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PERISSINOTTO: WITTGENSTEIN -‐ UNA GUIDA<br />
L'immagine di Wittgenstein che spesso ritroviamo nella letteratura e' duale: il Wittgenstein<br />
del Tractatus e quello successivo ad esso, che avrebbe speso gran parte del suo tempo e delle<br />
sue energie a criticare la sua prima opera ed elaborare una filosofia diversa e alternativa a<br />
quella del Tractatus. E' vero che tra la prima e le opere successive ci sono delle differenze<br />
significative, ma anche elementi di continuità. Wittgenstein stesso confessa di essere giunto<br />
alla conclusione che per mettere in giusta luce i nuovi pensieri era necessario contrapporli<br />
alle idee espresse nel suo primo libro, collocarli sullo sfondo di esso.<br />
Il Tractatus logico -‐ philosophicus fu composto durante la prima guerra mondiale e terminato<br />
nell'estate del 1918. Pubblicato su una rivista di scarsa importanza, con poca cura e molti<br />
refusi, ebbe diffusione quasi nulla. Nel 1922 esce in Gran Bretagna come un libro a sé, grazie<br />
all'interessamento di Bertrand Russell. Questa edizione portava il titolo in latino, Tractatus<br />
logico-‐philosophicus, ed era una edizione bilingue (tedesco -‐ inglese). Venne accolto<br />
favorevolmente nel mondo filosofico e letterario inglese, in particolare nell'ambìto Circolo di<br />
Vienna, nonostante alcune perplessità' manifestate da alcuni. Wittgenstein terminò la stesura<br />
del trattato all'età di 29 anni. Apparteneva ad una famiglia dell'alta borghesia viennese,<br />
nutriva un profondo amore per la musica e arrivò alla filosofia attraverso la fisica e la<br />
matematica. Questo interesse lo spinse a mettersi in contatto con Frege e Russell. Si trasferì a<br />
Cambridge dove poté essere allievo di Russell, che immediatamente si accorse delle<br />
potenzialità' del giovane austriaco, "colui che avrebbe potuto risolvere quei problemi che io<br />
sono ormai troppo vecchio per risolvere". La logica di Wittgenstein era accompagnata da una<br />
profonda tensione etica. Nel 1914 si arruolò nell'esercito austriaco, nel 18 fu fatto prigioniero<br />
in Italia. Lo spinse ad arruolarsi non solo il desiderio di servire la patria ma anche di fare<br />
qualcosa di diverso da un lavoro puramente intellettuale, per scoprire chi in realtà lui fosse. Il<br />
Tractatus è un piccolo libro di grande difficoltà, che costò 7 anni di duro lavoro filosofico. Il<br />
testo è un insieme di 7 proposizioni (Satze), precedute da una breve ma intensa prefazione. la<br />
proposizione 7: "su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" conclude in modo perentorio<br />
e sentenzioso l'opera, ribadendo il tema che la prefazione aveva introdotto: "tutto ciò che può<br />
essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può discorrere, si deve tacere".<br />
Ognuna delle 6 proposizioni è seguita da una serie di proposizioni più o meno lunghe,<br />
ordinate e numerate. la 1.1 e' un commento alla 1, la 4.12 è il secondo commento alla 4.1, la<br />
4.127 e' il settimo commento alla 4.12 e così via. Questo permette a chi legge di cogliere<br />
immediatamente l'importanza logica e il rilievo che spetta alle singole proposizioni. Il<br />
concetto di importanza logica a cui Wittgenstein accenna non è così chiaro, era infatti<br />
persuaso che l'utilizzo della numerazione decimale lo esentasse dall'obbligo di esplicitare i<br />
nessi argomentativi tra le varie proposizioni, a vantaggio della concisione e dell'essenzialità,<br />
della bellezza dell'opera. Ciò ha portato ad un dibattito anche sull'importanza delle<br />
proposizioni, a causa delle discordanze viste da vari studiosi sulla rilevanza data dalla<br />
numerazione a certe proposizioni piuttosto che ad altre. L'autore stesso avverte che senza<br />
questa numerazione il libro sarebbe solo un incomprensibile pasticcio. L'estrema concisione<br />
dell'opera era per l'autore stesso uno dei suoi pregi: " l'esposizione è estremamente concisa,<br />
dato che vi ho lasciato solo quello che io ho veramente pensato e come io l'ho pensato...il<br />
lavoro è rigidamente filosofico e insieme letterario, in esso non si parla a vanvera."<br />
Il Tractatus non è un manuale o un libro di testo ma un'opera di filosofia. E come afferma lo<br />
stesso autore, la filosofia non è una dottrina che possa essere racchiusa in un manuale ma<br />
un'attività, il cui risultato non è un corpo di conoscenze filosofiche, ma il chiarificarsi di<br />
proposizioni che con la filosofia nulla hanno a che fare. Il lettore a cui Wittgenstein auspicava
era "qualcuno che sappia ricavarne un grande piacere trovandovi espressi con esattezza i<br />
pensieri che ha già pensato per proprio conto". Il libro va letto come un'opera non di scienza<br />
ma di filosofia. Solo chi comprende le proposizioni le riconoscerà infine insensate (riconosce<br />
che non sono proposizioni, ma deve ascendere tramite esse e poi superarle. solo in questo<br />
modo vedrà rettamente il mondo). Il lettore che non sarà in grado di usare le proposizioni<br />
come una scala e poi gettarla via, ma si arrestasse ad esse cercando un sapere filosofico sul<br />
mondo, farebbe del Tractatus quello che non è, un manuale. il testo non deve essere altresì<br />
guardato con un libro arduo e difficile, a causa del carattere astratto e remoto dei suoi<br />
problemi. I nostri problemi non sono astratti ma forse i più' concreti che vi siano, afferma<br />
l'autore. nelle Ricerche filosofiche afferma successivamente che gli aspetti per noi più<br />
importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. Lo scopo del libro è<br />
tracciare nel linguaggio, dall'interno del linguaggio, il limite che divide nettamente il senso dal<br />
nonsenso, oltre il quale "non sarà altro che nonsenso". Delimitare ovvero il pensabile (il<br />
dicibile) dall'impensabile (indicibile). Per Wittgenstein il compito che spetta alla filosofia non<br />
è porre domande o elaborare ipotesi, inseguire risposte e cercare spiegazioni al modo della<br />
scienza ma delimitare il campo disputabile della scienza naturale. Nel Tractatus il limite che la<br />
filosofia è chiamata a tracciare nel linguaggio è netto e preciso, una linea che non ammette<br />
sfumature o oscillazioni. In questa prima fase del "dualismo" di Wittgenstein egli è<br />
pienamente d'accordo con Frege: un'area non chiaramente delimitata non può neanche<br />
chiamarsi area. E sempre in accordo con Frege, niente (storia, libero arbitrio, decreti divini)<br />
potrà spostare, erodere o cancellare il confine tra senso e nonsenso. L'esito di questa<br />
delimitazione del senso è devastante: Wittgenstein ritiene di essere riuscito a mostrare che le<br />
proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono, per la maggior parte,<br />
non false ma insensate. la filosofia è piena quindi di confusioni e nonsensi, fondati sul<br />
fraintendimento e mancata comprensione della logica del linguaggio. Alle domanda dei filosofi<br />
non possiamo rispondere, perché non sono affatto domande, per cui possiamo solo<br />
constatarne l'insensatezza. Il solo metodo corretto della filosofia sarebbe: "Nulla dire se ciò<br />
non può' dirsi; dunque proposizioni della scienza naturale e poi, ogni volta che altri voglia dire<br />
qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni delle sue proposizioni, egli non ha dato<br />
significato alcuno". Ma non e' questo un metodo insoddisfacente, che non fa altro che<br />
distruggere ciò che è interessante, cioè grande e importante? (Frege). Per Wittgenstein è<br />
innegabile che esistano problemi importanti, grandi e profondi ma spesso essi non sono<br />
problemi... E' del tutto fuorviante parlare del problema della vita se esso ci induce a trattarlo<br />
come un problema scientifico, che si risolve indagando sul mondo, come esso è. Non ha quindi<br />
senso distinguere tra problemi inessenziali o accidentali e problemi profondi e fondamentali.<br />
Tutti i problemi sono sullo stesso piano e sono tutti indifferenti per ciò che è profondo ed<br />
essenziale. Wittgenstein affermava: “non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la<br />
risposta “ (la scoperta che nessuna risposta della scienza tocca nel profondo la nostra vita e<br />
decide del suo senso). Se una domanda può porsi allor può avere una risposta, anche se per<br />
giungerci dovesse essere richiesto grande impegno e ingegno. Se non c’è risposta non c’è la<br />
domanda, quindi l’enigma (domanda senza risposta) non esiste. Ci sono soluzioni non ancora<br />
trovate, ma esistono. Formulare domande ove non si possono formulare (xche non esiste<br />
risposta) è nonsenso.<br />
Wittgenstein ancora afferma: “Tutto il mio compito consiste nello spiegare l’essenza della<br />
proposizione”. Questo era il cardine su cui giravano le molte e diverse questioni su cui<br />
rifletteva in quegli anni in un dialogo serrato con Frege e Russell. Per Wittgenstein spiegare<br />
l’essenza della proposizione significative significava dare risposta almeno alle seguenti<br />
questioni:<br />
• cosa distingue le proposizioni della logica dalle proposizioni non logiche (“Piove o non<br />
piove” rispetto a “Piove”)? Quale posizione occupano le proposizioni della logica nei<br />
confronti della altre? Qual è il contenuto delle proposizioni della logica, ammesso che<br />
abbiano un contenuto (e siano proposizioni)?
