Dott. Luigi Pingitore - Rhymers' Club
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI<br />
“FEDERICO II”<br />
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA<br />
Corso Di Laurea In Lettere Moderne – Storia Del Cinema<br />
TESI DI LAUREA<br />
RELATORE<br />
Prof. Pasquale Iaccio<br />
CO-RELATORE<br />
Prof. Aurelio Lepre<br />
“PASOLINI: IL CINEMA DELLA POESIA”<br />
2<br />
CANDIDATO<br />
LUIGI PINGITORE
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
ANNO ACCADEMICO 1998/1999<br />
SOMMARIO<br />
Introduzione, p. 4<br />
Capitolo I – La morte di Pasolini, p. 5<br />
Capitolo II – Tra cinema e poesia, p. 14<br />
Capitolo III – La realtà, p. 26<br />
Capitolo IV – Cinema di poesia, p. 33<br />
Capitolo V – Teorema, p. 40<br />
Capitolo VI – La civiltà dell’eros, p. 44<br />
Capitolo VII – La luce, alla fine, p. 49<br />
3
Introduzione<br />
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Nei sette capitoli che compongono questa tesi ho cercato di mettere a fuoco, in maniera via via più<br />
progressiva, lo stretto rapporto che esiste in Pasolini tra il suo fare cinema e la sua natura poetica.<br />
Per realizzare questo è stato necessario addentrarsi sia all’interno della sterminata bibliografia<br />
critica esistente su Pasolini, tra la gran mole di articoli, saggi, monografie, e contributi critici<br />
stralciati da Internet; e sia all’interno della vita dello stesso, analizzandone i grandi slanci e le pause<br />
di riflessione o di abiura.<br />
E sempre di più, nell’avanzare, ho avuto la sensazione di addentrarmi all’interno di un imbuto;<br />
partito da una dimensione ampia ed estremamente dispersiva e costretto poi a procedere verso una<br />
zona finale, molto più stretta, nella quale tutte le ansie espressive di Pasolini sembrano aver trovato<br />
necessariamente una loro adeguata collocazione. E alla fine del quale si intravede un barlume di<br />
luce, quella luce finale che, secondo una definizione dello stesso Pasolini, è la morte essenziale,<br />
quella che permette di chiudere il cerchio ‘imperfetto’ di un’esistenza spesa a girare intorno agli<br />
stessi poli, attraverso un montaggio definitivo che pone fine al caos, assestandolo e tramandandolo<br />
ai posteri.<br />
Ecco perché l’ultimo capitolo ha quel titolo (La luce, alla fine), e perché comincia dove era iniziato<br />
anche il primo, (La morte di Pasolini), nel tentativo di ricreare quella circolarità che solo la morte<br />
ha spezzato.<br />
Ogni capitolo di questa tesi è una tappa all’interno dell’imbuto. Nel secondo (Tra cinema e poesia)<br />
si prendono in esame i rapporti esistenti fra i due linguaggi, quello del cinema e quello della poesia,<br />
utilizzati da Pasolini. Nel terzo (La realtà) viene esaminato quello che a detta di Pasolini fu il suo<br />
vero e unico idolo, dimostrando quanto il suo cinema e la sua poesia si influenzino a vicenda. Poi<br />
nel quarto e nel quinto (Cinema di poesia e Teorema) viene descritta la crisi di Pasolini e i suoi<br />
tentativi di risolverla creando un’osmosi fra i due linguaggi. Il sesto capitolo (La civiltà dell’eros) ci<br />
vede incastrati nel punto più stretto del collo dell’imbuto, laddove è impossibile tornare indietro o<br />
semplicemente voltarsi. È la stagione dei corpi, della Trilogia della Vita, dell’abiura, dei viaggi<br />
frenetici, del moltiplicarsi della propria voce e della grande negazione.<br />
E poi l’ultimo capitolo, quello dove la morte trova la sua consacrazione e, come già accaduto a<br />
molti, anziché sconfiggerlo ne suggella il destino e la memoria.<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Capitolo I<br />
LA MORTE DI PASOLINI<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante<br />
scostato e l'altro nascosto dal corpo. I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte,<br />
escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nerolivide e<br />
rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La<br />
mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a meta', e<br />
quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segni degli<br />
pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un'orribile lacerazione tra il collo e<br />
la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore<br />
scoppiato" [perizia del medico legale che accertò la morte di Pasolini, comparsa sul 'Corriere della<br />
sera' il 2 novembre 1977].<br />
La morte di Pasolini rappresenta, paradossalmente, uno dei momenti più "vivi" di tutto il suo iter<br />
umano ed artistico. Per le caratteristiche di crudezza e di desolazione, di efferatezza ma anche di<br />
sinistra dolcezza, quella morte del 2 novembre 1975 diventa il più suggestivo e poetico suggello a<br />
cui la sua esistenza potesse aspirare. Non c’è nulla in quella morte, infatti, che non appartenga<br />
completamente a Pasolini e alla sua mitologia estetica: dal luogo in cui è avvenuta, l’idroscalo di<br />
Ostia, al protagonista del delitto (o presunto tale, visto che il processo ha emesso una condanna che<br />
a molti è sembrata poco definitiva): il ragazzino Piero Pelosi, diciassettenne della periferia romana,<br />
così fatalmente simile a quelle figure della borgata che Pasolini ha evocato e rappresentato<br />
plasticamente lungo l’arco di tutta la sua produzione. Fino, in conclusione, alla richiesta che c’era<br />
dietro quell’incontro tra Pasolini e il suo omicida.<br />
Un Pasolini spinto dai propri desideri carnali e fisici, incrocia la vita di un diciassettenne abbastanza<br />
povero. Il tramite per quell’incontro è una cena che Pasolini offre al ragazzo. Dunque i soldi come<br />
mezzo per arrivare ad un fine. Senza ombra di moralità, e senza, soprattutto, ombra di pietismo.<br />
Pasolini aveva bisogno di quel corpo, l’avrebbe comprato. Forse solo spiccioli di contraddizione.<br />
Soprattutto agli occhi di quanti, in più occasioni, avevano rimproverato a Pasolini questo approccio<br />
mercenario col sesso e con quella gioventù proletaria di cui lui si era fatto cantore e di cui<br />
testimoniava un'innocenza ‘angelica’. Ecco perché quella morte è così viva. Perché parla ancora per<br />
lui, chiede rispetto di una contraddizione che è pura complessità elevata a sistema di vita. E lo fa nei<br />
luoghi poetici della sua letteratura e del suo cinema.<br />
Difficile, in questo senso, non intendere la linea di drammatica e coerente fatalità che associa il<br />
vitalismo pasoliniano - e la sua massima realizzazione espressa dai modi dell’esperienza fisica e<br />
sessuale - all’impulso di morte cui carnalmente e simbolicamente si ricongiunge [Andrea Miconi,<br />
Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, Costa & Nolan 1998].<br />
Dunque la morte diventa soltanto un punto di partenza da cui cominciare un’analisi a ritroso, che<br />
ogni volta si scontrerà sempre con gli stessi termini, con quelle stesse auto-attribuzioni pasoliniane:<br />
concetti come coerenza e contraddizione che sembrano essere gli ideali confini che recintano la sua<br />
esistenza.<br />
La morte nasce perché chi l’ha trovata era alla ricerca soprattutto di vita. Perché il poeta si è recato<br />
fisicamente sui luoghi del proprio desiderio, guardandosi attorno, sgranando gli occhi nel buio pesto<br />
della solitudine artistica, per evitare magari quei rimpianti che hanno tormentato altre vite e altri<br />
poeti che non si sono bruciati al contatto. Per scavalcare Montale, che proprio in quegli anni, gli<br />
anni della consacrazione mondiale col Nobel, dichiarava una sua amarezza personale per aver<br />
vissuto soltanto al cinque per cento. Invece Pasolini volle uscire allo scoperto e viversi.<br />
Nel tempo ha costruito tutto se stesso; ora un’analisi critica dovrebbe imporsi dall’esterno e<br />
scandagliare quel corpo alla ricerca di qualcosa, una sorta di punto critico che possa servire da<br />
motore di ricerca. E questo punto c’è, presente nella sua produzione come in quella di ogni artista.<br />
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“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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Probabilmente mentre Pasolini giaceva moribondo sotto il peso della sua Alfa GT, che il ragazzo si<br />
ostinava con ferocia ossessiva a passargli addosso, gli deve essere passata davanti agli occhi tutta la<br />
propria esistenza. E lui vi ha cercato un appiglio. Ed è esattamente lì che, come in un buco nero<br />
piccolo e inodore, l’intero monumento che egli ha costruito a se stesso, attraverso la mise en poème<br />
della propria esistenza, ha trovato un baricentro perfetto che contemporaneamente lo manteneva in<br />
piedi e lo avviava, anche, ad una lenta ed inesorabile implosione.<br />
Si tratta di pochi versi, una breve periodo, immagini strappate al corso di un film. In queste si<br />
esprime in una sublime perfezione l’intera vicenda artistica e umana di quell’esistenza. Quasi che<br />
uno scrittore non fosse altro che un meccanismo instabile, sempre sul punto di crollare sotto la<br />
pressione del proprio io ma che trova in quel punto il proprio perno d’equilibrio.<br />
Cercare questo punto è quasi inutile. L’autore andrà avanti nella convinzione che qualsiasi cosa<br />
scriva sia quel punto. E la critica ne individuerà sempre più di uno, o forse nessuno.<br />
Rimane comunque un'impresa inutile: è come cercare la verità, si sa che esiste ma dov’è?<br />
Una coltre di primule. Pecore<br />
controluce (metta, metta, Tonino,<br />
il cinquanta, non abbia paura<br />
che la luce sfondi - facciamo<br />
questo carrello contro natura!)<br />
L’erba fredda tiepida, gialla tenera,<br />
vecchia nuova - sull’acqua Santa.<br />
Pecore e pastore, un pezzo<br />
di Masaccio (provi col settantacinque,<br />
e carrello fino al primo piano).<br />
Primavera medioevale. Un santo eretico<br />
(chiamato bestemmia, dai compari.<br />
Sarà un magnaccia, al solito. Chiedere<br />
al dolente Leonetti consulenza<br />
su prostituzione Medioevo).<br />
Poi visione. La passione popolare<br />
(una infinita carrellata con Maria<br />
che avanza, chiedendo in umbro<br />
del figlio, cantando in umbro l’agonia).<br />
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La primavera porta una coltre<br />
di erba dura tenerella, di primule...<br />
e l’atonia dei sensi mira alla libidine.<br />
Dopo la visione (gozzoviglie<br />
mortuarie, empie - di puttane),<br />
una "preghiera" negli ardenti prati.<br />
Puttane, magnaccia, ladri, contadini<br />
con le mani congiunte sotto la faccia<br />
(tutto con il cinquanta controluce)<br />
Girerò i più assolati Appennini.<br />
Quando gli Anni Sessanta<br />
saranno perduti come il Mille,<br />
e, il mio, sarà uno scheletro<br />
senza più neanche nostalgia per il mondo,<br />
cosa conterà la mia "vita privata",<br />
miseri scheletri senza vita<br />
né privata né pubblica, ricattatori,<br />
cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,<br />
sarò io, dopo la morte, in primavera<br />
a vincere la scommessa, nella furia<br />
del mio amore per l’Acqua Santa del sole.<br />
(23 aprile 1962)<br />
[P.P. Pasolini, Poesie mondane, Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964]<br />
Accettata l’idea che sia comunque mistificatorio credere di aver individuato quel punto, in Pasolini<br />
come in qualsiasi altro artista, ritengo che non sia difficile scorgere all’interno di questa poesia,<br />
alcuni elementi che hanno caratterizzato il passato letterario e che continueranno ad essere presenti<br />
in tutta la futura opera pasoliniana; elementi che, banalmente, si possono definire la spina dorsale di<br />
quel monumento che è il proprio ego messo in versi e descritto per immagini.<br />
Era il 1962, l’anno di Mamma Roma, suo secondo film, e Pasolini scrisse questa poesia,<br />
dimostrando quanto il cinema si fosse cristallizzato nella sua vita come forma stabile d’espressione.<br />
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Questi versi descrivono un viaggio (e il cinema, come disse Godard, è un viaggio fatto ad occhi<br />
chiusi). Lo descrivono attraverso lo sguardo di un obiettivo per macchina da presa, un cinquanta<br />
mm manovrato dal suo direttore della fotografia, Tonino Delli Colli - nome storico del cinema<br />
italiano - e proseguito poi a spasso per una campagna di pecore e primule. Così il mondo del cinema<br />
si bagna del contatto agreste e va in direzioni ambigue, contro la propria natura di macchina<br />
industriale, e seguita ancora più sconvolto e delirante verso gli scorci della pittura masaccesca:<br />
quegli scorci di luce e chiaroscuri, il Medioevo inteso come dimensione storica e dell’anima, dove<br />
tutte le passioni sono portate al loro massimo espandersi in un'altalena di Martirio e Scandalo.<br />
E alla fine compare la Madonna, che parla in dialetto, e avanza inquadrata come la prostituta<br />
Mamma Roma che canta l’agonia del figlio. La Visione di questa scena risveglia i sensi e scopre<br />
l’intera gamma di sensazioni del poeta, spaziando fra momenti di pura religiosità cristiana e quegli<br />
inferni quotidiani che imbevono le radici delle sue esperienze.<br />
In un unico quadro Maria dialoga con la luce e i pastori, le puttane, i ladri, il mondo della periferia<br />
romana e gli anni Sessanta, che ad un tratto vengono percepiti e catapultati verso il primo<br />
Millennio.<br />
E su tutto, sulla nostalgia verso il mondo che può provare solo chi sa di esserne lontano -<br />
osservatore e narratore -, domina l’io che si autoelegge Santo, confrontandosi con i pubblici<br />
ricattatori, gli aspersori di moralità e banalità addosso ai quali Pasolini getta la loro maschera per<br />
incamminarsi sulla strada del Martirio.<br />
Ecco cos’è quel punto: la possibilità sintetica di dire.<br />
Mentre alla critica toccherà subito aggiungere che per comprendere Pasolini una poesia non può<br />
essere sufficiente, anche se necessaria. Così come vedere tutti i suoi film, leggere le altre raccolte<br />
poetiche, sfogliare le sue pagine di saggistica, di semiotica e filologia, e approdare alle rive della<br />
sua letteratura esistenzial-marxista.<br />
È soprattutto necessario ricominciare da quella fine e da quella sua morte. Quando il 2 novembre<br />
del ‘75 viene trovato il suo cadavere sulla spiaggia di Ostia, gran parte della società borghese<br />
italiana tira un sospiro di sollievo. Quella società è un corpo che si è sbarazzato del virus, dell’uomo<br />
che per tanti anni ha affondato i propri sensi nelle coscienze irrigidite dell’uomo medio, fino a<br />
diventare un Cristo al contrario, qualcuno che si erge al di sopra della massa ma non per portare il<br />
solito bene, ma per spargere il male.<br />
Pasolini disse: "...io per borghesi non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria<br />
malattia..." [P.P. Pasolini, rubrica "Il Caos" n. 32, 6 agosto 1968 - ora in I dialoghi, Editori Riuniti<br />
1992].<br />
Utilizzò tutti i mezzi a sua disposizione, dalla semplice rubrica giornalistica alle raccolte di versi,<br />
fino ai lungometraggi, arroccandosi su posizioni sempre più personali e guardando con profondo e<br />
solitario disprezzo la vita media degli uomini, percepiti come ‘altro da sé’. E continuando a<br />
percorrere imperterrito un'unica strada che lo ha portato ad essere ciò che la società arginava in<br />
definizioni comunque semplicistiche: originale, provocatorio. Ma che restavano definizioni<br />
affibbiate unicamente a corpi che si guardavano da lontano, una volta che sono stati espulsi dal<br />
proprio tessuto e isolati in un eterno sottovetro.<br />
A ventitré anni da quella morte, Pasolini continua ad essere un artista e un intellettuale ancora<br />
attuale. Sia sul fronte letterario: sono del 1998, infatti, due polemiche che lo hanno visto<br />
involontariamente chiamato in causa. La prima lo ha visto contrapposto ad Italo Calvino, secondo<br />
un schematismo che li ha voluti divisi in due categorie divergenti: da una parte lo scrittore viscerale<br />
e dall’altra lo scrittore geometrico. La seconda polemica, come un’ondata che torna regolarmente a<br />
disturbare la tranquilla palude intellettuale, ha riproposto i suoi giudizi sul ‘68 e sui moti<br />
antiborghesi, su quella gioventù rivoluzionaria che lui condannò implacabilmente. Quella condanna<br />
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nata nei fermenti di una solitudine intellettuale morale, fu ascritta da molti al suo continuo furore e<br />
alla sua instancabile voglia di essere sempre e comunque contro. In realtà non bisognerebbe<br />
dimenticare che Pasolini non fu mai un vero comunista, (i suoi rapporti col PCI furono sempre<br />
conflittuali, e si incrinarono definitivamente nel 1949 quando fu espulso dal partito per indegnità<br />
morale), così come la sua ideologia non fu di stampo anarchico, e del marxismo intese soprattutto la<br />
visuale filosofica.<br />
Per intendere Pasolini non si può tralasciare il contrasto comunque insanabile che albergò in tutta la<br />
sua vita, e che egli, forse, non volle mai accettare fino in fondo: Pasolini era da un lato un<br />
intellettuale, che può esprimersi, in ogni sua presa di posizione, anche attraverso un uso negativo e<br />
distruttore della realtà. Ma dall’altro è un artista, e cioè una persona ha comunque bisogno di punti<br />
di riferimento formali per potersi esprimere, e quindi di affermazioni, costruzioni.<br />
E non andrebbe neanche tralasciato, soprattutto in uno scrittore che ha un rapporto così fisico col<br />
mondo e i suoi abitanti, il clima di violenza morale a cui fu sottoposto. I processi, ma soprattutto le<br />
critiche generaliste rivolte alle sue opere, (quelle di Asor Rosa ad esempio, che tacciò Pasolini di<br />
populismo, riscontrando nei suoi romanzi e nei suoi film l’incapacità di mantenersi ad un livello<br />
mentale realmente progressista e illuminato) gli sembrarono sempre una terribile ingiustizia.<br />
Pasolini d’altronde non era assolutamente perfetto. Viveva i suoi rancori, i suoi sensi di colpi, la<br />
propria omosessualità esibita come marchio e illuminazione, le sue contraddizioni... Ma poi<br />
rinnegava tutto questo in nome della possibilità di esprimere.<br />
Tale lacerazione, mai accettata, è alla base di quella che possiamo definire la natura utopistica di<br />
Pasolini. In fondo egli era soprattutto uno che sognava un tempo ‘bucolico’ impossibile da<br />
recuperare. E questo sogno, nato come sussurro nei primi versi dialettali della sua Casarsa, si<br />
amplificò da solo, nel tempo, cercò ovunque, divenne la sua forza e la sua debolezza. Durante la sua<br />
vita, durante l’escalation di gesti e pensieri che egli intese come semplice dimostrazione di sé e<br />
della propria ‘disperata vitalità’, Pasolini amplificò quell’urgenza di contatto con la propria natura<br />
primitiva arricchendola di strati - la visione ideologica e politica delle cose, le forme cercate e<br />
provate, il suo moralismo gridato dalle colonne dei giornali. E lo fece in un eterno gioco di<br />
contraddizioni, cercando di non soffocarla mai.<br />
Ma il risultato fu quello di essere un uomo perseguitato, a cui fu negato ciò che soprattutto egli<br />
chiedeva, di poter essere semplicemente se stesso, anche se diverso.<br />
Scrisse: "...la mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza..."<br />
[P.P. Pasolini, rubrica "Il Caos" n. 2, 11 gennaio 1969 - ora in I dialoghi, Editori Riuniti, 1992].<br />
Così la morte divenne un suggello suggestivo per entrambi: per la borghesia che avrebbe continuato<br />
la propria rituale moltiplicazione di generazione in generazione, e per il figlio cattivo che si<br />
consegnava a quella forma di approdo - che è la morte -, che egli da sempre e in tutti i modi ha<br />
desiderato, anche quando ad essa dava il nome di madre, di rosa o della vita.<br />
Oggi il mondo lo ricorda da più parti allo stesso modo, i suoi antichi nemici e detrattori, e i pochi<br />
amici ed estimatori, tutti uniti dallo stesso coro di sospiri che ne lamentano l’assenza, e intanto<br />
ammiccano, stringono i pugni perché nessuno più chiede dalle colonne del più grande quotidiano<br />
nazionale un pubblico processo a tutta la classe politica e dirigente. Oggi il mondo è<br />
quell’omologazione che Pasolini denunciava.<br />
Non è un caso che proprio le immagini di quella morte, le foto scattate al corpo massacrato e<br />
riportate dalla maggioranza dei quotidiani e delle riviste italiane, furono, secondo molti, lo<br />
spartiacque che segnò l’ingresso della civiltà in una nuova era, quella dell’immediatezza e della<br />
