire o si leggono sui libri. In quel<br />
viaggio tante emozioni lo stavano attraversando, come quando si entra a scuola<br />
il primo giorno e si trovano nuovi compagni di viaggio, nuovi insegnanti, nuove<br />
materie, insomma, un nuovo mondo.<br />
Era partito da Milano con tappa a Istanbul, un volo di linea come tanti, insieme a<br />
tanti sconosciuti che si spostavano per lavoro o per piacere, che andavano a concludere<br />
qualche affare o a trascorrere qualche giorno di relax in un altro paese.<br />
Ma poi il viaggio da Istanbul per Kabul aveva assunto tutt’altri connotati. Ricordava<br />
che fuori era buio. Un viaggio interminabile, su un cargo militare. Il rombo costante<br />
e il tremolio persistente gli riportava alla memoria un viaggio fatto qualche anno<br />
prima a Pristina, su un piccolo Stol da venti posti. Allora non era circondato da soldati<br />
ma da civili armati di tanta volontà e generosità, che andavano a portare aiuti<br />
umanitari ai sopravvissuti alla guerra in Kosovo appena conclusa. Anche su quel<br />
volo, seppur più breve, la sensazione era stata di totale stordimento, e le grandi<br />
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cuffie impedivano qualunque tipo di dialogo. Aveva tentato di scambiare due parole<br />
con la sua vicina, una giovane bionda e robusta australiana del World Food Programme,<br />
ma altro che dialogo tra sordi. Non solo non si capiva niente, ma il tremolio<br />
dava il colpo di grazia, come i compagni che alla recita scolastica tirano<br />
oggetti per far perdere la concentrazione.<br />
Arrivato a Kabul più stordito e frastornato che mai, era subito stato immerso nel<br />
nuovo mondo ma come se viaggiasse in parallelo agli afghani, perché seppure<br />
dovesse lavorare per loro, in realtà fin dall’arrivo si era sentito distante.<br />
I primi giorni erano stati dedicati agli incontri con l’ambasciatore, con il personale<br />
d’ambasciata per la registrazione, con il direttore della cooperazione italiana, con<br />
lo staff del progetto sulla giustizia, con i militari che dovevano illustrare i piani di<br />
evacuazione e le altre regole da tenere presente sempre, perché il pericolo di attentati<br />
e di bombe era all’ordine del giorno e c’era poco da scherzare. Tra le slide<br />
mostrate dai militari ce n’era una che gli era rimasta molto impressa su un tipo di<br />
ragno grande come una mano: il ragno cammello, marrone, enorme e pericoloso.<br />
I ragni non erano mai stati la sua passione e vedere quell’essere che sembrava<br />
venire da un altro pianeta lo aveva proprio colpito. “Certo che trovarsene uno nella<br />
stanza da letto non dev’essere proprio il massimo” aveva pensato. Ma come gli<br />
scorpioni che pure c’erano in quel paese, fortunatamente se ne stavano lontano<br />
dai centri abitati.<br />
Fu durante questi incontri che conobbe Grazia, con cui legò immediatamente per<br />
uno stesso sentire e stesso modo di vedere le cose. Rimase molto colpito dalla<br />
passione con cui combatteva tutti i giorni per poter fare <strong>dei</strong> passi avanti e raggiungere<br />
quei risultati attesi che il progetto da lei gestito perseguiva. Avevano molte<br />
cose in comune e sicuramente anche lei poteva dargli validi suggerimenti rispetto<br />
al progetto di cui si doveva occupare.<br />
Capitolo 3 - La giustizia minorile<br />
Giorgio era stato selezionato dal Ministero degli Affari Esteri Italiano per contribuire<br />
al miglioramento della giustizia minorile in Afghanistan, ossia il sistema che gestiva<br />
i minori in conflitto con la legge. Si trattava di un progetto innovativo, che prevedeva<br />
varie fasi, dalla revisione della normativa alla formazione <strong>dei</strong> giudici e degli<br />
altri operatori del settore (procuratori, avvocati, assistenti sociali, ecc.), dalla costruzione<br />
di un centro di riabilitazione chiuso alla previsione di un centro di riabilitazione<br />
aperto e collegato al contesto sociale adiacente. Ora si trattava di chiudere<br />