• Cosa significa per una proposizione “aver senso”? Cosa significa comprendere una<br />
proposizione, vera o falsa che sia?<br />
• “Essenza della proposizione” ed “essenza del mondo” sono due differenti questioni o la<br />
stessa?<br />
• Le proposizioni scritte da un filosofo che genere di proposizioni sono? Esistono,<br />
accanto alle proposizioni della scienza, le proposizioni della filosofia?<br />
Wittgenstein matura nel tempo la convinzione che il compito di spiegare l’essenza della<br />
proposizione (riconoscere e tracciare il confine tra senso e nonsenso) fosse strettamente<br />
legato con l’etica.<br />
Nella sua prima opera, il Tractatus, Wittgenstein era interessato principalmente ad un<br />
linguaggio ideale o logicamente perfetto, in grado di prevenire ogni nonsenso, le cui<br />
proposizioni avrebbero sempre un senso perfettamente determinato e ai cui nomi non<br />
mancherebbe un significato definito, unico e univoco. Ma il linguaggio comune, per<br />
Wittgenstein e’ comunque valido, le proposizioni sono in perfetto ordine logico, quindi rifiuta<br />
l’opposizione di Russell tra linguaggio ideale e linguaggio comune. Quello che a Wittgenstein<br />
interessa e’ l’essenza del linguaggio: ciò che ogni linguaggio, per quanto diversi e particolari<br />
siano i modi in cui i suoi segni sono prodotti, ha in comune con ogni altro linguaggio; ciò per<br />
cui un linguaggio è un linguaggio. Qui sorgono alcuni problemi: nel linguaggio comune la<br />
logica non appare immediatamente sulla superfice, in quanto il linguaggio traveste il pensiero<br />
e dall’abito (linguaggio) è talvolta difficile capire la forma del corpo (pensiero). Le tacite<br />
intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate. E è così,<br />
quello che viene richiesto a una notazione (a un simbolismo, a una ideografia) è di mitigare<br />
l’effetto di travestimento, rendendo l’abito adatto a scorgere la forma del corpo. La notazione<br />
va quindi considerata appropriata tanto più esatta e’ la corrispondenza tra forma del corpo<br />
(grammatica profonda) e forma dell’abito (grammatica superficiale, forma logica apparente).<br />
L’ideografia diviene un potente aiuto per la filosofia, un quanto rende trasparente la logica del<br />
linguaggio e consente di dissipare le confusioni e evitare i nonsensi d cui la filosofia e’ piena (a<br />
detta di Wittgenstein), i quali nascono da una mancata comprensione della logica del<br />
linguaggio. Per Wittgenstein sia il simbolismo di Russell (principia Mathematica) che<br />
l’ideografia di Frege erano manchevoli sotto diversi aspetti.<br />
Nel Tractatus Wittgenstein elenca e illustra alcuni casi in cui la veste signetica del linguaggio<br />
comune non si conforma alla grammatica logica. Un esempio è la parola “è” che può apparire<br />
in una proposizione come copula (Socrate è mortale; la porta è marrone), usata in altre<br />
proposizioni come segno di uguaglianza (L’autore di Re Lear è Shakespeare) o usata come<br />
espressione di esistenza (Dio c’è).questo si potrebbe evitare utilizzando un linguaggio segnico,<br />
nel quale si evidenzi con segni differenti i diversi impieghi della parola “è”. Wittgenstein<br />
sosteneva quindi che la filosofia era fuorviata e ingannata dal linguaggio. Il potere che il<br />
linguaggio ha di rendere tutto uguale può indirci a trascurare differenze e distinzioni di<br />
grande importanza. Le forme primitive de nostro linguaggio: sostantivo, aggettivo e verbo,<br />
mostrano l’immagine semplice entro cui il linguaggio cerca di costringere ogni cosa. “Sedia,<br />
tempo, significato, pensiero”, dal punto di vista grammaticale sono tutti sostantivi che ci<br />
inducono a cercare qualcosa (un oggetto; un processo; uno stato) che vi corrisponda. Questo<br />
non cambia nelle opere successive al Tractatus, “i giochi linguistici quotidiano sono resi tutti<br />
uguali dagli stessi abiti con cui li riveste il nostro linguaggio”.<br />
Per essere vera una proposizione deve anzitutto poter essere vera, e solo ciò concerne la<br />
logica. Scoprire quali proposizioni siano vere o false è compito della scienza (in senso molto<br />
ampio). Logica e scienza hanno un interesse diverso: alla logica interessa se la proposizione<br />
può essere vera o può essere falsa. La scienza si interessa alla verità della proposizione, la<br />
logica al fatto che abbia senso. “Ogni proposizione è essenzialmente vera-‐falsa, pertanto ha<br />
due poli”, questo è denominato senso di una proposizione.