spettacolarizzazione delle immagini. Un altro modo per evadere dal passato, dunque, e per confluire<br />
in un’era di apocalittica fusione.<br />
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E a Pasolini toccò anche questo compito. [Su questo argomento sono stati molti gli interventi: dai<br />
saggi del prof. Abruzzese che si è occupato del valore traumatizzante delle immagini ne<br />
L’immaginario collettivo, Einaudi 1989, all’articolo di Golini apparso su "L’Espresso"" n. 42 del<br />
1995, intitolato: Pasolini. Che cosa vive ancora?].<br />
È in questo contesto fortemente comunicativo e contemporaneamente predestinato che nasce il<br />
Pasolini regista. Il cinema diviene la forma espressiva che meglio riesce a cogliere quelli che sono i<br />
suoi spunti formali e concettuali, e creare quella simbiosi tra le due anime che lo agitano nel<br />
profondo.<br />
È il periodo in cui la contaminazione fra le forme dell’impegno civile e la simbiosi istintiva con gli<br />
scenari naturali dell’esperienza quotidiana condurrà a risultati ambigui ma spesso<br />
straordinariamente suggestivi [Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il<br />
linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998].<br />
Ma perché questo accada, il suo cinema ha bisogno, ad esempio, di un violento mutamento rispetto<br />
a quello precedente, e a certo cinema dei "padri". Questo mutamento avviene nel momento in cui<br />
Pasolini non crea barriere fra i vari sé di cui è composto, fra il Pasolini narratore, il Pasolini poeta e<br />
il Pasolini regista; ma, al contrario, cerca una sintesi fra poesia e cinema, fra linguaggio poetico e<br />
cinematografico.<br />
Dal 1961, anno del suo primo film, al 1975 anno della sua morte, le pagine migliori della sua<br />
produzione restano quelli scritte con inchiostro su tessuto di celluloide, e quelle scritte con<br />
dissolvenze e montaggi in asse, sulla carta del libro.<br />
Pasolini conierà il termine cinema di poesia [in P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972,<br />
n.d.r.]. È una definizione molto complessa. Ha cercato un’osmosi fra cinema e poesia, scavalcando<br />
il livello elementare delle complementarità più evidenti per tentare la ri-fondazione di un nuovo<br />
linguaggio. È riuscito a trovare nel cinema, nel suo cinema, quella quasi perfetta sintesi di<br />
sperimentazioni linguistiche, adesioni alla tradizione, travasi dalla vere radici della sua cultura - che<br />
era di impianto principalmente figurativo e religioso - rimestandole nel grande pentolone delle<br />
immagini e della recitazione.<br />
Ciò che altrove (nei romanzi, nella saggistica, nei versi giovanili) appare quasi parziale nella<br />
realizzazione espressiva trova, da quel momento in poi, una sua più stabile forza di comunicazione.<br />
La stessa energia investe il suo mondo poetico, che deviando dal percorso iniziale, quello diaristico<br />
dei primi anni (1942-1960), approda a una scrittura di sperimentazione e di maggiore compattezza.<br />
Dove la compattezza non è una qualità letteraria ma è alla base della scrittura; è la premessa della<br />
qualità.<br />
È chiaramente impossibile riuscire a delineare, in un'opera come questa, un a tutto tondo che<br />
permetta una comprensione reale di Pasolini e della sua ‘infinitudine’. La sua fluvialità e il suo<br />
essere ancor oggi un unicuum nel panorama intellettuale italiano del secondo Novecento rendono<br />
impossibile questo tipo di approccio totale - tale da riuscire a proiettare una luce completa e<br />
minuziosa su ogni aspetto della sua personalità artistica e umana.<br />
La critica si è sempre mossa su orizzonti precisi nell’indagare la figura di Pasolini, preferendo<br />
privilegiare zone ristrette di azione, per poi cercare, magari, gli agganci che queste zone<br />
mantengono con il resto della struttura poetica dell’uomo. Ma consapevoli di questo limite. Opere<br />
complete non ve ne sono, e laddove tradiscono nel titolo questa intenzione, risultano essere alla fine<br />
abbastanza frammentarie.<br />
D’altronde è sterminata la bibliografia su Pasolini. E sono divergenti anche gli spunti critici che su<br />
una stessa prospettiva hanno proposto quanti si sono avvicinati al mondo pasoliniano. Così, capita<br />
che nell’esame del suo cinema, ci si imbatta sovente in divergenze critiche, dovute alla natura<br />
fluviale del tessuto poetico che le caratterizza. Come si vedrà in seguito, il cinema di Pasolini è un<br />
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cinema costruito a strati sovrapposti. Può capitare ad un certo punto di imbattersi nel termine<br />
borghesia, e allora si avrebbe la tentazione di deviare dal percorso iniziale, abbandonare la ricerca<br />
che si sta conducendo sul corpus filmico dell’autore, per rintracciare tutti quei fili sottilissimi e<br />
violenti che legavano i suoi pensieri a questo universo decadente e contemporaneo che fu la sua<br />
vera spina nel cranio; scoprendo poi l’intero universo che si nascondeva sotto gli strati superficiali<br />
del film in esame.<br />
Egli sapeva di essere scandaloso; ma ignorava il pericolo mortale che correva scandalizzando una<br />
classe come la borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti<br />
conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo [AA. VV., Pasolini: cronaca<br />
giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti 1971, pagina introduttiva redatta da A. Moravia].<br />
Basterebbe questo semplice spunto per allungarsi in centinaia di pagine alla ricerca, innanzitutto<br />
filologica, del termine borghesia (e la filologia era una grande passione pasoliniana), e da lì<br />
descriverne l’evoluzione nel corso dei secoli, le differenze concettuali che l’hanno marchiata,<br />
l’evoluzione dei suoi rapporti col mondo intellettuale e artistico, con il passaggio da una forma di<br />
sodalizio mecenatico a una visione contemporanea soffocante, dove il culto del prodotto ha<br />
declassato il ruolo dell’Arte nel mondo. E da qui giustificare in Pasolini il suo odio, totalmente<br />
ricambiato peraltro, come dimostrano gli innumerevoli processi e attacchi che egli subì. Poi si<br />
potrebbe cercare il filo rosso che unisce Pasolini a tutti quei suoi predecessori che hanno avuto<br />
rapporti conflittuali con la Storia e con le Istituzioni che la storia si ingegna a costruire; partendo<br />
proprio da quelli che lui ha spesso citato come esempi della sua vita: Rimbaud, Oscar Wilde, Dino<br />
Campana; i grandi furiosi del passato: Ariosto, Caravaggio, Villon... E nonostante questo non si<br />
riuscirebbe ad esaurire questo capitolo, peraltro marginale nell’intera vicenda pasoliniana.<br />
Ancora più difficile risulta riuscire a districarsi tra le innumerevoli formule e teorie critiche che<br />
hanno scandagliato l’opera di Pasolini. Se si pensa che il suo primo film, Accattone, è stato<br />
giudicato contemporaneamente, in quegli anni, secondo due prospettive completamente differenti.<br />
Da una parte, una certa critica l’ha ritenuto un frutto della tarda stagione neorealista. Da un’altra<br />
parte, altra critica ha voluto soprattutto metterne in luce gli aspetti innovativi, ad esempio l’aver<br />
assegnato ad un proletario, figlio della borgata umile e degradata di Roma, barlumi della coscienza<br />
poetica del suo Autore. E dunque mettendo in evidenza quello che sarebbe stato il motore principale<br />
della sua scoperta stilistica: la fusione fra Sguardo dell’autore e Sguardo del personaggio.<br />
In Pasolini c’è l’intrecciarsi di una molteplicità e di una vastità - sentita dallo stesso come necessità<br />
nel suo rapporto col mondo -, che è anche lo specchio dei mutamenti dell’Italia e del mondo<br />
occidentale in generale, nel corso dei decenni che si sono succeduti alla II guerra mondiale. Le ansie<br />
economiche, i nuovi scenari metropolitani, i topoi della cultura classica che si scontra con le<br />
panoramiche e le esigenze esplorative del nuovo, sono riflesse dal volto invecchiato di Pasolini che<br />
sembra portare sulla propria pelle i segni della crescita del mondo, e la sua contemporanea<br />
negazione.<br />
Ecco perché la scelta di uno studio che perimetra solo una certa zona della vita pasoliniana: per<br />
evitare di cadere in quel groviglio che è stata l’esistenza di Pasolini.<br />
Questa tesi è uno studio sul cinema e sulla poesia di Pasolini, nel momento in cui questo cinema e<br />
questa poesia non scorrono più solo su strade parallele ma anche convergenti. Vuole dimostrare in<br />
che modo i due orizzonti, poetico e cinematografico, risultino essere i suoi più congeniali, perché<br />
legati alla stessa radice<br />
1) descrizione ‘fotografica’ della realtà, con ampio riferimento alla sua cultura pittorica<br />
(nuovo neorealismo)<br />
2) descrizione filologica con ampio risalto al suo studio della ‘langue’<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
3) cultura e problema religioso - immagini blasfeme - sentimento di Sé<br />
4) sentimento della vita e dell’uomo - la realtà.<br />
E questi punti diventano anche, alla luce di quella che è stata la vita di Pasolini, vita estremamente<br />
contrabbandata in e dal pubblico, uno sguardo su tutta la sua figura. Uno sguardo sui due aspetti,<br />
intellettuale e umano, che hanno sempre camminato di pari passo.<br />
La sua ansia religiosa - studio dei Testi; reinterpretazione dei Testi in chiave marxista - il popolo<br />
sentito, in quanto umile, puro e pertanto religiosamente vissuto. La sua omosessualità è condizione<br />
di scandalo per gli altri perché crea diversità - almeno quanto diverso era Gesù in mezzo ai suoi<br />
contemporanei. Dunque la sua vita ha lo stesso destino - scandalo e martirio - la sua arte è la sua<br />
forza creatrice.<br />
Egli percepisce se stesso alla stregua di un santo, e allo stesso modo di questi diffonde una voce -<br />
non si arrende alla forza del proprio nichilismo e preferisce combatterlo con il Logos, con il senso<br />
di una voce densa e colta che deve affrontare tutto e tutti, la storia e l’umanità. Egli - che è di<br />
cultura decadente - non arriva al silenzio, o meglio ci arriva a suo modo, perché è il primo a<br />
rendersi conto della propria sconfitta - ma è un percorso fatto a denti stretti, quasi bestemmiando, è<br />
la sua voce fluviale e ininterrotta, trascinata sui quotidiani, nelle interviste televisive, nei processi<br />
subiti per tutta la vita, nelle opere che sembrano non bastargli mai e spaziano dal teatro alla<br />
letteratura in prosa e in versi, al cinema, alla saggistica e all’erudizione pura: questa voce è la sua<br />
forma di silenzio.<br />
Cioè Pasolini non è differente da quegli altri decadenti che, compresa la vita, contro di essa hanno<br />
innalzato un muro. Dostoevskij cercando la fede, Sartre rinnegandola, il suo amico Moravia<br />
tuffandosi nell’eros borghese, qualcuno suicidandosi, altri impazzendo.<br />
Pasolini nutriva l’ambizione di percorrere tutte queste strade. Non ci è riuscito, non fino in fondo.<br />
Questo tentato viaggio è testimoniato perfettamente dal suo cinema di poesia. La sua ansia di vita<br />
era la sua disperata vitalità.<br />
È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo in vita, manchiamo di senso, e il<br />
linguaggio della nostra vita... è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di<br />
significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita:<br />
ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi... e li mette in successione, facendo del nostro<br />
presente, infinito instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro<br />
stabile e certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile... Solo grazie alla morte, la nostra vita ci<br />
serve ad esprimerci [P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972].<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Capitolo II<br />
TRA CINEMA E POESIA:<br />
A) POESIA<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
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Bisogna partire sempre e comunque dal poeta. Non è un caso che alla sua morte, lo scrittore Alberto<br />
Moravia, uno dei suoi migliori amici, in un breve messaggio improvvisato sul luogo della tragedia<br />
disse: "Abbiamo perso soprattutto un poeta e di poeti non ce ne sono molti nel mondo, ne nascono<br />
tre o quattro in un secolo".<br />
La poesia era per Pasolini un tramite col mondo. Era una risposta da coltivare, nel corso del suo<br />
tempo, a quanto gli si opponeva e gli sbarrava lo sguardo. E così anche rispondendo dalle pagine<br />
dei vari quotidiani ai quali spesso collaborava, gli capitò di farlo attraverso un uso lucido della<br />
poesia, con quella sola lucidità permessa della poesia: la disperazione. Comporre versi per<br />
comunicare una propria idea o un proprio pensiero utilizzando il metro di una scansione emotivorazionale<br />
accumulata in strati di grande ferocia e odio. E l’esempio famoso, in tal senso, è la poesia<br />
da lui composta in occasione degli scontri fra polizia e studenti nel ‘68 a Valle Giulia. Ecco! in un<br />
momento storico estremamente vivo e polemico, Pasolini alza la propria voce e si fa interprete<br />
unicamente del proprio pensiero, senza cercare il facile appiglio di uno schematismo ideologico che<br />
in quegli anni vedeva gli studenti nel ruolo principale di vittime e dall’altra parte la polizia - e lo<br />
stato come simbolo del potere tout court - in quello contrario di oppressore. Anche in<br />
quell’occasione, il Pasolini cantore del proletariato, stupendo forse quanti da lui si aspettavano un<br />
atteggiamento diverso, esprime il proprio giudizio di condanna nei confronti degli studenti e lo fa<br />
con una celebre poesia, Il PCI ai giovani!!<br />
E risulta comunque singolare questa sua scelta di comunicare in versi. La poesia è da sempre<br />
un’arte elitaria, strumento per pochi, forma d’espressione più che di comunicazione. Invece Pasolini<br />
la vive esistenzialmente, la vive come suono del proprio io e quindi sostituisce quel suono alla<br />
propria voce. Lascia che sia la poesia a parlare per lui.<br />
Su Teorema, presentato in quel tumultuoso '68 alla mostra del cinema di Venezia, lo stesso Pasolini<br />
disse: Teorema è una poesia in forma di grido di disperazione... [Ivo Barnabò Micheli, Pier Paolo<br />
Pasolini - A futura memoria, film 1987]<br />
Ancora questa parola, con tutto quello che una semplice parola applicata al proprio sistema può<br />
esprimere. Ancora il credere che scrivere poesia significa sperare, sperare di poter dire tutto, molto<br />
di più di quanto si possa fare attraverso il cinema o la prosa. E questa era forse, inconsciamente, una<br />
vera e propria sfida: Perché se cinema e prosa hanno da sempre una specificità comunicativa, parte<br />
essenziale del loro patrimonio genetico, che li porta verso l’esterno con un immediatezza<br />
estremamente più diretta, e con una capacità penetrativa nell’immaginario collettivo che li assesta<br />
ad un livello più superficiale, la poesia, al contrario, emerge sempre da un rigurgito interiore<br />
estremamente irrazionale, da un momento di crisi, e si sviluppa proprio come tramite fra l’Io e<br />
questa crisi; è la sublimazione di questa crisi in immagini che riescono ad essere universali e<br />
comunicative solo se accettate in uno strato del proprio io più profondo.<br />
Il poeta, e per estensione l’uomo-costruttore, è un essere in perpetua crisi espressiva. La poesia<br />
sorgendo quindi da uno stato di tensione esistenziale e ideale, assorbe i contenuti, e finisce sempre<br />
per identificarsi con la crisi del linguaggio. Si giunge così a quell’affanno vitale, ove l’imprevisto<br />
della ricerca sconvolge ogni ragionamento [Arthur Rimbaud, Opere, Gian Piero Bona a cura di,<br />
Einaudi 1990: Era il 1939. Pasolini frequentava il secondo anno al liceo Galvani di Bologna, e un<br />
suo professore, Antonio Rinaldi, lesse in classe alcuni versi da Le Bateau Ivre di Rimbaud. Per<br />
Pasolini fu una folgorazione. Cominciò ad introdursi nel mondo della poesia e di lì a poco avrebbe<br />
scritto le sue prime liriche in dialetto friulano. E spesso, durante il corso della sua vita, Pasolini<br />
paragonò la propria vicenda esistenziale con quella del poeta francese. Soprattutto per quello che<br />
riguarda il proprio desiderio di libertà nel contesto della società borghese].<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Questo è stato detto a proposito di Rimbaud - un poeta che ha iniziato al mondo dell’arte (e all’arte<br />
del mondo) Pasolini. Questo vale per Rimbaud, vale per Pasolini, e per qualunque poeta.<br />
Pasolini negli anni del suo debutto cinematografico è all’interno di una rivoluzione violenta. Fuori,<br />
il mondo contadino e proletario si arrende di fronte all’avanzata del nuovo, dell’economicamente<br />
utile. Gli studenti scendono in piazza e gridano, inscenando la nuova rivoluzione. Per Pasolini fare<br />
un film significherà quasi sempre andare incontro ad un processo (e questo è un altro capitolo a sé<br />
dell’universo pasoliniano: la quantità di processi da lui subiti è esemplificativa del suo rapporto di<br />
scontro con la realtà, ma anche della sua ossessione di essere icasticamente accettato come un<br />
martire della nuova civiltà occidentale, al pari di San Paolo per esempio). Gli attacchi gli giungono<br />
da ogni parte. È qualcosa che tenta di castrare la sua voce, allora la sua voce si moltiplica. I versi<br />
proliferano, succedono le immagini, la prosa, il teatro... eppure è lo stesso Pasolini ad avvertire in<br />
tutto questo un senso di stanchezza: Vorrei esprimermi con gli esempi, gettare il mio corpo nella<br />
lotta. Forse l’arte davvero non basta più. Bisogna ogni volta inventare di più, scrivere un altro verso<br />
in risposta ad un'altra calunnia, o ad un semplice equivoco su qualche sua espressione. L’edificio da<br />
lui messo in piedi è troppo complesso perché possa essere interamente compreso. Chi comunica<br />
cerca soprattutto orecchie a cui far giungere la propria voce. E la sua verve polemica non gli<br />
consentiva di sorvolare sulle sviste e sulle incomprensione. Pasolini si era chiuso in un angolo.<br />
Probabilmente da sempre, da quando ragazzino scrisse i primi versi in friulano. Ma il tempo gli ha<br />
portato lentamente più occhi da guardare, più nemici da controllare, e meno speranza da opporre a<br />
chi lo stringeva in quell’angolo. E fu lui stesso ad avvertire questa sua visione apocalittica della<br />
realtà.<br />
Siamo alla fine degli anni '50: La morte non è nel non poter comunicare - disse - ma nel non poter<br />
più essere compresi...<br />
Pasolini ha bisogno di qualcos’altro. Quello che gli serve non è cambiare la tecnica letteraria ma la<br />
lingua. Un'altra lingua, in fondo, è solo un’altra forma di protesta. Nasce il poeta-regista.<br />
Se fosse possibile definire la natura di Pasolini, probabilmente bisognerebbe ricorrere ad un termine<br />
come sinfonica. Era cioè, la sua, una natura in cui si incontravano una molteplicità di voci e di<br />
interessi, che nell’ansia di verità da lui sempre cercata, finivano per creare più contraddizione che<br />
risoluzione. Avevano come esito una mancata unità, un proliferare della scissione. E questo senso di<br />
dispersione era avvertito dallo stesso Pasolini, che finì per indentificarvi la propria radice<br />
esistenziale.<br />
E quindi ne scrisse. In versi per esempio:<br />
... lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/ con te e contro te; con te nel cuore,/ in luce, con te<br />
nelle buie viscere... [P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Bestemmia, Garzanti 1995]<br />
Eppure tutto questo non basta: la contraddizione è un essere pericoloso che risale le sorgenti del<br />
proprio divenire per cercarne la fonte o il meccanismo primo. E invece vi trova l’impossibilità.<br />
Allora comincia a gridare e nell’ascolto del proprio grido percepisce il desiderio di un grido<br />
maggiore, più forte e rauco e traumatico del precedente; e anche più consolatorio, che dia pace. Ma<br />
non accade.<br />
Pasolini era sicuramente al corrente di questa impossibilità, ma come è stato notato da qualcuno,<br />
non spinse fino in fondo il pedale della propria follia per precipitarci dentro. Si accontentò di vivere<br />
la propria schizofrenia, diviso in due fra un'immagine di intellettuale scandaloso e pubblico, che è<br />
dentro le cose perché le guarda e le descrive. E l’uomo privato, sempre sul punto di venir fuori in<br />
maniera prepotente e invece, paradossalmente, ogni volta rimandato indietro da quell’opera in più<br />