una fase e aprirne una nuova, sia a Kabul che a Herat.<br />
Era felice di questa opportunità, avendo avuto già altre esperienze di questo genere<br />
in passato in altri paesi meno sviluppati come l’Afghanistan, sapeva che poteva<br />
dare il proprio apporto al progetto. Certo la lingua era un problema, doveva<br />
lavorare con l’interprete dari e farsi perché molti interlocutori non sapevano bene<br />
l’inglese.<br />
Aveva già incontrato i giudici, per capire i bisogni e le priorità, aveva visitato le<br />
strutture di Kabul e interloquito con i ragazzi internati, mentre con le ragazze ci<br />
aveva parlato una sua collega con l’interprete, siccome era preferibile una persona<br />
153
del loro stesso sesso.<br />
Era rimasto molto colpito da un problema che era emerso rispetto alle ragazze.<br />
Quasi tutte erano definite “running away from home”, scappate di casa. Ma l’avevano<br />
colpito le ragioni per cui erano scappate: avevano un fidanzato che i genitori<br />
non accettavano, oppure i genitori volevano assegnare loro come marito un uomo<br />
che non volevano, erano state picchiate e/o violentate dal padre, dal patrigno o<br />
da un altro membro della famiglia, oppure, cosa incredibile, un membro della famiglia<br />
aveva commesso un grave reato, come ad esempio un omicidio, e la ragazza<br />
era stata scelta per costituirsi alla polizia. Non essendo le ragazze produttrici<br />
di reddito, poiché le famiglie avevano bisogno delle entrate della persona che<br />
aveva commesso quel reato, decidevano di sacrificare la figlia femmina. Incredibile<br />
che si potesse arrivare a scelte così crudeli e ingiuste, che mettevano in luce ancora<br />
una volta la scarsa considerazione che la società afghana aveva della donna.<br />
Ma la cosa ancora più terribile era che queste ragazze “running away from home”<br />
non potevano essere rimandate a casa perché potevano rischiare la loro stessa<br />
vita, e alla fine il centro di riabilitazione per minori autori di reato diventava l’unico<br />
luogo per loro sicuro e protetto, non essendocene altri.<br />
L’assenza di strutture aventi finalità diverse dai centri di riabilitazione e da quelle<br />
carcerarie, nonché l’assenza di assistenti sociali che avrebbero avuto proprio il<br />
compito di approfondire la situazione personale e familiare di questi minori, era<br />
proprio la ragione principale che portava a trattarli come se avessero commesso<br />
un reato. Questa era uno <strong>dei</strong> tanti paradossi di una società piena di contraddizioni,<br />
sfaccettature e antiche tradizioni ancora applicate in modo ferreo.<br />
Siccome il codice minorile era stato adottato e i centri di riabilitazione a Kabul ed<br />
Herat erano stati costruiti, si trattava ora di farli funzionare al meglio e di far funzionare<br />
tutta la macchina della giustizia minorile. Giorgio quindi aveva un bel da<br />
fare per conoscere il sistema sulla carta ma soprattutto quello applicato nella realtà,<br />
poiché il sistema nuovo, attivato con il codice minorile, si scontrava con la<br />
sharìa e con la giustizia tradizionale, ancora applicate soprattutto fuori dalla capitale<br />
e lontano dalle grandi città. Sarebbe stato bello poter uscire da Kabul, dato<br />
che l’Afghanistan è così diversificato dal punto di vista delle etnie, delle usanze e<br />
del paesaggio, ma l’ambasciatore era stato chiaro: per uscire dalla capitale occorreva<br />
un permesso speciale e già Giorgio stava lottando per averlo per andare a<br />
Herat, dove peraltro era basato il contingente militare italiano, figuriamoci quindi<br />
se era anche solo lontanamente pensabile di poter andare anche altrove, in questo<br />
paese dai mille splendidi soli.<br />
Ma non voleva demordere, dopo essere riuscito ad andare a Herat era sua intenzione<br />
attivare un qualche stratagemma per uscire da Kabul, consapevole <strong>dei</strong> rischi<br />
che avrebbe corso. Aveva intenzione di raccogliere più materiale possibile sia dagli<br />
