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Dott. Luigi Pingitore - Rhymers' Club

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI<br />

“FEDERICO II”<br />

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA<br />

Corso Di Laurea In Lettere Moderne – Storia Del Cinema<br />

TESI DI LAUREA<br />

RELATORE<br />

Prof. Pasquale Iaccio<br />

CO-RELATORE<br />

Prof. Aurelio Lepre<br />

“PASOLINI: IL CINEMA DELLA POESIA”<br />

2<br />

CANDIDATO<br />

LUIGI PINGITORE


TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

ANNO ACCADEMICO 1998/1999<br />

SOMMARIO<br />

Introduzione, p. 4<br />

Capitolo I – La morte di Pasolini, p. 5<br />

Capitolo II – Tra cinema e poesia, p. 14<br />

Capitolo III – La realtà, p. 26<br />

Capitolo IV – Cinema di poesia, p. 33<br />

Capitolo V – Teorema, p. 40<br />

Capitolo VI – La civiltà dell’eros, p. 44<br />

Capitolo VII – La luce, alla fine, p. 49<br />

3


Introduzione<br />

TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Nei sette capitoli che compongono questa tesi ho cercato di mettere a fuoco, in maniera via via più<br />

progressiva, lo stretto rapporto che esiste in Pasolini tra il suo fare cinema e la sua natura poetica.<br />

Per realizzare questo è stato necessario addentrarsi sia all’interno della sterminata bibliografia<br />

critica esistente su Pasolini, tra la gran mole di articoli, saggi, monografie, e contributi critici<br />

stralciati da Internet; e sia all’interno della vita dello stesso, analizzandone i grandi slanci e le pause<br />

di riflessione o di abiura.<br />

E sempre di più, nell’avanzare, ho avuto la sensazione di addentrarmi all’interno di un imbuto;<br />

partito da una dimensione ampia ed estremamente dispersiva e costretto poi a procedere verso una<br />

zona finale, molto più stretta, nella quale tutte le ansie espressive di Pasolini sembrano aver trovato<br />

necessariamente una loro adeguata collocazione. E alla fine del quale si intravede un barlume di<br />

luce, quella luce finale che, secondo una definizione dello stesso Pasolini, è la morte essenziale,<br />

quella che permette di chiudere il cerchio ‘imperfetto’ di un’esistenza spesa a girare intorno agli<br />

stessi poli, attraverso un montaggio definitivo che pone fine al caos, assestandolo e tramandandolo<br />

ai posteri.<br />

Ecco perché l’ultimo capitolo ha quel titolo (La luce, alla fine), e perché comincia dove era iniziato<br />

anche il primo, (La morte di Pasolini), nel tentativo di ricreare quella circolarità che solo la morte<br />

ha spezzato.<br />

Ogni capitolo di questa tesi è una tappa all’interno dell’imbuto. Nel secondo (Tra cinema e poesia)<br />

si prendono in esame i rapporti esistenti fra i due linguaggi, quello del cinema e quello della poesia,<br />

utilizzati da Pasolini. Nel terzo (La realtà) viene esaminato quello che a detta di Pasolini fu il suo<br />

vero e unico idolo, dimostrando quanto il suo cinema e la sua poesia si influenzino a vicenda. Poi<br />

nel quarto e nel quinto (Cinema di poesia e Teorema) viene descritta la crisi di Pasolini e i suoi<br />

tentativi di risolverla creando un’osmosi fra i due linguaggi. Il sesto capitolo (La civiltà dell’eros) ci<br />

vede incastrati nel punto più stretto del collo dell’imbuto, laddove è impossibile tornare indietro o<br />

semplicemente voltarsi. È la stagione dei corpi, della Trilogia della Vita, dell’abiura, dei viaggi<br />

frenetici, del moltiplicarsi della propria voce e della grande negazione.<br />

E poi l’ultimo capitolo, quello dove la morte trova la sua consacrazione e, come già accaduto a<br />

molti, anziché sconfiggerlo ne suggella il destino e la memoria.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Capitolo I<br />

LA MORTE DI PASOLINI<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante<br />

scostato e l'altro nascosto dal corpo. I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte,<br />

escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nerolivide e<br />

rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La<br />

mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a meta', e<br />

quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segni degli<br />

pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un'orribile lacerazione tra il collo e<br />

la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore<br />

scoppiato" [perizia del medico legale che accertò la morte di Pasolini, comparsa sul 'Corriere della<br />

sera' il 2 novembre 1977].<br />

La morte di Pasolini rappresenta, paradossalmente, uno dei momenti più "vivi" di tutto il suo iter<br />

umano ed artistico. Per le caratteristiche di crudezza e di desolazione, di efferatezza ma anche di<br />

sinistra dolcezza, quella morte del 2 novembre 1975 diventa il più suggestivo e poetico suggello a<br />

cui la sua esistenza potesse aspirare. Non c’è nulla in quella morte, infatti, che non appartenga<br />

completamente a Pasolini e alla sua mitologia estetica: dal luogo in cui è avvenuta, l’idroscalo di<br />

Ostia, al protagonista del delitto (o presunto tale, visto che il processo ha emesso una condanna che<br />

a molti è sembrata poco definitiva): il ragazzino Piero Pelosi, diciassettenne della periferia romana,<br />

così fatalmente simile a quelle figure della borgata che Pasolini ha evocato e rappresentato<br />

plasticamente lungo l’arco di tutta la sua produzione. Fino, in conclusione, alla richiesta che c’era<br />

dietro quell’incontro tra Pasolini e il suo omicida.<br />

Un Pasolini spinto dai propri desideri carnali e fisici, incrocia la vita di un diciassettenne abbastanza<br />

povero. Il tramite per quell’incontro è una cena che Pasolini offre al ragazzo. Dunque i soldi come<br />

mezzo per arrivare ad un fine. Senza ombra di moralità, e senza, soprattutto, ombra di pietismo.<br />

Pasolini aveva bisogno di quel corpo, l’avrebbe comprato. Forse solo spiccioli di contraddizione.<br />

Soprattutto agli occhi di quanti, in più occasioni, avevano rimproverato a Pasolini questo approccio<br />

mercenario col sesso e con quella gioventù proletaria di cui lui si era fatto cantore e di cui<br />

testimoniava un'innocenza ‘angelica’. Ecco perché quella morte è così viva. Perché parla ancora per<br />

lui, chiede rispetto di una contraddizione che è pura complessità elevata a sistema di vita. E lo fa nei<br />

luoghi poetici della sua letteratura e del suo cinema.<br />

Difficile, in questo senso, non intendere la linea di drammatica e coerente fatalità che associa il<br />

vitalismo pasoliniano - e la sua massima realizzazione espressa dai modi dell’esperienza fisica e<br />

sessuale - all’impulso di morte cui carnalmente e simbolicamente si ricongiunge [Andrea Miconi,<br />

Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, Costa & Nolan 1998].<br />

Dunque la morte diventa soltanto un punto di partenza da cui cominciare un’analisi a ritroso, che<br />

ogni volta si scontrerà sempre con gli stessi termini, con quelle stesse auto-attribuzioni pasoliniane:<br />

concetti come coerenza e contraddizione che sembrano essere gli ideali confini che recintano la sua<br />

esistenza.<br />

La morte nasce perché chi l’ha trovata era alla ricerca soprattutto di vita. Perché il poeta si è recato<br />

fisicamente sui luoghi del proprio desiderio, guardandosi attorno, sgranando gli occhi nel buio pesto<br />

della solitudine artistica, per evitare magari quei rimpianti che hanno tormentato altre vite e altri<br />

poeti che non si sono bruciati al contatto. Per scavalcare Montale, che proprio in quegli anni, gli<br />

anni della consacrazione mondiale col Nobel, dichiarava una sua amarezza personale per aver<br />

vissuto soltanto al cinque per cento. Invece Pasolini volle uscire allo scoperto e viversi.<br />

Nel tempo ha costruito tutto se stesso; ora un’analisi critica dovrebbe imporsi dall’esterno e<br />

scandagliare quel corpo alla ricerca di qualcosa, una sorta di punto critico che possa servire da<br />

motore di ricerca. E questo punto c’è, presente nella sua produzione come in quella di ogni artista.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Probabilmente mentre Pasolini giaceva moribondo sotto il peso della sua Alfa GT, che il ragazzo si<br />

ostinava con ferocia ossessiva a passargli addosso, gli deve essere passata davanti agli occhi tutta la<br />

propria esistenza. E lui vi ha cercato un appiglio. Ed è esattamente lì che, come in un buco nero<br />

piccolo e inodore, l’intero monumento che egli ha costruito a se stesso, attraverso la mise en poème<br />

della propria esistenza, ha trovato un baricentro perfetto che contemporaneamente lo manteneva in<br />

piedi e lo avviava, anche, ad una lenta ed inesorabile implosione.<br />

Si tratta di pochi versi, una breve periodo, immagini strappate al corso di un film. In queste si<br />

esprime in una sublime perfezione l’intera vicenda artistica e umana di quell’esistenza. Quasi che<br />

uno scrittore non fosse altro che un meccanismo instabile, sempre sul punto di crollare sotto la<br />

pressione del proprio io ma che trova in quel punto il proprio perno d’equilibrio.<br />

Cercare questo punto è quasi inutile. L’autore andrà avanti nella convinzione che qualsiasi cosa<br />

scriva sia quel punto. E la critica ne individuerà sempre più di uno, o forse nessuno.<br />

Rimane comunque un'impresa inutile: è come cercare la verità, si sa che esiste ma dov’è?<br />

Una coltre di primule. Pecore<br />

controluce (metta, metta, Tonino,<br />

il cinquanta, non abbia paura<br />

che la luce sfondi - facciamo<br />

questo carrello contro natura!)<br />

L’erba fredda tiepida, gialla tenera,<br />

vecchia nuova - sull’acqua Santa.<br />

Pecore e pastore, un pezzo<br />

di Masaccio (provi col settantacinque,<br />

e carrello fino al primo piano).<br />

Primavera medioevale. Un santo eretico<br />

(chiamato bestemmia, dai compari.<br />

Sarà un magnaccia, al solito. Chiedere<br />

al dolente Leonetti consulenza<br />

su prostituzione Medioevo).<br />

Poi visione. La passione popolare<br />

(una infinita carrellata con Maria<br />

che avanza, chiedendo in umbro<br />

del figlio, cantando in umbro l’agonia).<br />

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“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

La primavera porta una coltre<br />

di erba dura tenerella, di primule...<br />

e l’atonia dei sensi mira alla libidine.<br />

Dopo la visione (gozzoviglie<br />

mortuarie, empie - di puttane),<br />

una "preghiera" negli ardenti prati.<br />

Puttane, magnaccia, ladri, contadini<br />

con le mani congiunte sotto la faccia<br />

(tutto con il cinquanta controluce)<br />

Girerò i più assolati Appennini.<br />

Quando gli Anni Sessanta<br />

saranno perduti come il Mille,<br />

e, il mio, sarà uno scheletro<br />

senza più neanche nostalgia per il mondo,<br />

cosa conterà la mia "vita privata",<br />

miseri scheletri senza vita<br />

né privata né pubblica, ricattatori,<br />

cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,<br />

sarò io, dopo la morte, in primavera<br />

a vincere la scommessa, nella furia<br />

del mio amore per l’Acqua Santa del sole.<br />

(23 aprile 1962)<br />

[P.P. Pasolini, Poesie mondane, Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964]<br />

Accettata l’idea che sia comunque mistificatorio credere di aver individuato quel punto, in Pasolini<br />

come in qualsiasi altro artista, ritengo che non sia difficile scorgere all’interno di questa poesia,<br />

alcuni elementi che hanno caratterizzato il passato letterario e che continueranno ad essere presenti<br />

in tutta la futura opera pasoliniana; elementi che, banalmente, si possono definire la spina dorsale di<br />

quel monumento che è il proprio ego messo in versi e descritto per immagini.<br />

Era il 1962, l’anno di Mamma Roma, suo secondo film, e Pasolini scrisse questa poesia,<br />

dimostrando quanto il cinema si fosse cristallizzato nella sua vita come forma stabile d’espressione.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Questi versi descrivono un viaggio (e il cinema, come disse Godard, è un viaggio fatto ad occhi<br />

chiusi). Lo descrivono attraverso lo sguardo di un obiettivo per macchina da presa, un cinquanta<br />

mm manovrato dal suo direttore della fotografia, Tonino Delli Colli - nome storico del cinema<br />

italiano - e proseguito poi a spasso per una campagna di pecore e primule. Così il mondo del cinema<br />

si bagna del contatto agreste e va in direzioni ambigue, contro la propria natura di macchina<br />

industriale, e seguita ancora più sconvolto e delirante verso gli scorci della pittura masaccesca:<br />

quegli scorci di luce e chiaroscuri, il Medioevo inteso come dimensione storica e dell’anima, dove<br />

tutte le passioni sono portate al loro massimo espandersi in un'altalena di Martirio e Scandalo.<br />

E alla fine compare la Madonna, che parla in dialetto, e avanza inquadrata come la prostituta<br />

Mamma Roma che canta l’agonia del figlio. La Visione di questa scena risveglia i sensi e scopre<br />

l’intera gamma di sensazioni del poeta, spaziando fra momenti di pura religiosità cristiana e quegli<br />

inferni quotidiani che imbevono le radici delle sue esperienze.<br />

In un unico quadro Maria dialoga con la luce e i pastori, le puttane, i ladri, il mondo della periferia<br />

romana e gli anni Sessanta, che ad un tratto vengono percepiti e catapultati verso il primo<br />

Millennio.<br />

E su tutto, sulla nostalgia verso il mondo che può provare solo chi sa di esserne lontano -<br />

osservatore e narratore -, domina l’io che si autoelegge Santo, confrontandosi con i pubblici<br />

ricattatori, gli aspersori di moralità e banalità addosso ai quali Pasolini getta la loro maschera per<br />

incamminarsi sulla strada del Martirio.<br />

Ecco cos’è quel punto: la possibilità sintetica di dire.<br />

Mentre alla critica toccherà subito aggiungere che per comprendere Pasolini una poesia non può<br />

essere sufficiente, anche se necessaria. Così come vedere tutti i suoi film, leggere le altre raccolte<br />

poetiche, sfogliare le sue pagine di saggistica, di semiotica e filologia, e approdare alle rive della<br />

sua letteratura esistenzial-marxista.<br />

È soprattutto necessario ricominciare da quella fine e da quella sua morte. Quando il 2 novembre<br />

del ‘75 viene trovato il suo cadavere sulla spiaggia di Ostia, gran parte della società borghese<br />

italiana tira un sospiro di sollievo. Quella società è un corpo che si è sbarazzato del virus, dell’uomo<br />

che per tanti anni ha affondato i propri sensi nelle coscienze irrigidite dell’uomo medio, fino a<br />

diventare un Cristo al contrario, qualcuno che si erge al di sopra della massa ma non per portare il<br />

solito bene, ma per spargere il male.<br />

Pasolini disse: "...io per borghesi non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria<br />

malattia..." [P.P. Pasolini, rubrica "Il Caos" n. 32, 6 agosto 1968 - ora in I dialoghi, Editori Riuniti<br />

1992].<br />

Utilizzò tutti i mezzi a sua disposizione, dalla semplice rubrica giornalistica alle raccolte di versi,<br />

fino ai lungometraggi, arroccandosi su posizioni sempre più personali e guardando con profondo e<br />

solitario disprezzo la vita media degli uomini, percepiti come ‘altro da sé’. E continuando a<br />

percorrere imperterrito un'unica strada che lo ha portato ad essere ciò che la società arginava in<br />

definizioni comunque semplicistiche: originale, provocatorio. Ma che restavano definizioni<br />

affibbiate unicamente a corpi che si guardavano da lontano, una volta che sono stati espulsi dal<br />

proprio tessuto e isolati in un eterno sottovetro.<br />

A ventitré anni da quella morte, Pasolini continua ad essere un artista e un intellettuale ancora<br />

attuale. Sia sul fronte letterario: sono del 1998, infatti, due polemiche che lo hanno visto<br />

involontariamente chiamato in causa. La prima lo ha visto contrapposto ad Italo Calvino, secondo<br />

un schematismo che li ha voluti divisi in due categorie divergenti: da una parte lo scrittore viscerale<br />

e dall’altra lo scrittore geometrico. La seconda polemica, come un’ondata che torna regolarmente a<br />

disturbare la tranquilla palude intellettuale, ha riproposto i suoi giudizi sul ‘68 e sui moti<br />

antiborghesi, su quella gioventù rivoluzionaria che lui condannò implacabilmente. Quella condanna<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

nata nei fermenti di una solitudine intellettuale morale, fu ascritta da molti al suo continuo furore e<br />

alla sua instancabile voglia di essere sempre e comunque contro. In realtà non bisognerebbe<br />

dimenticare che Pasolini non fu mai un vero comunista, (i suoi rapporti col PCI furono sempre<br />

conflittuali, e si incrinarono definitivamente nel 1949 quando fu espulso dal partito per indegnità<br />

morale), così come la sua ideologia non fu di stampo anarchico, e del marxismo intese soprattutto la<br />

visuale filosofica.<br />

Per intendere Pasolini non si può tralasciare il contrasto comunque insanabile che albergò in tutta la<br />

sua vita, e che egli, forse, non volle mai accettare fino in fondo: Pasolini era da un lato un<br />

intellettuale, che può esprimersi, in ogni sua presa di posizione, anche attraverso un uso negativo e<br />

distruttore della realtà. Ma dall’altro è un artista, e cioè una persona ha comunque bisogno di punti<br />

di riferimento formali per potersi esprimere, e quindi di affermazioni, costruzioni.<br />

E non andrebbe neanche tralasciato, soprattutto in uno scrittore che ha un rapporto così fisico col<br />

mondo e i suoi abitanti, il clima di violenza morale a cui fu sottoposto. I processi, ma soprattutto le<br />

critiche generaliste rivolte alle sue opere, (quelle di Asor Rosa ad esempio, che tacciò Pasolini di<br />

populismo, riscontrando nei suoi romanzi e nei suoi film l’incapacità di mantenersi ad un livello<br />

mentale realmente progressista e illuminato) gli sembrarono sempre una terribile ingiustizia.<br />

Pasolini d’altronde non era assolutamente perfetto. Viveva i suoi rancori, i suoi sensi di colpi, la<br />

propria omosessualità esibita come marchio e illuminazione, le sue contraddizioni... Ma poi<br />

rinnegava tutto questo in nome della possibilità di esprimere.<br />

Tale lacerazione, mai accettata, è alla base di quella che possiamo definire la natura utopistica di<br />

Pasolini. In fondo egli era soprattutto uno che sognava un tempo ‘bucolico’ impossibile da<br />

recuperare. E questo sogno, nato come sussurro nei primi versi dialettali della sua Casarsa, si<br />

amplificò da solo, nel tempo, cercò ovunque, divenne la sua forza e la sua debolezza. Durante la sua<br />

vita, durante l’escalation di gesti e pensieri che egli intese come semplice dimostrazione di sé e<br />

della propria ‘disperata vitalità’, Pasolini amplificò quell’urgenza di contatto con la propria natura<br />

primitiva arricchendola di strati - la visione ideologica e politica delle cose, le forme cercate e<br />

provate, il suo moralismo gridato dalle colonne dei giornali. E lo fece in un eterno gioco di<br />

contraddizioni, cercando di non soffocarla mai.<br />

Ma il risultato fu quello di essere un uomo perseguitato, a cui fu negato ciò che soprattutto egli<br />

chiedeva, di poter essere semplicemente se stesso, anche se diverso.<br />

Scrisse: "...la mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza..."<br />

[P.P. Pasolini, rubrica "Il Caos" n. 2, 11 gennaio 1969 - ora in I dialoghi, Editori Riuniti, 1992].<br />

Così la morte divenne un suggello suggestivo per entrambi: per la borghesia che avrebbe continuato<br />

la propria rituale moltiplicazione di generazione in generazione, e per il figlio cattivo che si<br />

consegnava a quella forma di approdo - che è la morte -, che egli da sempre e in tutti i modi ha<br />

desiderato, anche quando ad essa dava il nome di madre, di rosa o della vita.<br />