che, l’intellettuale, nel frattempo imbastiva. È questo il vero nucleo della contraddizione<br />
pasoliniana. Che lui cercava nella quantità di opere una possibilità totale di espressione, e invece in<br />
quella quantità trovava il limite ultimo.<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
La cosa più importante che Pasolini avrebbe potuto dare ai suoi contemporanei sarebbe stata il<br />
suo diario. Esprimere la realtà dei suoi traumi psichici, esprimere il dramma del suo impatto con<br />
la vita, mostrare cosa vedeva questo agnello francescano nel popolo astorico, feroce e innocente.<br />
Esprimerlo dal di dentro, con i particolari: questa sarebbe stata tridimensionalità, che avrebbe<br />
fatto vivere quella materia piatta che sono i ragazzi di vita nei suoi romanzi. Ne sarebbero stati<br />
coinvolti tutti, perché è un dramma di tutti. Sarebbe stata una buona occasione per l’intellettuale<br />
italiano di recidere la barriera artificiosa tra esistenzialità e impegno, tra soggettività e<br />
oggettività. Per mescolarsi nella vita, ma direttamente, portandosi dietro tutto se stesso, non<br />
facendo finta di non esserci. [AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Kaos-Gammalibri, Milano<br />
1976. Già apparso sul n. 7 della rivista letteraria “Salvo imprevisti”.]<br />
Quando arriva al cinema, Pasolini scopre una nuova possibilità: la sintesi. L’immagine diviene il<br />
medium espressivo che meglio riesce ad arginare la sua forte dispersività, fino a raggiungere uno<br />
stadio di maggiore compattezza, dove si unificano e livellano i diversi piani su cui di solito lavora.<br />
Era ciò che cercava. La sua polemica con la realtà trovava un nuovo fronte d’attacco. Ed era<br />
probabilmente anche quello che davvero gli serviva.<br />
La dispersione che lo costringeva a scrivere versi su versi, ad iniziare romanzi che non portava a<br />
termine (le prime redazione di Atti impuri e Amado mio furono lasciati inediti e pubblicati solo<br />
dopo la sua morte, nel 1982), a cimentarsi nella tragedia in versi, si arresta di fronte alla nuova<br />
lingua. Le immagini diventano un contenitore dove le sue contraddizioni continue, le sue ansie<br />
‘mistiche’ e popolari, i suoi bisogni ‘intellettuali’ e le sue urgenze sessuali, riescono ad amalgamarsi<br />
in una fusione quasi stabile.<br />
Tutto questo non cancella quanto detto prima, a proposito di quella fortissima contraddizione del<br />
proprio percepirsi, ma sicuramente nella nuovo langue che egli impara a coniare, una sintesi<br />
violenta di cinema e poesia, Pasolini fa grandi passi in avanti.<br />
Quello che era l’espandersi e il dilagare, caratteristico della sua poesia - non a caso la predilezione<br />
di Pasolini è per poesie lunghe, quasi dei poemetti - nel cinema scompare progressivamente. (E<br />
anche il suo ultimo romanzo - Petrolio, incompiuto, porta i segni di questa trasformazione. È un<br />
romanzo visivo, scritto per immagini, organizzato per microcapitoli. Come una sceneggiatura.)<br />
Nel 1957 Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci. Mancano pochi anni al suo primo film,<br />
nonostante già lavori da tempo come sceneggiatore. In questa raccolta poetica predomina la forma<br />
del diario in versi. Pasolini imbastisce dei poemetti fatti per metabolizzare la realtà e descrivere<br />
situazioni anomale nel panorama della poesia. La sua poesia diventa sempre più prosa in versi e si<br />
allunga in descrizioni di descrizioni. Se si pensa che l’Italia poetica d’inizio secolo era quella di<br />
Montale e di Ungaretti, scrittori che cercavano nella singola parola la possibilità di dire tutto e di<br />
esprimersi, si comprende quale sia l’ulteriore stacco fra Pasolini e il resto.<br />
E in effetti la contemporaneità gli andava stretta, perché le sue radici sono nel mito classico-pagano<br />
della natura greca. È lì che Pasolini si cerca. Mentre il Novecento è: da una parte Montale con le sue<br />
atmosfere ermetiche, dall’altra Ungaretti all’insegna dei due versi. Così pure Saba. E gli anni '60<br />
che vedono il formarsi del gruppo ‘63, propugnatori dell’avanguardia stilistica.<br />
Nel 1961 Pasolini scrive La Persecuzione [P.P. Pasolini, La persecuzione, Poesia in forma di rosa,<br />
ed. Garzanti 1964] prendendo spunto da un semplice avvenimento quotidiano, la descrizione di un<br />
pomeriggio passato in un bar di periferia, si dilunga per otto pagine e 64 terzine, nel tentativo di<br />
creare un affresco aperto che fagociti tutto il possibile reale. Si immerge nelle atmosfere della sera<br />
romana, densa di voci volti e persone, in una luce crepuscolare che lentamente scende sul mondo, e<br />
apre un discorso con la propria esistenza. Discorso aperto, tendenzialmente infinito. Quindi<br />
incompleto. E contraddittorio. In fondo è un leit motiv che si ripete. Le solite ansie di Pasolini: il<br />
mondo che si trasforma, la perdita dell’innocenza, il senso di esclusività - per cui egli è da solo a<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
percepire questa catastrofe e da solo la porta con sé quando risale in macchina e si allontana per le<br />
strade della sua Roma, pomeriggio di ferragosto...<br />
Ecco che la poesia, in questo senso, non placa Pasolini. Gioca con lui in questo cerchio infinito,<br />
dove sembra possibile sempre aggiungere un’altra parola, e poi un’altra, e un’altra ancora, per<br />
ritrovarsi magari al punto di partenza.<br />
Invece è nel cinema che Pasolini perverrà ad una prima e importante novità. Il cinema di Pasolini<br />
riesce ad essere sintetico. Assieme a questa c’è una seconda novità, anch’essa importante se si<br />
considera l’iter da isolato che lo contraddistingue in qualsiasi campo in cui opera. Pasolini è un<br />
regista ‘contemporaneo’ nella misura in cui accetta e prosegue una certa tradizione cinematografica.<br />
Alla maggior parte della critica del tempo, il suo primo film, Accattone.(1961), è sembrato un tardo<br />
prodotto neorealista. Un frutto di quella che è considerata la più prolifica e importante stagione del<br />
cinema italiano. E in effetti la descrizione realistica degli ambienti e dei personaggi è figlia del<br />
neorealismo. Lo sguardo della macchina da presa aderisce al punto di vista della storia, vaga per le<br />
strade, si serve di attori presi da quelle strade, parla nel loro dialetto e conosce quel tipo di miseria.<br />
Ma già in questo suo primo film, come nella figura del protagonista, sono presenti quegli elementi<br />
che diventeranno sempre più evidenti nel corso del suo lavoro: la necessità di elaborare una propria<br />
idea di cinema, di utilizzare il patrimonio di regole e stili fin qui messi in atto, per arrivare ad una<br />
visione più personale ed espressivamente efficace. È questo il clima intellettuale in cui nasce la sua<br />
idea di cinema. Allora non è esagerato, da questo punto di vista, dire che Pasolini ha operato sul<br />
film, allo stesso modo dei grandi teorici del passato: Eisenstein, Pudovkin o Dovzenko. Si è servito<br />
di tutto il patrimonio che aveva a disposizione e su di esso ha costruito le proprie nuove regole.<br />
Se poi la fortuna di un autore si misura anche nella capacità che ha, volontariamente o<br />
involontariamente, di creare una sorta di scuola alla quale partecipano adepti al culto stilistico del<br />
"maestro", bisogna dire che proprio in questi anni il cinema di poesia pasoliniano è ritornato in<br />
auge. È accaduto esattamente in Danimarca, dove alcuni registi, su tutti Lars Von Trier e Thomas<br />
Vittenberg, nel 1995 si sono riuniti e hanno deciso di proclamare un manifesto estetico comune<br />
chiamato 'Dogme 95". Tale manifesto è composto da alcune semplici regole che ricalcano quasi alla<br />
lettera le impostazioni che Pasolini utilizzò nella stesura del suo manifesto cinematografico. È<br />
curioso che questo avvenga proprio con un autore come Pasolini: innanzitutto perché egli fu un<br />
regista spurio; proveniva dall’ambiente letterario e si avvicinò solo più tardi al cinema (aveva 39<br />
anni all’uscita del suo primo film). Lavorò da letterato anche sul cinema, stilando teorie critiche e<br />
regole di inquadratura. Era, insomma, un autore estremamente particolare.<br />
Eppure basta accostare i due manifesti per scoprire quante similitudini ci siano.<br />
Dogme 95<br />
- Le riprese dovranno aver luogo in esterni. Scenografie ed accessori non possono essere<br />
aggiunti.<br />
- Il sonoro non deve mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa.<br />
- La macchina da presa dev’essere tenuta a spalla. Ogni movimento o immobilità fattibile<br />
a spalla è concessa.<br />
Queste sono le prime tre regole stilate dai cineasti danesi. A pag. 185 di Empirismo eretico, il testo<br />
in cui ha raccolto sistematicamente le sue idee sul cinema, Pasolini dice qualcosa di assai simile:<br />
... i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di<br />
macchina a mano... le immobilità interminabili su una stessa immagine...<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
E poche righe più avanti Pasolini afferma che questo nuovo modo di fare cinema è già divenuto un<br />
patrimonio espressivo comune a parecchie cinematografie, sia europee che mondiali, con differenze<br />
che derivano dalle diverse condizioni socio-politico-culturali in cui viene elaborato. Pasolini<br />
conosceva il lavoro dei cineasti della Nouvelle Vague francese, il nuovo cinema cecoslovacco o<br />
brasiliano, sapeva che i registi di questi paesi lavoravano su un clima stilistico fatto di regole assai<br />
simili. E che la differenza stava nel contesto in cui i singoli registi operavano.<br />
Stesso discorso vale dunque anche per i contemporanei del 'Dogma'. Pasolini, non ha creato seguaci<br />
- come si vedrà in seguito -, ma ha contribuito al rinnovamento lessicale della settima arte.<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
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Capitolo II<br />
TRA CINEMA E POESIA:<br />
B) CINEMA<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
I film di Pasolini sono stati sommariamente racchiusi in alcune brevi categorie che la critica ha<br />
utilizzato per studiare le analogie e i rapporti che si rincorrono in ogni opera.<br />
La maggioranza dei critici tende a dividere il mondo filmico pasoliniano in tre sezioni: nella prima<br />
sezione confluiscono i film compresi fra Accattone e il Vangelo. E sono i cosiddetti film del sacro.<br />
Uccellacci e uccellini è il momento di passaggio e di cesura dal cinema del sacro al cinema di<br />
poesia, che va da Edipo re a Porcile. Il cinema dei popoli lontani, terza sezione, va da Medea a Il<br />
fiore delle Mille e una notte. E infine, un film e una categoria a sé stante, il presente - come orrore e<br />
morte - costituito da Salò. [Questa suddivisione è stata adottata ad esempio da Adelio Ferrero, Il<br />
cinema di Pasolini, Marsilio 1994.]<br />
In realtà, come vedremo, queste categorie sono abbastanza permeabili e consentono passaggi<br />
continui. In effetti già Accattone, il suo primo film, è un esempio compiuto di cinema di poesia. E<br />
la prima sezione, oltreché contenere i film del sacro, può ugualmente esser denominata: della realtà<br />
In questa sezione confluiscono i film che vanno dal 1961 al 1966: Accattone, Mamma Roma, La<br />
ricotta, La rabbia, Comizi d’amore, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini. Inoltre, in<br />
questo periodo Pasolini girò anche un documentario in Palestina dove avrebbe dovuto ambientare il<br />
film sul Vangelo. Il lavoro fu poi misconosciuto dall’autore che non gli dedicò molte attenzioni;<br />
quel suo viaggio nei luoghi sacri della tradizione cristiana fu assai deludente. Pasolini era ansioso di<br />
ritrovare quei volti e quei passaggi che avevano da sempre fertilizzato la sua fantasia religiosa e la<br />
sua idea di Visione. Ma l’Israele e la Giordania moderni non contraccambiarono le sue attese, anzi.<br />
Pasolini si convinse sempre di più che solo il Meridione italiano poteva essere ancora quella terra<br />
arcaica che stava cercando. Per queste ragioni, forse, il suo glissare su questo lavoro: ... il materiale<br />
non era neanche montato... non ho avuto tempo di scrivere neanche il commento, siamo andati<br />
nella saletta di doppiaggio e man mano che quel materiale mi passava davanti agli occhi, mi<br />
improvvisavo speaker. Ecco tutto quello che posso dire a proposito di questi Sopralluoghi in<br />
Palestina. [Oliver Stack, Pasolini on Pasolini, Thames and Hudson, London.]<br />
La seconda sezione comprende i film del biennio 1968-1970: La terra vista dalla luna,.Edipo re,<br />
Che cosa sono le nuvole?, Teorema, La sequenza del fiore di carta, Porcile e Medea. Anche in<br />
questo periodo Pasolini gira alcuni documentari: il primo in India e il secondo in Africa. Il primo,<br />
commissionatogli dalla Rai, doveva servire per un lungo film inchiesta sulla cultura religiosa e<br />
materialistica indiana. Ma il progetto non andò mai oltre, dal punto di vista filmico, a questo<br />
reportage. Ma la suggestione di quei luoghi fu talmente forte da stratificarsi permanentemente sia in<br />
lui che in Moravia e confluì qualche anno dopo in un libro [P.P. Pasolini, L’odore dell’India,<br />
Guanda 1990]. E anche il suo cinema futuro fu assai influenzato da quel viaggio, Pasolini<br />
cominciava ad interessarsi alle scenografie naturali dell’Oriente. Il secondo documentario era un<br />
prologo al progetto di un Orestiade africana.<br />
Sono questi i film della nuova formulazione linguistica, in cui l’autore raggiunse un’armonia<br />
formale molto più solida rispetto ai precedenti lavori. Sono i film a cavallo del '68, anno cruciale<br />
per la società borghese del secolo. E sono i film a cavallo di Teorema che, a mio avviso, rappresenta<br />
il momento centrale di tutta la sua carriera registica. E non tanto per quanto riguarda gli esiti estetici<br />
che sono sempre opinabili, ma soprattutto perché Teorema è uno specchio fedele di tutto il suo<br />
cinema.<br />
A cominciare dal titolo, in cui è espressa la necessità di formulare una teoria estetica da anteporre al<br />
lavoro sul set e di ricorrere ai meccanismi magici e alchemici della geometria.<br />
Il cinema di Pasolini è sempre stato un cinema estremamente geometrico, che non rinuncia mai alle<br />
sovrapposizione, alle simmetrie, agli schemi. Le immagini si rifanno alla grande Figurativa<br />
medioevale e rinascimentale. Ne studiano la prospettiva e il contorno cercando di riprodurli e<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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reinterpretarli. Ed è inoltre, il suo, il cinema teorico per eccellenza: si appoggia ad uno studio<br />
preparatorio che le immagini dovrebbero sviluppare e sciogliere nelle soluzioni formali.<br />
Inoltre Teorema è il film del '68; fu presentato a quella famosa e turbolenta edizione del Festival di<br />
Venezia, in cui un gruppo di autori, e fra questi il Nostro, occupò una parte del palazzo per<br />
protestare contro il vetusto regolamento della Biennale, di stampo fascista, che privilegiava l’idea di<br />
concorso e quindi di premiazione, a quello più moderno e culturalmente soddisfacente di rassegna.<br />
Teorema è anche il film dell’ennesimo processo; forse neanche troppo diverso dai tanti altri che<br />
l’hanno visto salire sul banco degli imputati, ma che arriva al culmine della crisi personale di<br />
Pasolini, crisi umana e anche intellettuale. E qualcosa dentro di lui comincia a franare. Germogliano<br />
le abiure, si cancella la speranza. La sua anarchia si fa apocalittica, il suo rifiuto avvolge ogni<br />
aspetto della contemporaneità. La disperata vitalità sembra essere ormai solo disperazione. I film<br />
successivi, quelli degli ultimi cinque anni di vita, nascono da questo terreno.<br />
Pasolini si sentiva marchiato a fuoco dall’infamia di tutto un regime. Si sentì solo, abbandonato<br />
dagli intellettuali che avrebbe voluto solidali, abbandonato dall’opinione pubblica che anzi, in più<br />
occasioni lo tacciò di incoerenza perché alla fine egli aveva accettato di proiettare Teorema a quel<br />
Festival che aveva contestato. E tra l’altro da quel Festival era stato anche insignito del premio<br />
OCIC (il gran prix dell'Office Catholique international du cinema) e col nuovo capitolo del suo iter<br />
giudiziario. [Il film fu prima sequestrato per oscenità il 13 settembre 1968 e poi assolto per<br />
l’insussitenza del fatto il 23 novembre dello stesso anno.]<br />
Teorema è il film-centro, il film-summa, quello che riesce a presentarsi meglio di altri come<br />
sistemazione esaustiva delle sue intenzioni espressive. È un film citazionistico, intenso e al limite.<br />
Esprime quella trasversalità che caratterizzava da sempre le sue rappresentazioni: non è un caso che<br />
l’idea base del film abbia attraversato la mente di Pasolini in ogni forma: nasce come tragedia in<br />
versi, si sviluppa come romanzo, diventa un film.<br />
Il terzo gruppo di opere comprende quelle della cosiddetta Trilogia della Vita: Il Decameron, I<br />
racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte. Un breve documentario intitolato Le mura di<br />
Sana’a, e il suo ultimo lungometraggio, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Sono i film degli ultimi<br />
cinque anni di vita.<br />
Dunque Accattone-Teorema-Salò, ideale spina dorsale del cinema pasoliniano.<br />
La storia di Pasolini regista comincia nel pieno rispetto della grande tradizione cinematografica<br />
italiana. Nonostante la sua immagine pubblica di corsaro, difficilmente si troverà un artista capace<br />
di adeguarsi alla storia, miscelando con tanto equilibrio antico e moderno, innestando su un tessuto<br />
formativo essenzialmente classico le spinte eversive della sua personalità.<br />
Siamo nel 1961, la stagione neorealista è finita da tempo, sono anni densissimi di esordi: basti<br />
pensare a registi come Antonioni, Olmi, Bellocchio, i fratelli Taviani, Ferreri, Fellini (che aveva<br />
cominciato qualche anno prima ma che da La dolce vita in poi trova la sua consacrazione<br />
definitiva). Ognuno di questi autori portò nel lavoro un bagaglio espressivo assai personale che<br />
preferiva riallacciarsi trasversalmente a tutto il cinema mondiale, anziché privilegiare una<br />
specificità nazionale e culturale. In qualche modo gli esordi del '60 portarono alla luce una<br />
generazione di cineasti che guardava a tutto il cinema, e non soltanto alla tradizione più prossima<br />
del proprio paese.<br />
Solo quando fu proiettato Accattone, alla mostra del cinema di Venezia di quell’anno, la<br />
maggioranza dei critici notò quanto quel film fosse diretta conseguenza della stagione neorealista.<br />
Parente prossimo di film come Germania anno zero di Rossellini, o La terra trema di Visconti,<br />
con i quale mantiene un rapporto di contiguità: una serie di elementi comuni, che vanno dall’uso di<br />
attori non professionisti presi dalla strada, all’abitudine di girare soprattutto in esterni sui veri<br />
luoghi dell’azione, all’utilizzo di una fotografia sgranata ed efficacemente realista, fanno sì che<br />
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Accattone possa essere definito un tardo prodotto di quel periodo. Ma è chiaro che si tratta di un<br />
analisi puramente esteriore. Già nell’uso comune degli attori non professionisti emerge quella<br />
specificità dello sguardo poetico che differenzia Pasolini da tutti gli esempi sopra citati.<br />
La ricerca dell'attore è la cosa che più mi prende perché in quel momento io verifico se le mie<br />
ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde<br />
effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di giovani attori, che<br />
siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po' incerti e un po' buffi, non cerco i giovani<br />
attori appena usciti dall'Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece<br />
vivono in una borgata di periferia e sono realmente cosi'! Più semplicemente vado appunto in una<br />
borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando<br />
invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all'attore<br />
professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile. [G. Bachman e D. Gallo,<br />
Pasolini: ultima conversazione, intervista pubblicata su “Filmcritica” n. 256, Roma, agosto 1975.]<br />
E da qui comincia la vera rivoluzione stilistica di Pasolini; e cioè, innestando su un tessuto così<br />