Questo fa si che riusciamo a comprendere una proposizione anche se non sappiamo se sia<br />
vera o falsa (ad esempio: fuori nevica). Della proposizione possiamo soltanto non sapere se è<br />
vera o falsa. Questo è il contrassegno peculiare delle proposizioni non-‐logiche, ovvero le<br />
proposizioni sensate. La proposizione può essere vera o falsa solo in quanto immagine della<br />
realtà. Cos’è un immagine? Che tipo di immagine è la proposizione?<br />
Il Tractatus inizia con il mondo, non con il linguaggio: “il mondo è tutto ciò che accade” e solo<br />
nelle proposizioni 2.1 (Noi ci facciamo immagini dei fatti) e 3.1 si intravede il concetto di<br />
immagine. Per Wittgenstein dare l’essenza della proposizione e l’essenza del mondo sono i<br />
due lati dello stesso compito. “dare l’essenza della proposizione è dare l’essenza di ogni<br />
descrizione, dunque l’essenza del mondo”.<br />
Il mondo e’ tutto ciò che accade significa che non è la totalità delle cose ma dei fatti, come il<br />
linguaggio non è la totalità dei nomi ma delle proposizioni. La distinzione tra fatto e cosa è di<br />
gran rilievo per Wittgenstein, ed è anche una delle distinzioni che la grammatica superficiale<br />
del nostro linguaggio di induce a trascurare. Per esempio, “noi parliamo di qualcosa, ma<br />
diciamo anche che qualcosa avviene”. Questo può spingerci a confondere un nome, una parola<br />
o il significato di una parola (rosso) con la proposizione nella quale la parola occorre (Questo<br />
è rosso).<br />
Il mondo è la totalità dei fatti, non una lista di cose. Ciò che è il mondo è dato da una<br />
descrizione, non da una lista di oggetti. Quello che accade è un frammento di ciò che è<br />
possibile che accada. Alla logica interessa solo ciò che è possibile che accasa, includendo tutte<br />
le possibilità. La macchia può non essere rossa ma deve pur avere un colore... il fatto che la<br />
macchia non sia rossa e’ accidentale, casuale. Ma che la macchia abbia un colore non è<br />
accidentale, ciò che è logico non può essere solo possibile ma DEVE essere possibile. Nella<br />
logica non vi sono sorprese, scopriamo nuovi fatti, non nuove possibilità. (un oggetto può<br />
essere morbido o duro, deve per forza avere una consistenza. Possiamo scoprire nuovi fatti<br />
(oggetto morbido) ma non nuove possibilità (oggetti senza consistenza).<br />
L’insistenza sul carattere radicalmente accidentale (casuale) di tutto ciò che accade è uno<br />
degli aspetti più caratteristici del Tractatus. La scienza ha a che fare con ciò che e’ accidentale,<br />
ossia con quello che, pur essendo così, avrebbe potuto essere altrimenti. Non c’è un nesso<br />
logico per cui se accade una cosa debba per forza seguire qualcos’altro. Noi facciamo<br />
previsioni legata alle nostre esperienze passate (se vediamo nubi, aspettiamo la pioggia) ma<br />
non sappiamo se questo realmente accadrà. Il timore e la speranza sono due tra le maggiori<br />
nemiche dell’uomo (Faust, Goethe) per cui tentiamo di guidare gli eventi del mondo per far si<br />
che accada ciò che desideriamo e non quello che temiamo. Ma questo non serve a scalfire<br />
l’accidentalità di tutto ciò che accade.<br />
Molte delle considerazioni del Tractatus, soprattutto le ultime, furono stese durante la guerra,<br />
e Wittgenstein si chiedeva quali fossero i segni di una vita buona e giusta. Una risposta egli<br />
crede di trovare in Dostoevskij: la vita buona e giusta è la vita felice, che vive chi è in armonia<br />
con il mondo, che non ha bisogno di un fine fuori della vita. Ma Wittgenstein si chiede: come<br />
può l’uomo vivere felice se non può tener lontana la miseria di questo mondo, se tutto ciò a cui<br />
si affida e confida può essergli sottratto? A questi interrogativi Wittgenstein risponde che<br />
felice (e dunque buona e giusta) è la vita che può rinunciare ai piaceri del mondo, perché<br />
questi non sono che grazie del fato. Felice è la vita nonostante le miserie del mondo.<br />
Attenzione, non è felice la vita che rinuncia ai piaceri del mondo ma quella che può<br />
rinunciarvi.<br />
Nella logica nulla è accidentale (2.012). Secondo la proposizione 2, un fatto è il sussistere di<br />
uno o più stati di cose. O stato di cose è un nesso di oggetti, interconnessi tra loro come le<br />
maglie di una catena. Ma non tutto si combina con tutto, ogni oggetto ha delle possibili<br />
combinazioni. Gli oggetti sono quindi indipendenti non in modo assoluto. Una macchia può<br />
essere di qualsiasi colore, ma DEVE avere un colore. Può essere indipendente dal fatto di<br />
essere rossa, gialla o rosa, ma non indipendente dal dover posseder un colore.
Questione difficile e controversa nel Tractatus: gli oggetti sono semplici, non composti e<br />
formano la sostanza e la forma fissa del mondo. Se il mondo non avesse usa sostanza, se non vi<br />
fossero oggetti semplici, le nostre proposizioni non avrebbero senso e quindi non vi<br />
sarebbero proposizioni. Quindi gli oggetti semplici devono esserci, affinché ci siano e poiché ci<br />
sono proposizioni.<br />
Per il Tractatus il significato di un nome è l’oggetto per cui quel nome sta. Nella proposizione<br />
il nome fa le veci dell’oggetto. Wittgenstein rifiuta in maniera netta la concezione di è secondo<br />
cui una proposizione come “Ulisse sbarcò a Itaca”, ossia una proposizione in cui compare un<br />
nome (Ulisse) che non designa qualcosa di realmente esistente non sarebbe n vera ne falsa,<br />
pur avendo senso. Per Wittgenstein le proposizioni né vere né false non hanno senso. Quindi o<br />
dovrebbe ammettere che molte delle nostre proposizioni non lo sono ma ne hanno solo<br />
l’apparenza ( ma non è disposto a farlo) o deve dimostrare che le proposizioni che Frege<br />
considera né vere né false sono, come tutte le proposizioni vere-‐false.<br />
“A Farsalo Cesare sconfisse Pompeo”. Non ci interessa che sia vero o falso, la proposizione ha<br />
senso. Ma se Cesare non esistesse allora la proposizione non avrebbe senso, perché il nome<br />
Cesare sarebbe privato del suo significato. Una proposizione non può dipendere dalla<br />
veridicità di molte altre (cesare è esistito, Pompeo è esistito, ecc. ecc.), non potremmo<br />
progettare un’immagine del mondo (vera o falsa) e saremmo costretti a trattare la logica<br />
come qualche sorta di scienza, afflitta dai particolari di ciò che effettivamente accade.<br />
Quindi affinché le proposizioni abbiano un senso e poiché le proposizioni hanno un senso,<br />
occorre ammettere che i nomi che in essa compaiono si riferiscono a oggetti semplici, i quali<br />
sono ciò che possiamo designare senza essere costretti a temere che forse non esistano. “a<br />
Farsalo Cesare sconfisse Pompeo” non è che una congiunzione di proposizioni elementari,<br />
ciascuna consta di nomi (segni semplici non ulteriormente scomponibili) che stanno per<br />
oggetti semplici. Il Tractatus non ci spiega cosa sono e quali sono gli oggetti semplici. Nelle<br />
opere successive, Quaderni e Ricerche Filosofiche Wittgenstein scegli di considerare la<br />
questione degli oggetti semplici come una questione esclusivamente logica.<br />
La proposizione è un’immagine della realtà. Per avere un senso la proposizione è<br />
essenzialmente vera-‐falsa: può concordare o discordare con la realtà solo essendo<br />
un’immagine di uno stato di cose.<br />
Un’immagine è una connessione di elementi, che si trovano in una determinata relazione<br />
l’uno con l’altro. E’ un fatto, che deve avere in comune con la realtà, correttamente o<br />
falsamente, la forma logica. L’immagine, di qualunque tipo sia, deve quindi avere in comune<br />
qualcosa con quello che raffigura. E’ escluso che un’immagine possa essere vera a priori, in<br />
quanto rappresenta l’oggetto dal di fuori e proprio per questo può rappresentarlo<br />
correttamente o falsamente. Per sapere se un’immagine è vera va confrontata con la realtà.<br />
L’immagine non può raffigurare la propria forma di raffigurazione, perché dovrebbe, per<br />
assurdo, guardarsi dal di fuori.<br />
L’immagine logica dei fatti è il pensiero. Proposizione 3.001: Il pensiero contiene la possibilità<br />
della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile.<br />
La proposizione elementare è la più semplice. Durante l’analisi delle proposizioni bisogna<br />