operatori del settore per cui lavorava, ma anche da soggetti terzi per avere la visuale<br />
più completa possibile. Oramai aveva imparato che, per ragioni diverse, le<br />
informazioni che arrivavano dagli altri stranieri presenti così come dai locali, andavano<br />
messe a fuoco, lette e interpretate con delle lenti particolari.<br />
Prima di incontrare il ministro della giustizia, era importante essere sicuro di avanzare<br />
e discutere delle proposte che fossero le vere priorità e soprattutto fattibili in<br />
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termini di fondi messi a disposizione dalla cooperazione italiana, che era più impegnata<br />
nella costruzione di strade e negli interventi in campo medico e sanitario,<br />
anche se dall’Italia di tutto questo non aveva mai sentito parlare.<br />
Questa era una cosa strana, in Italia infatti si parlava sui media soltanto dell’intervento<br />
militare, e tutta la sfera degli interventi civili realizzati sia dalla cooperazione<br />
italiana che dai militari era pressoché sconosciuta. Non si capiva se si trattava di<br />
una strategia oppure, come Giorgio pensava, di una carenza, per non dire assenza<br />
di comunicazione, ed era un vero peccato perché, anche se a volte con notevoli<br />
difficoltà di ogni genere, i risultati erano tangibili e anche molto positivi. Per esempio<br />
il centro di riabilitazione <strong>dei</strong> minori autori di reato che Giorgio aveva visitato a<br />
Kabul, e che non vedeva l’ora di visitare a Herat, era stato interessantissimo perché<br />
costituiva una specie di laboratorio sperimentale per un paese islamico, e si<br />
può dire anche all’avanguardia.<br />
Il centro era costituito da una struttura totalmente chiusa, come un carcere minorile,<br />
ma con tutta una serie di attività dalla scuola alla formazione professionale<br />
che consentiva ai ragazzi di preparare il terreno al loro reinserimento nella società<br />
afghana. Andava tenuto conto che la maggior parte <strong>dei</strong> reati di cui erano accusati<br />
questi ragazzi erano soprattutto furti di beni di prima necessità, perché la povertà<br />
era e resta la causa primaria contro cui la gente lotta. Inoltre molti ragazzi avevano<br />
abbandonato gli studi e non trovavano un lavoro.<br />
A fianco di questo centro chiuso ce n’era uno aperto in cui i ragazzi svolgevano le<br />
stesse attività ma tornando a casa alla fine della giornata. Il centro aperto, in collegamento<br />
con la comunità circostante, era la vera novità sperimentale, perché<br />
consentiva di recuperare questi ragazzi che non avevano ancora acquisito le capacità<br />
per svolgere un mestiere di farlo in collaborazione con gli artigiani, che un<br />
domani avrebbero potuto assumerli nelle proprie ditte individuali. Dato che il rischio<br />
di recidiva era forte, per rompere questa catena era indispensabile dare gli strumenti<br />
a questi ragazzi per potersi un domani arrangiare, senza rischiare di tornare<br />
a delinquere per i problemi di povertà o di mancanza di lavoro. Certo l’intervento<br />
non era soltanto di carattere formativo-lavorativo, ma anche e soprattutto educativo-comportamentale.<br />
Per esperienza Giorgio aveva imparato che solo operatori motivati e preparati e<br />
un percorso individualizzato che tenesse conto delle qualità e delle potenzialità di<br />
ciascun ragazzo erano la chiave di volta per far funzionare tutto il sistema e per<br />
abbattere quindi anche la recidiva, che era altissima prima che questo nuovo sistema<br />
fosse messo in moto.<br />
Dopo aver visitato il centro chiuso e il centro aperto di Kabul, costruiti dai civili con<br />
fondi del Ministero Affari Esteri italiano, ora era curioso di vedere il risultato degli<br />
analoghi centri di Herat, costruiti dai militari con fondi del Ministero dell’Interno italiano.<br />
Capitolo 4 - Un volo per Herat<br />
Durante una riunione con i colleghi USA del Correction System Support Program,<br />
che lavoravano sul sistema penitenziario afghano, a Giorgio era stato proposto di<br />