bene ancorato al passato della nostra cinematografia un discorso pienamente personale, autoriale ed<br />
estremamente complesso. Il neorealismo è solo lo spunto di base per trascendere al di là di esso.<br />
Come in altre occasioni, la tradizione per Pasolini è più un punto di partenza che d’approdo. È un<br />
modello formativo piuttosto che uno sbocco.<br />
Accattone in realtà è un film tragedia, nel senso in cui veniva concepita la tragedia classica; nel<br />
modo in cui viene recuperato il teatro classico greco e da lì utilizzato per descrivere un viaggio di<br />
iniziazione verso la morte.<br />
Gli ambienti neorealisti ci raccontano non più il presente, la cronaca spietata della guerra e della<br />
ricostruzione, ma il passato. Quel passato eterno che è l’esistenza nuda e cruda, al di là delle<br />
categorie sociologiche o antropologiche che nei secoli l’hanno accerchiata.. L’esistenza come<br />
rapporto diretto col proprio destino, e dunque con la fine. E lo fanno sfruttando tutti gli stilemi della<br />
classicità greca. Il personaggio di Accattone diviene emblematicamente l’icona del destino,<br />
quell’idea di vita che attraversa gli avvenimenti quasi trainata a forza da un’invisibile e oscura<br />
malia. L’approdo di questo viaggio è la conclusione della vita. Tutto ciò che lo circonda è utilizzato<br />
da Pasolini come tentativo di dare dei segnali d’avvertimento al suo eroe, ma ad Accattone manca<br />
l’elemento sintetico dell’esperienza: la coscienza (ecco che su un intreccio greco-moderno si innesta<br />
una nuova traccia, il problema della coscienza della realtà. Un problema ideologico, dal momento<br />
che Pasolini ha sempre rivendicato la necessità marxista di ‘presa di coscienza’)<br />
Il destino di Accattone è segnato, ma poiché egli non ne può avere una coscienza lucida e perfetta –<br />
tale da permettergli un minimo scarto e una possibilità di correzione -, ecco che su di lui agiscono i<br />
segnali dell’inconscio. Accattone sogna il proprio funerale. Accattone sfida la morte gettandosi nel<br />
Tevere. E lo fa dando spettacolo a quanti accorrono sul luogo per osservarlo, poiché la vita è uno<br />
spettacolo che gli altri osservano. Poiché ci si rappresenta, costantemente. Una sorta di teatro nel<br />
teatro. Pasolini gioca con se stesso e con le proprie contraddizioni: cultura moderna, decadente ed<br />
ottocentesca, descrittiva ed egotica, all’interno della rappresentazione distesa e classica di stampo<br />
greco.<br />
Il tuffo per lui non è altro che un rito primitivo e propiziatorio, attraverso il quale avvicinarsi alla<br />
vita, poiché non sa che il suo destino ha intrecciato una corsa irresistibile verso la morte. Attorno a<br />
lui il gruppo di amici perennemente seduti al bar commenta le sue avventure, assolvendo alla<br />
funzione del coro nel teatro classico.<br />
E questo è un nuovo elemento di contiguità col presente che viene ribaltato nel momento stesso in<br />
cui viene presentato. Questi amici della borgata, seduti al caffè a perdere tempo e a spettegolare su<br />
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tutto, sono figli del coro greco, ma potrebbero benissimo essere un’altra razza di vitelloni felliniani.<br />
Gente seduta, che parla, fantastica, sogna, organizza. E fa pochissimo.<br />
E d’altronde la storia registica di Pasolini si intreccia spesso in questi primi tempi con quella di<br />
Fellini. Fellini avrebbe dovuto essere il suo primo produttore, conosceva personalmente Pasolini<br />
che lo aveva aiutato nella stesura dei dialoghi in romanesco del suo film Le notti di Cabiria. Gli<br />
diede i mezzi per cominciare il suo primo lavoro, ma dopo appena una settima di girato e dopo aver<br />
visionato i giornalieri, decise che Pasolini non era in grado di fare un film e stracciò il contratto di<br />
produzione. Pasolini disperato si rivolse altrove e trovò il produttore Bini e il direttore della<br />
fotografia Tonino delli Colli che lo aiutarono nella realizzazione di Accattone. In seguito Pasolini si<br />
trovò spesso a competere in rassegne cinematografiche dove erano presenti anche opere felliniane.<br />
E lui soffrì sempre del fatto che la critica dedicasse molta più attenzione al collega.<br />
Per Pasolini quei film erano troppo leggeri. E ne La ricotta trova una definizione perfetta per<br />
decifrare il suo rapporto col collega. Un giornalista si avvicina ad Orson Welles per fargli delle<br />
domande. Welles nella pausa di lavorazione del suo film sta leggendo alcuni versi tratti Poesia in<br />
forma di Rosa. E quando il giornalista gli chiede cosa ne pensa di Fellini risponde, fingendo di<br />
pensarci: "Egli danza, sì egli danza..."<br />
Questo episodio aiuta a comprendere in qualche modo la marginalità in cui si trovò sempre ad<br />
operare Pasolini. Dal momento che egli, al contrario di tanti suoi colleghi, non agì mai sul presente.<br />
Ma solo sul passato (la sua cultura) e sul futuro (le sue intuizioni-visioni, le sue necessità). La stessa<br />
emarginazione divenne, però, anche la sua arma. Pasolini capì la necessità di trovare uno stile-guida<br />
attraverso il quale ‘giustificare’ il proprio lavoro.<br />
E non è un caso se molti dei registi di quegli anni siano riusciti a costruire, volenti o nolenti, una<br />
scuola, tanto che oggi si parla di film felliniani, godardiani, all’Antonioni, alla Ferreri, alla Truffaut<br />
ecc... mentre difficilmente si è utilizzato l’attributo di film pasoliniano, alla Pasolini. Proprio perché<br />
ci fu in quest’ultimo un utilizzo dello specifico filmico totalmente e completamente personale. E la<br />
formulazione che fece di questa sua teoria cinematografica ne è l’ulteriore conferma.<br />
Il cinema-poesia pasoliniano, come abbiamo già rilevato, presenta alcune analogie con certe teorie<br />
stilistiche che si andavano manifestando in quegli anni. Ma ha anche una sua specificità che lo<br />
rende difficilmente assimilabile all’esterno. Pasolini si servì del cinema utilizzandolo come fosse<br />
una punta d’iceberg, la parte visibile di un mondo invisibile, che era sotto e si agitava. Un mondo<br />
fatto di letteratura, teatro, filologia, studi critici, semiologia, storia dell’arte (indispensabili le lezioni<br />
di Roberto Longhi seguite a Bologna). Ecco perché la sua formulazione teorica finisce di essere per<br />
tutti nel momento stesso in cui viene applicata dal suo ideatore. Al massimo potrà creare dei<br />
parallelismi, ma mai una scuola.<br />
Ed è proprio tornando ad Accattone che si precisa meglio in che modo tutti questi elementi abbiano<br />
concorso a costruire il film neorealista e a-neorealista. Il discorso di Pasolini, che era partito dalla<br />
tradizione della cinematografia nostrana, è lentamente approdato alle rive della propria tradizione.<br />
L’inquadratura, che esteriormente poteva sembrare figlia di Rossellini e De Sica, ci si mostra ad<br />
uno studio più approfondito come figlia della pittura rinascimentale di Masaccio: gli elementi<br />
transitano davanti all’inquadratura come in una rappresentazione pittorica. Con Accattane e nei suoi<br />
film successivi egli scopre in maniera autonoma il potere iconico del cinema. E sembra quasi<br />
bloccarsi attonito su ogni volto, su ogni corpo, disgiungendoli dallo sviluppo del racconto [G.Piero<br />
Brunetta, Storia del cinema italiano, Editori Riuniti 1982]. La macchina da presa assume il punto di<br />
vista del pittore quattrocentesco e ne riproduce la dinamica espressiva, il rapporto fra i personaggi e<br />
lo spazio. L’inquadratura è quasi sempre frontale, non racconta gli avvenimenti ma li rappresenta.<br />
L’occhio del pittore, influenzando il montaggio, non viene utilizzato per giustapporre le<br />
inquadrature secondo uno schema logico ma secondo uno schema espressivo. Alternanza di primi<br />
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piani e campi lunghi, come se di volta in volta ci si allontanasse o avvicinasse dal ‘quadro’. La<br />
musica sacra contrappunta la miseria delle borgate. Con un ulteriore scarto il Pasolini trasversale<br />
retrocede oltre il neorealismo e approda alla lezione di Dreyer [Dreyer Carl Theodor, regista danese<br />
(1889-1968)]. Sequenze mute, dove il silenzio visualizza l’angoscia notturna di Accattone preda di<br />
un incubo. Come in un film del muto, un film delle vere origini.<br />
Già con Accattone nasce il cinema di poesia.<br />
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Capitolo III<br />
LA REALTA’<br />
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"Si è detto che ho tre idoli:Cristo, Marx, Freud. Sono solo formule.<br />
In realtà, il mio solo idolo è la Realtà."<br />
[Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi 1989]<br />
Dunque la poesia irrompe nel suo cinema ancora prima che egli si dedichi a codificarlo e a<br />
descriverne regole e meccanismi; quasi che la poesia, anche in ragione di quanto si è detto in<br />
precedenza, appartenga in profondità al suo tessuto genetico-espressivo. È dalla poesia, infatti, e<br />
dalle riflessioni che si innestano su questa, che Pasolini deriva tutto il successivo apparato logico.<br />
La poesia è una sorta di alveolo dal quale egli parte verso il mondo, e al quale ritorna dopo tutte<br />
quelle peregrinazioni che costituiscono il fondo della sua recherche.<br />
Ma dove andava Pasolini quando si avventurava al di fuori di se stesso? E cos’era, in definitiva,<br />
questa ricerca?<br />
"L’idea di Mamma Roma mi venne almeno un anno prima che scrivessi il copione di Accattone,<br />
quando tutti i giornali parlarono della drammatica morte di Marcello Elisei, un giovane detenuto<br />
morto a Regina Coeli legato al letto di contenzione." [P.P. Pasolini. Le regole di un’illusione. I<br />
film, il cinema. Fondo Pasolini]<br />
"Vidi Ettore Garofalo quando stava lavorando come cameriere in un ristorante dove andai a cena<br />
una sera, da Meo Petacca, esattamente come l’ho mostrato nel film, mentre porta un cesto di frutta,<br />
proprio come una figura di un quadro di Caravaggio." [O. Stack. Pasolini on Pasolini, Thames and<br />
Hudson, London]<br />
Mi sembra che in queste due brevi dichiarazione rilasciate da Pasolini ci siano elementi che<br />
riescano ad illuminare perfettamente il significato che riveste per lui fare un film. Per Pasolini<br />
operare dietro una macchina da presa significava imbastire innanzitutto un lungo processo di<br />
trasfigurazione. Probabile che questo sia l’elemento cardine dell’ispirazione tout court, ma nello<br />
studio dell’opera pasoliniana ci permette di capire quanto questo processo fosse centrale e<br />
determinante, e quali fossero i due poli tra i quali egli si muoveva costantemente.<br />
La trasfigurazione operata da Pasolini agisce per riportare in vita quella serie di elementi che<br />
appartengono al suo immaginario culturale, e per trasformarli e renderli visibili su un piano<br />
comunicativo più accessibile. Come si è visto per il film Accattone, e come si vedrà per tutti gli altri<br />
suoi film, attraverso un lungo processo di reminiscenze, egli porta alla luce le sue esperienze<br />
artistiche, le sue passioni figurative, musicali, cinematografiche, e le trasforma in immagini. Noi<br />
non ascoltiamo mai direttamente la sua fantasia che ci parla, ma sempre la sua dimensione<br />
intellettuale dell’esistenza, impregnata di certi odori e di certi valori.<br />
Ho detto che faccio il cinema per vivere secondo la mia filosofia, cioè la voglia di vivere<br />
fisicamente al livello della realtà. [P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972]<br />
Dopo aver coperto le sue immagini con questa ‘patina’, Pasolini si dedica a penetrare l’altra faccia<br />
della sua ricerca. Se la premessa di questa tesi, fondata sul rapporto osmotico fra poesia e cinema, è<br />
esatta, e si esaminano le pagine poetiche di quegli anni, all’ inizio dei ‘60, si nota come tutte le sue<br />
ossessioni conducano verso un unico sbocco: la realtà. È questo il suo secondo polo. Pasolini come<br />
prigioniero, si muove costantemente tra le sue illuminazioni classiche e la realtà, il presente storico.<br />
Ecco perché questi che sono i film del sacro sono anche denominati i film della realtà. Perché<br />
quell’alone mistico che investe le immagini di tali opere, non è altro che il vero sguardo di Pasolini,<br />
il suo effettivo sentire la propria persona nel corso della realtà.<br />
... Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, / sotto le ciocche disordinatamente assolute, /<br />
risuona nelle disperate panoramiche, / e nelle sue occhiaie vive e mute / si addensa il senso della<br />
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TESI<br />
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tragedia... [P.P. Pasolini, La religione del mio tempo - Bestemmia, vol. I, Garzanti 1995]. Pasolini<br />
trasfigura. Siamo nel 1959, alle soglie della suo debutto nel cinema.<br />
Ma che cos’è per Pasolini la realtà? Al contrario del marxista J.P. Sartre (dal quale ricevette attestati<br />
di stima in occasione della proiezione parigina del film Teorema, e da cui fu difeso quando una<br />
parte della sinistra-marxsista francese lo attaccò per Il Vangelo secondo Matteo, considerato un film<br />
troppo "religioso" [M.A. Maciocchi, Cristo e il Marxismo. Dialogo Pasolini-Sartre sul Vangelo,<br />
“L’Unità”, 22 dicembre 1964]), Pasolini non era un filosofo, né intese mai creare un sistema di<br />
pensiero che potesse sostituire la sua presenza immanente nel mondo. Il suo rapporto con<br />
l’esistenza, anziché allontanarlo in quella specie d’eremo che è sempre la filosofia-pura, lo costrinse<br />
ad uno scontro sempre più aspro e violento con la stessa, in una sorta di discesa quotidiana nella<br />
realtà. La realtà era il terreno su cui misurare se stesso e il rapporto con l’altro. Ecco perché diviene<br />
il termine chiave attorno al quale si intensificano tutti i suoi sforzi espressivi. Pasolini ci appare<br />
compresso fra i due poli: da una parte il suo immaginario culturale, pieno di sovrastrutture e di<br />
riferimenti interni, e dall’altro il reale, cioè che è intorno, semplice e sfuggente.<br />
Dunque la realtà innanzitutto come corpo, come sistema materico vivo e pulsante.<br />
Nel 1960, una delle ultime poesie de La religione del mio tempo si intitola In morte del realismo.<br />
Nel 1964 la successiva raccolta poetica, Poesia in forma di rosa, si apre con la sezione: La realtà.<br />
Che cosa significa? Cos’è questo passaggio dal realismo alla realtà? È chiaro che nel momento in<br />
cui opera su questi due fronti continui e quasi divergenti, da una parte la realtà, il presente storico; e<br />
dall’altra la sua rappresentazione costruita, egli incappa in una vistosa contraddizione. I due termini<br />
giocano a fagocitarsi e Pasolini è costretto sul filo di un equilibrio precario. Dovrà quasi sempre<br />
scegliere, e la prima di questa scelte riguarda appunto la sua vocazione di narratore: Pasolini sembra<br />
voler dare il commiato alla letteratura che fin qui l’ha preceduto e supportato, quella intrappolata<br />
negli schemi critici fatti di raggruppamenti sommari e insufficienti, che tendono a suddividere le<br />
opere in periodi e a collegare questi periodi attraverso rimandi stilistici e psicologici, per entrare a<br />
più diretto contatto con quella vita a cui chiedeva intensamente di partecipare, senza l’apporto di<br />
quelle strutture mentali e culturali. Da un punto di vista meramente concettuale il suo sguardo non<br />
muta granché, né cambia il modo in cui questo sguardo mette a fuoco il circostante. Ma quello che<br />
davvero cambia è la sua pretesa di potersi muovere in maniera più agile e fluida, senza il peso di<br />
quella ‘tradizione’ che per molto tempo ha accettato, ma che adesso, alla luce delle nuove<br />
prospettive esistenziali ed espressive, gli appare ingombrante e stanca. Pasolini ha bisogno di dire<br />
tutto (siamo negli anni che lo conducono al cinema), ha bisogno di essere libero, e ha bisogno di<br />
creare partendo da un grado zero delle cose.<br />
Dunque la realtà. Quella che si tocca con mano, che si sconta col proprio corpo e con la propria<br />
morte, come gli avevano insegnato i poeti francesi dell’Ottocento a cui lui si sentiva intimamente<br />
vicino per quell’anelito cosmico che li animava.<br />
La realtà: il proprio corpo, la propria angoscia, i propri limiti. La periferia, la cultura mitica e<br />
neoclassica, il cinema imparato per gradi, il sesso mercenario, le accuse, i processi, i premi ricevuti,<br />
i premi rifiutati, le discussioni, i convegni, la stampa, i media, la società, l’apocalisse... ora Pasolini<br />
vi è dentro. E non è un caso che la realtà diventi centrale in questo momento della sua vita<br />
(all’inizio dei ‘60), quando avviene il suo debutto come regista. Quando cioè egli ha compreso che<br />
tutte le sovrastrutture intellettuali tipiche del lavoro letterario, risultano poi insufficienti di fronte<br />
alla complessa semplicità del reale. Ha bisogno di cercare altrove, e nel cinema trova una risposta<br />
per penetrare quel reale.<br />
Empirismo eretico, il libro che Pasolini pubblicò da Garzanti nel 1972 è il testo chiave per<br />
comprendere questa serie di passaggi che lo iniziano alla Realtà/Cinema. Il libro è diviso in tre<br />
sezioni: Lingua, Letteratura e Cinema. Che sono anche i tre momenti chiave attraverso i quali egli<br />
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passa per confrontarsi con le proprie esigenze. Questo libro è ricco di spunti e informazioni per<br />
comprendere il significato del fare cinema per Pasolini. Ogni affermazione è una presa di posizione<br />
teorica da cui Pasolini non si distaccherà mai, inseguendo un'utopica coerenza di stile.<br />
Il linguaggio più puro che esista al mondo, anzi l’unico che potrebbe essere chiamato<br />
LINGUAGGIO e basta, è il linguaggio della realtà naturale. [P.P. Pasolini, I segni viventi e i poeti<br />
morti, Empirismo eretico, Garzanti 1972]<br />
Tra la mia rinuncia a fare il romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non c’è stata soluzione<br />
di continuità. L’ho presa come un cambiamento di tecnica... Ma in fondo non si trattava neanche di<br />
questo... Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto. [P.P. Pasolini,<br />
Empirismo eretico, Garzanti 1972]<br />
Le differenze fra Mamma Roma e Accattone, e fra gli altri film di questa prima fase della realtà<br />
(fino a Uccellacci e uccellini per l’esattezza), sono riscontrabili dunque soprattutto sulla riuscita<br />
estetica finale, perché poi, hanno tutti, come punto di partenza, la stessa esigenza di espressione<br />
della realtà e di confronto con essa.<br />
Mamma Roma presenta una maggiore dispersività rispetto al film precedente. Pur presentando uno<br />
stile più sicuro, Pasolini ne frammenta i numerosi spunti che lo animano, e in qualche modo<br />
‘tradisce’ alcuni punti del suo credo: per esempio quando affida alla Magnani il ruolo della<br />
madre/prostituta, uscendo dai canoni del suo tradizionale utilizzo di attori non professionisti. Ma,<br />
d’altra parte, è in questo film che si affinano le caratteristiche stilistiche che Pasolini aveva<br />
cominciato a delineare ai tempi di Accattone: continua il suo progetto di trasfigurazione. Da<br />
Caravaggio, come citato all’inizio, al Mantegna che compare nella sequenza dell’agonia di Ettore in<br />
prigione, all’episodio iniziale del banchetto di nozze che ricorda le Ultime Cene quattrocentesche.<br />
Ettore è un fratello minore di Accattone; si muove negli stessi territori e ha le stesse esperienze<br />
iniziatiche di avvicinamento alla vita: amicizia, amore, sesso, morte. Ed è in quest’ultima che<br />
Pasolini adotta un registro ancora più forte, dove gli elementi della sua cultura figurativa emergono<br />
in modo decisamente più marcato. Ettore, figlio di Mamma Roma, è un novello Cristo, condannato<br />
al martirio dall’indifferenza della società (della realtà?). La sua fine avrebbe potuto essere<br />
tranquillamente la crocifissione. Quando Mamma Roma cammina per le strade della periferia,<br />
preceduta in lunghe carrellate dalla macchina da presa, noi vediamo la Madonna che canta la<br />
disperazione del destino, l’ineluttabilità della fine che non lascia scampo.<br />
Questo viaggio nei territori della realtà ha il suo apice nel film La ricotta. Si tratta di un<br />
cortometraggio del 1962, terzo episodio di un film collettivo, RoGoPaG, che vide alla regia anche<br />
Rossellini, Godard e Gregoretti.<br />