pervenire alle proposizioni elementari ci cui si compongono. Sappiamo a priori che le<br />
proposizioni elementari ci sono, non possiamo sapere quali sono. Come si riconosce una<br />
proposizione elementare? Nessuna altra proposizione elementare può essere in contrasto con<br />
essa. Se analizzando proposizioni che si contraddicono le possiamo scomporre ulteriormente<br />
in altre proposizioni arriveremo al fatto che solo le proposizioni complesse possono<br />
contraddirsi. L’interdipendenza logica delle proposizioni elementari fu una delle prime tesi<br />
del Tractatus che Wittgenstein mise in discussione nelle opere successive.<br />
Esempio di proposizione complessa: “Paolo è infreddolito e Giorgio è impaurito”. Le due<br />
proposizioni semplici sono unite da “e”, denominato connettivo logico o costante logica.<br />
Quando si ha a che fare con proposizioni complesse la grammatica superficiale può camuffare<br />
la forma reale del linguaggio, ad esempio “Alberto legge il giornale in treno” è la congiunzione
di 2 proposizioni “Alberto è in treno e Alberto legge il giornale”. Naturalmente non tutte le<br />
proposizioni complesse sono così banali, nel Tractatus Wittgenstein ne affronta di ben più<br />
complicate, come “ A crede che P”...<br />
Per quanto grande o piccolo sia il grado di ingegnosità richiesto per scorgere la forma reale<br />
celata dalle vesti del linguaggio, resta assodato che per Wittgenstein la proposizione è una<br />
funzione di verità delle proposizioni elementari. La proposizione complessa dell’esempio è<br />
formata da due elementari e possiamo avere differenti casi: una vera e l’altra falsa, entrambe<br />
vere, entrambe false, una falsa e l’altra vera. La possibilità di verità e di falsità (il senso) di una<br />
proposizione complessa dipende dalle possibilità di verità (dal senso) delle proposizioni<br />
elementari che la compongono. Le costanti logiche ci mostrano in quale modo le possibilità di<br />
verità delle proposizioni elementari condizionano le possibilità di verità delle proposizioni<br />
complesse. Quindi nel caso di “Paolo è infreddolito e Giorgio è impaurito” solo se entrambe le<br />
prop. semplici sono vere la prop.complessa è vera, in tutti gli altri casi è falsa. Nel caso di “il<br />
cane si è smarrito o è scappato di casa” basta che una delle due sia vera, perché il connettivo<br />
logico è “o”, quindi è vera se sono le prop.semplici sono entrambe vere o una sola lo è, diviene<br />
falsa solo se entrambe le prop.semplici sono false.<br />
Pensiero fondamentale del Tractatus è che le costanti logiche non sono oggetti logici e sono<br />
prive di contenuto.<br />
Wittgenstein dichiara esplicitamente di distinguersi da Frege e Russell su questo punto: non ci<br />
sono nella realtà oggetti logici nominati dalle costanti logiche (concetto da rivedere: le<br />
costanti logiche non influenzano il senso della prop.?? )<br />
Nel Tractatus, Wittgenstein suggerisce di adottare una notazione differente dalle solite<br />
costanti logiche (“e”; “o”; “se...allora”; “se e solo se” ecc.) che non rischierebbe di generare<br />
confusioni filosofiche. Invece di scrivere “p o q” possiamo scrivere (VVVF)(p, q) (pagina 54 del<br />
libro per capire di cosa parlo...).<br />
In questo caso vediamo subito con cosa abbiamo a che fare, la proposizione sarà FALSA solo<br />
se entrambe le prop.semplici che la costituiscono sono false e VERA negli altri 3 casi.<br />
Ad ogni connettivo logico corrisponde una sequenza, ad esempio a “se e solo se” corrisponde<br />
VFFV, a “se...allora” corrisponde VVFV. Per n proposizioni elementari ci sono (2 alla seconda<br />
elevato alla n) condizioni di verità. Sono sempre presenti due casi estremi: VERA per tutte le<br />
possibilità o FALSA per tutte.<br />
Nel caso sia sempre vera abbiamo una TAUTOLOGIA, nel caso sia sempre falsa una<br />
CONTRADDIZIONE.<br />
Le nozioni di tautologia e contraddizione sono in primo piano nel Tractatus, infatti<br />
Wittgenstein sosteneva che le proposizioni della logica sono tautologie o contraddizioni.<br />
Entrambe non sono immagini della realtà in quanto la tautologia ammette tutte le possibili<br />
condizioni e contraddizione non ne ammette nessuna. “Piove o non piove” è sempre vera, sia<br />
che piova che non stia piovendo. “Piove e non piove” è sempre falsa. A questo punto tautologia<br />
e contraddizione sono prive di senso, perché puntano in direzioni opposte.<br />
Tautologia e contraddizione non dicono nulla. Per il Tractatus non vi sono proposizioni vere a<br />
priori, ma vanno sempre confrontate con la realtà. Nel caso delle proposizioni logiche basta<br />
guardare il simbolo per capire se è vera o falsa: “se piove allora piove” è sempre vera, perché<br />
non dice nulla su come le cose stanno. Le proposizioni della logica sono prive di senso ma non<br />
insensate, anche perché tautologia e contraddizione sono casi limite, casi estremi.<br />
Wittgenstein conclude affermando che la logica non è una dottrina, le sue proposizioni non<br />
dicono nulla e non vi è nulla per esse da dire. Le proposizioni della logica non dicono nulla ma<br />
mostrano le proprietà formali del linguaggio (del mondo).<br />
La questione cardinale della filosofia era, secondo Wittgenstein, la distinzione tra cosa poteva<br />
essere espresso (detto, ritratto) da una proposizione e cosa non poteva essere espresso ma<br />
solo mostrato.<br />
Quello che non può essere detto ma solo mostrato non può che produrre proposizioni<br />
insensate.
Wittgenstein riconosce la presenza dell’ineffabile, dell’inesprimibile, del “mistico”, ispirandosi<br />
a due autori a lui cari, Agostino e Kierkegaard. Per Wittgenstein il mistico si riferisce a tutta<br />
quella sfera di valori che noi non possiamo affrontare superficialmente nel linguaggio: i valori<br />
religiosi, quelli estetici, il senso della vita. Sono aspetti che noi non dobbiamo e non possiamo<br />
formulare in modo certo perché se noi provassimo a farlo loro perderebbero<br />
quell’universalità che detengono nella misura in cui sono invece consegnati al silenzio. Per<br />
Wittgenstein il mistico c’è, esiste ed è l’inconoscibile.<br />
WITTGENSTEIN DOPO IL TRACTATUS<br />
Nel decennio dal 1918 al 1929 abbandona ogni tipo di lavoro esplicitamente filosofico,<br />
pensando di aver dato alla filosofia tutto quello che poteva dare (con il Tractatus). Scriveva<br />
infatti a Keynes che “la sorgente si è prosciugata”.<br />
Al ritorno dalla guerra aveva cercato un editore per il suo libro, scontrandosi con il<br />
disinteresse del pubblico verso l’opera della sua vita. Il lavoro vero e proprio riprende dopo il<br />
ritorno a Cambridge, dove si dedica anche all’insegnamento. Tuttavia il lavoro di quel periodo<br />
non è raccolto in opere complete, per cui il Tractatus resta l’unica opera edita della sua vita. Il<br />
metodo di lavoro di Wittgenstein era alquanto particolare: egli scriveva di getto tutti i suoi<br />
pensieri, poi ne trascriveva alcuni su grossi quaderni (chiamati volumi). Di questi una parte<br />
selezionata veniva dettata ad un dattilografo, poi ritagliava e riordinava nuovamente gli<br />
appunti secondo criteri di affinità a volte poco riconoscibili, e dettava il risultato nuovamente<br />
ad un dattilografo. Tutti gli appunti “scartati”, non riordinati sono stati pubblicati<br />
successivamente alla sua morte con il titolo di Zettel (ritagli o foglietti).<br />
Nessuno dei lavori dattiloscritti fu giudicato da Wittgenstein degno di essere pubblicato.<br />
Nel periodo a Cambridge Wittgenstein si interroga spesso sulla filosofia e sul tipo di libro da<br />
scrivere. Tentò di scrivere un libro nel quale i pensieri procedessero “da un soggetto all’altro<br />
secondo una successione naturale e continua” ma dopo diversi infelici tentativi abbandonò<br />
l’idea, in quanto non riusciva a costringere i suoi pensieri in una direzione, ma necessitava di<br />
spaziare in lungo e largo. Le Ricerche filosofiche si presentano quindi come un insieme di<br />
“osservazioni, di brevi paragrafi” alcuni dei quali “sono disposti in lunghe catene e trattano il<br />
medesimo soggetto, altri cambiano bruscamente argomento, saltando da una regione<br />
all’altra”.<br />
All’inizio della Prefazione alle Ricerche filosofiche, Wittgenstein ci ricorda gli oggetti<br />
principali delle sue ricerche filosofiche negli anni precedenti: “il concetto di significato, di<br />