Oggi il mondo lo ricorda da più parti allo stesso modo, i suoi antichi nemici e detrattori, e i pochi<br />

amici ed estimatori, tutti uniti dallo stesso coro di sospiri che ne lamentano l’assenza, e intanto<br />

ammiccano, stringono i pugni perché nessuno più chiede dalle colonne del più grande quotidiano<br />

nazionale un pubblico processo a tutta la classe politica e dirigente. Oggi il mondo è<br />

quell’omologazione che Pasolini denunciava.<br />

Non è un caso che proprio le immagini di quella morte, le foto scattate al corpo massacrato e<br />

riportate dalla maggioranza dei quotidiani e delle riviste italiane, furono, secondo molti, lo<br />

spartiacque che segnò l’ingresso della civiltà in una nuova era, quella dell’immediatezza e della<br />

spettacolarizzazione delle immagini. Un altro modo per evadere dal passato, dunque, e per confluire<br />

in un’era di apocalittica fusione.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

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a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

E a Pasolini toccò anche questo compito. [Su questo argomento sono stati molti gli interventi: dai<br />

saggi del prof. Abruzzese che si è occupato del valore traumatizzante delle immagini ne<br />

L’immaginario collettivo, Einaudi 1989, all’articolo di Golini apparso su "L’Espresso"" n. 42 del<br />

1995, intitolato: Pasolini. Che cosa vive ancora?].<br />

È in questo contesto fortemente comunicativo e contemporaneamente predestinato che nasce il<br />

Pasolini regista. Il cinema diviene la forma espressiva che meglio riesce a cogliere quelli che sono i<br />

suoi spunti formali e concettuali, e creare quella simbiosi tra le due anime che lo agitano nel<br />

profondo.<br />

È il periodo in cui la contaminazione fra le forme dell’impegno civile e la simbiosi istintiva con gli<br />

scenari naturali dell’esperienza quotidiana condurrà a risultati ambigui ma spesso<br />

straordinariamente suggestivi [Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il<br />

linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998].<br />

Ma perché questo accada, il suo cinema ha bisogno, ad esempio, di un violento mutamento rispetto<br />

a quello precedente, e a certo cinema dei "padri". Questo mutamento avviene nel momento in cui<br />

Pasolini non crea barriere fra i vari sé di cui è composto, fra il Pasolini narratore, il Pasolini poeta e<br />

il Pasolini regista; ma, al contrario, cerca una sintesi fra poesia e cinema, fra linguaggio poetico e<br />

cinematografico.<br />

Dal 1961, anno del suo primo film, al 1975 anno della sua morte, le pagine migliori della sua<br />

produzione restano quelli scritte con inchiostro su tessuto di celluloide, e quelle scritte con<br />

dissolvenze e montaggi in asse, sulla carta del libro.<br />

Pasolini conierà il termine cinema di poesia [in P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972,<br />

n.d.r.]. È una definizione molto complessa. Ha cercato un’osmosi fra cinema e poesia, scavalcando<br />

il livello elementare delle complementarità più evidenti per tentare la ri-fondazione di un nuovo<br />

linguaggio. È riuscito a trovare nel cinema, nel suo cinema, quella quasi perfetta sintesi di<br />

sperimentazioni linguistiche, adesioni alla tradizione, travasi dalla vere radici della sua cultura - che<br />

era di impianto principalmente figurativo e religioso - rimestandole nel grande pentolone delle<br />

immagini e della recitazione.<br />

Ciò che altrove (nei romanzi, nella saggistica, nei versi giovanili) appare quasi parziale nella<br />

realizzazione espressiva trova, da quel momento in poi, una sua più stabile forza di comunicazione.<br />

La stessa energia investe il suo mondo poetico, che deviando dal percorso iniziale, quello diaristico<br />

dei primi anni (1942-1960), approda a una scrittura di sperimentazione e di maggiore compattezza.<br />

Dove la compattezza non è una qualità letteraria ma è alla base della scrittura; è la premessa della<br />

qualità.<br />

È chiaramente impossibile riuscire a delineare, in un'opera come questa, un a tutto tondo che<br />

permetta una comprensione reale di Pasolini e della sua ‘infinitudine’. La sua fluvialità e il suo<br />

essere ancor oggi un unicuum nel panorama intellettuale italiano del secondo Novecento rendono<br />

impossibile questo tipo di approccio totale - tale da riuscire a proiettare una luce completa e<br />

minuziosa su ogni aspetto della sua personalità artistica e umana.<br />

La critica si è sempre mossa su orizzonti precisi nell’indagare la figura di Pasolini, preferendo<br />

privilegiare zone ristrette di azione, per poi cercare, magari, gli agganci che queste zone<br />

mantengono con il resto della struttura poetica dell’uomo. Ma consapevoli di questo limite. Opere<br />

complete non ve ne sono, e laddove tradiscono nel titolo questa intenzione, risultano essere alla fine<br />

abbastanza frammentarie.<br />

D’altronde è sterminata la bibliografia su Pasolini. E sono divergenti anche gli spunti critici che su<br />

una stessa prospettiva hanno proposto quanti si sono avvicinati al mondo pasoliniano. Così, capita<br />

che nell’esame del suo cinema, ci si imbatta sovente in divergenze critiche, dovute alla natura<br />

fluviale del tessuto poetico che le caratterizza. Come si vedrà in seguito, il cinema di Pasolini è un<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

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cinema costruito a strati sovrapposti. Può capitare ad un certo punto di imbattersi nel termine<br />

borghesia, e allora si avrebbe la tentazione di deviare dal percorso iniziale, abbandonare la ricerca<br />

che si sta conducendo sul corpus filmico dell’autore, per rintracciare tutti quei fili sottilissimi e<br />

violenti che legavano i suoi pensieri a questo universo decadente e contemporaneo che fu la sua<br />

vera spina nel cranio; scoprendo poi l’intero universo che si nascondeva sotto gli strati superficiali<br />

del film in esame.<br />

Egli sapeva di essere scandaloso; ma ignorava il pericolo mortale che correva scandalizzando una<br />

classe come la borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti<br />

conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo [AA. VV., Pasolini: cronaca<br />

giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti 1971, pagina introduttiva redatta da A. Moravia].<br />

Basterebbe questo semplice spunto per allungarsi in centinaia di pagine alla ricerca, innanzitutto<br />

filologica, del termine borghesia (e la filologia era una grande passione pasoliniana), e da lì<br />

descriverne l’evoluzione nel corso dei secoli, le differenze concettuali che l’hanno marchiata,<br />

l’evoluzione dei suoi rapporti col mondo intellettuale e artistico, con il passaggio da una forma di<br />

sodalizio mecenatico a una visione contemporanea soffocante, dove il culto del prodotto ha<br />

declassato il ruolo dell’Arte nel mondo. E da qui giustificare in Pasolini il suo odio, totalmente<br />

ricambiato peraltro, come dimostrano gli innumerevoli processi e attacchi che egli subì. Poi si<br />

potrebbe cercare il filo rosso che unisce Pasolini a tutti quei suoi predecessori che hanno avuto<br />

rapporti conflittuali con la Storia e con le Istituzioni che la storia si ingegna a costruire; partendo<br />

proprio da quelli che lui ha spesso citato come esempi della sua vita: Rimbaud, Oscar Wilde, Dino<br />

Campana; i grandi furiosi del passato: Ariosto, Caravaggio, Villon... E nonostante questo non si<br />

riuscirebbe ad esaurire questo capitolo, peraltro marginale nell’intera vicenda pasoliniana.<br />

Ancora più difficile risulta riuscire a districarsi tra le innumerevoli formule e teorie critiche che<br />

hanno scandagliato l’opera di Pasolini. Se si pensa che il suo primo film, Accattone, è stato<br />

giudicato contemporaneamente, in quegli anni, secondo due prospettive completamente differenti.<br />

Da una parte, una certa critica l’ha ritenuto un frutto della tarda stagione neorealista. Da un’altra<br />

parte, altra critica ha voluto soprattutto metterne in luce gli aspetti innovativi, ad esempio l’aver<br />

assegnato ad un proletario, figlio della borgata umile e degradata di Roma, barlumi della coscienza<br />

poetica del suo Autore. E dunque mettendo in evidenza quello che sarebbe stato il motore principale<br />

della sua scoperta stilistica: la fusione fra Sguardo dell’autore e Sguardo del personaggio.<br />

In Pasolini c’è l’intrecciarsi di una molteplicità e di una vastità - sentita dallo stesso come necessità<br />

nel suo rapporto col mondo -, che è anche lo specchio dei mutamenti dell’Italia e del mondo<br />

occidentale in generale, nel corso dei decenni che si sono succeduti alla II guerra mondiale. Le ansie<br />

economiche, i nuovi scenari metropolitani, i topoi della cultura classica che si scontra con le<br />

panoramiche e le esigenze esplorative del nuovo, sono riflesse dal volto invecchiato di Pasolini che<br />

sembra portare sulla propria pelle i segni della crescita del mondo, e la sua contemporanea<br />

negazione.<br />

Ecco perché la scelta di uno studio che perimetra solo una certa zona della vita pasoliniana: per<br />

evitare di cadere in quel groviglio che è stata l’esistenza di Pasolini.<br />

Questa tesi è uno studio sul cinema e sulla poesia di Pasolini, nel momento in cui questo cinema e<br />

questa poesia non scorrono più solo su strade parallele ma anche convergenti. Vuole dimostrare in<br />

che modo i due orizzonti, poetico e cinematografico, risultino essere i suoi più congeniali, perché<br />

legati alla stessa radice<br />

1) descrizione ‘fotografica’ della realtà, con ampio riferimento alla sua cultura pittorica<br />

(nuovo neorealismo)<br />

2) descrizione filologica con ampio risalto al suo studio della ‘langue’<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

3) cultura e problema religioso - immagini blasfeme - sentimento di Sé<br />

4) sentimento della vita e dell’uomo - la realtà.<br />

E questi punti diventano anche, alla luce di quella che è stata la vita di Pasolini, vita estremamente<br />

contrabbandata in e dal pubblico, uno sguardo su tutta la sua figura. Uno sguardo sui due aspetti,<br />

intellettuale e umano, che hanno sempre camminato di pari passo.<br />

La sua ansia religiosa - studio dei Testi; reinterpretazione dei Testi in chiave marxista - il popolo<br />

sentito, in quanto umile, puro e pertanto religiosamente vissuto. La sua omosessualità è condizione<br />

di scandalo per gli altri perché crea diversità - almeno quanto diverso era Gesù in mezzo ai suoi<br />

contemporanei. Dunque la sua vita ha lo stesso destino - scandalo e martirio - la sua arte è la sua<br />

forza creatrice.<br />

Egli percepisce se stesso alla stregua di un santo, e allo stesso modo di questi diffonde una voce -<br />

non si arrende alla forza del proprio nichilismo e preferisce combatterlo con il Logos, con il senso<br />

di una voce densa e colta che deve affrontare tutto e tutti, la storia e l’umanità. Egli - che è di<br />

cultura decadente - non arriva al silenzio, o meglio ci arriva a suo modo, perché è il primo a<br />

rendersi conto della propria sconfitta - ma è un percorso fatto a denti stretti, quasi bestemmiando, è<br />

la sua voce fluviale e ininterrotta, trascinata sui quotidiani, nelle interviste televisive, nei processi<br />

subiti per tutta la vita, nelle opere che sembrano non bastargli mai e spaziano dal teatro alla<br />

letteratura in prosa e in versi, al cinema, alla saggistica e all’erudizione pura: questa voce è la sua<br />

forma di silenzio.<br />

Cioè Pasolini non è differente da quegli altri decadenti che, compresa la vita, contro di essa hanno<br />

innalzato un muro. Dostoevskij cercando la fede, Sartre rinnegandola, il suo amico Moravia<br />

tuffandosi nell’eros borghese, qualcuno suicidandosi, altri impazzendo.<br />

Pasolini nutriva l’ambizione di percorrere tutte queste strade. Non ci è riuscito, non fino in fondo.<br />

Questo tentato viaggio è testimoniato perfettamente dal suo cinema di poesia. La sua ansia di vita<br />

era la sua disperata vitalità.<br />

È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo in vita, manchiamo di senso, e il<br />

linguaggio della nostra vita... è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di<br />

significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita:<br />

ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi... e li mette in successione, facendo del nostro<br />

presente, infinito instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro<br />

stabile e certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile... Solo grazie alla morte, la nostra vita ci<br />

serve ad esprimerci [P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972].<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Capitolo II<br />

TRA CINEMA E POESIA:<br />

A) POESIA<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Bisogna partire sempre e comunque dal poeta. Non è un caso che alla sua morte, lo scrittore Alberto<br />

Moravia, uno dei suoi migliori amici, in un breve messaggio improvvisato sul luogo della tragedia<br />

disse: "Abbiamo perso soprattutto un poeta e di poeti non ce ne sono molti nel mondo, ne nascono<br />

tre o quattro in un secolo".<br />

La poesia era per Pasolini un tramite col mondo. Era una risposta da coltivare, nel corso del suo<br />

tempo, a quanto gli si opponeva e gli sbarrava lo sguardo. E così anche rispondendo dalle pagine<br />

dei vari quotidiani ai quali spesso collaborava, gli capitò di farlo attraverso un uso lucido della<br />

poesia, con quella sola lucidità permessa della poesia: la disperazione. Comporre versi per<br />

comunicare una propria idea o un proprio pensiero utilizzando il metro di una scansione emotivorazionale<br />

accumulata in strati di grande ferocia e odio. E l’esempio famoso, in tal senso, è la poesia<br />

da lui composta in occasione degli scontri fra polizia e studenti nel ‘68 a Valle Giulia. Ecco! in un<br />

momento storico estremamente vivo e polemico, Pasolini alza la propria voce e si fa interprete<br />

unicamente del proprio pensiero, senza cercare il facile appiglio di uno schematismo ideologico che<br />

in quegli anni vedeva gli studenti nel ruolo principale di vittime e dall’altra parte la polizia - e lo<br />

stato come simbolo del potere tout court - in quello contrario di oppressore. Anche in<br />

quell’occasione, il Pasolini cantore del proletariato, stupendo forse quanti da lui si aspettavano un<br />

atteggiamento diverso, esprime il proprio giudizio di condanna nei confronti degli studenti e lo fa<br />

con una celebre poesia, Il PCI ai giovani!!<br />

E risulta comunque singolare questa sua scelta di comunicare in versi. La poesia è da sempre<br />

un’arte elitaria, strumento per pochi, forma d’espressione più che di comunicazione. Invece Pasolini<br />

la vive esistenzialmente, la vive come suono del proprio io e quindi sostituisce quel suono alla<br />

propria voce. Lascia che sia la poesia a parlare per lui.<br />

Su Teorema, presentato in quel tumultuoso '68 alla mostra del cinema di Venezia, lo stesso Pasolini<br />

disse: Teorema è una poesia in forma di grido di disperazione... [Ivo Barnabò Micheli, Pier Paolo<br />

Pasolini - A futura memoria, film 1987]<br />

Ancora questa parola, con tutto quello che una semplice parola applicata al proprio sistema può<br />

esprimere. Ancora il credere che scrivere poesia significa sperare, sperare di poter dire tutto, molto<br />

di più di quanto si possa fare attraverso il cinema o la prosa. E questa era forse, inconsciamente, una<br />

vera e propria sfida: Perché se cinema e prosa hanno da sempre una specificità comunicativa, parte<br />

essenziale del loro patrimonio genetico, che li porta verso l’esterno con un immediatezza<br />

estremamente più diretta, e con una capacità penetrativa nell’immaginario collettivo che li assesta<br />

ad un livello più superficiale, la poesia, al contrario, emerge sempre da un rigurgito interiore<br />

estremamente irrazionale, da un momento di crisi, e si sviluppa proprio come tramite fra l’Io e<br />

questa crisi; è la sublimazione di questa crisi in immagini che riescono ad essere universali e<br />

comunicative solo se accettate in uno strato del proprio io più profondo.<br />

Il poeta, e per estensione l’uomo-costruttore, è un essere in perpetua crisi espressiva. La poesia<br />

sorgendo quindi da uno stato di tensione esistenziale e ideale, assorbe i contenuti, e finisce sempre<br />

per identificarsi con la crisi del linguaggio. Si giunge così a quell’affanno vitale, ove l’imprevisto<br />

della ricerca sconvolge ogni ragionamento [Arthur Rimbaud, Opere, Gian Piero Bona a cura di,<br />

Einaudi 1990: Era il 1939. Pasolini frequentava il secondo anno al liceo Galvani di Bologna, e un<br />

suo professore, Antonio Rinaldi, lesse in classe alcuni versi da Le Bateau Ivre di Rimbaud. Per<br />

Pasolini fu una folgorazione. Cominciò ad introdursi nel mondo della poesia e di lì a poco avrebbe<br />

scritto le sue prime liriche in dialetto friulano. E spesso, durante il corso della sua vita, Pasolini<br />

paragonò la propria vicenda esistenziale con quella del poeta francese. Soprattutto per quello che<br />

riguarda il proprio desiderio di libertà nel contesto della società borghese].<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Questo è stato detto a proposito di Rimbaud - un poeta che ha iniziato al mondo dell’arte (e all’arte<br />

del mondo) Pasolini. Questo vale per Rimbaud, vale per Pasolini, e per qualunque poeta.<br />

Pasolini negli anni del suo debutto cinematografico è all’interno di una rivoluzione violenta. Fuori,<br />

il mondo contadino e proletario si arrende di fronte all’avanzata del nuovo, dell’economicamente<br />

utile. Gli studenti scendono in piazza e gridano, inscenando la nuova rivoluzione. Per Pasolini fare<br />

un film significherà quasi sempre andare incontro ad un processo (e questo è un altro capitolo a sé<br />

dell’universo pasoliniano: la quantità di processi da lui subiti è esemplificativa del suo rapporto di<br />

scontro con la realtà, ma anche della sua ossessione di essere icasticamente accettato come un<br />

martire della nuova civiltà occidentale, al pari di San Paolo per esempio). Gli attacchi gli giungono<br />

da ogni parte. È qualcosa che tenta di castrare la sua voce, allora la sua voce si moltiplica. I versi<br />

proliferano, succedono le immagini, la prosa, il teatro... eppure è lo stesso Pasolini ad avvertire in<br />

tutto questo un senso di stanchezza: Vorrei esprimermi con gli esempi, gettare il mio corpo nella<br />

lotta. Forse l’arte davvero non basta più. Bisogna ogni volta inventare di più, scrivere un altro verso<br />

in risposta ad un'altra calunnia, o ad un semplice equivoco su qualche sua espressione. L’edificio da<br />

lui messo in piedi è troppo complesso perché possa essere interamente compreso. Chi comunica<br />

cerca soprattutto orecchie a cui far giungere la propria voce. E la sua verve polemica non gli<br />

consentiva di sorvolare sulle sviste e sulle incomprensione. Pasolini si era chiuso in un angolo.<br />

Probabilmente da sempre, da quando ragazzino scrisse i primi versi in friulano. Ma il tempo gli ha<br />

portato lentamente più occhi da guardare, più nemici da controllare, e meno speranza da opporre a<br />

chi lo stringeva in quell’angolo. E fu lui stesso ad avvertire questa sua visione apocalittica della<br />

realtà.<br />

Siamo alla fine degli anni '50: La morte non è nel non poter comunicare - disse - ma nel non poter<br />

più essere compresi...<br />

Pasolini ha bisogno di qualcos’altro. Quello che gli serve non è cambiare la tecnica letteraria ma la<br />

lingua. Un'altra lingua, in fondo, è solo un’altra forma di protesta. Nasce il poeta-regista.<br />

Se fosse possibile definire la natura di Pasolini, probabilmente bisognerebbe ricorrere ad un termine<br />

come sinfonica. Era cioè, la sua, una natura in cui si incontravano una molteplicità di voci e di<br />

interessi, che nell’ansia di verità da lui sempre cercata, finivano per creare più contraddizione che<br />

risoluzione. Avevano come esito una mancata unità, un proliferare della scissione. E questo senso di<br />

dispersione era avvertito dallo stesso Pasolini, che finì per indentificarvi la propria radice<br />

esistenziale.<br />

E quindi ne scrisse. In versi per esempio:<br />

... lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/ con te e contro te; con te nel cuore,/ in luce, con te<br />

nelle buie viscere... [P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Bestemmia, Garzanti 1995]<br />

Eppure tutto questo non basta: la contraddizione è un essere pericoloso che risale le sorgenti del<br />

proprio divenire per cercarne la fonte o il meccanismo primo. E invece vi trova l’impossibilità.<br />