La ricotta è la storia di un povero proletario, Stracci, che partecipa come comparsa ad un grande ed<br />
enigmatico film sulla passione e sulla morte di Cristo, messo in scena da un regista alle prese con le<br />
sue difficoltà espressive. Al contrario di questi, Stracci ha come unica necessità quella di reperire<br />
cibo per sé e per la sua famiglia. Così si dà da fare per accaparrare i cestini che la produzione offre<br />
nella pausa pranzo. Riesce a procurarsene due, il primo di questi lo regala alla sua famiglia. Il<br />
secondo lo nasconde in una grotta, con l’intenzione di mangiarselo successivamente. Ma quando<br />
ritorna a quel rifugio scopre che il suo cibo è stato divorato dal cagnolino dell’attrice. Stracci si<br />
dispera, ma un giornalista che aveva intervistato il regista gli regala mille lire con le quali Stracci<br />
corre a comprarsi della ricotta, che poi ingurgiterà nel suo nascondiglio privato. Quando sarà pronta<br />
la scena della crocifissione di Cristo e Stracci verrà legato alla croce, nel ruolo di ladrone, la troupe<br />
al completo, la stampa e il regista scopriranno che Stracci è morto; probabilmente per indigestione.<br />
Il commento del regista è laconico "Povero Stracci, crepare... non aveva altro modo di ricordarci<br />
che anche lui era vivo."<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
È anche grazie alla forma breve del corto che Pasolini riesce a sintetizzare in questo film la gamma<br />
completa delle sue sensazioni, offrendo allo spettatore un film per molti versi geniale. Fu Moravia il<br />
primo ad annotare questa ‘intensità’ dell’episodio pasoliniano, la cui genialità sta nel complesso<br />
intreccio di motivi e temi che si rincorrono a più livelli. Sembra quasi che in questo film si realizzi<br />
quell’intenzione più volte espressa da Pasolini, nel corso del libro Empirismo eretico, di utilizzare il<br />
cinema per scrivere una semiotica della realtà. Intenzione che si realizza nella somma dei differenti<br />
livelli che ne costituiscono l’intelaiatura.<br />
Al primo di questi, troviamo il film che il regista Orson Welles sta preparando sulla morte di Cristo.<br />
Pasolini fa ricorso a tutta la sua cultura figurativa per rappresentare il gruppo di attori che<br />
impersonano i ruoli del Cristo e della Maddalena: l’inquadratura è sempre frontale, immobile. Lo<br />
sfondo monocromatico. Gli occhi dello spettatore vengono costretti in un affresco quattrocentesco.<br />
Il regista, con la propria voce fuori campo, dà delle brevi indicazioni che non servono a portare<br />
avanti la trama, ma solo a dare un rilievo più plastico agli attori disposti attorno alla croce.<br />
Poi, con uno scarto linguistico, Pasolini introduce il personaggio di Stracci: questo personaggio<br />
condivide lo stesso destino di morte dei suoi predecessori, Accattone ed Ettore, ma al contrario di<br />
questi avanza nella sua vita ‘comicamente’. Attraverso un cambio di registro, Pasolini abbandona<br />
l’atmosfera lirico-tragico dei due film precedenti, dimostrando ancora una volta quanto la sua<br />
cultura cinematografica sia estremamente versatile, e mutua lo stile da Chaplin e dalle gag del<br />
cinema muto, con ampio uso di acceleratori e di incidenti, per seguire i vari tentativi di Stracci di<br />
sfamare se stesso e la propria famiglia.<br />
Questo cambio di stile permette di intensificare soprattutto il mistero che avvolge la figura del<br />
regista, terzo polo del film. In questo personaggio Pasolini fa un decisivo passo in avanti verso la<br />
sacralizzazione della propria figura a tutto tondo, nel momento in cui decide di presentarsi in scena<br />
in prima persona; passo che lo accompagnerà nel resto della sua carriera in maniera sempre più<br />
progressiva e metaforica, come quando nel film I Racconti di Canterbury, interpreterà il ruolo di un<br />
allievo di Giotto chiudendo l’ideale cerchio che lega gli estremi di tutto il suo fare culturale: pittura,<br />
letteratura, cinema. Per ora siamo ancora ad una fase in cui predomina la maschera, l’attore: Orson<br />
Welles/Pasolini compare in alcune sequenze del film, nella parte del regista cinematografico<br />
impegnato sul suo capolavoro, così lontano dall’atmosfera chiassosa e goliardica che regna nelle<br />
pause di lavorazione sul set.<br />
L’attore americano è d’altronde una maschera perfetta per Pasolini: Quello figlio di una società e<br />
una cultura così diverse dalle sue, opulenta e consumistica, mentre lui resta legato alla sua radice<br />
mediterranea.<br />
Il viso grasso e paffuto di Welles, irrompe nell’inquadratura dominandola e incastrandosi nello<br />
spazio con aggressiva esuberanza. Tutto il contrario dell’esile Pasolini, magro come una radice che<br />
si sia scavata da sola. (mostrare la mia faccia, la mia magrezza / alzare la mia sola, puerile voce /<br />
non ha più senso... [P.P. Pasolini, La Guinea - Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964]). E sentire<br />
certe frasi pronunciate da Welles, l’attore americano, una delle icone della potenza industriale di<br />
Hollywood, rende l’operazione di mascheramento ancora più terribile.<br />
Poi si scopre che il legame fra le due espressioni è possibile perché Pasolini autoironizza su tutto:<br />
sia sulla sua ideologia marxista, sia su quella piccolo-borghese del suo interlocutore giornalista.<br />
Egli in realtà parla dell’Esistenza, e usa come metro di scansione della propria Vita, la sua Rabbia.<br />
Rabbia che però finisce col perdersi, poiché non riesce ad intaccare l’imperturbabile superficialità<br />
del giornalista. E allora si tramuta in fiero disprezzo, con quel gesto di voltare le spalle e lasciare<br />
unicamente in vista la scritta regista sul dorso della propria sedia, immagine tipicamente<br />
hollywoodiana.<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Quando questo giornalista gli si avvicina per fargli delle domande, Welles sta leggendo un libro su<br />
Mamma Roma; ne cita un breve passo poetico... Io sono una forza del passato / solo nella<br />
tradizione è il mio amore...Sembra interessato a spiegare il valore di quelle parole al giornalista, ma<br />
in realtà approfitta di quella breve intervista per riversare tutto il proprio livore sull’uomo medio<br />
italiano e sulla sua borghesia, che definisce la più ignorante di Europa.<br />
1. D: Che cosa vuole esprimere con questa opera? R: Il mio intimo, profondo, arcaico<br />
cattolicesimo.<br />
2. D: E che cosa ne pensa della società italiana? R: il popolo più analfabeta, la borghesia<br />
più ignorante d’Europa.<br />
3. D: Che cosa ne pensa della morte? R: Come marxista è un fatto che non prendo in<br />
considerazione.<br />
In questa breve intervista, tre domande e tre risposte, c’è tutto il furore di Pasolini, che continua,<br />
dopo aver letto un breve stralcio della poesia, ad incalzare il giornalista: Ha capito qualcosa?...<br />
scriva, scriva questo sul suo giornale. Lei non ha capito niente, perché lei è un uomo medio. Ma lei<br />
non sa cos’è un uomo medio: ... è un conformista, colonialista, schiavista, qualunquista... È malato<br />
di cuore lei?... no, peccato. Perché se mi crepava qui sarebbe stato un buon lancio per il mio film.<br />
Tanto lei non esiste. Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve alla<br />
produzione. E il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale. Addio!<br />
Come si vede, mai come in questo film, Pasolini utilizza tutti i mezzi a propria disposizione:<br />
linguistici, fotografici, concettuali, per tracciare il solco che lo divide dal mondo del cinema a lui<br />
contemporaneo, e dal mondo degli uomini in generale.<br />
È ne La ricotta che Pasolini arriva al livello autobiografico più alto. Il film è un esempio di<br />
quell’autocoscienza linguistica e formale che pervade tutte le opere pasoliniane. Stracci e il<br />
regista/Welles sono le sue due facce complementari, la sintesi della sua contraddizione: da una parte<br />
l’uomo elitario, culturalmente distaccato e sprezzante, carico di citazioni pittoriche e poetiche; e<br />
dall’altra il povero proletario, abitante della periferia, ancorato al problema millenario della fame. E<br />
come in un gioco di specchi il film, oltre a contenere i vari Pasolini, contiene almeno altri due film:<br />
quello del regista Welles sulla morte di Cristo, e quello sulla lavorazione di quest’ultimo.<br />
All’esterno, il guscio definitivo, è il film che Pasolini gira sulla morte: quella del proletariato e dei<br />
luoghi del suo vagabondare.<br />
Comincia il distacco dalla realtà?<br />
La crisi di Pasolini, che è crisi umana ma soprattutto formale - investe cioè la capacità espressivolinguistica<br />
dell’uomo, trova la sua perfetta icona nei due film del biennio ‘63 -’64: La rabbia e<br />
Comizi d’amore.<br />
Ci troviamo di fronte a due prodotti nei quali Pasolini emerge in prima persona per distrugge la<br />
tradizione del lungometraggio fatta di storie e di recitazione. Sta per dare un addio alla stagione<br />
della realtà, ed è chiaro che dovrà essere un addio traumatico, lacerato, concluso da un’esplosione<br />
che rimesti sul tavolo i frammenti del suo discorso poetico. Sia La rabbia che Comizi, infatti, non<br />
sono dei veri e propri film. Il primo è un montaggio frenetico di immagini, legati dall’unico filo<br />
rosso della coscienza poetica dell’autore: La crisi di Suez, la morte di Pio XII, le guerre di<br />
liberazione degli stati del terzo modo, il primo viaggio nello spazio, l’Africa, l’incoronazione di<br />
Elisabetta II sul trono d’Inghilterra... sono 53 minuti d’immagini in cui Pasolini sembra attuare i<br />
programmi della vituperata avanguardia. Trasforma il ready-made di Duchamp in un<br />
mediometraggio, dove le immagini si presentano per quello che sono, senza sovrastrutture recitative<br />
o fotografiche, con l’unico supporto di una colonna sonora. Violentano l’immaginario dello<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
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spettatore perché non sono ‘ necessarie’ e non ‘esprimono’. Sono lì, stabili, e chiedono allo<br />
spettatore uno sforzo concettuale per appropiarsene e trasformarle nella propria mente in un<br />
prodotto giustificato; mentre Pasolini sembra quasi voler dire: io ho una coscienza del mondo, so<br />
cosa avviene nel passaggio da un’immagine dell’Africa ad un’immagine di Kennedy. Ora tocca a<br />
voi costruirvene una, avvicinarvi a me.<br />
Il primigenio sogno di innocenza e della possibilità di comunicare questa innocenza si è insabbiato<br />
negli anni romani del suo debutto cinematografico. Il mondo è andato in frantumi, la poesia non è<br />
più quella degli esordi in dialetto friulano, distesa e bucolica... un’elegia dialettale intrisa dalle<br />
fragranze dei luoghi e delle sensazioni, disgiunta dal corso della storia e delle ideologie... [Andrea<br />
Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998]; ora<br />
Pasolini è entrato nella realtà e ha scoperto che difficilmente potrà vincere. Si moltiplicano gli<br />
incontri sessuali e i processi che il mondo gli intenta. E si moltiplica la sua energia da martire,<br />
l’ansia religiosa di sentirsi scandalosamente diverso e perseguitato.<br />
Quello che in poesia è stato il passaggio dalle liriche friulane alla raccolta de Le ceneri di Gramsci,<br />
ultimo esempio di poesia distesa e comunicativa, preludio a La religione del mio tempo, Poesia in<br />
forma di rosa e Trasumanar e organizzar, ossia la poesia del frammento, del diario violento e acre,<br />
della non-speranza, dell’impossibilità apocalittica di abbandonare il gioco nonostante la coscienza<br />
che quel gioco è impossibile (Io non posso credere alla rivoluzione, ma non posso non essere a<br />
fianco dei giovani che si battono per essa [da un’intervista del 26 gennaio 1971, raccolta da Jean<br />
Michel Garnie per “Le Monde”.] ), nel cinema è l’uscita dalla Realtà.<br />
Pasolini, ora, avverte l’esigenza di assumersi la responsabilità fisica del suo bisogno espressivo. La<br />
carne diventa il luogo della sua vera vita, senza altri possibili altrove. La sue presenza sullo schermo<br />
cinematografico è il controcanto filmico della corporeità della sua poesia. Dove là predominava un<br />
istinto verbale fatto di sangue e materia, qui, questo istinto si concretizza nella sue duplice veste<br />
filmante-filmato. Ciò che in qualche modo non gli era completamente possibile sulla carta, cioé<br />
mostrasi fisicamente, nel cinema diventa una realtà compiuta.<br />
E quando compare nelle prime inquadrature di Comizi d’amore a domandare ai giovani borgatari di<br />
Roma e Palermo le loro esperienze in tema d’amore e sesso, sappiamo che si sta portando a<br />
compimento la parabola iniziata ne La ricotta: Orson Welles/il regista spegne le luci del set e<br />
abbandona la storia di Cristo, per dedicarsi alla propria storia. Getta la maschera di lattice per<br />
mostrarci il volto di Pier Paolo che vi era sotto.<br />
Eppure ciò che colpisce (in Comizi d’amore) è la presenza sullo schermo di Pasolini medesimo: è<br />
il suo più spassionato autoritratto... il film aderiva perfettamente, e fuori di ogni previsione, alla<br />
sua persona fisica, al modo in cui sono inforcati gli occhiali o la giacca gli ricadeva sulle spalle.<br />
[Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, ed. Giunti 1995]<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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Capitolo IV<br />
CINEMA DI POESIA<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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È quasi sempre attraverso una crisi che si determina il passaggio da una fase all’altra nel cursus<br />
espressivo di un autore; crisi tanto più lacerante e profonda, quanto maggiori sono state le energie<br />
investite e adoperate nella fase precedente che ora si abbandona. In Pasolini questa crisi è resa<br />
ancora più drammatica dalla molteplicità di interessi e di intenzioni che dominavano il suo ‘fare’,<br />
tanto da riversarsi, poi, su tutti i fronti della sua produzione di quegli anni.<br />
In poesia Le Ceneri di Gramsci hanno cremato la voglia di credere alla rivoluzione possibile, ad una<br />
visione ideologica del mondo in cui l’antico nodo binario bene-male è risolto in funzione di una<br />
sintesi superiore a cui, tra l’altro, l’intellettuale partecipa con tutte le proprie energie. Forse sono<br />
proprio questi gli anni in cui egli sentì che l’antico sogno, coltivato da sempre, di essere un perno<br />
violento e forte del mondo, non era più possibile. A Pasolini è mancata non solo la voglia di<br />
continuare a lottare, ma anche quella fiducia che la borghesia ha da sempre accordato al poeta,<br />
eleggendolo a titolare unico dei propri bisogni espressivi. La sua visione medioeval-rinascimentale,<br />
in cui dominava la coppia mecenate-artista, non era più proponibile in quell’Italia che godeva il<br />
boom economico degli anni ‘60. Il poeta era una creatura marginale, tanto più relegata alle periferie<br />
della società quanto maggiore era il valore di trasgressione che egli adoperava nei confronti del<br />
codice della realtà.<br />
Pasolini riempì di dichiarazioni i fogli dei quotidiani e dei settimanali. La sua poetica, la sua<br />
visione del Novecento letterario, divenne oggetto di cronaca giornalistica. Già D’Annunzio seppe<br />
utilizzare i mezzi di comunicazione di massa allo scopo di divulgare la propria immagine di<br />
scrittore... ma una differenza è fra i due: Pasolini fu un poeta a cui mancò la commissione da parte<br />
della società. Si batté con forza per riceverla. [Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, ed. Giunti 1995]<br />
Ed ecco La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964), le raccolte in cui<br />
l’incubazione della Crisi e la sua esplosione trovano la loro perfetta incarnazione.<br />
Già a livello onomastico questi due libri ribadiscono la distanza che Pasolini ha assunto nei<br />
confronti del suo passato, e la sua voglia di esplorare i territori del proprio intimismo lirico. Si è già<br />
visto che il trasferimento dal primitivo Friuli alla mondana Roma ha innervato in Pasolini la<br />
sensazione fisica del cambiamento, e che la sua vita e la sua ricerca formale si sono adeguate a<br />
questo cambiamento spostando il bersaglio della propria attenzione dal mondo elegiaco e contadino,<br />
a quello ideologicamente più prossimo delle borgate e dei ragazzi di vita.<br />
Ora, in un quest’ulteriore fase di passaggio, Pasolini non ha altri ‘oggetti’ su cui riversare la propria<br />
attenzione, sentendo la realtà esterna investita da quella stessa crisi che egli si rappresenta a livello<br />
linguistico. Anche perché la Realtà in cui egli ha viaggiato si è eccessivamente storicizzata, e<br />
Pasolini avverte il bisogno di mantenere un tono metastorico nella sua produzione. Così decide di<br />
virare il viaggio dentro se stesso, frantumando la sua poesia come ha già fatto con la propria<br />
esistenza.<br />
Il disfacimento dei luoghi, delle culture e dei corpi del sapere tradizionale... conduce Pasolini a<br />
rifugiarsi nella eroicizzazione della vicenda individuale e della diversità intellettuale, nella<br />
progressiva rarefazione dell’esperienza civile, nelle rotture stilistiche e ideologiche di un fare<br />
creativo travolto dal decadimento degli scenari naturali a cui era appartenuto, nella ricerca<br />
traumatica di una poesia che osserva il proprio straniamento e la propria dissipazione sociale.<br />
[Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998]<br />
È in questo clima di totale crisi che il cinema di Pasolini prosegue e sviluppa quei germi che hanno<br />
già infestato la sua poesia. Conclude la sua tetralogia sulla figura del Cristo (gli altri sono stati<br />
Accattone, Ettore di Mamma Roma e Stracci) con Il Vangelo secondo Matteo, il film del 1964,<br />
estremo punto di rottura con il mondo a lui familiare dell’ideologia marxista e con quell’atmosfera<br />
neorealista che ancora impregnava i suoi precedenti lavori. Il film è "una specie di ricostruzioni per<br />
analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
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e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia<br />
operazione questo tema dell'analogia che sostituisce la ricostruzione". [P.P. Pasolini, Quaderni di<br />
Filmcritica - con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni 1977]<br />
Non è, quindi, un film storico come le colossali produzioni americane erano solite fare. Il film non<br />
vuole essere una ricerca illustrativa ma vuole dare il senso della poesia che c'è nel Vangelo:<br />
"La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una<br />
sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o<br />
un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo,<br />
senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna<br />
parola inserita potrà mai essere all'altezza poetica del testo. È quest'altezza poetica che così<br />
ansiosamente mi ispira. Ed è un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel<br />
senso corrente del termine, né un'opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e<br />
povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella<br />
coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l'umanità sia così alta, rigorosa,<br />
ideale da andare al di là dei comuni termini dell'umanità. Per questo dico "poesia": strumento<br />
irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo". [P.P. Pasolini, Sette<br />
poesie e due lettere, a cura di Renzo Colla, La Locusta 1985]<br />
Il Vangelo, a livello stilistico, mantiene ancora una fluidità di narrazione in cui predomina ancora<br />
una figura chiave vecchio stile, quella del Cristo appunto: immagine non troppo velata dell’ autorepoeta-intellettuale<br />
rifiutato dai suoi simili e dalla società, incapace di avere discepoli perché in<br />
contrasto egli stesso con quel Verbo infuso per cui ha vissuto la sua esistenza fino a quel punto.<br />
Pasolini non accettò mai l’insincerità delle critiche che gli piovvero addosso dopo la realizzazione<br />
di questo film, soprattutto quando venne puntato il dito sul suo presunto tradimento all’ideologia<br />
ateo-marxista. In realtà Pasolini accomunava marxismo e religione perché vedeva entrambe opposti<br />
al conformismo della borghesia. E poi, egli analizzava la religione non come momento storico, ma<br />
come momento metastorico, al di là dei tempi e dei costumi, cristallizzato nella vita dell’uomo sin<br />