comprendere, di proposizione, di logica, i fondamenti della matematica, gli stati di coscienza e<br />
altre cose ancora”. Argomenti molto simili a quelli del tempo del Tractatus, in effetti egli era<br />
convinto che “i nuovi pensieri sarebbero stati messi in giusta luce soltanto dalla<br />
contrapposizione con vecchio modo di pensare, e sullo sfondo di esso” e che avrebbe voluto<br />
pubblicare “quei vecchi pensieri insieme con i nuovi”.<br />
Nella Prefazione Wittgenstein ci parla di gravi errori commessi nel suo primo libro e ringrazia<br />
Ramsey e Sraffa per averlo aiutato a riconoscerli e correggerli. Tra gli errori in cui era caduto<br />
ai tempi del Tractatus vi sono: il dogmatismo; la concezione secondo cui (in filosofia) vi<br />
sarebbero (come vi sono nella scienza) domande alle quali si troverà risposta in seguito.<br />
Il dogmatismo si riconnette al desiderio di generalità o di semplicità, il quale si manifesta<br />
nell’atteggiamento di disprezzo per il caso particolare e nella convinzione che il sublime,<br />
l’essenziale della ricerca filosofica consista in questo: una essenza che tutto abbraccia. (egli<br />
era convinto di poter dare , mediante l’indicazione della forma generale della proposizione,<br />
l’essenza del linguaggio).<br />
La seconda tendenza era di credere che quell’essenza fosse qualcosa di incomparabile e unico,<br />
di cristallo purissimo. Effettivamente un po’ arrogante...<br />
L’altro errore in cui a detta di Wittgenstein era caduto il Tractatus consiste nel ritenere che<br />
come nella scienza, nella filosofia si possano fare scoperte, mentre “nella filosofia non si può
scoprire nulla”, in filosofia “non abbiamo bisogno di aspettare il futuro”. Tutte le risposte sono<br />
davanti ai nostri occhi, bisogna solo scavare e riconoscerle quando le vediamo. Il lavoro<br />
filosofico non è un lavoro sulle cose ma un lavoro su se stessi.<br />
Le proposizioni elementari sono oggetto di revisione nel Wittgenstein dopo Tractatus. Nella<br />
sua prima opera egli non dà esempi di proposizioni elementari, afferma che ci sono (in quanto<br />
ci devono essere) e lascia alla logica il compito di stabilire quali siano le prop. elementari e<br />
quale forma abbiano. Questo e’ un errore, affermerà Wittgenstein in seguito, “noi abbiamo già<br />
tutto e non abbiamo bisogno di aspettare. Ci muoviamo nell’ambito della grammatica del<br />
nostro linguaggio comune e tale grammatica c’è già.” “Le prop. elementari non sono il risultato<br />
di un’analisi non ancora fatta, non ci sono proposizioni elementari nascoste”. Quindi le<br />
prop.elementari non sono nascoste e da ricercare, sono sotto i nostri occhi...<br />
Aspetti ripresi riguardo le proposizioni elementari: ogni proposizione è funzione di verità<br />
delle prop. elem; le prop. elem sono logicamente indipendenti e non possono contraddirsi.<br />
Questo è uno degli aspetti legati all’errore della dogmatica.<br />
Wittgenstein ricava delle conclusioni: a differenza di quanto sostenuto nel Tractatus, tra le<br />
prop.elem. esiste una relazione interna di esclusione (non dipendente dall’esperienza). Non si<br />
deve quindi accostare la singola proposizione alla realtà ma un sistema di proposizioni.<br />
Nella terminologia di quegli anni, il linguaggio fenomenologico o primario è quello che<br />
dovrebbe descrivere o rappresentare ciò che immediatamente dato, senza aggiunte<br />
ipotetiche. Nel 1929 Wittgenstein afferma che questo tipo di linguaggio non è più ritenuto<br />
indispensabile ma non lo getta via del tutto, ribadendo che la filosofia non deve costruire<br />
teorie o ipotesi, deve limitarsi a “metterci tutto davanti, non spigare e non dedurre nulla”.<br />
Alla fine del 1929 Wittgenstein arriva ad una conclusione, in cui si tenne sempre fermo: tutto<br />
ciò che in filosofia si deve fare è comprendere il nostro linguaggio, non uno ideale. Penetrare<br />
l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo, contro una forte tendenza a<br />
fraintenderlo e a dimenticarlo.<br />
Secondo Wittgenstein ciò che rende difficile riconoscere l’operare del linguaggio è la forza con<br />
cui alcune immagini, incorporate nel linguaggio stesso, tendono a sedurci e fuorviarci.<br />
Prendendo come spunto le Confessioni di Agostino nasce la seguente idea: le parole sono<br />
nomi; il significato di ciascun nome è l’oggetto che per il quale esso sta; le proposizioni sono<br />
connessioni di nomi; il dare nomi alle cose e il capire e l’imparare i nomi delle cose stanno<br />
all’origine del linguaggio e del suo apprendimento.<br />
Questa è un’immagine fuorviante, perché molti filosofi dimenticano le moltitudine di parole e<br />
gli usi possibili e quindi si fanno e offrono una versione semplificata, una rappresentazione<br />
primitiva del modo e maniera in cui funziona il linguaggio. Pretendono di rappresentare<br />
l’intera regione del linguaggio mentre ne ritraggono solo pochi tratti fortemente semplificati.<br />
E’ la grammatica superficiale del nostro linguaggio che ci trae in inganno. La definizione<br />
ostensiva può essere interpretata in vari modi, quindi deve essere compresa in quanto può<br />
essere fraintesa.<br />
Ma per chiedere, per dare e per intendere una definizione ostensiva occorre che si capisca<br />
moltissimo di un linguaggio; perché una definizione ostensiva abbia senso molte cose devono<br />
essere già pronte nel linguaggio. tra gli effetti dell'immagine agostiniana del linguaggio vi è<br />
sicuramente la concezione del Tractatus secondo cui i nomi veri e propri sono segni semplici<br />
che stanno per oggetti semplici. questa concezione deriva dall' idea secondo cui la parola non<br />
ha significato se ad essa non corrisponde nulla. Wittgenstein mette in discussione anzitutto<br />
che si possa parlare di oggetti assolutamente semplici. Quali sono le parti costitutive semplici<br />
di una sedia? i pezzi di legno oppure le molecole? Oppure gli atomi? cosa vuol dire semplice?<br />
non composto. E questo è il punto: non composto in che senso? Wittgenstein risponde: non ha<br />
alcun senso parlare di elementi semplici della sedia, semplicemente. Vi sono dei casi in cui un<br />
oggetto viene usato in connessione con un nome: l'oggetto funge da paradigma (mezzo di<br />
rappresentazione). se usiamo i nomi dei colori con i campioni dei colori, il campione è uno
strumento del linguaggio con il quale facciamo asserzioni relative dei colori, un paradigma del<br />
nostro gioco; qualcosa con cui si fanno confronti. IL campione non ha proprietà straordinarie,<br />
ma gliele forniamo noi nel nostro gioco linguistico.<br />
L'idea secondo cui la parola non ha significato se non corrisponde a qualcosa è una delle<br />
grandi fonti di disorientamento filosofico: noi cerchiamo una corrispondenza ad un<br />
sostantivo; un sostantivo ci induce a cercare una cosa che corrisponda ad esso. ma in alcuni<br />
casi (parole come pensare, credere) è un errore cercare qualcosa che ne accompagni il<br />
significato, perché non c'è.<br />
Nel Tractatus Wittgenstein aveva ritenuto di aver assolto il compito prefissato, ovvero<br />
spiegare l'essenza della proposizione. Nelle Ricerche Filosofiche Wittgenstein rigetta la<br />
risposta che il Tractatus aveva dato sull'essenza del linguaggio e mette in discussione la<br />
convinzione secondo cui il sublime, l'essenziale della ricerca consiste in questo: che afferra<br />
un'essenza che tutto abbraccia. Questa convinzione, ovvero cercare di afferrare l'essenza<br />
incomparabile del linguaggio è un'illusione. Wittgenstein parlando del linguaggio si riferisce<br />
ad esso come gioco linguistico. Wittgenstein affermava che il nostro modo di parlare, le nostre<br />
parole, molti concetti hanno confini sfumati e poco delimitati, ma cmq possono svolgere la<br />
loro funzione. alcuni concetti possono essere delimitati con confini rigidi (ad esempio:<br />
numero) ma la mancata delimitazione di un concetto non è segno di ignoranza, non ne<br />
conosciamo i confini semplicemente perché essi non sono tracciati. Spiegare un concetto<br />
dando esempi non è un metodo indiretto di spiegazione, in mancanza di un metodo migliore.<br />
Tra i molti che sono stati condizionati e fuorviati dall'idea che la ricerca dell'essenza sia il<br />