Allora comincia a gridare e nell’ascolto del proprio grido percepisce il desiderio di un grido<br />

maggiore, più forte e rauco e traumatico del precedente; e anche più consolatorio, che dia pace. Ma<br />

non accade.<br />

Pasolini era sicuramente al corrente di questa impossibilità, ma come è stato notato da qualcuno,<br />

non spinse fino in fondo il pedale della propria follia per precipitarci dentro. Si accontentò di vivere<br />

la propria schizofrenia, diviso in due fra un'immagine di intellettuale scandaloso e pubblico, che è<br />

dentro le cose perché le guarda e le descrive. E l’uomo privato, sempre sul punto di venir fuori in<br />

maniera prepotente e invece, paradossalmente, ogni volta rimandato indietro da quell’opera in più<br />

che, l’intellettuale, nel frattempo imbastiva. È questo il vero nucleo della contraddizione<br />

pasoliniana. Che lui cercava nella quantità di opere una possibilità totale di espressione, e invece in<br />

quella quantità trovava il limite ultimo.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

La cosa più importante che Pasolini avrebbe potuto dare ai suoi contemporanei sarebbe stata il<br />

suo diario. Esprimere la realtà dei suoi traumi psichici, esprimere il dramma del suo impatto con<br />

la vita, mostrare cosa vedeva questo agnello francescano nel popolo astorico, feroce e innocente.<br />

Esprimerlo dal di dentro, con i particolari: questa sarebbe stata tridimensionalità, che avrebbe<br />

fatto vivere quella materia piatta che sono i ragazzi di vita nei suoi romanzi. Ne sarebbero stati<br />

coinvolti tutti, perché è un dramma di tutti. Sarebbe stata una buona occasione per l’intellettuale<br />

italiano di recidere la barriera artificiosa tra esistenzialità e impegno, tra soggettività e<br />

oggettività. Per mescolarsi nella vita, ma direttamente, portandosi dietro tutto se stesso, non<br />

facendo finta di non esserci. [AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Kaos-Gammalibri, Milano<br />

1976. Già apparso sul n. 7 della rivista letteraria “Salvo imprevisti”.]<br />

Quando arriva al cinema, Pasolini scopre una nuova possibilità: la sintesi. L’immagine diviene il<br />

medium espressivo che meglio riesce ad arginare la sua forte dispersività, fino a raggiungere uno<br />

stadio di maggiore compattezza, dove si unificano e livellano i diversi piani su cui di solito lavora.<br />

Era ciò che cercava. La sua polemica con la realtà trovava un nuovo fronte d’attacco. Ed era<br />

probabilmente anche quello che davvero gli serviva.<br />

La dispersione che lo costringeva a scrivere versi su versi, ad iniziare romanzi che non portava a<br />

termine (le prime redazione di Atti impuri e Amado mio furono lasciati inediti e pubblicati solo<br />

dopo la sua morte, nel 1982), a cimentarsi nella tragedia in versi, si arresta di fronte alla nuova<br />

lingua. Le immagini diventano un contenitore dove le sue contraddizioni continue, le sue ansie<br />

‘mistiche’ e popolari, i suoi bisogni ‘intellettuali’ e le sue urgenze sessuali, riescono ad amalgamarsi<br />

in una fusione quasi stabile.<br />

Tutto questo non cancella quanto detto prima, a proposito di quella fortissima contraddizione del<br />

proprio percepirsi, ma sicuramente nella nuovo langue che egli impara a coniare, una sintesi<br />

violenta di cinema e poesia, Pasolini fa grandi passi in avanti.<br />

Quello che era l’espandersi e il dilagare, caratteristico della sua poesia - non a caso la predilezione<br />

di Pasolini è per poesie lunghe, quasi dei poemetti - nel cinema scompare progressivamente. (E<br />

anche il suo ultimo romanzo - Petrolio, incompiuto, porta i segni di questa trasformazione. È un<br />

romanzo visivo, scritto per immagini, organizzato per microcapitoli. Come una sceneggiatura.)<br />

Nel 1957 Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci. Mancano pochi anni al suo primo film,<br />

nonostante già lavori da tempo come sceneggiatore. In questa raccolta poetica predomina la forma<br />

del diario in versi. Pasolini imbastisce dei poemetti fatti per metabolizzare la realtà e descrivere<br />

situazioni anomale nel panorama della poesia. La sua poesia diventa sempre più prosa in versi e si<br />

allunga in descrizioni di descrizioni. Se si pensa che l’Italia poetica d’inizio secolo era quella di<br />

Montale e di Ungaretti, scrittori che cercavano nella singola parola la possibilità di dire tutto e di<br />

esprimersi, si comprende quale sia l’ulteriore stacco fra Pasolini e il resto.<br />

E in effetti la contemporaneità gli andava stretta, perché le sue radici sono nel mito classico-pagano<br />

della natura greca. È lì che Pasolini si cerca. Mentre il Novecento è: da una parte Montale con le sue<br />

atmosfere ermetiche, dall’altra Ungaretti all’insegna dei due versi. Così pure Saba. E gli anni '60<br />

che vedono il formarsi del gruppo ‘63, propugnatori dell’avanguardia stilistica.<br />

Nel 1961 Pasolini scrive La Persecuzione [P.P. Pasolini, La persecuzione, Poesia in forma di rosa,<br />

ed. Garzanti 1964] prendendo spunto da un semplice avvenimento quotidiano, la descrizione di un<br />

pomeriggio passato in un bar di periferia, si dilunga per otto pagine e 64 terzine, nel tentativo di<br />

creare un affresco aperto che fagociti tutto il possibile reale. Si immerge nelle atmosfere della sera<br />

romana, densa di voci volti e persone, in una luce crepuscolare che lentamente scende sul mondo, e<br />

apre un discorso con la propria esistenza. Discorso aperto, tendenzialmente infinito. Quindi<br />

incompleto. E contraddittorio. In fondo è un leit motiv che si ripete. Le solite ansie di Pasolini: il<br />

mondo che si trasforma, la perdita dell’innocenza, il senso di esclusività - per cui egli è da solo a<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

percepire questa catastrofe e da solo la porta con sé quando risale in macchina e si allontana per le<br />

strade della sua Roma, pomeriggio di ferragosto...<br />

Ecco che la poesia, in questo senso, non placa Pasolini. Gioca con lui in questo cerchio infinito,<br />

dove sembra possibile sempre aggiungere un’altra parola, e poi un’altra, e un’altra ancora, per<br />

ritrovarsi magari al punto di partenza.<br />

Invece è nel cinema che Pasolini perverrà ad una prima e importante novità. Il cinema di Pasolini<br />

riesce ad essere sintetico. Assieme a questa c’è una seconda novità, anch’essa importante se si<br />

considera l’iter da isolato che lo contraddistingue in qualsiasi campo in cui opera. Pasolini è un<br />

regista ‘contemporaneo’ nella misura in cui accetta e prosegue una certa tradizione cinematografica.<br />

Alla maggior parte della critica del tempo, il suo primo film, Accattone.(1961), è sembrato un tardo<br />

prodotto neorealista. Un frutto di quella che è considerata la più prolifica e importante stagione del<br />

cinema italiano. E in effetti la descrizione realistica degli ambienti e dei personaggi è figlia del<br />

neorealismo. Lo sguardo della macchina da presa aderisce al punto di vista della storia, vaga per le<br />

strade, si serve di attori presi da quelle strade, parla nel loro dialetto e conosce quel tipo di miseria.<br />

Ma già in questo suo primo film, come nella figura del protagonista, sono presenti quegli elementi<br />

che diventeranno sempre più evidenti nel corso del suo lavoro: la necessità di elaborare una propria<br />

idea di cinema, di utilizzare il patrimonio di regole e stili fin qui messi in atto, per arrivare ad una<br />

visione più personale ed espressivamente efficace. È questo il clima intellettuale in cui nasce la sua<br />

idea di cinema. Allora non è esagerato, da questo punto di vista, dire che Pasolini ha operato sul<br />

film, allo stesso modo dei grandi teorici del passato: Eisenstein, Pudovkin o Dovzenko. Si è servito<br />

di tutto il patrimonio che aveva a disposizione e su di esso ha costruito le proprie nuove regole.<br />

Se poi la fortuna di un autore si misura anche nella capacità che ha, volontariamente o<br />

involontariamente, di creare una sorta di scuola alla quale partecipano adepti al culto stilistico del<br />

"maestro", bisogna dire che proprio in questi anni il cinema di poesia pasoliniano è ritornato in<br />

auge. È accaduto esattamente in Danimarca, dove alcuni registi, su tutti Lars Von Trier e Thomas<br />

Vittenberg, nel 1995 si sono riuniti e hanno deciso di proclamare un manifesto estetico comune<br />

chiamato 'Dogme 95". Tale manifesto è composto da alcune semplici regole che ricalcano quasi alla<br />

lettera le impostazioni che Pasolini utilizzò nella stesura del suo manifesto cinematografico. È<br />

curioso che questo avvenga proprio con un autore come Pasolini: innanzitutto perché egli fu un<br />

regista spurio; proveniva dall’ambiente letterario e si avvicinò solo più tardi al cinema (aveva 39<br />

anni all’uscita del suo primo film). Lavorò da letterato anche sul cinema, stilando teorie critiche e<br />

regole di inquadratura. Era, insomma, un autore estremamente particolare.<br />

Eppure basta accostare i due manifesti per scoprire quante similitudini ci siano.<br />

Dogme 95<br />

- Le riprese dovranno aver luogo in esterni. Scenografie ed accessori non possono essere<br />

aggiunti.<br />

- Il sonoro non deve mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa.<br />

- La macchina da presa dev’essere tenuta a spalla. Ogni movimento o immobilità fattibile<br />

a spalla è concessa.<br />

Queste sono le prime tre regole stilate dai cineasti danesi. A pag. 185 di Empirismo eretico, il testo<br />

in cui ha raccolto sistematicamente le sue idee sul cinema, Pasolini dice qualcosa di assai simile:<br />

... i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di<br />

macchina a mano... le immobilità interminabili su una stessa immagine...<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

E poche righe più avanti Pasolini afferma che questo nuovo modo di fare cinema è già divenuto un<br />

patrimonio espressivo comune a parecchie cinematografie, sia europee che mondiali, con differenze<br />

che derivano dalle diverse condizioni socio-politico-culturali in cui viene elaborato. Pasolini<br />

conosceva il lavoro dei cineasti della Nouvelle Vague francese, il nuovo cinema cecoslovacco o<br />

brasiliano, sapeva che i registi di questi paesi lavoravano su un clima stilistico fatto di regole assai<br />

simili. E che la differenza stava nel contesto in cui i singoli registi operavano.<br />

Stesso discorso vale dunque anche per i contemporanei del 'Dogma'. Pasolini, non ha creato seguaci<br />

- come si vedrà in seguito -, ma ha contribuito al rinnovamento lessicale della settima arte.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Capitolo II<br />

TRA CINEMA E POESIA:<br />

B) CINEMA<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

I film di Pasolini sono stati sommariamente racchiusi in alcune brevi categorie che la critica ha<br />

utilizzato per studiare le analogie e i rapporti che si rincorrono in ogni opera.<br />

La maggioranza dei critici tende a dividere il mondo filmico pasoliniano in tre sezioni: nella prima<br />

sezione confluiscono i film compresi fra Accattone e il Vangelo. E sono i cosiddetti film del sacro.<br />

Uccellacci e uccellini è il momento di passaggio e di cesura dal cinema del sacro al cinema di<br />

poesia, che va da Edipo re a Porcile. Il cinema dei popoli lontani, terza sezione, va da Medea a Il<br />

fiore delle Mille e una notte. E infine, un film e una categoria a sé stante, il presente - come orrore e<br />

morte - costituito da Salò. [Questa suddivisione è stata adottata ad esempio da Adelio Ferrero, Il<br />

cinema di Pasolini, Marsilio 1994.]<br />

In realtà, come vedremo, queste categorie sono abbastanza permeabili e consentono passaggi<br />

continui. In effetti già Accattone, il suo primo film, è un esempio compiuto di cinema di poesia. E<br />

la prima sezione, oltreché contenere i film del sacro, può ugualmente esser denominata: della realtà<br />

In questa sezione confluiscono i film che vanno dal 1961 al 1966: Accattone, Mamma Roma, La<br />

ricotta, La rabbia, Comizi d’amore, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini. Inoltre, in<br />

questo periodo Pasolini girò anche un documentario in Palestina dove avrebbe dovuto ambientare il<br />

film sul Vangelo. Il lavoro fu poi misconosciuto dall’autore che non gli dedicò molte attenzioni;<br />

quel suo viaggio nei luoghi sacri della tradizione cristiana fu assai deludente. Pasolini era ansioso di<br />

ritrovare quei volti e quei passaggi che avevano da sempre fertilizzato la sua fantasia religiosa e la<br />

sua idea di Visione. Ma l’Israele e la Giordania moderni non contraccambiarono le sue attese, anzi.<br />

Pasolini si convinse sempre di più che solo il Meridione italiano poteva essere ancora quella terra<br />

arcaica che stava cercando. Per queste ragioni, forse, il suo glissare su questo lavoro: ... il materiale<br />

non era neanche montato... non ho avuto tempo di scrivere neanche il commento, siamo andati<br />

nella saletta di doppiaggio e man mano che quel materiale mi passava davanti agli occhi, mi<br />

improvvisavo speaker. Ecco tutto quello che posso dire a proposito di questi Sopralluoghi in<br />

Palestina. [Oliver Stack, Pasolini on Pasolini, Thames and Hudson, London.]<br />

La seconda sezione comprende i film del biennio 1968-1970: La terra vista dalla luna,.Edipo re,<br />

Che cosa sono le nuvole?, Teorema, La sequenza del fiore di carta, Porcile e Medea. Anche in<br />

questo periodo Pasolini gira alcuni documentari: il primo in India e il secondo in Africa. Il primo,<br />

commissionatogli dalla Rai, doveva servire per un lungo film inchiesta sulla cultura religiosa e<br />

materialistica indiana. Ma il progetto non andò mai oltre, dal punto di vista filmico, a questo<br />

reportage. Ma la suggestione di quei luoghi fu talmente forte da stratificarsi permanentemente sia in<br />

lui che in Moravia e confluì qualche anno dopo in un libro [P.P. Pasolini, L’odore dell’India,<br />

Guanda 1990]. E anche il suo cinema futuro fu assai influenzato da quel viaggio, Pasolini<br />

cominciava ad interessarsi alle scenografie naturali dell’Oriente. Il secondo documentario era un<br />

prologo al progetto di un Orestiade africana.<br />

Sono questi i film della nuova formulazione linguistica, in cui l’autore raggiunse un’armonia<br />

formale molto più solida rispetto ai precedenti lavori. Sono i film a cavallo del '68, anno cruciale<br />

per la società borghese del secolo. E sono i film a cavallo di Teorema che, a mio avviso, rappresenta<br />

il momento centrale di tutta la sua carriera registica. E non tanto per quanto riguarda gli esiti estetici<br />

che sono sempre opinabili, ma soprattutto perché Teorema è uno specchio fedele di tutto il suo<br />

cinema.<br />

A cominciare dal titolo, in cui è espressa la necessità di formulare una teoria estetica da anteporre al<br />

lavoro sul set e di ricorrere ai meccanismi magici e alchemici della geometria.<br />

Il cinema di Pasolini è sempre stato un cinema estremamente geometrico, che non rinuncia mai alle<br />

sovrapposizione, alle simmetrie, agli schemi. Le immagini si rifanno alla grande Figurativa<br />

medioevale e rinascimentale. Ne studiano la prospettiva e il contorno cercando di riprodurli e<br />

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TESI<br />

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reinterpretarli. Ed è inoltre, il suo, il cinema teorico per eccellenza: si appoggia ad uno studio<br />

preparatorio che le immagini dovrebbero sviluppare e sciogliere nelle soluzioni formali.<br />

Inoltre Teorema è il film del '68; fu presentato a quella famosa e turbolenta edizione del Festival di<br />

Venezia, in cui un gruppo di autori, e fra questi il Nostro, occupò una parte del palazzo per<br />

protestare contro il vetusto regolamento della Biennale, di stampo fascista, che privilegiava l’idea di<br />

concorso e quindi di premiazione, a quello più moderno e culturalmente soddisfacente di rassegna.<br />

Teorema è anche il film dell’ennesimo processo; forse neanche troppo diverso dai tanti altri che<br />

l’hanno visto salire sul banco degli imputati, ma che arriva al culmine della crisi personale di<br />

Pasolini, crisi umana e anche intellettuale. E qualcosa dentro di lui comincia a franare. Germogliano<br />

le abiure, si cancella la speranza. La sua anarchia si fa apocalittica, il suo rifiuto avvolge ogni<br />

aspetto della contemporaneità. La disperata vitalità sembra essere ormai solo disperazione. I film<br />

successivi, quelli degli ultimi cinque anni di vita, nascono da questo terreno.<br />

Pasolini si sentiva marchiato a fuoco dall’infamia di tutto un regime. Si sentì solo, abbandonato<br />

dagli intellettuali che avrebbe voluto solidali, abbandonato dall’opinione pubblica che anzi, in più<br />

occasioni lo tacciò di incoerenza perché alla fine egli aveva accettato di proiettare Teorema a quel<br />

Festival che aveva contestato. E tra l’altro da quel Festival era stato anche insignito del premio<br />

OCIC (il gran prix dell'Office Catholique international du cinema) e col nuovo capitolo del suo iter<br />

giudiziario. [Il film fu prima sequestrato per oscenità il 13 settembre 1968 e poi assolto per<br />

l’insussitenza del fatto il 23 novembre dello stesso anno.]<br />

Teorema è il film-centro, il film-summa, quello che riesce a presentarsi meglio di altri come<br />

sistemazione esaustiva delle sue intenzioni espressive. È un film citazionistico, intenso e al limite.<br />

Esprime quella trasversalità che caratterizzava da sempre le sue rappresentazioni: non è un caso che<br />

l’idea base del film abbia attraversato la mente di Pasolini in ogni forma: nasce come tragedia in<br />

versi, si sviluppa come romanzo, diventa un film.<br />

Il terzo gruppo di opere comprende quelle della cosiddetta Trilogia della Vita: Il Decameron, I<br />

racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte. Un breve documentario intitolato Le mura di<br />

Sana’a, e il suo ultimo lungometraggio, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Sono i film degli ultimi<br />

cinque anni di vita.<br />

Dunque Accattone-Teorema-Salò, ideale spina dorsale del cinema pasoliniano.<br />

La storia di Pasolini regista comincia nel pieno rispetto della grande tradizione cinematografica<br />

italiana. Nonostante la sua immagine pubblica di corsaro, difficilmente si troverà un artista capace<br />

di adeguarsi alla storia, miscelando con tanto equilibrio antico e moderno, innestando su un tessuto<br />

formativo essenzialmente classico le spinte eversive della sua personalità.<br />

Siamo nel 1961, la stagione neorealista è finita da tempo, sono anni densissimi di esordi: basti<br />

pensare a registi come Antonioni, Olmi, Bellocchio, i fratelli Taviani, Ferreri, Fellini (che aveva<br />

cominciato qualche anno prima ma che da La dolce vita in poi trova la sua consacrazione<br />

definitiva). Ognuno di questi autori portò nel lavoro un bagaglio espressivo assai personale che<br />

preferiva riallacciarsi trasversalmente a tutto il cinema mondiale, anziché privilegiare una<br />

specificità nazionale e culturale. In qualche modo gli esordi del '60 portarono alla luce una<br />

generazione di cineasti che guardava a tutto il cinema, e non soltanto alla tradizione più prossima<br />

del proprio paese.<br />

Solo quando fu proiettato Accattone, alla mostra del cinema di Venezia di quell’anno, la<br />

maggioranza dei critici notò quanto quel film fosse diretta conseguenza della stagione neorealista.<br />

Parente prossimo di film come Germania anno zero di Rossellini, o La terra trema di Visconti,<br />

con i quale mantiene un rapporto di contiguità: una serie di elementi comuni, che vanno dall’uso di<br />

attori non professionisti presi dalla strada, all’abitudine di girare soprattutto in esterni sui veri<br />

luoghi dell’azione, all’utilizzo di una fotografia sgranata ed efficacemente realista, fanno sì che<br />

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Accattone possa essere definito un tardo prodotto di quel periodo. Ma è chiaro che si tratta di un<br />

analisi puramente esteriore. Già nell’uso comune degli attori non professionisti emerge quella<br />

specificità dello sguardo poetico che differenzia Pasolini da tutti gli esempi sopra citati.<br />