dal suo apparire, e pertanto legato anche alle proprie iniziali forme espressive. Non mi sembra ci si<br />
debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza<br />
al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del '42. (...) Quindi un tema<br />
lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l'ho ripreso in un momento di regressione<br />
irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m'accontentava, mi sembrava in<br />
crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo. [P.P. Pasolini, Quaderni di<br />
filmcritica - con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni 1977]<br />
Dopo questo film, Pasolini decide di affrontare direttamente la sua crisi linguistica e lo fa con un<br />
film: Uccellacci e uccellini, del 1966.<br />
Uccellacci e uccellini è il frutto emblematico di questa crisi che ha portato Pasolini ad abbandonare<br />
i territori fino ad allora utilizzati del suo fare poetico. È il film di una cesura, della messa in scena di<br />
un addio, esplicitata in particolar modo nella scena del funerale a Togliatti.<br />
I due protagonisti, Ninetto e Totò, nel loro viaggio on the road, vengono accompagnati da un corvo<br />
che tenta di dialogare con loro e di imporre la propria visuale marxista del mondo. E si imbattono<br />
cammin facendo nel corteo funebre che accompagna la bara dell ex leader del PCI. Pasolini utilizza<br />
materiale d’archivio, riprese documentaristiche dei volti del popolo comunista piangente e<br />
addolorato, e le utilizza per segnare il suo saluto a quell’ideologia che quest’uomo rappresentava, e<br />
di conseguenza per chiudere i conti, per quanto sia possibile ad un uomo provvisto di memoria, con<br />
quella dimensione della propria esistenza che abbiamo già visto in poesia ormai abbandonata.<br />
Tutto il film in realtà è pervaso da questo senso di addio e di morte: addio ai canoni del vecchio film<br />
paraneorealista, addio al sogno della rivoluzione, addio persino ai luoghi fisici della sua poesia. Là<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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dove (Accattone, Mamma Roma) c’erano i pratoni della periferia romana e il popolo minuto che<br />
l’abitava, qui ci sono gli stessi luoghi, ma divenuti metafisici, quasi beckettiani. E che ribadiscono<br />
(ideologicamente) la distanza con tutto. Col terzo mondo, attraverso i cartelli stradali su cui è<br />
indicata la distanza in chilometri da paesi come Cuba o la Turchia. Col proprio passato di narratore,<br />
nel momento in cui la storia non procede più linearmente ma per accumulo. I due protagonisti<br />
vedono, ascoltano, camminano. Hanno un rapporto fisico col mondo, ma non coscienziale, tant’è<br />
che a loro tocca ripetere con terzi il loro stesso destino di sfruttati. E ancora, con le forme del<br />
cinema della Realtà, poiché Pasolini decide di immergersi nel territorio della fabula, dove gli<br />
uomini non sono uomini ma simboli, rappresentano qualcosa. Dove bene e male hanno divisioni<br />
nette e precise, e alla fine della strada c’è una morale da rendere visibile.<br />
Persino la morte non è più la morte lirico-tragica di Accattone che si accascia per strada e si<br />
abbandona. La morte è semplicemente un luogo del presente che Pasolini intende esplorare, e che<br />
sottende tutti i suoi futuri sviluppi. Quando qualche mese, dopo Uccellacci e uccellini, Pasolini<br />
realizzò un cortometraggio intitolato La terra vista dalla luna - un’altra favola, assolutamente<br />
surreale e priva di ideologia rivoluzionaria - egli chiuse questo film con una didascalia, che ne era<br />
anche la morale "Essere vivi o essere morti è la stessa cosa."<br />
Il cinema di poesia si configura pertanto come una risposta che Pasolini elabora per contrastare la<br />
dimensione di Crisi nella quale si trova catapultato; poiché, per quella sua natura che abbiamo<br />
definito polifonica, egli era incapace di giungere ad un ruolo di rifiuto delle cose, ma preferiva<br />
piuttosto continuare, fino al paradosso, a scontrarvisi e a lottare con esse. E il film è il luogo<br />
d’elezione che viene adottato a contenitore della sua sola e unica possibilità di difesa.<br />
Sono questi gli anni in cui il suo cinema acquista quell’attributo di sinteticità che gli è stato<br />
precedentemente riconosciuto. Cioè, in una sintesi vertiginosa e frenetica, il cinema diviene la<br />
forma in cui Pasolini reimposta la propria poesia-letteratura, costringendola ad un mutamento<br />
linguistico e dunque totale.<br />
Pasolini guarda in faccia la sua Crisi, non si ritira dinanzi ad essa, ma la contestualizza fino a<br />
diventare egli stesso crisi; il suo corpo si è trasformato nella mappa geografica di questa vertigine, e<br />
il cinema è lo sguardo costretto ad affondare in quel corpo che, rifiutando una posizione della<br />
Realtà abbraccia la Realtà in toto; fino alle estreme conseguenze.<br />
Le estreme conseguenze, in questo caso, hanno una data: 2 novembre 1975. La morte sigilla una<br />
vita che si è trasformata lentamente in un grande buco nero di antimateria, dove tutto collassava<br />
verso un unico punto. Il suo ultimo film Salò, il suo ultimo romanzo Petrolio, due opere uscite<br />
postume, non hanno più confini linguistici che possano definirli e dunque limitarli. Sono due voci di<br />
uno stesso urlo, rivolto da un corpo che cerca la sua definizione, la sua consacrazione quasi (per<br />
continuare con questo parallelismo Pasolini/Gesù Cristo) nella morte.<br />
In Edipo re, film del 1967, ritroviamo assommati ed espressi tutti questi elementi, assieme alla<br />
compiuta definizione di quelle teorie sul cinema di poesia che Pasolini da tempo era in fase di<br />
progettazione.<br />
Dopo la stagione degli Addii, assistiamo all’alba di una nuova stagione che ha come caratteristica<br />
distintiva l’accumulo di un energia decadente e nichilista, carica della possibilità che da un<br />
momento all’altro tutto possa finire. Conseguenza naturale per chi lavora, non più con la speranza<br />
di cambiare, ma solo per rappresentare ciò che è. Ma non per questo è una stagione arida, anzi.<br />
Pasolini trova nel proprio rifiuto un universo ricchissimo di possibilità.<br />
L’autobiografismo che è diventato spina fondamentale del suo fare, si manifesta, già a livello<br />
tematico, dalla volontà che ebbe Pasolini nell’accentuare il carattere di Edipo: un giovane con un<br />
bruciante desiderio di conoscere La Realtà, e che dalla realtà profetizzata dall’oracolo sarà messo in<br />
scacco.<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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Il personaggio principale della tragedia sofoclea è di nuovo interpretato da Franco Citti, lo stesso<br />
attore che aveva già impersonato Accattone. E non è un caso. Pasolini di nuovo ci avverte: per<br />
quanti mutamenti e nuove esigenze espressive egli possa maturare, il cordone ombelicale che lega<br />
ogni istante della sua produzione non può essere spezzato. Quella premessa iniziale, per cui parlare<br />
di Pasolini significa innanzitutto parlare di un poeta, viene ribadita da questi piccoli segnali di<br />
continuità che egli continua a mantenere nel vortice di cambiamenti che comunque sente l’esigenza<br />
di sperimentare.<br />
C’è un perno, attorno a questo perno ruota la filosofia pasoliniana. Come un movimento della<br />
cinepresa, denominato panoramica, che ruotando sul proprio asse descrive l’ambiente circostante.<br />
Edipo re si apre con una panoramica circolare e si chiude allo stesso modo. La storia comincia e<br />
finisce portandosi fuori dalla storia, in quel territorio del mito che permette all’autore di<br />
scandagliare più definitamente la propria individualità (ed è proprio il rimprovero che la critica<br />
vetero marxista mosse a Pasolini: l’allontanamento dalla storia). L’autobiografismo dell’opera<br />
prosegue: attraverso la storia dell’incesto e dell’uccisione paterna, Pasolini traccia la storia della<br />
propria vita, il proprio rapporto conflittuale col padre e il rapporto di sregolato amore con la madre.<br />
(Quest’ultimo, ribadito in più occasioni fu, tra l’altro, oggetto di una celebre poesia di quegli anni.<br />
[P.P. Pasolini, Supplica a mia madre - Poesia in forma di rosa, ed. Garzanti 1964])<br />
Abbiamo già detto, a proposito de La ricotta, che Pasolini acquisisce in maniera stabile la coscienza<br />
del proprio operare nel cinema. Da Edipo re in poi tutti i suoi film agiscono su un doppio binario<br />
trasformandosi in dei meta-film. Oltre a mettere in scena il contenuto dell’opera, essi diventano<br />
delle riflessioni sulla propria condizione di autore. Edipo re è infatti un lungo film sullo sguardo,<br />
operazione primaria sia per chi fa il film, sia per chi in sala ne fruisce. Le scene, come quella<br />
dell’uccisione del padre da parte del giovane Edipo, Pasolini volle realizzarle personalmente con la<br />
camera a spalla; volle ribadire in questo modo la sua presenza fisica nel film, l’impossibilità di<br />
slegare la sua individualità dal contesto millenario e pubblico dell’opera.<br />
La storia che comincia negli anni '60, con la nascita di un bambino, si conclude negli stessi anni,<br />
quando il vecchio Edipo accecato attraversa la città di Bologna suonando il flauto. La sua ultima<br />
‘visione’ è una panoramica della mente, il ricordo eterno di elementi quali alberi e luce. "Sono<br />
giunto" egli mormora "la vita finisce dove comincia" Pasolini ci ribadisce la sua volontà di<br />
conservare una radice violenta che attraversi a ritroso tutta la sua esistenza.<br />
Il manifestarsi di tutti questa serie di elementi ci permette di notare quanto l’universo filmico<br />
pasoliniano muti radicalmente nel breve arco di due, tre anni. Egli è passato, infatti, da una<br />
rappresentazione oggettiva della realtà, tecnica tipica, ad esempio, del cinema neorealista; che<br />
anche quando si sforzava di aderire il più possibile al punto di vista della storia narrata (vedi La<br />
terra trema di Visconti e l’uso strettissimo del dialetto siciliano presente in esso), in realtà<br />
continuava ad utilizzare un punto di vista esterno e oggettivo: lo sguardo dell’autore, anche quando<br />
entra sui luoghi della storia si trova ad operare distanziato di alcuni cm, pertanto ne risulta una<br />
prospettiva doppia, col suo punto di osservazione che finisce inevitabilmente a sovrapporsi a quello<br />
dei protagonisti.<br />
La rivoluzione pasoliniana fu proprio questa: abolire il distacco oggettivo tra autore e materia,<br />
cercando un punto di fusione che fosse ribadito lungo tutto l’arco del film dallo sguardo adoperato<br />
dal regista. Incarnarsi nell’opera diventando egli stesso l’opera, materia espressiva ed espressa,<br />
facendo del cinema poesia, attraverso quella struttura mimetica che ha contaminato tutti i poeti dal<br />
tardo-romanticismo in poi.<br />
Questa tecnica, che Pasolini definì soggettiva libera indiretta, è il cardine di Edipo re e di tutti i<br />
successivi film. L’ambiente che circonda l’eroe tragico, le scenografie naturali, le luci, i colori del<br />
cielo, sono tutti elementi che appartengono alla sua geografia interiore, anche quando egli non è<br />
37
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
direttamente in campo. Come se il mondo si fosse plasmato attraverso gli occhi di Edipo, e noi<br />
fossimo prigionieri di questo filtro perenne. Tutto è rappresentato in funzione di Edipo, e quando la<br />
macchina da presa panoramica nel deserto per descrivere l’avanzata di un truppa di soldati, lo fa<br />
tremando, sconnessa, perché in realtà riproduce lo stato d’animo di Edipo. Edipo è poesia nella<br />
successione dei movimenti a-razionali e nella volontà di adesione del protagonista-autore al proprio<br />
istinto.<br />
In questo modo Pasolini crea un'opera assolutamente libera, svincolata dalla necessità di<br />
rappresentare attraverso i cardini classici della grammatica cinematografica: attori, scenografie,<br />
montaggio. Tutto è abolito e reso in funzione della forza esplosiva-espressiva del film; tutto è<br />
asservito, pertanto, al continuum mente-corpo dell’autore, proiettato all’interno della sua opera<br />
senza soluzione di continuità.<br />
Fu su questa nuova terra esplorata da Pasolini che cominciarono ad addensarsi le nubi critiche dei<br />
contemporanei. Anche perché Pasolini osò sconfinare in territori che molti non videro di sua<br />
pertinenza (la semiotica in particolare), per riuscire ad elaborare e presentare all’esterno gli sviluppi<br />
del suo stile cinematografico.<br />
Pasolini ha introdotto la soggettiva libera indiretta nel tentativo di dimostrare l’esistenza concreta,<br />
empirica, di un indicatore semiotico in grado di rendere verificabile uno stile poetico nel cinema.<br />
[G. Nicolosi, Pasolini nell’era di Internet, tesi di laurea in Scienze politiche estrapolata da Internet,<br />
14 settembre 1999, www.pasolini.net/cinema_poesia.htm]<br />
Molti dei suoi detrattori riscontrarono nelle teorie pasoliniane una certa vaghezza e superficialità<br />
espositiva. Pasolini fa ricorso a termini caratteristici del linguaggio semiologico per spiegare il<br />
cinema, e per dimostrare che anche il cinema deve essere studiato dalla semiotica: Poiché infatti il<br />
cinema comunica, vuol dire che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comuni. [P.P.<br />
Pasolini, Empirismo eretico, ed. Garzanti 1972]<br />
Così egli si inoltre in spiegazioni che hanno come riferimenti linguistici termini come im-segni<br />
(segni delle immagini), cinémi (contraltare di fonemi), per arrivare ad evidenziare la coesistenza di<br />
due mondi paralleli: cinema e film. Il cinema è inteso come territorio vasto, un infinito piano<br />
sequenza che scorre parallelo alla realtà, riproducendola. I film sono parti di quel piano sequenza,<br />
che delimitano la realtà estrapolandola dal suo fluire temporale per fissarla su celluloide. Attraverso<br />
il montaggio continuo e frammentato, e l’uso della soggettiva libera indiretta, Pasolini intese<br />
mantenere i film su un livello non naturalistico.<br />
C’è chi, come Alberto Costa, ha saputo cogliere i fondamenti di questi ‘azzardi’ teorici, intendendo<br />
la soggettiva libera indiretta come materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un<br />
personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Ma vi furono in molti, Eco fra<br />
i primi, a criticare quella che appunto abbiamo definito vaghezza contenutistica delle sue teorie. Ma<br />
qui ci tocca fare i conti con il poeta; il poeta Pasolini che incontra il regista e il teorico nel momento<br />
in cui queste premesse vengono sviluppate con ossessiva coerenza in tutti i suoi film. Pasolini ha<br />
spinto fino all’estremo, come sua abitudine, le conseguenze di una simile impostazione<br />
semiologica, che vede nel cinema una lingua che non fa altro che fissare in maniera riproduttiva il<br />
linguaggio della realtà. Spingere all’estremo ha significato costruire un parallelo tra una tecnica<br />
meramente cinematografica come il montaggio, e un elemento essenziale, fortemente legato al<br />
vivere della realtà, come la morte. [G. Nicolosi, Pasolini nell’era di Internet, tesi di laurea in<br />
Scienze politiche estrapolata da Internet, 14 settembre 1999, www.pasolini.net/cinema_poesia.htm]<br />
Si può dire che Pasolini iniziò a elaborare un cinema di sensazioni, dove la tecnica cinematografica<br />
dovesse essere completamente assoggettata alla riproduzione di tali sensazioni; sempre.<br />
Come già detto egli non fu l’ideatore unico e solitario di questo modo di fare cinema: in Italia e in<br />
Europa ci furono altri sperimentatori e altri adepti di un nuovo modo di creare immagini, anche<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
quando non si sentì il bisogno di lasciarsi incastrare nelle strettoie ideologiche dell’ avanguardia. E<br />
fu lo stesso Pasolini a captare quest’atmosfera e a parlarne. Semmai, quello che rende il discorso su<br />
Pasolini unico, fu proprio la totale dedizione dell’autore alla nuova formula espressiva. Dedizione<br />
talmente profonda da essersi protratta lungo tutto il resto di quella carriera, cercando e<br />
perfezionando, ma mai rinunciando a quello che egli ormai considerava l’unico punto fermo della<br />
sua voglia di descrivere per immagini. E questa è una caratteristica dell’uomo-poeta: il sentire,<br />
profondamente, assolutamente, l’oggetto della propria rappresentazione.<br />
Pasolini riconobbe la poeticità del cinema di Antonioni, ma ne denunciò, anche, l’uso forzatamente<br />
formalistico di quella tecnica. Quasi a dire: Antonioni ha utilizzato la tecnica della soggettiva libera<br />
indiretta, facendo scorrere il film su una donna alienata [Michelangelo Antonioni, Deserto rosso,<br />
Federiz Francoriz Film2000, 1964] come se fosse osservato interamente da quella donna; ma egli<br />
non è quella donna, gli manca quest’ultimo tratto per chiudere il cerchio e rendere l’opera in<br />
sintonia assoluta con la vita.<br />
Ma, a dimostrazione che il fondo del film sia sostanzialmente questo formalismo, vorrei<br />
esaminare... la legge interna delle ‘inquadrature ossessive’, che dimostra dunque chiaramente la<br />
prevalenza di un formalismo come mito finalmente liberato. [P.P. Pasolini, Empirismo eretico - a<br />
proposito di Deserto rosso, ed Garzanti 1972]<br />
Quello che soprattutto conta da questo momento in poi, è la volontà pasoliniana di attribuirsi una<br />
libertà autoriale che sia sempre la base di ogni sua nuova produzione. Dal cinema di poesia in poi,<br />
quelli che erano i legami che Pasolini aveva intessuto e mantenuto con la ‘tradizione’, pur nelle<br />
mille sfaccettature che sono state esaminate, vengono completamenti disciolti e gettati nel magma<br />
della sua espressività, asserviti all’idea del film e resi, quindi, ancora più plasticamente definiti.<br />
Dal cinema di poesia in poi, ogni volta che Pasolini citerà il cinema del passato - i suoi registi<br />
preferiti per esempio (Ozu e Mizoghuchi su tutti) [*] - sarà sempre nel rispetto totale della propria<br />
libertà citazionistica, libertà che avrà come unico scopo la definizione del film.<br />
------------------<br />
[*] Yasujiro Ozu, regista giapponese (1903-1963). Pasolini derivò da questo regista la assoluta<br />
libertà nei confronti di codici e regole prestabilite. Dal 1935, anno del film Il figlio unico, Ozu si<br />
dedicò costantemente a creare una propria grammatica stilistica i cui elementi principali furono:<br />
fissità dell’inquadratura con abbondante uso di grandangolo per dare profondità di campo alla<br />
scena. Utilizzo del montaggio in chiave soprattutto espressivo, con continui controcampi e stacchi<br />
casuali, sovente in funzione simbolica.<br />
Kenji Mizoguchi, regista giapponese ( 1898-1956). Mizoguchi è il vero padre spirituale<br />
dell’universo filmico di Pasolini. Dal regista nipponico derivò infatti l’uso esasperato del pianosequenza<br />
e la convinzione che il cinema fosse il medium ideale per scandagliare la tragicità<br />
dell’esistenza umana, che il regista nipponico cercò nella donna e nella vita dei bassifondi.<br />
Mizoguchi fu il padre putativo di un’intera generazione di registi, per l’eleganza formale del suo<br />
stile, che formò i grandi nomi della Nouvelle vague francese.<br />
39
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Capitolo V<br />
TEOREMA<br />
40
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Abbiamo già esaminato i motivi per cui Teorema può essere considerato, e non solo<br />
cronologicamente, il film centrale della produzione pasoliniana. Bisogna aggiungere che proprio<br />
questo film, portando al massimo livello le intenzioni teoriche del suo cinema di poesia, risulta<br />
essere anche l’inizio del suo superamento.<br />
Teorema nasce da una complessa stratificazione culturale ed esistenziale, che vede incrociarsi in<br />
un’unica opera tutte le tensioni estetiche di Pasolini: letteratura, teatro, cinema.<br />
Teorema è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra<br />
lavoravo ad affrescare una grande parete, il film omonimo. [P.P. Pasolini, Teorema, Garzanti 1968,<br />
risvolto di copertina]<br />
Ma nonostante questa complessa sovrastruttura Pasolini è riuscito a creare anche la sua opera più<br />
emblematicamente lineare. La storia è estremamente semplice: un Ospite misterioso irrompe nella<br />
tranquillità di una classica famiglia borghese, padre madre figlio figlia e cameriera, e ne sconvolge<br />
l’equilibrio, innescando il meccanismo del desiderio e dell’ assenza. La metafora adoperata<br />