compito essenziale per filosofi e scienziati, Wittgenstein annovera Freud. in una lezione del<br />
1938 Wittgenstein analizza delle pagine de L'interpretazione dei Sogni nelle quali Freud<br />
accomuna i disegni floreali ad oggetti di natura sessuale...<br />
La relazione che Freud stabilisce tramite catena di associazioni portando ad interpretare un<br />
sogno floreale come un sogno "osceno" non convince Wittgenstein, che afferma a questo<br />
punto che Freud ha ingannato la paziente dicendogli che il sogno non era "bello". Ci sono<br />
molteplici spiegazioni per i sogni come per il linguaggio e non sono comuni a tutti. non ci sono<br />
motivi per cui un bambino gioca o per cui parla, a volte lo fa per puro piacere. Wittgenstein<br />
affermava che il suo interesse sta nel mostrare che le cose che sembrano identiche sono in<br />
realtà cose differenti.<br />
Secondo Wittgenstein, alla base di molte dottrine del significato e del linguaggio vi è la<br />
convinzione che un segno è una cosa morta e banale, di accidentale. Perché acquisti vita si<br />
deve accompagnare a qualcosa, non un altro segno comunque, in quanto altrettanto morto e<br />
banale. Cosa di deve aggiungere ad un segno per dargli vita? Qualcosa di immateriale e<br />
differente dai segni, quindi. Questo ci ricorda Frege, per il quale la cosa importante non sono i<br />
segni ma i pensieri che essi esprimono, qualcosa di atemporale, eterno, immutabile. Il<br />
mentalismo distingue nel funzionamento del linguaggio due parti: una inorganica (il segno) e<br />
una organica (il capire il segno e collocarlo nella mente). Sia a Frege che al mentalismo<br />
Wittgenstein oppone la stessa osservazione: "qualunque cosa accompagni un segno non<br />
sarebbe per noi che un segno ulteriore, un altro segno". perché mai, si domanda Wittgenstein<br />
"un segno più qualcos'altro (entità immateriale) dovrebbe essere vivo se, da solo, era morto?"<br />
Per Wittgenstein ciò che da vita ad un segno è il suo uso, il suo significato.<br />
Spesso nella filosofia l'uso delle parole viene confrontato con giochi, calcoli condotti secondo<br />
regole fisse. Wittgenstein : quel che si fa con le parole del linguaggio, in quanto vengono<br />
comprese, è la stessa cosa che si fa con il segno di calcole: operare con essi. Questo modo di<br />
guardare al linguaggio e all'uso linguistico elaborato da Wittgenstein in opposizione a Frege e<br />
in riferimento alla dura polemica che egli aveva condotto nei confronti del formalismo<br />
matematico. Frege è nel giusto quando obietta ai formalisti che la matematica non ha a che<br />
fare con i segni d'inchiostro sulla carta. Ma non vede che vi è un aspetto del formalismo<br />
legittimo, vale a dire che i simboli della matematica non hanno alcun significato, e che è<br />
possibile negare che essi rappresentino qualcosa senza ridurli a meri segni d'inchiostro. Per
Frege l'alternativa era: o i simboli sono solo tracce d'inchiostro o significano qualcosa e quello<br />
che rappresentano è il loro significato. Portando come esempio il gioco degli scacchi ribadisce<br />
che non è la forma delle pedine ad essere importante ma l'insieme delle regole che stabilisce<br />
cosa può fare o non può fare una pedina. L'essenziale sono le regole.<br />
Wittgenstein trae le sue conclusioni da questa similitudine: 1) il paragone tra matematica e<br />
scacchi vale per ogni linguaggio: non c'è bisogno che le parole abbiano un significato (come lo<br />
intendeva Frege), ma il significato va cercato nella funzione che essa svolge nel calcolo, ossia<br />
dall'insieme delle regole grammaticali che stabiliscono quale è il posto che la parola occupa<br />
nel sistema grammaticale. 2) la comprensione del significato non è un processo psicologico<br />
particolare. Comprendo una proposizione in quanto l'adopero. l'atto del comprendere è<br />
l'operare con la proposizione. 3) le regole grammaticali non sono ricavate dalla realtà e non<br />
devono rispondere ad essa. il linguaggio è autonomo e le sue regole sono arbitrarie.<br />
L'eventuale contraddizione sussiste tra una regola e un'latra, non tra una regola e la realtà. A<br />
Wittgenstein apparirà sempre più chiaro che "in generale noi non usiamo il linguaggio<br />
secondo regole rigorose, né, d'altronde, esso ci è stato insegnato secondo regole rigorose. Non<br />
pensiamo alle regole d'uso mentre usiamo il linguaggio e non sappiamo indicarle se ci<br />
vengono chieste", questo perché spesso non ci sono. La regola è comunque un ausilio<br />
nell'insegnamento del gioco ma si impara guardando giocare gli altri. Il gioco linguistico non<br />
ha regole fisse e i suoi confini sono sfumati, senza che perda di validità o interesse. Il paragone<br />
dell'uso delle parole con il calcolo rischia di essere fuorviante,<br />
a) facendoci credere che il nostro linguaggio si avvicini solo al linguaggio ideale, che in realtà è<br />
migliore e più completo del nostro;<br />
b) coltivare l'immagine mitica della regola che predeterminerebbe e anticiperebbe le sue<br />
applicazioni, per cui seguire una regola sarebbe come scivolare su un binario che si prolunga<br />
all'infinito.<br />
Con gioco linguistico Wittgenstein indica:<br />
a) i giochi con i quali i bambini apprendono la loro lingua materna;<br />
b) linguaggi semplici e più primitivi del complesso linguaggio quotidiano (come ad esempio il<br />
linguaggio tra muratore e aiutante: mattone!, cemento!: un modo più' semplice di usare il<br />
linguaggio). ma perché al filosofo dovrebbero interessare i linguaggi primitivi o infantili?<br />
Frege si domanda: a che serve studiare il nascere delle menti infantili o i remoti gradi dello<br />
sviluppo umano? tanto vale dare un significato per il concetto di numero anche alle torte che<br />
si usano nell'insegnare l'aritmetica ai bambini! Wittgenstein ritiene che lo studio di tali forme<br />
di linguaggio sia un modo per fare chiarezza sul funzionamento del linguaggio. per<br />
Wittgenstein linguaggio primitivo non significa linguaggio incompleto. cosa vuol dire<br />
linguaggio completo? Il nostro complesso linguaggio è forse completo?<br />
L'espressione gioco linguistico è usata anche per indicare:<br />
c) ciascuno dei differenti e innumerevoli tipi e modi di impiego dei segni, parole e<br />
proposizioni.<br />
Ciò che Wittgenstein sottolinea utilizzando l'espressione gioco è:<br />
a) che il linguaggio non è un'unita formale ma una famiglia di costrutti, di giochi linguistici, più<br />
o meno imparentati tra loro, che mutano nel tempo (ne nascono nuovi e i vecchi vengono<br />
dimenticati) paragonabili ad una città (stradine, viuzze e case vecchie a cui si aggiungono<br />
nuovi quartieri e strade);<br />
b) parlare un linguaggio fa parte di un'attività, di una forma di vita. L'espressione gioco<br />
linguistico indica anche l'insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto.<br />
Cosa significa seguire correttamente una regola? due sono i tipi di risposte date dai filosofi a<br />
tale interrogativo:<br />
a) le conseguenze di una regola esistono già in essa, la regola traccia la linea delle propria<br />
osservazione attraverso lo spazio. Queste vengono etichettate da Wittgenstein come<br />
superstizioni filosofiche, non fanno che riproporre la domanda: come sappiamo che il
punto in cui fisicamente siamo pervenuto sia proprio il punto a cui la regola è da<br />
sempre idealmente giunta?<br />
b) A questo punto nasce una nuova risposta. Visto che la regola non anticipa né<br />
predetermina le sue applicazioni, tra essa e le sue applicazioni allora interviene<br />
qualcosa o qualcuno (atto di intuizione). Supponendo di avere una certa regola<br />
generale, è necessario riconoscere ogni volta se tale regola può essere applicata al caso<br />
che si presenta. Wittgenstein era tentato da una risposta di questo tipo ma abbandonò<br />
quasi subito questa via. Se la regola deve sempre essere interpretata, qualunque cosa si<br />
faccia, può sempre essere resa compatibile con la regola mediante una qualche<br />
interpretazione. Ogni interpretazione è sospesa in aria con l’interpretato, quindi non<br />
sarà sostegno per questo. E come Wittgenstein afferma: “non solo l’interpretazione<br />
non fornisce sostegno all’interpretato, ma finisce anche con il dissolvere la regola.<br />
Infatti dove non esistono concordanza e contraddizione, non esiste più nemmeno la<br />