La ricerca dell'attore è la cosa che più mi prende perché in quel momento io verifico se le mie<br />

ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde<br />

effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di giovani attori, che<br />

siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po' incerti e un po' buffi, non cerco i giovani<br />

attori appena usciti dall'Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece<br />

vivono in una borgata di periferia e sono realmente cosi'! Più semplicemente vado appunto in una<br />

borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando<br />

invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all'attore<br />

professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile. [G. Bachman e D. Gallo,<br />

Pasolini: ultima conversazione, intervista pubblicata su “Filmcritica” n. 256, Roma, agosto 1975.]<br />

E da qui comincia la vera rivoluzione stilistica di Pasolini; e cioè, innestando su un tessuto così<br />

bene ancorato al passato della nostra cinematografia un discorso pienamente personale, autoriale ed<br />

estremamente complesso. Il neorealismo è solo lo spunto di base per trascendere al di là di esso.<br />

Come in altre occasioni, la tradizione per Pasolini è più un punto di partenza che d’approdo. È un<br />

modello formativo piuttosto che uno sbocco.<br />

Accattone in realtà è un film tragedia, nel senso in cui veniva concepita la tragedia classica; nel<br />

modo in cui viene recuperato il teatro classico greco e da lì utilizzato per descrivere un viaggio di<br />

iniziazione verso la morte.<br />

Gli ambienti neorealisti ci raccontano non più il presente, la cronaca spietata della guerra e della<br />

ricostruzione, ma il passato. Quel passato eterno che è l’esistenza nuda e cruda, al di là delle<br />

categorie sociologiche o antropologiche che nei secoli l’hanno accerchiata.. L’esistenza come<br />

rapporto diretto col proprio destino, e dunque con la fine. E lo fanno sfruttando tutti gli stilemi della<br />

classicità greca. Il personaggio di Accattone diviene emblematicamente l’icona del destino,<br />

quell’idea di vita che attraversa gli avvenimenti quasi trainata a forza da un’invisibile e oscura<br />

malia. L’approdo di questo viaggio è la conclusione della vita. Tutto ciò che lo circonda è utilizzato<br />

da Pasolini come tentativo di dare dei segnali d’avvertimento al suo eroe, ma ad Accattone manca<br />

l’elemento sintetico dell’esperienza: la coscienza (ecco che su un intreccio greco-moderno si innesta<br />

una nuova traccia, il problema della coscienza della realtà. Un problema ideologico, dal momento<br />

che Pasolini ha sempre rivendicato la necessità marxista di ‘presa di coscienza’)<br />

Il destino di Accattone è segnato, ma poiché egli non ne può avere una coscienza lucida e perfetta –<br />

tale da permettergli un minimo scarto e una possibilità di correzione -, ecco che su di lui agiscono i<br />

segnali dell’inconscio. Accattone sogna il proprio funerale. Accattone sfida la morte gettandosi nel<br />

Tevere. E lo fa dando spettacolo a quanti accorrono sul luogo per osservarlo, poiché la vita è uno<br />

spettacolo che gli altri osservano. Poiché ci si rappresenta, costantemente. Una sorta di teatro nel<br />

teatro. Pasolini gioca con se stesso e con le proprie contraddizioni: cultura moderna, decadente ed<br />

ottocentesca, descrittiva ed egotica, all’interno della rappresentazione distesa e classica di stampo<br />

greco.<br />

Il tuffo per lui non è altro che un rito primitivo e propiziatorio, attraverso il quale avvicinarsi alla<br />

vita, poiché non sa che il suo destino ha intrecciato una corsa irresistibile verso la morte. Attorno a<br />

lui il gruppo di amici perennemente seduti al bar commenta le sue avventure, assolvendo alla<br />

funzione del coro nel teatro classico.<br />

E questo è un nuovo elemento di contiguità col presente che viene ribaltato nel momento stesso in<br />

cui viene presentato. Questi amici della borgata, seduti al caffè a perdere tempo e a spettegolare su<br />

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tutto, sono figli del coro greco, ma potrebbero benissimo essere un’altra razza di vitelloni felliniani.<br />

Gente seduta, che parla, fantastica, sogna, organizza. E fa pochissimo.<br />

E d’altronde la storia registica di Pasolini si intreccia spesso in questi primi tempi con quella di<br />

Fellini. Fellini avrebbe dovuto essere il suo primo produttore, conosceva personalmente Pasolini<br />

che lo aveva aiutato nella stesura dei dialoghi in romanesco del suo film Le notti di Cabiria. Gli<br />

diede i mezzi per cominciare il suo primo lavoro, ma dopo appena una settima di girato e dopo aver<br />

visionato i giornalieri, decise che Pasolini non era in grado di fare un film e stracciò il contratto di<br />

produzione. Pasolini disperato si rivolse altrove e trovò il produttore Bini e il direttore della<br />

fotografia Tonino delli Colli che lo aiutarono nella realizzazione di Accattone. In seguito Pasolini si<br />

trovò spesso a competere in rassegne cinematografiche dove erano presenti anche opere felliniane.<br />

E lui soffrì sempre del fatto che la critica dedicasse molta più attenzione al collega.<br />

Per Pasolini quei film erano troppo leggeri. E ne La ricotta trova una definizione perfetta per<br />

decifrare il suo rapporto col collega. Un giornalista si avvicina ad Orson Welles per fargli delle<br />

domande. Welles nella pausa di lavorazione del suo film sta leggendo alcuni versi tratti Poesia in<br />

forma di Rosa. E quando il giornalista gli chiede cosa ne pensa di Fellini risponde, fingendo di<br />

pensarci: "Egli danza, sì egli danza..."<br />

Questo episodio aiuta a comprendere in qualche modo la marginalità in cui si trovò sempre ad<br />

operare Pasolini. Dal momento che egli, al contrario di tanti suoi colleghi, non agì mai sul presente.<br />

Ma solo sul passato (la sua cultura) e sul futuro (le sue intuizioni-visioni, le sue necessità). La stessa<br />

emarginazione divenne, però, anche la sua arma. Pasolini capì la necessità di trovare uno stile-guida<br />

attraverso il quale ‘giustificare’ il proprio lavoro.<br />

E non è un caso se molti dei registi di quegli anni siano riusciti a costruire, volenti o nolenti, una<br />

scuola, tanto che oggi si parla di film felliniani, godardiani, all’Antonioni, alla Ferreri, alla Truffaut<br />

ecc... mentre difficilmente si è utilizzato l’attributo di film pasoliniano, alla Pasolini. Proprio perché<br />

ci fu in quest’ultimo un utilizzo dello specifico filmico totalmente e completamente personale. E la<br />

formulazione che fece di questa sua teoria cinematografica ne è l’ulteriore conferma.<br />

Il cinema-poesia pasoliniano, come abbiamo già rilevato, presenta alcune analogie con certe teorie<br />

stilistiche che si andavano manifestando in quegli anni. Ma ha anche una sua specificità che lo<br />

rende difficilmente assimilabile all’esterno. Pasolini si servì del cinema utilizzandolo come fosse<br />

una punta d’iceberg, la parte visibile di un mondo invisibile, che era sotto e si agitava. Un mondo<br />

fatto di letteratura, teatro, filologia, studi critici, semiologia, storia dell’arte (indispensabili le lezioni<br />

di Roberto Longhi seguite a Bologna). Ecco perché la sua formulazione teorica finisce di essere per<br />

tutti nel momento stesso in cui viene applicata dal suo ideatore. Al massimo potrà creare dei<br />

parallelismi, ma mai una scuola.<br />

Ed è proprio tornando ad Accattone che si precisa meglio in che modo tutti questi elementi abbiano<br />

concorso a costruire il film neorealista e a-neorealista. Il discorso di Pasolini, che era partito dalla<br />

tradizione della cinematografia nostrana, è lentamente approdato alle rive della propria tradizione.<br />

L’inquadratura, che esteriormente poteva sembrare figlia di Rossellini e De Sica, ci si mostra ad<br />

uno studio più approfondito come figlia della pittura rinascimentale di Masaccio: gli elementi<br />

transitano davanti all’inquadratura come in una rappresentazione pittorica. Con Accattane e nei suoi<br />

film successivi egli scopre in maniera autonoma il potere iconico del cinema. E sembra quasi<br />

bloccarsi attonito su ogni volto, su ogni corpo, disgiungendoli dallo sviluppo del racconto [G.Piero<br />

Brunetta, Storia del cinema italiano, Editori Riuniti 1982]. La macchina da presa assume il punto di<br />

vista del pittore quattrocentesco e ne riproduce la dinamica espressiva, il rapporto fra i personaggi e<br />

lo spazio. L’inquadratura è quasi sempre frontale, non racconta gli avvenimenti ma li rappresenta.<br />

L’occhio del pittore, influenzando il montaggio, non viene utilizzato per giustapporre le<br />

inquadrature secondo uno schema logico ma secondo uno schema espressivo. Alternanza di primi<br />

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TESI<br />

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piani e campi lunghi, come se di volta in volta ci si allontanasse o avvicinasse dal ‘quadro’. La<br />

musica sacra contrappunta la miseria delle borgate. Con un ulteriore scarto il Pasolini trasversale<br />

retrocede oltre il neorealismo e approda alla lezione di Dreyer [Dreyer Carl Theodor, regista danese<br />

(1889-1968)]. Sequenze mute, dove il silenzio visualizza l’angoscia notturna di Accattone preda di<br />

un incubo. Come in un film del muto, un film delle vere origini.<br />

Già con Accattone nasce il cinema di poesia.<br />

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TESI<br />

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Capitolo III<br />

LA REALTA’<br />

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"Si è detto che ho tre idoli:Cristo, Marx, Freud. Sono solo formule.<br />

In realtà, il mio solo idolo è la Realtà."<br />

[Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi 1989]<br />

Dunque la poesia irrompe nel suo cinema ancora prima che egli si dedichi a codificarlo e a<br />

descriverne regole e meccanismi; quasi che la poesia, anche in ragione di quanto si è detto in<br />

precedenza, appartenga in profondità al suo tessuto genetico-espressivo. È dalla poesia, infatti, e<br />

dalle riflessioni che si innestano su questa, che Pasolini deriva tutto il successivo apparato logico.<br />

La poesia è una sorta di alveolo dal quale egli parte verso il mondo, e al quale ritorna dopo tutte<br />

quelle peregrinazioni che costituiscono il fondo della sua recherche.<br />

Ma dove andava Pasolini quando si avventurava al di fuori di se stesso? E cos’era, in definitiva,<br />

questa ricerca?<br />

"L’idea di Mamma Roma mi venne almeno un anno prima che scrivessi il copione di Accattone,<br />

quando tutti i giornali parlarono della drammatica morte di Marcello Elisei, un giovane detenuto<br />

morto a Regina Coeli legato al letto di contenzione." [P.P. Pasolini. Le regole di un’illusione. I<br />

film, il cinema. Fondo Pasolini]<br />

"Vidi Ettore Garofalo quando stava lavorando come cameriere in un ristorante dove andai a cena<br />

una sera, da Meo Petacca, esattamente come l’ho mostrato nel film, mentre porta un cesto di frutta,<br />

proprio come una figura di un quadro di Caravaggio." [O. Stack. Pasolini on Pasolini, Thames and<br />

Hudson, London]<br />

Mi sembra che in queste due brevi dichiarazione rilasciate da Pasolini ci siano elementi che<br />

riescano ad illuminare perfettamente il significato che riveste per lui fare un film. Per Pasolini<br />

operare dietro una macchina da presa significava imbastire innanzitutto un lungo processo di<br />

trasfigurazione. Probabile che questo sia l’elemento cardine dell’ispirazione tout court, ma nello<br />

studio dell’opera pasoliniana ci permette di capire quanto questo processo fosse centrale e<br />

determinante, e quali fossero i due poli tra i quali egli si muoveva costantemente.<br />

La trasfigurazione operata da Pasolini agisce per riportare in vita quella serie di elementi che<br />

appartengono al suo immaginario culturale, e per trasformarli e renderli visibili su un piano<br />

comunicativo più accessibile. Come si è visto per il film Accattone, e come si vedrà per tutti gli altri<br />

suoi film, attraverso un lungo processo di reminiscenze, egli porta alla luce le sue esperienze<br />

artistiche, le sue passioni figurative, musicali, cinematografiche, e le trasforma in immagini. Noi<br />

non ascoltiamo mai direttamente la sua fantasia che ci parla, ma sempre la sua dimensione<br />

intellettuale dell’esistenza, impregnata di certi odori e di certi valori.<br />

Ho detto che faccio il cinema per vivere secondo la mia filosofia, cioè la voglia di vivere<br />

fisicamente al livello della realtà. [P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972]<br />

Dopo aver coperto le sue immagini con questa ‘patina’, Pasolini si dedica a penetrare l’altra faccia<br />

della sua ricerca. Se la premessa di questa tesi, fondata sul rapporto osmotico fra poesia e cinema, è<br />

esatta, e si esaminano le pagine poetiche di quegli anni, all’ inizio dei ‘60, si nota come tutte le sue<br />

ossessioni conducano verso un unico sbocco: la realtà. È questo il suo secondo polo. Pasolini come<br />

prigioniero, si muove costantemente tra le sue illuminazioni classiche e la realtà, il presente storico.<br />

Ecco perché questi che sono i film del sacro sono anche denominati i film della realtà. Perché<br />

quell’alone mistico che investe le immagini di tali opere, non è altro che il vero sguardo di Pasolini,<br />

il suo effettivo sentire la propria persona nel corso della realtà.<br />

... Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, / sotto le ciocche disordinatamente assolute, /<br />

risuona nelle disperate panoramiche, / e nelle sue occhiaie vive e mute / si addensa il senso della<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

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tragedia... [P.P. Pasolini, La religione del mio tempo - Bestemmia, vol. I, Garzanti 1995]. Pasolini<br />

trasfigura. Siamo nel 1959, alle soglie della suo debutto nel cinema.<br />

Ma che cos’è per Pasolini la realtà? Al contrario del marxista J.P. Sartre (dal quale ricevette attestati<br />

di stima in occasione della proiezione parigina del film Teorema, e da cui fu difeso quando una<br />

parte della sinistra-marxsista francese lo attaccò per Il Vangelo secondo Matteo, considerato un film<br />

troppo "religioso" [M.A. Maciocchi, Cristo e il Marxismo. Dialogo Pasolini-Sartre sul Vangelo,<br />

“L’Unità”, 22 dicembre 1964]), Pasolini non era un filosofo, né intese mai creare un sistema di<br />

pensiero che potesse sostituire la sua presenza immanente nel mondo. Il suo rapporto con<br />

l’esistenza, anziché allontanarlo in quella specie d’eremo che è sempre la filosofia-pura, lo costrinse<br />

ad uno scontro sempre più aspro e violento con la stessa, in una sorta di discesa quotidiana nella<br />

realtà. La realtà era il terreno su cui misurare se stesso e il rapporto con l’altro. Ecco perché diviene<br />

il termine chiave attorno al quale si intensificano tutti i suoi sforzi espressivi. Pasolini ci appare<br />

compresso fra i due poli: da una parte il suo immaginario culturale, pieno di sovrastrutture e di<br />

riferimenti interni, e dall’altro il reale, cioè che è intorno, semplice e sfuggente.<br />

Dunque la realtà innanzitutto come corpo, come sistema materico vivo e pulsante.<br />

Nel 1960, una delle ultime poesie de La religione del mio tempo si intitola In morte del realismo.<br />

Nel 1964 la successiva raccolta poetica, Poesia in forma di rosa, si apre con la sezione: La realtà.<br />

Che cosa significa? Cos’è questo passaggio dal realismo alla realtà? È chiaro che nel momento in<br />

cui opera su questi due fronti continui e quasi divergenti, da una parte la realtà, il presente storico; e<br />

dall’altra la sua rappresentazione costruita, egli incappa in una vistosa contraddizione. I due termini<br />

giocano a fagocitarsi e Pasolini è costretto sul filo di un equilibrio precario. Dovrà quasi sempre<br />

scegliere, e la prima di questa scelte riguarda appunto la sua vocazione di narratore: Pasolini sembra<br />

voler dare il commiato alla letteratura che fin qui l’ha preceduto e supportato, quella intrappolata<br />

negli schemi critici fatti di raggruppamenti sommari e insufficienti, che tendono a suddividere le<br />

opere in periodi e a collegare questi periodi attraverso rimandi stilistici e psicologici, per entrare a<br />

più diretto contatto con quella vita a cui chiedeva intensamente di partecipare, senza l’apporto di<br />

quelle strutture mentali e culturali. Da un punto di vista meramente concettuale il suo sguardo non<br />

muta granché, né cambia il modo in cui questo sguardo mette a fuoco il circostante. Ma quello che<br />

davvero cambia è la sua pretesa di potersi muovere in maniera più agile e fluida, senza il peso di<br />

quella ‘tradizione’ che per molto tempo ha accettato, ma che adesso, alla luce delle nuove<br />

prospettive esistenziali ed espressive, gli appare ingombrante e stanca. Pasolini ha bisogno di dire<br />

tutto (siamo negli anni che lo conducono al cinema), ha bisogno di essere libero, e ha bisogno di<br />

creare partendo da un grado zero delle cose.<br />

Dunque la realtà. Quella che si tocca con mano, che si sconta col proprio corpo e con la propria<br />

morte, come gli avevano insegnato i poeti francesi dell’Ottocento a cui lui si sentiva intimamente<br />

vicino per quell’anelito cosmico che li animava.<br />

La realtà: il proprio corpo, la propria angoscia, i propri limiti. La periferia, la cultura mitica e<br />

neoclassica, il cinema imparato per gradi, il sesso mercenario, le accuse, i processi, i premi ricevuti,<br />

i premi rifiutati, le discussioni, i convegni, la stampa, i media, la società, l’apocalisse... ora Pasolini<br />

vi è dentro. E non è un caso che la realtà diventi centrale in questo momento della sua vita<br />

(all’inizio dei ‘60), quando avviene il suo debutto come regista. Quando cioè egli ha compreso che<br />

tutte le sovrastrutture intellettuali tipiche del lavoro letterario, risultano poi insufficienti di fronte<br />

alla complessa semplicità del reale. Ha bisogno di cercare altrove, e nel cinema trova una risposta<br />

per penetrare quel reale.<br />

Empirismo eretico, il libro che Pasolini pubblicò da Garzanti nel 1972 è il testo chiave per<br />

comprendere questa serie di passaggi che lo iniziano alla Realtà/Cinema. Il libro è diviso in tre<br />

sezioni: Lingua, Letteratura e Cinema. Che sono anche i tre momenti chiave attraverso i quali egli<br />

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TESI<br />

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passa per confrontarsi con le proprie esigenze. Questo libro è ricco di spunti e informazioni per<br />

comprendere il significato del fare cinema per Pasolini. Ogni affermazione è una presa di posizione<br />

teorica da cui Pasolini non si distaccherà mai, inseguendo un'utopica coerenza di stile.<br />

Il linguaggio più puro che esista al mondo, anzi l’unico che potrebbe essere chiamato<br />

LINGUAGGIO e basta, è il linguaggio della realtà naturale. [P.P. Pasolini, I segni viventi e i poeti<br />

morti, Empirismo eretico, Garzanti 1972]<br />

Tra la mia rinuncia a fare il romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non c’è stata soluzione<br />

di continuità. L’ho presa come un cambiamento di tecnica... Ma in fondo non si trattava neanche di<br />

questo... Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto. [P.P. Pasolini,<br />

Empirismo eretico, Garzanti 1972]<br />

Le differenze fra Mamma Roma e Accattone, e fra gli altri film di questa prima fase della realtà<br />

(fino a Uccellacci e uccellini per l’esattezza), sono riscontrabili dunque soprattutto sulla riuscita<br />

estetica finale, perché poi, hanno tutti, come punto di partenza, la stessa esigenza di espressione<br />

della realtà e di confronto con essa.<br />

Mamma Roma presenta una maggiore dispersività rispetto al film precedente. Pur presentando uno<br />

stile più sicuro, Pasolini ne frammenta i numerosi spunti che lo animano, e in qualche modo<br />

‘tradisce’ alcuni punti del suo credo: per esempio quando affida alla Magnani il ruolo della<br />

madre/prostituta, uscendo dai canoni del suo tradizionale utilizzo di attori non professionisti. Ma,<br />

d’altra parte, è in questo film che si affinano le caratteristiche stilistiche che Pasolini aveva<br />

cominciato a delineare ai tempi di Accattone: continua il suo progetto di trasfigurazione. Da<br />