dall’autore descrive scopertamente l’irruzione dell’Altro in una serie di esistenze ordinate (e<br />
banali). Ora, è su cosa sia quest’Altro che Pasolini compie la sua operazione principale, affidando<br />
alla figura dell’Ospite ogni minima sfaccettatura della propria complessità. Egli non rinuncia,<br />
infatti, a nessuna delle proprie componenti psicoanalitiche e si rispecchia nel personaggio principale<br />
attraverso l’uso di tutta la propria gamma vitale: L’Altro risulta essere una densa condensazione di<br />
spiritualità e fisicità. Avvicina i membri della famiglia, li piega alla propria presenza, invade le loro<br />
menti con i suoi sguardi e con la mancanza di sguardi, e suggella questo delirio di seduzione con<br />
rapporti sessuali che però Pasolini non esplicita mai, ma lascia semplicemente intuire.<br />
L’Ospite si configura come una figura deistica a cui risulta possibile tutto, anche col minimo scarto<br />
della propria statica espressione, e che manda in crisi i fragili equilibri della famiglia borghese,<br />
perché li aggredisce nella loro debolezza di uomini prigionieri di una mente laica - cioè schematica<br />
e impura - e dunque incapace di rapportarsi a tutto ciò che la sovrasta; al contrario di Lui che ha la<br />
potenza sintetica di tutto ciò che, naturalmente e fluidamente, vive il mistero di se stesso.<br />
"Il teorema in questione ha per argomento l’irrimediabilità della borghesia, che è destinata a<br />
soccombere proprio attraverso il suo strumento di dominio: la razionalità illuministica. Ultimo<br />
tentativo di perpetuare il suo pericolante dominio per la borghesia non può essere che la<br />
trasformazione dell’intera società, e in primo luogo delle classi subalterne, in un’unica,<br />
omologante Cultura Borghese [...] se l’individuo borghese è posto a contatto con quanto la sua<br />
società ha esorcizzato con i propri strumenti di dominio, cioè col ‘sacro’ in quanto zona<br />
superindividuale del tutto estranea alla Ragione dominante, ammesso che l’individuo borghese<br />
prenda coscienza dell’esistenza dell’Altro, mettendo in discussione in tal modo la propria identità,<br />
non può che confrontarsi col proprio vuoto, con la propria impotenza, con la propria morte,<br />
vagando nel deserto della propria spiritualità reificata dalla ragione." [Serafino Murri, Pier Paolo<br />
Pasolini, ed. Il Castoro 1997]<br />
Il Dio capace di rapportarsi al mondo, sconvolgendone inevitabilmente i meccanismi aggregativi, è<br />
chiaramente Pasolini stesso. Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato / sedurre, mi hai violentato e<br />
hai prevalso. (Geremia 20, 7 [È la citazione biblica posta da Pasolini all’inizio del suo film]). Ma la<br />
metafora Divina è solamente la prima chiave di lettura, quella più evidente anche perché più<br />
violenta. Lentamente Pasolini lavora condensando strati emotivi sul nucleo primitivo dell’opera : il<br />
codice della realtà (della normalità borghese), viene furiosamente sconvolto da un Dio fallico. Ma<br />
questo Dio non ha pace e non porta pace. Reca il segno di una profonda inquietudine il cui<br />
simulacro è questa apparente calma che Egli sembra manifestare ad ogni istante. In realtà questa<br />
calma è apparenza, illusione ottica di movimenti violentissimi che si intersecano e che si<br />
sovrappongono incessantemente. Questo Dio ha inoltre una coscienza umana, limitata, che sembra<br />
41
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
portato a colmare attraverso l’apprendimento, la cultura. Pasolini lo riprende spesso mentre legge<br />
Rimbaud, il grande poeta francese, maitre della trasgressione esistenziale ma soprattutto linguistica.<br />
Sembra quasi che Pasolini abbia costruito una casa degli specchi, dove ogni volta ha la possibilità di<br />
riflettersi in tanti se stessi diversi, in altre figurazioni della sua psiche: Pasolini cita la propria<br />
passione rimbaudiana citando la divinità che percepisce in se stesso. Tutto questo nell’estremo<br />
tentativo di continuare a scavare ma anche a giustificare la propria mitologia estetico-sessuale che<br />
egli percepì sempre ambiguamente, con un misto di disgusto e orgoglio.<br />
"... Posso solo dirti che la vita ambigua – come tu dici bene – che io conducevo a Casarsa,<br />
continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all’etimologia di ambiguo vedrai che non può essere<br />
che ambiguo uno che viva una doppia esistenza. Per questo io qualche volta – e in questi ultimi<br />
tempi spesso – sono gelido, " cattivo", le mie parole "fanno male". Non è un atteggiamento<br />
"maudit", ma l’ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono.<br />
Non ho avuto un’educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni<br />
io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale...<br />
Questa mia tradizione di onestà e di rettezza – che non aveva un nome o una fede, ma che era<br />
radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale mi ha impedito di accettare per<br />
molto tempo il verdetto...<br />
Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle<br />
eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio equilibrio, la mia innaturale<br />
resistenza, possono trarre in inganno... Ma vedo che sto cercando giustificazioni, ancora una<br />
volta... Scusami, volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di<br />
me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare<br />
nessuno – come in fondo ho ingannato te, e anche altri amici che ora parlano di un vecchio Pier<br />
Paolo, o di un Pier Paolo da rinnovarsi. Io non so di preciso che cosa intendere per ipocrisia, ma<br />
ormai ne sono terrorizzato. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi pare<br />
dicesse San Paolo... Uno normale può rassegnarsi – la terribile parola – alla castità, alle occasioni<br />
perdute: ma in me la difficoltà dell’amare ha reso ossessionante il bisogno di amare...<br />
Qui a Roma posso trovare meglio che altrove il modo di vivere ambiguamente, mi capisci?, e, nel<br />
tempo stesso, il modo di essere compiutamente sincero, di non ingannare nessuno, come finirebbe<br />
col succedermi a Milano: forse ti dico questo perché sono sfiduciato, e colloco te sola nel<br />
piedistallo di chi sa capire e compatire: ma è che finora non ho trovato nessuno che fosse sincero<br />
come io vorrei.<br />
La vita sessuale degli altri mi ha sempre fatto vergognare della mia: il male è dunque tutto dalla<br />
mia parte? Mi sembra impossibile. Comprendimi, Silvana, ciò che adesso mi sta più a cuore è<br />
essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce. È l’unico modo<br />
per farmi perdonare da quel ragazzo spaventosamente onesto e buono che qualcuno in me continua<br />
a essere... Ho intenzione di lavorare e di amare, l’una cosa e l’altra disperatamente...<br />
La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno<br />
di Rimbaud, o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È<br />
una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così; e io, come te, non mi rassegno... Io ho<br />
sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia<br />
natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la<br />
mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto<br />
come un nemico, non me la sono mai sentita dentro. Solo in quest’ultimo anno mi sono lasciato un<br />
po’ andare: ma ero affranto, le mie condizioni famigliari erano disastrose, mio padre infuriava ed<br />
era malvagio fino alla nausea, il mio povero comunismo mi aveva fatto odiare, come si odio un<br />
mostro, da tutta una comunità, si profilava ormai anche un fallimento letterario: e allora la ricerca<br />
42
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
di una gioia immediata, una gioia da morirci dentro era l’unico scampo. Ne sono stato punito<br />
senza pietà. Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando<br />
avevo tre anni e mezzo (mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta<br />
quell’attrazione dolcissima e violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra<br />
come un fossile...". [AA. VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti 1971.<br />
Lettera spedita all’amica Silvana Ottieri e risalente all’incirca al periodo 1947-1950.]<br />
Rimbaud e San Paolo sono i due estremi che legano imprescindibilmente il cerchio imperfetto della<br />
sua vita, sono gli estremi che danno scandalo perché il territorio deserto dell’Intellighenzia italiana<br />
e della Cultura Omologante Borghese di quegli anni non era in grado di concepire una tale sintesi, e<br />
Pasolini ne fu sempre consapevole, oscillando irrimediabilmente tra un atteggiamento di Divino<br />
disprezzo e superiorità, e una profonda rassegnazione di fronte al numero di attacchi che fu costretto<br />
a subire.<br />
Rimbaud e San Paolo nella loro comunione diventano anche i portavoce di quella cultura ‘laica’ che<br />
egli sentì necessaria affinché l’uomo potesse finalmente liberarsi dai propri vincoli settari.<br />
L’Ospite-Dio fallico pasoliniano possiede una voce sensuale e poetica, e la sfrutta per plagiare, per<br />
richiamare ai valori della Cultura e dell’apprendistato poetico.<br />
Questa necessità conoscitiva si propaga all’intera famiglia, dilaga senza però riuscire a salvare<br />
nessuno. Il Padre della famiglia, durante la sua malattia, legge La morte di Ivan Ilic di Tolstoj, che è<br />
tra l’altro la descrizione del rapporto fra un contadino e un vecchio padrone; la medesima situazione<br />
che sembra ripetersi nel rapporto erotico-filiale che riguarda L’Ospite e il Padre, in cui si inserisce<br />
l’altro eterno tema della cultura pasoliniana, il mito del sottoproletariato (quasi un Dio venuto dalle<br />
campagne russe dell’ottocento) unica possibilità di salvezza rispetto alla decrepitezza del Padre,<br />
moribondo eroe borghese.<br />
In Teorema la letteratura viene comunque declassata rispetto alla forza icastica della cultura<br />
figurativa, che investe sia Pietro - il figlio, che il personaggio del Padre. Il Pasolini medioevale e<br />
rinascimentale che abbiamo incontrato nei suoi precedenti film, e culminato nell’ esplosione<br />
dirompente della scena della Crocifissione ne La ricotta, lascia il posto alla violentissima pittura di<br />
Bacon. In una sequenza compaiono due opere baconiane, inquadrate come viste da entrambi i<br />
personaggi, Pietro e l’Ospite: Fragment of a crucifixion e Three studios for figures at the base of a<br />
Crucifixion.<br />
In fondo il tema non è cambiato, l’ossessione della croce e del martirio di un ‘uomo’ incompreso<br />
dai più. Ma qui ritorna in una forma diversa, dove i classici equilibri del disegno armonico di un<br />
Tiziano o di un Masaccio vengono soppiantati dalle distorsioni cromatiche ed emotive della pittura<br />
dell’artista inglese. Questo corpus figurativo viene totalmente interiorizzato all’interno del film,<br />
quasi che l’intero lungometraggio non sia che una riproduzione di un quadro baconiano, e quella<br />
calma e linearità geometrica della storia altro non sia, per l’appunto, che una semplice illusione<br />
ottica; la patina superficiale sotto la quale si cela Tutto. È questo il punto dove si realizzano i dogmi<br />
del cinema di poesia e della soggettiva libera indiretta.<br />
Ma in Teorema il codice figurativo, che ripropone i suoi stretti legami col mondo della pittura,<br />
assume anche un importante funzione narrativa. Dopo la partenza dell’ospite Pietro si dedica alla<br />
pittura, variando diverse tecniche espressive, fino alla realizzazione del proprio fallimento con<br />
conseguente abbandono di quest’idea. Sembra quasi che Pasolini voglia compiere un’autocritica<br />
della propria esperienza di pittore, e nel contempo demolire certe avanguardie del suo tempo, in<br />
particolare l’Action Painting di Pollock, nella scena in cui Pietro orina sul quadro.<br />
E sembra che Pasolini intenda soprattutto proseguire nella sua opera di demolizione della forma,<br />
inaugurando la stagione delle proprie negazioni.<br />
43
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Capitolo VI<br />
LA CIVILTA’ DELL’EROS<br />
44
TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Dopo Teorema, punto massimo di straniamento del linguaggio poetico pasoliniano e degli schemi<br />
tradizionali del racconto basati sulla logica giustapposizione di sequenze che si avvicendano<br />
secondo un ordine progressivo, nei film del biennio ‘69-’70, Porcile e Medea, Pasolini sembra voler<br />
tornare alle origine del proprio linguaggio, là dove l’esigenza di un analisi dettagliata dei costumi e<br />
dei meccanismi della realtà si sposava con i filtri della grande tradizione classico-mediterranea.<br />
E così Medea diventa un momento di chiusura; conclude il ciclo delle trasposizioni dalla tragedia<br />
greca - ciclo che era iniziato con la traduzione in immagini dell’Edipo sofocleo, ed era proseguito<br />
nel documentario Appunti per un’Orestiade africana con la rivisitazione dell’opera di Eschilo.<br />
Medea, in tal senso, rappresenta uno di quei tanti puntelli che abbiamo visto più volte delimitare il<br />
cammino di Pasolini. Puntelli che sono serviti da raccordo o da chiusura alle zone del suo pensieroazione.<br />
Con questo film Pasolini non fa altro che dare un altro addio ad una parte del proprio<br />
passato, e alla possibilità espressiva che era insita in quella parte.<br />
La maggior parte della critica del tempo si volle soffermare su quelli che furono considerati segni di<br />
regressione nella potenza ideologica dell’autore. Si vide in Medea un film commerciale, perché<br />
troppo legato alla figura della Callas - protagonista della pellicola, e soprattutto grande diva<br />
internazionale, vicina ad ambienti molto più glamour e da rotocalco, rispetto a quelli<br />
tradizionalmente vissuti dal suo regista.<br />
In realtà, come già nei precedenti sopra citati, Pasolini sfrutta la limpidezza delle ‘immagini’<br />
classiche, la sorprendente linearità che soggiace alle raffigurazioni allegoriche del Mito, per<br />
evidenziare tutti i contrasti e le lacerazioni che appartengono alla nostra contemporaneità. In questo<br />
Pasolini fu davvero poeta, capace di coniugare in maniera imprescindibile la propria esistenza,<br />
vissuta nel dramma di quelle percezioni, con la propria Opera. E così la lotta fra la moderna civiltà<br />
di Corinto e la primitiva Colchide richiama alla mente il presente storico da lui vissuto, diviso tra un<br />
mondo evoluto e autoreferenziale e un terzo Mondo sottosviluppato e abbandonato dal primo.<br />
In effetti Medea non fa altro che ripercorrere tutti i topos tipici delle narrazioni pasoliniane: i<br />
contrasti fra un mondo di innocenza e un mondo evoluto e barbaro, la violenza ancestrale<br />
dell’uomo, la necessità del sapere. Solo che ora tutto risulta arricchito dalle nuove suggestioni che<br />
gli derivarono dalle sue recenti acquisizioni culturali. E pertanto non vi era più solo il Freud che<br />
sottende il mito di Edipo, ma tutti quegli studi etnologici, politici e antropologici che in quegli anni<br />
costituivano il più importante humus della sua ispirazione. E infatti Medea, che è una storia di<br />
grandi contrasti e di violente passioni, dopo Porcile, prosegue su quella linea esplorativa che ha<br />
portato in primo piano nel cinema i suoi interessi antropologici.<br />
Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. […] Quanto alla pièce di Euripide, mi sono<br />
semplicemente limitato a trarne qualche citazione. […] Medea è il confronto dell’universo arcaico,<br />
ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è<br />
l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone<br />
ancora questioni del genere. È il "tecnico" abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al<br />
successo. […] Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello "spirito", fa scattare una tragedia<br />
spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due "culture",<br />
sull’irriducibilità reciproca di due civiltà […] potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del<br />
Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio che vivesse la stessa catastrofe venendo a<br />
contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del resto, nell’irreligiosità, nell’assenza di ogni<br />
metafisica, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che<br />
passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo<br />
uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il<br />
superamento è un’illusione. Nulla si perde. [Jean Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del<br />
centauro, Roma 1983]<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
<strong>Dott</strong>. <strong>Luigi</strong> <strong>Pingitore</strong><br />
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”<br />
Ora non era più esclusivamente necessario studiare i meccanismi psicanalitici e raccontare le<br />
metafore etico-politiche dei tempi, ma era fondamentale ricavare dall’antropologia - dallo studio,<br />
cioè, dell’Uomo - una Visione pura. L’antropologia intesa come sovrastruttura che presiede alla<br />
Storia e al Mito, perché affonda nel protagonista di queste due dimensioni: l’uomo.<br />
E dell’uomo Pasolini era interessato soprattutto a descrivere la gestualità.<br />
Medea vive in simbiosi con la terra. Il suo amore per Giasone e per i propri figli non è un<br />
sentimento rasserenante, ma un aspro conflitto tra ciò che sente e ciò che "è consentito" sentire, tra<br />
quanto lei è e quanto diventa mutando identità. L’amore di Medea è totale, chiaro, violento: uccide i<br />
figli perché si rende conto che sono frutto di un amore soltanto carnale, non sincero. Giasone che<br />
agisce solo in un rapporto di scambio con il potere, è l’eroe freddo e pragmatico di una società nella<br />
quale ci si appropria razionalmente del mondo. Suo unico obiettivo è l’arrivismo. In questo<br />
contesto, il suo "amore" è soltanto un calcolo dettato dalla convenienza. Il suo e quello di Medea<br />
sono, come si vede, mondi del tutto inconciliabili.<br />
Ecco in che modo tutti i passaggi esistenziali di Pasolini si concretizzano nel suo cinema. Da<br />
Accattone, suo primo film, imbastito di tutte quelle strutture che abbiamo esaminato, Pasolini<br />
sembra lavorare di scalpello, come uno scultore che agisca sulla massa densa di marmo, per fare<br />
emergere il nucleo grezzo che è dentro l’opera. Porcile e Medea sono infatti due film sui gesti:<br />
quello del divorare per il primo, e quelli antichi, legati al culto della terra, per il secondo. È chiaro<br />
che Pasolini non poté mai rinunciare alle molteplici visuali che in scenari così altamente allegorici<br />
si intersecavano con quella purezza ricercata, però fu comunque importante per lui riuscire a<br />
lavorare e a mettere evidenza questo ulteriore passaggio verso la scarnificazione del Senso.<br />
Così si inaugura una stagione di grandi negazioni, dove un sentimento fortemente nichilista<br />
serpeggia nelle sue opere e nella sua vita, e spinge Pasolini verso le derive esistenziali della fuga.<br />
Sembrerebbe una contraddizione arrivare a questo tipo di conclusioni, dopo che si è ribadita la<br />
natura combattiva e tenace dello stesso. Ma in realtà tutto in Pasolini ha un sapore predeterminato,<br />
ci si avvicina un passo alla volta a quella notte del primo novembre e a quella morte così aspra, con<br />
la consapevolezza di aver assistito ad un lento cammino che si è fatto via via più veloce, una lunga<br />
rincorsa che è sfociata in una vera e propria iniziazione alla fuga.<br />
Pasolini abbandona il Mito della tragedia classica, abbandona le sovrastrutture narrative dei<br />
personaggi e si dirige verso il punto estremi della sua Vita: L’erotizzazione dell’esperienza<br />
esistenziale. Descritta attraverso i gesti.<br />
È su questa base che Pasolini fonda il suo nuovo Impero dei sensi, una civiltà sensuale e primitiva,<br />
che vive di rituali ancestrali e amorfi, e che ha come unico scopo la perpetrazione della propria<br />
bellezza istintiva nella sacralizzazione della propria innocenza perduta. È la civiltà dell’Eros.<br />
La fuga si determina fisicamente nei numerosi viaggi che Pasolini compie negli anni settanta: viaggi<br />
di lavoro, viaggi di esplorazione, viaggi per rinsaldare uno stupore perduto e una necessità di<br />
disorientamento, quasi una volontà (nichilista) di trovarsi un giorno al centro di una carreggiata<br />
pochi istanti prima che sopraggiunga qualcuno a grande velocità.<br />