regola”.<br />
Una volta ammesso che la regola necessita di interpretazione non si può sfuggire al<br />
paradosso: se la regola non è in grado di determinare le proprie applicazioni, perché regola<br />
più interpretazione dovrebbe farlo? E l’interpretazione a sua volta non richiede di essere<br />
interpretata? Sarebbe necessaria una interpretazione ultima, non interpretabile<br />
ulteriormente, ma Wittgenstein ribatte che questa interpretazione ultima è Altrettando<br />
mitologica come la regola che contiene in se, in modo singolarissimo, le sue applicazioni.<br />
Wittgenstein propone a questo punto di cambiare il nostro atteggiamento: guardiamo<br />
attentamente ai modi in cui seguiamo le regole o le contravveniamo, cerchiamo le analogie tra<br />
il seguire una regola e altre pratiche. Capiremo che seguire la regola è una prassi. Le parole<br />
“regola” e “seguire una regola” si riferiscono a una tecnica, un’abitudine; seguire una regola,<br />
fare una comunicazione , dare un ordine, sono abitudini (usi, istituzioni).<br />
Un gruppo di paragrafi delle Ricerche filosofiche ha attirato l’attenzione degli interpreti e<br />
prodotto un numero impressionate di saggi e discussioni. Wittgenstein si chiede se sia<br />
pensabile un linguaggio le cui parole dovrebbero riferirsi solo a ciò di cui chi parla ha<br />
conoscenza, alle sue sensazioni immediate, private; un linguaggio che un altro non potrebbe<br />
comprendere. La sua risposta è che questo linguaggio privato altro non è che una finzione<br />
grammaticale, che nasce da un ceto modo di fraintendere l’operare del nostro linguaggio. Lo<br />
scopo di questi paragrafi è di resistere alla tentazione di costruire la grammatica<br />
dell’espressione di una sensazione secondo il modello “dell’oggetto e designazione”.<br />
Una delle grandi fonti di disorientamento filosofico è l’idea che “la parola non ha significato se<br />
ad essa non corrisponde qualcosa”. Questa idea ci spinge a cercare sempre qualcosa che<br />
corrisponda alla parola e considerare il “denominare” come fondamento del linguaggio.<br />
Wittgenstein si batte contro la denominazione ostensiva, ovvero il dare nome alle cose,<br />
descrivendole. Quando si dice “ha dato un nome ad una sensazione” si dimentica che molte<br />
cose devono essere pronte nel linguaggio, perché il puro denominare abbia senso. E quando<br />
diciamo che una persona da un nome ad un dolo, la grammatica della parola “dolore” è già<br />
precostituita; ci indica il posto in cui si colloca la nuova parola. Le sensazioni si imparano<br />
pubblicamente: “quando un bambino si fa male, gli adulti parlano e gli insegnano le<br />
esclamazioni e proposizioni; insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore”.<br />
Questo non è a favore del comportamentismo (che afferma che solo il comportamento è<br />
reale), altrimenti come si spiegherebbe il comportamento da dolore in assenza di dolore?<br />
All’idea del linguaggio privato è connessa la convinzione secondo cui io non solo non posso<br />
mai sapere veramente cosa l’altro sente e prova (né se sente e prova veramente qualcosa), ma<br />
non posso far sapere all’altro cosa io stia sentendo e provando veramente. Ognuno vede<br />
dell’altro solo dei segni, i sentimenti e le sensazioni sono privati e nessuno può conoscerli a<br />
meno che io stesso non li esibisca. Wittgenstein mette in discussione l’idea che io non possa<br />
mai conoscere con certezza i sentimenti e le sensazioni altrui perché non potranno mai essere
miei: in un certo senso noi vediamo quello che gli altri sentono e provano, dall’espressioni o<br />
micro espressioni del volto: “i moti dell’animo si vedono”.<br />
Esiste una distinzione tra le proposizioni grammaticali e le proposizioni empiriche. Le prime<br />
delimitano le regione del linguaggio, tracciano un confine tra senso e nonsenso, un confine che<br />
a differenza dei tempi del Tractatus non è più netto e definito ma labile e mutevole. Le<br />
proposizioni grammaticali descrivono ciò che per noi è fondamentale, il suolo sul quale si<br />
fondano e crescono i nostri giudizi, ma non sono incondizionatamente vere. Sono paragonate<br />
da Wittgenstein come l’alveo di un fiume, che comunque può spostarsi e mutare ma è diverso<br />
dallo scorrere dell’acqua del fiume stesso. Una distinzione netta non c’è. Nessuna<br />
proposizione è in quanto tale grammaticale o empirica, come niente è in quanto tale provvisto<br />
o sprovvisto di senso.<br />
Per Wittgenstein non occorre avere una ragione di seguire una regola così come la seguiamo.<br />
“La catena delle ragioni ha un termine, una fine”. Ma affermare che la catena delle ragioni ha<br />
un fine non equivale ad affermare che non c’è nulla di saldo e fermo in se stessi, che i giochi<br />
linguistici non possono essere fondati e giustificati, che quello che gli uomini fanno e dicono<br />
“riposa su niente”? Wittgenstein risponde che non significa negare che si possano dare ragioni<br />
e produrre giustificazioni, ma rifiuta l’idea che dove non vi sono più ragioni da dare ci si<br />
scontri con l’infondatezza irrimediabile dei nostri giochi linguistici. Al termine delle ragioni<br />
non si trova ne la sicurezza che proviene dall’autogiustificazione ne l’insicurezza che deriva<br />
dalla mancanza di ogni giustificazione. Ciò che si trova è una sorta di “sicurezza tranquilla”<br />
che giace al di la del giustificato e dell’ingiustificato. Ad un certo punto non resta che dire “così<br />
è”, “così agiamo”. Gli uomini si accordano mediante il linguaggio, perché già da sempre<br />
concordano nel linguaggio. E questa concordanza non è né il frutto di una scelta né l’esito di<br />
una qualche deliberazione. Wittgenstein prende le distanze da coloro che pensano che i<br />
nostri giochi linguistici abbiano giustificazioni pragmatiche (contiamo così perché era comodo<br />
e pratico, pensiamo così perché il pensare ha dato buoni risultati). Wittgenstein non nega che<br />
qualche volta si pensa perché la cosa ha dato buoni risultati, ma ciò non significa che ciò che<br />
vale qualche volta debba valere sempre. O ciò che gli uomini fanno e dicono è conforme ad<br />
uno scopo e comprensibile e giustificabile in base ad esso. Sono i giochi che gli uomini giocano<br />
a rivelare che cosa essi considerano utile e vantaggioso, quali scopi perseguano, che cosa sia<br />
per loro importante o inutile.<br />
La pretesa che l’agire degli uomini debba essere spiegato e l’assunto che agiscano sempre per<br />
uno scopo è per Wittgenstein una pretesa che produce un’immagine distorta della vita.<br />
Wittgenstein fa delle considerazioni su uno dei classici della antropologia: il ramo d’oro di<br />
Frazer. Secondo Wittgenstein l’idea di Frazer è che l’uomo, sia esso primitivo o evoluto, agisca<br />
sempre in base a uno scopo (controllo dell’ambiente in cui vive) e cerca di realizzarlo<br />
servendosi dell’insieme di opinioni sul corso della natura di cui al momento dispone (nel caso<br />
dell’uomo primitivo -‐>cultura magico-‐religiosa dovuta all’ignoranza e ragionamento<br />
elementare. La danza della pioggia non può far piovere.). Wittgenstein osserva che ciò che<br />
Frazer non vede e non comprende è che l’agire in base a opinioni e in vista di uno scopo ha un<br />
posto limitato nella vita degli uomini, soprattutto nei costumi religiosi. Perché gli indigeni<br />
africani si rivolgono al re della pioggia poco prima del periodo delle piogge e non in periodo<br />
arido? O perché i riti dell’alba si fanno prima del sorgere del sole e non la notte?<br />
Wittgenstein contesta allo stesso modo la tendenza a guardare l’uomo primitivo come un<br />
essere preso continuamente da stupore e sconcerto di fronte ai fenomeni di un mondo che gli<br />
appariva ignoto e imprevedibile. Lo scopo di Wittgenstein è solo di contrastare l’ottusa<br />
superstizione della nostra epoca. Il fulmine è meno degno di stupore di 2000 anni fa? Il fuoco<br />
è meno impressionante ora che ne conosciamo la spiegazione scientifica? Per il mondo<br />
scientifico oggi guardare al mondo non è come guardare ad un miracolo. Ma perché<br />
dovremmo considerare lo stupore e la meraviglia, e non piuttosto la loro assenza, come<br />
qualcosa di primitivo? “Per stupirsi , l’uomo deve risvegliarsi. La scienza è un modo per<br />
addormentarlo di nuovo.”