Caravaggio, come citato all’inizio, al Mantegna che compare nella sequenza dell’agonia di Ettore in<br />

prigione, all’episodio iniziale del banchetto di nozze che ricorda le Ultime Cene quattrocentesche.<br />

Ettore è un fratello minore di Accattone; si muove negli stessi territori e ha le stesse esperienze<br />

iniziatiche di avvicinamento alla vita: amicizia, amore, sesso, morte. Ed è in quest’ultima che<br />

Pasolini adotta un registro ancora più forte, dove gli elementi della sua cultura figurativa emergono<br />

in modo decisamente più marcato. Ettore, figlio di Mamma Roma, è un novello Cristo, condannato<br />

al martirio dall’indifferenza della società (della realtà?). La sua fine avrebbe potuto essere<br />

tranquillamente la crocifissione. Quando Mamma Roma cammina per le strade della periferia,<br />

preceduta in lunghe carrellate dalla macchina da presa, noi vediamo la Madonna che canta la<br />

disperazione del destino, l’ineluttabilità della fine che non lascia scampo.<br />

Questo viaggio nei territori della realtà ha il suo apice nel film La ricotta. Si tratta di un<br />

cortometraggio del 1962, terzo episodio di un film collettivo, RoGoPaG, che vide alla regia anche<br />

Rossellini, Godard e Gregoretti.<br />

La ricotta è la storia di un povero proletario, Stracci, che partecipa come comparsa ad un grande ed<br />

enigmatico film sulla passione e sulla morte di Cristo, messo in scena da un regista alle prese con le<br />

sue difficoltà espressive. Al contrario di questi, Stracci ha come unica necessità quella di reperire<br />

cibo per sé e per la sua famiglia. Così si dà da fare per accaparrare i cestini che la produzione offre<br />

nella pausa pranzo. Riesce a procurarsene due, il primo di questi lo regala alla sua famiglia. Il<br />

secondo lo nasconde in una grotta, con l’intenzione di mangiarselo successivamente. Ma quando<br />

ritorna a quel rifugio scopre che il suo cibo è stato divorato dal cagnolino dell’attrice. Stracci si<br />

dispera, ma un giornalista che aveva intervistato il regista gli regala mille lire con le quali Stracci<br />

corre a comprarsi della ricotta, che poi ingurgiterà nel suo nascondiglio privato. Quando sarà pronta<br />

la scena della crocifissione di Cristo e Stracci verrà legato alla croce, nel ruolo di ladrone, la troupe<br />

al completo, la stampa e il regista scopriranno che Stracci è morto; probabilmente per indigestione.<br />

Il commento del regista è laconico "Povero Stracci, crepare... non aveva altro modo di ricordarci<br />

che anche lui era vivo."<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

È anche grazie alla forma breve del corto che Pasolini riesce a sintetizzare in questo film la gamma<br />

completa delle sue sensazioni, offrendo allo spettatore un film per molti versi geniale. Fu Moravia il<br />

primo ad annotare questa ‘intensità’ dell’episodio pasoliniano, la cui genialità sta nel complesso<br />

intreccio di motivi e temi che si rincorrono a più livelli. Sembra quasi che in questo film si realizzi<br />

quell’intenzione più volte espressa da Pasolini, nel corso del libro Empirismo eretico, di utilizzare il<br />

cinema per scrivere una semiotica della realtà. Intenzione che si realizza nella somma dei differenti<br />

livelli che ne costituiscono l’intelaiatura.<br />

Al primo di questi, troviamo il film che il regista Orson Welles sta preparando sulla morte di Cristo.<br />

Pasolini fa ricorso a tutta la sua cultura figurativa per rappresentare il gruppo di attori che<br />

impersonano i ruoli del Cristo e della Maddalena: l’inquadratura è sempre frontale, immobile. Lo<br />

sfondo monocromatico. Gli occhi dello spettatore vengono costretti in un affresco quattrocentesco.<br />

Il regista, con la propria voce fuori campo, dà delle brevi indicazioni che non servono a portare<br />

avanti la trama, ma solo a dare un rilievo più plastico agli attori disposti attorno alla croce.<br />

Poi, con uno scarto linguistico, Pasolini introduce il personaggio di Stracci: questo personaggio<br />

condivide lo stesso destino di morte dei suoi predecessori, Accattone ed Ettore, ma al contrario di<br />

questi avanza nella sua vita ‘comicamente’. Attraverso un cambio di registro, Pasolini abbandona<br />

l’atmosfera lirico-tragico dei due film precedenti, dimostrando ancora una volta quanto la sua<br />

cultura cinematografica sia estremamente versatile, e mutua lo stile da Chaplin e dalle gag del<br />

cinema muto, con ampio uso di acceleratori e di incidenti, per seguire i vari tentativi di Stracci di<br />

sfamare se stesso e la propria famiglia.<br />

Questo cambio di stile permette di intensificare soprattutto il mistero che avvolge la figura del<br />

regista, terzo polo del film. In questo personaggio Pasolini fa un decisivo passo in avanti verso la<br />

sacralizzazione della propria figura a tutto tondo, nel momento in cui decide di presentarsi in scena<br />

in prima persona; passo che lo accompagnerà nel resto della sua carriera in maniera sempre più<br />

progressiva e metaforica, come quando nel film I Racconti di Canterbury, interpreterà il ruolo di un<br />

allievo di Giotto chiudendo l’ideale cerchio che lega gli estremi di tutto il suo fare culturale: pittura,<br />

letteratura, cinema. Per ora siamo ancora ad una fase in cui predomina la maschera, l’attore: Orson<br />

Welles/Pasolini compare in alcune sequenze del film, nella parte del regista cinematografico<br />

impegnato sul suo capolavoro, così lontano dall’atmosfera chiassosa e goliardica che regna nelle<br />

pause di lavorazione sul set.<br />

L’attore americano è d’altronde una maschera perfetta per Pasolini: Quello figlio di una società e<br />

una cultura così diverse dalle sue, opulenta e consumistica, mentre lui resta legato alla sua radice<br />

mediterranea.<br />

Il viso grasso e paffuto di Welles, irrompe nell’inquadratura dominandola e incastrandosi nello<br />

spazio con aggressiva esuberanza. Tutto il contrario dell’esile Pasolini, magro come una radice che<br />

si sia scavata da sola. (mostrare la mia faccia, la mia magrezza / alzare la mia sola, puerile voce /<br />

non ha più senso... [P.P. Pasolini, La Guinea - Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964]). E sentire<br />

certe frasi pronunciate da Welles, l’attore americano, una delle icone della potenza industriale di<br />

Hollywood, rende l’operazione di mascheramento ancora più terribile.<br />

Poi si scopre che il legame fra le due espressioni è possibile perché Pasolini autoironizza su tutto:<br />

sia sulla sua ideologia marxista, sia su quella piccolo-borghese del suo interlocutore giornalista.<br />

Egli in realtà parla dell’Esistenza, e usa come metro di scansione della propria Vita, la sua Rabbia.<br />

Rabbia che però finisce col perdersi, poiché non riesce ad intaccare l’imperturbabile superficialità<br />

del giornalista. E allora si tramuta in fiero disprezzo, con quel gesto di voltare le spalle e lasciare<br />

unicamente in vista la scritta regista sul dorso della propria sedia, immagine tipicamente<br />

hollywoodiana.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Quando questo giornalista gli si avvicina per fargli delle domande, Welles sta leggendo un libro su<br />

Mamma Roma; ne cita un breve passo poetico... Io sono una forza del passato / solo nella<br />

tradizione è il mio amore...Sembra interessato a spiegare il valore di quelle parole al giornalista, ma<br />

in realtà approfitta di quella breve intervista per riversare tutto il proprio livore sull’uomo medio<br />

italiano e sulla sua borghesia, che definisce la più ignorante di Europa.<br />

1. D: Che cosa vuole esprimere con questa opera? R: Il mio intimo, profondo, arcaico<br />

cattolicesimo.<br />

2. D: E che cosa ne pensa della società italiana? R: il popolo più analfabeta, la borghesia<br />

più ignorante d’Europa.<br />

3. D: Che cosa ne pensa della morte? R: Come marxista è un fatto che non prendo in<br />

considerazione.<br />

In questa breve intervista, tre domande e tre risposte, c’è tutto il furore di Pasolini, che continua,<br />

dopo aver letto un breve stralcio della poesia, ad incalzare il giornalista: Ha capito qualcosa?...<br />

scriva, scriva questo sul suo giornale. Lei non ha capito niente, perché lei è un uomo medio. Ma lei<br />

non sa cos’è un uomo medio: ... è un conformista, colonialista, schiavista, qualunquista... È malato<br />

di cuore lei?... no, peccato. Perché se mi crepava qui sarebbe stato un buon lancio per il mio film.<br />

Tanto lei non esiste. Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve alla<br />

produzione. E il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale. Addio!<br />

Come si vede, mai come in questo film, Pasolini utilizza tutti i mezzi a propria disposizione:<br />

linguistici, fotografici, concettuali, per tracciare il solco che lo divide dal mondo del cinema a lui<br />

contemporaneo, e dal mondo degli uomini in generale.<br />

È ne La ricotta che Pasolini arriva al livello autobiografico più alto. Il film è un esempio di<br />

quell’autocoscienza linguistica e formale che pervade tutte le opere pasoliniane. Stracci e il<br />

regista/Welles sono le sue due facce complementari, la sintesi della sua contraddizione: da una parte<br />

l’uomo elitario, culturalmente distaccato e sprezzante, carico di citazioni pittoriche e poetiche; e<br />

dall’altra il povero proletario, abitante della periferia, ancorato al problema millenario della fame. E<br />

come in un gioco di specchi il film, oltre a contenere i vari Pasolini, contiene almeno altri due film:<br />

quello del regista Welles sulla morte di Cristo, e quello sulla lavorazione di quest’ultimo.<br />

All’esterno, il guscio definitivo, è il film che Pasolini gira sulla morte: quella del proletariato e dei<br />

luoghi del suo vagabondare.<br />

Comincia il distacco dalla realtà?<br />

La crisi di Pasolini, che è crisi umana ma soprattutto formale - investe cioè la capacità espressivolinguistica<br />

dell’uomo, trova la sua perfetta icona nei due film del biennio ‘63 -’64: La rabbia e<br />

Comizi d’amore.<br />

Ci troviamo di fronte a due prodotti nei quali Pasolini emerge in prima persona per distrugge la<br />

tradizione del lungometraggio fatta di storie e di recitazione. Sta per dare un addio alla stagione<br />

della realtà, ed è chiaro che dovrà essere un addio traumatico, lacerato, concluso da un’esplosione<br />

che rimesti sul tavolo i frammenti del suo discorso poetico. Sia La rabbia che Comizi, infatti, non<br />

sono dei veri e propri film. Il primo è un montaggio frenetico di immagini, legati dall’unico filo<br />

rosso della coscienza poetica dell’autore: La crisi di Suez, la morte di Pio XII, le guerre di<br />

liberazione degli stati del terzo modo, il primo viaggio nello spazio, l’Africa, l’incoronazione di<br />

Elisabetta II sul trono d’Inghilterra... sono 53 minuti d’immagini in cui Pasolini sembra attuare i<br />

programmi della vituperata avanguardia. Trasforma il ready-made di Duchamp in un<br />

mediometraggio, dove le immagini si presentano per quello che sono, senza sovrastrutture recitative<br />

o fotografiche, con l’unico supporto di una colonna sonora. Violentano l’immaginario dello<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

spettatore perché non sono ‘ necessarie’ e non ‘esprimono’. Sono lì, stabili, e chiedono allo<br />

spettatore uno sforzo concettuale per appropiarsene e trasformarle nella propria mente in un<br />

prodotto giustificato; mentre Pasolini sembra quasi voler dire: io ho una coscienza del mondo, so<br />

cosa avviene nel passaggio da un’immagine dell’Africa ad un’immagine di Kennedy. Ora tocca a<br />

voi costruirvene una, avvicinarvi a me.<br />

Il primigenio sogno di innocenza e della possibilità di comunicare questa innocenza si è insabbiato<br />

negli anni romani del suo debutto cinematografico. Il mondo è andato in frantumi, la poesia non è<br />

più quella degli esordi in dialetto friulano, distesa e bucolica... un’elegia dialettale intrisa dalle<br />

fragranze dei luoghi e delle sensazioni, disgiunta dal corso della storia e delle ideologie... [Andrea<br />

Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998]; ora<br />

Pasolini è entrato nella realtà e ha scoperto che difficilmente potrà vincere. Si moltiplicano gli<br />

incontri sessuali e i processi che il mondo gli intenta. E si moltiplica la sua energia da martire,<br />

l’ansia religiosa di sentirsi scandalosamente diverso e perseguitato.<br />

Quello che in poesia è stato il passaggio dalle liriche friulane alla raccolta de Le ceneri di Gramsci,<br />

ultimo esempio di poesia distesa e comunicativa, preludio a La religione del mio tempo, Poesia in<br />

forma di rosa e Trasumanar e organizzar, ossia la poesia del frammento, del diario violento e acre,<br />

della non-speranza, dell’impossibilità apocalittica di abbandonare il gioco nonostante la coscienza<br />

che quel gioco è impossibile (Io non posso credere alla rivoluzione, ma non posso non essere a<br />

fianco dei giovani che si battono per essa [da un’intervista del 26 gennaio 1971, raccolta da Jean<br />

Michel Garnie per “Le Monde”.] ), nel cinema è l’uscita dalla Realtà.<br />

Pasolini, ora, avverte l’esigenza di assumersi la responsabilità fisica del suo bisogno espressivo. La<br />

carne diventa il luogo della sua vera vita, senza altri possibili altrove. La sue presenza sullo schermo<br />

cinematografico è il controcanto filmico della corporeità della sua poesia. Dove là predominava un<br />

istinto verbale fatto di sangue e materia, qui, questo istinto si concretizza nella sue duplice veste<br />

filmante-filmato. Ciò che in qualche modo non gli era completamente possibile sulla carta, cioé<br />

mostrasi fisicamente, nel cinema diventa una realtà compiuta.<br />

E quando compare nelle prime inquadrature di Comizi d’amore a domandare ai giovani borgatari di<br />

Roma e Palermo le loro esperienze in tema d’amore e sesso, sappiamo che si sta portando a<br />

compimento la parabola iniziata ne La ricotta: Orson Welles/il regista spegne le luci del set e<br />

abbandona la storia di Cristo, per dedicarsi alla propria storia. Getta la maschera di lattice per<br />

mostrarci il volto di Pier Paolo che vi era sotto.<br />

Eppure ciò che colpisce (in Comizi d’amore) è la presenza sullo schermo di Pasolini medesimo: è<br />

il suo più spassionato autoritratto... il film aderiva perfettamente, e fuori di ogni previsione, alla<br />

sua persona fisica, al modo in cui sono inforcati gli occhiali o la giacca gli ricadeva sulle spalle.<br />

[Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, ed. Giunti 1995]<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Capitolo IV<br />

CINEMA DI POESIA<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

È quasi sempre attraverso una crisi che si determina il passaggio da una fase all’altra nel cursus<br />

espressivo di un autore; crisi tanto più lacerante e profonda, quanto maggiori sono state le energie<br />

investite e adoperate nella fase precedente che ora si abbandona. In Pasolini questa crisi è resa<br />

ancora più drammatica dalla molteplicità di interessi e di intenzioni che dominavano il suo ‘fare’,<br />

tanto da riversarsi, poi, su tutti i fronti della sua produzione di quegli anni.<br />

In poesia Le Ceneri di Gramsci hanno cremato la voglia di credere alla rivoluzione possibile, ad una<br />

visione ideologica del mondo in cui l’antico nodo binario bene-male è risolto in funzione di una<br />

sintesi superiore a cui, tra l’altro, l’intellettuale partecipa con tutte le proprie energie. Forse sono<br />

proprio questi gli anni in cui egli sentì che l’antico sogno, coltivato da sempre, di essere un perno<br />

violento e forte del mondo, non era più possibile. A Pasolini è mancata non solo la voglia di<br />

continuare a lottare, ma anche quella fiducia che la borghesia ha da sempre accordato al poeta,<br />

eleggendolo a titolare unico dei propri bisogni espressivi. La sua visione medioeval-rinascimentale,<br />

in cui dominava la coppia mecenate-artista, non era più proponibile in quell’Italia che godeva il<br />

boom economico degli anni ‘60. Il poeta era una creatura marginale, tanto più relegata alle periferie<br />

della società quanto maggiore era il valore di trasgressione che egli adoperava nei confronti del<br />

codice della realtà.<br />

Pasolini riempì di dichiarazioni i fogli dei quotidiani e dei settimanali. La sua poetica, la sua<br />

visione del Novecento letterario, divenne oggetto di cronaca giornalistica. Già D’Annunzio seppe<br />

utilizzare i mezzi di comunicazione di massa allo scopo di divulgare la propria immagine di<br />

scrittore... ma una differenza è fra i due: Pasolini fu un poeta a cui mancò la commissione da parte<br />

della società. Si batté con forza per riceverla. [Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, ed. Giunti 1995]<br />

Ed ecco La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964), le raccolte in cui<br />

l’incubazione della Crisi e la sua esplosione trovano la loro perfetta incarnazione.<br />

Già a livello onomastico questi due libri ribadiscono la distanza che Pasolini ha assunto nei<br />

confronti del suo passato, e la sua voglia di esplorare i territori del proprio intimismo lirico. Si è già<br />

visto che il trasferimento dal primitivo Friuli alla mondana Roma ha innervato in Pasolini la<br />

sensazione fisica del cambiamento, e che la sua vita e la sua ricerca formale si sono adeguate a<br />

questo cambiamento spostando il bersaglio della propria attenzione dal mondo elegiaco e contadino,<br />

a quello ideologicamente più prossimo delle borgate e dei ragazzi di vita.<br />

Ora, in un quest’ulteriore fase di passaggio, Pasolini non ha altri ‘oggetti’ su cui riversare la propria<br />

attenzione, sentendo la realtà esterna investita da quella stessa crisi che egli si rappresenta a livello<br />

linguistico. Anche perché la Realtà in cui egli ha viaggiato si è eccessivamente storicizzata, e<br />

Pasolini avverte il bisogno di mantenere un tono metastorico nella sua produzione. Così decide di<br />

virare il viaggio dentro se stesso, frantumando la sua poesia come ha già fatto con la propria<br />

esistenza.<br />

Il disfacimento dei luoghi, delle culture e dei corpi del sapere tradizionale... conduce Pasolini a<br />

rifugiarsi nella eroicizzazione della vicenda individuale e della diversità intellettuale, nella<br />

progressiva rarefazione dell’esperienza civile, nelle rotture stilistiche e ideologiche di un fare<br />

creativo travolto dal decadimento degli scenari naturali a cui era appartenuto, nella ricerca<br />

traumatica di una poesia che osserva il proprio straniamento e la propria dissipazione sociale.<br />

[Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998]<br />

È in questo clima di totale crisi che il cinema di Pasolini prosegue e sviluppa quei germi che hanno<br />

già infestato la sua poesia. Conclude la sua tetralogia sulla figura del Cristo (gli altri sono stati<br />

Accattone, Ettore di Mamma Roma e Stracci) con Il Vangelo secondo Matteo, il film del 1964,<br />

estremo punto di rottura con il mondo a lui familiare dell’ideologia marxista e con quell’atmosfera<br />

neorealista che ancora impregnava i suoi precedenti lavori. Il film è "una specie di ricostruzioni per<br />

analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia<br />

operazione questo tema dell'analogia che sostituisce la ricostruzione". [P.P. Pasolini, Quaderni di<br />

Filmcritica - con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni 1977]<br />

Non è, quindi, un film storico come le colossali produzioni americane erano solite fare. Il film non<br />

vuole essere una ricerca illustrativa ma vuole dare il senso della poesia che c'è nel Vangelo:<br />