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andare con il loro capo John Way all’inaugurazione del carcere femminile di Herat,<br />
con un volo militare USA. Servivano tre giorni per avere tutte le autorizzazioni necessarie<br />
e organizzare il volo da Kabul. Consapevole delle difficoltà che gli si sarebbero<br />
presentate, Giorgio iniziò il calvario delle autorizzazioni.<br />
«Pronto, buongiorno sono Giorgio Mazzoni, posso parlare con il consigliere Franzoni?»<br />
«Buongiorno Giorgio, sono Ornella, come va?»<br />
«Bene, bene, vorrei parlare con il consigliere per concretizzare la mia missione a<br />
Herat, avrei una possibilità di cui volevo discutere con lui, e… inshallah…»<br />
«Mmm, guardi che oggi non è giornata, comunque, un attimo che glielo passo.»<br />
Il consigliere Pietro Franzoni era un giovane diplomatico con un pessimo carattere<br />
e molto abile a mettere i bastoni tra le ruote alle persone che non gli andavano a<br />
genio. L’operazione quindi non si prospettava delle più facili perché il canale con<br />
l’ambasciatore, per poter essere autorizzato ad andare a Herat in quel modo, dipendeva<br />
molto dal suo umore e da come lo si riusciva a prendere.<br />
«Pronto? In questo momento sono molto di fretta, mi dica.»<br />
Già l’inizio della conversazione non prometteva bene.<br />
«Buongiorno consigliere, sono stato invitato dai colleghi americani del CSSP all’inaugurazione<br />
del carcere femminile di Herat, mi hanno proposto di andare con<br />
il loro volo militare, credo dovrei discuterne con lei.»<br />
«Come, scusi? Credo di non avere capito bene.»<br />
«Dicevo che sono stato invitato…»<br />
«Sì sì, questo l’ho capito, ma non ho capito come pensa di andare a Herat.»<br />
«Mi hanno proposto un passaggio sul loro volo militare.»<br />
«È fuori questione, se vuole andare deve farlo con un volo civile.»<br />
«Mi scusi, ma che problema c’è se vado con gli americani?»<br />
«Il problema è che non l’autorizziamo, molto semplice.»<br />
«Mi scusi, ma c’è un divieto esplicito per i civili italiani di salire su un volo militare<br />
USA?»<br />
«No, ma comunque è fuori questione, le ho detto. Mi scusi ma ora devo andare,<br />
ne riparliamo più tardi, arrivederci.»<br />
Come temeva l’impresa si faceva ardua, ma lui non avrebbe demorso tanto facilmente.<br />
Intanto occorreva prendere tutte le informazioni necessarie e studiare una<br />
strategia che potesse convincere il consigliere Franzoni a ricredersi e farlo partire.<br />
Ma come?<br />
La prima cosa da fare era riuscire a sapere quali tipologie di autorizzazione servivano<br />
agli americani e da dove partiva il volo militare. Anche se controvoglia, occorreva<br />
subito contattare i militari italiani per questa seconda informazione.<br />
«Pronto, capitano Mezzanotte?»<br />
«Chi lo cerca?»<br />
«Sono Giorgio Mazzoni, avrei bisogno di chiedergli una cortesia.»<br />
«Guardi che sta venendo al vostro compound, anzi dovrebbe già essere arrivato.»<br />
«Grazie, vado subito a cercarlo. Ah… capitano Mezzanotte?»<br />
«Sì, Mazzoni, mi dica.»<br />
«Lei per caso sa da dove partono i voli militari americani per Herat?»<br />
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«Mah, in genere dall’aeroporto militare di Bamiyan, che dista un’ora di strada da<br />
Kabul. Perché?»<br />
E di nuovo Giorgio è costretto, non certo per l’ultima volta, a spiegare la situazione.<br />
«Mi spiace, non possiamo aiutarla, non può andare all’aeroporto di Bamiyan, è<br />
troppo pericoloso.»<br />
«Ma è sicuro che i voli partano solo da lì?»<br />
«Certissimo.»<br />
Era già scoraggiato in partenza, ma non si dava per vinto. Infatti gli era venuta<br />
un’idea che forse lo avrebbe aiutato a partire con gli americani. Ma prima si voleva<br />
consultare con un paio di persone, tra cui Grazia, e il tempo era davvero poco per<br />
trovare una soluzione e far ripartire tutta la macchina per il verso giusto.<br />
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