COMMENTI PRESI DA INTERNET: Nel Tractatus e le Ricerche possiamo osservare il<br />
tormentato bisogno di chiarezza che Wittgenstein manifesta in tutta la sua filosofia, e, seppur<br />
con percorsi metodologicamente diversi, è simile anche la conclusione dell’umana<br />
impossibilità di trovare la forma logica del linguaggio naturale.<br />
Nelle Ricerche, Wittgenstein abbandona il punto di vista dell' "atomismo logico": le<br />
proposizioni dotate di senso non vengono più intese come funzioni di verità di proposizioni<br />
elementari; queste ultime non sono più analizzate in quanto nessi di nomi che "stanno per"<br />
oggetti semplici. Il senso di una proposizione non consiste solo nella sua possibilità di<br />
raffigurare uno stato di cose, ma nelle circostanze caratteristiche del suo uso. Il linguaggio,<br />
così come è effettivamente usato, non è la raccolta delle proposizioni elementari logicamente<br />
ordinate, bensì un insieme di espressioni che svolgono funzioni diverse (quella descrittiva, ma<br />
per esempio anche quella valutativa) nell'ambito di pratiche e regole discorsive differenti.<br />
Dunque, il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio: comprendere una parola vuol<br />
dire sapere come essa è usata all'interno di determinate situazioni linguistiche. Il linguaggio<br />
non ha più soltanto una funzione denotativa. Le regole che lo istituiscono nascono invece in<br />
relazione a un insieme di circostanze e di bisogni che Wittgenstein chiama forme di vita. Non<br />
c'è un'essenza del linguaggio né, quindi, può esserci una sua teoria sistematica. Con il termine<br />
"linguaggio", piuttosto, designiamo una varietà di pratiche che, pur assomigliandosi, non<br />
hanno una natura comune. Il linguaggio dunque è plurale. Poiché tutte le nostre pratiche<br />
intellettuali sono intrecciate con l'uso del linguaggio, esse sono assimilabili a giochi linguistici.<br />
L'idea di Wittgenstein è quella di un'irriducibile pluralità di criteri, di regole, di finalità che<br />
agiscono nel linguaggio: di qui la negazione dell'idea di una ragione unica e comune. Non c'è<br />
un concetto universale e univoco di gioco linguistico, ma una rete di somiglianze di famiglia<br />
che collega un gioco all'altro. Il metodo corretto dell'analisi linguistica deve, per questo,<br />
procedere analizzando i diversi contesti significativi in cui le parole trovano posto, seguendo i<br />
concetti nelle sue ramificazioni grammaticali, nelle sue ambiguità, nelle parentele tra i<br />
differenti usi. Il concetto di «gioco linguistico» è connesso con quello di «regola». Secondo<br />
Wittgenstein non si può seguire una regola da soli: essa deve essere controllata e il controllo<br />
deve essere pubblico. L'applicazione corretta di una regola dipende dunque dai<br />
comportamenti e dal consenso di una comunità linguistica. Dalla concezione del Tractatus per<br />
cui il linguaggio è il mio linguaggio (ossia una rappresentazione del mondo), Wittgenstein<br />
perviene così all'idea per cui esso è quindi il nostro linguaggio, ossia è uno strumento della<br />
vita di una comunità. Se il linguaggio è, come ritiene Wittgenstein, l'insieme di tutti i possibili<br />
giochi linguistici, il significato di una parola è definito dalla sua grammatica, ossia dalle regole<br />
che, all'interno del gioco, ne determinano l'uso. Una parola o una proposizione si caricano di<br />
significati diversi in relazione ai diversi giochi, ai diversi contesti linguistici in cui vengono di<br />
volta in volta adoperate. Essendo i significati differenti da gioco a gioco, non si può più parlare<br />
del linguaggio come di ciò che è definito dalle proposizioni elementari e dalle loro funzioni di<br />
verità (come faceva il Tractatus). Si dirà invece che un linguaggio è istituito da determinate<br />
regole: regole diverse istituiscono linguaggi diversi, conferendo senso, in un gioco, a<br />
espressioni che, in un gioco diverso, non ne hanno o ne hanno uno differente. Il linguaggio non<br />
serve solo a raffigurare il mondo come totalità di fatti, ma anche a domandare, pregare,<br />
comandare, recitare ecc. All'interno di questa gamma infinita di possibilità, che danno luogo<br />
ad altrettanti giochi linguistici, l'«ostensione», ossia la descrizione degli «stati di cose», non è<br />
tutto il linguaggio, ma solo una delle possibilità, cioè uno degli infiniti giochi possibili. La<br />
teoria raffigurativa del linguaggio — propria del Tractatus e ripresa, attraverso il principio di<br />
verificazione, dall' empirismo logico — sosteneva che le parole compiono un solo ufficio:<br />
denominare le cose. Al contrario, ora per Wittgenstein il linguaggio svolge le funzioni più<br />
varie, non riducibili alla pura «denominazione di oggetti». I tipi di proposizione e i differenti<br />
tipi d'impiego delle parole sono innumerevoli. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso:<br />
nuovi giochi linguistici si affermano, altri invecchiano e vengono dimenticati. Il parlare un
linguaggio fa dunque parte di un'attività. Il concetto di gioco linguistico rimanda direttamente<br />
a quello — caratteristico del cosiddetto "secondo Wittgenstein" — di forma di vita: poiché il<br />
"gioco" si fonda su regole semantiche e sintattiche che sono stabilite e condivise da una<br />
comunità umana, esso fa parte di una forma di vita, ossia è collegato a una determinata<br />
situazione pragmatica, vive e si trasforma in un contesto di istituzioni e di comportamenti<br />
umani.<br />
Con la teoria dei giochi linguistici, Wittgenstein apre la via a quell'importante tendenza<br />
conosciuta come filosofia analitica, e si pone, a fianco di Martin Heidegger, come uno dei<br />
protagonisti della cosiddetta "svolta linguistica" che caratterizza una buona parte della<br />
filosofia del Novecento.<br />
Sarebbe errato contrapporre in modo assoluto il Tractatus e le Ricerche. Nonostante le<br />
profonde differenze che corrono tra i due testi, Wittgenstein non muta il suo fondamentale<br />
interesse linguistico né, nella sostanza, la sua concezione della filosofia: essa continua a essere<br />
intesa non come una dottrina o una scienza, ma come attività di chiarificazione del linguaggio,<br />
volta a prevenire i fraintendimenti che nascono nell'ambito dei suoi usi. Con un'importante<br />
differenza, tuttavia: ora l'opera di chiarificazione non ha più lo scopo di portare alla luce la<br />
struttura formale delle proposizioni e di fabbricare, su questa base, un linguaggio ideale, ma<br />
tende a mostrare il modo in cui parole ed enunciati trovano applicazione entro le regole<br />
stabilite dai giochi linguistici. La filosofia non descrive il linguaggio, bensì i suoi usi concreti.<br />
Non si tratta, quindi, di spiegare le cose, di coglierne l'essenza.<br />
Ciò che può fare il filosofo è descrivere il disordine dei giochi linguistici, liberandoli, così, dai<br />
fraintendimenti. La filosofia è una guida al funzionamento dei linguaggi. Essa viene<br />
paragonata a una tecnica medica, a una terapia delle malattie del linguaggio («Il filosofo tratta<br />
una questione come una malattia»). Permane la clausola antimetafisica: i problemi della<br />
metafisica nascono «quando il linguaggio fa vacanza» e si risolvono dissolvendoli: «Noi —<br />
scrive Wittgenstein — riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro<br />
impiego quotidiano». E ciò in quanto il linguaggio «fa parte della nostra storia naturale, come<br />
il camminare, il mangiare, il bere, il giocare».<br />
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