"La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una<br />

sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o<br />

un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo,<br />

senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna<br />

parola inserita potrà mai essere all'altezza poetica del testo. È quest'altezza poetica che così<br />

ansiosamente mi ispira. Ed è un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel<br />

senso corrente del termine, né un'opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e<br />

povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella<br />

coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l'umanità sia così alta, rigorosa,<br />

ideale da andare al di là dei comuni termini dell'umanità. Per questo dico "poesia": strumento<br />

irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo". [P.P. Pasolini, Sette<br />

poesie e due lettere, a cura di Renzo Colla, La Locusta 1985]<br />

Il Vangelo, a livello stilistico, mantiene ancora una fluidità di narrazione in cui predomina ancora<br />

una figura chiave vecchio stile, quella del Cristo appunto: immagine non troppo velata dell’ autorepoeta-intellettuale<br />

rifiutato dai suoi simili e dalla società, incapace di avere discepoli perché in<br />

contrasto egli stesso con quel Verbo infuso per cui ha vissuto la sua esistenza fino a quel punto.<br />

Pasolini non accettò mai l’insincerità delle critiche che gli piovvero addosso dopo la realizzazione<br />

di questo film, soprattutto quando venne puntato il dito sul suo presunto tradimento all’ideologia<br />

ateo-marxista. In realtà Pasolini accomunava marxismo e religione perché vedeva entrambe opposti<br />

al conformismo della borghesia. E poi, egli analizzava la religione non come momento storico, ma<br />

come momento metastorico, al di là dei tempi e dei costumi, cristallizzato nella vita dell’uomo sin<br />

dal suo apparire, e pertanto legato anche alle proprie iniziali forme espressive. Non mi sembra ci si<br />

debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza<br />

al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del '42. (...) Quindi un tema<br />

lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l'ho ripreso in un momento di regressione<br />

irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m'accontentava, mi sembrava in<br />

crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo. [P.P. Pasolini, Quaderni di<br />

filmcritica - con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni 1977]<br />

Dopo questo film, Pasolini decide di affrontare direttamente la sua crisi linguistica e lo fa con un<br />

film: Uccellacci e uccellini, del 1966.<br />

Uccellacci e uccellini è il frutto emblematico di questa crisi che ha portato Pasolini ad abbandonare<br />

i territori fino ad allora utilizzati del suo fare poetico. È il film di una cesura, della messa in scena di<br />

un addio, esplicitata in particolar modo nella scena del funerale a Togliatti.<br />

I due protagonisti, Ninetto e Totò, nel loro viaggio on the road, vengono accompagnati da un corvo<br />

che tenta di dialogare con loro e di imporre la propria visuale marxista del mondo. E si imbattono<br />

cammin facendo nel corteo funebre che accompagna la bara dell ex leader del PCI. Pasolini utilizza<br />

materiale d’archivio, riprese documentaristiche dei volti del popolo comunista piangente e<br />

addolorato, e le utilizza per segnare il suo saluto a quell’ideologia che quest’uomo rappresentava, e<br />

di conseguenza per chiudere i conti, per quanto sia possibile ad un uomo provvisto di memoria, con<br />

quella dimensione della propria esistenza che abbiamo già visto in poesia ormai abbandonata.<br />

Tutto il film in realtà è pervaso da questo senso di addio e di morte: addio ai canoni del vecchio film<br />

paraneorealista, addio al sogno della rivoluzione, addio persino ai luoghi fisici della sua poesia. Là<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

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dove (Accattone, Mamma Roma) c’erano i pratoni della periferia romana e il popolo minuto che<br />

l’abitava, qui ci sono gli stessi luoghi, ma divenuti metafisici, quasi beckettiani. E che ribadiscono<br />

(ideologicamente) la distanza con tutto. Col terzo mondo, attraverso i cartelli stradali su cui è<br />

indicata la distanza in chilometri da paesi come Cuba o la Turchia. Col proprio passato di narratore,<br />

nel momento in cui la storia non procede più linearmente ma per accumulo. I due protagonisti<br />

vedono, ascoltano, camminano. Hanno un rapporto fisico col mondo, ma non coscienziale, tant’è<br />

che a loro tocca ripetere con terzi il loro stesso destino di sfruttati. E ancora, con le forme del<br />

cinema della Realtà, poiché Pasolini decide di immergersi nel territorio della fabula, dove gli<br />

uomini non sono uomini ma simboli, rappresentano qualcosa. Dove bene e male hanno divisioni<br />

nette e precise, e alla fine della strada c’è una morale da rendere visibile.<br />

Persino la morte non è più la morte lirico-tragica di Accattone che si accascia per strada e si<br />

abbandona. La morte è semplicemente un luogo del presente che Pasolini intende esplorare, e che<br />

sottende tutti i suoi futuri sviluppi. Quando qualche mese, dopo Uccellacci e uccellini, Pasolini<br />

realizzò un cortometraggio intitolato La terra vista dalla luna - un’altra favola, assolutamente<br />

surreale e priva di ideologia rivoluzionaria - egli chiuse questo film con una didascalia, che ne era<br />

anche la morale "Essere vivi o essere morti è la stessa cosa."<br />

Il cinema di poesia si configura pertanto come una risposta che Pasolini elabora per contrastare la<br />

dimensione di Crisi nella quale si trova catapultato; poiché, per quella sua natura che abbiamo<br />

definito polifonica, egli era incapace di giungere ad un ruolo di rifiuto delle cose, ma preferiva<br />

piuttosto continuare, fino al paradosso, a scontrarvisi e a lottare con esse. E il film è il luogo<br />

d’elezione che viene adottato a contenitore della sua sola e unica possibilità di difesa.<br />

Sono questi gli anni in cui il suo cinema acquista quell’attributo di sinteticità che gli è stato<br />

precedentemente riconosciuto. Cioè, in una sintesi vertiginosa e frenetica, il cinema diviene la<br />

forma in cui Pasolini reimposta la propria poesia-letteratura, costringendola ad un mutamento<br />

linguistico e dunque totale.<br />

Pasolini guarda in faccia la sua Crisi, non si ritira dinanzi ad essa, ma la contestualizza fino a<br />

diventare egli stesso crisi; il suo corpo si è trasformato nella mappa geografica di questa vertigine, e<br />

il cinema è lo sguardo costretto ad affondare in quel corpo che, rifiutando una posizione della<br />

Realtà abbraccia la Realtà in toto; fino alle estreme conseguenze.<br />

Le estreme conseguenze, in questo caso, hanno una data: 2 novembre 1975. La morte sigilla una<br />

vita che si è trasformata lentamente in un grande buco nero di antimateria, dove tutto collassava<br />

verso un unico punto. Il suo ultimo film Salò, il suo ultimo romanzo Petrolio, due opere uscite<br />

postume, non hanno più confini linguistici che possano definirli e dunque limitarli. Sono due voci di<br />

uno stesso urlo, rivolto da un corpo che cerca la sua definizione, la sua consacrazione quasi (per<br />

continuare con questo parallelismo Pasolini/Gesù Cristo) nella morte.<br />

In Edipo re, film del 1967, ritroviamo assommati ed espressi tutti questi elementi, assieme alla<br />

compiuta definizione di quelle teorie sul cinema di poesia che Pasolini da tempo era in fase di<br />

progettazione.<br />

Dopo la stagione degli Addii, assistiamo all’alba di una nuova stagione che ha come caratteristica<br />

distintiva l’accumulo di un energia decadente e nichilista, carica della possibilità che da un<br />

momento all’altro tutto possa finire. Conseguenza naturale per chi lavora, non più con la speranza<br />

di cambiare, ma solo per rappresentare ciò che è. Ma non per questo è una stagione arida, anzi.<br />

Pasolini trova nel proprio rifiuto un universo ricchissimo di possibilità.<br />

L’autobiografismo che è diventato spina fondamentale del suo fare, si manifesta, già a livello<br />

tematico, dalla volontà che ebbe Pasolini nell’accentuare il carattere di Edipo: un giovane con un<br />

bruciante desiderio di conoscere La Realtà, e che dalla realtà profetizzata dall’oracolo sarà messo in<br />

scacco.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Il personaggio principale della tragedia sofoclea è di nuovo interpretato da Franco Citti, lo stesso<br />

attore che aveva già impersonato Accattone. E non è un caso. Pasolini di nuovo ci avverte: per<br />

quanti mutamenti e nuove esigenze espressive egli possa maturare, il cordone ombelicale che lega<br />

ogni istante della sua produzione non può essere spezzato. Quella premessa iniziale, per cui parlare<br />

di Pasolini significa innanzitutto parlare di un poeta, viene ribadita da questi piccoli segnali di<br />

continuità che egli continua a mantenere nel vortice di cambiamenti che comunque sente l’esigenza<br />

di sperimentare.<br />

C’è un perno, attorno a questo perno ruota la filosofia pasoliniana. Come un movimento della<br />

cinepresa, denominato panoramica, che ruotando sul proprio asse descrive l’ambiente circostante.<br />

Edipo re si apre con una panoramica circolare e si chiude allo stesso modo. La storia comincia e<br />

finisce portandosi fuori dalla storia, in quel territorio del mito che permette all’autore di<br />

scandagliare più definitamente la propria individualità (ed è proprio il rimprovero che la critica<br />

vetero marxista mosse a Pasolini: l’allontanamento dalla storia). L’autobiografismo dell’opera<br />

prosegue: attraverso la storia dell’incesto e dell’uccisione paterna, Pasolini traccia la storia della<br />

propria vita, il proprio rapporto conflittuale col padre e il rapporto di sregolato amore con la madre.<br />

(Quest’ultimo, ribadito in più occasioni fu, tra l’altro, oggetto di una celebre poesia di quegli anni.<br />

[P.P. Pasolini, Supplica a mia madre - Poesia in forma di rosa, ed. Garzanti 1964])<br />

Abbiamo già detto, a proposito de La ricotta, che Pasolini acquisisce in maniera stabile la coscienza<br />

del proprio operare nel cinema. Da Edipo re in poi tutti i suoi film agiscono su un doppio binario<br />

trasformandosi in dei meta-film. Oltre a mettere in scena il contenuto dell’opera, essi diventano<br />

delle riflessioni sulla propria condizione di autore. Edipo re è infatti un lungo film sullo sguardo,<br />

operazione primaria sia per chi fa il film, sia per chi in sala ne fruisce. Le scene, come quella<br />

dell’uccisione del padre da parte del giovane Edipo, Pasolini volle realizzarle personalmente con la<br />

camera a spalla; volle ribadire in questo modo la sua presenza fisica nel film, l’impossibilità di<br />

slegare la sua individualità dal contesto millenario e pubblico dell’opera.<br />

La storia che comincia negli anni '60, con la nascita di un bambino, si conclude negli stessi anni,<br />

quando il vecchio Edipo accecato attraversa la città di Bologna suonando il flauto. La sua ultima<br />

‘visione’ è una panoramica della mente, il ricordo eterno di elementi quali alberi e luce. "Sono<br />

giunto" egli mormora "la vita finisce dove comincia" Pasolini ci ribadisce la sua volontà di<br />

conservare una radice violenta che attraversi a ritroso tutta la sua esistenza.<br />

Il manifestarsi di tutti questa serie di elementi ci permette di notare quanto l’universo filmico<br />

pasoliniano muti radicalmente nel breve arco di due, tre anni. Egli è passato, infatti, da una<br />

rappresentazione oggettiva della realtà, tecnica tipica, ad esempio, del cinema neorealista; che<br />

anche quando si sforzava di aderire il più possibile al punto di vista della storia narrata (vedi La<br />

terra trema di Visconti e l’uso strettissimo del dialetto siciliano presente in esso), in realtà<br />

continuava ad utilizzare un punto di vista esterno e oggettivo: lo sguardo dell’autore, anche quando<br />

entra sui luoghi della storia si trova ad operare distanziato di alcuni cm, pertanto ne risulta una<br />

prospettiva doppia, col suo punto di osservazione che finisce inevitabilmente a sovrapporsi a quello<br />

dei protagonisti.<br />

La rivoluzione pasoliniana fu proprio questa: abolire il distacco oggettivo tra autore e materia,<br />

cercando un punto di fusione che fosse ribadito lungo tutto l’arco del film dallo sguardo adoperato<br />

dal regista. Incarnarsi nell’opera diventando egli stesso l’opera, materia espressiva ed espressa,<br />

facendo del cinema poesia, attraverso quella struttura mimetica che ha contaminato tutti i poeti dal<br />

tardo-romanticismo in poi.<br />

Questa tecnica, che Pasolini definì soggettiva libera indiretta, è il cardine di Edipo re e di tutti i<br />

successivi film. L’ambiente che circonda l’eroe tragico, le scenografie naturali, le luci, i colori del<br />

cielo, sono tutti elementi che appartengono alla sua geografia interiore, anche quando egli non è<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

direttamente in campo. Come se il mondo si fosse plasmato attraverso gli occhi di Edipo, e noi<br />

fossimo prigionieri di questo filtro perenne. Tutto è rappresentato in funzione di Edipo, e quando la<br />

macchina da presa panoramica nel deserto per descrivere l’avanzata di un truppa di soldati, lo fa<br />

tremando, sconnessa, perché in realtà riproduce lo stato d’animo di Edipo. Edipo è poesia nella<br />

successione dei movimenti a-razionali e nella volontà di adesione del protagonista-autore al proprio<br />

istinto.<br />

In questo modo Pasolini crea un'opera assolutamente libera, svincolata dalla necessità di<br />

rappresentare attraverso i cardini classici della grammatica cinematografica: attori, scenografie,<br />

montaggio. Tutto è abolito e reso in funzione della forza esplosiva-espressiva del film; tutto è<br />

asservito, pertanto, al continuum mente-corpo dell’autore, proiettato all’interno della sua opera<br />

senza soluzione di continuità.<br />

Fu su questa nuova terra esplorata da Pasolini che cominciarono ad addensarsi le nubi critiche dei<br />

contemporanei. Anche perché Pasolini osò sconfinare in territori che molti non videro di sua<br />

pertinenza (la semiotica in particolare), per riuscire ad elaborare e presentare all’esterno gli sviluppi<br />

del suo stile cinematografico.<br />

Pasolini ha introdotto la soggettiva libera indiretta nel tentativo di dimostrare l’esistenza concreta,<br />

empirica, di un indicatore semiotico in grado di rendere verificabile uno stile poetico nel cinema.<br />

[G. Nicolosi, Pasolini nell’era di Internet, tesi di laurea in Scienze politiche estrapolata da Internet,<br />

14 settembre 1999, www.pasolini.net/cinema_poesia.htm]<br />

Molti dei suoi detrattori riscontrarono nelle teorie pasoliniane una certa vaghezza e superficialità<br />

espositiva. Pasolini fa ricorso a termini caratteristici del linguaggio semiologico per spiegare il<br />

cinema, e per dimostrare che anche il cinema deve essere studiato dalla semiotica: Poiché infatti il<br />

cinema comunica, vuol dire che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comuni. [P.P.<br />

Pasolini, Empirismo eretico, ed. Garzanti 1972]<br />

Così egli si inoltre in spiegazioni che hanno come riferimenti linguistici termini come im-segni<br />

(segni delle immagini), cinémi (contraltare di fonemi), per arrivare ad evidenziare la coesistenza di<br />

due mondi paralleli: cinema e film. Il cinema è inteso come territorio vasto, un infinito piano<br />

sequenza che scorre parallelo alla realtà, riproducendola. I film sono parti di quel piano sequenza,<br />

che delimitano la realtà estrapolandola dal suo fluire temporale per fissarla su celluloide. Attraverso<br />

il montaggio continuo e frammentato, e l’uso della soggettiva libera indiretta, Pasolini intese<br />

mantenere i film su un livello non naturalistico.<br />

C’è chi, come Alberto Costa, ha saputo cogliere i fondamenti di questi ‘azzardi’ teorici, intendendo<br />

la soggettiva libera indiretta come materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un<br />

personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Ma vi furono in molti, Eco fra<br />

i primi, a criticare quella che appunto abbiamo definito vaghezza contenutistica delle sue teorie. Ma<br />

qui ci tocca fare i conti con il poeta; il poeta Pasolini che incontra il regista e il teorico nel momento<br />

in cui queste premesse vengono sviluppate con ossessiva coerenza in tutti i suoi film. Pasolini ha<br />

spinto fino all’estremo, come sua abitudine, le conseguenze di una simile impostazione<br />

semiologica, che vede nel cinema una lingua che non fa altro che fissare in maniera riproduttiva il<br />

linguaggio della realtà. Spingere all’estremo ha significato costruire un parallelo tra una tecnica<br />

meramente cinematografica come il montaggio, e un elemento essenziale, fortemente legato al<br />

vivere della realtà, come la morte. [G. Nicolosi, Pasolini nell’era di Internet, tesi di laurea in<br />

Scienze politiche estrapolata da Internet, 14 settembre 1999, www.pasolini.net/cinema_poesia.htm]<br />

Si può dire che Pasolini iniziò a elaborare un cinema di sensazioni, dove la tecnica cinematografica<br />

dovesse essere completamente assoggettata alla riproduzione di tali sensazioni; sempre.<br />

Come già detto egli non fu l’ideatore unico e solitario di questo modo di fare cinema: in Italia e in<br />

Europa ci furono altri sperimentatori e altri adepti di un nuovo modo di creare immagini, anche<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

quando non si sentì il bisogno di lasciarsi incastrare nelle strettoie ideologiche dell’ avanguardia. E<br />

fu lo stesso Pasolini a captare quest’atmosfera e a parlarne. Semmai, quello che rende il discorso su<br />

Pasolini unico, fu proprio la totale dedizione dell’autore alla nuova formula espressiva. Dedizione<br />

talmente profonda da essersi protratta lungo tutto il resto di quella carriera, cercando e<br />

perfezionando, ma mai rinunciando a quello che egli ormai considerava l’unico punto fermo della<br />

sua voglia di descrivere per immagini. E questa è una caratteristica dell’uomo-poeta: il sentire,<br />

profondamente, assolutamente, l’oggetto della propria rappresentazione.<br />

Pasolini riconobbe la poeticità del cinema di Antonioni, ma ne denunciò, anche, l’uso forzatamente<br />

formalistico di quella tecnica. Quasi a dire: Antonioni ha utilizzato la tecnica della soggettiva libera<br />

indiretta, facendo scorrere il film su una donna alienata [Michelangelo Antonioni, Deserto rosso,<br />

Federiz Francoriz Film2000, 1964] come se fosse osservato interamente da quella donna; ma egli<br />

non è quella donna, gli manca quest’ultimo tratto per chiudere il cerchio e rendere l’opera in<br />

sintonia assoluta con la vita.<br />

Ma, a dimostrazione che il fondo del film sia sostanzialmente questo formalismo, vorrei<br />

esaminare... la legge interna delle ‘inquadrature ossessive’, che dimostra dunque chiaramente la<br />

prevalenza di un formalismo come mito finalmente liberato. [P.P. Pasolini, Empirismo eretico - a<br />

proposito di Deserto rosso, ed Garzanti 1972]<br />

Quello che soprattutto conta da questo momento in poi, è la volontà pasoliniana di attribuirsi una<br />

libertà autoriale che sia sempre la base di ogni sua nuova produzione. Dal cinema di poesia in poi,<br />

quelli che erano i legami che Pasolini aveva intessuto e mantenuto con la ‘tradizione’, pur nelle<br />

mille sfaccettature che sono state esaminate, vengono completamenti disciolti e gettati nel magma<br />

della sua espressività, asserviti all’idea del film e resi, quindi, ancora più plasticamente definiti.<br />

Dal cinema di poesia in poi, ogni volta che Pasolini citerà il cinema del passato - i suoi registi<br />

preferiti per esempio (Ozu e Mizoghuchi su tutti) [*] - sarà sempre nel rispetto totale della propria<br />

libertà citazionistica, libertà che avrà come unico scopo la definizione del film.<br />

------------------<br />

[*] Yasujiro Ozu, regista giapponese (1903-1963). Pasolini derivò da questo regista la assoluta<br />

libertà nei confronti di codici e regole prestabilite. Dal 1935, anno del film Il figlio unico, Ozu si<br />

dedicò costantemente a creare una propria grammatica stilistica i cui elementi principali furono:<br />

fissità dell’inquadratura con abbondante uso di grandangolo per dare profondità di campo alla<br />

scena. Utilizzo del montaggio in chiave soprattutto espressivo, con continui controcampi e stacchi<br />

casuali, sovente in funzione simbolica.<br />

Kenji Mizoguchi, regista giapponese ( 1898-1956). Mizoguchi è il vero padre spirituale<br />

dell’universo filmico di Pasolini. Dal regista nipponico derivò infatti l’uso esasperato del pianosequenza<br />

e la convinzione che il cinema fosse il medium ideale per scandagliare la tragicità<br />

dell’esistenza umana, che il regista nipponico cercò nella donna e nella vita dei bassifondi.<br />