Pasolini trova nell’Oriente e nell’Antichità due mete importanti. Nascono i tre film che<br />
compongono il ciclo della Trilogia della Vita, e sono quelli che regalano a Pasolini il maggior<br />
successo commerciale della sua carriera, con incassi che pongono un film come Il Decameron ai<br />
vertici delle classifiche italiane del tempo. Il fiore delle Mille e una notte vincerà il premio speciale<br />
della giuria al festival di Cannes del 1974, mentre I Racconti di Canterbury si aggiudicherà l’Orso<br />
d’argento al festival di Berlino del 1972. Sembra quasi che Pasolini sia stato portato fuori, con forza<br />
bisogna aggiungere, dal territorio della clandestinità, quando i suoi film avevano pochissimi<br />
spettatori e molti denigratori, e sia stato catapultato nella realtà del cinema commercialmente<br />
apprezzato.<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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Ma fu proprio lo stesso Pasolini ad avvertire in questo fenomeno dei segnali ancora più inquietanti;<br />
percepì quella che secondo lui era la volontà del mondo borghese di accettarlo tacitamente per<br />
poterlo così sedare ancora di più. Non dargli neanche la possibilità del fronte della battaglia dove<br />
poter alzare la sua puerile voce. Così, quando scrive L’abiura alla Trilogia della vita, che verrà<br />
pubblicata dal "Corriere della Sera" pochi giorni dopo la sua morte - perché se ne comprese il<br />
fondamentale valore di testimonianza intellettuale, Pasolini non fa altro che ribadire qualsiasi<br />
proposito di distanza dalle infinite strumentalizzazioni che il Potere ha cercato di operare nei suoi<br />
confronti, prima bersagliandolo continuamente, e adesso accettandolo, e quindi integrandolo in<br />
quella visione omologata e massificata a cui Egli cercò sempre di opporsi. Soprattutto Pasolini<br />
percepì il valore de-sacralizzante che l’occhio dello spettatore compì sulla sua opera, che andava al<br />
cinema a vedere i corpi nudi esposti ne Il Decameron o ne Il fiore, senza riuscire minimamente a<br />
farsi trasportare dall’Idea e dell’esigenza Espressiva che si celava dietro quella rappresentazione.<br />
Il rapporto conflittuale di Pasolini con l’ "uomo medio" resta intatto: tanto da far ricevere<br />
all’autore del Fiore delle Mille e una notte, nel giugno del 1974, una denuncia per oscenità<br />
conseguente, paradossalmente, alla proiezione unica di beneficenza del film, che il regista ha<br />
organizzato in anteprima a Milano, con lo scopo di raccogliere fondi per realizzare un<br />
documentario a favore della "riumanizzazione" della vita in quella città.<br />
Quello che muta è il rapporto dì Pasolini con il Potere: è infatti quanto meno singolare che il<br />
sostituto procuratore di Milano competente per il caso, Caizzi, riconosca lo statuto di "opera<br />
d’arte" al film senza promuovere nessuna azione penale nei confronti del Fiore delle Mille e una<br />
notte. Che cosa può essere così radicalmente mutato nella società italiana per spingerla, nel giro<br />
di qualche anno, a considerare prodotto artistico ciò che prima era oggetto di scandalo e di<br />
censura? Di certo non una palingenesi morale, né una crescita culturale e intellettuale della<br />
nazione: con la scomparsa della Repressione, è l’avvento dell’epoca della Tolleranza. Pasolini si<br />
accorge di questa generale tolleranza nei suoi confronti, la quale, lungi dall’essere il frutto del<br />
riconoscimento di una validità intellettuale, e ancor meno atto di revoca della patente di<br />
"diversità" che lo accompagna, è solo "una forma di condanna più raffinata. [Stefano Murri, Pier<br />
Paolo Pasolini, Il Castoro 1997]<br />
In luogo del morboso - così com’era stato interpretato dai più, Pasolini aveva inteso praticare la<br />
strada dell’Arcaico, per ritrovare, come sempre, un‘idea primitiva di Innocenza; e gli sembrò di<br />
poterla ravvisare nell’ istinto, nell’Atto sessuale puro, privo di mediazioni. Ma nulla sembrava più<br />
forte della patina, dell’immagine fintamente scandalosa del sesso, rispetto al vero scandalo<br />
dell’essere continuamente contro il codice: il codice della realtà, il codice del linguaggio, il codice<br />
della propria autosregolatezza.<br />
Così Pasolini abiura. E non abiura l’idea che c’è dietro quei film, ma l’idea che di quei film si<br />
fecero gli spettatori. In questo modo però, Pasolini finiva con l’abiurare il mondo in toto, perché<br />
finalmente era costretto a scendere a patti con l’esterno rinunciando Egli ad una parte di sé. E forse<br />
furono proprio questi i primi passi che lo condussero verso quella notte del 1° novembre 1975.<br />
Ma fu comunque più forte l’esigenza di essere lontano da quell’attenzione morbosa al sesso, e a<br />
quella stretta fagocitante che la borghesia italiana stringeva attorno al suo corpo, nel tentativo<br />
estremo di metterlo a tacere.<br />
Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la<br />
sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo<br />
culminante, il sesso. (...) anche la realtà dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa<br />
dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della<br />
nuovo epoca umana. [P.P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi 1976]<br />
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Ancora ne I racconti di Canterbury è racchiusa tutta l’avventura poetica di Pasolini, e<br />
contemporaneamente, vi è tutto lo scoramento che egli confessò poco dopo per dover assistere alle<br />
continue manipolazioni intellettuali del suo lavoro. Su alcuni aspetti relativi alle origini letterarie<br />
del film, il regista risponderà così in un’intervista: I racconti di Canterbury sono stati scritti<br />
quarant’anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo e dimensione fantastica sono gli stessi,<br />
solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d’altra parte era più moderno, poiché in<br />
Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di Cervantes. Cioè esiste già<br />
una contraddizione: da un lato l’aspetto epico con gli eroi grossolani e pieni di vitalità del<br />
Medioevo, dall’altro l’ironia e l’autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e segni di cattiva<br />
coscienza. [notizia tratta dal sito Internet di Angela Molteni 1997, http//www.pasolini.net]<br />
All’inizio del film, Chaucer/Pasolini si unisce idealmente ai molti pellegrini diretti all’Abbazia di<br />
Canterbury; in seguito Pasolini rappresenterà il narratore che, all’interno di uno studio, penserà e<br />
scriverà i racconti, non senza muti ammiccamenti ironici e maliziosi, costituendo di fatto il raccordo<br />
tra una novella e l’altra. I temi sono quelli di tutta la Trilogia: sesso, amore e morte, con<br />
un’accentuazione di quest’ultimo rispetto alla trattazione operata in Decameron; in tutti gli episodi,<br />
infatti, viene rappresentato un funerale, o un assassinio, o un condannato a morte, o un moribondo.<br />
Pasolini affronta poi con grande ironia e senso del grottesco i temi della violenza esercitata dalla<br />
ricchezza e dell’immoralità del potere. La sgradevolezza dei personaggi dei ceti "alti" è messa in<br />
particolare risalto da un trucco molto pesante, carico, volgare. Nella gente comune (come al solito<br />
Pasolini utilizza attori non professionisti) si ritrovano la stessa gestualità, le stesse espressioni e<br />
fisionomie di quelle presentate in Decameron. La musica (curata da Ennio Morricone) si richiama a<br />
canzoni popolari inglesi medievali e rinascimentali. Riappare la famosa canzone napoletana<br />
Fenesta ca lucive (già utilizzata in Decameron) che parla della morte improvvisa di una giovane<br />
donna – quasi a costituire un ulteriore richiamo al tema della morte.<br />
In un convegno tenutosi in quel periodo a Bologna, sul tema "Erotismo, eversione, merce", Pasolini<br />
fece un lungo intervento, nel quale tra l’altro disse: Perché io sono giunto all’esasperata libertà di<br />
rappresentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in<br />
dettaglio e in primo piano, del sesso? Ho una spiegazione che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed<br />
è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa)<br />
addirittura pensare alla fine della cultura – che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo<br />
modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa –<br />
mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo […] Protagonista dei miei film è<br />
stata così la corporalità popolare. Non potevo – e proprio per ragioni stilistiche – non giungere<br />
alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo:<br />
e, in modo ancor più sintetico, il sesso […] I rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche di<br />
per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare<br />
così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo<br />
cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è<br />
anche una sfida, contenuta nel mio cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più<br />
fronti. Provocazione verso il pubblico borghese e benpensante […] Provocazione verso i critici, i<br />
quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque<br />
vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo<br />
schermo, sopra le loro teste che non volevano capire. […] era un periodo molto particolare, ero<br />
molto, molto, molto infelice, non ero adatto per una trilogia nata all’insegna della spensieratezza,<br />
dello "stile medio", del sogno e anche del comico, per quanto astratto. E forse se non fossi stato<br />
così infelice, non mi sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e<br />
cappello.<br />
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TESI<br />
“Pasolini: il cinema della poesia”<br />
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Capitolo VII<br />
LA LUCE, ALLA FINE<br />
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Il giorno in cui Pasolini fu ammazzato,<br />
Lui si sarebbe raccolto in silenzio,<br />
a casa di un’amica, e insieme avrebbero ascoltato,<br />
commossi, un inno di Francesco De Gregori: Pablo.<br />
[P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno]<br />
Arrivati verso la fine, si ha la tentazione di tornare indietro e ricominciare tutto il discorso daccapo,<br />
magari partendo proprio dalle stesse premesse, per poterle stavolta esaminare alla luce di tutte<br />
quelle acquisizioni che si sono accumulate nel tempo della sua vita. E soprattutto per effettuare quel<br />
montaggio essenziale - come lui lo definì, che ha dato senso al caos e alla dispersione di un’intera<br />
esistenza. Freudianamente si potrebbe illuminare ogni singolo aspetto di quegli inizi nei prati di<br />
Casarsa e nelle stradine delle borgate romane, per potersi dilungare sui fenomeni di quella vita<br />
inquieta e a volte così astratta.<br />
"È odiosa la gente. Venendo al ristorante ho sempre camminato a testa bassa, non volevo vedere in<br />
faccia nessuno."<br />
Sono le 22.00 del 1° novembre 1975.<br />
È di nuovo notte in questa parte di emisfero. Roma e l’Italia intera hanno celebrato la festività di<br />
ognissanti, vecchio residuato della tradizione cristiana. Da un paio di settimane è autunno, le prime<br />
folate di vento si alzano per le strade antiche e secolari della capitale, accarezzando i grandi pratoni<br />
di erba. L’estate è definitivamente alle spalle, così come le giornate che Pasolini trascorreva nel suo<br />
castello di Chia, a scrivere Petrolio, e a meditare su quegli articoli pubblicati sul "Corriere della<br />
Sera" in cui chiedeva un pubblico processo alla DC. È rientrato il giorno prima da un lungo viaggio<br />
che l’ha portato a Stoccolma, in occasione della traduzione in svedese delle sue poesie. Si è anche<br />
fermato a Parigi per presenziare all’edizione francese di Salò.<br />
È l’anno in cui finalmente ha termine la guerra del Vietnam, l’esercito di liberazione entra a Saigon<br />
e gli americani battono in ritirata. In Spagna muore il generale Franco. Montale riceve il premio<br />
Nobel per la letteratura, Eco pubblica il Trattato di semiologia generale. Nei cinema vengono<br />
proiettati Professione: reporter di Antonioni e Nel corso del tempo di Wim Wenders, icona di un<br />
cinema dello sradicamento fisico e mentale che da lì a poco attecchirà definitivamente<br />
nell’immaginario europeo eleggendo il suo autore a maestro generazionale. Appena due anni prima<br />
c’è stato l’esordio di Martin Scorsese negli Stati Uniti con Mean streets, mentre in Europa<br />
morivano Gadda e Picasso. Ancora diciannove anni e sarebbe crollato il Muro di Berlino; quindi il<br />
comunismo nel mondo.<br />
Se questo fosse un film, con un finale ancora da scrivere, girato con quella tecnica del cinema di<br />
poesia per cui le inquadrature debbono riprodurre fisicamente la realtà psicologica del personaggio -<br />
Pasolini che si avvicina alla porta del ristorante "Il Pomodoro", accompagnato da Ninetto Davoli e<br />
dalla sua famiglia, abbassa la testa, entra... allora questa breve, brevissima scena, dovrebbe<br />
progressivamente esplodere e ripristinare il caos delle sensazioni, per descrivere tutto ciò che è<br />
contenuto in quel semplice gesto. Dovremmo poter avere la certezza che stiamo assistendo alla<br />
conclusione di una lunghissima fuga.<br />
Pasolini cena con i suoi amici e ha sempre la sua solita voce sottile - come dirà poi Ninetto Davoli,<br />
parla di ciò che sta facendo e dei suoi progetti futuri. Poi quando la serata ha termine, Pasolini si<br />
separa dalla comitiva e rientra nella sua auto.<br />
Verso le 23 raggiunge la Stazione Termini. Alle 23 e 30 circa Giuseppe Pelosi entra nella sua auto.<br />
Sono diretti ad un ristorante della via Ostiense, "Mario", dove Pasolini è abbastanza conosciuto.<br />
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Forse con l’età i suoi rituali si sono cristallizzati, così pure i luoghi dove egli ritorna a cercare.<br />
È quasi l’una quando Pasolini raggiunge il litorale di Ostia, e si ferma in un vecchio campetto di<br />
calcio polveroso, a due passi dalle baracche abusive che la gente del posto si è costruita. È un luogo<br />
che evidentemente conosce bene, frutto di molte esplorazioni: chissà che cosa avrebbe dovuto<br />
rappresentare, in quale film sarebbe potuto entrare. Intanto i giornali sono ormai in rotativa e nulla<br />
più può essere aggiunto. Sembrerebbe quasi dovuto che la vita si arresti. A quell’ora il mondo<br />
dorme sotto sonni agitati.<br />
E invece è lì che muore Pasolini. Dopo una colluttazione feroce e rabbiosa che l’ha visto cedere di<br />
schianto. Pasolini muore, il ragazzo scappa rubando la sua auto, la notte torna a essere deserta e<br />
silenziosa dopo quegli attimi di concitazione. Passeranno più di cinque ore prima che qualcuno se<br />
ne accorga. È la povera gente della borgata, una signora che vive in una di quelle baracche la prima<br />
persona che scorgerà quel corpo abbandonato sulla sabbia. Man mano che il sole sorge la luce<br />
illumina i resti di Pasolini, e ne permette l’identificazione.<br />
Dal momento che Pasolini ha camminato tanto, è possibile ipotizzare che quella fine non ha poi una<br />
tale importanza; in fondo era necessaria. Un uomo prima o poi si deve fermare, in tutti i sensi.<br />
Quella morte così teatrale si regala agli sguardi dei contemporanei e dei posteri che potranno<br />
leggervi tutto, dai segni del Fato alle logiche di un processo di partecipazione al grande dramma del<br />
mondo. Pasolini non ne è mai sceso, logico che prima o poi lo cacciassero.<br />
Salò, in tale senso, risulta essere una logica conseguenze delle continue negazioni e delle<br />
prospettive di fuga che Pasolini ha intrecciato nell’arco della sua esistenza. Ed è altresì chiaro che<br />
proprio per questo risulti essere un film estremamente difficile da decifrare; tale difficoltà risiede<br />
sostanzialmente nel fatto di essere un’opera postuma, che agisce contemporaneamente da testimone<br />
di quella vita appena conclusa e si esibisce in un dialogo a distanza con la morte del suo autore.<br />
Nessuno tra quanti videro il film alla sua prima, il 22 novembre di quell’anno, al Festival di Parigi,<br />
né Bertolucci né Moravia, poté evitare la malia di vedere sovrapposte a quelle scene di violenza<br />
estrema, le immagini della morte di Pasolini.<br />
E allora a noi sembra, di nuovo, che il cinema di poesia abbia chiuso il cerchio là dove l’aveva<br />
iniziato, nelle prime sequenze di Accattone, quando il giovane borgataro si affacciava dal ponte e<br />
minacciava per spettacolo di gettarsi nel Tevere. Ora ci si è gettato, è morto, e le immagini poetiche<br />
ci hanno testimoniato quest’ultimo viaggio cristallizzandosi per sempre nelle atmosfere rigide e<br />
claustrofobiche dei gironi danteschi che scandiscono il film Salò, e nell’incompiutezza che aleggia<br />
tra le pagine del suo ultimo romanzo: Petrolio.<br />
Salò assomiglia a quel piccolo punto nero, che nell’introduzione a questa tesi, cercavamo di<br />
scoprire all’interno della carriere poetica di Pasolini. Ne ha tutte le caratteristiche, per la capacità<br />
che ha avuto di fagocitare al suo interno Storia, Letteratura e Mito, polverizzandole e annullando<br />
qualsiasi possibilità di dialettica con l’esterno. Si entra in Salò con la certezza di entrare in un<br />
mondo a parte, dove Pasolini lascia che il Caos primordiale attecchisca contro quei corpi che lui in<br />
passato ha cercato di salvare e che ora abbandona alla Violenza istituita del potere e alle rigorose<br />
geometrie infernali, scandite come lungo una scala sonora, dalle successioni delle depravazioni dei<br />
carnefici. I corpi dei giovani e delle giovani fatti radunare nella villa seicentesca sono gli stessi<br />
corpi che Pasolini aveva amato esibire e spettacolarizzare nella Trilogia. Ora, a distanza di due anni,<br />
Pasolini è un uomo che si è portato al di là delle proprie negazione, dove non è più possibile tornare<br />
indietro. Ed è questa negazione che cerca di esprimere.<br />
Prima di entrare al ristorante con Ninetto pronuncia quella frase sulla gente: ‘è odiosa!’. Doveva<br />
sentirlo profondamente, perché Salò è un lungo grido in forma di odio. Siamo entrati in quel mondo<br />
e Pasolini non ci ha lasciato intravedere nemmeno una porta. Anzi, l’unica che forse ancora c’era,<br />
l’ha sprangata egli stesso ed è rimasto dentro con noi, a godersi lo spettacolo.<br />
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TESI<br />
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Salò è un mistero medievale, una sacra rappresentazione molto enigmatica. Quindi non deve essere<br />
capito, guai se fosse capito. Voglio dire il film. [Conversazione con P. P. Pasolini, intervista<br />
apparsa su “Filmcritica”, n. 265, agosto ‘75]<br />
In realtà è difficile ipotizzare che dopo quest’opera Pasolini avrebbe potuto continuare a fare<br />
cinema. È giunto con questo film in territori così estremi e lontani, che sembra difficile capire in<br />
che modo sarebbe potuto tornare indietro. Probabilmente solo dopo un altro lunghissimo cammino,<br />
che forse si sarebbe concluso ai nostri giorni; se oggi Pasolini fosse ancora vivo, probabilmente si<br />
affiderebbe alla nuove tecniche del video e del digitale, scorgendo in esse quel radicamento<br />
necessario alla sua propagazione linguistica. E allora potrebbe ricominciare a filmare la sua Realtà.<br />
D’altronde Salò, come ho già detto per gli altri suoi film, è una riflessione sulla propria condizione<br />
di autore. È l’ennesimo film che mette in scena il rapporto esplicitamente autobiografico tra il<br />
regista/carnefice e l’universo materiale ed umano espresso. E la violenza sado-masochista sembra<br />
essere ormai l’unico medium che permetta a Pasolini di mantenersi in rapporto con l’esterno.<br />
Così la scena iniziale di rastrellamento dei giovani che verranno poi condotti nei luoghi della<br />
tortura, potrebbe alludere alla ricerca degli attori condotta dallo stesso, attori che in tutti i film<br />
hanno incarnato quella disperazione via via più crescente che si è fatta materia viva dei film<br />
pasoliniani. O forse allude all’iniziazione alla violenza che Pasolini ha compiuto verso noi<br />
spettatori, obbligandoci, noi con lui, a restare prigionieri di quell’irrimediabilità che egli ormai<br />
percepiva come unica fonte di sopravvivenza.<br />
E questa è stata davvero la sua ultima utopia.<br />
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