Mizoguchi fu il padre putativo di un’intera generazione di registi, per l’eleganza formale del suo<br />

stile, che formò i grandi nomi della Nouvelle vague francese.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Capitolo V<br />

TEOREMA<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Abbiamo già esaminato i motivi per cui Teorema può essere considerato, e non solo<br />

cronologicamente, il film centrale della produzione pasoliniana. Bisogna aggiungere che proprio<br />

questo film, portando al massimo livello le intenzioni teoriche del suo cinema di poesia, risulta<br />

essere anche l’inizio del suo superamento.<br />

Teorema nasce da una complessa stratificazione culturale ed esistenziale, che vede incrociarsi in<br />

un’unica opera tutte le tensioni estetiche di Pasolini: letteratura, teatro, cinema.<br />

Teorema è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra<br />

lavoravo ad affrescare una grande parete, il film omonimo. [P.P. Pasolini, Teorema, Garzanti 1968,<br />

risvolto di copertina]<br />

Ma nonostante questa complessa sovrastruttura Pasolini è riuscito a creare anche la sua opera più<br />

emblematicamente lineare. La storia è estremamente semplice: un Ospite misterioso irrompe nella<br />

tranquillità di una classica famiglia borghese, padre madre figlio figlia e cameriera, e ne sconvolge<br />

l’equilibrio, innescando il meccanismo del desiderio e dell’ assenza. La metafora adoperata<br />

dall’autore descrive scopertamente l’irruzione dell’Altro in una serie di esistenze ordinate (e<br />

banali). Ora, è su cosa sia quest’Altro che Pasolini compie la sua operazione principale, affidando<br />

alla figura dell’Ospite ogni minima sfaccettatura della propria complessità. Egli non rinuncia,<br />

infatti, a nessuna delle proprie componenti psicoanalitiche e si rispecchia nel personaggio principale<br />

attraverso l’uso di tutta la propria gamma vitale: L’Altro risulta essere una densa condensazione di<br />

spiritualità e fisicità. Avvicina i membri della famiglia, li piega alla propria presenza, invade le loro<br />

menti con i suoi sguardi e con la mancanza di sguardi, e suggella questo delirio di seduzione con<br />

rapporti sessuali che però Pasolini non esplicita mai, ma lascia semplicemente intuire.<br />

L’Ospite si configura come una figura deistica a cui risulta possibile tutto, anche col minimo scarto<br />

della propria statica espressione, e che manda in crisi i fragili equilibri della famiglia borghese,<br />

perché li aggredisce nella loro debolezza di uomini prigionieri di una mente laica - cioè schematica<br />

e impura - e dunque incapace di rapportarsi a tutto ciò che la sovrasta; al contrario di Lui che ha la<br />

potenza sintetica di tutto ciò che, naturalmente e fluidamente, vive il mistero di se stesso.<br />

"Il teorema in questione ha per argomento l’irrimediabilità della borghesia, che è destinata a<br />

soccombere proprio attraverso il suo strumento di dominio: la razionalità illuministica. Ultimo<br />

tentativo di perpetuare il suo pericolante dominio per la borghesia non può essere che la<br />

trasformazione dell’intera società, e in primo luogo delle classi subalterne, in un’unica,<br />

omologante Cultura Borghese [...] se l’individuo borghese è posto a contatto con quanto la sua<br />

società ha esorcizzato con i propri strumenti di dominio, cioè col ‘sacro’ in quanto zona<br />

superindividuale del tutto estranea alla Ragione dominante, ammesso che l’individuo borghese<br />

prenda coscienza dell’esistenza dell’Altro, mettendo in discussione in tal modo la propria identità,<br />

non può che confrontarsi col proprio vuoto, con la propria impotenza, con la propria morte,<br />

vagando nel deserto della propria spiritualità reificata dalla ragione." [Serafino Murri, Pier Paolo<br />

Pasolini, ed. Il Castoro 1997]<br />

Il Dio capace di rapportarsi al mondo, sconvolgendone inevitabilmente i meccanismi aggregativi, è<br />

chiaramente Pasolini stesso. Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato / sedurre, mi hai violentato e<br />

hai prevalso. (Geremia 20, 7 [È la citazione biblica posta da Pasolini all’inizio del suo film]). Ma la<br />

metafora Divina è solamente la prima chiave di lettura, quella più evidente anche perché più<br />

violenta. Lentamente Pasolini lavora condensando strati emotivi sul nucleo primitivo dell’opera : il<br />

codice della realtà (della normalità borghese), viene furiosamente sconvolto da un Dio fallico. Ma<br />

questo Dio non ha pace e non porta pace. Reca il segno di una profonda inquietudine il cui<br />

simulacro è questa apparente calma che Egli sembra manifestare ad ogni istante. In realtà questa<br />

calma è apparenza, illusione ottica di movimenti violentissimi che si intersecano e che si<br />

sovrappongono incessantemente. Questo Dio ha inoltre una coscienza umana, limitata, che sembra<br />

41


TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

portato a colmare attraverso l’apprendimento, la cultura. Pasolini lo riprende spesso mentre legge<br />

Rimbaud, il grande poeta francese, maitre della trasgressione esistenziale ma soprattutto linguistica.<br />

Sembra quasi che Pasolini abbia costruito una casa degli specchi, dove ogni volta ha la possibilità di<br />

riflettersi in tanti se stessi diversi, in altre figurazioni della sua psiche: Pasolini cita la propria<br />

passione rimbaudiana citando la divinità che percepisce in se stesso. Tutto questo nell’estremo<br />

tentativo di continuare a scavare ma anche a giustificare la propria mitologia estetico-sessuale che<br />

egli percepì sempre ambiguamente, con un misto di disgusto e orgoglio.<br />

"... Posso solo dirti che la vita ambigua – come tu dici bene – che io conducevo a Casarsa,<br />

continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all’etimologia di ambiguo vedrai che non può essere<br />

che ambiguo uno che viva una doppia esistenza. Per questo io qualche volta – e in questi ultimi<br />

tempi spesso – sono gelido, " cattivo", le mie parole "fanno male". Non è un atteggiamento<br />

"maudit", ma l’ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono.<br />

Non ho avuto un’educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni<br />

io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale...<br />

Questa mia tradizione di onestà e di rettezza – che non aveva un nome o una fede, ma che era<br />

radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale mi ha impedito di accettare per<br />

molto tempo il verdetto...<br />

Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle<br />

eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio equilibrio, la mia innaturale<br />

resistenza, possono trarre in inganno... Ma vedo che sto cercando giustificazioni, ancora una<br />

volta... Scusami, volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di<br />

me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare<br />

nessuno – come in fondo ho ingannato te, e anche altri amici che ora parlano di un vecchio Pier<br />

Paolo, o di un Pier Paolo da rinnovarsi. Io non so di preciso che cosa intendere per ipocrisia, ma<br />

ormai ne sono terrorizzato. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi pare<br />

dicesse San Paolo... Uno normale può rassegnarsi – la terribile parola – alla castità, alle occasioni<br />

perdute: ma in me la difficoltà dell’amare ha reso ossessionante il bisogno di amare...<br />

Qui a Roma posso trovare meglio che altrove il modo di vivere ambiguamente, mi capisci?, e, nel<br />

tempo stesso, il modo di essere compiutamente sincero, di non ingannare nessuno, come finirebbe<br />

col succedermi a Milano: forse ti dico questo perché sono sfiduciato, e colloco te sola nel<br />

piedistallo di chi sa capire e compatire: ma è che finora non ho trovato nessuno che fosse sincero<br />

come io vorrei.<br />

La vita sessuale degli altri mi ha sempre fatto vergognare della mia: il male è dunque tutto dalla<br />

mia parte? Mi sembra impossibile. Comprendimi, Silvana, ciò che adesso mi sta più a cuore è<br />

essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce. È l’unico modo<br />

per farmi perdonare da quel ragazzo spaventosamente onesto e buono che qualcuno in me continua<br />

a essere... Ho intenzione di lavorare e di amare, l’una cosa e l’altra disperatamente...<br />

La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno<br />

di Rimbaud, o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È<br />

una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così; e io, come te, non mi rassegno... Io ho<br />

sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia<br />

natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la<br />

mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto<br />

come un nemico, non me la sono mai sentita dentro. Solo in quest’ultimo anno mi sono lasciato un<br />

po’ andare: ma ero affranto, le mie condizioni famigliari erano disastrose, mio padre infuriava ed<br />

era malvagio fino alla nausea, il mio povero comunismo mi aveva fatto odiare, come si odio un<br />

mostro, da tutta una comunità, si profilava ormai anche un fallimento letterario: e allora la ricerca<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

di una gioia immediata, una gioia da morirci dentro era l’unico scampo. Ne sono stato punito<br />

senza pietà. Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando<br />

avevo tre anni e mezzo (mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta<br />

quell’attrazione dolcissima e violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra<br />

come un fossile...". [AA. VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti 1971.<br />

Lettera spedita all’amica Silvana Ottieri e risalente all’incirca al periodo 1947-1950.]<br />

Rimbaud e San Paolo sono i due estremi che legano imprescindibilmente il cerchio imperfetto della<br />

sua vita, sono gli estremi che danno scandalo perché il territorio deserto dell’Intellighenzia italiana<br />

e della Cultura Omologante Borghese di quegli anni non era in grado di concepire una tale sintesi, e<br />

Pasolini ne fu sempre consapevole, oscillando irrimediabilmente tra un atteggiamento di Divino<br />

disprezzo e superiorità, e una profonda rassegnazione di fronte al numero di attacchi che fu costretto<br />

a subire.<br />

Rimbaud e San Paolo nella loro comunione diventano anche i portavoce di quella cultura ‘laica’ che<br />

egli sentì necessaria affinché l’uomo potesse finalmente liberarsi dai propri vincoli settari.<br />

L’Ospite-Dio fallico pasoliniano possiede una voce sensuale e poetica, e la sfrutta per plagiare, per<br />

richiamare ai valori della Cultura e dell’apprendistato poetico.<br />

Questa necessità conoscitiva si propaga all’intera famiglia, dilaga senza però riuscire a salvare<br />

nessuno. Il Padre della famiglia, durante la sua malattia, legge La morte di Ivan Ilic di Tolstoj, che è<br />

tra l’altro la descrizione del rapporto fra un contadino e un vecchio padrone; la medesima situazione<br />

che sembra ripetersi nel rapporto erotico-filiale che riguarda L’Ospite e il Padre, in cui si inserisce<br />

l’altro eterno tema della cultura pasoliniana, il mito del sottoproletariato (quasi un Dio venuto dalle<br />

campagne russe dell’ottocento) unica possibilità di salvezza rispetto alla decrepitezza del Padre,<br />

moribondo eroe borghese.<br />

In Teorema la letteratura viene comunque declassata rispetto alla forza icastica della cultura<br />

figurativa, che investe sia Pietro - il figlio, che il personaggio del Padre. Il Pasolini medioevale e<br />

rinascimentale che abbiamo incontrato nei suoi precedenti film, e culminato nell’ esplosione<br />

dirompente della scena della Crocifissione ne La ricotta, lascia il posto alla violentissima pittura di<br />

Bacon. In una sequenza compaiono due opere baconiane, inquadrate come viste da entrambi i<br />

personaggi, Pietro e l’Ospite: Fragment of a crucifixion e Three studios for figures at the base of a<br />

Crucifixion.<br />

In fondo il tema non è cambiato, l’ossessione della croce e del martirio di un ‘uomo’ incompreso<br />

dai più. Ma qui ritorna in una forma diversa, dove i classici equilibri del disegno armonico di un<br />

Tiziano o di un Masaccio vengono soppiantati dalle distorsioni cromatiche ed emotive della pittura<br />

dell’artista inglese. Questo corpus figurativo viene totalmente interiorizzato all’interno del film,<br />

quasi che l’intero lungometraggio non sia che una riproduzione di un quadro baconiano, e quella<br />

calma e linearità geometrica della storia altro non sia, per l’appunto, che una semplice illusione<br />

ottica; la patina superficiale sotto la quale si cela Tutto. È questo il punto dove si realizzano i dogmi<br />

del cinema di poesia e della soggettiva libera indiretta.<br />

Ma in Teorema il codice figurativo, che ripropone i suoi stretti legami col mondo della pittura,<br />

assume anche un importante funzione narrativa. Dopo la partenza dell’ospite Pietro si dedica alla<br />

pittura, variando diverse tecniche espressive, fino alla realizzazione del proprio fallimento con<br />

conseguente abbandono di quest’idea. Sembra quasi che Pasolini voglia compiere un’autocritica<br />

della propria esperienza di pittore, e nel contempo demolire certe avanguardie del suo tempo, in<br />

particolare l’Action Painting di Pollock, nella scena in cui Pietro orina sul quadro.<br />

E sembra che Pasolini intenda soprattutto proseguire nella sua opera di demolizione della forma,<br />

inaugurando la stagione delle proprie negazioni.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Capitolo VI<br />

LA CIVILTA’ DELL’EROS<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Dopo Teorema, punto massimo di straniamento del linguaggio poetico pasoliniano e degli schemi<br />

tradizionali del racconto basati sulla logica giustapposizione di sequenze che si avvicendano<br />

secondo un ordine progressivo, nei film del biennio ‘69-’70, Porcile e Medea, Pasolini sembra voler<br />

tornare alle origine del proprio linguaggio, là dove l’esigenza di un analisi dettagliata dei costumi e<br />

dei meccanismi della realtà si sposava con i filtri della grande tradizione classico-mediterranea.<br />

E così Medea diventa un momento di chiusura; conclude il ciclo delle trasposizioni dalla tragedia<br />

greca - ciclo che era iniziato con la traduzione in immagini dell’Edipo sofocleo, ed era proseguito<br />

nel documentario Appunti per un’Orestiade africana con la rivisitazione dell’opera di Eschilo.<br />

Medea, in tal senso, rappresenta uno di quei tanti puntelli che abbiamo visto più volte delimitare il<br />

cammino di Pasolini. Puntelli che sono serviti da raccordo o da chiusura alle zone del suo pensieroazione.<br />

Con questo film Pasolini non fa altro che dare un altro addio ad una parte del proprio<br />

passato, e alla possibilità espressiva che era insita in quella parte.<br />

La maggior parte della critica del tempo si volle soffermare su quelli che furono considerati segni di<br />

regressione nella potenza ideologica dell’autore. Si vide in Medea un film commerciale, perché<br />

troppo legato alla figura della Callas - protagonista della pellicola, e soprattutto grande diva<br />

internazionale, vicina ad ambienti molto più glamour e da rotocalco, rispetto a quelli<br />

tradizionalmente vissuti dal suo regista.<br />

In realtà, come già nei precedenti sopra citati, Pasolini sfrutta la limpidezza delle ‘immagini’<br />

classiche, la sorprendente linearità che soggiace alle raffigurazioni allegoriche del Mito, per<br />

evidenziare tutti i contrasti e le lacerazioni che appartengono alla nostra contemporaneità. In questo<br />

Pasolini fu davvero poeta, capace di coniugare in maniera imprescindibile la propria esistenza,<br />

vissuta nel dramma di quelle percezioni, con la propria Opera. E così la lotta fra la moderna civiltà<br />

di Corinto e la primitiva Colchide richiama alla mente il presente storico da lui vissuto, diviso tra un<br />

mondo evoluto e autoreferenziale e un terzo Mondo sottosviluppato e abbandonato dal primo.<br />

In effetti Medea non fa altro che ripercorrere tutti i topos tipici delle narrazioni pasoliniane: i<br />

contrasti fra un mondo di innocenza e un mondo evoluto e barbaro, la violenza ancestrale<br />

dell’uomo, la necessità del sapere. Solo che ora tutto risulta arricchito dalle nuove suggestioni che<br />

gli derivarono dalle sue recenti acquisizioni culturali. E pertanto non vi era più solo il Freud che<br />

sottende il mito di Edipo, ma tutti quegli studi etnologici, politici e antropologici che in quegli anni<br />

costituivano il più importante humus della sua ispirazione. E infatti Medea, che è una storia di<br />

grandi contrasti e di violente passioni, dopo Porcile, prosegue su quella linea esplorativa che ha<br />

portato in primo piano nel cinema i suoi interessi antropologici.<br />

Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. […] Quanto alla pièce di Euripide, mi sono<br />

semplicemente limitato a trarne qualche citazione. […] Medea è il confronto dell’universo arcaico,<br />

ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è<br />

l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone<br />

ancora questioni del genere. È il "tecnico" abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al<br />

successo. […] Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello "spirito", fa scattare una tragedia<br />

spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due "culture",<br />

sull’irriducibilità reciproca di due civiltà […] potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del<br />

Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio che vivesse la stessa catastrofe venendo a<br />

contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del resto, nell’irreligiosità, nell’assenza di ogni<br />

metafisica, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che<br />

passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo<br />

uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il<br />

superamento è un’illusione. Nulla si perde. [Jean Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del<br />

centauro, Roma 1983]<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Ora non era più esclusivamente necessario studiare i meccanismi psicanalitici e raccontare le<br />

metafore etico-politiche dei tempi, ma era fondamentale ricavare dall’antropologia - dallo studio,<br />

cioè, dell’Uomo - una Visione pura. L’antropologia intesa come sovrastruttura che presiede alla<br />

Storia e al Mito, perché affonda nel protagonista di queste due dimensioni: l’uomo.<br />

E dell’uomo Pasolini era interessato soprattutto a descrivere la gestualità.<br />

Medea vive in simbiosi con la terra. Il suo amore per Giasone e per i propri figli non è un<br />

sentimento rasserenante, ma un aspro conflitto tra ciò che sente e ciò che "è consentito" sentire, tra<br />

quanto lei è e quanto diventa mutando identità. L’amore di Medea è totale, chiaro, violento: uccide i<br />

figli perché si rende conto che sono frutto di un amore soltanto carnale, non sincero. Giasone che<br />

agisce solo in un rapporto di scambio con il potere, è l’eroe freddo e pragmatico di una società nella<br />

quale ci si appropria razionalmente del mondo. Suo unico obiettivo è l’arrivismo. In questo<br />

contesto, il suo "amore" è soltanto un calcolo dettato dalla convenienza. Il suo e quello di Medea<br />

sono, come si vede, mondi del tutto inconciliabili.<br />

Ecco in che modo tutti i passaggi esistenziali di Pasolini si concretizzano nel suo cinema. Da<br />

Accattone, suo primo film, imbastito di tutte quelle strutture che abbiamo esaminato, Pasolini<br />

sembra lavorare di scalpello, come uno scultore che agisca sulla massa densa di marmo, per fare<br />

emergere il nucleo grezzo che è dentro l’opera. Porcile e Medea sono infatti due film sui gesti:<br />

quello del divorare per il primo, e quelli antichi, legati al culto della terra, per il secondo. È chiaro<br />

che Pasolini non poté mai rinunciare alle molteplici visuali che in scenari così altamente allegorici<br />

si intersecavano con quella purezza ricercata, però fu comunque importante per lui riuscire a<br />

lavorare e a mettere evidenza questo ulteriore passaggio verso la scarnificazione del Senso.<br />

Così si inaugura una stagione di grandi negazioni, dove un sentimento fortemente nichilista<br />

serpeggia nelle sue opere e nella sua vita, e spinge Pasolini verso le derive esistenziali della fuga.<br />

Sembrerebbe una contraddizione arrivare a questo tipo di conclusioni, dopo che si è ribadita la<br />

natura combattiva e tenace dello stesso. Ma in realtà tutto in Pasolini ha un sapore predeterminato,<br />

ci si avvicina un passo alla volta a quella notte del primo novembre e a quella morte così aspra, con<br />

la consapevolezza di aver assistito ad un lento cammino che si è fatto via via più veloce, una lunga<br />

rincorsa che è sfociata in una vera e propria iniziazione alla fuga.<br />

Pasolini abbandona il Mito della tragedia classica, abbandona le sovrastrutture narrative dei<br />

personaggi e si dirige verso il punto estremi della sua Vita: L’erotizzazione dell’esperienza<br />

esistenziale. Descritta attraverso i gesti.<br />

È su questa base che Pasolini fonda il suo nuovo Impero dei sensi, una civiltà sensuale e primitiva,<br />

che vive di rituali ancestrali e amorfi, e che ha come unico scopo la perpetrazione della propria<br />

bellezza istintiva nella sacralizzazione della propria innocenza perduta. È la civiltà dell’Eros.<br />

La fuga si determina fisicamente nei numerosi viaggi che Pasolini compie negli anni settanta: viaggi<br />

di lavoro, viaggi di esplorazione, viaggi per rinsaldare uno stupore perduto e una necessità di<br />

disorientamento, quasi una volontà (nichilista) di trovarsi un giorno al centro di una carreggiata<br />

pochi istanti prima che sopraggiunga qualcuno a grande velocità.<br />

Pasolini trova nell’Oriente e nell’Antichità due mete importanti. Nascono i tre film che<br />

compongono il ciclo della Trilogia della Vita, e sono quelli che regalano a Pasolini il maggior<br />

successo commerciale della sua carriera, con incassi che pongono un film come Il Decameron ai<br />

vertici delle classifiche italiane del tempo. Il fiore delle Mille e una notte vincerà il premio speciale<br />

della giuria al festival di Cannes del 1974, mentre I Racconti di Canterbury si aggiudicherà l’Orso<br />

d’argento al festival di Berlino del 1972. Sembra quasi che Pasolini sia stato portato fuori, con forza<br />

bisogna aggiungere, dal territorio della clandestinità, quando i suoi film avevano pochissimi<br />

spettatori e molti denigratori, e sia stato catapultato nella realtà del cinema commercialmente<br />

apprezzato.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Ma fu proprio lo stesso Pasolini ad avvertire in questo fenomeno dei segnali ancora più inquietanti;<br />

percepì quella che secondo lui era la volontà del mondo borghese di accettarlo tacitamente per<br />

poterlo così sedare ancora di più. Non dargli neanche la possibilità del fronte della battaglia dove<br />

poter alzare la sua puerile voce. Così, quando scrive L’abiura alla Trilogia della vita, che verrà<br />

pubblicata dal "Corriere della Sera" pochi giorni dopo la sua morte - perché se ne comprese il<br />

fondamentale valore di testimonianza intellettuale, Pasolini non fa altro che ribadire qualsiasi<br />

proposito di distanza dalle infinite strumentalizzazioni che il Potere ha cercato di operare nei suoi<br />

confronti, prima bersagliandolo continuamente, e adesso accettandolo, e quindi integrandolo in<br />

quella visione omologata e massificata a cui Egli cercò sempre di opporsi. Soprattutto Pasolini<br />

percepì il valore de-sacralizzante che l’occhio dello spettatore compì sulla sua opera, che andava al<br />

cinema a vedere i corpi nudi esposti ne Il Decameron o ne Il fiore, senza riuscire minimamente a<br />

farsi trasportare dall’Idea e dell’esigenza Espressiva che si celava dietro quella rappresentazione.<br />

Il rapporto conflittuale di Pasolini con l’ "uomo medio" resta intatto: tanto da far ricevere<br />

all’autore del Fiore delle Mille e una notte, nel giugno del 1974, una denuncia per oscenità<br />

conseguente, paradossalmente, alla proiezione unica di beneficenza del film, che il regista ha<br />

organizzato in anteprima a Milano, con lo scopo di raccogliere fondi per realizzare un<br />

documentario a favore della "riumanizzazione" della vita in quella città.<br />

Quello che muta è il rapporto dì Pasolini con il Potere: è infatti quanto meno singolare che il<br />

sostituto procuratore di Milano competente per il caso, Caizzi, riconosca lo statuto di "opera<br />

d’arte" al film senza promuovere nessuna azione penale nei confronti del Fiore delle Mille e una<br />

notte. Che cosa può essere così radicalmente mutato nella società italiana per spingerla, nel giro<br />

di qualche anno, a considerare prodotto artistico ciò che prima era oggetto di scandalo e di<br />

censura? Di certo non una palingenesi morale, né una crescita culturale e intellettuale della<br />

nazione: con la scomparsa della Repressione, è l’avvento dell’epoca della Tolleranza. Pasolini si<br />

accorge di questa generale tolleranza nei suoi confronti, la quale, lungi dall’essere il frutto del<br />

riconoscimento di una validità intellettuale, e ancor meno atto di revoca della patente di<br />

"diversità" che lo accompagna, è solo "una forma di condanna più raffinata. [Stefano Murri, Pier<br />

Paolo Pasolini, Il Castoro 1997]<br />

In luogo del morboso - così com’era stato interpretato dai più, Pasolini aveva inteso praticare la<br />

strada dell’Arcaico, per ritrovare, come sempre, un‘idea primitiva di Innocenza; e gli sembrò di<br />

poterla ravvisare nell’ istinto, nell’Atto sessuale puro, privo di mediazioni. Ma nulla sembrava più<br />

forte della patina, dell’immagine fintamente scandalosa del sesso, rispetto al vero scandalo<br />

dell’essere continuamente contro il codice: il codice della realtà, il codice del linguaggio, il codice<br />

della propria autosregolatezza.<br />

Così Pasolini abiura. E non abiura l’idea che c’è dietro quei film, ma l’idea che di quei film si<br />

fecero gli spettatori. In questo modo però, Pasolini finiva con l’abiurare il mondo in toto, perché<br />

finalmente era costretto a scendere a patti con l’esterno rinunciando Egli ad una parte di sé. E forse<br />

furono proprio questi i primi passi che lo condussero verso quella notte del 1° novembre 1975.<br />

Ma fu comunque più forte l’esigenza di essere lontano da quell’attenzione morbosa al sesso, e a<br />

quella stretta fagocitante che la borghesia italiana stringeva attorno al suo corpo, nel tentativo<br />

estremo di metterlo a tacere.<br />

Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la<br />

sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo<br />

culminante, il sesso. (...) anche la realtà dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa<br />

dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della<br />

nuovo epoca umana. [P.P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi 1976]<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Ancora ne I racconti di Canterbury è racchiusa tutta l’avventura poetica di Pasolini, e<br />

contemporaneamente, vi è tutto lo scoramento che egli confessò poco dopo per dover assistere alle<br />

continue manipolazioni intellettuali del suo lavoro. Su alcuni aspetti relativi alle origini letterarie<br />

del film, il regista risponderà così in un’intervista: I racconti di Canterbury sono stati scritti<br />

quarant’anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo e dimensione fantastica sono gli stessi,<br />

solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d’altra parte era più moderno, poiché in<br />

Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di Cervantes. Cioè esiste già<br />

una contraddizione: da un lato l’aspetto epico con gli eroi grossolani e pieni di vitalità del<br />

Medioevo, dall’altro l’ironia e l’autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e segni di cattiva<br />

coscienza. [notizia tratta dal sito Internet di Angela Molteni 1997, http//www.pasolini.net]<br />

All’inizio del film, Chaucer/Pasolini si unisce idealmente ai molti pellegrini diretti all’Abbazia di<br />

Canterbury; in seguito Pasolini rappresenterà il narratore che, all’interno di uno studio, penserà e<br />

scriverà i racconti, non senza muti ammiccamenti ironici e maliziosi, costituendo di fatto il raccordo<br />

tra una novella e l’altra. I temi sono quelli di tutta la Trilogia: sesso, amore e morte, con<br />

un’accentuazione di quest’ultimo rispetto alla trattazione operata in Decameron; in tutti gli episodi,<br />

infatti, viene rappresentato un funerale, o un assassinio, o un condannato a morte, o un moribondo.<br />

Pasolini affronta poi con grande ironia e senso del grottesco i temi della violenza esercitata dalla<br />

ricchezza e dell’immoralità del potere. La sgradevolezza dei personaggi dei ceti "alti" è messa in<br />

particolare risalto da un trucco molto pesante, carico, volgare. Nella gente comune (come al solito<br />

Pasolini utilizza attori non professionisti) si ritrovano la stessa gestualità, le stesse espressioni e<br />

fisionomie di quelle presentate in Decameron. La musica (curata da Ennio Morricone) si richiama a<br />

canzoni popolari inglesi medievali e rinascimentali. Riappare la famosa canzone napoletana<br />

Fenesta ca lucive (già utilizzata in Decameron) che parla della morte improvvisa di una giovane<br />

donna – quasi a costituire un ulteriore richiamo al tema della morte.<br />

In un convegno tenutosi in quel periodo a Bologna, sul tema "Erotismo, eversione, merce", Pasolini<br />

fece un lungo intervento, nel quale tra l’altro disse: Perché io sono giunto all’esasperata libertà di<br />

rappresentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in<br />

dettaglio e in primo piano, del sesso? Ho una spiegazione che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed<br />

è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa)<br />

addirittura pensare alla fine della cultura – che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo<br />

modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa –<br />

mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo […] Protagonista dei miei film è<br />

stata così la corporalità popolare. Non potevo – e proprio per ragioni stilistiche – non giungere<br />

alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo:<br />

e, in modo ancor più sintetico, il sesso […] I rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche di<br />

per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare<br />

così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo<br />

cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è<br />

anche una sfida, contenuta nel mio cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più<br />

fronti. Provocazione verso il pubblico borghese e benpensante […] Provocazione verso i critici, i<br />

quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque<br />

vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo<br />

schermo, sopra le loro teste che non volevano capire. […] era un periodo molto particolare, ero<br />

molto, molto, molto infelice, non ero adatto per una trilogia nata all’insegna della spensieratezza,<br />

dello "stile medio", del sogno e anche del comico, per quanto astratto. E forse se non fossi stato<br />

così infelice, non mi sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e<br />

cappello.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Capitolo VII<br />

LA LUCE, ALLA FINE<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Il giorno in cui Pasolini fu ammazzato,<br />

Lui si sarebbe raccolto in silenzio,<br />

a casa di un’amica, e insieme avrebbero ascoltato,<br />

commossi, un inno di Francesco De Gregori: Pablo.<br />

[P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno]<br />

Arrivati verso la fine, si ha la tentazione di tornare indietro e ricominciare tutto il discorso daccapo,<br />

magari partendo proprio dalle stesse premesse, per poterle stavolta esaminare alla luce di tutte<br />

quelle acquisizioni che si sono accumulate nel tempo della sua vita. E soprattutto per effettuare quel<br />

montaggio essenziale - come lui lo definì, che ha dato senso al caos e alla dispersione di un’intera<br />

esistenza. Freudianamente si potrebbe illuminare ogni singolo aspetto di quegli inizi nei prati di<br />

Casarsa e nelle stradine delle borgate romane, per potersi dilungare sui fenomeni di quella vita<br />

inquieta e a volte così astratta.<br />

"È odiosa la gente. Venendo al ristorante ho sempre camminato a testa bassa, non volevo vedere in<br />

faccia nessuno."<br />

Sono le 22.00 del 1° novembre 1975.<br />

È di nuovo notte in questa parte di emisfero. Roma e l’Italia intera hanno celebrato la festività di<br />

ognissanti, vecchio residuato della tradizione cristiana. Da un paio di settimane è autunno, le prime<br />

folate di vento si alzano per le strade antiche e secolari della capitale, accarezzando i grandi pratoni<br />

di erba. L’estate è definitivamente alle spalle, così come le giornate che Pasolini trascorreva nel suo<br />

castello di Chia, a scrivere Petrolio, e a meditare su quegli articoli pubblicati sul "Corriere della<br />

Sera" in cui chiedeva un pubblico processo alla DC. È rientrato il giorno prima da un lungo viaggio<br />

che l’ha portato a Stoccolma, in occasione della traduzione in svedese delle sue poesie. Si è anche<br />

fermato a Parigi per presenziare all’edizione francese di Salò.<br />

È l’anno in cui finalmente ha termine la guerra del Vietnam, l’esercito di liberazione entra a Saigon<br />

e gli americani battono in ritirata. In Spagna muore il generale Franco. Montale riceve il premio<br />

Nobel per la letteratura, Eco pubblica il Trattato di semiologia generale. Nei cinema vengono<br />

proiettati Professione: reporter di Antonioni e Nel corso del tempo di Wim Wenders, icona di un<br />

cinema dello sradicamento fisico e mentale che da lì a poco attecchirà definitivamente<br />

nell’immaginario europeo eleggendo il suo autore a maestro generazionale. Appena due anni prima<br />

c’è stato l’esordio di Martin Scorsese negli Stati Uniti con Mean streets, mentre in Europa<br />

morivano Gadda e Picasso. Ancora diciannove anni e sarebbe crollato il Muro di Berlino; quindi il<br />

comunismo nel mondo.<br />

Se questo fosse un film, con un finale ancora da scrivere, girato con quella tecnica del cinema di<br />

poesia per cui le inquadrature debbono riprodurre fisicamente la realtà psicologica del personaggio -<br />

Pasolini che si avvicina alla porta del ristorante "Il Pomodoro", accompagnato da Ninetto Davoli e<br />

dalla sua famiglia, abbassa la testa, entra... allora questa breve, brevissima scena, dovrebbe<br />

progressivamente esplodere e ripristinare il caos delle sensazioni, per descrivere tutto ciò che è<br />

contenuto in quel semplice gesto. Dovremmo poter avere la certezza che stiamo assistendo alla<br />

conclusione di una lunghissima fuga.<br />

Pasolini cena con i suoi amici e ha sempre la sua solita voce sottile - come dirà poi Ninetto Davoli,<br />

parla di ciò che sta facendo e dei suoi progetti futuri. Poi quando la serata ha termine, Pasolini si<br />

separa dalla comitiva e rientra nella sua auto.<br />

Verso le 23 raggiunge la Stazione Termini. Alle 23 e 30 circa Giuseppe Pelosi entra nella sua auto.<br />

Sono diretti ad un ristorante della via Ostiense, "Mario", dove Pasolini è abbastanza conosciuto.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Forse con l’età i suoi rituali si sono cristallizzati, così pure i luoghi dove egli ritorna a cercare.<br />

È quasi l’una quando Pasolini raggiunge il litorale di Ostia, e si ferma in un vecchio campetto di<br />

calcio polveroso, a due passi dalle baracche abusive che la gente del posto si è costruita. È un luogo<br />

che evidentemente conosce bene, frutto di molte esplorazioni: chissà che cosa avrebbe dovuto<br />

rappresentare, in quale film sarebbe potuto entrare. Intanto i giornali sono ormai in rotativa e nulla<br />

più può essere aggiunto. Sembrerebbe quasi dovuto che la vita si arresti. A quell’ora il mondo<br />

dorme sotto sonni agitati.<br />

E invece è lì che muore Pasolini. Dopo una colluttazione feroce e rabbiosa che l’ha visto cedere di<br />

schianto. Pasolini muore, il ragazzo scappa rubando la sua auto, la notte torna a essere deserta e<br />

silenziosa dopo quegli attimi di concitazione. Passeranno più di cinque ore prima che qualcuno se<br />

ne accorga. È la povera gente della borgata, una signora che vive in una di quelle baracche la prima<br />

persona che scorgerà quel corpo abbandonato sulla sabbia. Man mano che il sole sorge la luce<br />

illumina i resti di Pasolini, e ne permette l’identificazione.<br />

Dal momento che Pasolini ha camminato tanto, è possibile ipotizzare che quella fine non ha poi una<br />

tale importanza; in fondo era necessaria. Un uomo prima o poi si deve fermare, in tutti i sensi.<br />

Quella morte così teatrale si regala agli sguardi dei contemporanei e dei posteri che potranno<br />

leggervi tutto, dai segni del Fato alle logiche di un processo di partecipazione al grande dramma del<br />

mondo. Pasolini non ne è mai sceso, logico che prima o poi lo cacciassero.<br />

Salò, in tale senso, risulta essere una logica conseguenze delle continue negazioni e delle<br />

prospettive di fuga che Pasolini ha intrecciato nell’arco della sua esistenza. Ed è altresì chiaro che<br />

proprio per questo risulti essere un film estremamente difficile da decifrare; tale difficoltà risiede<br />

sostanzialmente nel fatto di essere un’opera postuma, che agisce contemporaneamente da testimone<br />

di quella vita appena conclusa e si esibisce in un dialogo a distanza con la morte del suo autore.<br />

Nessuno tra quanti videro il film alla sua prima, il 22 novembre di quell’anno, al Festival di Parigi,<br />

né Bertolucci né Moravia, poté evitare la malia di vedere sovrapposte a quelle scene di violenza<br />

estrema, le immagini della morte di Pasolini.<br />

E allora a noi sembra, di nuovo, che il cinema di poesia abbia chiuso il cerchio là dove l’aveva<br />

iniziato, nelle prime sequenze di Accattone, quando il giovane borgataro si affacciava dal ponte e<br />

minacciava per spettacolo di gettarsi nel Tevere. Ora ci si è gettato, è morto, e le immagini poetiche<br />

ci hanno testimoniato quest’ultimo viaggio cristallizzandosi per sempre nelle atmosfere rigide e<br />

claustrofobiche dei gironi danteschi che scandiscono il film Salò, e nell’incompiutezza che aleggia<br />

tra le pagine del suo ultimo romanzo: Petrolio.<br />

Salò assomiglia a quel piccolo punto nero, che nell’introduzione a questa tesi, cercavamo di<br />

scoprire all’interno della carriere poetica di Pasolini. Ne ha tutte le caratteristiche, per la capacità<br />

che ha avuto di fagocitare al suo interno Storia, Letteratura e Mito, polverizzandole e annullando<br />

qualsiasi possibilità di dialettica con l’esterno. Si entra in Salò con la certezza di entrare in un<br />

mondo a parte, dove Pasolini lascia che il Caos primordiale attecchisca contro quei corpi che lui in<br />

passato ha cercato di salvare e che ora abbandona alla Violenza istituita del potere e alle rigorose<br />

geometrie infernali, scandite come lungo una scala sonora, dalle successioni delle depravazioni dei<br />

carnefici. I corpi dei giovani e delle giovani fatti radunare nella villa seicentesca sono gli stessi<br />

corpi che Pasolini aveva amato esibire e spettacolarizzare nella Trilogia. Ora, a distanza di due anni,<br />

Pasolini è un uomo che si è portato al di là delle proprie negazione, dove non è più possibile tornare<br />

indietro. Ed è questa negazione che cerca di esprimere.<br />

Prima di entrare al ristorante con Ninetto pronuncia quella frase sulla gente: ‘è odiosa!’. Doveva<br />

sentirlo profondamente, perché Salò è un lungo grido in forma di odio. Siamo entrati in quel mondo<br />

e Pasolini non ci ha lasciato intravedere nemmeno una porta. Anzi, l’unica che forse ancora c’era,<br />

l’ha sprangata egli stesso ed è rimasto dentro con noi, a godersi lo spettacolo.<br />

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TESI<br />

“Pasolini: il cinema della poesia”<br />

<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />

a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />

Salò è un mistero medievale, una sacra rappresentazione molto enigmatica. Quindi non deve essere<br />

capito, guai se fosse capito. Voglio dire il film. [Conversazione con P. P. Pasolini, intervista<br />

apparsa su “Filmcritica”, n. 265, agosto ‘75]<br />

In realtà è difficile ipotizzare che dopo quest’opera Pasolini avrebbe potuto continuare a fare<br />

cinema. È giunto con questo film in territori così estremi e lontani, che sembra difficile capire in<br />

che modo sarebbe potuto tornare indietro. Probabilmente solo dopo un altro lunghissimo cammino,<br />

che forse si sarebbe concluso ai nostri giorni; se oggi Pasolini fosse ancora vivo, probabilmente si<br />

affiderebbe alla nuove tecniche del video e del digitale, scorgendo in esse quel radicamento<br />

necessario alla sua propagazione linguistica. E allora potrebbe ricominciare a filmare la sua Realtà.<br />

D’altronde Salò, come ho già detto per gli altri suoi film, è una riflessione sulla propria condizione<br />

di autore. È l’ennesimo film che mette in scena il rapporto esplicitamente autobiografico tra il<br />

regista/carnefice e l’universo materiale ed umano espresso. E la violenza sado-masochista sembra<br />

essere ormai l’unico medium che permetta a Pasolini di mantenersi in rapporto con l’esterno.<br />

Così la scena iniziale di rastrellamento dei giovani che verranno poi condotti nei luoghi della<br />

tortura, potrebbe alludere alla ricerca degli attori condotta dallo stesso, attori che in tutti i film<br />

hanno incarnato quella disperazione via via più crescente che si è fatta materia viva dei film<br />

pasoliniani. O forse allude all’iniziazione alla violenza che Pasolini ha compiuto verso noi<br />

spettatori, obbligandoci, noi con lui, a restare prigionieri di quell’irrimediabilità che egli ormai<br />

percepiva come unica fonte di sopravvivenza.<br />

E questa è stata davvero la sua ultima utopia.<br />

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